Clicca qui per visualizzare il programma completo!

Transcript

Clicca qui per visualizzare il programma completo!
CINEFORUMF.I.C.e
MOVIEPIU’presentano
2°RASSEGNA23°EDIZIONE2016-2017
ProiezionipressolaMultisalaMovieplanet
BELLINZAGONOVARESEVialedellalibertà231
Iniziodelleproiezionialleore21,15
giovedì 12 gennaio 2017
La ragazza senza nome
di Luc e Pierre
Dardenne
Con Adele Haenel, Jérémie Renier, Olivier Gourmet, Fabrizio
Rongione, Thomas Doret. Christelle Cornil Titolo originale La fille
inconnue. Drammatico, durata 113 min. - Belgio 2016. - Bim
Distribuzione
Jenny Davin è una giovane dottoressa molto stimata al
punto che un importante ospedale ha deciso di offrirle un
incarico di rilievo. Intanto conduce il suo ambulatorio di
medico condotto dove va a fare pratica Julien, uno studente in medicina. Una sera,
un'ora dopo la chiusura, qualcuno suona al campanello e Jenny decide di non aprire. Il
giorno dopo la polizia chiede di vedere la registrazione del video di sorveglianza dello
studio perché una giovane donna è stata trovata morta nelle vicinanze. Si tratta di
colei a cui Jenny non ha aperto la porta. Sul corpo non sono stati trovati documenti. I
fratelli Dardenne si sperimentano sul terreno della detection tanto che inizialmente
avevano pensato di avere come protagonista un poliziotto. Abbandonando l'idea hanno
ampliato notevolmente il campo di indagine soprattutto sul personaggio, a partire dal
titolo. Perché se la dottoressa cerca di scoprire chi sia la ragazza sconosciuta, quasi
dovesse risarcirla, offrendole un'identità, per quella porta non aperta, anche lo
spettatore si trova davanti a una persona sconosciuta. Di Jenny non conosciamo nulla
se non quello che vediamo, non ci viene fornito il benché minimo elemento che ci
consenta di conoscere qualcosa del suo passato o del suo privato al di là di quanto
attiene alla sua professione e alla sua ricerca.
– combattiva, tenace e instancabile come sempre le donne dei Dardenne – nel suo percorso
di riscatto e risarcimento: sapere chi era la ragazza, conoscere le ragioni della sua morte,
provare a darle un nome e una degna sepoltura. Per assolvere al compito è necessario
incontrare e parlare con varie persone, dai suoi pazienti ai loro familiari.
Ed è qui, non nella soluzione dell’enigma, che sta il cuore del film: l’assortito repertorio di
fragilità individuali che i Dardenne, cineasti umanitari per eccellenza, sanno raccontare così
bene, senza mai forzare i toni, senza mai un filo di musica lasciando che la semplicità dei
gesti e delle parole faccia il suo corso, un tassello dopo l’altro. E un acciacco dopo l’altro: il
film ne è pieno come un lazzaretto, i malesseri fisici diventano l’emblema psicosomatico di
una condizione diffusa di prostrazione morale. Il cinema-stetoscopio dei Dardenne ascolta,
registra e diagnostica un’umanità sorda alla solidarietà, distratta e immersa nei propri
problemi personali. Morale ma non moralista, il film si ancora infine allo splendore della
sua protagonista, degna erede, per forza e nobiltà d’animo, di quella diDue giorni, una
notte. Una figura che condensa in modo mirabile l’intera poetica dei Dardenne: uno sguardo
attento verso il genere umano, tanto più profondo e attento quanto più cronica e disperata è
la malattia.
Il cinema non è un farmaco, ma, se ci si crede, può essere una radiografia.
19 gennaio 2017
Io Daniel Blake di Ken Loac
Con Dave Johns, Hayley Squires, Dylan McKiernan, Briana
Shann, Kate Runner. Sharon Percy, Kema Sikazwe, Natalie
Ann Jamieson, Micky McGregor, Colin Coombs, Bryn
Jones, Mick Laffey, John Sumner durata 100 min. - Gran
Bretagna, Francia 2016
Daniel Blake è sulla soglia dei sessant'anni e, dopo aver
lavorato per tutta la vita, ora per la prima volta ha bisogno,
in seguito a un attacco cardiaco, dell'assistenza dello Stato.
