Le figure geometriche nell`arte rupestre

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Le figure geometriche nell`arte rupestre
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Le figure geometriche nell’arte rupestre
“La geometria precede la Creazione delle cose ed è eterna come lo Spirito di
Dio; anzi la geometria è Dio stesso e gli ha fornito gli archetipi della
Creazione del mondo”.
Così scriveva l’astronomo tedesco
Giovanni Keplero nel suo “Harmonices
Mundi” agli inizi del XVII secolo,
mettendo in evidenza il concetto di un
universo strutturato geometricamente da
Dio. Questo pensiero era già stato
affrontato nel 360 a.C da Platone nel
Timeo. Platone considerava le forme
geometriche delle “forze vive” che era
necessario organizzare e disporre in un
certo ordine al fine di progredire in un
proprio percorso conoscitivo.
Il grande filosofo vide nel “Demiurgo” l’Artefice Divino che sa plasmare e
organizzare il “caos” originario in “cosmos”: un insieme ordinato, modello
ideale di Creazione nella sua perfezione.
Così Platone ricorda l’atto creativo compiuto da Dio: “con un movimento
circolare lo modellò come una sfera, quindi gli conferì la forma che fra tutte
era la più perfetta”.
Il cerchio fu concepito, dunque, come la figura piana da cui tutte le altre
derivano e le forme geometriche che ne scaturiscono si ritrovano
strettamente associate al concetto di “ordine” ben espresso da quelle stesse
immagini.
Nell’antica Roma era l’Augure o Sacerdote a tracciare un cerchio sul terreno
con la verga magica (il “lituus”) e lì, in quello spazio sacro circoscritto, vi
fondava il Tempio; questo semplice
atto, corredato da tutta una serie di
ritualità legate al concetto di
abbondanza e di fertilità spirituale,
proveniva da una conoscenza
sapienziale arcaica che ritroviamo
già agli albori dell’esistenza umana.
L’uomo fin dalla più remota
antichità ha sempre sentito dentro di
sé il desiderio di riprodurre quella
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perfezione divina, tracciando dei
segni sulla pietra. Le prime
manifestazioni della sua capacità
espressiva sono da ricercare
intorno al Paleolitico nel quale si
possono distinguere tre fasi
iconografiche fondamentali che
si svilupparono tra 40000 e
11000 anni ora sono: la prima
fase riportò alla luce segni
semplici come tratti, linee, forme
circolari; la seconda fu caratterizzata dalla ricerca del movimento e dalla
rappresentazione di figure stilizzate e infine nella terza fase se ne mise in
rilievo il volume.
L’etimologia del termine Paleolitico, dal greco “palaios” che vuol dire
“antico” e “lithos”, “pietra”, ovvero “età della pietra antica”, mette in
evidenza quel lungo periodo preistorico, caratterizzato dall’impronta umana
sulla roccia.
Le due principali aree geografiche, in cui si è espressa quella particolare
creatività artistica, furono la franco-cantabrica e la mitteleuropea, ma
possiamo ritrovare un’espressione di graffismo non molto dissimile anche in
Siberia, in India, in Brasile, in Argentina e perfino nell’estremo sud
dell’Australia; queste notizie fanno supporre che nel Paleolitico diverse
popolazioni abbiano fatto riferimento ad un’ “unica matrice” artisticosapienziale, che poi si è
sviluppata in parallelo
in diversi continenti del
mondo,
pur
mantenendo la propria
caratteristica
individuale.
Emmanuel Anati,
archeologo fiorentino,
mette in evidenza che
l’arte figurativa di quei
popoli non era disgiunta
dalla musica, dall’abilità
nel muoversi, dalla
danza e dal decorare il proprio corpo; lo studioso afferma che è importante
procedere in una ricerca comparata di questi aspetti per poter giungere alla
conoscenza dei contenuti concettuali di quelle civiltà.
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Questo studio porterà a
scoprire l’esistenza di una
fenomenologia della creatività
artistica primordiale con regole
universali che si ripetono in
ogni cultura; il segno diventa
così la testimonianza di una
determinata realtà ed anche un
eloquen te, m a s ilen z ios o
mezzo per comunicarla.
