Dalla «supervisione» alla «consulenza psicoanalitica»
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Dalla «supervisione» alla «consulenza psicoanalitica»
Dalla «supervisione» alla «consulenza psicoanalitica» attraverso la discussione clinica nei Servizi di Salute Mentale PAOLO BOCCARA, MARCO MONARI, GIUSEPPE RIEFOLO1 «ad ogni seduta ciascuno dice quel che vorrebbe e quel che gli pare giusto, e alla fine ne risulta qualcosa che nessuno voleva interamente» (Musil, 752) Premessa In queste note proponiamo una riflessione in margine all’intervento psicoanalitico nei serviziterritoriali. Partiremo da una considerazione di base, e cioè che tali istituzioni attraversano, a nostro parere, un’importante fase di crisi in cui si stanno modificando profondamente i livelli identitari, soprattutto in seguito all’esaurirsi di quegli elementi che, finora, avevano avuto la funzione di garantirne una forte identità ed un funzionamento molto attivo (Riefolo, 2001; Boccara, De Sanctis, Riefolo, 2005). Il cambiamento a nostro parere viene da lontano, coinvolge anche altre istituzioni (non ultima quella psicoanalitica…) e concerne il passaggio da livelli di identità di gruppo (Touraine, 1961; 1992; Kaës, 1989; 2005; Neri, 2007) sostenute da necessità di figure di leader carismatici, verso livelli di una progressiva accentuazione delle funzioni narcisistiche che riducono la funzione di leader carismatici. In termini bioniani si assiste al progressivo prevalere di necessità narcisistiche dei singoli soggetti sulla «cultura di gruppo» (Bion, 1961), che finora era stata una sufficiente funzione mentale capace di garantire al singolo soggetto un’identità ed un funzionamento egosintonico nel gruppo. Non riteniamo che tali dinamiche possano o debbano essere giudicate sul piano ideologico o etico: concernono un processo (e come tale riguardano potenzialità necessariamente ambivalenti) rispetto al quale il singolo soggetto ha limitate possibilità, nel lungo periodo, di modificarne il corso effettivo, mentre ne può trarre grandi vantaggi seguendone l’indirizzo. In quanto psicoanalisti consideriamo che si tratti di inevitabili percorsi di ordine identitario, che già un tempo hanno permesso alle istituzioni segreganti manicomiali di emanciparsi e agli operatori di differenziarsi, rispetto ai modelli e ai livelli di identità precedenti. Pensiamo si tratti di un continuo ed inevitabile processo di evoluzione sempre orientato – seppure attraverso progressioni non lineari – verso una maggiore valorizzazione delle competenze dei soggetti rispetto alla diluizione della propria appartenenza nei gruppi. Pensiamo quindi che il tema della «supervisione» nei servizi territoriali rimanga comunque un ambito di specificità per lo più psicoanalitica, anche se non sempre curato dalla istituzione psicoanaliticache ha sempre lasciato all’iniziativa dei singoli la definizione di tali interventi. Ciò ha 1 Riferimento: [email protected] 1 permesso negli anni un’ampia esperienza clinica che però è rimasta comunque come elemento personale dei singoli analisti coinvolti, senza che potesse convergere in possibili modelli di cui l’istituzione psicoanalitica potesse farsi garante.2 Non ci addentreremo nell’analisi di questa «diagnosi dinamica di stato» delle istituzioni territoriali e degli operatori che vi partecipano, ma consideriamo questa «diagnosi» una necessaria premessa a ciò che caratterizza sempre più il tipo di intervento che ciascuno di noi si trova a fare nelle occasioni in cui siamo chiamati a coordinare «discussioni cliniche», in qualità di psicoanalisti esterni, nelle varie istituzioni territoriali (Campoli, Carnaroli, 2012). Riteniamo che l’esperienza della discussione clinica allargata e condotta in presenza di un analista esterno, possa comportare la possibilità per il gruppo di: 1. utilizzare le capacità di ciascuno di portare all’interno dello scenario istituzionale sia gli elementi patologici del pazientesia le sue potenzialità inespresse (ovvero mettere a disposizione del gruppo le proprie capacità di stabilire e riconoscere asintonie con il funzionamento mentale del paziente); 2. accrescere la capacità dei singoli operatori a potersi sorprendere, sia rispetto alle capacità del paziente che rispetto alle proprie capacità di funzionare autenticamente con i pazienti; 3. valorizzare la competenza narrativa del gruppo degli operatori nella minuziosa raccolta delle complesse storie cliniche e personali dei pazienti e l’utilità terapeutica che può derivarne; 4. incrementare la capacità di accogliere immagini durante una discussione clinica, riconoscendo ad esse una funzione differente (più potente e preliminare) rispetto ai pensieri; 5. individuare il campo istituzionale come «scenario» messo a disposizione del proprio incontro col paziente, in cui ciascun operatore viene chiamato a differenziarsi dall’altro e a giocare la propria parte nella scena; 6. saper dare «limiti» alla propria funzione, riconoscendo il «limite» come definizione del proprio campo di intervento (setting); 7. proporre l’esperienza della discussione clinica come un’esperienza circoscritta, positiva e gratificante, economicamente opportuna per ciascun operatore, dove ciascun operatore può essere ad oltranza autorizzato in una posizione di «vertice esterno» attraverso cui leggere lo spessore psicologico in ogni atto che lo riguarda; 8. sentire il lavoro e l’appartenenza al gruppo istituzionale come un gioco creativo, proprio attraverso la gratificazione narcisistica che ciascun operatore può cogliere durante e per mezzo dell’esperienza della discussione. Procederemo proponendo soprattutto esempi clinici in cui prevalgano alcuni aspetti che, a nostro parere, sono centrali per il lavoro creativo che tentiamo di sollecitare in tali occasioni. 2 Su questo tema ricordiamo il particolare interesse di G. Berti Ceroni, all’epoca segretario scientifico della SPI (20012005), che in più occasioni suggerì l’opportunità di pensare ad un coordinamento diretto della SPI per gli interventi di supervisione clinica nelle istituzioni psichiatriche pubbliche. 2 La consulenza psicoanalitica dei servizi territoriali attraverso la discussione clinica Riteniamo che la domanda di «supervisioni psicoanalitiche» negli anni passati sia stata soprattutto finalizzata alla necessità di introdurre pensiero psicoanalitico nei contesti istituzionali, mentre ultimamente emerge sempre più una richiesta finalizzata al ‘prendersi cura’ del funzionamento potenziale intrinseco delle specifiche situazioni, che non necessariamente debbano organizzarsi secondo codici del metodo psicoanalitico. Allo psicoanalista verrebbe chiesto soprattutto di attivare psicoanaliticamente le potenzialità dei gruppi prima che di portare pensiero psicoanalitico e la psicoanalisi può avere così un’alta funzione come «dispositivo attivante», piuttosto che come «contenuto potente» (cfr. Ferruta, 2010; 2012b; Neri, 2012; Foresti, Rossi Monti, 2010). Anzi, considerando che le difficoltà maggiori e la vera e propria sofferenza dei gruppi istituzionali è sempre più rintracciabile nella modalità di organizzazione (piuttosto che nella difficoltà di cura dei pazienti)3, dobbiamo riconoscere che, nella cultura dei servizi, la psicoanalisi come strumento clinico viene anche attaccata da alcuni operatori in quanto individuata come capro espiatorio superegoico delle frustrazioni, della fatica e della conflittualità degli operatori rispetto alla organizzazione. Per parafrasare un’affermazione di R. Cahan (2002), spesso troviamo che il modo più incisivo di funzionare da psicoanalista verso le istituzioni sia proprio la capacità di legittimare le istituzioni a non dover essere per forza «psicoanalitiche». Riteniamo che l’inevitabile processo di autenticità che sostiene ogni processo mentale evolutivo, sia dei soggetti quanto dei gruppi (Boccara, Gaddini, Riefolo, 2009; Neri, 2008), comporti negli