Infatti i medici che lo seguono certificano un deficit che gli
impedisce di avere un'occupazione stabile. Fa quindi richiesta del riconoscimento
dell'invalidità con il relativo sussidio ma questa viene respinta. Nel frattempo Daniel
ha conosciuto una giovane donna, Daisy, madre di due figli che, senza lavoro, ha
dovuto accettare l'offerta di un piccolo appartamento dovendo però lasciare Londra e
trovandosi così in un ambiente e una città sconosciuti. Tra i due scatta una reciproca
solidarietà che deve però fare i conti con delle scelte politiche che di sociale non
hanno nulla.
Loach è ritornato, insieme al fido Paul Laverty, per documentarsi, nella sua città
natale, Nuneaton, in cui partecipa all'attività di sostegno di chi si trova in difficoltà.
Già dal titolo ritorna alla necessità inderogabile di non cancellare la forza dell'identità
individuale di coloro che stanno tornando ad assumere le caratteristiche di classe
sociale dei diseredati come nell'800 dickensiano. I nomi di persona hanno segnato
alcuni dei suoi film più importanti (La canzone di Carla, My Name is Joe, Il mio
amico Eric e il precedente Jimmy's Hall). Perché è la dignità della persona quella che
si vuole annullare grazie a un sistema in cui dominano i 'tagli' alla spesa sociale e
dove gli stessi funzionari che debbono applicarli si rendono conto della crudeltà (è
questo
il
termine
giusto)
delle
regole
che
debbono
applicare.
Daniel e Daisy conoscono il senso della solidarietà e non intendono farlo dissolvere
per colpa di chi ne ha volutamente smarrito qualsiasi traccia. La scena più
intimamente toccante, in un film che provoca commozione senza però utilizzare alcun
artificio, si svolge non a caso in un Banco alimentare. Si tratta di quelle realtà che un
tempo si sarebbero definite caritatevoli e che oggi prendono il posto che dovrebbe
spettare a uno Stato degno di questo nome, con tutta la precarietà che deriva dal
volontariato. Non è necessario andare a Newcastle essendo sufficiente passare nelle
prime ore del giorno dinanzi ai punti di distribuzione di associazione anche laiche
come, ad esempio, Pane Quotidiano a Milano per vedere lunghe file di persone che
attendono di poter ricevere la razione alimentare. Il numero di coloro che non sono
extracomunitari aumenta ogni giorno. Allora in questo mondo libero Ken Loach
continua a proporci le esistenze di persone qualunque con la forza di chi non descrive
ma partecipa attivamente al dolore di chi subisce una delle umiliazioni più profonde
(la perdita o l'impossibilità del lavoro). Daniel, Daisy e i suoi due figli si aggiungono
alla galleria di persone di cui Loach ci ha mostrato una tranche de vie con la forza e la
sensibilità di chi non ha alcuna intenzione di arrendersi alla logica del liberismo
selvaggio
26 gennaio 2017
Il figlio di Saul di Lazlo Nemes
Con Géza Röhrig, Levente Molnar, Urs Rechn, Todd
Charmont, Sandor Zsoter. Marcin Czarnik, Jerzy
Walczak, Uwe Lauer, Christian Harting, Kamil
Dobrowlski, Amitai Kedar, István Pion, durata 107 min. Ungheria 2015. – Teodora
Ottobre 1944 Saul Auslander è un ebreo ungherese
deportato ad Auschwitz-Birkenau. Reclutato come
sonderkommando, Saul è costretto ad assistere allo
sterminio della sua gente che 'accompagna' nell'ultimo
viaggio. Isolati dal resto del campo i sonderkommando
sono assoldati per rimuovere i corpi dalle camere a gas e poi cremarli.
