"L`infermiere" rivista 6/2012

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L'Infermiere n°6 / 2012
EDITORIALE
Devono essere cambiati i paradigmi di assistenza
di Annalisa Silvestro
FOCUS
"Come infermieri abbiamo progettualità e riteniamo di poter agire per innovare"
di Michele Musso
Utile agli altri e ad alta occupabilità: una professione che attira sempre più i giovani
a cura della Redazione
SCIENZE INFERMIERISTICHE
Valutazione degli effetti del prelievo venoso periferico in pazienti ospedalizzati in terapia
anticoagulante: studio osservazionale
di Simone Benedet, Angela De Paoli, Cristina Tommasini, Giulia Ortez
Studio osservazionale sul livello di conoscenze degli infermieri di Terapia Intensiva italiani
di Elio Drigo, Fabrizio Moggia, Gian Domenico Giusti, Paul Fulbrook, John W. Albarran, Birte
Baktoft, Ben Sidebottom
CONTRIBUTI
Le mappe concettuali: come realizzarle e utilizzarle nella formazione e nella ricerca sociale
di Paolo Artoni, Enrico Marchetti e Emanuela Spaggiari
Il modello Hendrich II per la valutazione del rischio di cadute per pazienti ospedalizzati
di Maria Matarese, Dhurata Ivziku
ESPERIENZE
Motivazione e soddisfazione degli studenti del Corso di laurea in infermieristica di Bari
di Vitale Elsa, Esposito Antonio
Valutazione e documentazione del sonno nell'anziano
di Nicola Pisaroni
Il riordino della rete ospedaliera nella Regione Puglia: analisi delle ricadute sull'attività del
Seus 118
di Cesare Calamita, Roberta Sannicandro Pasqua Laraspata, Marco Tommasi
SCAFFALE
Le ferite acute
di Gloria Caminati e Angela Peghetti
Riprogettare la sanità. Modelli di analisi e sviluppo
di Roberto Vaccani
La questione infermieristica: prendersi cura o curare?
di Rodolfo Costanza
Medicina del lavoro per le professioni sanitarie
di Angelo Sacco, Matteo Ciavarella, Giuseppe De Lorenzo
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L'Infermiere n°6 / 2012
Devono essere cambiati i paradigmi di assistenza
di Annalisa Silvestro
Presidente della Federazione Nazionale dei Collegi Ipasvi
Il nostro pensiero e orientamento si esprime in un verbo: cambiare. Siamo convinti,
guardando le cose “da dentro”, che per la sostenibilità il sistema debba cambiare i
paradigmi organizzativi e assistenziali che hanno strutturato le modalità di risposta ai
bisogni e problemi di salute dei singoli e della collettività. Modalità di risposta disallineate
rispetto all’andamento demografico, epidemiologico, economico e culturale.
L'approccio e la risoluzione ai casi acuti o altamente complessi che richiedono interventi di
particolare specificità sia di tipo diagnostico interventistico, sia di tipo tecnologico e
assistenziale devono svilupparsi in ospedali di livello alto, impostati su cicli di operatività
h24 e collegati ad una rete ospedaliera di livello medio e a setting territoriali diversificati.
La rete ospedaliera deve essere coerente alla casistica rilevata nel bacino d'utenza
indicato e dotarsi di un'organizzazione delle degenze che superi la logica del posto letto
"inchiodato" sulla disciplina clinica per muovere, invece, verso una gestione "terza" dei
posti letto, utilizzando il criterio allocativo dell'intensità di cura e della complessità
assistenziale.
In tal modo dovrebbe favorirsi aumento del turnover paziente/posto letto, diminuzione
dell'intasamento dei Pronto Soccorso, di barelle o di letti in corridoio, contenimento di
costi, razionalizzazione dei processi organizzativi e ottimizzazione pertinente degli
infermieri, degli operatori coinvolti nell'assistenza e delle altre professionalità sanitarie.
Ma ancora, la rete ospedaliera dovrà essere strettamente interrelata alla rete
dell'assistenza primaria e a setting territoriali intermedi e domiciliari, che garantiscano
continuità di cura e assistenza, assistenza infermieristica, sorveglianza qualificata e
strutturata associata alla preparazione all'eventuale domiciliarietà, follow up e quant'altro
di necessità con appropriatezza e consapevolezza del mutato bisogno legato alla mutata
demografia ed epidemiologia.
L'offerta sanitaria, evoluta e cambiata, dovrà ridisegnarsi anche mettendo in discussione
gli attuali perimetri professionali ed integrando i percorsi formativi dei futuri (accademia) ed
attuali operatori sanitari (formazione permanente). Per dare sostenibilità al sistema serve
un contro-bilanciamento organizzativo e assistenziale che richiede profondi cambiamenti
del sistema salute.
Noi siamo pronti a sostenere con le nostre competenze, idee e progetti di cambiamento,
della equità e della solidarietà intergenerazionale.
Intervista rilasciata a Il Sole 24 ore sanità (n. 48-49, 25 dicembre 2012 - 7 gennaio 2013)
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L'Infermiere n°6 / 2012
"Come infermieri abbiamo progettualità e riteniamo
di poter agire per innovare"
di Michele Musso
Nell'intervista in streaming del 14-12-2012 sul nostro portale, la presidente Silvestro a
confronto con Paolo Del Bufalo, giornalista del "Sole 24 Ore Sanità".
Innovare: è questa la chiave di volta per sostenere ciò che oggi appare insostenibile,
soprattutto in prospettiva. Ed è questo il concetto intorno al quale è ruotato l’incontro che
nel tardo pomeriggio di venerdì 14 dicembre ha visto la presidente Annalisa Silvestro
intervistata in diretta streaming sul portale della Federazione da Paolo Del Bufalo,
giornalista del Sole 24 OreSanità.
La premessa - poteva essere altrimenti? - è stata la presa d’atto degli enormi sacrifici che
l’ultimo Governo Berlusconi e, poi, il Governo Monti hanno chiesto alla Sanità per
contribuire al tentativo di rimettere in sesto le disastrate casse del nostro Paese.
Tagli, quelli operati, dai due ultimi Governi che non si può negare essere stati “lineari”,
come si usa dire. Tagli invocati anche in nome di una presunta insostenibilità del sistema
sanitario nazionale. Eppure, come ha replicato la presidente Silvestro alla domanda di Del
Bufalo, la risposta al problema della sostenibilità è nella ricerca – e, ovviamente, nel
conseguimento – di un equilibrio tra bisogni e costi per soddisfarli. Se vogliamo mantenere
gli attuali livelli dei servizi ai cittadini, ha precisato Silvestro, «dobbiamo trovare modalità
evolute» di organizzazione e gestione del sistema. Modalità nuove, appunto. Il 2013 sarà
un anno terribile, ha aggiunto Silvestro, ma «possiamo resistere innovando». Come
infermieri abbiamo progettualità e riteniamo di poter agire per innovare, ha aggiunto, «non
dico d’essere ottimista, ma ce la possiamo fare se tutti, infermieri, medici, le altre
professioni sanitarie e i cittadini ci muoviamo insieme nella stessa direzione».
Il tema dell’innovazione si ritrova poi nella delicata questione della progressione
professionale e di carriera sollevata da Del Bufalo. Anche in questo caso, infatti, da una
situazione oggettivamente “impantanata” si può uscire se il sistema trova la forza di
rinnovarsi anche attraverso un riconoscimento – formale e sostanziale – della professione
infermieristica. Forza che, ha ricordato la presidente, non s’è manifestata nei risultati nel
tavolo tecnico del ministero della Salute, tanto che le bozze che ne sono uscite non hanno
affatto trovato la condivisione della Federazione. Ora, a quel tavolo si sta lavorando, con
difficoltà, ma con un diverso approccio. Tanto da far dichiarare alla presidente Silvestro
l’auspicio che presto potranno essere riconosciute formalmente agli infermieri, e non solo
agite quotidianamente, nuove competenze cliniche e assistenziali, oltre a quelle
manageriali. I quali, ha precisato, sono perfettamente in grado di sviluppare un proprio
percorso professionale autonomo seppure insieme con i medici e le altre categorie.
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Senza per questo voler erodere gli spazi altrui, ma “solo” riprendendo competenze che
impropriamente sono state attribuite ad altri: per esempio, «che senso ha sottrarre del
tempo a medici per attività come le vaccinazioni antinfluenzali – ha detto – quando settori
come l’assistenza domiciliare ai terminali restano scoperti di risorse? La parola chiave è
integrazione, non competizione».
Un segnale negativo, purtroppo, viene dal Parlamento. Ci si aspettava – e ormai sembrava
davvero a portata di mano – un’importante novità: la trasformazione dei Collegi in Ordini
professionali. Un obiettivo condiviso da tutti anche a livello parlamentare, appunto, dove
era stata trovata una formulazione legislativa anch’essa condivisa. Purtroppo, l’inopinata
“caduta” del Governo Monti ha sbarrato la strada alla conclusione positiva dell’iter:
«Peccato, per adesso. Sarebbe stato il fiore all'occhiello di tante leggi che abbiamo
contribuito a far passare per favorire la nostra crescita professionale».
Il nuovo, peraltro, si ritrova anche nell’approccio alla professione. Come ha segnalato
l’indagine commissionata al Censis dalla Federazione (già presentata al Congresso
nazionale di Bologna e ripresa nel Rapporto sulla situazione sociale del Paese presentata
di recente dall’Istituto di ricerche), la percezione dell’opinione pubblica è profondamente
cambiata rispetto a un passato nemmeno troppo lontano. Sia i giovani che escono dalla
scuole superiori, sia i loro genitori interpretano la nostra professione con un atteggiamento
largamente positivo. Certo l’equazione “sanità = medico” è dura da scalfire, ma «stiamo
lavorando molto, anche dal punto di vista della comunicazione, per spostare l'attenzione
sull'importanza e la visibilità degli infermieri nel sistema sanitario nazionale».
La diversa prospettiva da cui viene vista la professione è confermata anche da un
fenomeno relativamente nuovo, che appare sempre più visibile: la libera professione. Non
si tratta ormai di una “fuga dalla dipendenza”, ha sottolineato la presidente, ma di una
scelta consapevole di autonomia, anche in ambiti complementari rispetto a quello che il
Servizio sanitario pubblico può dare: «Non possiamo che incoraggiare questo processo.
Mi aspetto piacevoli sorprese e sottolineo anche l'importante ruolo svolto dalla nostra
cassa di previdenza» in una funzione di garante per un solido futuro anche in questo
settore.
Infine le priorità, a cominciare dai contratti di lavoro. Da un punto di vista strettamente
negoziale, fino al 2014 probabilmente di novità non se ne vedranno. Ma, anche in questo
caso, un percorso di novità lo si può intraprendere: è vero, ha detto Silvestro, che la
Federazione Ipasvi non ha un ruolo sindacale, ma l’invito, rivolto dalla presidente ai
sindacati, è di lavorare insieme affinché tra due anni si sia già pronti con una piattaforma
che definisca un profilo professionale che risponda meglio a quello che è oggi l’infermiere
e gli conferisca quindi i riconoscimenti corretti anche dal punto di vista contrattuale.
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Utile agli altri e ad alta occupabilità: una professione
che attira sempre più i giovani
Il 2012 si chiude con una buona immagine degli infermieri attestata dalla società italiana. La
nostra famiglia professionale ha saputo costruire nella popolazione una stima e una fiducia
che erano sconosciute solo fino a pochi anni fa: lo ha fatto emergere a chiare note la ricerca
del Censis su L’infermiere protagonista della buona sanità del futuro.
a cura della Redazione
Cosa ci dicono i cittadini? L’infermiere gioca un ruolo positivo nella sanità attuale e può
essere uno dei principali protagonisti della buona sanità del futuro. Questa professione
riscontra un appeal molto elevato oggi: è considerata utile agli altri e consente di trovare
lavoro rapidamente. Good social reputation ed elevata occupabilità spiegano la scelta da
parte di un numero crescente di giovani di diventare infermiere ed il fatto che una netta
maggioranza di italiani la giudichi una scelta da condividere e incoraggiare.
È positiva la valutazione dell’attività svolta dagli infermieri nelle strutture o servizi sanitari e
la valutazione si fonda sul giudizio delle buone capacità tecnico-professionali e
anche della buona capacità relazionale, intesa come capacità di entrare in rapporto con i
pazienti e di rispondere alle loro esigenze, da quelle prettamente sanitarie a quelle di
carattere informativo.
E se la competenza tecnico-professionale è apprezzata, ma considerata come una sorta
di prerequisito del buon infermiere, la capacità relazionale viene vista come un fattore
sempre più importante, che si materializza in molti aspetti, tra i quali spicca il ruolo di vero
e proprio interfaccia che gli infermieri svolgono, garantendo, ad esempio, informazioni e
risposte ai problemi di vario tipo dei pazienti e migliorando così i loro rapporti e quelli dei
loro familiari con le strutture sanitarie, realtà sempre più complesse, a volte addirittura
percepite come opache.
In un momento in cui i media rilanciano sistematicamente episodi sconcertanti di
malasanità, nel quotidiano emerge in positivo la figura dell’infermiere che svolge con
competenza e passione il suo lavoro e che, soprattutto, si pone come punto di riferimento
per i pazienti.
Nella sanità del futuro gli infermieri, secondo gli italiani, sono destinati a giocare un ruolo
importante, sempre in stretta relazione con i medici, ma con spazi di autonomia
significativi in grado di contribuire ad innalzare la qualità del servizio sanitario. A questo
proposito è positivo il giudizio su quelle esperienze di Pronto soccorso dove gli infermieri,
nel rispetto delle linee guida e con la verifica dei medici, già ora si occupano direttamente
dei casi meno gravi, accelerando le procedure di presa in carico, ferma restando la qualità
dell’assistenza.
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In sintesi, si può dire che sono almeno due gli aspetti significativi dell’upgrading della
professione infermieristica nella sanità del prossimo futuro:
• il primo aspetto è legato all’evoluzione del contenuto dell’attività dell’infermiere che
sarà dato, oltre che da un’elevata capacità tecnico-professionale, dalla crescente
attenzione alla dimensione relazionale come condizione che permette di
massimizzare la capacità della struttura e/o del servizio sanitario di rispondere alle
aspettative di tutela e cura dei cittadini;
• il secondo aspetto consiste nel riconoscimento di spazi più ampi di responsabilità
ed esercizio delle proprie competenze, anche se sempre in stretta connessione con
i medici.