ultimi tempi l’evidenza e la crisi dei comportamenti imitativi (E. Gaddini, 1968) di cui il metodo psicoanalitico in questi anni è stato oggetto. I servizi territoriali si presentano sempre molto più complessi di quanto la tecnica psicoanalitica possa tollerare. Ovviamente poniamo una precisa differenziazione tra la tecnica psicoanalitica e il metodo, riconoscendo alla prima ampi limiti a poter essere applicata nelle istituzioni, mentre al secondo una grande potenzialità a poter continuamente seguire e leggere il dispiegarsi dei fenomeni inconsci attivati dai pazienti che chiedono necessariamente risonanze da parte degli operatori (che questi lo vogliano o meno) (Riefolo, 2001; Boccara, De Sanctis, Riefolo, 2005). Cerchiamo di suggerire come, secondo noi, uno psicoanalista esterno possa avere soprattutto una funzione di «prendersi cura»4 di un gruppo istituzionale, mentre troviamo ci sia sempre meno spazio perché sia fertile una posizione di vera e propria «supervisione». La differenza sostanziale tra le due posizioni è che nella richiesta di «cura», il gruppo dell’istituzione e ciascun operatore, ha interesse che la psicoanalisi sia di sostegno alla propria capacità di funzionare utilizzando i propri dispositivi, mentre nel secondo caso la psicoanalisi si pone come dispositivo che informi – secondo 3 E. Jaques (1995, 343-4) ha nettamente modificato i propri punti di vista sulle funzioni delle istituzioni come difese dalle ansie psicotiche riconoscendo proprio al malfunzionamento delle istituzioni la genesi delle ansie psicotiche: «La ragione per cui abbiamo organizzazioni negative o disfunzionali non è un riflesso di forze psicopatologiche che debbano essere capite e risolte attraverso l’applicazione dei concetti e dei metodi psicoanalitici. Tuttaltro […] la maggior fonte di stress psicologici che possono sorgere, è nella nostra incapacità a chiarire e specificare le caratteristiche dei ruoli nelle nostre maggiori organizzazioni». 4 Oltre alla nota precisazione di Winnicott (1970) su «cura» e «prendersi cura», utilizziamo anche alla distinzione che suggerisce Racamier (1970) tra «cura» e «terapia» delle psicosi. La cura è momento preliminare e propedeutico ad ogni terapia: «senza una base di cure non vi è psicoterapia possibile nella gran parte degli psicotici»; l'ambito della psicoterapia è l'inconscio, mentre «…le cure si orientano alle capacità autonome dell'Io». 3 i vari livelli possibili – le attività e le relazioni nel servizio. Nel primo caso lo psicoanalista attiva processi creativi nel gruppo, mentre nel secondo caso l’analista cerca di incrementare l’utilizzo e l’interesse verso il dispositivo psicoanalitico nella «cultura di gruppo» (Bion, 1961) degli operatori. Infine, nel primo caso lo psicoanalista rimane un consulente del gruppo, mentre nel secondo caso si pone, comunque, come un possibile modello di funzionamento. La discussione clinica sul paziente può avere come funzione più immediata e centrale quella che potremmo definire «la cura del gruppo attraverso il paziente». Il paziente permette al gruppo di funzionare e di sperimentare la competenza e la crescita e tale obiettivo prevale – negli attuali scenari dei servizi – rispetto al progetto esplicito di cura del paziente. C'è uno spostamento di ottica. Suggerire al gruppo una lettura psicoanalitica del proprio funzionamento significa aiutare i vari operatori a leggere il proprio funzionamento secondo le categorie psicoanalitiche della relazione transfert-controtransfert, del rapporto tra identificazione-proiezione, della differenziazione tra acting-pensiero ecc.. Nella posizione in cui ci si occupa del prendersi cura del funzionamento del gruppo, l’analista porrà particolare attenzione invece ai significati che gli specifici tipi di setting attribuiscono ai vari eventi che accadono nell’incontro istituzione-paziente-operatore, curando soprattutto la funzione positiva del processo di autenticità che il gruppo riesce a sviluppare.5 L’analista curerà che determinate caratteristiche vitali espresse dai singoli operatori come posizioni «spontanee» possano attivare risonanze nel gruppo – e quindi nei pazienti – contribuendo alla progressione circolare dei processi autentici, ovvero di felice accoppiamento mentale che il «campo istituzionale» (Correale,1991) può permettere. È possibile che l’analista, chiamato come consulente, possa non fare alcun riferimento alla teoria psicoanalitica, ma che si muova come referente di un funzionamento in cui ciascun operatore e il gruppo chiedano di essere sostenuti nel processo di autenticità. Proponiamo un esempio in tale linea. In una discussione clinica si parla di Giulio, un grave paziente paranoico, chiuso in casa, preso da continui deliri persecutori sostenuti dalla convinzione megalomanica che il suo contatto con gli oggetti possa continuamente causarne la distruzione. Anche per questo ha smesso persino di parlare e comunica solo scrivendo su un quaderno. Il caso è veramente grave e soprattutto «gravoso» per l’intero servizio il quale viene continuamente sentito inadempiente e colpevole di omissione di soccorso da parte dei familiari, dalle istituzioni sociali e persino dai dirigenti apicali della stessa ASL. La madre del paziente si delinea come persona particolarmente disturbata sul piano paranoideo e attiva portatrice di gravi livelli di paralisi in ogni ambito del contesto terapeutico. Aleggia nel gruppo di discussione una sottile e diffusa ostilità nei confronti della madre e, a più riprese, con modalitàneppure tanto velate, ne viene evocata la morte come possibile soluzione vitale per il paziente con il quale, evidentemente, l’intero servizio in parte si identifica. La discussione clinica procede attraverso un’ampia descrizione dei deliri di Giulio e delle gravi operazioni intrusive e distruttive della madre alla quale sono state fatte ampie concessioni riguardo agli interventi terapeutici verso il figlio, ma solo al fine di smorzarne le rabbiose richieste di cura con risposte sostanzialmente formali da parte degli operatori. Infatti, attraverso la collusione mortifera, gli operatori trovano come unica possibilità quella disopravvivere alle gravi dissociazioni patologiche operate dalla madre di Giulio verso il contesto terapeutico il quale si presenta tanto articolato e ricco quanto formale, stanco, privo di passione e simmetrico alla violenta posizione della madre. Verso la fine della discussione colpiscono alcuni piccoli frammenti che, nella mia mente, si presentano soprattutto come immagini e vere e proprie scene: 5 Per «processo di autenticità» consideriamo la naturale tendenza dei soggetti – sia sul piano intrapsichico che intersoggettivo – ad attivare risonanze vitali ed evolutive con altre configurazioni mentali del proprio Sé o con altre menti. Il reciproco è il processo della coazione a ripetere (Boccara, Gaddini, Riefolo, 2009). 