Dura lex

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Dura lex
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Nobook Backstage
Armando
“Chicoria”
Sciotto
Dura lex
La legge non è uguale per tutti
Introduzione e cura di Tatiana Carelli
Titolo: Dura lex
Prima edizione: ottobre 2014
PROPRIETÀ ARTISTICA E LETTERARIA RISERVATA
©2014 Nobook
Email: [email protected] Indirizzo
internet: www.nobook.it Progetto
grafico: Nobook Study
ISBN 9788898591053
Tutti i diritti riservati
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Introduzione
di Tatiana Carelli
“Due cose riempiono l’animo di ammirazione
e venerazione sempre nuova e crescente,
quanto più spesso e più a lungo la riflessione
si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e
la legge morale in me.”
Immanuel Kant, Critica della ragion pratica
Inizia con un caffè e non si sa dove può portare, Chicoria.
Chicoria che si pronuncia come la pianta
cosmopolita dal ciclo perenne. Chicoria come
l’altro nome della marijuana.
Chicoria come chi vuole e riesce a cambiare.
Partita come una chiacchierata casuale, si è
presto trasformata in registrazione, diventando il desiderio di sentire questa storia,
la vita di un essere umano dalla morte alla
nascita, dal nero dell’infanzia alla luce dei
concerti. Chicoria è prima di tutto una persona, dura e pura a modo suo, non un fantoc-
cio uscito dalle mani di qualche agente senza
scrupoli, un finto-qualcuno che vaneggia per
un successo di plastica, un delinquente per
noia o un imbrattatore di nomi coi pennelli di
papà.
Chicoria è uno che la svolta l’ha dimostrata,
non ventilata, che ha inciso la sua vita sulla
pelle, sopra e sotto i tatuaggi. Un poeta della
vita urbana e suburbana.
“Dura lex, sed lex” ovvero “dura è la legge,
ma è (pur sempre) legge”. Il celebre brocardo,
massima giuridica in latino volgare introdotta
dal giurista Eneo Domizio Ulpiano, riguardava
una legge particolarmente rigorosa sull’affrancamento degli schiavi. La libertà faceva
tremare l’Impero romano.
Forse è criticabile dipingere muri e treni e
ogni spazio inarrivabile della città a colpi di
bombolette, riproducendo il proprio nome
all’infinito come necessità di gridare il proprio
esserci nel mondo, anche quando la street art
è oramai assodata come arte e presente nei
“salotti buoni”, oltre a essere libertà d’espres-
ché modificate a proprio comodo e per poteri
che hanno interessi, e mercati da condurre,
ben maggiori. Ma forse si può anche iniziare
a riflettere sulle cause e non solo sulle conseguenze. Si può pensare che la legge sia dura,
ma non che sia necessariamente da leggere
come verità assoluta.
È facile, rassicurante, puntare il dito verso vite
che non si sa da dove siano partite senza chiedersene la ragione. Non è questo il luogo dei
giudizi, ma di un percorso. Non è questo un
tribunale, ma uno spunto per capire dove sta
la legge, anche e sopratutto quella etica, e se
davvero sia uguale per tutti, non limitandoci
al J’accuse! ma vedendo come dalla merda
possa nascere un fiore, o una pianta di cicoria
che odora di maria, inevitabile riflesso di uno
Stato che non fa molto per dare soluzioni.
Chicoria è un uomo che si è guardato in faccia
e ha avuto il coraggio di continuare a cercare
una strada per comunicare, la forza d’animo
di rialzarsi per crescere in migliori direzioni.
Senza mai rinnegarsi, anche negli errori.
E ora si racconta nelle pagine che seguono.
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CHICORIA
Dura lex
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Registrazione 1
Caffè
T – Scrivi sempre a mano?
C – Certo, sempre, tutto. Per forza.
T – Perché per forza?
C – Perché io so’ un graffitaro, quindi non posso
perde la cosa della calligrafia.
T – È importante…
C – Eh... cioè ‘sta agenda è tipo di dieci anni fa,
non me ne frega un cazzo perchè io tanto la uso
uguale. Io devo scrivere.
T – Non hai mai pensato di scrivere qualcos’altro, oltre le canzoni?