Il ruolo significativo che per gli italiani l’infermiere assumerà nella sanità del futuro
dovrebbe condurre anche ad un maggior riconoscimento in termini di status, retribuzione e
percorsi di carriera.
È chiaro, d’altra parte, che la professione infermieristica già oggi è il risultato di mutamenti
significativi tuttora in atto, che significano un aumento del loro numero e, in termini di
connotati socio-demografici, una minore femminilizzazione e un incremento degli stranieri;
per il futuro i cambiamenti saranno ancora più intensi, se si considera che nei Corsi di
laurea in infermieristica il profilo degli immatricolati mostra un incremento molto
consistente dei giovani provenienti dai licei, di quelli che hanno fatto di questo corso di
laurea la prima scelta e di coloro che hanno ottenuto voti elevati all’esame di maturità. Può
quindi dirsi finito il tempo in cui quello dell’infermiere era un lavoro di ripiego o una
seconda scelta: essere infermiere significa oggi esercitare una professione interessante,
che offre opportunità e gratificazioni e che, sebbene significhi ancora lavorare molto per
non guadagnare molto, comunque beneficia di un positivo riconoscimento sociale, di
ottime opportunità occupazionali e in prospettiva anche di maggiori riconoscimenti
retributivi e di carriera.
Peraltro, le prospettive occupazionali sono destinate addirittura a migliorare rispetto a
quelle già oggi molto positive; infatti, nella percezione collettiva gli infermieri sono pochi
rispetto alle esigenze e, se si pone prospetticamente l’obiettivo di avvicinare l’Italia a Paesi
come la Francia o l’Olanda, allora è evidente come la richiesta di infermieri sia destinata a
crescere in misura significativa.
Se, però, la curva di domanda degli infermieri è destinata a salire, l’offerta di nuovi
infermieri è bloccata dal numero chiuso per l’accesso ai corsi universitari. Questo aspetto
emerge dalla ricerca con una bocciatura sociale solenne assolutamente trasversale: viene
considerato da superare un meccanismo di limitazione dell’accesso ai corsi universitari per
profili professionali, come quelli infermieristici, di cui c’è visibilmente bisogno.
E ciò appare ancora più stringente se associato al prospettato shortage di medici e
all’inevitabile dinamica crescente della domanda di sanità legata all’invecchiamento della
popolazione e alla diffusione di patologie cronico-invalidanti.
In estrema sintesi, dai risultati della ricerca emergono alcuni punti di una potenziale
agenda delle cose da fare:
• aumentare le opportunità di accesso ai corsi universitari in Infermieristica,
modulandole maggiormente sull’evoluzione attesa della domanda di infermieri,
legata ai mutamenti della domanda e dell’offerta sanitaria;
• mettere al centro della formazione non solo le competenze tecnico-professionali ma
quelle relazionali, di attenzione al paziente e alla famiglia e la capacità di interagire,
di comunicare e di relazionarsi;
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• ampliare nella sanità gli spazi di azione autonoma e diretta degli infermieri, laddove
ciò migliora la qualità dei servizi, come ad esempio nel caso citato dei Pronto
soccorso, dove gli infermieri possono occuparsi dei codici bianchi, seguendo linee
guida indicate dai clinici.
Professionale e capace di relazionarsi: l’infermiere piace agli italiani
Il 75,2% degli italiani che ha avuto rapporti diretti o indiretti tramite familiari con gli
infermieri valuta come ottima o buona l’attività svolta da questi professionisti (Figura 1). È
questo il primo statement essenziale da cui partire per capire la professione infermieristica
oggi e le sue prospettive.
Figura 1 - Positiva valutazione dell’attività degli infermieri
Se il miglior giudice dei servizi sanitari è il paziente coi suoi familiari, allora è importante
sottolineare che gli infermieri riscuotono oggi una valutazione assolutamente positiva da
parte della maggioranza di pazienti e familiari con cui sono entrati in contatto. Ed è un
giudizio positivo condiviso trasversalmente al corpo sociale e alle aree geografiche, con
valori comunque molto alti.
Un dato significativo questo, perché vuol dire che in una sanità stretta dal rigore finanziario
e messa nell’angolo dal rilancio mediatico dei casi di malasanità, esiste una sanità
quotidianamente vissuta che garantisce le risposte assistenziali di cui i cittadini hanno
bisogno e della quale gli infermieri sono sicuramente i protagonisti.
Sono giudicate migliori, tra i vari aspetti che caratterizzano l’attività degli infermieri, le
capacità tecnico-professionali (il 55,6%), la capacità di relazionarsi con i pazienti e i
familiari (51,2%) e la cortesia e la gentilezza (44,7%) (Tabella 1).
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Tabella 1 - Gli aspetti migliori dell’attività degli infermieri secondo gli intervistati, per
ripartizione geografica (val. %)
In particolare quali tra i seguenti aspetti giudica
come migliori:
Nord
Ovest
Nord
Est
Centro
Sud e
isole
Italia
Le capacità tecnico-professionali
65,4
54,5
54,7
48,6
55,6
La capacità di relazionarsi con i pazienti e i
familiari
49,6
59,9
43,7
51,6
51,2
La cortesia, la gentilezza
45,4
42,8
46,9
44,1
44,7
Abilità nel gestire attrezzature medicali (flebo,
cateteri, medicazioni, prelievi)
16,7
12,5
16,5
21,5
17,3
Rispetto delle norme igieniche
14,9
17,1
14,2
11,9
14,3
La capacità di dare informazioni su patologia,
terapie, ecc.
11,6
23,3
12,2
9,9
13,6
Attenzione agli aspetti collaterali dello stato di
salute del paziente (dolore, rischio decubito,
ecc.)
16,4
8,2
10,6
13,2
12,5
La capacità di organizzare il lavoro
19,1
16,3
12,2
5,8
12,9
Il rispetto della privacy
6,6
7,4
5,5
4,1
5,7
Il totale è diverso da 100 perché erano possibili più risposte
Fonte: indagine Censis, 2012
Un buon infermiere, meritevole di un giudizio positivo sulla propria attività, è sicuramente
un infermiere in possesso di una serie di capacità operative e tecniche, con un saper fare
che si materializza in una molteplicità di pratiche quotidiane che, appunto, sono il
contenuto della professione infermieristica.
Gli italiani che ne hanno avuto esperienza hanno percepito che è questa una dimensione
molto ben coperta dagli infermieri con cui hanno avuto rapporti; ma al fianco della
tecnicalità conta la dimensione relazionale e umana dell’empatia, quella capacità di
entrare in relazione con persone sofferenti o sicuramente in uno stato psicofisico di
fragilità e con i loro parenti.
La sfera della relazione, ormai vitale in ogni ambito della nostra vita, lo è ancor più
all’interno della sanità, dove la condizione di paziente genera inevitabilmente nel rapporto
con la struttura e il personale una relazione asimmetrica, di fragilità, che solo una
intenzionale ed efficace capacità relazionale da parte del personale, in particolare da parte
degli infermieri, può consentire di superare.
Anche il richiamo alla cortesia e alla gentilezza non fa altro che echeggiare le capacità
relazionali: gli italiani ritengono che gli infermieri con cui sono entrati in contatto hanno
saputo metterle in campo.
Le ragioni della valutazione positiva e il suo rilievo si comprendono pensando alla
complessità delle strutture sanitarie, a cominciare dagli ospedali dove la maggioranza
degli italiani entra in contatto con gli infermieri; infatti tali strutture sono connotate da una
non facile comunicazione con i clinici e i rappresentanti della struttura e dalla necessità da
parte di pazienti e familiari di praticare una sorta di management continuativo del ricovero,
fatto di recupero di informazioni e sviluppo di relazioni per tentare di sapere di più sulla
patologia e/o terapia, per risolvere i quotidiani problemi alberghieri, di comfort, di
relazionalità, magari di ristorazione.
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In questa dinamica difficile, faticosa, che pazienti e familiari devono fronteggiare in caso di
degenze ospedaliere o di contatti con altre strutture, dalle più semplici, come gli studi
medici, agli ambulatori e poliambulatori, alle varie tipologie di strutture di ricovero sociosanitario, la figura dell’infermiere, la sua capacità relazionale, la sua disponibilità a
facilitare l’accesso alle informazioni diventano strategiche e molto apprezzate dai cittadini.
Quasi il 60% dei cittadini dichiara che di fronte a richieste di informazioni su patologie,
terapie, aspetti organizzativi e altro gli infermieri tendono a rispondere quando sono in
grado di farlo (Tabella 2); il 30% parla invece di una tendenza a rinviare sempre e
comunque ai medici, mentre è solo il 10% circa a ritenere che gli infermieri non siano stati
in grado di dare risposte adeguate.
Tabella 2 - Gli infermieri di fronte alle richieste di informazioni su patologie, terapie, aspetti
organizzativi, per ripartizione geografica (val. %)
Nella Sua esperienza di fronte a richieste di
informazione su patologie, terapie, aspetti
organizzativi, ecc., gli infermieri:
Nord
Ovest
Nord
Est
Centro
Sud e
isole
Italia
Tendevano a rispondere quando erano in grado di
farlo
55,8
61,8
60,0
60,9
59,5
Tendevano a rinviare sempre e comunque ai
medici
34,1
30,0
29,3
27,3
30,1
Non mi sono sembrati in grado di dare risposte
adeguate
10,1
8,2
10,7
11,8
10,4
Totale
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
Fonte: indagine Censis, 2012
La dimensione comunicativa delle informazioni è tra quelle cruciali per pazienti e familiari
ed è evidente come gli infermieri nella quotidianità siano un riferimento che, nella grande
maggioranza dei casi, tenta di dare risposte. Alla richiesta di indicare quali siano le cose
più importanti che si aspettano da un infermiere quando entrano in relazione con lui nei
vari setting, oltre il 66% degli intervistati ha indicato la capacità di creare un buon clima
relazionalee l’attenzione agli aspetti psicologici e umani ed il 62,3% ha richiamato un
ottimo livello tecnico-professionale, mentre molto distanziata, con circa un quarto delle
opinioni espresse, emerge la capacità di dare spiegazioni sulla diagnosi e la terapia
(Tabella 3).
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Tabella 3 – Le cose più importanti che gli intervistati si aspettano da un infermiere quando
entrano in relazione con lui nei diversi contesti sanitari, per ripartizione geografica (val. %)
Quali sono le cose più importanti che si aspetta da un
infermiere quando entra in relazione con lui nei vari
contesti (ospedale, pronto soccorso, studio medico,
ecc.)?
Nord
Ovest
Nord
Est
Centro Sud e Italia
isole
Che sappia creare un buon clima relazionale, attento
agli aspetti psicologici, umani
64,9
74,0
64,7
63,9
66,3
Che abbia un ottimo livello tecnico professionale
69,9
62,6
58,6
58,3
62,3
Che sappia darmi spiegazioni sulla diagnosi, la terapia
(magari rendendo più accessibile quello che dice il
medico)
26,2
26,0
25,8
24,7
25,5
Che sia aggiornato su cure, tecnologie, farmaci, ecc.
16,5
13,1
13,2
17,1
15,4
Che sia attento a risolvere i problemi che mi
riguardano, anche quelli legati agli aspetti alberghieri,
del vitto, ecc.
6,4
6,9
6,4
5,2
6,1
Il totale non è uguale a 100 perché erano possibili più risposte
Fonte: indagine Censis, 2012
È questo un quadro altamente significativo: sono le relazioni, la capacità di costruirle,
l’attenzione agli altri e il modo in cui si esprime tale attenzione ad essere al cuore delle
aspettative degli italiani rispetto all’attività dell’infermiere.
Se la tutela della salute è per i cittadini una dimensione cruciale della propria vita a cui
dedicare tempo, energie, soldi e sulla quale essere informati e capaci di formarsi un punto
di vista, allora entrando in contatto con la sanità i cittadini hanno bisogno di interlocutori
che accettano la relazione, la coltivano, gli danno senso e contenuto. Ed è anche su
questo aspetto che gli infermieri nel quotidiano si mostrano capaci di operare con efficacia.
L’infermiere che piace agli italiani è professionale e capace di relazionarsi e coloro che
hanno avuto esperienza diretta di rapporti con gli infermieri ritengono, in netta
maggioranza, che così sono gli infermieri che operano nella sanità italiana.
Voglio diventare infermiere: bravo, bella scelta
L’84,2% degli italiani afferma che a un figlio, parente o amico che desiderasse iscriversi al
Corso di laurea in infermieristica e chiedesse un consiglio, direbbe di farlo (Tabella 4):
questa professione rappresenta un’opportunità, tanto che un giovane che desidera
diventare infermiere va assolutamente incoraggiato.
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Tabella 4 - Intervistati che consiglierebbero ad un figlio/parente/amico di iscriversi al Corso
di laurea in infermieristica, per ripartizione geografica (val. %)
Se Suo figlio, parente o amico, desiderasse iscriversi
al corso di laurea in Scienze infermieristiche e le
chiedesse un consiglio, oltre a invitarlo a fare ciò che
davvero gli piace, Lei:
Nord
Ovest
Nord
Est
Centro Sud e
isole
Italia
Gli consiglierebbe di farlo
85,3
89,8
83,8
80,4
84,2
Glielo sconsiglierebbe
14,7
10,2
16,2
19,6
15,8
Totale
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
Fonte: indagine Censis, 2012
In estrema sintesi, oggi diventare infermiere è, per gli italiani, una scelta giusta: per oltre il
76,6% perché ritiene sia una professione con un alto valore sociale e di aiuto verso gli altri
e il 47% circa perché consente di trovare facilmente occupazione (Tabella 5).
Tabella 5 – Principali motivi per cui gli intervistati consiglierebbero ad un
figlio/parente/amico di iscriversi al Corso di laurea in infermieristica, per classe d’età (val.
