2013-03.04 I-01 PERFETTI COMPENSO AVVOCATO

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2013-03.04 I-01 PERFETTI COMPENSO AVVOCATO
Parte Prima
Dottrina
Ubaldo Perfetti
IL COMPENSO DELL’AVVOCATO*
Sommario: 1. Premessa. - 2. Il sistema delle tariffe minime e fisse prima
della Legge n. 248/2006. - 2.a. L’aspetto normativo. - 2.b. (segue): l’aspetto
deontologico. - 2.c. (segue): l’ulteriore limite dell’art. 2233, comma 3. - 2.d.
(segue): l’art. 2233, comma 3 e l’aspetto deontologico. - 3. I capisaldi del sistema introdotto dalla Legge n. 248/2006 e le conseguenze sul piano civilistico e deontologico. - 3.a. Non obbligatorietà di tariffe fisse o minime e conseguenze civilistiche. - 3.b. (segue): non obbligatorietà di tariffe fisse o minime
e conseguenze deontologiche. - 3.c. (segue) Il c.d. patto di quota lite. - 3.d.
(segue): le sorti del c.d. patto di quota lite. - 4. La normativa emanata tra
agosto 2011 ed agosto 2012 col dichiarato scopo di liberalizzare le professioni. - 5. La nuova disciplina del compenso nella Legge n. 247/2012; - 5.a. In
particolare, l’art. 13, comma 4. - 5.b. (segue): la conseguenza della violazione del divieto del patto di quota lite e la sorte dei patti stipulati nella vigenza
della Legge n. 248/2006. - 5.c. (segue): il problema della forma. - 5.d. (segue) Gli obblighi di informazione collegati al tema del compenso. - 6. Dignità
e decoro come limiti alla libera pattuizione del compenso.
1. PREMESSA
La disciplina del compenso dell’avvocato ha subito nel tempo rilevanti modifiche; il sistema, in generale, è caratterizzato da fughe in avanti e da ritorni su assetti che sembravano definitiva*
Lo scritto riproduce con l’aggiunta dell’apparato di note la relazione tenuta al convegno Organizzazione e responsabilità del professionista legale. Questioni attuali e prospettive future, organizzato a
Milano da Wolters Kluwer Italia in occasione dei trent’anni del Corriere Giuridico, il 10 ottobre 2013.
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mente abbandonati; la stessa nomenclatura ha subito modifiche
poiché non si parla più di tariffe, ma di parametri quando ci si riferisce ai criteri per la determinazione del compenso.
Le tappe principali di questa evoluzione sono almeno quattro:
(a) il sistema in vigore prima della Legge n. 248 del 2006 (di conversione in legge del c.d. decreto Bersani), (b) il meccanismo introdotto dalla Legge n. 248/2006, (c) gli interventi normativi
dell’agosto 2011 e del febbraio/marzo 2012, (d) la Legge n.
247/2012 che ha ridisegnato la disciplina della professione forense.
2. IL SISTEMA DELLE TARIFFE MINIME E FISSE PRIMA DELLA LEGGE
N. 248/2006
2.a. L’aspetto normativo
La locuzione tariffe forensi 1 rimandava ad una delle modalità di
determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità dovuti
agli avvocati per prestazioni stragiudiziali e giudiziali in materia civile, amministrativa, tributaria e penale; modalità affidata ad una
deliberazione biennale del Consiglio Nazionale Forense, approvata
dal Ministro della Giustizia con decreto pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale, il tutto secondo quanto stabilito dall’art. 1 della Legge 3
agosto 1949, n. 536 e dall’art. 1 della Legge 7 novembre 1957, n.
1051 2; le ultime tariffe sono state approvate con D.M. 8 aprile
2004, n. 127.
Esse si articolavano, fondamentalmente, nella previsione di:
(a) diritti fissi, il cui importo variava col variare del valore
dell’affare trattato 3;
1
Sull’origine araba del vocabolo tariffa v. G. FREZZA, Tariffe professionali forensi fra ordinamento interno e ordinamento comunitario, in Giust. civ., 2002, 5, 1139.
2
Art. 1 Legge 7 novembre 1957, n. 1051:«(…) I criteri per la determinazione degli onorari, dei
diritti e delle indennità spettanti agli avvocati e ai procuratori per prestazioni giudiziali in materia civile sono stabiliti dal Consiglio nazionale forense con le modalità previste dall’art. 1 della legge 3
agosto 1949, n. 536, e relative agli onorari e alle indennità in materia penale e stragiudiziale»; art.
1 Legge 3 agosto 1949, n. 536: «(…) I criteri per la determinazione degli onorari e delle indennità
dovute agli avvocati e ai procuratori in materia penale e stragiudiziale sono stabiliti ogni biennio con
deliberazione del Consiglio nazionale forense, approvata dal Ministro per la grazia e giustizia».
3
Col termine diritti ci riferiamo a tutto ciò che non è tecnicamente onorario e quindi anche alle
vacazioni, alle prestazioni dell’avvocato domiciliatario, alle indennità di trasferta, alla collazione degli scritti. Il vocabolo diritti è qui assunto anche quale sinonimo delle tariffe fisse cui si riferisce la
Legge n. 248/2006.
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Il compenso dell’avvocato
(b) onorari, per i quali era fissato un importo minimo e massimo, a sua volta variabile a seconda del valore dell’affare.
Gli artt. 4, comma 1, 1, commi 5 e 9, rispettivamente, della tariffa giudiziale civile, penale e stragiudiziale, stabilivano
l’inderogabilità degli onorari minimi e, quando sussistenti, dei diritti, mentre solo su conforme parere del Consiglio dell’Ordine essi
potevano essere diminuiti (art. 4, comma 2 cit.).
L’inderogabilità era confermata dall’art. 24 della Legge 13 giugno 1942, n. 794 ed il principio era interpretato in modo rigoroso
dalla giurisprudenza 4 secondo la quale una deroga poteva ammettersi solo per gli onorari (non per i diritti) e sempre che la parte
interessata avesse prodotto il parere del Consiglio dell’Ordine 5 .
Questo sistema imperniato sull’inderogabilità dei minimi era
stato ritenuto conforme anche alle regole comunitarie come riconosciuto dalla Corte di giustizia delle comunità europee con la sentenza 19 febbraio 2002 (causa C-35/99), secondo cui «(…) gli artt.