4 • una infermiera, che sta ultimando un corso di psicologia, comunica, con un po’ di dubbi, che si è messa a raccontare della propria vita a Giulio e gli ha letto la propria tesi di specializzazione. Mi colpisce la sensazione che l’infermiera tema di aver fatto qualcosa di «terapeuticamente sbagliato e grave», raccontandosi a Giulio negli aspetti più privati. La stessa infermiera chiede al gruppo se ha sbagliato a comunicare alla madre di Giulio della nostra discussione clinica di oggi. Dice di non sapere precisamente perché l’ha fatto… forse «per farla partecipare indirettamente alla discussione clinica su Giulio!». Pare che la signora abbia risposto molto positivamente sottolineando che «magari in questo modo si trovano soluzioni nuove per mio figlio!»; • in un’altra scena un operatore racconta che durante una visita domiciliare la madre, in una occasione, si è presentata nella camera dove erano lui e Giulio offrendo due lattine di CocaCola. Poi è rimasta con entrambi, sedendosi al tavolo con loro, potendo raccontare della propria vita. Si tratta di piccoli frammenti che si discostano nettamente dal densissimo quadro clinico in cui prevale, ad ogni livello, la distruttività della madre, la megalomania paranoica e il ritiro autistico di Giulio. Sottolineare l’importanza di queste piccole scene sembra offrire all’intero gruppo una chiave vitale e asimmetrica con cui incontrare la madre la quale evidentemente riesce ad organizzare la paralisi del campo attraverso operazioni violente e mortifere che impediscono puntualmente che possano esserci spazi per lei perché si possa finalmente occupare della (partecipare alla) cura del figlio. In qualche modo, la discussione clinica di gruppo ha permesso a qualcuno dei partecipanti di sintonizzarsi e risuonare con alcuni elementi vivi e sofferenti della madre la quale, attraverso la scena delle due lattine di Coca-Cola e il sedersi a raccontare la propria vita, insieme alla forte sollecitazione che il processo di autenticità deve aver operato sulla infermiera spingendola – non senza costi di colpa – ad impersonare un soggetto che finalmente può raccontarsi, introduce nelle rappresentazioni del gruppo l’immagine di una madre che usa difensivamente il dispositivo patologico della persecutorietà, ma che evidentemente chiede di poter partecipare, dolorosamente, alle impossibili cure di un figlio malato che nessun servizio potrà curare escludendola. In questa sequenza clinica vogliamo evidenziare come le piccole scene, che descrivono la faticosa possibilità per la madre di partecipare alle cure del figlio, siano un esito di un processo di autenticità che – seppure per un attimo – si svincola dai lacci della coazione a ripetere che blocca in modo persecutorio ogni movimento vitale del campo. La funzione terapeutica deve cercare continuamente questi segnali che si rivelano attraverso immagini, sensazioni di viva sorpresa (Reik, 1935; Maffei, 2008; Riefolo, 2010) e seguirle e alimentarle finché è possibile. Vogliamo sottolineare come l’analista abbia evitato ogni riferimento esplicativo alla teoria psicoanalitica, ma abbia accolto e seguito frammenti di scene proposte da alcuni operatori come capacità del gruppo di entrare in risonanza con il bisogno di una madre a poter partecipare alla cura del proprio figlio. La risonanza che, seppure in modo frammentario, si realizza con le sollecitazioni della situazione clinica, è funzione delle capacità di autenticità del gruppo di lavoro, mentre il registro psicoanalitico classico vedrebbe i comportamenti dei due operatori come limiti nella relazione di cura e, pertanto, si adopererebbe per contenerli cogliendone il senso contro-transferale agito. 5 La domanda del gruppo e gli interventi dell’analista Pensiamo che negli ultimi 40 anni, a partire dalla riforma psichiatrica, in relazione all’evoluzione delle istituzioni territoriali, gli interventi di supervisione analitica si siano profondamente modificati. Consideriamo l'attuale posizione in continuità evolutiva con le posizioni precedenti, sollecitata soprattutto dai cambiamenti della clinica e dagli elementi di crisi culturale ed economica intervenuti negli ultimi anni. Volendo per sintesi estremizzare tale evoluzione, possiamo sostenere che nella prima fase la funzione della supervisione analitica poteva descriversi come: Clinico esperto esterno gruppo istituzionale pazienti Se per un lungo periodo la supervisione poteva essere prima rappresentata come il «luogo in cui… si può dare vita e far nascere qualcosa che nell’individuo malato non voleva e non poteva manifestarsi» (Correale, 1991, 250), nell’attuale assetto e fase storica dei servizi territoriali la dimensione narcisistica prevale sempre più rispetto alla dimensione di funzionamento gruppale che è sempre più investito di valenze regressive e rassicuranti piuttosto che creative. Non consideriamo questo spostamento di accento dell’intervento come negativo, ma semplicemente come il modificarsi di dinamiche che diventano sempre più complesse. In questi nuovi assetti prevalgono le accresciute esigenze narcisistiche dei soggetti, insieme all’incremento delle richieste che arrivano ai servizi e alla precarietà delle condizioni concrete in cui i servizi sono chiamati ad operare. Ciò si declina a due livelli. Da un lato i pazienti possono utilizzare le accresciute competenze tecniche che ciascun operatore recupera della propria capacità soggettiva di funzionamento nel gruppo. Ad un altro livello emerge come nel funzionamento sociale l’adesione creativa al funzionamento gruppale tenda ad essere progressivamente sostituita da rivendicazioni di funzionamento narcisistico patologico. Riteniamo che l’intervento di uno psicoanalista esterno al gruppo istituzionale si ponga sempre più nella opportunità di «curare» un processo trasformativo che si muove continuamente fra i poli. Clinico esperto esterno gruppo istituzionale trasformazioni paziente Se «il gruppo di supervisione è nato come aiuto diagnostico, si è poi gradualmente sviluppato come efficace strumento di contatto e di coesione della équipe curante […], si sta rivelando come luogo di incubazione ove tali individualità possano cominciare a svilupparsi… una sorta di inizio per una gravidanza gruppale» (Correale, 1991, 251), potremmo ora aggiungere l’importanza della diversificazione evolutiva delle attuali richieste degli operatori all’intervento di un «supervisore», nel senso di sostegno alle proprie competenze soggettive di funzionamento nel e non solo attraverso il gruppo. In questa linea è opportuno che gli elementi – soprattutto a carattere iconico e narrativo – emergenti nel campo gruppale, siano rimandati al gruppo come competenza del gruppo a trasformare elementi insaturi, che nel caso specifico e contingente vengono resi disponibili 6 attraverso il paziente e la discussione clinica che lo riguarda. L'interesse diventa, a nostro avviso, il gruppo degli operatori, perché da loro viene la domanda al consulente e, a nostro parere, il paziente diventa occasione (fra le infinite possibili) per verificare il funzionamento, le potenzialità e l’ambizione del gruppo a «vivere meglio» in quel servizio. L’équipe di un SERT discute il caso di Rudy, 30 anni, descritto subito come «uno con un look ambiguo… che mette un forte profumo che allontana; non è omosessuale, ma mette dei pizzi… dei merletti…». È figlio unico; la madre si occupa di moda. Una dottoressa ricorda che negli anni passati ha fatto una psicoterapia per tre anni con una psicologa che da alcuni anni si è trasferita e che si poneva a distanza dal resto del servizio. L’attuale psicoterapeuta parla di Rudy come di un paziente difficile e sfuggente ed anche lui si descrive come un artista, ma nessuno crede alle sue dichiarazioni… A me è venuto da pensare a Renato Zero e a Salvador Dalì… artisti… Dico che, evidentemente, è difficile per noi accettare che Rudy possa essere anche capace oltre che tossico. A questo punto emerge che lui lavora realmente nella sartoria della madre e che, comunque, dopo i tre anni di psicoterapia è riuscito a stare per oltre due anni in Belgio a lavorare da solo… comunque deve essere stato bene. Solo dopo che è tornato ha ripreso ad usare pesantemente sostanze. (Considero che il gruppo finalmente riesce a collocarlo in una dimensione processuale, componendo i vari livelli di dissociazione patologica che il paziente porta e che colludono con i livelli di dissociazione difensiva ancora attivi nell’équipe…). Sottolineo che forse la dottoressa che si è poi trasferita deve aver conosciuto gli aspetti più vitali del paziente, mentre a noi ha lasciato quelli più malati e scostanti. Forse abbiamo difficoltà ad incuriosirci degli aspetti più vitali del paziente, mentre finora siamo costretti ad occuparci solo della pesante tossicodipendenza… I livelli dissociativi si ricompongono ulteriormente. Un’operatrice considera che, seppure bizzarro, ha un modo tutto