C – Ci avevo provato quand’ero al carcere. Ho
riempito un quaderno così, ma non ho scritto
quasi niente, una virgola infinitesimale della vita
mia. Mi viene in mente una cosa me ne escono
altre dieci.
T – Perchè questa cosa del caffè?
C – Eh… la storia del caffè. Quattro anni, no, de
più, sei anni fa. Ero già sei mesi al carcere, e non
m’arrivava alcun avviso giudiziario. Cioè a tutti
quanti li rimandavano a giudizio, gli chiudevano le
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indagini, e io rimanevo là come uno stronzo. Senza
sapere che cazzo di fine dovevo fa’.
Quelli più vecchi del carcere mi dicevano: guarda
che te te buschi almeno dodici anni. Non scampi
da questa cosa qua. Allora mi sonno accollato il
lavoro più degradante del carcere: il “piantone”.
In pratica ero l’unico detenuto sano in una cella
e dovevo badare alle altre sei persone che erano
con me e avevano diverse patologie. Ho accettato
il lavoro e sono stato trasferito nell’ala ospedaliera
del carcere di Regina Coeli, il centro clinico.
Premetto che oltre a me altre cinque persone,
cinque ragazzi, sono stati portati per lavorare in
questo braccio con la mia stessa mansione. Tempo
ventiquattro ore e avevano tutti rinunciato, l’unico
pazzo a essersela accollata era il qui presente. Lì
non solo soffrono perche sono carcerati, ma oltretutto anche perche stanno male, chi a livello fisico,
chi a livello mentale, chi ha l’Aids ormai conclamato o chi si è bucato per una vita sulla stessa
gamba, e ormai je la devono amputare perchè è
completamente in cancrena. Ce stanno pure i vecchi, chi è malato di cuore e chi ci prova semplicemente, cioè fa finta di avere una malattia, per
poter uscire più facilmente.
In ogni caso per colpa di questi con le cardiopatie, al centro clinico non si possono tenere le
macchinette del caffè, ma io avevo evitato la perquisizione ed ero l’unico ad averla in tutto il braccio, altrimenti solo caffè in polvere diluito, bella
merda! Quindi tutto il tempo facevo macchinette
di caffè per tutto il braccio.
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Nel 2009 preparavo il caffè così, prendevo una
scatola di pelati vuota e la usavo come braciere,
strappavo un filo di lenzuolo direttamente dal lato,
perche se la direzione se ne accorge che tagli le lenzuola te le fanno ripagare (6 euro! Mortacci loro!)
poi con dei pezzi di quotidiano bagnavo il tutto
con dell’olio da cucina perche era l’unica cosa che
avevo per far combustione, una puzza, e preparavo
il caffè per tutti! Mastro focaio hahahhahah.
Nel 2008, nel 2 agosto del 2008 mi hanno catturato. Nel senso: ero monitorato.
Da tre mesi avevo finito le firme nella stessa stazione dei carabinieri che mi ha incarcerato.
E niente.
Era un venerdì sera c’era una festa allo Strike,
una festa techno, per un ragazzo che era morto,
e io stavo andando là a spacciare. C’avrò avuto
addosso una cosa come cinquanta pezzi di cocaina,
venti mezze d’erba, altri venti ventini di fumo, e
uno o due grammi di eroina. Ero pieno, ovunque
in tutto il corpo avevo roba nascosta. Io ero tossico in quel periodo, di conseguenza mi capitava
di dover tornare dentro casa tre o quattro volte
perchè mi dimenticavo sempre qualcosa e dovevo
tornare dentro a pigliarla. Ho fatto questo gioco
tipo due volte, ok, la terza volta che sono sceso giù
sono montato in macchina appena mi sono seduto
e ho acceso la macchina, ho visto i carabinieri che
entravano nella via, sparati a cannone. Ho detto:
questi sono qui per me. Ho messo la retromarcia,
ho girato la macchina, me li vedevo che mi stavano
venendo avanti a piotta. Erano per me. Ho messo
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la prima, l’acceleratore e gli sono andato incontro, con la chiara intenzione di andargli addosso.