5 e 85 del trattato CEE (divenuti artt. 10 Ce e 81 Ce) non ostano
all’adozione, da parte di uno Stato membro, di norme che approvino, sulla base di un progetto stabilito da un ordine professionale,
una tariffa che fissa dei minimi e dei massimi per gli onorari (…) a
condizione che lo Stato stesso eserciti, a mezzo dei suoi organi,
controlli nei momenti dell’approvazione della tariffa e della liquidazione degli onorari» tenuto conto del fatto che nel procedimento di
approvazione della tariffa forense italiana, il Consiglio Nazionale
Forense esercita solo un potere di proposta, mentre la tariffa è
4
Cass. 16 marzo 2005, n. 5717; Id. 6 marzo 2002, n. 3197; Id. 10 novembre 1998, n. 11292;
Id. 29 novembre 1995, n. 12373; Id. 29 marzo 1991, n. 1061; normalmente se ne faceva applicazione in tema di quantificazione delle spese del giudizio affermandosi che «(…) in presenza di una
nota specifica prodotta dalla parte vittoriosa, (il giudice: N.d.R.) non può limitarsi ad una globale
determinazione, in misure inferiori a quelle esposte, dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, ma ha l’onere di dare adeguata motivazione della eliminazione o della riduzione di voci da
lui operata allo scopo di consentire l’accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti ed alle tariffe in relazione all’inderogabilità dei relativi minimi a norma dell’art. 24 della
Legge n. 794 del 1942» (Cass. 1 agosto 2002, n. 11483; Id. 16 marzo 2000, n. 3040; Id. 27 ottobre 1994, n. 8872; Id. 6 aprile 1989, n. 1643). La regola dell’inderogabilità trovava, secondo la giurisprudenza, applicazione: (a) all’attività stragiudiziale sia in virtù della ratio legis (tutela del decoro
della professione), sia del criterio di adeguamento al precetto costituzionale di uguaglianza (Cass. 6
marzo 1999, n. 1912; Id. 22 febbraio 1988, n. 1851; Id. 12 febbraio 1988, n. 1519; Id. 87 febbraio
1987, n. 1259, in FI, 1987, I, 2164; contra Cass. 12 ottobre 1987, n. 7550); (b) al diritto al rimborso forfetario delle spese generali (Cass. 1912/1999 cit.); (c) ai rapporti intercorsi in regime di
parasubordinazione tra legali esterni ed enti pubblici (Cass. 3 marzo 1988, n. 2246) laddove la serialità delle prestazioni e la loro standardizzazione può orientare il giudice nella determinazione tra
minimo e massimo, ma mai giustificare la deroga (Cass. 19 ottobre 1983, n. 6148).
5
Cass. 9 ottobre 1990, n. 9935.
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emanata dal Ministro della Giustizia non integrando, perciò, un regolamento adottato da una autorità non statale 6.
L’effetto di ciò era la nullità dell’eventuale patto derogatorio dei
minimi ex art. 24, comma 2, Legge n. 794/1942 cit. e, comunque,
la sua non impegnatività per l’avvocato 7; ma non vi era ostacolo
alla rinunciabilità, preventiva, o successiva, dei compensi perché,
se il divieto di deroga veniva considerato una garanzia del corretto
esercizio dell’attività forense e mezzo di tutela della dignità del
singolo e dell’intera classe (impedendo, per un verso, lo svilimento
della funzione defensionale, per l’altro, la sleale concorrenza), non
importava di per sé l’indisponibilità del diritto alla remunerazione,
che era, pertanto, considerato rinunciabile8.
L’accordo tra cliente e professionista era, nondimeno, considerato il fulcro della disciplina stante la previsione dell’art. 2233,
comma 1, c.c. il quale, nello stabilire la gerarchia delle fonti di determinazione del compenso, considerava tariffe, usi e, alla fine,
l’intervento giudiziale, quali meri sistemi suppletivi la cui operatività era subordinata alla mancanza di un previo accordo.
Combinando le due regole e cioè:
- quella della inderogabilità dei minimi tariffari con la correlata
sanzione della nullità di accordi derogatori
6
Cass. 28 marzo 2006, n. 7094.
La nullità dell’accordo in deroga non ostava, tuttavia, in applicazione dei principi sulla nullità
parziale, a che la clausola nulla mantenesse validità quale espressione della volontà negoziale di fissare il compenso professionale in misura pari ai minimi: Cass. 1 dicembre 1995, n. 12421.
8
Cass. 7 marzo 1983, n. 1680. Il principio della rinunciabilità è espresso dalla massima ricorrente per cui la regola dell’inderogabilità dei minimi tariffari «(…) non trova applicazione nel caso di
rinuncia, totale o parziale, alle competenze professionali, allorché quest’ultima non risulti posta in
essere strumentalmente per violare la norma imperativa sui minimi di tariffa. La prestazione
d’opera del difensore può, infatti, essere gratuita - in tutto o in parte - per ragioni varie, oltre che di
amicizia e parentela, anche di semplice convenienza. Sotto questo riflesso la retribuzione costituisce
un diritto patrimoniale disponibile e la convenzione relativa può concretarsi, sul piano sostanziale,
anche in un accordo transattivo, in quanto tale, pienamente lecito, rientrando esso nella libera autonomia dispositiva delle parti contraenti»: Cass. 27 settembre 2010, n. 20269. L’argomento è stato studiato soprattutto con riferimento alle convenzioni tra istituti di assistenza dei lavoratori ed avvocati con le quali si prevede che quest’ultimi difendano in giudizio gli assistiti dei primi percependo
il solo importo delle spese, diritti ed onorario liquidati dal giudice in caso di vittoria con rinuncia al
compenso in caso di soccombenza, o di compensazione delle spese. La giurisprudenza era solita ritenere che il patto, lecito, vincolava l’avvocato anche nei confronti del lavoratore assistito (che non
firma la convenzione) ex art. 1411 c.c. (contratto a favore di terzo) e la rinuncia era valida e la
convenzione non nulla per violazione del principio di inderogabilità dei minimi «(…) qualora (…) risulti giustificata da un fine di liberalità od uno spirito di solidarietà sociale meritevole di tutela e non
si presenti come mero strumento del legale per conseguire maggiori vantaggi economici attraverso
un non consentito accaparramento di affari futuri» (Cass. 6 luglio 1983, n. 4562). Sull’ammissibilità
di una causa gratuita v. Cass., SS.UU., 5 giugno 1989, n. 2697. Il principio trova ora espresso riconoscimento nell’art. 13, comma 1 della Legge n. 247/2012 nel quale si prevede puramente e semplicemente che «(…) l’incarico può essere svolto a titolo gratuito».
7
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e
- quella ricavabile dalla rigida gerarchia delle fonti espressa
dall’art. 2233, comma 1, c.c.
la conclusione era che il sistema della remunerazione
dell’avvocato era caratterizzato da una significativa atipicità perché,
da un lato, si dava rilievo all’autonomia privata nella prospettiva
codicistica, ma, dall’altro, l’autonomia era compressa nella prospettiva della normativa speciale che additava limiti invalicabili, normativa speciale destinata a prevalere su quella del codice perché successiva a quest’ultimo e, appunto speciale, donde un sistema delle
fonti integrato9.
2.b. (segue): l’aspetto deontologico
Dal punto di vista deontologico, il relativo codice, emanato dal
Consiglio nazionale forense nel 1997, sanzionava come illeciti
deontologici i patti integranti violazioni del principio di inderogabilità dei minimi (o delle tariffe fisse); i parametri attraverso cui filtrare il giudizio di legittimità del comportamento erano costituiti:
(a) dall’art. 5 che stabilisce l’obbligo del rispetto dei doveri di dignità e decoro in linea con l’opinione della Corte di cassazione che
giustificava l’inderogabilità convenzionale dei minimi con
l’esigenza di garantire il corretto esercizio dell’attività forense, la
dignità del singolo e dell’intera classe, nell’intento di impedire lo
svilimento della funzione defensionale; e (b) dall’art. 19 circa il divieto di accaparramento di clientela perché, ove fosse mancata la
causa liberale e di solidarietà sociale10, la pattuizione poteva essere considerata - con valutazione da condursi caso per caso - mezzo illecito di accaparramento del cliente.
2.c. (segue): l’ulteriore limite dell’art. 2233, comma 3
Ma vi era un’ulteriore limitazione dell’autonomia privata che,
nei fatti, negava quella gerarchia enunciata a parole dal primo
9
G. FREZZA, Tariffe professionali forensi fra ordinamento interno e ordinamento comunitario, cit.
loc. cit.