suo di vestire e di abbinare i colori che è sicuramente ricercato e studiato. Un’altra operatrice parla di un altro paziente, «sicuramente omosessuale», che veste anche lui in modo ricercato anche se meno bizzarro di Rudy. Questo paziente, inoltre, parla molto bene del responsabile del servizio (presente alla discussione)… La discussione di questo caso sembra permettere al gruppo di recuperare elementi sospesi della propria storia concernenti l’esperienza di alcuni operatori mai integrati ed esclusi dal gruppo. Il percorso della discussione permette di riconsiderare questi personaggi «esclusi», sentendoli piuttosto «particolari» e con buone capacità creative di dialogo col gruppo. Per quanto, possiamo immaginare, il paziente si sia sicuramente giovato della discussione clinica, vogliamo semplicemente porre l’accento sul fatto che attraverso il paziente il gruppo di lavoro può recuperare rappresentazioni del proprio funzionamento fino a quel momento patologicamente dissociate. La posizione dell’analista Nella nostra esperienza di questi anni, abbiamo potuto rilevare la sostanziale inutilità (se non persino, il danno…) delle vere e proprie interpretazioni «discriminate» che interromperebbero «il gioco del domino» che l’analista cura per tutta la discussione. Una interpretazione discriminata può avere il senso di svelare l’esistenza di uno psicoanalista sottovalutando l’importanza della funzione di uno psicoanalista. Nella rappresentazione del setting per la discussione clinica bisogna dare particolare importanza a quegli elementi di ostilità e di «non-collaborazione» (Riefolo, 2001), assumendoli come particolarmente sensibili alle possibili trasformazioni del gruppo. Pertanto, in genere, non capita mai di dire: «Penso che voi mi stiate dicendo che…» o, ancora peggio, di commentare secondo il registro delle motivazioni inconsce (ancor più se reattive…) il 7 comportamento di un operatore verso un particolare comportamento di un paziente o di un suo collega. Ci interessa cogliere lo spazio di accoglienza che ciascun operatore riesce ad offrire – soprattutto inconsciamente – a particolari comportamenti dei pazienti o degli altri colleghi attraverso una propria risonanza. Interpretare in modo esplicito la conflittualità inconscia in questo tipo di contesti (e, soprattutto a seguito di questo particolare tipo di domanda) ha un senso violento e negativo per la disponibilità di ciascun operatore, e del gruppo in generale, a potersi offrire come scenario possibile perché il paziente trovi rappresentabilità alle proprie sensazioni che non hanno ancora trovato un vertice che le renda visibili (alfa). Al tempo stesso che un operatore o un gruppo si proponga disponibile adessere un nuovo vertice per le sensazioni concrete del paziente, comporta che quell’operatore o quel gruppo possano vivere l’esperienza di sentirsi competenti ad attivare esperienze alfa per se stessi. Il particolare tipo di domanda che ci ha chiamato in quella discussione non ci autorizza come psicoanalisti esterni a comportarci come di fronte ad un paziente o in un gruppo terapeutico. Il setting dell’intervento non è nostro, ma ci vienedato e gli operatori sono ad oltranza in questo tipo di setting nostri collaboratori che sostanzialmente ci chiedono una consulenza ed un intervento come colleghi più esperti, più capaci ed esterni. Quando parliamo di «prendersi cura» piuttosto che di «supervisione» ci riferiamo esattamente a questi livelli di setting, in cui un gruppo di operatori chiede di poter fare un passo avanti – in compagnia e magari col sostegno di qualcun altro – e non di poter ottenere qualcosa da qualcun altro. In questo tipo di discussioni cliniche siamo chiamati a stare con tutti gli altri e non di fronte o dietro agli altri. Se ci sarà da usare la psicoanalisi questo riguarda noi, ma loro, sostanzialmente, non ce lo chiedono e sarebbe sterile che noi lo imponessimo. La psicoanalisi sarà un nostro metodo per leggere e funzionare psicoanaliticamente verso quel gruppo di operatori che, attraverso il casuale evento che li vede impegnati con un paziente, ci stanno descrivendo il livello del proprio funzionamento e implicitamente ci chiedono aiuto per funzionare meglio. Ovviamente non siamo chiamati a valutare se un funzionamento sia migliore di un altro, ma solo ad intervenire perché quel livello che ci viene presentato possa permettersi livelli di maggiore complessità. Prima che a spiegare, siamo chiamati a contribuire – come elementi esterni – nell’accrescere le competenze creative del gruppo. Un frammento. Quando arrivo al servizio mi viene mostrato il presepe realizzato dai pazienti del Centro Diurno. Un infermiere mi mostra «il quarto Re Magio» che un paziente ha voluto aggiungere! Durante la discussione di un caso molto difficile in cui non si riesce ad immaginare come motivare Omar ad uscire di casa e ad accettare di frequentare il Centro Diurno, penso al «Quarto Re Magio» e, senza sapere bene perché, la propongo come immagine che forse ci può aiutare. Il gruppo comincia ad immaginare possibilità di effettuare visite domiciliari col progetto di accompagnarlo gradualmente al Centro Diurno, riconoscendo che la prescrizione fatta finora sicuramente risulta troppo sovradeterminata rispetto alle competenze di Omar… L’analista e le difese del gruppo degli operatori Una delle più potenti difese del gruppo che chiede un intervento di un consulente, particolarmente se questo è scelto fra gli psicoanalisti, è la proiezione, su oggetti esterni al gruppo, dell’idealizzazione delle potenzialità riparative che sono alla base della scelta professionale di ciascun operatore. Queste si organizzano nelle rivendicazioni violente verso i contesti gerarchici esterni al gruppo attraverso la continua lamentazione (Riefolo, 2001) della propria impotenza alla 8 cura, riferita alla carenza di risorse e al mancato sostegno da parte dell’amministrazione o della società. Si tratta di una potente difesa regressiva che, nei gruppi, siamo abituati a riconoscere negli Assunti di Base di Accoppiamento e Attacco/Fuga. Per questo, quando è possibile, sollecitiamo la discussione clinica anche di casi «che sono andati bene», ovvero casi in cui le potenzialità del gruppo si sono coagulate – organizzandosi secondo dinamiche inconsce, automatiche o sincretiche – ed hanno prodotto trasformazioni positive nel paziente. Riteniamo che il riconoscimento di potenzialità in atto nel gruppo di lavoro permetta di valutare le potenti difese che i gruppi organizzano nell’identificarsi con le difficoltà psicotiche dei pazienti che essi curano. I gruppi delle istituzioni sono particolarmente esposti alla ricerca di una rassicurante identità difensiva d’impotenza e di lamentazione rivendicativa, in quanto tale identità risulta come «innocentemente violenta» (Bollas, 1992) verso le figure e le configurazioni genitoriali che la regressione della situazione gruppale sollecita. La discussione clinica su casi positivi sottolinea le potenzialità e le competenze di un sano narcisismo (Ferruta, 2011) del gruppo, riconoscendo alla posizione del consulente esterno la funzione di sostegno contro le potenti spinte del gruppo alla aggressiva idealizzazione del consulente.6 Oggi si parlerà di Andrea, un ragazzo di 18 anni, seguito dall’età di 4 anni dai servizi e da pochi mesi in carico al servizio di salute mentale. La madre, dopo la sua nascita ha avuto numerose crisi psicotiche, forse ad esordio puerperale, ma negli anni ha seguito un progressivo processo involutivo. Da anni ha provato a tornare a casa della propria madre la quale non l’ha accettata e da allora è stabilmente ricoverata presso una clinica psichiatrica. Andrea spesso fugge dalla casa della nonna paterna dove vive col padre e tenta di raggiungere la madre, ma quasi sempre viene fermato prima dalla polizia o si fa male e, quindi, deve essere ricoverato in ospedale. Il motivo per