%)
Perché consiglierebbe a un figlio/ parente/amico di
iscriversi al corso di laurea in Scienze
infermieristiche?
18-29
anni
30-44
anni
45-64
anni
65 anni Totale
e più
Ha un alto valore sociale, di aiuto verso gli altri
71,2
74,5
79,8
78,1
76,6
Si trova facilmente occupazione
44,5
48,0
47,4
46,5
46,9
È tutto sommato ben retribuito
10,5
6,6
9,6
8,4
8,6
Ci sono prospettive di carriera
13,6
9,0
7,2
8,1
8,9
Il totale non è uguale a 100 perché erano possibili più risposte
Fonte: indagine Censis, 2012
Social reputation e sbocchi occupazionali sono i due pilastri che rendono quella
infermieristica una professione sulla quale scommettere, purché ovviamente rientri nelle
corde della persona che vi si vuole dedicare. Un tempo attività vocazionale o di ripiego per
donne e/o religiose, il suo profilo è quindi cambiato ed è in continua evoluzione, perché
tende ad essere percepito e anche vissuto sempre più come una scelta mirata.
Sul piano sociale, il suo contenuto altruistico è considerato un fattore di status, che incide
positivamente sull’appeal verso i più giovani, affiancato, ovviamente, dal dato concreto
delle opportunità occupazionali.
Diventare infermiere significa fare qualcosa di utile e che permette di trovare subito lavoro:
questo lo statement chiave sul profilo della professione nella percezione prevalente.
Tra coloro che, invece, sconsiglierebbero parenti e amici di dedicarsi alla professione
infermieristica, la ragione primaria indicata è che si tratta di un lavoro troppo duro (63%) e
per il 37% malpagato.
Un altro dato essenziale sulla percezione prevalente degli italiani rispetto agli infermieri è
che la maggioranza (il 68,5%) ritiene che attualmente nel nostro Paese vi siano pochi
infermieri e che sarebbe opportuno aumentarne il numero, così da colmare le lacune.
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L'Infermiere n°6 / 2012
Una professione di qualità
Gli aspetti della professione infermieristica che ne definiscono il profilo sociale sono
destinati a diventare sempre più importanti nel futuro, anche in relazione all’evoluzione
attesa della sanità italiana. Si tenga infatti presente che è sempre più alta l’attenzione che i
cittadini hanno per la tutela della salute e, ovviamente, per il modo in cui il Servizio
sanitario del prossimo futuro sarà in grado di dare le risposte assistenziali attese.
Per il futuro, dalle indagini condotte recentemente sulla salute emerge che ci si aspetta
una sanità ad alta intensità tecnologica per le acuzie, ma con una notevole proiezione sui
territori, attraverso le tante forme di medicina del territorio, di continuità assistenziale e di
offerta socio-sanitaria.
È in questa prospettiva evolutiva di lungo periodo della sanità del futuro che vanno lette
anche le caratteristiche della professione infermieristica che sono destinate ad avere
rilievo.
Su tale base è stato chiesto agli intervistati di indicare tra i vari aspetti che connotano la
professione infermieristica, soprattutto pensando al futuro della sanità, quali siano i più
significativi. Il primo aspetto indicato come altamente significativo è che il lavoro di
infermiere è e sarà sempre più un lavoro che si sceglie (quasi il 91%), una professione che
per le sue caratteristiche specifiche, di reputazione sociale e di opportunità occupazionali,
sarà scelta dai giovani che decidono di intraprendere gli studi ad hoc. È questa una
visione socialmente radicata, che è fatta propria in modo trasversale rispetto alle variabili
sociodemografiche e territoriali.
Aspetti della professione che saranno importanti anche in futuro
Nella percezione collettiva, l’infermiere è una professione nella quale si lavora molto e
così sarà anche per il futuro (l’88,5% condivide questa idea). Gli infermieri dimostrano
capacità di adattamento (81,4%), quel modus operandi che consente di fronteggiare le
tante difficoltà quotidiane di tipo diverso, superando ostacoli imprevisti. Sul piano
contrattuale e retributivo, gli italiani ritengono in netta maggioranza che gli infermieri
guadagnino poco (lo pensa il 66,4%). Tuttavia una maggioranza altrettanto robusta (il
71%) ritiene che per il futuro quella infermieristica sarà una professione destinata ad
avere un maggiore riconoscimento in termini di stipendi, status sociale e percorsi di
carriera.
Avranno sempre più riconoscimento economico e di status
Gli italiano sono convinti che questa professione riuscirà ad avere maggiori riconoscimenti
anche per quegli aspetti sui quali oggi è di fatto penalizzata, ad esempio per i livelli
retributivi. Va precisato che questa convinzione è molto meno radicata al Sud-Isole, dove
la condivide il 62% circa, di contro a quote superiori al 70% nelle altre macro-aree.
L’infermiere è e rimarrà nella percezione collettiva una professione inquadrata come
lavoro dipendente, con posto fisso e stipendio sicuro (80%), piuttosto che una professione
da giocarsi sul mercato delle professioni, magari con partita Iva, studio proprio e contratti
di consulenza. Prevale infatti l’idea di una figura professionale inserita stabilmente in
organizzazioni complesse e strutturate, come i presidi ospedalieri e territoriali della sanità.
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L'Infermiere n°6 / 2012
Quali competenze per il futuro?
Gli infermieri, nella percezione collettiva, sono sulla ‘linea del fronte’ nel rapporto tra
Servizio sanitario e pazienti, interfaccia quotidiana con i cittadini. Le loro capacità tecniche
devono sempre più essere integrate da un grande senso di umanità e da notevoli
capacità relazionali. La priorità per il settore infermieristico nel prossimo futuro, in vista di
una sanità migliore dal punto di vista dei pazienti, risiede proprio nel migliorare la
preparazione psicologica e relazionale (46,8%), seguita dall’aumento del numero di
infermieri che escono dalle nostre università (39,9%) e dal miglioramento del rapporto con
le nuove tecnologie (37,0%).
L’autonomia degli infermieri
Agli occhi degli italiani, l’autonomia rispetto ai medici è un tema delicato, che va affrontato
con estrema cautela. In pratica, fermo restando il ruolo essenziale di riferimento, anche
operativo, dei medici, traspare nel punto di vista dei cittadini l’idea che in una sanità più
orientata al territorio e alla prevenzione gli infermieri possano avere un maggiore spazio,
che ne valorizzi le capacità e le competenze. E l’infermiere, in pratica, deve diventare
sempre più una persona che affianca il medico e che di fatto non è confinato al ruolo di
puro staff: vi sono anche funzioni più specifiche, di contenuto sanitario che, una volta
indicate le linee guida e definite le procedure di verifica dei medici, possono
indubbiamente essere affidate agli infermieri.
PROFESSIONE INFERMIERE
Al 31 dicembre 2010 gli infermieri iscritti ai Collegi Ipasvi erano 398.494.
Di questi, quasi un terzo lavora (32,9%) lavora al Sud e nelle Isole, il 25,2% nel NordOvest, il 21% nel Nord-Est e il 20,9% al Centro.
Aumentano gli uomini
Le donne sono più di tre quarti (oltre il 77%), ma in alcune Regioni la presenza maschile è
decisamente più alta: in Sicilia, per esempio, gli infermieri maschi sono più del 44%; in
Campania il 39,8% e il 37,8% in Calabria. Sono meno del 15%, invece, in Valle d’Aosta,
Piemonte e Lombardia. Da rilevare che gli infermieri maschi erano il 26,9% del totale nel
2003-2004 e sono diventati il 30% nel 2009-2010.
L’età
La maggior parte degli infermieri si colloca nella fascia di età compresa tra i 35 e i 49
anni, mentre quelli tra i 60 e i 64 anni sono il 2,9%. Gli over 65 sono il 2%. I giovani (sotto
i 30 anni) non arrivano al 10%.
Una professione sempre più colta e di qualità
Cresce sensibilmente il numero degli immatricolati provenienti dai licei, passati da meno
del 29% nel 2003-2004 al 46% circa nel 2009-2010. Tenendo conto degli esiti degli esami
di maturità, si registra una maggior presenza di diplomati che hanno preso i voti più alti e
una diminuzione dei voti bassi: coloro che hanno preso tra 60 e 68 sono scesi dal 43%
nel 2003-2004 al 35% del 2009-2010.
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L'Infermiere n°6 / 2012
La quota di coloro che hanno ottenuto i voti massimi (da 90 in su) è invece salita
dall’11,8% nel 2003-2004 al 12,8% nel 2009-2010, così come le quote di coloro con voti
tra 70 e 79 (dal 29% al 32,2%) e quelli con voti tra 80 e 89 (dal 16,2% al 19,9%).
Sale l’appeal
Tra l’anno accademico 2003-2004 e il 2009-2010 si registra un incremento degli
immatricolati che hanno intrapreso come prima scelta le professioni sanitarie,
infermieristiche e ostetriche: erano infatti il 46,3% del totale e sono diventati oltre il 59%.
Gli immatricolati che hanno vissuto l’iscrizione al Corso di laurea in infermieristica come
seconda scelta sono scesi dal 21,6% all’8,8%, quelli invece che l’hanno scelta come
ricollocamento (si sono iscritti al Corso di laurea dopo 10 anni dal conseguimento del
diploma superiore) sono passati al 15% al 13,3%.
D’altronde la scelta di diventare infermiere è da incoraggiare per l’82% degli italiani,
soprattutto perché ha un alto valore sociale e si trova facilmente occupazione (il 93%
entro un anno dalla laurea).
L’emergenza è finita, ma gli infermieri sono ancora pochi
Dopo le emergenze degli anni Novanta, nell’ultimo decennio il numero degli infermieri è
cresciuto sia in valore assoluto sia come incidenza sulla popolazione: dal 2000 al 2010
sono aumentati di 80 mila unità, facendo crescere di un punto percentuale l’incidenza fino
al 6,6 per 1.000 abitanti. Tuttavia la dinamica incrementale continua a essere insufficiente,
soprattutto in alcune aree del Paese.
In generale, se si volesse portare l’Italia al rapporto infermieri/popolazione dell’Olanda
(10,5 per 1000 abitanti) bisognerebbe aumentare di oltre 266.000 unità il numero di
infermieri al 2020, portandolo a circa 659.000. Ciò vuol dire che ogni anno il numero di
infermieri in attività (come saldo tra chi cessa di svolgere la professione e i nuovi avviati al
lavoro) dovrebbe crescere di oltre 26.000 unità, sino al 2020 incluso. Se invece si
ponesse come benchmark la Francia (8,9 infermieri per 1000 abitanti), bisognerebbe
portare a oltre 482.000 il numero complessivo di infermieri entro il 2020, con un
incremento di quasi 91.000 unità, pari a oltre 9.000 in più ogni anno.
Crescono gli stranieri
Oltre il 10% degli infermieri sono stranieri, con una punta del 16% nel Lazio. Nel periodo
2007-2010 sono aumentati di quasi 8.000 unità (+25%).
15
Valutazione degli effetti del prelievo venoso periferico
in pazienti ospedalizzati in terapia anticoagulante:
studio osservazionale
Simone Benedet1, Angela De Paoli2, Cristina Tommasini3, Giulia Ortez4
1Infermiere, Cooperativa Sociosanitaria Arkesis, Portogruaro (Venezia); 2Professore a contratto,
Corso di Laurea in Infermieristica, Università degli Studi di Udine, Sede di Pordenone; Ricercatore,
Istituto Oncologico Veneto, Padova; 3Professore a contratto e Tutor didattico, Corso di Laurea in Infermieristica,
Università degli Studi di Udine, Sede di Pordenone; 4Professore a contratto, Corso di Laurea in Infermieristica,
Università degli Studi di Udine, Sede di Pordenone
Corrispondenza: [email protected]
RIASSUNTO
Introduzione Nei pazienti in terapia anticoagulante il prelievo venoso periferico per le analisi delle prove dell’emostasi è associato a un alto rischio di complicanze locali come dolore, flebite e formazione di ematomi.
Scopo di questo studio osservazionale pilota è valutare l’incidenza di complicanze nel sito di venipuntura e
investigare le relazioni tra complicanze locali e caratteristiche dei pazienti.
Materiali e metodi Lo studio è stato condotto su un campione formato da 139 pazienti in terapia anticoagulante ricoverati presso 4 reparti dell’Azienda Ospedaliera Santa Maria degli Angeli di Pordenone nei mesi
di settembre e ottobre 2011. I prelievi per il monitoraggio dei valori di INR erano eseguiti con ago a farfalla.
Risultati Le complicanze locali rilevate con maggiore frequenza dopo il prelievo venoso erano flebiti di I o II
grado (77% dei pazienti) ed ematomi (54%). Lo sviluppo di ematomi era associato in modo statisticamente
significativo all’età (p=0,008), al sesso (p<0,0001) e al valore di INR (p=0,0002). Il rischio di ematoma è risultato
circa 3 volte maggiore nel gruppo di età pari o superiore a 80 anni e nel sesso femminile.
Conclusioni Queste osservazioni forniscono le basi per ulteriori studi che prevedono l’esame di un numero
più ampio di pazienti in contesti diversi e il confronto di differenti procedure, mirati soprattutto all’individuazione dei metodi più appropriati per limitare gli effetti negativi dei prelievi nei pazienti a più alto rischio
di complicanze.
Parole chiave: venipuntura, complicanze locali, ematoma, terapia anticoagulante, esami ematochimici, INR
Assessment of the effects of peripheral venipuncture in hospitalized patients
on anticoagulant therapy: an observational study
ABSTRACT
Introduction In patients on anticoagulation therapy, venous blood collection for laboratory testing is associated with a high risk of local complications such as pain, phlebitis and hematoma. The aim of this observational pilot study is to assess the incidence of complications at the venipuncture site and to investigate the
relationship between local complications and patients’ characteristics.
Materials and methods The study was conducted on a sample of 139 patients on anticoagulation therapy,
admitted to 4 different units of the Santa Maria degli Angeli Hospital of Pordenone during the months of
September and October 2011. Blood samples for INR monitoring were obtained by peripheral venipuncture
using a butterfly needle.