10
Limite individuato dalla giurisprudenza che considerava valida la rinuncia al corrispettivo (…)
«(…) qualora (…) risulti giustificata da un fine di liberalità od uno spirito di solidarietà sociale meritevole di tutela e non si presenti come mero strumento del legale per conseguire maggiori vantaggi
economici attraverso un non consentito accaparramento di affari futuri»: Cass. 6 luglio 1983,
n. 4562.
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comma dell’art. 2233 c.c.; il limite ulteriore era costituito dal terzo
comma del citato articolo secondo il quale «gli avvocati (…) non
possono, neppure per interposta persona, stipulare con i loro
clienti alcun patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio, sotto pena di nullità e dei danni»; la norma vietava, pertanto, il c.d. patto di quota lite la cui
violazione era sanzionata con la nullità.
2.d. (segue): l’art. 2233, comma 3 e l’aspetto
deontologico
Da questo punto di vista il codice deontologico forense era in
sintonia con la norma civilistica appena illustrata perché l’art. 45,
prima parte qualificava come illecito disciplinare tout court la stipula di un patto di quota lite.
La sintonia terminava qui; la seconda parte del cit. art. 45
estendeva, infatti, il divieto a tutti i patti con cui il compenso era
determinato in «(…) una percentuale rapportata al valore della lite» divieto non ricavabile, invece, dalla norma del codice; il codice
deontologico, infine, si spingeva ancora più lontano perché nel suo
V canone consentiva di concordare onorari forfetari unicamente
per le «(…) prestazioni continuative solo in caso di consulenza ed
assistenza stragiudiziali, purché siano proporzionali al prevedibile
impegno» 11.
Una concessione, che riconciliava parzialmente piano civilistico
e piano deontologico, si coglieva, peraltro, nel canone I che consentiva «(…) la pattuizione scritta di un supplemento di compenso,
in aggiunta a quello previsto, in caso di esito favorevole della lite,
purché sia contenuto in limiti ragionevoli e sia giustificato dal risultato conseguito». Del resto, lo stesso D.M. n. 127/2004 cit.
permetteva di tenere conto «(…) dei risultati del giudizio e dei
vantaggi, anche non patrimoniali, conseguiti» ai fini della determinazione dell’onorario. È la figura nota col nome di palmario della
11
Questa espansione della previsione del codice deontologico oltre i limiti del codice civile è la
dimostrazione dell’idoneità della norma deontologica a configurare, oltre a deroghe ammesse dalla
condizione professionale e ad imperativi posti dalla coscienza professionale, anche doveri additivi:
G. ALPA, Norme deontologiche e Cassazione, sintesi della relazione presentata all’incontro di studio
organizzato dalla Corte di cassazione e dal Consiglio superiore della Magistratura a Roma l’11 febbraio 2005.
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cui legittimità la giurisprudenza non ha mai dubitato, ma che poneva delicati problemi confinari col divieto del patto di quota lite 12.
3. I CAPISALDI DEL SISTEMA INTRODOTTO DALLA LEGGE N. 248/2006
E LE CONSEGUENZE SUL PIANO CIVILISTICO E DEONTOLOGICO
3.a. Non obbligatorietà di tariffe fisse o minime
e conseguenze civilistiche
Su questo assetto intervenne l’art. 2, comma 1, lett. a) della
Legge n. 248/2006, che abrogò tutte le disposizioni legislative e
regolamentari che prevedevano l’obbligatorietà di tariffe fisse o
minime. L’effetto fu l’inizio di un periodo - della durata di qualche
anno - di apparente libertà e di riespansione di quell’autonomia
privata in qualche modo mortificata dal precedente sistema; infatti, divenivano civilisticamente validi - tra gli altri - tutti i patti determinativi del compenso in deroga ai minimi 13. Mentre prima
l’autonomia privata era limitata dal concorso delle fonti che attribuiva ruolo gerarchicamente sovraordinato, in tema di compensi,
alla legge speciale che vietata i patti in deroga ai minimi, ora riacquistava quella pienezza scolpita nel comma 1 dell’art. 2233 c.c.
che la issava al primo posto nella gerarchia delle fonti di determinazione del compenso.
12
Problemi risolti dalla giurisprudenza col dire che «(…) in tema di compensi professionali, non
sussiste il patto di quota lite, (…) non solo nel caso di convenzione che preveda il pagamento al difensore sia in caso di vittoria che di esito sfavorevole della causa, di una somma di denaro (anche
se in percentuale all’importo, riconosciuto in giudizio alla parte) non in sostituzione, bensì in aggiunta all’onorario, a titolo di premio (cosiddetto palmario), o di compenso straordinario per
l’importanza e difficoltà della prestazione professionale, ma anche quando la pattuizione del compenso al professionista, ancorché limitato agli acconti versati, sia sostanzialmente, seppur implicitamente, collegata all’importanza delle prestazioni professionali od al valore della controversia e
non in modo totale o prevalente all’esito della lite»: Cass. 26 aprile 2012, n. 6519. Ma al palmario
era posto un limite ritenendosi integrata la violazione dell’art. 45 del codice deontologico forense,
con «(…) la pattuizione di un compenso aggiuntivo economicamente rilevante per l’esito favorevole
di una causa di risarcimento danni, che si traduca in un’ingiustificata falcidia, a favore del difensore,
dei vantaggi economici derivanti dalla vittoria della lite, perché a tanto osta il divieto del patto di
quota lite (secondo la previgente formulazione dell’art. 45 cit., applicabile "ratione temporis"), che
non può essere dissimulato dalla previsione di un palmario per l’esito favorevole della lite»: Cass.
19 ottobre 2011, n. 21585.
13
In questo senso già G. ALPA, Osservazioni sulla interpretazione e applicazione del d.l. 4 luglio
2006, n. 223, in Circolare del Consiglio Nazionale Forense, 4 settembre 2006.
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3.b. (segue): non obbligatorietà di tariffe fisse o minime
e conseguenze deontologiche
L’eliminazione del divieto dell’obbligatorietà di tariffe minime e
fisse, fece anche venire meno il disvalore deontologico del patto
determinativo di compensi in deroga ai minimi e di quello avente
ad oggetto compensi forfetari per l’attività giudiziale dal momento
che la ragione del precedente divieto era di evitare che, attraverso
il forfait, si pervenisse a praticare compensi inferiori ai minimi.
Restava, tuttavia, un presidio deontologico affidato all’art. 5 del
relativo codice il quale, facendo obbligo all’avvocato di ispirare la
propria condotta all’osservanza dei doveri di dignità e decoro, consentiva, caso per caso, l’analisi del comportamento e della rispondenza del patto rinunciativo ai dettami deontologici. Vedremo in
seguito che su questo specifico aspetto si apprezza il confronto di
approccio ideologico tra Consiglio nazionale forense ed Autorità
Garante della Concorrenza e del Mercato.
3.c. (segue) Il c.d. patto di quota lite
Specificamente a proposito del divieto del patto di quota lite, va
osservato che, da un lato, l’art. 2, comma 1, lett. a) cit. abrogava
ogni divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento
degli obiettivi perseguiti e, dall’altro, il successivo comma 2-bis introduceva il requisito di forma scritta per la validità dei patti, modificando in tal modo il previgente terzo comma; veniva, così, sostanzialmente abrogato il divieto del patto di quota lite veicolato
dalla formulazione del precedente terzo comma.