Quei graffiti rupestri del
Paleolitico rappresentano una
delle prime forme di “scrittura”; si potrebbe parlare di una vera e propria
“scrittura delle pietre” che all’inizio si manifesta con semplici linee
geometriche che vengono impresse in tratti paralleli, oppure a zig zag o a
semicerchi concentrici, ma che poi in epoche molto successive assumeranno
l’identità di “pittogrammi”; sembra incredibile ma quelle forme dipinte e
incise sulle pareti decine di migliaia di anni fa, prima ancora che fossero
concretamente inventati i sistemi di scrittura, furono già da allora destinate a
fini comunicativi.
Quei tratti geometrico-astratti diventeranno così i segni convenzionali per
trasmettere azioni e concetti, una specie di “lingua visiva”, la cui decifrazione
non era però accessibile a tutti.
Siegfried Giedion, storico dell’arte, afferma che i grandi complessi di simboli
presenti nell’arte rupestre, diventano decifrabili solo per coloro che hanno
seguito una via conoscitiva legata ad una ritualità di tipo iniziatico. Questa
affermazione trova concordi anche gli stessi archeologi i quali individuarono
in quei luoghi inabitabili e
con difficoltà d’accesso, dei
veri e propri “santuari” nei
quali si celebravano segreti
riti di iniziazione.
L’arte parietale era inserita
nella camera più sotterranea
della grotta, quella più
distante dall’apertura di
accesso e, in molti casi,
senza la possibilità di
utilizzo di una fonte di luce
diretta, cosa che metteva in
evidenza l’abilità
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dell’individuo che eseguiva quei lavori.
Due erano i temi ricorrenti che venivano impressi: un tema cosmologico ed
uno legato al concetto di fertilità; un linguaggio di non facile comprensione
che si avvaleva di tecniche pittoriche precise che prevedevano anche
l’utilizzo di colori come l’ocra, il rosso e il nero, ottenuti dalla polverizzazione
di minerali.
Da tratti geometrici appena abbozzati,
presenti nella prima fase del Paleolitico,
la mano dell’uomo passò a delineare
segni sempre più organizzati, per poi
arrivare a dar vita a figure attinenti al
mondo in cui viveva, ma sempre con
l’intento, da parte dell’artista, di voler
andare oltre la materia, oltrepassarla,
varcandone la difficile soglia per mettersi
in contatto con arcaiche divine
corrispondenze.
Troviamo esempi di arte paleolitica in
ben trecentocinquanta località europee
ed in particolar modo in Francia,
Spagna, Italia e Germania.
In Francia sono stati individuati
centosessanta siti dislocati tra le regioni
del Perigord, della Dordogna, del Quercy,
dell’Ardeche, dell’Ariege e dei Pirenei; tra questi le grotte di Lascaux,
risultano le più famose.
La grotta di Lascaux, chiamata anche la “Cappella Sistina” della preistoria,
perché considerata uno dei capolavori dell’arte paleolitica, è situata in
Dordogna sulla riva sinistra del fiume Vezère, sensibilmente distaccata dagli
altri siti. La sua cavità sotterranea, risalente a circa 17000 anni fa, si sviluppa
per una profondità di 250
metri; anche in questo caso
le raffigurazioni sono molto
distanti dall’apertura di
accesso e vi si arriva
scendendo con una scala di
corda per un pozzo
profondo m.6,30.
Sulle pareti e sul soffitto
sono impressi centinaia di
animali; la caccia, in
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quell’epoca, non solo rappresentava un
importante mezzo di sussistenza, ma anche
l’espressione socio-culturale di allora,
strettamente legata ad un comune interesse
propiziatorio.
I graffiti di Lascaux testimoniano l’opera di
individui molto evoluti e quelle centinaia di
animali sembrano contenere un importante
messaggio astrologico-religioso.
L’astronoma Chantal-Wolkiewiez ha visto
in questo “fiume” di mammiferi che scorre
lungo le pareti della grotta, una “mappa
celeste”. La studiosa ha individuato in quella successione di tori, cavalli,
vacche, bisonti e stambecchi presenti sulla volta e sulle pareti della grotta,
una corrispondenza con le costellazioni zodiacali; lei stessa, grazie ad una
strumentazione adatta, ha potuto constatare che i punti più marcati che
contrassegnavano i contorni di quegli animali, coincidevano perfettamente
con gli asterismi stellari.
Secondo l’astronoma quel circolo di figure “era
una ricostruzione del cielo stellato in cui le
costellazioni erano l’immagine delle loro
divinità”. Lei stessa ricorda che l’artista aveva
voluto perpetuare “un’idea di trasformazione e
di rinascita”, un cambiamento sostanziale della
essenza umana che avveniva dopo un percorso
disseminato di prove rituali. Infine è
interessante constatare che le cerimonie religiose, i riti d’iniziazione e di
invocazione agli dei, venivano celebrati in una sala della grotta piuttosto che
in un’altra per la sua particolare disposizione rispetto al firmamento.