cui il gruppo ha deciso di portare il caso di Andrea è il risentimento per l’impotenza che l’intera situazione comporta. La madre di Andrea è stata seguita anni fa, ma è poi scomparsa nel circuito di cura privato. Ora Andrea sembra annunciare la stessa disarmante impotenza. Gran parte della discussione si orienta alla implicita richiesta a me da parte dell’intero gruppo all’autorizzazione a non accettare la presa in carico di Andrea rinviandolo piuttosto ad altri servizi. La scena che mi si propone immediatamente è di due genitori che, attraverso la nascita di Andrea tentano di rappresentarsi adulti, ma entrambi, prima o dopo, ritornano alle rispettive case dei rispettivi genitori. La madre di Andrea appare più grave,considerato che è da tempo in una clinica psichiatrica e la propria madre non l’ha più accettata in casa. Andrea fa fatica, concretamente, a rimettersi in contatto con lei, mentre riesce a stare col padre il quale, attraverso la propria madre e il fratello maggiore può prendersi cura di Andrea. Mi scopro a pensare – e lo comunico al gruppo – al film Ladri di biciclette e alla famosa scena del furto e la passeggiata silenziosa del figlio che tiene la mano del padre avendo appena conosciuto la vergogna di questo. Il nesso con la storia di Andrea e del padre appare evidente, come anche l’assenza di madri e figure parentali di altro genere. Un operatore commenta, quindi, che «il padre fa un lavoro molto duro…», e mi colpisce che nella descrizione che l’operatrice fa anche attraverso una relazione scritta con molta cura, trovi 6 L’idealizzazione del consulente, simmetrica alla violenza che sostiene la posizione di «lamentazione» del gruppo, è la prima e più potente difesa imitativa (Gaddini, 1968) del gruppo istituzionale. Riteniamo sia questo uno dei motivi per cui un gruppo tenda a chiamare un «supervisore» da molto lontano, e che sia particolarmente «famoso» e magari «costoso», spesso non prendendo in considerazione figure tecniche che sono molto più accessibili soprattutto sul piano delle distanze e dei costi. In questa linea cerchiamo, quando ci sono le condizioni, di proporre una serie di scambi incrociati di supervisioni fra servizi molto vicini che spesso hanno anche il vantaggio di potersi realizzare senza necessità di impegno economico, ma solo attraverso lo scambio incrociato di figure competenti presenti nelle varie istituzioni. Per noi è un modo di sottolineare e sostenere, attraverso un registro concreto, una «apertura di disponibilità» del servizio. 9 necessario sottolineare che Andrea sia un figlio «legittimo». Si descrivono le modalità educative violente del padre e la meraviglia di tutti per il fatto che Andrea esibisca i lividi ottenuti per le percosse del padre, con estrema disinvoltura spesso in modo compiaciuto. Suggerisco che forse Andrea ostenta i lividi ottenuti dalla violenza del padre come appartenenza a quel padre di cui, in certo modo, è fiero. A questo punto Andrea viene descritto secondo le modalità di una evoluzione border: contatti con ambienti di tossicodipendenti, un goffo tentativo di rapina con una gruppo di coetanei ad un tabaccaio… «atteggiamenti da bullo». Attraverso la discussione del caso di Andrea, il gruppo degli operatori sembra volersi cimentare con temi della propria crescita che, in quella fase, era particolarmente chiamata a confrontarsi con il grave lutto della perdita del responsabile – figura carismatica e fondativa per il servizio – sostituito da una nuova figura (peraltro femminile…). La proposta di questo caso ha molto poco i connotati di operazione difensiva, mentre si rivela soprattutto una operazione creativa di dialogo con il lutto che rischiava di sostenere il rigido risentimento del gruppo per ogni nuova operazione clinica. Segnaliamo come nella discussione clinica non sia emerso il nesso esplicito al grave lutto del gruppo, invece estremamente evidente all’analista il quale evita attivamente di proporlo. Accade che in una pausa del pomeriggio un operatore ne fa cenno, al bar, commentando con l’analista la discussione della mattina… Il paziente nella narrazione e nella storia del gruppo Innumerevoli storie, del paziente, della sua cura e dell’istituzione al cui interno essa si svolge, si intrecciano nella dimensione narrativa del lavoro psichiatrico (Monari, 2012). Il racconto della storia personale del paziente da parte di chi presenta il caso occupa di solito la prima parte degli incontri di supervisione clinica nei Servizi. Preferiamo il termine storia personale (Monari, 2004) accanto a quello più tradizionalmente medico e psichiatrico di anamnesi, in quanto rappresenta il tentativo di introdurre e dare maggior peso anche al punto di vista del paziente, di valorizzare cioè quegli elementi personali, soggettivi e biografici che inevitabilmente si intrecciano con gli aspetti biologici e psicopatologici. La buona psichiatria allora, seguendo questa ipotesi generale, può essere considerata un insieme di scienza medica e di storia: ampie categorie diagnostiche servono infatti ad organizzare trattamenti terapeutici pensati per adattarsi al singolo paziente, ognuno caratterizzato dalle proprie peculiarità biologiche e sociali, biografiche e personali, da una propria vita emotiva e dalla storia più o meno travagliata del suo sviluppo. La raccolta della storia personale, la sua trasposizione in parole scritte, anche da parte del personale non laureato, spesso poco avvezzo a questa operazione, la sua proposta-lettura al gruppo di lavoro, come anche nelle occasioni di supervisione, e la sua discussione con il paziente rappresentano una metodologia utile (Monari, 2004) per cercare di uscire da fasi di difficoltà clinica in ogni setting del dispositivo psichiatrico della cura (ambulatorio, SPDC, Day Hospital, Centro Diurno e Comunità Residenziali), costruendo un abbozzo di rappresentazione di sé necessario al paziente e utile ai curanti per ripartire con nuove ipotesi terapeutiche. Nel lavoro psichiatrico la dimensione narrativa rappresenta perciò una sorta di filo rosso che serve a «tenere insieme» aspetti diversi e discordanti, a trovare nessi, connessioni, intrecci possibili e sequenze esplicative, a personificare la malattia. Serve infine al gruppo per cimentare le proprie capacità a rappresentarsi secondo vertici multipli la propria storia col paziente. 10 Riprendendo allora la similitudine di Benjami, 7 se i fenomeni sono raggruppabili in costellazioni di punti, possiamo ben affermare che la stella che rappresenta il polo narrativo brilli vivamente di luce propria anche al cospetto delle altre che contribuiscono a formare nel loro insieme quella figura nel firmamento, che si costituisce in ogni supervisione clinica, come il paziente che dobbiamo cercare di comprendere e curare. Per ottenere questo risultato Benjamin suggerisce anche che sia necessaria una certa imperfezione dello sguardo, perché le costellazioni del firmamento possono essere meglio colte a occhi socchiusi perché «considerati da una certa distanza, i grandi e semplici tratti che costituiscono il narratore prendono in lui il sopravvento. O meglio, essi emergono in lui così come nell’osservatore che si è messo alla giusta distanza e nel giusto angolo visuale appaiono una testa umana o un corpo animale in una roccia» (Benjamin, 1936,3). È seguendo questa similitudine che l’analista consulente sembra trovarsi allora nella posizione più adatta a svolgere la funzione per la quale è chiamato: aiutare il gruppo a unire insieme le stelle-idee che emergono nel corso della discussione e sviluppare vertici e sguardi inediti nonché figure-costellazioni impreviste. Ma tornando al racconto della storia del paziente, esso è già il frutto di un lavoro che viene svolto prima dell’incontro, in cui entra in gioco la competenza narrativa dei curanti: di solito il medico, o l’operatore incaricato della raccolta delle informazioni, prende la