Per comprendere, però, l’esatta portata innovatrice della legge
su questo specifico punto, va considerato quello che, secondo la
dottrina e la giurisprudenza, era l’effettivo recinto all’interno del
quale il divieto del patto di quota lite doveva ritenersi operante;
analisi necessaria anche ai fini di comprendere la portata della
nuova disposizione contenuta nell’art. 13, comma 4 della Legge n.
247/2012 che ribalta, in negativo, la previsione in commento della
Legge n. 248/2006.
Ad integrare il patto vietato si riteneva fosse sufficiente un accordo, o una promessa unilaterale 14, tra avvocato e cliente col
14
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Cass., SS.UU., 19 novembre 1997, n. 11485.
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quale si fosse pattuito, alternativamente, che il compenso:
(a) era rappresentato da una parte dei beni, o crediti litigiosi;
(b) era correlato al risultato pratico dell’attività svolta e, comunque, in ragione di una percentuale sul valore dei beni, o degli
interessi litigiosi.
Questo secondo era un modo alternativo di manifestazione del
patto di quota lite, frutto dell’attività creativa della giurisprudenza
in quanto non espressamente previsto dalla norma, ma ricavato
dalla sua ratio, individuata nell’esigenza di tutelare l’interesse del
cliente e la dignità e moralità della professione forense, beni
esposti a pregiudizio se nel patto sul compenso fosse stata ravvisabile la partecipazione del professionista agli interessi economici
finali ed esterni alla prestazione richiestagli 15; cosicché l’ipotesi di
un compenso costituito da una parte dei crediti, o beni litigiosi,
veniva considerata come la tipizzazione di quella di massimo
coinvolgimento del legale tale, pertanto, da non esaurire tutti i
casi di possibile coinvolgimento. Sulla stessa lunghezza d’onda
era la dottrina che argomentava la conclusione dal principio di
estraneità il quale, immanente nel rapporto tra avvocato e cliente, si riteneva esprimesse la misura del coinvolgimento impedendo la confusione tra interesse professionale ed interesse personale all’esito del processo 16 ed il condizionamento della volontà della
parte, nonché il rischio di velare le scelte processuali 17. Si sottolineava altresì che il divieto tendeva anche alla salvaguardia del
decoro della professione forense, ciò sin dai tempi del diritto romano 18.
Condensato normativo di ciò era la coppia di norme degli artt.
1261 e 2233, comma 3 cit.; anche il divieto enunciato dalla prima, consistente nel proibire anche agli avvocati di rendersi cessionari di crediti litigiosi, si riteneva obbedisse alla stessa giustificazione sistematica nel contesto di un ordinamento che sembrava
15
Cass., SS.UU., n. 11485/1997 cit., in Giust. civ., 1998, I, 3207, con nota di F. GASBARRI, Brevi
considerazioni sui fondamenti del divieto di patto di quota lite; nello stesso senso in dottrina G. MUSOLINO, Il compenso della prestazione professionale fra autonomia negoziale, tariffe e regole di concorrenza, in Riv. not., 2001, 1, 85 ss.
16
Così A. PERULLI, Il lavoro autonomo, contratto d’opera e professioni intellettuali, in Trattato
dir. civ. comm. diretto da A. Cicu e F. Messineo e continuato da L. Mengoni, Milano, 1996, XXVII, t.
1, 684.
17
Così V. VIGORITI, Patto di quota lite e libertà di concorrenza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003,
2, 583 ss.
18
F. GASBARRI, op. loc. ult. cit.
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rifiutare radicalmente l’ipotesi di un avvocato che finisca col diventare socio del cliente 19 lucrando guadagni esagerati abusando della
fiducia 20.
Nonostante la diversità dell’area di incidenza effettuale dei due
divieti (il primo presupponendo che l’avvocato eserciti presso la
stessa autorità giudiziaria avanti alla quale è in corso la lite che riguarda il bene, o diritto, ceduto e non il semplice rapporto di patrocinio in sé), il rapporto tra le due norme era considerato di corrispondenza 21 poiché si occupavano di preservare l’identico bene
giuridico.
Il terzo comma dell’art. 2233 c.c., introdotto dalla Legge n.
248/2006 stabiliva, al posto del divieto del patto di quota lite il
principio per cui «Sono nulli se non redatti in forma scritta i patti
conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che
stabiliscono i compensi professionali».
La conclusione che ci si è affettati a trarre è stata quella della
definitiva liberalizzazione del patto di quota lite.
Certamente essa era corretta in rapporto al modo di manifestazione di quest’ultimo nella configurazione frutto della creazione
giurisprudenziale e cioè quella in cui il compenso è correlato al risultato pratico dell’attività svolta, o è rappresentato da una frazione percentuale del valore dei beni in contesa.
La stessa conclusione si prestava a qualche dubbio in relazione,
invece, all’altra manifestazione del patto - per così dire ortodossa
- e cioè quella in cui il compenso è rappresentato da una parte dei
beni, o dei crediti litigiosi. Ciò in quanto alla scomparsa del divieto
espresso, non corrispondeva pari abrogazione di quello contenuto
nell’art. 1261 c.c. legato al primo - come si è visto - da un nesso,
quanto meno, di corrispondenza.
Premesso che la norma dell’art. 1261 c.c. si ritiene esprima un
principio rilevante per qualsiasi situazione soggettiva patrimoniale
anche se diversa dal credito, tale, perciò, da potersi riferire anche
ai diritti reali 22, il dubbio era che il divieto del patto di quota lite
19
A. PERULLI, op. cit., 685.
A. PERULLI, op. cit., 687.
21
G. MUSOLINO, Il compenso della prestazione professionale fra autonomia negoziale, tariffe e
regole di concorrenza, cit., 85 ss.
22
P. PERLINGIERI, Cessione dei crediti, in Comm. Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, libro IV,
Obbligazioni art. 1260-1267, Bologna-Roma, 1982, 84 e nt. 5. Conf. A.A. DOLMETTA, voce Cessione
dei crediti, in Dig. Disc. Priv. sez. civile, Torino, 1988, 290 e nt. 18, ove il riferimento all’opinione
pure conforme di C.M. Bianca.
20
656
Rassegna Forense - 3-4/2013
Parte Prima - Dottrina
Il compenso dell’avvocato
fosse sopravvissuto, inverato nell’art. 1261 c.c. 23. Infatti, se esso
è integrato dalla convenzione avente ad oggetto l’impegno ad attribuire, solvendi causa, tutto, o parte, il diritto litigioso, la concreta esecuzione del patto da parte del cliente non può che realizzarsi
tramite la cessione al professionista della posizione di titolarità attiva in ordine alla situazione giuridica oggetto del patto; cedendo,
cioè, in tutto, o in parte, il credito, o il bene.
3.d. (segue): le sorti del c.d. patto di quota lite
Come si è già detto, una delle novità della Legge n. 248/2006 è
l’introduzione, nel terzo comma dell’art. 2233 c.c. al posto del divieto del patto di quota lite, del requisito della forma scritta dei
patti tra avvocato e cliente determinativi del compenso, ciò a pena
di nullità.