Ad aggiungere ulteriore sacralità a quel luogo, l’etno-astronoma francese ha
potuto constatare che quelle raffigurazioni di tori, bisonti e cavalli, erano
state dipinte in modo che
al tramonto del Solstizio
d’estate venissero
rischiarate dai raggi del
sole morente che filtrava
attraverso un’angusta
apertura;
non
dimentichiamo che nel
Paleolitico il Solstizio
d’estate era un periodo
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speciale che serviva come punto di riferimento per la misurazione del tempo.
In quelle figure colpisce l’ordine con il quale sono state dipinte: un ordine che
le ha fatte disporre su vari livelli, una sopra
all’altra; infatti gli studiosi si sono accorti
che, quasi a voler evidenziare quest’aspetto
di “rinascita”, ogni immagine concorre a
formarne delle altre. Ad esempio nella
testa del Toro, il Grande Bue Nero che
domina la scena, c’è un’altra testa e dentro
a questa un’altra ancora e c’è chi è riuscito
a contarne un numero considerevole.
La geometria anche in questi straordinari
graffiti è ben presente. La testa del Toro è
di forma trapezoidale, molto più piccola rispetto al resto del corpo; le zampe
posteriori dell’animale presentano una forma a scacchiera difficilmente
riscontrabile in altri dipinti e l’intera figura ha la dimensione di un
parallelepipedo.
In oltre gli archeologi si sono accorti che il
contorno della figura del Toro è costituita da
un grande numero di frecce dalle dimensioni
più fantasiose: “dritte, curve, salenti,
discendenti, triple, a cuore, a coda larga, a
campo pieno o solo accennate” e che è stato
utilizzato un colore per coprire la scritta che si
intravede sul suo corpo; probabilmente le
lettere restavano decifrabili solo per chi era in possesso di quella stessa
conoscenza, riconfermando l’importanza del dipinto e del luogo.
Tra le grotte rupestri più conosciute della Spagna, quella di Altamira è la più
famosa. Anche in questo caso si tratta di una serie di figure astratte come
punti e linee e di una sequenza di animali come bisonti, cavalli, daini e cervi.
Il ritrovamento di quelle
pitture ed incisioni, risalenti
alla seconda fase del
Paleolitico, avvenne nel 1879
grazie al naturalista
Marcellino de Sautuola. In
quell’occasione il mondo
accademico non riconobbe la
scoperta di quei graffiti,
dichiarandola opera di un
falsario.
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Nel mondo culturale di allora la
teoria evoluzionistica di Darwin era
diventata il modello ideologico a cui
attenersi, quindi il mondo
accademico e la Chiesa di Roma
non volevano accettare la realtà che
popolazioni primitive potessero aver
raggiunto una così alta capacità
artistica.
Invece anche la grotta di Altamira
resta tutt’oggi un segreto santuario, nel quale capaci artisti riuscirono a
decorare la volta con tecniche pittoriche innovative sfruttando addirittura le
pieghe naturali della roccia per dare rilievo a quelle figure: proporzioni,
masse, volumi, e colori si trovarono fuse in un naturalismo figurativo degno
di competere con le espressioni artistiche di ogni epoca.
Anche in Italia esistono grotte rupestri e incisioni su pietra risalenti a fasi
differenti del Paleolitico; una buona concentrazione la ritroviamo nel sud
Italia, in Puglia, Sicilia e Calabria ed una ancor più numerosa al Nord,
nell’arco alpino, in Liguria, nella Venezia Giulia, in Alto Adige e in
Lombardia.
Nelle Puglie la grotta Romanelli
rappresenta un’interessante testimonianza
del Paleolitico superiore; al suo interno
sono state rinvenute pietre incise con
composizioni lineari e geometriche e
soggetti zoomorfi.
La medesima tematica fu adottata anche
nella grotta dei
Cervi, rinvenuta
presso Otranto; anche in questo caso le immagini
riprodotte sembrano evolvere in forme sempre più
stilizzate fino a ridursi a semplici segni geometrici
quali croci, rombi e spirali: le figure tratte dal mondo
naturalistico diventeranno sempre più rare per dare
maggior spazio a disegni composti da linee o da
soggetti schematizzati.