László Nemes, regista ungherese al suo esordio, prova a rispondere prendendosi il
rischio e la responsabilità formale e morale attraverso un film che sceglie il 4:3 come
luogo di composizione e di 'ricomposizione' di un corpo. Perché al centro di Son of
Saul c'è il cadavere di un ragazzino che un padre vuole sottrarre alla voracità dei forni
crematori, un corpo morto tra milioni di corpi morti che Nemes lascia sullo sfondo
sfocato e infuocato dalla furia nazista. Le proporzioni del formato, che limitano lo
sguardo e fugano la spettacolarità delle immagini, rimarcano il punto di vista del
protagonista. Ma Saul è anche il bersaglio per il fucile delle SS e per la macchina da
presa. Sulla giacca che indossa è verniciata una ics rossa che lo rende immediatamente
distinguibile e vulnerabile dentro l'inferno della soluzione finale. A un passo dalla
rivolta armata messa in atto dai sonderkommando ad Auschwitz nel 1944, la macchina
da presa converge sullo sguardo di Saul che ha scelto un'altra forma di resistenza:
preservare l'integrità e la sacralità del corpo di suo figlio. L'ossessione con cui Saul
persegue quella volontà lo tiene ostinatamente in vita e colma istericamente il trauma
di cui è stato complice obbligato e incolpevole. Alle cremazioni sommarie,
indifferenti alla liturgia e al commiato, contrappone un gesto umano che lo conduce
attraverso una Babele concentrazionaria in cui uomini e donne, ridotti a sofferenza e
bisogno, sopravvivono e muoiono per un sì o per un no. In un clima di isteria e
assuefazione collettiva, che il regista restituisce con la sfocatura, emerge Saul che
perso a se stesso non ha ancora perso tutto.
Dal fondo in cui giacciono uomini ridotti a 'pezzi' dalla fabbrica della morte, Nemes
separa e mette a fuoco Saul, ricostruendo con lui e attraverso i suoi spostamenti
all'interno del campo un luogo al di fuori di ogni senso di affinità umana. Son of
Saul è un incubo a occhi aperti in cui un padre ha perso la battaglia con la vita ma
vuole vincere quella con la morte, ricomponendola con l'assistenza di un rabbino. La
follia nazista non può essere nascosta a quel figlio (probabilmente) mai avuto ma così
necessario a riparare il senso di colpa indotto dai carnefici alle loro vittime. Un figlio
che accende la sua unica intenzione e il suo ultimo sorriso.
2 febbraio 2017
Il piano di Maggie di Rebecca Miller
Con Greta Gerwig, Julianne Moore, Ethan Hawke, Bill Hader, Maya
Rudolph. Travis Fimmel, Wallace Shawn, Alex Morf, durata 98 min. USA 2015. - Adler Entertainment
Il padre è Arthur Miller, la madre una nota fotografa austriaca, il
marito si chiama Daniel Day Lewis: ecco a voi Rebecca Miller,
poliedrica artista trasmigrata dalla pittura alla letteratura e al cinema,
senza tuttavia disperdere il suo talento grazie a un mondo poetico
coerentemente centrato su un tema: un’idea di donna, in quanto individuo con una sua personalità,
che non teme di avventurarsi nell’esplorazione di se stessa e degli altri, cercando di fare la cosa
giusta anche se può comportare un costo.
La novità è che al quinto film, basato su un romanzo inedito di Karen Rinaldi, la Miller ha virato su
un più deciso registro di commedia: Il piano di Maggie è una sofisticata pochade ambientata nella
New York intellettuale del Greenwich Village, dove ci si parla volentieri addosso, disquisendo di
massimi sistemi e dimenticando di andare a prendere i figli a scuola.
Partita con il piano di concepire un figlio in provetta tramite lo sperma di un impacciato produttore
di cetriolini, la giovane Maggie cambia strada quando si scopre invaghita di un prof di antropologia
e scrittore frustrato, infelicemente sposato a un’universitaria di fama internazionale. Ma la
convivenza a lungo andare incrina il rapporto, cosicché il (secondo) piano di Maggie diventa quello
di rimettere le cose al loro posto. Ci riuscirà? Ed è sensato pensare di dare una spinta al destino
quando è in gioco l’imprevedibile variante degli affetti?
Per la sua vocazione a manipolare le questioni di cuore, Maggie potrebbe somigliare un po’ alla
Emma di Jane Austen, non fosse che in lei non c’è alcuna traccia di pervicace sicumera. Sempre
gentile d’animo, Maggie è un bizzarro cocktail di serenità e malinconia, ingenuità e saggezza,
vaghezza e determinazione, semplicità e intuizione; e Greta Gerwig se ne rivela l’interprete ideale
per la naturalezza con la quale ne metabolizza le tante contraddizioni.