Questa norma 24 sembrava assolvere ad una funzione ben precisa: inserendosi nella scia del neoformalismo negoziale quale tecnica di controllo degli abusi, si riteneva fosse funzionale alla tutela
del contraente debole, quale, evidentemente, veniva considerato
il cliente allorché, nel momento del bisogno, si rivolge all’avvocato per tutelare beni fondamentali della vita; in questo senso la
forma scritta poteva rappresentare una garanzia di maggiore riflessione sulle conseguenze impegnative derivanti dall’assunzione
dell’obbligazione.
4. LA NORMATIVA EMANATA TRA AGOSTO 2011 ED AGOSTO 2012
COL DICHIARATO SCOPO DI LIBERALIZZARE LE PROFESSIONI
Tra l’agosto del 2011 e l’agosto del 2012 si sono succedute norme che hanno interessato direttamente il tema del compenso, tutte
23
Per questa prospettiva sia consentito il rinvio a U. PERFETTI, Patti e modalità di determinazione del
compenso nella novella di cui alla l. 248 del 2006. La morte apparente del divieto del patto di quota lite,
in Contr. e impr., 2007, 71 ss. e U. PERFETTI, Ordinamento e deontologia forensi, Padova, 2011, 231 ss.
24
Di cui va senz’altro segnalata la singolarità - almeno sino a quando è rimasta in vigore - dal
momento che il requisito di forma scritta ad substantiam riguardava i soli avvocati e non gli altri
professionisti stante il chiaro disposto dell’art. 2233. comma 3, c.c.; tanto che si sarebbero potuti
porre anche problemi di costituzionalità per l’evidente irragionevolezza di una previsione limitata ai
soli legali. Spunti in tal senso anche in G. COLAVITTI, Regolazione dei rapporti economici tra cliente e
professionista e abrogazione della tariffe: il compenso dell’avvocato tra liberalizzazioni e nuove limitazioni della libertà negoziale, in G. ALPA (a cura di), La determinazione dell’oggetto del contratto e i
criteri di calcolo del compenso professionale dell’avvocato, in Quaderni del Consiglio Nazionale Forense, Napoli, 2013, 13.
Rassegna Forense - 3-4/2013
657
Parte Prima - Dottrina
Ubaldo Perfetti
quante emanate con lo scopo dichiarato di innestare elementi di liberalizzazione nelle professioni, tra cui quella di avvocato. Ma, come si vedrà, non solo questo apparato ha governato per poco tempo la professione forense risultando integralmente sostituito dalla
Legge n. 247 del 31 dicembre 2012, ma risulta inciso, proprio sul
terreno del compenso, da repentini cambiamenti di prospettiva.
L’inizio di questo flusso normativo è databile ad agosto 2011
con l’emanazione del D.L. n. 138 del 13 agosto 2011 il cui art. 3,
comma 5, sotto la rubrica - già di per sé espressiva dell’ideologia
dell’intervento - Abrogazione delle indebite restrizioni all’accesso e
all’esercizio delle professioni e delle attività economiche, stabiliva
che gli ordinamenti professionali avrebbero dovuto essere riformati entro dodici mesi nel rispetto di alcuni principi generali, tra cui
quello della liceità della pattuizione dei compensi anche in deroga
alle tariffe cui il giudice poteva ricorre solo in alcune, ben determinate, ipotesi.
Sennonché, mentre tutti gli altri principi generali previsti da
quella norma avrebbero effettivamente trovato normazione con il
D.P.R. n. 137 del 7 agosto 2012 in applicazione del criterio di delegificazione, tariffe e tirocinio erano destinatari di una disciplina
ad hoc di stampo primario che, proprio per questo, poteva derogare i principi generali stabiliti dalla precedente normativa; infatti,
col D.L. n. 1 del 24 gennaio 2012, convertito nella Legge n. 27 del
24 marzo 2012, in luogo di disciplinare casi e modalità di applicazione delle tariffe e dei patti derogatori, veniva stabilita con l’art.
9, comma 1, l’abrogazione generalizzata delle tariffe ed al loro posto, per il caso in cui il giudice avesse dovuto determinare il compenso, erano introdotti i parametri.
In tal modo si attuava una completa liberalizzazione del sistema
di determinazione del compenso che, già affrancato dal divieto del
patto di quota lite, risultava ora completamente affidato alla libera
contrattazione delle parti scomparendo, col venir meno delle tariffe, anche il criterio sussidiario per la sua quantificazione secondo
le indicazioni dell’art. 2233, comma 1, c.c. in caso di mancanza
del patto.
Riguardando tutte le professioni, tale nuova normativa si applicava anche a quella forense.
In esecuzione di quanto previsto dalla nuova norma, con D.M.
20 luglio 2012 n. 140 venivano emanati i parametri, la cui caratteristica principale consiste in ciò che il compenso è previsto in base
658
Rassegna Forense - 3-4/2013
Parte Prima - Dottrina
Il compenso dell’avvocato
ad una scansione delle varie fasi in cui si articola il processo in cui
non ha nessun peso la quantità di attività professionale espletata.
5. LA NUOVA DISCIPLINA DEL COMPENSO NELLA LEGGE N. 247/2012
5.a. In particolare, l’art. 13, comma 4
La Legge n. 247 del 31 dicembre 2012, entrata in vigore il 2
febbraio 2013, disciplina ex novo la professione forense ed una
delle sue caratteristiche principali è che riserva alla professione
una normazione speciale che la sottrae a quella che vige, invece,
per tutte le altre, in parte regolamentate col sistema della delegificazione giusta la previsione dell’art. 3 del D.L. n. 137/2011 cit.
Nell’art. 13 di questa legge è contenuta la disciplina del compenso che, da un lato, non richiama in vita le vecchie tariffe oramai definitivamente abrogate dal D.L. n. 1/2012 e rimanda per la
determinazione del compenso in sede giudiziale - o anche stragiudiziale quando manchi il patto tra avvocato e cliente - ai parametri
da emanare, peraltro, con una procedura tutta propria, dall’altro
prospetta talune novità.
Una di queste è contenuta nel comma quarto in cui ora si stabilisce che «(…) sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca
come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto
della prestazione, o della ragione litigiosa». Se questa norma si incarichi di attestare la perdurante esistenza in vita di quel divieto
che, apparentemente eliminato dalla Legge n. 248/2006, nella
realtà sopravviveva sotto le spoglie dell’art. 1261 c.c., o se invece
reintroduca daccapo un divieto prima abolito (con ciò mostrando
una caratteristica propria della nostra legislazione e cioè
l’ambulatorietà), è questione nominalistica; certo è che la nuova
disposizione, o contrassegna, o conferma, un ritorno al passato e
cioè alla formulazione dell’art. 2233, comma 3, c.c. qual era prima
dell’entrata in vigore della Legge n. 248/2006.
Sennonché, anche questo nuovo assetto normativo non è privo
di una certa dose di problematicità; infatti, se è certa l’illegittimità
del patto di quota lite che assuma la configurazione - per così dire
- ortodossa consistente nella cessione di una parte del bene litigioso, qualche dubbio sussiste per quanto attiene all’altra sua modalità di manifestazione, sopra definitiva come frutto dell’attività
creativa della giurisprudenza; si allude al patto in cui il compenso
Rassegna Forense - 3-4/2013
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Parte Prima - Dottrina
Ubaldo Perfetti
è correlato al risultato pratico dell’attività svolta e, comunque,
stabilito in percentuale sul valore dei beni, o degli interessi litigiosi
e ci si domanda se valga anche per questo il divieto.