Results The most frequent local complications of venipuncture were first or second degree phlebitis (77%
of patients) and hematoma (54%). The risk of hematoma was significantly associated with age (p=0.008),
sex (p<0.0001) and INR value (p=0.0002), and was about 3 times higher in females and patients 80 years
of age or older.
Conclusions These findings provide a foundation for further studies that will involve the analysis of more
patients in various settings and the comparison of different procedures, especially aimed at identifying the
most appropriate methods to decrease the adverse effects of venipuncture on patients with higher risk of
complications.
Key words: venipuncture, local complications, hematoma, anticoagulation therapy, blood testing, INR
e88
L’infermiere, 2012;49:6:e88-e92
INTRODUZIONE
I test coagulativi sono un momento essenziale per lo
screening, la diagnosi, la terapia e il monitoraggio dei
disturbi dell’emostasi, sul versante emorragico come
su quello trombotico. La scelta di procedure ottimali per il prelievo di sangue venoso è indispensabile sia
per la correttezza della raccolta del campione, sia per
la prevenzione del rischio di complicanze locali
(Lowe et al., 2008; Zengin, Enç, 2008). Per ottenere
un buon campione ematico e ridurre lo sviluppo di
complicanze sono importanti fattori preanalitici quali l’identificazione del paziente, la localizzazione di un
accesso venoso idoneo, l’applicazione del laccio, la
scelta del dispositivo più efficace e del diametro dell’ago (Lippi et al., 2006).
La procedura raccomandata per il prelievo venoso periferico prevede l’uso di aghi retti tradizionali, ma nel
nostro contesto regionale (Friuli-Venezia Giulia) è diffuso l’impiego dei dispositivi a farfalla, che se non utilizzati in maniera appropriata influiscono anche sui risultati di laboratorio (Blann et al., 2003, Matchar et al.,
2010); le controindicazioni pratiche che ne dovrebbero
scoraggiare l’uso includono il costo superiore a
quello dei dispositivi convenzionali, la maggiore probabilità di generare campioni non adeguati e la possibilità non remota di un’attivazione dell’emostasi primaria e secondaria durante il transito del sangue nel
segmento di tubo che congiunge l’ago e la provetta
(Lippi et al., 2009).
I possibili effetti avversi locali del trattamento con farmaci anticoagulanti comprendono eventi emorragici
non gravi, come epistassi saltuarie, e la formazione
di ematomi di dimensioni variabili in seguito a piccoli
traumi, tra cui prelievi e/o iniezioni, che in condizioni di coagulazione normale non avrebbero simili
conseguenze (Keeling et al., 2011; Torn et al., 2005).
Nei pazienti in terapia con questi farmaci i prelievi effettuati per la misurazione dei valori di INR sono associati a un rischio maggiore di complicanze in sede
di venipuntura quali dolore, sanguinamento, flebite,
ematoma o lesioni di altra natura, che oltre a provocare disagio possono diventare un segno di scompenso coagulativo evidenziando il rischio di complicanze più importanti (dos Reis et al., 2009; RNAO,
2008). Con questo studio osservazionale pilota ci siamo proposti di valutare la frequenza di complicanze
locali dopo prelievo venoso periferico in un gruppo di
pazienti ospedalizzati in trattamento anticoagulante,
investigando anche le relazioni fra tali complicanze e
le caratteristiche fondamentali dei pazienti (età, sesso e valori di INR).
MATERIALI E METODI
Lo studio è stato condotto su un campione di con-
L’infermiere, 2012;49:6:e88-e92
venienza formato da 139 pazienti in trattamento con
farmaci anticoagulanti per via orale, sottocutanea o
endovenosa che erano stati ricoverati dal primo settembre al 30 ottobre 2011 presso 4 unità operative
(Cardiologia, Medicina d’Urgenza, Medicina II e Medicina III) dell’Azienda Ospedaliera Santa Maria degli Angeli di Pordenone. Per ogni paziente sono state registrate variabili qualitative e quantitative che includevano profilo demografico, terapia anticoagulante
in atto, data del ricovero, diagnosi di ingresso, data
e sede dei prelievi, tempo di protrombina e INR.
Per tutti i pazienti arruolati nello studio i campioni ematici per il controllo dei valori di INR erano ottenuti mediante venipuntura con aghi a farfalla 21G; sono stati esclusi i pazienti sottoposti a procedure di prelievo diverse (ago cannula, catetere venoso centrale, catetere arterioso).
Le complicanze locali a breve termine della venipuntura venivano rilevate entro un’ora dal prelievo; l’intensità del dolore percepito è stata misurata con una
scala numerica (Flaherty, 2008), mentre per la valutazione delle flebiti è stata utilizzata la Phlebitis Grading Scale (Johnston, 2006). Le osservazioni effettuate
venivano riportate in una scheda giornaliera dei pazienti reclutati in ciascuna unità operativa.
I dati, sia quelli relativi alle complicanze sia quelli tratti dalla documentazione clinica, sono stati raccolti con
l’autorizzazione della Direzione Sanitaria e il consenso informato dei pazienti, nel rispetto della riservatezza
e in ottemperanza alla normativa sulla privacy (Decreto
legislativo 196/2003).
Le procedure seguite sono state la predisposizione
preliminare di un foglio di codifica, l’assegnazione di
un codice identificativo per ogni variabile e l’addestramento dei rilevatori sia per l’esame obiettivo sia
per l’inserimento dei dati, che sono stati poi elaborati
utilizzando il programma Microsoft Excel 2007.
Le differenze tra i gruppi sono state analizzate usando il test del χ2, considerando significativi valori di p
inferiori a 0,05.
RISULTATI
Il campione era costituito da 63 maschi (45,3%) e 76
femmine (54,7%) di età compresa tra 47 e 92 anni; l’età
media era pari a 78 anni (Tabella 1).
Tabella 1. Sesso ed età dei partecipanti
Sesso
Età
Maschi
63 (45,3%)
Femmine
76 (54,7%)
71-79 anni
39 (28,1%)
≤70 anni
≥80 anni
27 (19,4%)
73 (52,5%)
e89
La classificazione delle diagnosi di ingresso principali era correlata a patologie respiratorie (dispnea, polmonite) per 66 pazienti (47,5%), cardiopatia per 51
(36,7%), febbre per 12 (8,6%), malattie dismetaboliche per 4 (2,9%), astenia per 3 (2,2%), epatopatia
per 2 (1,4%) e in un caso a trauma (0,7%). Il farmaco anticoagulante più utilizzato era il warfarin, assunto
al dosaggio di 5 mg al giorno da 94 pazienti (67,6%);
40 pazienti erano in trattamento con acenocumarolo alle dosi di 1 mg (25 pazienti, 18%) o 4 mg al giorno (15 pazienti, 10,8%), mentre enoxaparina sodica
per via sottocutanea ed eparina sodica per via endovenosa erano state somministrate rispettivamente a 3 (2,2%) e a 2 pazienti (1,4%).
Come riporta la Tabella 2, la complicanza locale che
si è rilevata con maggiore frequenza in seguito a prelievo venoso era una flebite di I o II grado, riscontrata
in 107 casi (77%). In 75 casi (54%) si è osservata la
formazione di ematomi, di dimensioni inferiori a 6 cm2
per 57 pazienti (41%), comprese tra 6 e 11 cm2 per
9 (6,5%) e superiori a 11 cm2 in 9 casi (6,5%). Soltanto 9 pazienti avevano riferito dolore. Non si sono
riscontrate emorragie o lesioni cutanee a livello del
sito di venipuntura.
Sono state quindi esaminate le possibili relazioni tra
lo sviluppo di flebiti ed ematomi e caratteristiche specifiche dei pazienti come età, sesso e INR. Per l’insorgenza di flebite non si sono rilevate associazioni
statisticamente significative. Al contrario la comparsa di ematomi era associata in modo significativo con
l’età (p=0,008), il sesso (p<0,0001) e i valori di INR
(p=0,0002) dei pazienti (Tabella 3).
In particolare, il rischio di ematoma è risultato circa
3 volte maggiore nel sesso femminile (odds ratio 3,32,
IC 95% 1,65-6,66) e nella fascia di età uguale o superiore a 80 anni (odds ratio 3,84, IC 95% 1,50-9,77),
rispetto al gruppo di età ≤70 anni; in confronto con
questo gruppo, per i pazienti di 71-79 anni l’odds ratio era pari a 1,71 (IC 95% 0,61-4,74). Rispetto a valori di INR minori di 2, valori compresi fra 2 e 3 erano associati a un rischio di ematoma inferiore (odds
ratio 0,08, IC 95% 0,02-0,32; per INR >3 odds ratio
0,67, IC 95% 0,26-1,69).
Per 37 pazienti (esclusi dall’analisi) i valori di INR non
erano disponibili nella documentazione clinica al moTabella 2. Frequenza delle complicanze locali
Complicanza
Numero dei pazienti
Sì
No
Dolore
9 (6,5%)
130 (93,5%)
Flebite
107 (77%)
32 (23%)
Ematoma
75 (54%)
64 (46%)
e90
Tabella 3. Fattori di rischio per lo sviluppo di ematoma
Variabile
Età
Ematoma
≤70 anni
71-79 anni
≥80 anni
Sesso
INR
Sì
No
Totale
9
18
27
18
21
39
48
25
73
Maschi
24
39
63
Femmine
51
25
76
<2
27
18
45
2-3
3
24
27
>3
15
15
30
mento della rilevazione; per gli altri si è registrato un
ampio spettro di valori, da un minimo di 1,13 a un
massimo di 6,54. Per tutti i partecipanti allo studio il
range terapeutico raccomandato era fra 2 e 3, ma in
base ai dati raccolti si è osservato che solo 27 avevano valori di INR che rientravano in questo intervallo.
Ulteriori informazioni emerse riguardano il numero di
tentativi per effettuare il prelievo dei campioni ematici: la procedura era stata eseguita con successo al
primo tentativo per 129 pazienti (92,8%) e al secondo o al terzo rispettivamente in 8 (5,8%) e in 2 casi
(1,4%). L’esperienza lavorativa media degli infermieri
che avevano effettuato i prelievi era pari a 14 anni (da
3 a 31) di lavoro complessivi, quindi infermieri esperti secondo i livelli di competenza (Benner, 1982).
DISCUSSIONE
Questo studio osservazionale ci ha permesso di descrivere le caratteristiche principali dei pazienti in terapia anticoagulante presi in esame e di valutare l’entità del fenomeno delle complicanze locali conseguenti
al prelievo venoso periferico rilevandone la frequenza e la distribuzione. L’analisi delle associazioni tra
caratteristiche come età, sesso e INR e l’insorgenza di complicanze ha inoltre evidenziato che nella popolazione considerata il sesso femminile e l’età superiore ai 79 anni costituivano un fattore di rischio per
la formazione di ematomi.
Per quanto riguarda la variabile INR, l’analisi ha confermato i dati riportati in letteratura che indicano
come anche in pazienti con valori di INR minori di
2 si possano sviluppare complicanze quali l’ematoma, che suggeriscono la necessità di sorveglianza e approfondimenti diagnostici ulteriori anche nel
caso di un intervallo di INR fisiologico (Schulman et
al., 2008; Woods et al., 2004). Valori di INR compresi
fra 2 e 3 sono risultati associati a un rischio di ematomi inferiore.
Nelle unità operative dove si sono svolte le rilevazioni
per i prelievi venivano utilizzati esclusivamente aghi
L’infermiere, 2012;49:6:e88-e91
a farfalla 21G, malgrado le linee guida nazionali e internazionali raccomandino l’impiego di aghi tradizionali retti per questo tipo di esami ematochimici e
gruppo di pazienti, anche per una questione di costi aggiuntivi (Lippi et al., 2008; Oake et al., 2008). Non
è quindi stato possibile valutare la comparsa di complicanze confrontando procedure effettuate con i due
dispositivi.
CONCLUSIONI
Anche se i dati raccolti si riferiscono a un campione
di convenienza non randomizzato, i risultati ottenuti, per quanto non generalizzabili, forniscono indicazioni importanti per indirizzare future ricerche. Le osservazioni condotte nel corso dello studio dovranno
essere ampliate esaminando un numero più alto di pazienti in contesti diversi, paragonando l’impiego di presidi differenti (specialmente ago retto versus ago a farfalla) e concentrando l’attenzione sui gruppi particolarmente a rischio.
Una valutazione più completa degli effetti negativi del
prelievo venoso periferico, unita a indagini sul livello di consapevolezza rispetto a tali effetti e sul coinvolgimento del paziente in termini di aderenza alla terapia anticoagulante, potrà permettere la formulazione
di protocolli in grado di supportare il personale infermieristico nella corretta esecuzione delle procedure
e nella scelta degli strumenti più idonei al fine di ridurre lo sviluppo di complicanze; soprattutto nei pazienti anziani con comorbilità e sottoposti a frequenti
controlli ematochimici. La conoscenza dei fattori di
rischio consente di personalizzare l’assistenza infermieristica con l’obiettivo di prevenire le complicanze; la diffusione e la conoscenza delle raccomandazioni consentono di adottare le buone pratiche professionali.
Emergono infine alcune considerazioni riguardo al tipo
di dispositivi utilizzabili per il monitoraggio dei parametri emocoagulativi in vista di un trattamento a lungo termine con anticoagulanti orali (Cairns et al.,
2011). Come già avviene in alcune realtà, si potrebbe usare il metodo del prelievo capillare con coagulometro portatile digitale: metodo che a fronte di una
spesa iniziale cospicua porterebbe vantaggi sia dal
punto di vista della tempistica necessaria per le analisi (risultato immediato), sia del comfort del paziente, con una riduzione del dolore e delle complicanze da venipuntura, fino a una possibile autogestione domiciliare del test (Matchar et al., 2010).