cartella clinica e cerca di confezionare da essa una storia cronologicamente coerente e come tale dotata di un senso raccontabile al gruppo dei colleghi. In alcuni casi può essere necessario intervistare specificamente il paziente: «Dovete parlare di me?», è la domanda frequente del paziente «esperto» dei meccanismi istituzionali di fronte a questa proposta, oppure i familiari. Un segnale benefico per il gruppo degli operatori, che funziona come un volano positivo per l’intera situazione clinica, è rappresentato allora dalla rinnovata e benevola curiosità, che è di solito stimolata da questa occasione e che diviene a sua volta fonte inesauribile e feconda di domande e interrogativi intorno al paziente, alla sua persona e al rapporto terapeutico con l’istituzione al cui interno si svolge. Esistono allora tante notizie utili e necessarie nelle storie che minuziosamente raccogliamo e che si intrecciano tra loro, da quelle più banali fatte di notizie, nomi, date, snodi temporali e sequenze di avvenimenti concatenati l’uno all’altro, al versante medico e diagnostico, alla storia degli episodi di malattia a quella, delle vicende infantili, personali, familiari, «a quella volta che… o quando successe che…», che nel loro insieme costituiscono la base della discussione clinica, di cui costituisce la prima parte, inevitabilmente densa e complessa non solo per chi la ascolta per la prima volta. Vediamone un esempio. La discussione clinica intorno ad Angela avviene all’interno di una comunità (Residenza Trattamento Protratto nella dizione corretta) che la ospita da circa due mesi. Un’operatrice si occupa dei familiari (la madre) da cui ha raccolto una parte della storia e un altro educatore ha rapporti individuali con la paziente. La storia del gruppo degli operatori di questa comunità è segnata dal fatto che la consulenza psicoanalitica era stata richiesta tempo fa ad uno di noi in concomitanza con una serie di turbolenze particolarmente violente delle ospiti (auto-eterolesionismi, incendi appiccati alla mobilia, zuffe e minacce), cui erano comprensibilmente seguite fasi speculari di grande difficoltà emotiva e di gestione pratica tra gli operatori, alcuni dei quali in vari modi si erano defilati dalla comunità. 7 «Le idee sono costellazioni eterne, e se gli elementi vengono concepiti come punti di tali costellazioni, i fenomeni si troveranno ad essere, nello stesso tempo, analizzati e salvati» (Benjamin, 1928, 10). 11 A. ha 25 anni ed una vita gravemente compromessa da un ambiente primario così traumatico che, se solo fosse vera una piccola parte degli eventi narrati e delle relazioni parentali descritte, comunque risulterebbe ai limiti della possibilità di sopravvivenza psichica e fisica. E’ una storia già «imbalsamata”, perché forse rappresenta l’esito di ripetute narrazioni della paziente ai successivi operatori che hanno cercato di prenderla in cura, quella che i due educatori si apprestano a raccontare in un clima emotivo non solo estremamente rispettoso delle dolorose vicende di A., ma anche angosciato e particolarmente frammentato, quasi incredulo e faticoso perché fatto di tante notizie da stipare insieme e di frammenti molto toccanti di vita. L’abbandono precoce del padre, la sua violenza fisica continuativa verso la madre, che portò alla separazione successiva, l’abuso sessuale subito dalla paziente in due occasioni tra i 3 e i 4 anni di età, le uniche due volte in cui era stata lasciata sola con il padre e che A. ricorda con particolari assai vividi, la trascuratezza fisica ed affettiva in cui si è svolta la prima infanzia e lo stupro collettivo subito da un gruppo nazi-skin da preadolescente, questi sono solo alcuni dei raccapriccianti particolari di questa fase iniziale del racconto. Queste notizie sono raccolte direttamente dalla paziente e dalla mamma, la quale, nel corso di un colloquio comune, riferisce di essere stata poco capace di abbracciare Angela fin da bambina perché immaginava lei non lo volesse mentre A. a sua volta ribatte di aver cercato questo calore nell’eroina e nella vita di strada fin dai 13 anni di età. Però il rapporto affettivo tra le due sembra essere importante per entrambe, comunque legate in una simbiosi patologica tra le freddezze abbandoniche della madre e la grave autolesività ricorrente di A. a lei dedicata. La seduta prosegue con una selva di notizie che riguardano altri aspetti biografici importanti, la grave marginalità sociale e le importanti note psicopatologiche dei componenti di entrambe le famiglie di origine dei genitori di A., nonché gli inevitabilmente complicati rapporti terapeutici già intrattenuti con Sert, altre comunità, SPDC e CSM, inframmezzate a due brevi periodi in carcere per reati collegati alla tossicodipendenza. Come tipicamente succede quando si parla in queste occasioni di casi così complessi, in questa fase della discussione si riproduce ancora la confusione agitata della paziente e la paura speculare degli operatori, alle prese con il difficile problema di quale sia la condotta terapeutica più appropriata a livello sia individuale che istituzionale per non mettere a repentaglio l’incolumità di tutti. Il problema è che in queste ultime settimane A. continua a tagliarsi gli avambracci, creandosene di volta in volta i pretesti e cercando visivamente la reazione del proprio interlocutore di quel momento. A nulla è valso un periodo di ricovero in SPDC e ora il problema si sta ripresentando: A. in queste occasioni descrive un incubo a occhi aperti in cui vividamente racconta particolari degli stupri subiti. In questi casi il suo sguardo assume delle caratteristiche particolari, diaboliche secondo un’operatrice, le stesse che in carcere forse le hanno valso il rispetto delle compagne e il soprannome di «diavolo». Emerge l’insostenibilità per tutti, A. compresa, di tale sua identità personale così terrorizzante e grandiosamente maligna. Nel corso dell’ennesima crisi pantoclastica cui era seguita la solita operazione autolesionistica, che però aveva assunto agli occhi di tutti un significato calmante e di rozza autoregolazione emotiva, un’operatrice presa dal dolore diversamente impotente di entrambe, l’aveva abbracciata stretta e A. a poco a poco si era calmata. Questo racconto dell’operatrice, che aveva messo in pratica quello che le sembrava un modo naturalmente affettuoso per tenerla stretta e farle sentire la sua presenza affettiva autentica e contenitiva, un gesto concreto di winnicottiana holding, ha un effetto altrettanto rassicurante per il gruppo dei curanti e l’atmosfera dell’incontro cambia di registro emotivo. Si sussegue il racconto di una serie di vignette cliniche nel corso della vita comunitaria con i vari operatori che, in qualche modo recuperando dentro di sé una rappresentazione della paziente più umana e meno diabolica, riescono a vedere una possibile valenza terapeutica nei propri modi di trattare la paziente. In particolare un operatore descrive tra mille dubbi e vergogne, la richiesta che A. gli aveva espressamente fatto, dopo essersi procurata delle ferite da taglio nel corso dell’ennesima crisi pantoclastica, di farsi medicare da lui personalmente con l’alcool denaturato che brucia invece che con il Citrosil che non fa male. Dopo un momento di incertezza, collegato con il timore di dover fare la parte dell’oggetto sadico che gli veniva richiesta, aveva acconsentito, facendole anche poi una bella fasciatura con tanto di garza e rete contenitiva invece di usare un semplice cerotto. E in modo toccante racconta che era stato un momento di grande intimità condivisa. 