La stessa corrente artistica la ritroviamo nel nord
Italia. Tra le regioni sopra citate è la Lombardia
orientale, con l’ampia vallata della Val Camonica,
quella che raccoglie il maggior numero di incisioni rupestri e Capo di Ponte,
sede del Parco Nazionale, ne è il centro principale.
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Il valore di queste testimonianze
preistoriche risalenti al finire del
Paleolitico superiore, è tale che
l’intera area è stata dichiarata
dall’Unesco, Patrimonio
Mondiale dell’Umanità.
Gli intagli su pietra furono
scoperti agli inizi del XX secolo
dal geografo Walther Laeng; da
quel momento è cominciata una
serie di studi, tutt’ora in corso,
per datare, interpretare, catalogare e classificare le incisioni di quelle aree.
Furono i Camuni, popolazione italica di origine indoeuropea, a stanziarsi in
Val Camonica subito dopo l’ultima glaciazione ed a incidere su quei grandi
massi la storia della loro vita. Sicuramente questo popolo si stabilì nella valle
non tanto per esigenze di comune sopravvivenza, ma piuttosto perché
quell’ampio territorio rappresentava la via di transito verso il nord Europa e
quindi verso la possibilità di venire a contatto con nuove culture. Quell’ampia
vallata assunse sempre maggiore sacralità e nel tempo venne considerata
“Santuario preistorico alpino”. In effetti questo
luogo mantiene tutt’oggi una sua “magia”
legata ad un particolare momento astrologico:
l’equinozio d’autunno. In quest’occasione,
quando il sole va a tramontare dietro al monte
Concarena, si forma un cono di luce che sale
verso il cielo creando degli effetti spettacolari
sorprendenti.
Nel comune di
Capo di Ponte sono
state ritrovate più di 300.000 incisioni rupestri,
ovvero segni incavati dall’uomo su superfici
rocciose levigate poste in posizione orizzontale o
lievemente inclinata. I massi sono istoriati di
simboli geometrici, dischi solari, labirinti, armi,
animali e file di esseri umani stilizzati; il consiglio
è di visitare il parco di Nequane alle prime ore
del mattino, quando la luce del sole è appena
radente, perché quelle figure e quei segni
sembrano animarsi di una nuova vita.
I Camuni hanno trasposto su quelle grandi
pietre levigate un vero e proprio patrimonio
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artistico; le scene riprodotte
presentano momenti di vita
quotidiana, di battute di caccia, e
soprattutto momenti di preghiera, resi
evidenti dalla presenza dei cosiddetti
“oranti”, figure umane schematizzate
ritratte con le braccia alzate in atto di
preghiera.
Questo aspetto religioso a quanto pare
era molto sentito presso questo
popolo; le figure incise sembrano presentarsi senza un ordine apparente, ma
guardandole attentamente si capisce quanto siano in stretta relazione tra loro
e soprattutto legate ad un preciso cerimoniale.
Si dice che quelle incisioni siano state eseguite da “sacerdoti-artisti iniziati”
che utilizzavano le figure
geometriche per comunicare
un messaggio segreto.
Le braccia alzate di quelle
piccole figure incavate nella
roccia mettono in luce come
l’uomo si deve porre davanti
al Divino e quei segni geometrici tracciati, così stilizzati e ripetitivi dovevano
racchiudere un linguaggio comprensibile per chi era in sintonia con quelle
stesse esperienze.
Chiaro è anche il richiamo ad un ideale di virilità e di
eroica superiorità a cui questo popolo aspirava: le
rappresentazioni di duelli, reticoli, labirinti e di figure
umane di più grande dimensione, confermano il
concetto di viaggio rituale che
quel popolo concepiva. L’arte
rupestre era per gli uomini del
Paleolitico la rappresentazione visiva di un mondo
soprannaturale verso il quale si sentivano
particolarmente attratti e quei segni geometrici
ripetuti, a quanto pare, erano investiti di un loro
importante significato.
La “rosa camuna” ed il “nodo salomonico” furono i
segni più ricorrenti di quelle incisioni.
Per quanto riguarda la “rosa camuna” va notato che
fu spesso riprodotta vicino o al centro di guerrieri
danzanti che sembravano volerla difendere da ogni
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aggressione; la sua forma nel tempo subì un’interessante
evoluzione tanto da venir raffigurata in tre modi
differenti: quadrilobata, a svastica e a svastica
asimmetrica.
La schematizzazione in svastica indica un movimento di
rotazione intorno al centro che a riti antichissimi che
vedono nel Sole la sola fonte di ogni energia.