Di dare una risposta, almeno parziale, si incarica l’art. 13,
comma 3 il quale, oltre a dire che la pattuizione del compenso è
libera, potendo essere a tempo, forfetariamente determinato, stabilito in base all’assolvimento ed ai tempi di erogazione della prestazione, legittima anche quello «(...) a percentuale sul valore
dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene (...) il destinatario della prestazione».
Senza dubbio con ciò si legittima la pattuizione a percentuale
sul valore dei beni, o degli interessi litigiosi; ma non è altrettanto
certo che siano diventati legittimi anche i patti in cui il compenso è
previsto a percentuale sul valore del risultato ottenuto.
La nostra opinione è che se la percentuale può essere rapportata al valore, non lo può essere al risultato, perché in tal senso deve interpretarsi l’inciso «(...) si prevede possa giovarsene » che
evoca un rapporto con ciò che si prevede e non con ciò che costituisce il consuntivo della prestazione professionale. Interpretazione - questa - che ha dalla sua, oltre alla conformità al dato letterale, anche la coerenza con la ratio del divieto, dato che accentua
il distacco dell’avvocato dagli esiti della lite, diminuendo la portata
dell’eventuale mistione di interessi quale si avrebbe se il compenso fosse collegato, in tutto, o in parte, all’esito della lite, col rischio della trasformazione del rapporto professionale, da rapporto
di scambio ad uno associativo25.
La conclusione è che dovrebbero essere individuabili due aree,
una di liceità circoscritta alla percentuale sul valore dell’affare, o
su ciò che si prevede possa essere il risultato (il che si concilia con
quanto previsto dall’art. 2, comma 1, lett. a), Legge n. 248/2006),
ed una di illiceità, segnata dalla pattuizione di una percentuale sul
risultato (il che non si concilia con quanto previsto dall’art. 2,
comma 1, lett. a), Legge n. 248/2006 cit. rispetto a cui la norma è
recessiva, determinando un ritorno al passato).
Già da ora, tuttavia, la prassi segnala meccanismi di aggiramento del divieto da ultimo indicato, quale quello consistente nel
pattuire il compenso diviso per scaglioni di risultato, collegando
25
660
G. ALPA, Il ruolo del difensore tra normativa interna e sovranazionale, in Dir. pen. proc., 2012, 65.
Rassegna Forense - 3-4/2013
Parte Prima - Dottrina
Il compenso dell’avvocato
singole determinate remunerazioni fisse, al raggiungimento di
obiettivi predeterminati, laddove la fissità del compenso si ritiene
consenta alla convenzione di non ricadere nell’area del divieto, limitato alla pattuizione di una percentuale sul risultato. Al proposito occorrerà verificare quale sarà la risposta del diritto vivente,
semmai si dovesse porre una questione in sede contenziosa, e ciò
alla luce - a nostro parere - della norma dell’art. 1344 c.c. (frode
alla legge).
5.b. (segue): la conseguenza della violazione del divieto
del patto di quota lite e la sorte dei patti stipulati nella
vigenza della Legge n. 248/2006
La sanzione della violazione del divieto del patto di quota lite
come riformulato dall’art. 13, comma 4, Legge n. 247/2013 è senza dubbio la nullità ex art. 1418, comma 1, c.c. trattandosi di
un’ipotesi di contrarietà a norma imperativa; a nostro parere si
tratta di una nullità assoluta, dato che il divieto si ricollega, essenzialmente, all’esigenza di assoggettare ad una disciplina uniforme,
garantita da controlli pubblicistici, il contenuto patrimoniale del
rapporto professionale, al fine di tutelare, non solo l’interesse del
cliente, ma anche e soprattutto la dignità e la moralità del professionista, nonché la funzione giurisdizionale, suscettibile di essere
pregiudicata da apporti di difesa viziati 26.
Quanto alla sorte degli eventuali patti di quota lite stipulati nel
periodo tra l’entrata in vigore della Legge n. 248/2006 e quella n.
247/2012, essi, certamente legittimi nel tempo in cui furono stipulati, dovrebbero ritenersi nulli a partire dal 2 febbraio 2013 in applicazione del principio della c.d. nullità sopravvenuta se si tratta,
ovviamente, di patti ancora in corso di effetto per non essere la
prestazione dell’avvocato ancora terminata, o per non essersi ancora verificato il fatto cui la remunerazione è subordinata.
5.c. (segue): il problema della forma
Recita l’art. 13, comma 2 della Legge n. 247/2012 che «(…) il
compenso spettante al professionista è pattuito di regola per
iscritto all’atto del conferimento dell’incarico professionale».
26
Cass. 4 dicembre 1985, n. 6073.
Rassegna Forense - 3-4/2013
661
Parte Prima - Dottrina
Ubaldo Perfetti
Il problema che pure questa norma solleva è relativo
all’interpretazione dell’inciso di regola e ciò in quanto il comma
terzo dell’art. 2233 c.c. prescrive - come si è visto - la forma scritta a pena di nullità del patto sul compenso; ci si interroga sul se
quell’inciso si riferisca alla forma del patto, ovvero al momento in
cui stipularlo, e cioè all’atto del conferimento dell’incarico.
L’interpretazione più convincente è quella che lo riferisce alla
forma, dal momento che resterebbe da capire il senso di una prescrizione relativa al tempo della stipula; d’altronde, la collocazione
topografica dell’inciso immediatamente prima del riferimento al
requisito della forma scritta, conferma la conclusione. Vi è poi un
altro argomento che milita nella direzione segnalata: mentre
l’intera disciplina contenuta negli artt. 2229 a 2238 c.c. è relativa
a tutti i professionisti, il requisito della forma scritta veicolato dal
terzo comma dell’art. 2233 c.c. avrebbe come destinatari i soli avvocati (e i praticanti abilitati). L’interpretazione che si propone ha
dalla sua anche il fatto di riconciliare la normativa con i principi di
razionalità ed uguaglianza dato che sfuggiva la ragione
dell’assoggettamento, in precedenza, dei soli professionisti forensi
a tale stringente obbligo. Infine, spunti nella direzione segnalata si
ricavano anche dal successivo comma 6 che, disciplinando
l’applicazione dei parametri, stabilisce che essi operano sia se il
compenso non è stato determinato per iscritto, sia «(…) in ogni
caso di mancata determinazione consensuale» lasciando intendere
che tra il patto scritto e l’applicazione dei parametri vi è spazio per
una determinazione verbale. Ne segue che il compenso va pattuito, di regola, per iscritto, ma è valido anche se se è stipulato verbis con l’ovvia precisazione che in tal caso sarà più difficile provarne il contenuto onde, fallita la prova, si applicheranno i parametri. La conseguenza di questa lettura che è stata fatta propria
anche dal Consiglio nazionale forense, è che risulta, per tal verso,
abrogato il terzo comma dell’art. 2233 c.c.
5.d. (segue) Gli obblighi di informazione collegati al tema
del compenso
La nuova legge, parzialmente confermando normative precedenti, introduce particolari obblighi informativi collegabili al tema del
compenso. Infatti l’art. 13, comma 5, fa obbligo al professionista,
nel rispetto del principio di trasparenza, di fornire al cliente tutte le
informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del confe662
Rassegna Forense - 3-4/2013
Parte Prima - Dottrina
Il compenso dell’avvocato
rimento alla conclusione dell’incarico ed altresì, a richiesta, di comunicare in forma scritta a colui che conferisce l’incarico professionale la prevedibile misura del costo della prestazione, distinguendo
fra oneri, spese, anche forfetarie, e compenso professionale27.