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L’infermiere, 2012;49:6:e88-e92
Studio osservazionale sul livello di conoscenze degli infermieri
di Terapia Intensiva italiani
Elio Drigo1, Fabrizio Moggia2, Gian Domenico Giusti3, Paul Fulbrook4, John W. Albarran5,
Birte Baktoft6, Ben Sidebottom7
1Infermiere,
Consiglio Direttivo ANIARTI (Associazione Nazionale Infermieri Area Critica); 2Infermiere, Presidente
ANIARTI; 3Infermiere, Area Critica Unità di Terapia Intensiva, Azienda Ospedaliera di Perugia; 4Infermiere,
Australian Catholic University, The Prince Charles Hospital, Brisbane, Australia; 5Infermiere, University of the West
of England, Bristol, Gran Bretagna; 6Infermiera, Randers Hospital, Aarhus, Danimarca; 7Infermiere, Intensive Care
Unit, Royal Brisbane and Women’s Hospital, Brisbane, Australia
Corrispondenza: [email protected]
RIASSUNTO
Introduzione Questo articolo presenta un’analisi secondaria dei dati raccolti in 20 paesi europei da uno studio osservazionale trasversale sul livello di conoscenze degli infermieri di Terapia Intensiva. Obiettivo dell’analisi è fornire un quadro più preciso dei risultati ottenuti per gli infermieri italiani.
Materiali e metodi L’indagine è stata condotta utilizzando il questionario E-LINKS (Europe – Levels of Intensive Care Nurses’ Knowledge Survey), che contiene 100 domande a risposta multipla relative a 11 aree
di conoscenza. In Italia sono state selezionate 20 unità di Terapia Intensiva; in ognuna sono stati invitati a partecipare 6 infermieri. I dati sono stati raccolti tra agosto e dicembre 2009.
Risultati Il questionario è stato compilato da 86 infermieri (tasso di risposta 71,7%). Poco più della metà erano
donne (53,5%); i gruppi più numerosi erano formati da infermieri fra i 30 e 39 anni di età (53,5%) e con più di
5 anni di esperienza specifica (40,7%). L’84,9% dei partecipanti ha raggiunto o superato il limite del 50% di risposte esatte; il punteggio globale medio era pari a 63,6%. Il fattore principale che ha contribuito alla variabilità nel punteggio era l’anzianità di servizio in reparti di Terapia Intensiva. Rispetto alle aree di conoscenza
investigate, i punteggi più bassi si sono registrati per la categoria ventilazione e respirazione (media 54,7%);
meno della metà del campione ha risposto correttamente a 18 domande, di cui 7 riguardavano tale categoria.
Conclusioni I risultati emersi dalla nostra analisi sono simili a quelli ottenuti per altri paesi europei dallo studio di riferimento (punteggio medio 65,7%). La quota di risposte corrette inferiore al 50% per circa il 15% dei
partecipanti e i punteggi relativamente scarsi rilevati in alcuni ambiti sottolineano la necessità di ridefinire le
priorità nella formazione post base universitaria e nella formazione permanente obbligatoria.
Parole chiave: area critica, terapia intensiva, infermieri, conoscenze, formazione, questionario E-LINKS, Italia
A survey of Italian intensive care nurses’ knowledge levels
ABSTRACT
Introduction This paper presents a secondary analysis of data collected from 20 European countries in a
cross-sectional survey of intensive care nurses’ knowledge levels. The aim of the analysis was to give a more
precise picture of the results obtained for the Italian nurses.
Materials and methods The survey was conducted between August and December 2009 using the E-LINKS
(Europe – Levels of Intensive Care Nurses’ Knowledge Survey) questionnaire, a 100-item multiple choice test
assessing 11 areas of knowledge. Six nurses from each of the 20 Italian intensive care units selected were
invited to participate in the survey.
Results The questionnaire was completed by 86 nurses (response rate 71.7%). The majority of responders
was female (53.5%); the largest groups of nurses were in the 30-39 years age range (53.5%) and had more
than 5 years of specific experience (40.7%). The overall mean score was 63.6%; 84.9% of participants
answered at least half of the questions correctly. The main factor that contributed to variance in scores was
nurses’ length of intensive care experience. The lowest scores were obtained in the ventilation and respiration category (mean 54.7%). In 18 questions less than half of the sample provided the correct answers; 7 of
these questions were in the ventilation and respiration category.
Conclusions The results of our analysis are similar to those found in the main study for other European
countries (mean score 65.7%). However, about 15% of participants failed to achieve a minimum score of
50%, and low scores were obtained in several knowledge areas; this suggests the need to reconsider the
priorities in critical care nurses’ education.
Key words: intensive care, nursing, knowledge, education, E-LINKS questionnaire, Italy
L’infermiere, 2012;49:6:e93-e100
e93
INTRODUZIONE
Buone conoscenze teoriche, abilità pratiche e competenze relazionali sono alla base di cure di qualità;
riuscire ad applicare in modo corretto queste componenti è fondamentale nella professione infermieristica come in tutte le professioni sanitarie. Ci dovrebbe essere sempre congruenza tra i bisogni del
paziente e le conoscenze, abilità e competenze dell’infermiere che eroga l’assistenza; in particolare,
come indicato dalla World Federation of Critical Care
Nurses, nei reparti ad alta intensità assistenziale le
cure fornite ai pazienti critici dovrebbero coinvolgere
personale infermieristico qualificato con formazione
post base avanzata (WFCCN, 2005). Tale concetto è
ribadito nelle Linee guida per il Master di primo livello
elaborate dalla Federazione Nazionale dei Collegi
IPASVI: “L’infermiere che opera in Area Critica deve
avere conoscenze, competenze e abilità specifiche
che gli consentano di affrontare tutte le situazioni che
determinano criticità e instabilità vitale” (Federazione
Nazionale Collegi IPASVI, 2002), dove con i termini
Area Critica si intendono l’insieme delle strutture di
tipo intensivo intra ed extraospedaliere e l’insieme
delle situazioni caratterizzate dalla criticità e dall’instabilità dell’ammalato e dalla complessità dell’intervento infermieristico (Drigo et al., 2001).
Nel quadro del dibattito sulle competenze infermieristiche nei vari contesti operativi, uno studio esplorativo ha messo in evidenza una serie di indicatori per
definire e valutare le competenze degli infermieri che
lavorano nelle unità di Terapia Intensiva (TI) italiane
(Palese et al., 2005). Indagini sui livelli di conoscenze
degli infermieri di TI sono importanti per cercare di indirizzare la formazione di base e post base di questi
professionisti. A tale proposito sono stati sviluppati
numerosi strumenti; uno dei primi esempi è il BKAT
(Basic Knowledge Assessment Tool; Toth, Ritchey,
1984; Toth, 1986), che in versioni successive è stato
utilizzato in setting differenti, negli Stati Uniti e in altri
paesi (Toth, 2003), incluse unità di TI pediatriche e
neonatali (Runton, Toth, 1998; Toth, 2007; Long et al.,
2012). Va peraltro menzionato che alcuni degli studi
effettuati in questo campo hanno esaminato solo
aspetti molto specifici delle conoscenze infermieristiche (Koutzavekiaris et al., 2011; Lin et al., 2011).
Una valutazione più completa è stata condotta da
uno studio osservazionale trasversale che ha coinvolto 20 paesi europei, per un totale di 318 unità e
1.142 infermieri di TI, utilizzando un questionario che
investigava 11 aree di conoscenza (Fulbrook et al.,
2012). In questa analisi secondaria ci siamo proposti di esaminare in maniera più approfondita i dati
raccolti nel corso dello studio che si riferivano ai
partecipanti reclutati in Italia, con l’obiettivo di defi-
e94
nirne i livelli di conoscenze generali e rispetto alle singole aree, anche in funzione di variabili come età, anzianità di servizio e struttura di appartenenza.
MATERIALI E METODI
Lo strumento usato per lo studio principale è una
versione dell’Intensive Care Hundred Item Test (I-HIT),
sviluppato originariamente in Australia (Boyle et al.,
1995; Murgo, Boyle 2006) e adattato al contesto europeo dal gruppo di ricerca dell’European Federation
of Critical Care Nursing Associations (EfCCNa) con il
consenso degli autori. Dopo la revisione, la versione
inglese del nuovo questionario (denominato E-LINKS:
Europe – Levels of Intensive Care Nurses’ Knowledge Survey) è stata tradotta in 15 lingue; il processo
è stato seguito dai rappresentanti dell’associazione
nei diversi paesi coinvolti nell’indagine per assicurare
la chiarezza e l’accuratezza della traduzione (Fulbrook
et al., 2012). La consistenza interna della versione italiana del questionario è risultata molto buona (coefficiente alfa di Cronbach 0,91).
Il questionario E-LINKS contiene 100 domande a risposta multipla, con un’unica risposta esatta, articolate in 11 categorie di conoscenza su vari aspetti dell’assistenza infermieristica in TI. Gli argomenti trattati
includono nozioni riguardanti i sistemi cardiocircolatorio, respiratorio, renale, endocrino e gastrointestinale, i sintomi neurologici, il monitoraggio emodinamico, l’interpretazione di esami e test di laboratorio,
i trattamenti farmacologici, la corretta gestione delle
infusioni, la ventilazione meccanica, il controllo delle
infezioni e la gestione degli stati settici.
Il questionario è stato somministrato ai partecipanti
utilizzando un software professionale online (Survey
Monkey®). A ogni partecipante veniva chiesto di selezionare per ogni domanda una sola risposta tra le
4 opzioni disponibili. Se non si rispondeva a tutte le
domande il sistema non consentiva di inviare il questionario; ciò ha permesso di ridurre la dispersione
dei dati raccolti. La distribuzione via internet, più rapida e facile, è stata scelta sia per i costi limitati, sia
per semplificare l’accesso ai dati e il confronto tra i
risultati di paesi differenti (Bonometti, Tang 2006;
Deutskens et al., 2006).
Nell’ambito dello studio europeo in Italia sono state
selezionate 20 unità di TI distribuite su tutto il territorio nazionale. Il processo di reclutamento, che prevedeva l’esclusione delle unità specialistiche come
quelle cardiologiche o neurochirurgiche, è stato gestito attraverso i rappresentanti dell’ANIARTI (Associazione Nazionale Infermieri di Area Critica) da un
coordinatore nazionale nominato dall’EfCCNa, coadiuvato da un coordinatore locale in ogni struttura arruolata. In base ai criteri di inclusione adottati per i
L’infermiere, 2012;49:6:e93-e100
La maggioranza dei partecipanti era di sesso femminile (N=46, 53,5%); rispetto a età e anzianità di servizio, i gruppi più numerosi erano costituiti da infermieri fra i 30 e i 39 anni (N=46, 53,5%) e con più di 5
anni di esperienza in TI (N=35, 40,7%) (Tabella 1).
Per la distribuzione di maschi e femmine relativamente alle fasce di età si è riscontrata una differenza
significativa (p=0,02, X2=7,807, df=2): la maggior
parte degli uomini rientrava nel gruppo di 30-39 anni,
mentre il numero delle donne era simile nei gruppi di
età inferiore a 30 anni o compresa fra 30 e 39 anni.
Come ci si poteva aspettare ai gruppi più anziani era
associata una maggiore esperienza (R=0,63, p<0,01).
Quasi tutti i partecipanti lavoravano in strutture pubbliche (N=83, 96,5%); più della metà lavorava in
ospedali universitari (N=47, 54,7%), gli altri in aziende
sanitarie locali o in strutture private accreditate con
il Sistema Sanitario Nazionale.
I punteggi del questionario E-LINKS (comprendente
100 domande) venivano espressi come percentuale
di risposte esatte. Il punteggio globale medio del
campione è risultato pari al 63,6% (DS 14,1), con un
minimo del 30% e un massimo dell’87%. L’84,9%
dei partecipanti ha raggiunto o superato la soglia del
50% di risposte corrette. La Tabella 2 riporta i punteggi medi calcolati in funzione di età, anzianità di
servizio in TI, sesso e tipo di ospedale. In base all’analisi della varianza è risultata statisticamente significativa la differenza per il punteggio medio degli
infermieri con esperienza specifica superiore ai 5
anni (68,9%) rispetto a quelli dei partecipanti con minore anzianità di servizio in TI [F(2,83)=4,98,
p=0,009], dato confermato dal test di Games-Howell;
non era invece significativa la differenza tra i gruppi
con anzianità inferiore a 2 anni o da 2 a 5 anni. Non
si sono riscontrate differenze significative tra i pun-
singoli partecipanti, in ciascuna unità di TI sono stati
invitati a compilare il questionario E-LINKS 6 infermieri in servizio presso l’unità al momento dell’indagine, che prestavano assistenza principalmente a
pazienti adulti. Per valutare gli effetti dell’esperienza
professionale sui livelli di conoscenze (Toth, 2003), i
6 infermieri selezionati erano raggruppati in coppie
per anzianità di servizio in TI: inferiore a 2 anni, da 2
a 5 anni e superiore a 5 anni.
A tutti i potenziali partecipanti è stato inviato via email un messaggio informativo che spiegava gli
obiettivi dello studio. Per assicurare l’anonimato,
come unico mezzo di identificazione ogni infermiere
doveva scegliere uno username esclusivo che era
noto soltanto al coordinatore locale. A ciascuna unità
di TI era assegnato un codice numerico, da digitare
insieme allo username prima della compilazione del
questionario. Come indicato nel messaggio informativo, l’invio del questionario completato implicava il
consenso alla partecipazione allo studio.
La raccolta dei dati è cominciata nell’agosto 2009 ed
è terminata nel dicembre dello stesso anno. Per
l’analisi dei dati si è utilizzato il programma SPSS
(Statistical Package for Social Scientists, versione
19). I dati demografici sono stati analizzati mediante
test descrittivi statistici e parametrici per esaminare
differenze e relazioni; per valutare le differenze tra i
punteggi medi all’interno del campione sono stati
usati t-test e analisi della varianza (ANOVA). La significatività statistica è stata fissata a p<0,05, con un
intervallo di confidenza al 95%.
RISULTATI
Su un campione potenziale di 120 infermieri, 86 (appartenenti a 18 unità di TI) hanno completato il questionario, con una percentuale di risposta del 71,7%.