Facendo slittare i propri personaggi su un analogo, sfumato scivolo di ribaltamenti e ripensamenti,
Ethan Hawke e Julianne Moore completano felicemente l’insolito triangolo; e la Miller gioca questo
(molto contemporaneo) girotondo di confusione esistenziale con un’ironia e una leggerezza che
lasciano trasparire un tessuto non banale di sentimenti.
9 febbraio 2017
Neruda di Pablo Larraine
Con Luis Gnecco, Gael
García Bernal, Mercedes Morán, Diego Muñoz, Pablo
Derqui. Michael Silva, Jaime Vadell, Alfredo
Castro, Marcelo Alonso, Francisco Reyes, Alejandro
Goic, Antonia Zegers, durata 107 min. - Argentina, Cile,
Spagna, Francia 2016. - Good Films
Che Neruda non voglia essere un’agiografia, lo si capisce fin
dalla prima scena. Il poeta, ospite a una qualche serata di gala,
entra in bagno e – mentre piscia – discute con alcuni politici che
gli danno del traditore. Li manda a quel paese e con grande serenità esce dalla toilette. È
l’inizio della fine. Pablo Neruda alla fine degli anni Quaranta è senatore della Repubblica
cilena sotto il governo di Gabriel González Videla (qui interpretato daAlfredo Castro) di cui
è fervente sostenitore. La repentina svolta autoritaria della politica del Presidente porta però
il poeta – esponente di spicco del partito comunista – a diventare uno dei più accaniti
oppositori del governo finendo per convincere Videla a ordinarne l’arresto.
Larraín parte da qui per mostrare la fine dell’utopia politica di Neruda, poeta civile,
intellettuale, politico appassionato ma soprattutto comunista viscerale, avversario scomodo
della destra cilena: prima latitante e poi esiliato. Parte da qui perché il film, che è tutt’altro
che un biopic, non racconta la vita, non la poesia e nemmeno l’ideale politico di Neruda.
Ma, ancora una volta, usa il personaggio principale come un mezzo. Un mezzo per parlare
della Storia cilena e del suo rapporto incestuoso con il potere, con il dispotismo e la
dittatura. Con la differenza che qui, attraverso la figura di Neruda, il regista individua l’arte
come materia per approcciarsi al racconto, riuscendo a costruire un film dove la finzione e
la realtà si mischiano a tal punto da non consentire alcun punto di riferimento allo
spettatore.
Nella seconda parte, quando il poeta inizia la sua fuga e il film diventa (probabilmente)
quello che Larraín davvero vuole che sia, l’astrazione si compie in maniera totale. Neruda e
Peluchonneau, il poliziotto che gli dà la caccia (un Gael García Bernal strepitoso), si
rincorrono per tutto il Cile dialogando a distanza e costruendo un rapporto che va non
soltanto oltre l’impianto biografico e oltre il realismo, ma anche oltre qualsiasi possibilità di
raccontare la Storia secondo fatti ordinati o come processo uniforme.
Nel rapporto fra questi due uomini intravediamo la storia del Cile, ma anche la storia di ogni
paese che cerca la strada della democrazia passando attraverso la dittatura. L’arte tenta di
dare forma alla vita. Peluchonneau (voce narrante del film), che credeva di esistere per
annientare Neruda, capisce di essere un personaggio secondario e di esistere solo perché
esiste Neruda stesso. Ma questo non gli basta e alla fine – quando Larraín tramuta il film in
un western, con i personaggi che si inseguono a cavallo fra le valli andine coperte di neve –
chiede idealmente al poeta di riconoscergli un’identità, di dire il suo nome, di rendere la sua
esistenza degna di memoria.
16 febbraio 2017
Tangerines
(Mandarini) Un film di Zaza Urushadze
Con Misha Meskhi, Giorgi Nakashidze, Elmo
Nüganen, Raivo Trass, Lembit Ulfsak . Drammatico,
durata 87 min. - Estonia 2014. - P.F.A. Film
Nel 1990 in Abcasi Ivo e Margus provano a resistere sulla
loro terra, ambita dai georgiani e difesa dagli abcasi. Ivo,
esiliato estone, costruisce cassette per i mandarini di
Margus, vicino di casa compatriota che sogna un ultimo
raccolto prima di abbandonare il villaggio. Ivo invece non
ha mai pensato di andarsene perché in quei luoghi 'riposa'
il suo bene più prezioso. Vecchio e saggio Ivo è suo
malgrado travolto dagli eventi. Uno scontro tra georgiani e
mercenari ceceni, in cui sopravvivono soltanto due soldati, lo costringe a intervenire e
a soccorrere nella propria casa e coi propri mezzi i feriti. Di parte avversa, i due ospiti
provano a convivere sotto lo stesso tetto e sotto lo sguardo rigoroso di Ivo che
converte il loro odio ottuso in un sentimento nobile e complesso.