Anche il “nodo salomonico” fu un segno molto spesso
riprodotto e la sua diffusione nel tempo fu tale da venire
assorbito dalla cultura celtica, nota per l’utilizzo di un
linguaggio grafico basato su nodi, intrecci e figure ondulate.
Il “nodo” ci introduce subito
nell’idea di un “legame” che può
essere inteso come vincolo che
costringe ed imprigiona, ma anche
come forza benefica che unisce, rinsalda e protegge. Presso i Camuni il
“nodo salomonico” fu interpretato come unione profonda tra il Divino e
l’umano, simbolo di ciclicità e di rigenerazione.
Oltre a questi due segni, quel popolo utilizzava figure
geometriche semplici, ma anch’esse ricorrenti, come
cerchi, spirali, quadrati, rettangoli e triangoli,
riconfermando l’idea che in quelle incisioni rupestri si
poteva celare un linguaggio silenzioso che probabilmente
aveva una sua “sintassi” ed una sua “grammatica”, un
modo di espressione che sicuramente accomunava più
popoli.
Un linguaggio simile lo ritroviamo in Sardegna ad
Oschiri, piccolo comune a pochi chilometri da Tempio Pausania. Qui,
all’interno di un boschetto a nord del centro abitato, si erge una pietra
granitica di 10 metri di lunghezza con profonde incisioni geometriche
distribuite con una precisa sequenza ed altri massi isolati che riportano le
medesime incisioni: un disegno mai visto che pone diversi interrogativi.
Su quella grande pietra granitica, che gli archeologi hanno individuato come
“altare rupestre”,
sono state scolpite
nicchie di profondità
variabile che
riproducono, in
ordine ben allineato,
quadrati, cerchi e
triangoli. Studiosi ed
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archeologi si sono molto
dibattuti sulla datazione precisa
di quei ritrovamenti e c’è chi
addirittura ha pensato che
quelle incisioni appartenessero
ad un posteriore periodo
bizantino, ma guardando il
contesto archeologico nel quale
quel possente masso si trova, ci risulta difficile accettare questa ultima ipotesi.
Non dobbiamo dimenticare che quella zona della Sardegna ha visto
l’insediamento della più antica civiltà culturale dell’isola risalente a circa
3500 anni a. C. Questa notizia confermerebbe la teoria che quei reperti
archeologici appartengano al
periodo neolitico nuragico; non
a caso quell’ “altare rupestre” è
posizionato davanti ad alcune
“domus de janas”, tombe prenuragiche che fanno pensare ad
un’area funeraria di grande
sacralità.
Ognuna di quelle incisioni
racchiude un suo particolare
significato: il cerchio, è il simbolo
di continuità ciclica nel suo
divenire; il triangolo con la punta verso l’alto è simbolo di perfezione e di
fuoco d’amore; infine il quadrato, emblema di stabilità, rappresenta il mondo
creato nella sua compiutezza. Inoltre in quei quadrati sono state individuate
delle “false porte”, antiche raffigurazioni di derivazione egizia, che venivano
utilizzate per simboleggiare il passaggio nel mondo dell’aldilà. Guardando
quel lungo masso granitico, ciò che colpisce non è tanto la lettura delle
singole figure, ma l’ordine con il quale sono state disposte; a questo proposito
alcuni archeologi hanno
ipotizzato che quei segni allineati
formino una “grossa iscrizione
enigmatica” che solo la Dottrina
Ermetica sa spiegare.
Le figure geometriche, come
abbiamo già detto, sono entità
perfette che collegano il mondo
umano con quello Celeste; il
cammino iniziatico è costellato di
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prove e quelle “false porte”, poste davanti all’entrata della “domus de janas”,
diventano il punto di contatto tra il mondo dei vivi e quello dei morti, la
sperimentazione di uno stato interiore che l’Iniziato ai misteri divini deve
realizzare.
Platone era solito affermare che Dio “geometrizza”, un’affermazione
semplice, ma che voleva ricordare con quale ordine preciso Dio ha disposto
ogni cosa. Quell’uomo del Paleolitico a quanto pare aveva una conoscenza
profonda di queste tematiche; quell’artista aveva ben intuito la magica
corrispondenza che esiste tra l’Alto e il basso, tra il Cielo e la Terra ed
utilizzava quei segni geometrici come “scalini” necessari per ritrovare l’antico
contatto Divino perso.
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“Altare rupestre” di Oschiri
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