Inseguendo l`avanguardia
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Inseguendo l`avanguardia
Inseguendo l'avanguardia Vi è qualcosa di affascinante nel veder svolgersi, per così dire, sotto i nostri occhi un mutamento di direzione del gusto o un revival artistico. In opere fin allora disprezzate o ignorate si scoprono qualità nascoste; i mercanti applicano i loro sistemi di pressione commerciale e cominciano gli acquisti speculativi col nome di «investimenti»; un culto prima massificato diviene rapidamente prima eccentrico e poi snob; appaiono dotte dissertazioni, perché non c'è niente di nuovo da dire sui vecchi amori; gli inserti a colori spargono la buona novella anche al pubblico più vasto. Combinandosi questi e altri fattori, nasce un nuovo gusto e quando le grandi «macchine» dei Salons ottocenteschi vengono di nuovo esposte al Louvre e gli storici arrivano a scrivere la storia delle loro «riscoperte», come noi ci occupiamo del revival d'interesse per il Botticelli o El Greco, eccoli considerare gli ultimi quindici anni di importanza cruciale. Tutti i volumi che qui prendiamo in esame contribuiscono, in un modo o nell'altro, a chiarire il fenomeno di cui parliamo. Da qualche tempo si è diffusa la convinzione che 1'interpretazione manichea dell'arte dell'Ottocento è sbagliata, o almeno è inadeguata. Anche se tutti gli artisti cosiddetti accademici fossero cattivi come si era soliti giudicarli, resta il fatto che studiare gli eroi di quel periodo — Delacroix, Courbet, Manet, gli Impressionisti, i post-Impressionisti, e così via — senza capire nulla della natura degli artisti che non ne condivisero le idee e le tecniche, è assurdo come studiare la Rivoluzione francese senza sapere niente dell'ancien régime. Per spiegare perché i grandi favoriti di oggi abbiano dovuto un giorno vincere 1'opposizione, gli storici hanno dovuto postulare 1'esistenza di una specie di mostro composito, ricco, pluridecorato e infinitamente vegeto e arzillo, che, negli intervalli dell'attività dedicata a dipingere porcherie popolarissime, passava il tempo a costringere alla fame nelle soffitte i colleghi più meritevoli. Basta un attimo di riflessione per capire che le cose non potevano andare così, ma sembra che 1'attuale iniziativa di porre rimedio a questa situazione sia stata presa di recente da vari musei americani. Infatti essi hanno tirato fuori dai magazzini, dove giacevano da anni, alcune delle loro opere «accademiche», per esporle in modo da mettere in rilievo i loro Impressionisti — così è certo avvenuto Chicago, dove ho avuto occasione qualche anno fa di vedere 1'Art Institute, e probabilmente è accaduto anche in altre gallerie — oppure hanno allestito mostre speciali, inevitabilmente squilibrate anche se intraprendenti, per offrire al pubblico la possibilità di valutare «le due facce della medaglia», come è avvenuto a Detroit nel 1954 e alla Pomona College Gallery nel 1963. Entrambe queste mostre volevano essere soprattutto di significato storico, però, dai rispettivi cataloghi risulta chiaro un mutamento di indirizzo. Al visitatore di Detroit nel 1954 si diceva che «lo scopo non è di offrire una giustificazione dell'esprit de Salon, ma di mostrare i poli opposti di quel periodo...Può essere interessante guardare di nuovo alle due scuole di pensiero rivali come ai due poli di un'epoca grande, interessante e, speriamo, istruttivo ». Arrivati al 1963 si sperava « che vedere insieme le opere del Salon e degli indipendenti indurrà a rivedere e ad affinare il giudizio critico ». Tutto fa credere che la mostra di prossima inaugurazione a Minneapolis, progettata secondo linee simili ma più ambiziose, porterà molto più vanti il processo. Nel frattempo e stata allestita a Berlino, 1'anno passato, la prima grande mostra riservata esclusivamente ai giganti dell'arte «ufficiale», con il titolo Le Salon Imaginaire. Tutte queste mostre chiariscono una volta per tutte quanto si sarebbe dovuto capire sempre: gli artisti che chiamiamo genericamente (e spesso inesattamente) «accademici» o «ufficiali» erano molto diversi per visione, tecnica e realizzazioni. Infatti 1'Accademia conservò cosi a lungo la sua influenza proprio perché 1'arte «accademica» non esisteva con una sua vera identità. Un giorno bisognerà cercare davvero con serietà di capire perché determinati artisti erano