Quelli si sono fermati: non gli conviene rompere
una macchina, perché sennò la pagano loro. Se è
un incidente e la colpa è la loro, o non sono riusciti
a evitarlo, la pagano loro. Quando beccano uno
che è uscito dai domiciliari, prendono un encomio, quando fanno una cazzata, e c’hanno torto
comunque nel codice della strada, la pagano loro;
se sfondi troppe macchine vai fuori dai carabinieri.
Quindi, quelli che hanno fatto: hanno fermato
la macchina, gli ho fatto così, ooop, me li sono
smarcati come a calcio. Il tempo che hanno fatto
retromarcia, io, il pedale a tavoletta, ho aperto i
finestrini della macchina e ho iniziato a tirare tutta
la robba così: vum vum vum vum. E lanciavo tutta
la droga fuori dall’abitacolo. Me li sono rivisti che
spuntavano. Sono arrivato in cima alla via di casa
mia. Ho girato a destra per l’Olimpica. C’era un
posto di blocco della Municipale.
Appena mi hanno visto hanno provato a fermarmi. Subito dopo i carabinieri dietro. Stavano
così, stavano. E io ancora che proseguivo con una
macchina, una Citroën AX del cazzo, una macchina di trent’anni fa che dovevi fare così per tirare
giù i finestrini.
Niente.
Alla fine credevo d’aver buttato tutto. Mi sono
fermato davanti a una pompa di benzina in piazza
Pio XI, davanti a una sala giochi che si chiama
Esterball. Mi sono fermato, ho aspettato i carabinieri che arrivavano. Quello tutto incazzato mi ha
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aperto la portiera: esci esci. Credevo d’aver tolto
tutto. Invece quando sono uscito c’era una bustina
che mi spuntava. Quello l’ha presa, e c’erano due
pezzi. Io gli ho detto che era cocaina, in realtà
era robba, era eroina per il mio consumo personale. Fumavo crack e per calmarmi usavo l’eroina.
Appena li ha trovati ha detto: « Ah mo’... »
« Che cosa mi fai così, ma che non lo sai che ho
fatto sei mesi di firme alla stazione vostra, quante
volte sono venuto a firmare? Centomila volte? Ma
che non lo sai che sono tossico? »
E quelli andavano su tutte le furie perchè erano
convinti, sapevano che se mi beccavano con il malloppo grosso poi sarebbero entrati in casa mia.
Allorché stavo con la madre di una mia amica,
una rapinatrice. Quarantacinque anni, così. Lei
c’aveva sei grammi di crack, che mi reggeva lei,
addosso. Nei risvolti qua delle maniche della camicia se li era messi. Io tutto il tempo gli avevo detto:
buttali, buttali, buttali. Invece questa non li ha
buttati. Allora, siamo scesi, ci hanno mezzo controllato.
La mia amica è andata con la macchina dei carabinieri. Con me andava un carabiniere, ok.
In tutto il tempo questo mi controllava che
mosse facessi. Siamo arrivati davanti alla stazione
dei carabinieri, mi hanno perquisito, mi hanno
trovato addosso un coltello. Io non giravo mai
senza coltello. Mi sono preso sette coltellate, una
volta. Una volta mi hanno fatto il circoletto, tutti
quanti coi coltelli. Ta tat ta ta... Fino a che non me
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ne hanno data una qua sul fianco che mi ha preso
i nervi, ringraziando iddio, io ho fatto: Ah! Perchè
mi hanno preso il nervo e la gamba non mi ha retto
e sono cascato per terra. Di conseguenza questi si
sono spaventati pensando che mi avessero preso
in qualche punto vitale, e se so’ dati. E questa è
stata la salvezza mia.
T – Ma chi erano? C – Gli ultras della Lazio.
Anche quella una storia
di droga. Quando ero ragazzino, ho dato cinquanta
grammi di fumo, di un fumo di lusso, dell’epoca, a
una persona del mio quartiere che è sparita. Non
s’è fatta più vedere. Io citofonavo a casa, la madre
me rispondeva male. Dopo dodici anni tipo me lo
sono trovato a Trastevere. L’ho corcato di botte.