Si introduce, pertanto, un obbligo di consegnare al cliente il
preventivo del costo della prestazione, sempre che questi lo richieda; non è prevista una sanzione espressa per il caso di inosservanza dell’obbligo e certamente, a parte quella deontologica irrogabile distinguendo caso per caso, non è configurabile quella
della nullità del contratto di patrocinio perché trattasi della violazione di una regola di condotta; torna qui applicabile l’insegnamento di Cass. 19 dicembre 2007, n. 26725 28 che ha riconfermato
la perdurante vigenza della distinzione tra regole di condotta e regole di validità in punto a conseguenze scaturenti dalla loro violazione; onde, semmai, si potrà dar luogo al risarcimento del danno.
Una sanzione indiretta, ma non per questo meno incisiva, può
essere considerata quella contenuta nell’art. 1, comma 6 del D.M.
n. 140 del 2012 che ha - come si è visto - introdotto i parametri
per la liquidazione del compenso dell’avvocato, in luogo delle tariffe. La norma prevede testualmente che «(…) l’assenza di prova
del preventivo di massima di cui all’articolo 9, comma 4, terzo periodo, del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla Legge 24 marzo 2012, n. 27, costituisce elemento di valutazione negativa da parte dell’organo giurisdizionale per la liquidazione del compenso». Come si vede, la norma fa riferimento ad
una disposizione non più applicabile agli avvocati (cioè alla Legge
27
La norma è sostanzialmente analoga a quella dell’art. 9, comma 5, D.L. n. 1/2012 convertito
nella Legge n. 37/2012 del seguente tenore: «(…) Il professionista deve rendere noto al cliente il
grado di complessità dell’incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal
momento del conferimento alla conclusione dell’incarico e deve altresì indicare i dati della polizza
assicurativa per i danni provocati nell’esercizio dell’attività professionale. In ogni caso la misura del
compenso, previamente resa nota al cliente anche in forma scritta se da questi richiesta, deve essere adeguata all’importanza dell’opera e va pattuita indicando perle singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi. L’inottemperanza di quanto disposto nel presente comma costituisce illecito disciplinare del professionista». Questa normativa, in vigore per
tutte le altre professioni, non si applica - come si è detto nel testo - agli avvocati poiché la Legge n.
247 del 31 dicembre 2012 è lex specialis; ne deriva che non trova applicazione per gli avvocati la
previsione per cui l’inottemperanza di quanto disposto a proposito degli specifici obblighi informativi
in commento costituisce illecito disciplinare. Ciò non vuol dire che l’eventuale comportamento divergente dal modello disegnato dall’art. 13, comma 5 della Legge n. 247/2012 non può integrare illecito disciplinare, caso per caso ravvisabile nella fattispecie concreta; significa solo che scompare la
valutazione legale tipica di illiceità deontologica della condotta omissiva.
28
In Giust. civ., 2008, I, 1175, con nota di G. NAPPI, Le sezioni unite su regole di validità, regole
di comportamento e doveri informativi.
Rassegna Forense - 3-4/2013
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Parte Prima - Dottrina
Ubaldo Perfetti
n. 27/2012) dopo l’emanazione della Legge n. 247/2012 che, costituendo lex specialis che assicura agli avvocati una disciplina
specifica, si sostituisce in parte qua a tutte le altre. In astratto,
perciò, la previsione dell’art. 1, comma 6 cit. non si dovrebbe applicare agli esercenti la professione forense ora che la disciplina
del preventivo è contenuta, non più nella Legge n. 27/2012, ma
nella Legge n. 247/2012; o meglio, si dovrebbe dire che essa era
applicabile agli avvocati nel periodo tra l’entrata in vigore del D.M.
n. 140/2012 e l’entrata in vigore della Legge n. 247/2012. Siamo
propensi a ritenere, tuttavia, che detta norma continui ad applicarsi, ciò perché solo così ha un senso il riferimento al preventivo
di massima.
Degne di menzione negativa sono, infine, tutte quelle norme
contenute nel D.M. n. 140/2012 istitutive dei parametri che fanno
dipendere la misura del compenso da circostanze estrinseche,
quali un particolare esito del giudizio, o un particolare modo di
esercizio dell’attività. Ci si vuol riferire all’art. 4, comma 6 laddove
si prevede che «(…) Costituisce elemento di valutazione negativa,
in sede di liquidazione giudiziale del compenso, l’adozione di condotte abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti in
tempi ragionevoli»; qui la ragione della critica deriva dalla difficoltà di stabilire quando ci si trovi in presenza di condotte da giudicare abusive 29, ciò che lascia troppo spazio alla discrezionalità del
29
Non si vuol certamente dubitare che l’abuso del diritto - su cui per tutti P. RESCIGNO, L’abuso
del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, 217 ss. - sia fenomeno comune tanto al diritto sostanziale quanto
al diritto processuale e che anche l’abuso del processo sia caratterizzato dalla scorrettezza della modalità di esercizio del diritto processuale (su cui in generale F. CORDOPATRI, L’abuso del processo, II,
Padova, 2000, specie 110 ss.). La Corte di cassazione ha ritenuto realizzare un abuso del processo,
ad esempio: (a) il comportamento di chi lo impiega «(…) non già per far valere o difendere un diritto
proprio, che ben conosce inesistente, ma per raggiungere uno scopo per il quale il processo non è
predisposto secondo i suoi fini istituzionali» come nel caso del soggetto, convenuto in un giudizio di
danno, che al fine di neutralizzare il parere del consulente tecnico di ufficio, convenga quest’ultimo in
giudizio prospettandone la responsabilità concorrente solidale (Cass. 17 ottobre 1969, n. 33859; (b)
il comportamento di chi abbia artatamente resistito in giudizio al solo scopo di far maturare a suo favore il diritto all’equa riparazione per la eccessiva durata del processo di cui all’art. 2 della Legge n.
89/2001, o di chi abbia resistito pur nella consapevolezza dell’infondatezza delle proprie istanze, o
della loro inammissibilità (Cass. 29 marzo 2006, n. 7139). L’abuso del processo si conferma, pertanto, configurabile, fondamentalmente, quale sorta di sfruttamento del diritto di azione per scopi eccedenti, o devianti, da quelli per cui è attribuito, il controllo causale dell’esercizio del diritto (art. 24
Cost.) risultando possibile a seguito della costituzionalizzazione del principio del giusto processo; ne
deriva - in questa prospettiva - che l’abuso del processo è l’altra faccia del giusto processo. Sennonché il tema si presenta pieno di insidie; come disciplinare in questo quadro - ad esempio - il dovere di
verità? Adottando il metro di giudizio fatto proprio dalla sentenza delle sezioni unite della Corte di
cassazione sul divieto di c.d. frazionamento del credito (considerato attività abusiva) n. 23726 del 15
novembre 2007 nella quale l’abusività è rinvenuta nella proposizione di un giudizio in contrasto con le
regole del giusto processo, pure il rispetto del dovere di verità dovrebbe ritenersi consustanziale al
(segue)
664
Rassegna Forense - 3-4/2013
Parte Prima - Dottrina
Il compenso dell’avvocato
giudice. Ci si vuol riferire altresì alla norma dell’art. 10 del D.M. n.