"La guerra è sempre stupida", scriveva Giuseppe Ungaretti ma ci sono guerre,
"particolarmente stupide" come il conflitto georgiano-abcaso esploso all'indomani
della dissoluzione dell'Unione Sovietica. In quel teatro di guerra, ficcato tra le
montagne e il Mar Nero, Zaza Urushadze cerca, scava e trova le parole (e le immagini)
per dire dell'irragionevolezza delle contese e della fermezza di due uomini che
scelgono di non disertare la loro terra e la loro vita. Selezionato come miglior film
straniero agli Oscar e ai Golden Globe, Mandarini non è un film di guerra abitato da
supereroi che cuciono punti di sutura al fronte, è piuttosto la storia di una breccia, di
una linea spazio-temporale tesa tra due fronti e una sola assurda carneficina. Costretti
dalle ferite in una zona franca, i due militari, uno georgiano e l'altro ceceno, diventano
attori di un dramma più teatrale che cinematografico, che elude la prevedibilità con un
paio di scarti narrativi e un cast di attori rari, capaci di muoversi tra sopraffazione e
compassione. Su tutti il 'padrone di casa' di Lembit Ulfsak, che abita una sede pacifica
di poesia e incarna l'onore e la necessità di comunanza nella sofferenza.
Sentire gli uomini come fratelli per il suo personaggio non è solo questione di natura
ma, in guerra, diventa ragione e verità. Resistente tra la morte e i morti, Ivo sceglie
parole, pochissime parole, decise e assolute perché sa che non c'è tempo. Una scarica
improvvisa di fuoco può abbattere un uomo che un altro ha appena rimesso in piedi,
bruciare un raccolto che un contadino ha coltivato con le stagioni, inficiare la
generosità e il coraggio di un gesto in un momento in cui violenza e disperazione
sembrano le uniche vie d'uscita. Contro l'impotenza, l'unico nemico veramente da
combattere, l'autore georgiano schiera Ivo che 'riabilita' nel corpo e nell'anima due
'nemici' che come sull'altipiano di Emilio Lussu si scoprono uomini. Nel silenzio della
sua casa e nei suoi silenzi autorevoli, i due avversari recuperano la dimensione umana
e apprendono che il 'nemico' ha a che fare con l'identità del sé, individuale o
collettivo, che il nemico non è mai portatore di un'estraneità piena e totale, anzi è
forse più spesso e più intensamente il polo di una relazione, per quanto ostile. Nella
tregua, in un momento rallentato, in quella magica sospensione, Urushadze ragiona sul
nemico che reca l'amico, sulla guerra infiltrata dalla pace, sulla segreta relazione che
rischia di collassarle nell'indistinzione.
23 febbraio 2017
Enclave di Goran Radovanović,
Con: Filip Subaric, Denis Muric, Nebojša Glogovac, Anica Dobra,
Meto Jovanovski, Cun Lajçi.
Paese: Serbia, Germania Anno: 2015 Durata: 92'
Fotografia: Axel Schneppat Montaggio: Andrija Zafranovic
Nei
cinema,
da
giovedì
27
ottobre,
il
lungometraggio Enclave del serbo Goran Radovanović: racconto
della vita di una enclave serba in un villaggio albanese del Kosovo
post-bellico. Storia di un matrimonio e un funerale in due
comunità divise dall’odio e del rapporto tra due bimbi, Nenad e
Bashkim, come specchio del conflitto e unico luogo in cui può
nascere il cambiamento.