così persistentemente esclusi dai Salon, e dopo questa operazione probabilmente Namier si rivelerà una guida più utile di quegli storici che interpretano in termini di ideologia i fatti storici. Intanto, e con velocità crescente, pubblicazioni di tutti i generi cominciano a esplorare questa terra sconosciuta. Quando nel 1949 uscì uno dei primi volumi dedicati a 1'Art Officiel (Le Point, con introduzione di Francis Jourdain), la spaventosa scelta delle illustrazioni mirava senza dubbio a suscitare il riso. Ma questa prima reazione e ormai superata, a giudicare dall'aumento vertiginoso dei prezzi della pittura accademica negli ultimi anni. Per la verità quegli amatori che hanno scoperto come un Couture o un Meissonier possa essere più gradevole di un tardo Sisley o anche di parecchi costosissimi Renoir, devono per forza essere piuttosto restii a discutere di tutto questo fenomeno, perché ben presto anche questi artisti saranno avviati sulla strada degli Impressionisti e quindi saranno fuori della portata di tutti, salvo i più ricchi. Si tratta di una manovra dei mercanti, ormai non più in grado di impadronirsi di capolavori riconosciuti e quindi costretti a proclamare i meriti degli sconosciuti? Forse, però va rilevato che fu proprio un mercante (Lebrun) a sostenere per primo la causa di Vermeer con autentico entusiasmo, e che motivi commerciali come questi indicati hanno giocato un ruolo essenziale nel provocare tutti i revival che ora ci sembrano di basilare importanza. In realtà, ogni volta che ci si trova davanti a un ri-orientamento del gusto, questo è il problema: a chi si interessa veramente dei quadri, sembra sempre che esso vada troppo in là e che lo si favorisca per motivi sbagliati. Quanti inconsistenti «primitivi» furono acquistati da privati e da musei, verso la fine del secolo scorso, mentre si disprezzavano degli splendidi quadri del Seicento! Quante croste, cavate dai fondo del barile del Barocco, spuntano oggi prezzi altissimi, mentre belle opere ottocentesche restano ignorate perché non sono di moda! E quanto tempo ci vorrà perché la richiesta di «accademici» diventi indiscriminata? « Le sue opere [di Gérôme] non sono soltanto belle, sono anche ricche di contenuto, piene di onestà, varietà e poesia » afferma Gerald Ackerman nell'edizione dell'«Art News Annual» dedicata a «L'Accademia» e altrove, in quella stessa sede, Madame Burollet ci garantisce che «possiamo trovare, perfino al Pantheon e al Capitol di Tolosa, opere squisite dipinte con mano sicura da Tean-Paul Laurens o Benjamin Constant». Entrambi i saggi ci esortano con intelligenza a un riesame ed entrambi si pongono in una posizione che paradossalmente possiamo definire di estrema sinistra, per sostenere 1'estrema destra. Infatti la valutazione di qualsiasi nuovo genere artistico può scegliere fra due alternative: o è una reazione violenta contro il gusto corrente o rappresenta una specie di compromesso con lui. Per gli appassionati maturatisi con le pennellate sciolte e libere degli Impressionisti, è abbastanza facile ammirare (se mai hanno occasione di vederli) i primi disegni italiani di Boguereau, i freschi studi di figure di Couture o Carolus Duran, i ritratti più essenziali di Bonnat, e le opere di molti altri pittori tuttora scandalosamente negletti. Ma con le dure superfici lucide di Gérôme ci vuole tutt'altro approccio, ed è probabile che restino più ostiche a una genuina ammirazione, anche se Ackerman dichiara che « Gérôme e Meissonier sono i veri eredi di Vermeer ». Lo stesso Ackerman ha indagato, in altra sede, sui rapporti personali e artistici fra Gérôme e artisti la cui fama potrebbe ancor oggi apparire offuscata dal minimo sospetto di una simile compagnia. Infatti uno dei miti più potenti nella prima metà del Novecento è stato quello che «1'Accademia» dovesse contrapporsi per forza a una «Avant-Garde» nemica inconciliabile. È un assunto che non dispone di nessuna validità storica. Sia Milton J. Lewine che Jacques Thuillier precisano in queste pagine come le accademie sei e settecentesche di Bologna e di Parigi fossero, loro stesse, in certo senso, «avant-garde», anche se né 1'espressione né quanto noi consideriamo il fenomeno vero e proprio, sono apparsi fino all'Ottocento inoltrato. Nel numero di «Art News Annual» riservato all'Avant-Garde, che si appaia in certo modo a