Tabella 1. Caratteristiche dei partecipanti all’indagine
Tipo di ospedale
Età
<30 anni
30-39 anni
≥40 anni
Universitario
20 (42,6%)
(69,0%)
21 (44,7%)
(45,7%)
6 (12,8%)
(54,5%)
Non universitario
9 (23,1%)
(31,0%)
25 (64,1%)
(54,3%)
Totale
29 (33,7%)
(100%)
Struttura privata
Totale
Anzianità servizio in TI
<2 anni
2-5 anni
>5 anni
47 (100%)
(54,7%)
18 (38,3%)
(75,0%)
14 (29,8%)
(51,9%)
15 (31,9%)
(42,9%)
5 (12,8%)
(45,5%)
39 (100%)
(45,3%)
6 (15,4%)
(25,0%)
13 (33,3%)
(38,1%)
20 (51,3%)
(57,1%)
46 (53,5%)
(100%)
11 (12,8%)
(100%)
86 (100%)
(100%)
24 (27,9%)
(100%)
27 (31,4%)
(100%)
35 (40,7%)
(100%)
2 (66,7%)
(6,9%)
1 (33,3%)
(2,2%)
–
–
3 (100%)
(3,5%)
2 (66,7%)
(8,3%)
1 (33,3%)
(3,7%)
–
–
Struttura pubblica
27 (32,5%)
(93,1%)
45 (54,2%)
(97,8%)
11 (13,3%)
(100%)
83 (100%)
(96,5%)
22 (26,5%)
(91,7%)
26 (31,3%)
(96,3%)
35 (42,2%)
(100%)
Totale
29 (33,7%)
(100%)
46 (53,5%)
(100%)
11 (12,8%)
(100%)
86 (100%)
(100%)
24 (27,9%)
(100%)
27 (31,4%)
(100%)
35 (40,7%)
(100%)
L’infermiere, 2012;49:6:e93-e100
e95
Tabella 2. Differenze nei punteggi medi
Età
Anzianità servizio in TI
Sesso
Tipo di ospedale
N
Punteggio medio (DS)
Valore di p
<30 anni
29
62,5% (13,0)
0,318
30-39 anni
≥40 anni
46
62,9% (14,7)
11
69,6% (13,5)
<2 anni
24
58,0% (13,2)
2-5 anni
27
61,9% (13,7)
>5 anni
35
68,9% (13,6)
Femmine
46
63,6% (15,3)
Maschi
40
63,7% (12,5)
Universitario
47
61,9% (13,9)
Non universitario
39
65,8% (14,1)
teggi medi nelle diverse fasce di età, nei due sessi e
negli ospedali universitari o non universitari.
I punteggi medi sono stati inoltre calcolati per ogni
singola categoria di conoscenza (Tabella 3). Il punteggio più alto si è rilevato per l’area gastrointestinale
(a cui nel questionario sono dedicate 3 domande), il
più basso nella categoria relativa a ventilazione/respirazione (20 domande).
Per diverse categorie sono emerse differenze significative tra i punteggi ottenuti dagli infermieri con diversa anzianità di servizio in TI; in particolare, i risultati migliori corrispondevano ai partecipanti con
maggiore esperienza per le categorie cardiaca, ventilazione e respirazione, monitoraggio emodinamico
ed endocrina (Tabella 4). Per le prime due il test di
Games-Howell ha rivelato differenze significative tra
gli infermieri con meno di 2 anni e quelli con più di 5
anni di anzianità (p=0,045, IC 95% da –20,20 a –0,20;
0,009
0,204
0,812
p=0,002, IC 95% da –15,08 a 5,59). Per la categoria
monitoraggio emodinamico la differenza era significativa solo tra i gruppi con 2-5 anni o più di 5 anni di
anzianità (p=0,03, IC 95% da –23,14 a –0,99); peraltro, anche se con una differenza non significativa, nel
confronto tra i gruppi con 2-5 anni o meno di 2 anni
di anzianità i secondi hanno ottenuto un punteggio
medio superiore. Per la categoria endocrina il punteggio medio degli infermieri con minore esperienza
in TI è risultato significativamente più basso rispetto
a quello di entrambi gli altri gruppi.
Per 18 delle 100 domande poste dal questionario più
del 50% del campione ha dato una risposta sbagliata
(Tabella 5). Di queste, 7 rientravano nella categoria
ventilazione e respirazione. La domanda con il punteggio medio più basso riguardava la pressione cricoidea durante l’intubazione; solo l’8,1% del campione ha dato la risposta corretta. La percentuale di
Tabella 3. Risultati per categorie di conoscenza
Categorie
di conoscenza
Numero
domande
Punteggio medio
per categoria (DS)
Numero
punteggi <50%
Gastrointestinale
3
75,2% (29,0)
16 (18,6%)
Endocrina
5
74,0% (23,0)
10 (11,6%)
Gestione infusioni
2
72,7% (34,9)
10 (11,6%)
Cardiaca
21
66,8% (16,6)
17 (19,8%)
Monitoraggio emodinamico
11
65,5% (17,6)
17 (19,8%)
Neurologica
18
64,1% (17,7)
17 (19,8%)
Renale
8
63,4% (20,4)
16 (18,6%)
Varie
1
62,8% (48,6)
32 (37,2%)
Controllo infezioni e sepsi
4
62,5% (28,4)
13 (15,1%)
Farmaci
Ventilazione e respirazione
e96
7
61,8% (20,1)
22 (25,6%)
20
54,7% (15,9)
23 (26,7%)
L’infermiere, 2012;49:6:e93-e100
Tabella 4. Differenze nei punteggi medi in funzione dell’anzianità di servizio in TI
Categorie di conoscenza
Differenze tra i punteggi (valore di p)
2-5 anni
>5 anni
<2 anni
2,5% (0,85)
10,2% (0,045)
2-5 anni
–
7,7% (0,17)
Monitoraggio emodinamico
<2 anni
–7,3% (0,36)
4,7% (0,51)
2-5 anni
–
12,1% (0,03)
Ventilazione e respirazione
<2 anni
6,3% (0,33)
14,3% (0,002)
2-5 anni
–
8,0% (0,11)
<2 anni
15,6% (0,043)
22,3% (<0,001)
2-5 anni
–
6,7% (0,48)
Cardiaca
Endocrina
Tabella 5. Domande con meno del 50% di risposte esatte per categorie di conoscenza
Categorie
di conoscenza
Ventilazione
e respirazione
Cardiaca
Neurologica
Renale
Monitoraggio
emodinamico
Farmaci
Numero
domanda
Rank*
Risposte
corrette
Argomento
51
50
100
99
8,1%
15,1%
Pressione cricoidea durante l’intubazione
Gestione del drenaggio toracico durante
la ventilazione meccanica
48
97
25,6%
Pressione positiva di fine espirazione (PEEP)
durante la ventilazione meccanica
44
92
32,6%
Monitoraggio postoperatorio della respirazione
52
90
37,2%
Umidificazione e riscaldamento dei gas inalati
45
87
43,0%
Scopi del drenaggio toracico
49
86
44,2%
Ventilazione a pressione positiva continua (C-PAP)
4
95
29,1%
Fattori implicati nell’ossigenazione dei tessuti
12
93
31,4%
Controllo ECG: potenziali fattori di aritmia
19
89
37,2%
Livelli di energia nella defibrillazione elettrica
68
94
30,2%
Cause di shock neurogeno
53
88
40,7%
Agitazione postoperatoria
57
85
45,4%
Assistenza infermieristica in caso di alta pressione
intracranica
76
98
19,8%
Meccanismi della dialisi
71
83
48,8%
Monitoraggio della diuresi
23
96
26,7%
Interpretazione delle onde del cateterismo
arterioso
22
84
46,5%
Interpretazione delle onde del cateterismo
dell’arteria polmonare (catetere Swan-Ganz)
85
91
32,6%
Effetti dei farmaci inotropi
*Rank = Ordine delle domande secondo il punteggio medio dal più alto (1) al più basso (100)
risposte esatte era inferiore al 20% anche per le domande sulla gestione del drenaggio toracico durante
la ventilazione meccanica e sui meccanismi della
dialisi renale.
DISCUSSIONE
Il corpo delle conoscenze di base e degli standard
L’infermiere, 2012;49:6:e93-e100
professionali per l’assistenza infermieristica nei reparti ad alta intensità di cure è stato delineato da Toth
(1986) più di 20 anni fa. Anche se si ritiene che i livelli
di esperienza e conoscenze degli operatori possano
influenzare il recupero dei pazienti (Ball, McElligot,
2003), per definire la correlazione tra queste variabili
sono necessari ulteriori studi.
e97
Riguardo alla formazione degli infermieri di Area Critica, le differenze tra i vari paesi europei sono molteplici (Baktoft et al., 2003; Badir, 2004). Uno studio
sulle conoscenze complessive reputate necessarie
per chi lavora in unità di TI era stato finora condotto
unicamente in Finlandia utilizzando una versione del
BKAT (Aäri et al., 2004), ma il questionario era stato
distribuito soltanto a studenti infermieri all’ultimo
anno di formazione di base; per quanto l’indagine
abbia identificato carenze soprattutto per le nozioni
relative agli apparati respiratorio, gastrointestinale e
cardiocircolatorio, i suoi risultati non consentivano di
trarre conclusioni rispetto ai diversi stadi di progressione della carriera.
Lo studio originale di riferimento (Fulbrook et al.,
2012) è il primo che ha investigato in modo sistematico le conoscenze teoriche e applicate degli infermieri di TI in diversi paesi europei, tra cui l’Italia. Lo
studio ha evidenziato che in generale l’esame dei
punteggi medi ottenuti per il questionario E-LINKS
indicava l’esigenza di rivolgere una maggiore attenzione, nei programmi formativi, specialmente alle
questioni tecniche relative alla ventilazione/respirazione e alla gestione di infezioni e sepsi. Tali risultati
sono stati sostanzialmente confermati da questa
analisi secondaria dei dati raccolti nel nostro paese;
nell’interpretazione degli esiti dell’analisi rispetto al
contesto europeo bisogna comunque considerare
che le competenze infermieristiche richieste possono essere diverse a causa della differente organizzazione o distribuzione dei compiti nelle unità di TI
dei singoli stati, come per esempio nel caso della gestione della ventilazione meccanica, rendendo in alcuni casi difficilmente comparabili i livelli di conoscenze valutati (BACCN, 2010).
In Italia il tasso di risposta è stato del 71,7%, superiore a quello dello studio europeo (59,9%) e ben al
di sopra delle percentuali di altre indagini online analoghe (Fallis et al., 2008). Anche nello studio originale
il campione era formato prevalentemente da donne,
ma con una percentuale nettamente più alta (77,3%).
Rispetto alla distribuzione per età il gruppo più numeroso era composto da infermieri al di sotto dei 30
anni (40,5%, contro il 33,7% in Italia); era invece simile la percentuale di partecipanti con anzianità di
servizio in TI pari o inferiore a 5 anni (rispettivamente
il 60,7% e il 59,3%).
Il punteggio globale medio calcolato per il campione
europeo (65,7%) era di poco superiore alla media italiana (63,6%). Mentre dall’analisi dei dati italiani non
sono emerse differenze statisticamente significative
in funzione di sesso o età dei partecipanti all’indagine, nello studio europeo si sono riscontrati punteggi
medi significativamente più alti per gli uomini e dif-
e98
ferenze significative fra tutti i gruppi di età. In entrambi i casi non si sono rilevate differenze significative per tipo di ospedale; gli infermieri che lavoravano
in ospedali non universitari hanno peraltro ottenuto
un risultato migliore, in apparente contraddizione
con gli studi che riconoscono alle strutture universitarie una tendenza verso l’aggiornamento e la ricerca che influenza l’apprendimento del personale
(Gea-Sánchez, 2010; McHugh, Lake, 2010).
Nel campione italiano, come in quello europeo, i
punteggi medi erano direttamente correlati all’anzianità di servizio in TI, con differenze significative per 4
delle categorie di conoscenza valutate dal questionario: cardiaca, endocrina, monitoraggio emodinamico e ventilazione e respirazione. I punteggi più
bassi si sono registrati per quest’ultima categoria, seguita da quelle riguardanti le terapie farmacologiche
e il controllo delle infezioni. Punteggi relativamente
scarsi si sono rilevati anche per l’area neurologica; è
però possibile che questo dato derivi almeno in parte
dall’esclusione delle unità specializzate prevista dal
protocollo di ricerca: se negli ospedali reclutati erano
presenti strutture di TI neurologiche i partecipanti all’indagine che prestavano servizio presso le unità
polivalenti di quegli ospedali avevano probabilmente
una minore preparazione in termini di assistenza ai
pazienti di pertinenza specialistica.
I risultati emersi dalla nostra analisi sono in accordo
con quanto riportato da una serie di studi che hanno
valutato le conoscenze degli infermieri di TI europei
rispetto alle raccomandazioni di alcune linee guida su
temi specifici, come la prevenzione della polmonite
associata a ventilazione meccanica o delle infezioni
correlate a cateterismo venoso centrale, che individuando le carenze più rilevanti hanno fornito indicazioni sull’inserimento nella formazione infermieristica
di linee guida evidence-based per la corretta gestione di processi e interventi assistenziali (Labeau et
al., 2007, 2008, 2009, 2010).
Nel nostro paese per lavorare in TI non è richiesta alcuna qualifica o formazione post base obbligatoria,
nonostante l’attivazione dei Master di primo livello
con indirizzo in Area Critica da parte di alcune università (Federazione Nazionale Collegi IPASVI, 2002);
in una certa misura ciò giustifica il livello di conoscenze non ottimale documentato per diverse aree
dall’indagine che abbiamo condotto. In Italia, come
nel resto del mondo, esistono organizzazioni professionali che insieme alle strutture ospedaliere si occupano della formazione continua degli operatori sanitari (Williams et al., 2007, 2012), ma il grado di
attenzione rispetto all’Area Critica non è conosciuto.
Tenendo presente l’importanza che le unità di TI rivestono anche dal punto di vista economico (Rossi
L’infermiere, 2012;49:6:e93-e100
et al., 2006; Tan et al., 2012), garantire cure infermieristiche di qualità, con livelli di formazione omogenei e standard assistenziali elevati, potrebbe permettere una riduzione dei tempi di degenza e di
conseguenza anche dei costi.
rappresentativi delle diverse realtà italiane, con
l’obiettivo di aumentare le informazioni disponibili
sulle conoscenze degli infermieri di Area Critica,
operare in direzione di un loro potenziamento e infine
migliorare la qualità dell’assistenza.