Il film, vincitore di Bergamo Film Meeting 2016, esce nelle sale italiane distribuito da Lab 80
film. Protagonista è Nenad, un bambino serbo che vive a Vrelo, villaggio albanese nel Kosovo
post-bellico. Il piccolo abita in una frazione isolata con il padre e il nonno, gravemente malato, a
cui il bambino è molto affezionato. Ogni mattina va a scuola viaggiando in un blindato delle
Nazioni Unite, che lo protegge dalle possibili aggressioni, e nella sua aula segue le lezioni da solo
con la maestra. Tutti gli altri bambini del villaggio sono albanesi e uno di loro, Bashkim, è carico
d’odio nei confronti di tutti i serbi, che ritiene responsabili della morte del padre. Un giorno,
mentre la comunità albanese celebra un matrimonio, il nonno di Nenad muore e il bambino arriva
ad attraversare le linee nemiche pur di riuscire ad avvisare il prete. Mentre sulle strade del
villaggio matrimonio e funerale si incrociano come due universi paralleli incapaci di
dialogo, Nenad si trova improvvisamente faccia a faccia con Bashkim: nelle mani dei due bambini
la possibilità di riprodurre odio e divisione oppure di dare un piccolo, nuovo corso alla storia.
«Con questo film ho voluto indagare il nodo centrale della disputa serbo-albanese - ha detto il
regista, Goran Radovanović -, che quindici anni fa ha portato a guerra, crimini e distruzione. Io
intendo far nascere questa domanda: è possibile la coesistenza di queste comunità, in una realtà
segnata dalla presenza di enclave, isole abitate da minoranze cristiane circondate da un mare di
maggioranza musulmana? La mia risposta è di una chiarezza cristallina: l’odio, basato sulla paura
del diverso, permane ancora fra le due comunità. La paura è l’assenza di amore. Per questo l’eroe
di questa storia è un ragazzo di dieci anni che osa fare qualcosa di inimmaginabile per cristiani e
musulmani del Kosovo: cercare un amico nell’altra comunità. Ho voluto fare un film pacifista,
basato su una storia di perdono e amore».
2 marzo 2017
Fiore di Claudio Giovannesi
Con Daphne Scoccia, Josciua Algeri, Laura Vasiliu, Aniello
Arena, Gessica
Giulianelli.
Klea
Marku, Francesca
Riso, Valerio Mastandrea Drammatico, durata 110 min. Italia, Francia 2016. - Bim Distribuzione
Dafne si trova in riformatorio per aver cercato di rubare un
telefonino nella stazione in cui dormiva, sdraiata sopra una
panchina. La ragazza è un gatto selvatico con alcuni
precedenti alle spalle, una madre assente e un padre
amorevole ma inadeguato che ha conosciuto da vicino la galera. Dafne vive alla
giornata, e anche in riformatorio afferma la sua indole ribelle. Ma è anche una
creatura profondamente sensibile, capace di profonda compassione e di quella
solidarietà umana che nei suoi confronti è quasi sempre mancata. Quando incontra
Josh, detenuto nell'ala maschile del riformatorio, individua in lui un'anima gemella e
comincia a sperare in un happy ending opposto a quel destino che le è sempre apparso
segnato.
Dopo Alì ha gli occhi azzurri, Claudio Giovannesi torna a raccontare gli ultimi
concentrandosi in particolare sui più giovani e scansando la retorica e il buonismo
grazie alla forza documentaria della sua regia agile e mai edulcorata. Giovannesi è un
cavallo di razza dietro quella cinepresa che non stacca mai dai personaggi, stando loro
sul
collo
e
respirando
il
loro
stesso
respiro.
La storia di Fiore poggia sulle spalle esili (solo fisicamente) del personaggio
femminile (un trend molto interessante del nuovo cinema italiano) che la regge con la
grazia inconsapevole di un papavero di campo: il debutto di Daphne Scoccia è davvero
notevole per immediatezza e carisma, e assai credibile è anche Josciua Algeri, con il
suo accento che mescola hinterland milanese e radici meridionali con dolcezza e
tracotanza. Ne emerge il ritratto di una vitalità insopprimibile come quelli dei fiori
che crescono in mezzo al letame, o nelle fessure dei marciapiedi.