Prima gliel’ho fatta credere che l’avesse scampata. L’ho visto, lui mi ha visto. M’ha fatto un mezzo
sorriso. Io ho fatto finta di niente. Dopodiché l’ho
fatto andare in piazza, dove potevano vederlo tutti
quanti. Ho preso una bottiglia, ho fatto il giro della
fontana, l’ho trovato davanti, gli ho spaccato una
bottiglia in faccia, lui ha provato a reagire, io gli
ho fatto così, (morde davvero, ad esempio di ciò,
NdR) gli ho morsicato lo zigomo. Lui è andato
all’ospedale e ha detto che lo avevano menato tante
persone. E quattro, cinque giorni dopo mi hanno
fatto questa sorpresa. Dei coltelli. È stata lunga.
Una strada stretta. Cinque, sei persone che mi
si avvicinavano, una con una mazza così. Mentre
questi me venivano sotto, è passata pure una macchina dei carabinieri che li ha visti, e non hanno
fatto nulla. Tu vedi due, tre, sei persone che cor19
rono armati fino ai denti dietro a una persona alle
undici di sera, e tu passi liscio tranquillo.
Ma non è la prima volta. L’altra volta stavamo
con gli squatters a Torino, al concerto nostro, stavamo a cena a ‘sto centro sociale a Grugliasco. A un
certo punto un bambino apre la porta del centro
sociale e c’erano tre energumeni dietro ‘sta porta.
Il bambino richiude la porta, rientra e dice sta cosa
ai genitori: « Ooh, i fasci! »
Aprono la porta, ce stavano ‘sti tre più altri quaranta. Tutto il centro sociale a rincorrere questi,
siamo arrivati fino alla stazione del Lingotto.
E quando sono finalmente arrivate tipo sei
volanti a chiudere la strada, ai fasci li hanno mandati via e a noi hanno chiesto i documenti! Perché?
Perchè a noi chiedete i documenti e a quelli li fate
scappare? Siete amici?
La vita mia è costellata di queste avventure.
A parte le angherie che subisci, io non c’avevo
un cazzo da fare in carcere, per non atrofizzarmi il
cervello pigliavo i libri e me li finivo in una notte. I
primi giorni che stavo dentro mi ero fatto un taglio
a un piede. Era estate, i piedi mi sudavano e c’avevo le scarpe da ginnastica, ancora non c’avevo
le ciabatte. Il sudore e lo sporco hanno fatto si che
mi tagliassi. Un taglio bello grosso, non riuscivo a
camminare. Tutto il pomeriggio chiamavo la guardia: « Mi mandi in infermeria per favore. » Mi
chiudeva il blindato: « non rompermi il cazzo. »
Zero aiuto e umanità. Alle nove di sera, dopo
cena, il telegiornale, passa l’infermiera che ti som20
ministra le terapie, se ce l’hai. Se hai qualche cosa
ti dà la medicina tua. Quando è passata questa, le
ho detto: « Senti, io c’ho questa cosa qua » e gli ho
mostrato il taglio.
« E perchè lo dici ora, alle nove di sera? »
« È tutto il giorno che chiamo ‘sto stronzo della
guardia – davanti a lui – e non mi ci ha fatto
andare. »
Quello è andato su tutte le furie. Allora se semo
insultati. Ha richiuso il blindato. Dalla finestrella
gli ho sputato.
Dopodiché silenzio.
Rimango là. Dopo un po’ si sente che riaprono
la cella, erano in due. Uno più giovane, questo qua
più vecchio, cicciotto. Mi fanno: « Esci fuori che
andiamo in infermeria.
« Io non ci credo. Io esco fuori e tu mi gonfi di
botte. Non esiste. »
« No no. »
Insistevano che non mi facevano niente. Dopo
un po’ mi sono fidato, hanno preso e mi hanno
portato in infermeria, effettivamente. La tipa mi
ha curato. Mi ha messo una benda, ecc… ecc...
Mentre mi riportavano sulle scale, quello più
grosso mi ha preso così, a Roma si dice “all’americana”, da dietro e con le braccia che passano sotto
le tue, ti blocca, e quello più giovane mi dava le
stecche qua, sulle costole, perchè sanno che è un
punto che fa male ma non è visibile, non ti picchiano in faccia perchè si vedrebbe effettivamente.