12 A. è una paziente molto gravosa e difficile e non si sa per quanto tempo potrà essere ancora sostenuta in comunità. È solo l’inizio di un percorso terapeutico lungo e denso di prove difficili il cui esito è incerto, ma il gruppo degli operatori si rende conto di poter in qualche modo affrontare, attingendo dalle proprie competenze e risonanze individuali, le sofferenze di Angela ed i suoi oggetti interni così gravemente traumatici e traumatizzanti. L’incontro con gli operatori si è svolto seguendo il copione soddisfacente di un buon incontro di supervisione in cui il consulente si è limitato ad una regia leggera e a qualche intervento riguardante la difficoltà di avvicinare la paziente ed il paradosso dell’incontro terapeutico per il quale, nel momento in cui si crea una qualche connessione emotivamente significativa, da lì possono nascere i problemi più complessi. Ma il vertice che ci preme sottolineare in questa sede è la configurazione traumatica, per i motivi già detti all’inizio della sua narrazione, che A. rappresenta per il gruppo degli operatori, una sorta di sintomo con il quale confrontarsi. E quanto il gruppo possa stare meglio attraverso l’esercizio della sua capacità di lavorare coi pazienti. Questo ci pare un aspetto importante del prendersi cura del gruppo attraverso il paziente, per come lo abbiamo più volte ribadito in questo lavoro. Le immagini Ciò che ci aspettiamo, dopo un intervento in cui sottolineiamo i livelli di accoglienza di aspetti del paziente nel gruppo e nell’operatore, è la comparsa di immagini nella discussione. Le immagini possono essere esplicitamente portate da alcuni partecipanti alla discussione, o dalla nostra capacità di reverie o, soprattutto, attraverso la comparsa di nuovi personaggi che prendono corpo nella discussione. Spesso questi personaggi sono altri pazienti che di solito vengono evocati proprio verso la fine dell’incontro. Essi in parte ripetono caratteristiche di gravità e di angoscia del paziente di cui si sta parlando, ma offrono alcune differenze caratteristiche rispetto al paziente che occupa il tema centrale. Consideriamo queste differenze lo scarto discreto delle trasformazioni avvenute nelle rappresentazioni del paziente e nella capacità ad immaginare dell’intero gruppo. Non sempre ha senso svelare la funzione dei nuovi personaggi o delle immagini che entrano nel campo della discussione perché «il personaggio va spesso rispettato […] Spesso può essere utile cogliere i funzionamenti che il campo può assumere in un suo luogo attraverso la descrizione delle caratteristiche dei personaggi» (Ferro, 2000, XIV-XV). La qualità delle immagini proposte che, gradualmente, vengono a popolare lo scenario della discussione, esprime la fatica che il gruppo sta facendo per cercare nuove rappresentazioni del paziente, e che poi corrisponde al tempo stesso alla fatica di ciascuno, e del gruppo nel suo insieme, ad assumere posizioni più evolute e complesse da cui osservare i fatti per come la propria mente riesce a sentirli. Consideriamo comunque che la comparsa di immagini anche angoscianti è sempre un passo evolutivo rispetto alla capacità del gruppo ad «immaginare», e rispetto alla nascita nel paziente di nuovi vertici da cui essere colto: difficile che dopo una discussione clinica il paziente, non appena venga a ricontattare il servizio, non susciti emozioni di meraviglia per alcuni suoi comportamenti o che gli operatori – indipendentemente dalla gravità e gravosità del caso – non trovino elementi interessanti nel paziente di cui si era accennato durante la discussione clinica. Il paziente è sempre lo stesso, ciò che cambia, evidentemente, è la posizione e la disponibilità del vertice di osservazione. Queste evidenze ci confortano nella convinzione che il solo paziente di cui possiamo occuparci è quello reso possibile dalle nostre capacità di rappresentarlo secondo più vertici possibili e che il lavoro delle cure – soprattutto, ma non solo, psicoanalitiche – è quello di 13 offrire sempre nuovi vertici alla rappresentabilità del paziente (Bollas, 1987; 2000; Ogden, 2005; 2009). Dopo la presentazione del caso, quando deve prendere avvio la discussione clinica, limitiamo al massimo gli interventi; possibilmente cerchiamo di non intervenire e lasciamo che si delinei una traccia di interesse verso il caso attraverso le domande e le considerazioni e le integrazioni che ciascuno degli altri partecipanti porta. Ci poniamo esattamente come di fronte ad un possibile film – una storia per immagini – che si svilupperà ora, grazie all’occasione dell’appuntamento del gruppo con noi. Di solito a queste discussioni partecipano operatori che non conoscono affatto il caso di cui si parla o, in alcuni casi anche figure esterne al gruppo del servizio: tirocinanti operatori di cooperative, assistenti sociali o psicologhe del comune, medici di base. Se ci riusciamo, cerchiamo di non intervenire mai prima di aver colto le loro rappresentazioni del paziente. In questi casi proviamo a chiedere esplicitamente che queste figure poste sul crinale periferico del servizio propongano le proprie impressioni e immagini sul paziente. Pensiamo che la loro posizione sia particolarmente utile in quanto essi sono a contatto con gli elementi più marginali della identità degli operatori coinvolti e, al tempo stesso, sono i meno difesi rispetto alle angosce simmetriche che i pazienti riescono ad organizzare nei propri curanti. Ci attendiamo grande aiuto da queste figure «ai margini» perché essegodono di uno statuto speciale: appartengono al gruppo, ma si permettono gradi di libertà più ampi degli operatori direttamente coinvolti nella gestione del caso; sono depositari eccezionali delle immagini più sospese e rarefatte che il campo istituzionale può ospitare. In un SPDC si parla di Maria, una giovane paziente molto grave di origine russa, adottata da una coppia italiana, che ha una storia di numerosi e lunghi ricoveri, con estrema compulsione aggressiva esplosiva. Mi distraggo e mi trovo a rivedere una scena osservata poche ore prima in treno: c’era un gruppo di ragazzi Down con altri spastici. Gli operatori mi erano sembrati totalmente distanti dagli utenti che accompagnavano ed ho pensato fossero molto occupati a discutere fra loro di temi burocratici o sindacali del proprio servizio. Mi colpisce un altro frammento: un’infermiera dice: «c’è confusione… e se facciamo confusione il dottore non capisce!». Quando dico che mi sembra che evidentemente a questa paziente tutto il reparto vuole molto bene, ma non si sa come aiutarla, la caposala rileva che quando le si comunica la dimissione Maria puntualmente ingerisce in modo imprevedibile gli oggetti più strani e pericolosi o tenta di avere rapporti sessuali con chi capita nel reparto. Un’altra operatrice suggerisce che non sente che Maria abbia sessualità… piuttosto la ostenta… è un’imitazione… non è cresciuta sessualmente… Una tirocinante, che la conosce solo di vista, rileva che, pur essendo molto aggressiva con tutti, in realtà non sembra voler andare via… rimarrebbe a vita nel reparto… Suggerisco quindi che mi sembra necessario distinguere i vari metodi di cura di cui dispone l’ospedale, dal processo che vogliamo attivare in Maria. Quindi da un lato individuare un obiettivo minimo capace di essere sentito da Maria capace di farla sentire viva e dall’altro rappresentare tutti i vari contesti del reparto (i farmaci, la dimissione, la cura della persona, la contenzione…) come dispositivi per arrivare all’obiettivo e non come obiettivi in sé: quando i dispositivi diventano obiettivi essi sono troppo «adulti», confondenti e frustranti per Maria e per questo lei li attacca. Propongo un’immagine di Maria. Tutti i dispositivi del setting-reparto devono concorrere a restituirle la sensazione di essere una piccola bambina bisognosa alla quale, per il bisogno dei genitori adottivi, è stato tolto il diritto di vivere nel suo ambiente per quanto concretamente deficitario e violento. A questo punto una dottoressa suggerisce che la famiglia adottiva è sicuramente inadeguata a prendersi cura di Maria, però il padre si occupa di lei: prende permessi dal lavoro per starle vicino quando è in ospedale, ma forse non se la sente di fare altrettanto quando Maria è a casa; un’infermiera dice che una volta Maria le ha chiesto di rimanere vicino al suo letto e, mentre andava via, di contenerla al letto con le braccia legate. 