Limiti dello studio
Il limite principale di questo studio osservazionale è
l’uso di un campione di convenienza, che non consente di generalizzare i risultati. Un altro fattore da
considerare è lo strumento impiegato: dato che le 11
categorie del questionario E-LINKS comprendono
un numero di domande differente, con peso non
proporzionale, le categorie più ampie hanno un’incidenza maggiore sul punteggio totale. Un limite ulteriore è la mancanza di uno studio di verifica e validazione della traduzione italiana del questionario.
Ciò nonostante dall’indagine emerge un quadro che
offre indicazioni importanti sulle aree di conoscenza
più forti e più deboli degli infermieri di TI nel nostro
paese; da sottolineare è inoltre che l’analisi dei dati
italiani è fondamentalmente coerente con lo studio
europeo primario.
BIBLIOGRAFIA
CONCLUSIONI
I risultati di questa analisi secondaria mostrano complessivamente che i livelli di conoscenze degli infermieri di TI italiani sono paragonabili a quelli rilevati in
media negli altri paesi coinvolti nell’indagine europea
più ampia (Fulbrook et al., 2012). Il fatto che circa il
15% dei partecipanti abbia risposto correttamente a
meno della metà delle domande del questionario e i
bassi punteggi ottenuti per diversi aspetti cruciali
per l’assistenza in TI sottolineano la necessità di prestare una maggiore attenzione ai bisogni formativi del
personale infermieristico, ridefinendone le priorità
nella formazione post base universitaria e nella formazione permanente obbligatoria (Educazione Continua in Medicina).
In particolare tra le priorità nelle ricerche che riguardano le unità di TI, oltre a quelle evidenziate in uno
studio condotto nel 2011 da Blackwood e collaboratori (sicurezza del paziente, impatto sugli esiti della
pratica basata sulle prove di efficacia, impatto sugli
esiti dell’organizzazione del lavoro, benessere di pazienti e familiari, impatto sul personale e sugli interventi delle cure di fine vita), occorre pensare a come
uniformare i programmi di formazione post base considerando una possibile mobilità degli infermieri
all’interno dell’Unione Europea (European Commission, 2000).
Ulteriori studi dovranno essere effettuati per approfondire l’argomento, utilizzando altri approcci o anche
lo stesso strumento con campioni più numerosi e
L’infermiere, 2012;49:6:e93-e100
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Ringraziamenti
Gli autori ringraziano l’ANIARTI per il contributo nella raccolta dei dati e nell’organizzazione dello studio e le unità di
Terapia Intensiva italiane che hanno partecipato all’indagine,
con i rispettivi coordinatori locali, che ne hanno permesso
la realizzazione. Si ringraziano inoltre l’EfCCNa e la Federazione Nazionale dei Collegi IPASVI per il supporto finanziario fornito per la traduzione del questionario E-LINKS.
L’infermiere, 2012;49:6:e93-e100
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L'Infermiere n°6 / 2012
Le mappe concettuali: come realizzarle e utilizzarle
nella formazione e nella ricerca sociale
di Paolo Artoni, Enrico Marchetti e Emanuela Spaggiari
“Fare e rifare mappe concettuali, confrontarle con altri, può essere considerato un lavoro
di squadra nello sport del pensiero” (Novak, 1989)
In questo breve contributo ci proponiamo di presentare le mappe concettuali (Mc) come
strumento utile nella formazione degli adulti e in varie fasi della ricerca sociale.
La loro origine risale agli anni Settanta, grazie al lavoro di un gruppo di ricercatori
statunitense che gravitava attorno a Joseph Novak, docente di Didattica della biologia
presso la Cornell University nello stato di New York. Furono utilizzate per la prima volta
come strumento d’analisi di centinaia di nastri d’interviste svolte a bambini per
documentare lo scarto tra ciò che conoscevano prima e dopo un percorso di
insegnamento/apprendimento. Si tratta, di fatto, di un attrezzo che ha fatto da precursore
agli odierni strumenti di analisi dei dati testuali utilizzati nella ricerca sociale e che, come
questi ultimi, permette di organizzare in modo ‘semplice’ parole e proposizioni.
È ormai noto da tempo il valore didattico insito nelle Mc: infatti danno la possibilità di
evidenziare con chiarezza i principali concetti di un discorso e le relazioni che li
collegano[1]. La capacità di isolare tali concetti, altrimenti racchiusi in proposizioni
complesse e quindi più difficili da cogliere, fa delle mappe concettuali uno strumento
prezioso per il committente di una ricerca sociale, per la persona in formazione o, più
genericamente, per il semplice lettore, che trova in esse una guida in grado di condurlo, di
concetto in concetto, di relazione in relazione, lungo un tragitto che sintetizza trattazioni
anche molto ampie e articolate.
Ma andiamo per gradi e soffermiamoci innanzitutto a sottolineare brevemente la valenza
didattica di una mappa in un contesto di formazione: la realizzazione condivisa di una
mappa a partire da un concetto dato ha innanzitutto un valore sociale, ossia può essere
usata come strumento per la creazione di un gruppo di persone che inizia un percorso
formativo importante dal punto di vista dell’impegno e del numero di ore d’aula. La
discussione che scaturisce da questo lavoro di gruppo strutturato aiuta inoltre le persone
implicate nel processo ad approfondire il tema trattato e ad organizzare con più ordine e
precisione le proprie idee intorno ad esso. Aggiungere e togliere concetti, collegarli e
separarli tra loro potenzia anche le capacità logiche e di ragionamento. Inoltre non
dimentichiamo che il risultato che si ottiene è un lavoro “del” gruppo, per il raggiungimento
del quale le persone si trovano a dover negoziare decisioni, sostenere ipotesi,
argomentare relazioni tra concetti: se uno degli obiettivi dell’aula è, ad esempio,
apprendere ad utilizzare in modo efficace le principali regole della negoziazione, la
realizzazione di una Mc può costituire la struttura di un esercizio didattico efficace in tal
senso.
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Ancora, una mappa concettuale è in grado di accogliere le conoscenze e le esperienze
pregresse di tutti i partecipanti, anzi è proprio grazie a queste che essa prende forma e si
struttura: all’interno di un contesto di didattica attiva ciò equivale a riconoscere e
valorizzare i prerequisiti dei discenti, passaggio che a nostro avviso non può essere
misconosciuto né tantomeno eluso se si vuole condurre gli interessati lungo un percorso di
“apprendimento significativo” (Novak 2001), che porti ad un migliore adattamento dei
soggetti all’ambiente mediante il cambiamento di alcuni comportamenti disfunzionali
rispetto ai propri obiettivi.
Una proposta interessante che traghetta il ragionamento verso la ricerca sociale,
ponendosi a metà tra situazioni d’aula e momenti di approfondimento e valutazione, è
sicuramente la combinazione di due strumenti, brainstorming e mappe concettuali, in
esercizi creativi in cui un gruppo è chiamato ad individuare nuove relazioni e nuovi
significati a partire da un concetto dato, oltre che ad aumentare l’ampiezza e la precisione
dello stesso. Rispetto al tradizionale elenco di parole il valore aggiunto della
rappresentazione grafica mediante la mappa è sicuramente una maggiore immediatezza
di lettura; inoltre, nel caso in cui l’obiettivo del brainstorming non si esaurisca con la
conclusione dell’esercizio ma si prolunghi con effetti sul corso o sull’organizzazione
coinvolta, sarà necessario ordinare le decine di concetti emersi mediante una Spo (Scala
di priorità). Rappresentare questo nuovo ordine attraverso una mappa concettuale
aggiunge chiarezza e facilita il ricordo dei ragionamenti che hanno portato all’elaborazione
di quel prodotto da parte del gruppo di partecipanti.
Passiamo ora al secondo obiettivo del nostro contributo, che consiste nell’esemplificare
alcuni utilizzi possibili delle mappe concettuali nella ricerca sociale. Tali rappresentazioni
possono trovare una collocazione interessante in almeno due momenti: la fase di
progettazione di una ricerca e quella di restituzione dei risultati ai committenti. Vediamole
nello specifico.
Nella fase di progettazione le mappe possono agevolare il processo di traduzione empirica
di concetti con referenti astratti (ad esempio “libertà”, “religiosità”, ecc.) che sono lontani
dall’esperienza e non direttamente osservabili, quindi necessitano di una definizione
empirica per essere studiati scientificamente. L’operativizzazione di tali concetti, ossia la
loro trasformazione in variabili utili a misurarli (es. il passaggio dal concetto di *religiosità*
alla variabile *numero di volte in cui una persona va in chiesa in un mese*) non è
immediata, e prevede il ricorso a due scale, una di generalità e una di astrazione. La prima
aiuta il ricercatore a ridurre, attraverso passaggi progressivi, la generalità del concetto
oggetto di studio verso concetti (variabili) sempre più specifici; la seconda porta il concetto
astratto iniziale verso concetti (variabili) sempre più concreti.
Inoltre le mappe concettuali possono aiutare a strutturare il disegno della ricerca: quando
si progetta un’indagine, è questo un momento molto importante in cui è necessario
individuare il proprio oggetto di analisi, gli obiettivi dello studio e gli strumenti che meglio
possono portare al loro raggiungimento. Considerata la vastità di alcune ricerche che si
sviluppano per anni e si articolano in molte fasi, mettendo in campo tecniche standard per
l’analisi di campioni vasti e tecniche non standard per approfondire temi specifici in
microcontesti, la possibilità di rappresentare l’intero disegno di ricerca su di un unico foglio
consente ai ricercatori di cogliere meglio l’insieme e di valutare le scelte fatte passo dopo
passo.
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Figura1 - Esempio di ricerca multifase su base nazionale
Vedi file PDF
Alla conclusione di una ricerca e in fase di restituzione dei risultati alla committenza, le Mc
risultano essere un potente ausilio per rendere snelli, espliciti e immediati sia il percorso
svolto sia i risultati raggiunti. Una caratteristica di tali rappresentazioni che le rende molto
efficaci in questa fase è la possibilità di costruire ‘mappe di mappe’, ossia di partire da una
mappa complessiva, che sintetizza l’intero lavoro svolto, per poi isolare via via i diversi
punti della mappa (concetti o relazioni tra essi) portandoli al centro di una nuova mappa, al
fine di approfondirli ed espanderli. Ad esempio, se si desidera focalizzare l’attenzione della
committenza su di un particolare strumento utilizzato (intervista, focus group), è possibile
rendere la traccia tramite una mappa concettuale, argomentando le scelte fatte
relativamente ai temi toccati e ai diversi gradi di approfondimento di essi.
Sempre in un contesto di restituzione dei risultati di ricerca, immaginiamo di dover
descrivere uno studio di caso. L’utilizzo delle mappe risulta particolarmente efficace in una
situazione di questo tipo grazie alla loro straordinaria capacità di rappresentare la
cosiddetta ‘variabilità delle posizioni’ (ossia le differenti visioni) che i soggetti intervistati
mettono in campo nei confronti del nostro oggetto di studio. Ad esempio, se abbiamo
indagato l’atteggiamento nei confronti dell’utilizzo del computer all’interno di un ospedale,
possiamo raffigurare attraverso una mappa concettuale tutti gli attori del contesto. Da
questa prima mappa se ne possono sviluppare altre per rendere graficamente i differenti
punti di vista di cui gli attori sociali raffigurati sono portatori attribuendo ai concetti diverse
posizioni sulla mappa (e quindi una diversa importanza nell’organizzazione gerarchica che
caratterizza la mappa stessa) a seconda delle percezioni emerse. Ciò è possibile grazie
all’estrema flessibilità delle Mc che le rende valide anche modificando le gerarchie dei
concetti rappresentati.
Un altro uso delle mappe, che potremmo definire di carattere epistemologico, è mirato a
rivelare le ‘misconcezioni’ che spesso sostanziano le nostre visioni del mondo a causa
dell’intervento di quelli che Manghi chiama filtri creativi nella costruzione dei nostri
processi di pensiero e delle nostre rappresentazioni.
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L'Infermiere n°6 / 2012
Stiamo parlando di stereotipi, pregiudizi, preconcezioni, superstizioni, che inquinano il
nostro modo di vedere la realtà, a volte anche perniciosamente. Esse prendono origine da
operazioni logiche scorrette che partono da un legame tra due concetti e giungono
all’enunciazione di una proposizione falsa, come possono essere appunto gli stereotipi o i
pregiudizi. Le mappe concettuali, consentendo di semplificare il discorso e isolare i singoli
concetti e i legami che connettono due o più di essi, sono un valido strumento per mettere
in evidenza questi falsi legami. Possiamo spingerci oltre nel ragionamento. La ricerca
sociale annovera anche, tra i propri compiti, quello di portare alla luce le differenze che
esistono tra il senso comune (ossia il modo attraverso il quale tutti noi conosciamo il
mondo che ci circonda, come detto inquinato dalle distorsioni appena descritte) e il
supporto ad una migliore costruzione della conoscenza che la sociologia può fornire. In
questo scenario è di indubbio interesse utilizzare il confronto tra due mappe concettuali,
una delle quali rappresenta il senso comune in merito ad un determinato argomento
(desunto, ad esempio, da come viene diffuso attraverso i media) e i risultati di una ricerca
sullo stesso tema. Il confronto tra le due rappresentazioni consente di far emergere con
grande evidenza ed immediatezza le differenze, a volte anche molto significative, tra le
due visioni. Lasciamo immaginare ai nostri lettori quale sia l’impatto di queste immagini e
quanto la schematizzazione permetta di renderle chiare e fissarle nella memoria: in questo
caso le Mc aiutano le persone ad essere più consapevoli del modo in cui costruiscono e
organizzano le proprie idee e conoscenze, di conseguenza le proprie visioni del mondo.