quello sull'Accademia, Linda Nochlin prosegue nell'esame del termine coniato dal fu Renato Poggioli e diventato centro di attenzione in questi ultimi anni. Ma, anche se si può dimostrare che già nel 1825 Saint-Simon scriveva di un'avant-garde culturale, personalmente non sono convinto che gli esempi di Courbet e altri artisti della metà Ottocento, citati dalla Nochlin, servano molto a comprendere quella che noi oggi vediamo come avant-garde. Coubert lavorò in un fulgore di pubblicità. Le sue opere, accettate o respintemdal Salon, glorificate o ridicolizzate, attiravano comunque compratori, e fra di essi persino lo Stato. Solo verso il 1880 e nel decennio seguente troviamo pittori validissimi lavorare in quasi totale isolamento rispetto al grande pubblico, e sono proprio le conseguenze di questo isolamento nelle loro diverse personalità a generare il fenomeno dell'avant-garde. Courbet pensava che il realismo fosse 1'arte del suo tempo; invece Van Gogh, Seurat e i pittori della loro generazione, guardavano continuamente al futuro. Courbet, Manet e gli Impressionisti volevano tutti piacere al pubblico; i loro successori fecero di tutto per cercare 1'isolamento. Fino al decennio intorno all'80 i pittori tenevano moltissimo ad avere dei seguaci e a veder diffondersi il loro stile; invece Seurat (e Cézanne) conservavano gelosamente i loro «segreti»; quanto a Picasso e Braque è ben noto quanto fossero restii ad esibire le loro opere cubiste. E si potrebbe dare molti altri esempi della impostazione mentale assolutamente nuova con cui operavano gli artisti dopo la generazione degli Impressionisti. Eppure anche durante 1'apice della vera avant-garde, fiorente fra gli anni '80 e il 1914, non si perse del tutto il contatto con 1'Accademia. Sia Gauguin che Van Gogh erano incantati dalle opere di Puvis de Chavanne, e ora la costante indagine appunto sui rapporti fra avant-garde e «accademia» costituirà uno dei frutti più utili del rinnovato interesse per la pittura dei Salon. Quasi tutti gli storici ormai possono offrire una antologia di reciproci prestiti, e tutti sappiamo come la celebre battuta di Degas — «ci sparano addosso, ma ci vuotano le tasche » — si riferisca a un atteggiamento non proprio unilaterale. Tutti e due i volumi dell'« Art News Annuals » qui recensiti contengono accostamenti di questo genere molto stimolanti, e forse il più interessante, è la teoria di Linda Nochlin, secondo cui L'Atelier di Courbet potrebbe essere collegato con i dipinti Fourieristi dell'allora decantato Dominique Papety. Quando si parla di Accademia e Avant-garde è inevitabile vedere ripresentarsi il problema di Manet, che spesso sembra esitare, a disagio fra 1'una e 1'altra; e in questi volumi il sue nome ritorna spesso. Vi si dicono di lui cose strane, a cominciare dall'introduzione di Hess, il quale afferma che egli rifiutò la Legion d'Onore. Povero Manet! Dopo essere stato disprezzato dai suoi amici per aver tanto aspirato a quel riconoscimento mondano, che il Presidente Grévy gli concesse a malincuore {Manet! Ah! Non, par exemple! Jamais de la vie), adesso se lo vede strappare dal petto in un libro dedicato all'Accademia. Ma la sua celebrità postuma è stata ancor più strana dell'accoglienza ricevuta in vita, come meglio di tutto dimostra il numero di « Art Forum », tutto riservato da Michael Fried all'esame delle sue prime opere. È difficile resistere alla vivacità contagiosa di questo testo e chiunque abbia interesse per la Francia dell'Ottocento non deve lasciarsi scoraggiare dal tono cosi chiaramente tecnico, perché Fried spazia largamente, fornendo notizie avvincenti su argomenti come lo chauvinismo di sinistra e il revival delle marionette. Ma la sua interpretazione di Manet è un'altra questione, e va detto subito che o sara considerata un contributo elettrizzante e fondamentale alia comprensione dell'artista o sara condannata come frutto di una cosi grossa esagerazione da avvicinaria a teorie come quella che ritiene Bacone il vero autore di Shakespeare. Personalmente, nonostante tutta la sua capacita di vedere i valori reali, sto per la seconda tesi. Fried inizia con i ripetuti imprestiti dall'arte precedente, che costituiscono una componente ben nota dell'arte di Manet nelle composizioni con figure e che, per qualche recondite motivo, preoccupano i suoi ammiratori. Respingendo