Il pregio di Giovannesi è soprattutto lo sguardo pulito che scansa istintivamente gli
autocompiacimenti di molti altri autori cinematografici. Il difetto è l'esilità di una
trama già vista, soprattutto nel cinema francofono: il personaggio di Dafne, senza tetto
né legge, ha già avuto mille incarnazioni precedenti, da Bresson a Truffaut, da Agnès
Varda ai Dardenne. Più originali la figura del padre, cui presta la consueta mestizia
Valerio Mastandrea, e della matrigna rumena, né strega né fata benefica. Daphne
Scoccia sconta purtroppo la somiglianza fisica con Astrid Berges-Frisbey,
protagonista del più coraggioso e innovativo Alaska, anch'esso assai legato all'estetica
cinematografica
(e
alla
coproduzione)
francese.
Auguriamo a Giovannesi di spingersi oltre le sue conoscenze filmiche pregresse e di
buttare la cinepresa (e il cuore) oltre l'ostacolo per trovare la propria cifra originale,
possibilmente radicata nel suo essere un regista italiano, oltre che un cittadino del
mondo.
9 marzo 2017
Suffragette
Un film di Sarah Gavron
Con , Helena Bonham Carter, Brendan
Gleeson, Anne-Marie
Duff, Ben
Whishaw. Meryl
Streep, Romola Garai, Samuel West, Geoff Bell, Natalie
Press, Adrian Schiller, Morgan Watkins, Lorraine Stanley,
durata 106 min. - USA 2015. - Bim Distribuzione
Londra 1912 Mauds Watts è una giovane donna occupata
nella lavanderia industriale di Mr. Taylor, un uomo senza
scrupoli che abusa quotidianamente delle sue operaie.
Alcune di loro combattono da anni a fianco di Emmeline
Pankhurst, fondatrice carismatica e ricercata della Women's Social and Political
Union. Solidali e militanti, le suffragette combattono per i loro diritti e per il loro
diritto al voto. Ignorate dai giornali, che temono gli strali della censura governativa, e
dai politici, che le ritengono instabili e inette fuori dai confini concessi, decidono
unite di passare alle maniere forti. Pietre contro le vetrine, boicottaggio delle linee
telegrafiche, bombe in edifici rappresentativi (ma vuoti), scioperi della fame, tutto è
lecito per avanzare la causa. Mite e appartata, Maud diventa presto una militante
appassionata e decisa a vendicare le violenze in fabbrica e a riscattare una vita che la
costringe alle dipendenze degli uomini.
A lungo e ingenuamente le abbiamo immaginate come nel film Mary Poppins, un
pugno di borghesi gentili che bevono tè e sfilano gioiose dentro le loro camicette
bianche impreziosite con fiori freschi e fasce di seta sul petto. Sarah Gavron le rivela
invece per quello che le suffragette furono davvero, un piccolo esercito armato di
operaie pronte a sabotare le loro città, a infrangere vetrine a colpi di pietra e a
collocare bombe. Questa secondo la regista inglese è la vera storia delle suffragette,
quella che la stampa dell'epoca si guardò bene dal raccontare, quella che ancora ci si
guarda bene dal raccontare nelle scuole. Suffragette non brilla per la sua forma, il
film è più scritto che messo in scena, nondimeno Sarah Gravon e Abi Morgan hanno il
merito di far conoscere questa versione dei fatti, celebrando la lotta per l'uguaglianza,
contro le molestie sessuali e la disparità salariale che scosse l'opinione pubblica
all'inizio del secolo. Morte sotto i colpi della polizia, arrestate, alimentate con forza a
causa dello sciopero della fame, dopo quarant'anni di campagne pacifiche, che
ottengono soltanto promesse infrante, le suffragette abbandonano la compostezza
indulgente e decidono per la disubbidienza civile, senza esitare a ricorrere ad azioni
radicali e violente. Ma sono donne e non lo fanno con leggerezza, diversamente dai
terroristi che uccidono innocenti, colpiranno soltanto sedi vuote ma distinte per
attirare
l'attenzione
sul
movimento
e
la
causa.
Quanto a sapere se questa violenza valesse la pena o se tanta violenza abbia infine
permesso di ottenere il diritto al voto, a riguardo gli storici hanno discordi opinioni.