Alla terza, quarta stecca ho iniziato a urla’, chiaramente anzi a squarciagola, quello che mi stava
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succedendo.
I detenuti che stavano al piano de sopra hanno
sentito e hanno iniziato a urlare: « Che cazzo state
a fa’? Oh che state a toccà er pischello? »
Avevo fatto una cifra casino e tutto il piano aveva
sentito sta cosa.
E poi comunque è così la galera. Succede qualche cosa e subito t’affacci con lo specchietto per
vedere cosa succede. Perchè non c’è un cazzo da
fare.
Quindi casino, le guardie hanno smesso, mi
hanno preso e riportato in cella.
Un pestaggio a gratis. I diritti di un essere
umano schiacciati, così.
È troppo facile mettere la gente dentro perchè ha
sbagliato ma poi li torturi, o, ancora peggio, rubi.
Lo stato sgancia per ogni detenuto più di cento cinquantadue euro ogni giorno! Per quello che mangiamo io dovrei avere tutti i giorni l’astice… Invece
fanno delle porcate incredibili, porcoiddio. Gente
che si è sentita male, perchè usano le uova scadute.
Con più di cento euro al giorno ci dovrebbero
stare le medicine. Per qualsiasi malattia che hai in
carcere hanno solo la tachipirina.
Se nel 2008 eravamo in celle in sei, ora sono
otto. Spazio di vivibilità annullato. Una cella è così,
una piccola cucina. In otto con letti a castello fino
in su.
Al carcere puoi comprare solo determinate marche. Lo spaccio lo fanno i detenuti ma tutti i generi
alimentari, di profumeria ecc… ecc… le comprano
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le guardie.
Le guardie. Le guardie istigano i lavoranti, i
detenuti che lavorano a rubare, ci sei? Così se tu
rubi, possono rubare anche loro. Io non ho lavorato a stretto contatto con loro, ma so che questa è
la prassi, te lo può dire anche Sandrino. Sandrino
l’ho sempre ammirato, è una persona favolosa, mi
ha sempre trattato come un principe. Non mi ha
mai dato un’inculata.
T – E la storia del caffè?
C – Un’altra volta.
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Registrazione 2
Infanzia
T – E l’infanzia. Com’è stata?
C – Non facevo un cazzo di niente, io. A cinque
anni, tutto il mondo ti sorride e poi c’era ancora
mio padre, forse sorrideva ancora anche mia
madre.
A cinque anni mia madre mi ha regalato una
macchinetta di quelle a pedali, mi metteva davanti
al negozio suo. Un giorno ho preso e sono scomparso. Con ‘sta macchinetta ero arrivato cinque
chilometri più avanti. Mia madre disperata. Mi ha
visto un amico di mia madre con la macchina, mi
ha visto che andavo via da solo con ‘sta macchinetta. Mi ha preso e mi ha riportato da mia madre.
Poi è morto mio padre a sei anni. L’ho trovato
morto io. Ritornando dal lavoro mia madre, che
prima di avere me aveva un giornalaio, poi se l’è
preso un fratello di lei, erano cinque fratelli. Dopo
che ha avuto me si è presa un negozio di abbigliamento per bambini, e andava bene. Tornavamo
da un pomeriggio al lavoro, era l’ora di cena, alle
otto. Sono entrato a casa e mi scappava la pipì.
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Sono andato di corsa in bagno e ho visto. Il water è
sempre accanto al bidet e tra i due c’era mio padre,
con i piedi dentro il bidet e la schiena per terra.
Non c’era sangue, non c’era niente. Era normale.
Chiaramente non avevo capito che non respirava.
Ho finito di fare pipì.
L’ho chiamato una volta, ho visto che non
rispondeva. Poi sono andato di là e ho detto a mia
madre: « Guarda, guarda che scherzo sta facendo
papà. »
Mia madre è entrata di là, ha iniziato a urlare. È
arrivata gente. Mi hanno preso e portato dai vicini, e mi
hanno lasciato in quella casa, da solo.
Armando Sciotto
aka Chicoria
Dura lex
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