altre precedenti teorie, intese a spiegare tali prestiti, 1'autore afferma che fra il 1860 e il 1865 Manet era ossessionato dal bisogno di inserirsi in un posto suo nella tradizione pittorica francese, e che proprio a questo scopo egli « cito » piu volte dettagli derivati da Le Nain e, soprattutto, Watteau. Fried ci esibisce una massa di interessanti documenti per provare come in quegli anni proprio questi due pittori fossero considerati la quintessenza del « francese »; e con un gioco di prestigio brillante, ma per me non convincente, sminuisce i piu evident! debiti di Manet verso Raffaello, Giorgione, Velazquez, e altre fonti note, cercando invece di stabilire un piu « fondamentale » o « definitive » rapporto con 1'arte francese del Sei e Settecento. « Manet deve aver pensato... » scrive a un certo punto, « che finalmente tutto andava al posto giusto ». Tutto va al posto giusto per lui, questo e certo, ma per altri storici resta difficile accettare che il Ritratto dei genitori dell'artista sia fondato su Forge e Repos de Paysans di Le Nain, e che la posa del Bevitore d'assenzio sia inconcepibile se non lo si basa su L'lndifferent di Watteau. Non e questa la sede per una confutazione particolareggiata, che comunque almeno mille accademici staranno preparando in questo momento; c'e da sperare che, quando verra il contrattacco, essi riconoscano, se non altro, 1'audacia che caratterizza 1'immaginazione (o forse la fantasia?) del signer Fried, un'audacia grazie alia quale piu e piu volte riesce a illuminare i problemi che affronta. Per i due volumi dell'« Art News Annual » da lui creati, Hess ha lasciato le redini sul collo agli autori che vi hanno collaborate e non tutti i testi sono pertinenti ai temi dichiarati, Accademia e Avant-garde; tuttavia e riuscito a ottenere alcuni articoli (e illustrazioni) cosi interessanti che lamentarsi della scelta del materiale sarebbe meschino. Abbiamo gia accennato ad alcuni di questi articoli, e ve ne sono moiti altri che meritano grande attenzione in particolare « The Apples of Cezanne » (Le mele di Cezanne) di Meyer Shapiro. Tra i piu avvincenti e il saggio di Harold Rosenberg sulla « Academy in Totalitaria» (Accademia nei regimi totalitari), che compie accostamenti crudeli, ma significativi, tra Germania nazista, Russia stalinista e Cina maoista. Proprio sullo sfondo di questo saggio e di Notes on a Lost Avant-Garde: Architecture, U.S.S.R. 19201930 di Kenneth Frampton, insieme ai pochi manifesti russi dell'avvincente antologia pubblicata dal Museum of Modern Art, proprio su questo sfondo va preso in considerazione il contributo di Tohn Berger sullo scultore sovietico Ernst Neizvestny. L'interesse nasce dal testo piu che dalla scultura, poiche — come dichiara lo stesso Berger — pochi lettori, e forse nessuno, avra potuto vedere Ie opere e, se anche Ie fotografie non rivelano assolutamente in Neizvestny un grande artista, sarebbe ridicolo cercare di valutarne 1'importanza solo in base alle riproduzioni. Berger, come nel libro su Picasso, inquadra abilmente 1'artista nell'ambiente del suo paese, poi passa a darci un panorama molto rapido e selezionato dell'arte russa; essendone stato omesso riferimento al Mir Iskusstva (Mondo dell' Arte) e al favoloso contributo di pittori russi alia scenografia teatrale all'inizio del Novecento, questo panorama risulta non solo molto piu tetro di quanto sia stato in realta, ma esagera anche il peso dell'impegno sociale insito nella tradizione russa. Invece Berger e indiscutibilmente abile nel convalidare il ruolo onnipotente giocato nella vita artistica russa dall'Accademia e simili enti, fondati da Stalin, che riescono benissimo a unire tutti gli svantaggi tradizionali di queste istituzioni con 1'inesistenza di qualsiasi vantaggio. Nel loro atteggiamento verso il nuovo riecheggia quello delle Accademie ottocentesche nel tempo del loro fulgore — «perche lo Stato accetti simili porcherie, dobbiamo proprio essere alia degenerazione morale » aveva proclamato Gerome, quando si stava ancora discutendo sul futuro del lascito Caillebotte al Louvre, con i capolavori degli Impressionist! — ma essi detengono un potere ben piu grande e una ben piu grande influenza e possono a volte comportarsi come la chiesa nella societa medievale, facendo uso del braccio secolare dello Stato per condurre Ie loro