140/2012 che sotto la rubrica Responsabilità processuale aggravata e pronunce in rito, prevede che «(…) nel caso di responsabilità
processuale ai sensi dell’art. 96 del codice di procedura civile, ovvero, comunque, nei casi d’inammissibilità o improponibilità o improcedibilità della domanda, il compenso dovuto all’avvocato del
soccombente è ridotto, di regola, del 50 per cento rispetto a quello
liquidabile a norma dell’art. 11». Qui la vera questione è l’accollo
all’avvocato degli esiti di giudizi in cui la valutazione di improponibilità, o improcedibilità, non può essere assunta come indice di
malgoverno della regola per cui egli deve essere il primo filtro della giurisdizione non proponendo giudizi che sa essere inammissibili, o improponibili - principio che peraltro dovrebbe essere valutato
giusto processo perché, derivando direttamente dal principio di lealtà e correttezza valido, sia nella
dimensione codicistica (art. 88 c.p.c.), che in quella deontologica (art. 6), la sua violazione rappresenterebbe un vulnus al principio costituzionale contenuto nell’art. 111 Cost. Il relativo valore, declinato anche nella prospettiva della ragionevole durata del processo, risulterebbe esposto a rischio da
un giudizio rallentato dal comportamento processuale di una parte non improntato al canone di verità
che, se fosse invece rispettato, potrebbe permettere al giudice la pronuncia di una sentenza in tempi
più rapidi e soprattutto più giusta. Ma il problema è che il dovere di verità va combinato con la tutela
degli interessi del cliente e non può assumersi in quel senso assoluto che solo garantirebbe il rispetto
del valore costituzionale di cui s’è detto. Una sentenza di un giudice di merito offre il destro per misurare i possibili abusi (!) nell’uso dell’apparato logico dell’abuso del diritto. Si trattava del caso di un
decreto ingiuntivo di una banca contro un ex cliente col quale la prima aveva ottenuto la condanna
del secondo a pagare la somma dovuta a seguito della chiusura del rapporto, comprensiva di interessi. Dopo il passaggio in giudicato del decreto ed a seguito del mutamento del quadro giurisprudenziale a proposito degli interessi anatocistici, l’avvocato aveva convenuto in giudizio la banca chiedendone la condanna alla restituzione di tutte le somme corrisposte in eccesso, anche e soprattutto a titolo
di interessi. Nel respingere la domanda sul riflesso che la formazione del giudicato esterno impediva
di tornare a discutere della misura degli interessi dovuti, il giudice condannava l’avvocato, in solido
col suo cliente, al pagamento delle spese di lite a favore della controparte; ciò motivando col sostenere - dal punto di vista della possibilità in astratto di tale condanna - che la norma dell’art. 94 c.p.c.
che consente al giudice, quando sussistono gravi motivi, di condannare al pagamento delle spese coloro che rappresentano, o assistono, la parte in giudizio, si applica anche agli avvocati e - dal punto
di vista della sussistenza dei gravi motivi - che il comportamento del legale giustificava la condanna
in quanto contrario al dovere di lealtà e correttezza codificato dall’art. 6 del codice deontologico forense (quindi era abusivo). L’interessato avrebbe, infatti, proposto l’azione nonostante la sua palese
infondatezza, giusta la preclusione derivante dal giudicato, e l’avrebbe continuata nonostante che il
giudice avesse, con un’ordinanza, invitato la parte a trattare espressamente la questione del giudicato non ammettendo i mezzi istruttori richiesti (Trib. Cagliari 19 giugno 2008, n. 2247, inedita). Il caso potrebbe, a pieno titolo, essere arruolato tra quelli che configurano un’ipotesi di abuso del processo dato che l’abuso viene ravvisato nel resistere, pur nella consapevolezza dell’infondatezza della
pretesa; e la censura che il giudice cagliaritano muove all’avvocato è, non solo e non tanto quella di
aver coltivato una domanda infondata, quanto di aver continuato a coltivarla una volta che tale infondatezza poteva considerarsi emersa nel processo a seguito della sua ordinanza. A parte la questione del se del malgoverno dell’art. 94 c.p.c., il problema è che in questo caso si è preteso di collegare al dictum dell’ordinanza l’effetto di configurare, automaticamente, la responsabilità disciplinare
dell’avvocato che non vi si adegua, quasi che quel giudizio non potesse essere riformato, o dovesse
escludersi che fosse dovere dell’avvocato anche quello di battersi per la riforma di qualsiasi giudizio
tanto più se espresso in un’ordinanza.
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Parte Prima - Dottrina
Ubaldo Perfetti
con cautela - come nel caso delle ordinanze di inammissibilità ai
sensi del novellato art. 348-bis c.p.c. in cui il giudizio è frutto di
una valutazione di merito, per di più sommaria. Applicare la norma anche a questi casi significa vulnerare il diritto di difesa che si
esprime anche proponendo appello a sentenze che si reputano ingiuste nel merito.
6. DIGNITÀ E DECORO COME LIMITI ALLA LIBERA PATTUIZIONE
DEL COMPENSO
Come si è visto, la regola dell’ancoraggio della determinazione
del compenso a criteri prestabiliti in tariffe è, nel tempo, progressivamente venuta meno a favore del principio della libera determinazione affidata alla pattuizione. Sennonché, venuto meno il limite
dell’inderogabilità dei minimi, la determinazione del compenso deve
pur sempre tenere conto della specialità della professione forense e
della circostanza per cui, oltre che di stampo deontologico, l’obbligo
di esercitarla - tra l’altro - con dignità e decoro trova nella stessa
legge la sua fonte (art. 3, comma 2, Legge n. 247/2012).
Dignità e decoro diventano, pertanto, criteri concorrenti di controllo della congruità del patto di determinazione del compenso
tramite i quali è possibile, ad esempio, censurare quello col quale il
professionista concordi una remunerazione irrisoria o, all’inverso,
eccessiva e sproporzionata alla sua attività 30.
Ovviamente, il controllo è di stampo deontologico perché dal
punto di vista civilistico un eventuale patto tra cliente ed avvocato
potrà, ora, essere controllato solo nei limiti in cui integri un patto
di quota lite e, fuori di questo caso, solo se ed in quanto possano
ravvisarsi eventuali vizi del consenso o altre patologie tali da giustificare l’azione di annullamento, o di rescissione, ricorrendone i
presupposti 31.
30
Circa la necessità del rispetto del principio di proporzionalità, v. ad es. Consiglio nazionale forense 28 dicembre 2012, n. 203; Id. 13 luglio 2009, n. 73; Id. 3 luglio 2008, n. 66 (tutte le sentenze sono consultabili sul sito www.consiglionazionaleforense.it). Sull’irrisorietà del compenso e sulla
possibilità di un controllo dell’accordo tra avvocato e cliente anche alla luce di questo parametro v.
il parere Commissione Consultiva del Consiglio nazionale forense n. 21 del 25 giugno 2009 (in
www.consiglionazionaleforense.it).
31
Ma seppur solo di stampo deontologico, il controllo della congruità dell’accordo nel filtro della
dignità e del decoro è terreno di tensione tra Consiglio nazionale Forense ed Autorità garante della
Concorrenza e del Mercato che proprio nell’utilizzo di questi parametri ravvisa, infondatamente, un
potenziale distorsivo della concorrenza.
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Rassegna Forense - 3-4/2013