16 marzo 2107
7 minutidi Michele Placido
Con Ambra Angiolini, Cristiana Capotondi, Fiorella
Mannoia, Maria Nazionale, Violante Placido.Clémence
Poésy, Sabine Timoteo, Ottavia Piccolo, Anne Consigny,
durata 92 min. - Italia, Francia, Svizzera 2016. - Koch
Media
L’azienda tessile Varazzi è in procinto di siglare l'accordo
che la salverà dalla chiusura immediata. I partner francesi
sono pronti a concludere, ma all'ultimo momento
consegnano alle undici componenti del consiglio di fabbrica una lettera che chiede
loro di sacrificare sette minuti di intervallo al giorno. Il consiglio è composto da nove
operaie e un'impiegata, più una rappresentante sindacale, Bianca, dipendente della
Varazzi da decenni. Le componenti del consiglio sono uno spaccato della forza lavoro
femminile contemporanea nel nostro Paese: c'è la ventenne neoassunta e la veterana
con figlia incinta; c'è l'immigrata africana, quella albanese concupita dal proprietario
della fabbrica, quella che prende botte dal marito e la semitossica. Anche l'impiegata è
un'ex operaia trasferita in ufficio da quando un incidente sul lavoro l'ha lasciata su
una sedia a rotelle. Questa galleria di personaggi denuncia la matrice teatrale di 7
minuti, testo scritto (anche per il grande schermo) da Stefano Massini (la
sceneggiatura è cofirmata da Michele Placido e Toni Trupia), che cerca di concentrare
in quel pungo di figure femminili quasi tutte le problematiche che affliggono le donne
in Italia. La costruzione drammaturgica segue la falsariga de La parola ai giurati,
classico del '57 firmato (per la televisione) da Sidney Lumet di cui è stato realizzato
un remake nel 2007 da Nikita Mikhalkov, 12. A Ottavia Piccolo, nei panni di Bianca,
tocca il ruolo che fu di Henry Fonda, ovvero la voce della ragione che sa penetrare le
coscienze di chi, reagendo di pancia, cerca invece la soluzione più immediata, come
Angela, l'operaia napoletana con quattro figli cui dà la presenza "pesciarola" Maria
Nazionale: ed è una scelta di casting azzeccata affidare quel ruolo a una cantante,
perché la potente voce di Angela sembra voler costantemente sopraffare quella pacata
di Bianca. L'altra cantante del cast è Fiorella Mannoia nei panni di Ornella, coetanea
di Bianca e memore di un tempo in cui i diritti degli operai erano tutelati: la sua prova
di attrice è notevole e inaspettata. Ambra Angiolini presta la sua incazzatura alla
combattiva Greta e Violante Placido è un'insolita contabile dall'aspetto dimesso.
Nel cast anche alcune attrici francofone (7 minuti è una coproduzione italo-francosvizzera): Clémence Poésy, Balkissa Maiga e la potente Sabine Timoteo, oltre ad Anne
Consigny nei panni della manager responsabile dell'acquisizione della fabbrica.
Impossibile non pensare, oltre a La parola ai giurati, a Due giorni, una notte dei
fratelli Dardenne, ed è proprio al cinema dei Dardenne, ma anche a quello di Ken
Loach e Stéphane Brize, che Michele Placido guarda nell'adattare per il grande
schermo questa storia di dignità messa in pericolo dalle dinamiche economiche e da
quella legge del mercato in nome della quale si compiono oggi le peggiori
nefandezze. 7 minuti è ispirato ad una storia vera così come lo era Due giorni, una
notte, anche se entrambe le vicende accadevano oltralpe.
CINEFORUMF.IC Moviepiùpresentano
2°RASSEGNA23°EDIZIONE2016-17
MultisalaMoviePlanetBELLINZAGONOVARESE
Inizioproiezioniore21,15Ingressosoci4,00€tesseraannualeper32film5,00€
12 gennaio
19 gennaio 2017
26 gennaio 2017
2 febbraio 2017
9 febbraio 2017
16 febbraio 2017
23 febbraio 2017
2 marzo 2017
9 marzo 2017
16 marzo 2107
La ragazza senza nome
Io Daniel Blake
Il figlio di Saul
Il piano di Maggie
Neruda
Tangerines
Enclave
Fiore
Suffragette
7 minuti di Luc e Pierre Dardenne
di Ken Loac
di Lazlo Nemes
di Rebecca Miller
di Pablo Larraine
di Zaza Urushadze
di Goran Radovanović,
di Claudio Giovannesi
di Sarah Gavron
di Michele Placido
Approfondimentisuwww.cineforumilpostodellefragole.it
Contattitelefonareal3405273720email:[email protected]