guerre contro 1'eresia. Non che lo Stato sia difficile da persuadere, dato che il non-conformismo artistico lo si e ormai associate, molto piu che nella Francia ottocentesca, all'opposizione politica. « Erano sbagliati i sistemi usati da Stalin, ma non I'arte », urio Kruscev a Neizvestny durante il famoso incontro del 1962, e per quanta rozzo potesse diventare il linguaggio krusceviano davanti a una scultura che non capiva, non si puo dubitare che Ie sue reazioni fossero genuine e rappresentassero in sintesi non solo quelle della maggioranza dei suoi eompatrioti, ma anche del grosso pubblico in quasi tutti i paesi del mondo. Ma il nucleo della tesi di Berger e che 1'equazione delle autorita fra ortodossia politica e ortodossia artistica e un grossolano errore. Se solo all'Accademia fosse consentito muoversi per proprio conto, egli sottintende... Che accadrebbe, allora? Berger sembra conoscere cost bene Neizvestny che, quando ci spiega come egli non intenda appartenere a nessuna avantgarde (nel sense limitative, ma credo storicamente esatto, in cui io stesso ho usato il termine), dobbiamo dedurre che ci riferisca Ie idee dell'artista. Neizvestny e in realta, ci dice, proprio il tipo di artista che sia un'Accademia che un governo veramente socialista dovrebbero sostenere; probabilmente e in questa luce che possiamo capire la sua affermazione: « la scultura di Neizvestny... rappresenta una fase della lotta contro 1'Imperialismo ». Anche se bisogna riconoscere che il commento suona piuttosto ironico nel contesto del resoconto, dello stesso Berger, delle lotte sostenute dall'artista molto piu vicino a casa sua. A giudicare dalle fotografie, 1'opera di Neizvestny non e certo « modema » nel senso che noi diamo al termine, e Berger rileva che anche quarant'anni fa sarebbe apparsa « antiquata ». Infatti deriva da un linguaggio espressionistico in corso fra il 1915 e il 1925. Come mai? La risposta ovvia sarebbe che quello fu 1'ultimo periodo, prima del divieto imposto dallo stalinismo, in cui la tradizione russa pote assimilare gli sviluppi contemporanei, all'interno e dall'esterno; e che oggi, con il relative disgelo sopravvenuto, i nuovi artisti sovietici naturalmente tornano a quella tradizione. Per confutare questo concetto, Berger ci offre una delle sue argomentazioni piu abili. Sostiene, cioe, che qualunque artista (e suppongo che cio comprenda gli occidentali, oltre ai russi) voglia afrrontare la scultura figurativa monumentale di carattere pubblico si sente probabilmente costretto a guardare a quel periodo, dato che, salvo poche eccezioni come Henry Moore, gli artisti da allora si sono interessati poco a questo genere. Indubbiamente 1'idea che I'arte debba essere in perenne movimento e non possa mai permettersi, co- me la moglie di Lot, di guardare indietro, e una delle piu nefaste che la nostra societa ha ereditato dall'avant-garde. La storia della pittura e della scultura sono fitte di continui esempi di felicissimi revival, in cui uno stile « moderno » e nato basandosi sulle esperienze di generazioni molto precedenti. Nessuno pensa di rimproverare a Neizvestny di non assomigliare a qualche eroe corrente di Madison Avenue o Bond Street. Questo volume, insieme a quelli su Guttuso e Picasso, forma una specie di trilogia sui problemi dell'artista di sinistra nella nostra societa. Tutti e tre contengono idee stimolanti, ma i lettori che alia parola di Che Guevara, Franz Fanon e compagni danno molta meno importanza dell'autore, giudicheranno che la parte migliore, in tutti e tre, e la descrizione intelligente e sensibile delle opere d'arte; che cio resti vero anche quando gli originali non sono visibili, da la mis'ura del talento del signer Berger. (Recensione a «Art News Annual», XXXIII, The Academy: Five Centuries of Grandeur and Misery from the Carracci to Mao Tse-Tung, a cura di Thomas B. Hess e John Ashbery; «Art News Annual», XXXIV, The Avant-Garde, a cura di Thomas B. Hess e John Ashbery; Michael Fried, Manet's Sources - Aspects of His Art, 1859-1865, «Art Forum», marzo 1969; World and Image: Posters from the Collection of the Museum of Modern Art, Museum of Modern Art, New York, Graphic Society; Joun Berger, Art and Revolution: Ernst Neizvesfny and the Role of the Artist in the USSR, Pantheon, pubblicata in «The New York Review of Books » del 10 luglio 1969.)