14 Di questo frammento, sottolineiamo l’interesse soprattutto a seguire e curare la capacità del gruppo nella verifica di saper immaginare soluzioni che, nell’ipotesi iniziale, sono per definizione richieste all’analista-supervisore. Evitiamo di presentare tesi psicoanalitiche8, mentre cerchiamo di utilizzare ampiamente il metodo psicoanalitico per curare e sostenere lo sviluppo delle capacità ad immaginare da parte del gruppo. Rispetto al classico intervento della «supervisione», questo tipo di intervento evidentemente si sposta più verso la conduzione di un classico gruppo terapeutico, ma se ne discosta in quanto noi stessi partecipiamo direttamente alla individuazione di immagini, associazioni di nostri pazienti e presentazione di scene evocate dalla discussione clinica fino a proporle direttamente al gruppo. Il dato di fatto di essere «esterni» ci suggerisce di attendere che siano gli «interni» a suggerire (cogliere) la linea delle associazioni e a presentare i livelli e le modalità di quello specifico gruppo a saper immaginare. La nostra partecipazione al giocosi intensifica sempre più verso la fine, fino ad assumerci noi il compito di tracciare le linee emerse durante la discussione sottolineando gli arricchimenti intervenuti nella rappresentazione del caso (intese come livelli di complessità intervenuta). Alcune considerazioni conclusive Abbiamo considerato come, negli ultimi tempi, l’accento sull’obiettivo delle «supervisioni» si sia spostato dalla elaborazione del caso in gruppo, all’uso che il gruppo ne fa sul piano di una prevalente funzione narcisistica degli operatori. Ciò è dovuto, a nostro parere, ai cambiamenti intervenuti in questi anni nei rapporti tra soggetto ed appartenenza del soggetto ai propri gruppi di riferimento, in cui si sono allentati i livelli di delega del soggetto alla funzione identitaria riconosciuta al gruppo con maggiore sottolineatura dei bisogni narcisistici che il soggetto ha col gruppo (Neri, 2007). Negli ultimi anni la caduta della funzione coesiva di alcuni modelli – tra cui anche quello psicoanalitico9 – spinge l’operatore a ridurre i propri investimenti verso la componente idealizzata dei vari modelli, chiedendo ad essi una sempre maggiore funzione «laica», contingente e circoscritta di sostegno al Sé. In sostanza il singolo soggetto chiede al gruppo di sostenere la propria individualità e le proprie differenze cercando autorizzazioni e riconoscimenti di specificità. Negli anni passati l’esperienza di supervisione si poteva fondare sulla potente funzione identitaria sostenuta dalle ideologie contenute e condivise dal gruppo istituzionale, ovvero la convinzione della funzione «salvifica» del dispositivo dei servizi territoriali o anche sulla funzione della «parola» rispetto al fantasma (Kaës, 1988; 2000) della segregazione psichica e fisica del manicomio, sulla funzione di una comune e diffusa identità ideologica coincidente all’area della ideologia politica di sinistra e nella diffusa (a nostro parere, transitoriamente, necessaria) 8 È inevitabile, ovviamente, che alcune volte si possano citare autori, tesi e testi psicoanalitici, ma non troviamo difficoltà a mettere fra parentesi tali citazioni. Diamo più importanza ai riferimenti a eventi di attualità e particolarmente a film, trasmissioni TV, storie note, eventi di cronaca, i quali, a nostro parere, rappresentano dispositivi di attivazione di immagini che vengono ad arricchire il processo dell’incontro (ovvero, elementi della fila C della Griglia di Bion…). 9 Non consideriamo questa una vera e propria caduta, quanto un processo di definizione delle caratteristiche specifiche della psicoanalisi che risulta sempre meno incline a strumentalizzazioni secondo dinamiche di ordine imitativo. 15 idealizzazione di alcuni modelli terapeutici tra i quali il modello psicoanalitico10, quello cognitivocomportamentale e sistemico-relazionale. L’attuale contesto istituzionale è, a nostro parere, molto più incline alla valutazione dell’efficacia degli interventi e al relativismo dei modelli. Il senso di fatica e di depressione degli operatori ne è il necessario e inevitabile costo e, prima che essere un problema dei singoli operatori, è un problema che dovranno affrontare nei prossimi anni gli amministratori, se vorranno avere servizi efficaci. Il consulente esterno, ovviamente, nel proprio intervento non può esimersi dall’analisi della domanda che gli viene posta e dalle caratteristiche strutturali e contingenti del contesto verso cui effettuerà il proprio intervento. Non escludiamo affatto che si possano (si debbano?) cercare ed individuare parametri per valutare gli effetti dell’intervento di un consulente esterno verso un gruppo istituzionale attraverso il metodo della «discussione clinica» di un caso. Infine, un ultimo punto che lasciamo sospeso e che proponiamo alla riflessione dell’istituzione psicoanalitica: riteniamo sia non più rinviabile che gli analisti si pongano il progetto di poter documentare secondo dispositivi sufficientemente «oggettivi» le potenzialità trasformative del loro intervento verso una istituzione. Pensiamo che ciò rappresenti l’obiettivo prossimo al quale tendere attraverso la ricerca psicoanalitica in questo ambito, in quanto si tratta di conoscere e condividere il linguaggio «concreto» e, nel bene e nel male, «aziendalista», che caratterizza sempre più la dimensione dei servizi territoriali. Conoscere e condividere questo linguaggio permette di dialogare con le nuove domande di aiuto che dai servizi possono venire e che per gli analisti – nell’interesse della complessità della propria scienza e della passione che coltivano verso i servizi territoriali – è utile intercettare e cogliere. SINTESI Si propone come i cambiamenti intervenuti nella organizzazione dei servizi psichiatrici territoriali abbiano determinato un cambiamento nella domanda di supervisione psicoanalitica nei servizi. La domanda si sposta sempre più dalla supervisione, alla consulenza che uno psicoanalista esperto viene chiamato a dare al funzionamento di un servizio. Pertanto la discussione clinica di un caso permette all’analista di fare interventi rispetto al funzionamento generale del gruppo sostenendo i dispositivi trasformativi tipici della posizione clinica e teorica della psicoanalisi quali la disponibilità dell’operatore a partecipare in prima persona al campo relazionale che si compie nel servizio; le potenzialità del funzionamento mentale iconico; la disponibilità dell’operatore alla sorpresa, alla curiosità e alla partecipazione ai processi di autenticità e all’uso positivo dei «limiti» che nei servizi permettono di organizzare i setting possibili. La discussione clinica può essere occasione diretta della verifica di competenze narrative possibili all’interno del servizio. PAROLE CHIAVE: Autenticità, consulenza; discussione clinica, narrazione, servizi psichiatrici territoriali, sorpresa, supervisione. BIBLIOGRAFIA Barnà C.A, Corlito G. (2011) (a cura di). Emergenze Borderline. Milano, F. Angeli. Benjamin W. (1928). Il dramma barocco tedesco. Torino, Einaudi, 1999. Benjamin W. (1936). Il narratore. Torino, Einaudi, 2011. 10 Non escludiamo il modello fenomenologico a cui si deve, secondo noi, l’avvio del superamento del sistema manicomiale. Ma riteniamo che tale modello, non avendo grandi potenzialità di ordine terapeutico specifico, ha avuto soprattutto la funzione di preparazione all’avvento degli altri modelli psicodinamici. 16 Bion W.R. (1961). Experiences in groups and otherpapers. London, Tavistock publ., 1961 (trad. it. Esperienze nei gruppi, Roma, Armando, 1971). Bion W.R (1963). Elements of psychoanalysis. 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