Applicativi per la realizzazione delle Mc
È plausibile ritenere che l’accresciuto interesse verso il tema delle mappe concettuali sia
strettamente connesso ad uno spirito del tempo ben preciso, quello che, tanto per
intenderci, ha portato alla rivalutazione di tre metafore di successo nelle scienze sociali,
ossia la mente, il sistema e la rete (De Kerchove, Trobia). È tuttavia altrettanto verosimile
che quello stesso interesse, come pure il riferimento alle medesime metafore appena
citate, sia a sua volta intimamente legato al grande sviluppo che ha contraddistinto il
settore informatico nell’ultimo ventennio, uno sviluppo che ha dischiuso nuove possibilità
di rappresentazione e di applicazione. Nel solco di queste considerazioni non deve stupire
il proliferare, per esempio, di software adibiti alla realizzazione di mappe concettuali, di
sociogrammi o allo studio di reticoli sociali. Nello specifico il numero di applicativi dedicati
alla creazione e gestione di mappe concettuali può dirsi oggi piuttosto nutrito e in costante
evoluzione. Per questa ragione, più che cercare di stilare un elenco esaustivo di
programmi dedicati alla realizzazione di mappe concettuali[2], qui prediligeremo una breve
disamina delle principali caratteristiche discriminanti di cui è bene tenere presente nella
scelta del software da utilizzare, gettando così le basi per la creazione di un breve elenco
ragionato. Si tratterà, in definitiva, di una lista sintetica priva di qualsivoglia pretesa di
esaustività e frutto di una scelta selettiva maturata negli anni, sulla scorta di esperienze
d’uso nel contesto accademico e aziendale.
Quali criteri di differenziazione tra i software?
Le caratteristiche degli innumerevoli applicativi esistenti in tema di concept mapping sono
talmente numerose ed eterogenee da rendere sostanzialmente arduo attendersi che due
pacchetti software possano offrire esattamente le stesse funzionalità. Contestualmente,
nel corso degli ultimi anni l’evoluzione di questi programmi ha portato a un sostanziale
livellamento verso l’alto delle funzionalità di base, a partire dalle possibilità di intervenire
sulle caratteristiche estetiche fondamentali delle mappe.
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L'Infermiere n°6 / 2012
Ormai tutti i principali applicativi in questione consentono, per esempio, di gestire in modo
agevole e intuitivo le mappe e le caratteristiche di molti loro elementi costitutivi (le forme
delle rappresentazioni concettuali, spessore e colore delle connessioni, formato dei testi,
sfondi, ecc.).
Nonostante ciò permangono alcuni fattori ancora fortemente discriminanti e da ponderare
con molta attenzione, specialmente laddove si preveda una gestione delle mappe
condivisa con altre persone. Tali fattori sono riconducibili all’ambiente operativo, al tipo di
licenza e alle funzionalità di collaborazione.
Il riferimento all’ambiente operativo rimanda al fatto che il software prescelto possa
funzionare (in gergo girare) su dispositivi basati su Ms Windows piuttosto che su Mac OSX
o Linux. È infatti importante ricordare come un programma creato per funzionare
unicamente con Ms Windows in generale non può essere utilizzato dal possessore di un
computer Apple o da un PC con Linux, rappresentando così un potenziale ostacolo alla
condivisione del medesimo strumento software da parte di un gruppo di lavoro. Per tale
ragione si suggerisce di optare per applicativi disponibili per sistemi diversi.
Il tipo di licenza rimanda invece all’insieme di regole che accompagnano il software e che
ne stabiliscono le modalità d’uso consentite e non, con implicazioni legali rilevanti. Si tratta
di un tema piuttosto complesso che si presta a considerazioni di carattere economico,
giuridico e filosofico. Per semplicità ci limiteremo qui a considerare come la licenza
determini se il software scelto possa essere utilizzato a titolo gratuito oppure se sia
previsto l’acquisto della licenza d’uso.
Le funzionalità di collaborazione, infine, assumono particolare rilievo laddove si prevede
che la realizzazione e la gestione di mappe concettuali debba coinvolgere più persone.
Poiché ogni software consente di salvare le mappe realizzate in un file, è fondamentale
che il programma utilizzato renda per esempio possibile esportare tale file in un formato
che sia leggibile e gestibile da ciascun utente, anche da chi è dotato di un programma
diverso. Nel caso in cui si pensi invece all’eventualità di sfruttare la connessione di rete
per realizzare e gestire collettivamente una mappa, diventa fondamentale verificare le
funzionalità offerte in tal senso da ciascun applicativo.
Tre suggerimenti per iniziare
Alla luce delle considerazioni fatte desideriamo proporre al lettore il nome di qualche
software, per la precisione: FreeMind, IHMC CmapTools, VUE. Si tenga presente che si
tratta di suggerimenti che prendono spunto tanto dall’esperienza d’uso quanto dalle
esigenze specifiche portate da chi scrive, quindi con la consapevolezza che si tratta di
proposte di parte che non hanno alcuna pretesa di esaurire le possibilità a disposizione.
In particolare, la scelta effettuata si rifà all’esigenza di garantire un compromesso
accettabile tra:
• massima interoperabilità (programmi che funzionano su sistemi operativi differenti e
che consentono in ogni caso di esportare le mappe realizzate in formati standard
facilmente utilizzabili anche con altri programmi diversi);
• gratuità d’uso in contesto di studio (e costi ragionevoli per i contesti d’uso
commerciale);
• stabilità e supporto, intendendo che si tratti di un software ‘maturo’ ormai ben
testato e referenziato dalla comunità, costantemente migliorato dai programmatori e
dotato di una manualistica sufficientemente completa.
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La scelta di limitare i suggerimenti a questi tre applicativi risiede nel fatto che pur
garantendo il raggiungimento del medesimo obiettivo, ciascuno consente di conseguirlo
con modalità e prerogative diverse dagli altri.
FreeMind[3] è per esempio uno strumento molto diffuso, collaudato, ottimamente
supportato e documentato. È particolarmente leggero, cioè di dimensioni modeste e poco
vorace per quello che riguarda la potenza del computer. Questa caratteristica lo rende
particolarmente ideale quando è richiesta immediatezza d’uso, fattore dirimente quando si
preferisce concentrarsi sulle attività di mind mapping, per esempio quando si vuole
rappresentare una vena creativa e dare la priorità al flusso di idee. Nella sua
immediatezza FreeMind è comunque dotato di molte funzionalità, pur se con una
possibilità di intervento sugli aspetti grafici ed estetici delle mappe più limitata rispetto ad
altri pacchetti come CmapTools. In generale FreeMind appare particolarmente indicato per
le attività quotidiane, mentre per le presentazioni o la realizzazione di rappresentazioni più
articolate e curate resta sempre possibile esportare le mappe per gestirle con un
applicativo di concept mapping più completo.
CmapTools (il cui nome completo sarebbe IHMC CmapTools[4], dove l’acronimo iniziale
richiama la paternità dell’Institute for human and machine cognition della Florida University
sul progetto) è un eccellente applicativo sviluppato sotto la direzione di uno dei più
importanti teorici in tema di mappe concettuali: Joseph Novak. Si tratta di un software
particolarmente completo, deputato a migliorare in modo drastico le possibilità di
cooperare nella costruzione e gestione delle mappe concettuali, offrendo la possibilità di
sfruttare funzionalità di networking per stimolare la condivisione tra colleghi e collaboratori.
Tra i punti di forza di questo applicativo vi è inoltre la possibilità di creare mappe navigabili,
anche in formato pubblicabile su siti web. È in grado di garantire la creazione di mappe
esteticamente elaborate, di qualità e di buon impatto. La nota dolente è rappresentata dal
fatto che si tratta di un software pesante, il cui utilizzo può talvolta rendere percepibile una
certa lentezza operativa[5]. Come per gli altri programmi qui citati, si tratta di un dispositivo
disponibile per piattaforme diverse (MS Windows, diverse distribuzioni di Linux e Apple
OSX).
Per chi cercasse un dispositivo capace di collocarsi a metà strada tra i due citati in
precedenza, è possibile utilizzare VUE (Visual understanding environment)[6]. Si tratta di
un applicativo sviluppato e mantenuto dalla Tuft University che propone caratteristiche
intermedie tra quelle di FreeMind e di CmapTools, vale a dire un buon compromesso tra
efficienza e immediatezza, possibilità di intervenire sull’estetica delle mappe, funzioni di
networking. Da valutare le caratteristiche della licenza d’uso per quanto concerne l’utilizzo
in ambito aziendale (la licenza è di tipo Education community license v2, quindi non vi
sono problemi di utilizzo fintanto che si rimane in ambito accademico).
[1] Joseph Novak, il cui pensiero pedagogico e didattico è all'origine della proposta delle
mappe concettuali, dà questa definizione di “concetto”: “regolarità percepita in eventi o
oggetti o in testimonianze/simboli/rappresentazioni di eventi o di oggetti, definita attraverso
un'etichetta” (L'apprendimento significativo, 2001, pag. 33/34).
[2] Per un elenco più esaustivo si rimanda a
http://en.wikipedia.org/wiki/List_of_concept_mapping_software.
[3] http://freemind.sourceforge.net/wiki/index.php/Main_Page.
[4] http://cmap.ihmc.us/conceptmap.html.
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[5] Esiste anche una versione light del medesimo programma, ma si tratta comunque di un
applicativo estremamente ingombrante se confrontato con strumenti quali FreeMind.
[6] https://vue.tufts.edu/download/index.cfm.
BIBLIOGRAFIA
- Novak J D, Gowin D B (1984). Imparando a imparare, trad. it. 1989, SEI, Torino.
- Novak J (1998). L’apprendimento significativo, trad. it. 2001, Erickson, Torino.
- Manghi. (2004). La conoscenza ecologica. Attualità di Gregory Bateson, Milano, Raffaello Cortina.
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Il modello Hendrich II per la valutazione del rischio di
cadute per pazienti ospedalizzati
di Maria Matarese (1), Dhurata Ivziku (2)
(1) Ricercatore universitario in Scienze infermieristiche, Università Campus Bio Medico di
Roma
(2) Infermiera specializzata in Assistenza geriatrica, Policlinico Universitario Campus Bio
Medico di Roma
Corrispondenza: [email protected]; [email protected]
In ospedale le cadute dei pazienti rappresentano uno degli eventi avversi più comuni, che
comporta conseguenze dirette sul paziente sia di tipo fisico (lesioni, fratture, contusioni)
sia di tipo psicologico (ridotta fiducia in se stessi, isolamento, paura di cadere); possono
anche dar luogo a ripercussioni economiche sulla struttura sanitaria per il prolungamento
dei tempi di degenza, per il trattamento dei danni fisici causati dalle cadute e per i
contenziosi legali che ne possono scaturire (Oliver et al., 2004).
Il rischio di caduta non può essere completamente eliminato dai setting per acuti, ma può
essere ridotto attraverso l’attuazione di appropriati programmi di prevenzione (Rubenstein,
2006). Una delle strategie ritenute di provata efficacia in tutti i programmi di prevenzione è
l’identificazione precoce dei pazienti a maggior rischio di caduta, in quanto permette di
mirare gli interventi di prevenzione alla popolazione che ne ha realmente bisogno. Il
riconoscimento dei pazienti a maggior rischio di cadere è reso possibile attraverso l’utilizzo
di strumenti per la valutazione del rischio; generalmente sono costituiti da una lista di
fattori di rischio a cui vengono assegnati dei punteggi che riflettono l’effetto cumulativo dei
fattori di rischio considerati (Scott et al., 2007).
Negli ospedali di tutto il mondo sono comunemente usate scale per l’identificazione dei
pazienti a rischio di cadute, anche se spesso tali scale non sono state sottoposte a rigorosi
studi di validazione negli specifici setting clinici o sulla specifica popolazione di pazienti su
cui sono applicati (Oliver et al., 2004). Alcune scale, come quella di Morse, di Conley e la
Stratify, sebbene siano state sottoposte a studi di validazione, non hanno mostrato
accettabili valori di sensibilità (intesa come la percentuale di pazienti caduti identificati a
rischio di cadute dalla scala) e specificità (intesa come la percentuale di pazienti non a
rischio identificati come tali dalla scala) nei contesti in cui sono state utilizzate, rendendo
difficile determinare quale sia lo strumento più accurato ed appropriato da utilizzare per la
valutazione del rischio di cadere nei pazienti adulti ospedalizzati (Haines et al., 2007; Scott
et al. 2007).
Tra le scale descritte in letteratura, il modello del rischio di caduta di Hendrich II (Hiifrm),
integrato da un programma per la prevenzione delle cadute, ha mostrato risultati
incoraggianti. È stato progettato dalla ricercatrice americana Ann Hendrich e da suoi
collaboratori proprio per identificare i pazienti adulti a rischio di cadere negli ospedali per
acuti. Ad una prima versione elaborata nel 1995 (Hendrich et al., 1995), ne è seguita nel
2003 una seconda (Hendrich II), che è andata a modificare parzialmente i fattori di rischio
valutati sulla base di nuovi risultati di ricerca (Hendrich et al., 2003).
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Nello studio americano del 2003, condotto su una popolazione adulta di un ospedale per
acuti, il modello aveva presentato una sensibilità del 74,9% ed una specificità del 73,9%
(Hendrich et al., 2003). Kim e coll. (2007) trovarono una sensibilità e specificità
leggermente inferiore (70% e 61,5% rispettivamente). In uno studio italiano condotto su
una popolazione anziana degente in una unità operativa di geriatria la sensibilità
dimostrata dalla scala era dell’86% mentre la specificità del 43%, più bassa rispetto allo
studio americano di validazione della scala (Ivziku et al., 2011).
Un recentissimo studio effettuato in Portogallo ha confermato la buona sensibilità dello
strumento (93%), ma la specificità risulta sempre bassa (35/%), mostrando come il
modello su popolazioni e contesti diversi rispetto allo studio originario di validazione tende
a considerare a rischio una quota maggiore di pazienti che poi non cadranno (Caldevilla et
al. 2012). Tale fenomeno potrebbe essere spiegato con gli interventi attuati in ogni caso
dagli infermieri che assistevano i pazienti, sebbene negli studi considerati non fossero
previsti interventi di prevenzione specifici sulla popolazione valutata a rischio. Inoltre una
buona quota degli studi analizzati utilizza per la valutazione del rischio di cadere dati che
derivano da valutazioni effettuate in un dato momento della degenza del paziente (in
genere all’accettazione) e non riformulate successivamente al variare delle condizioni
cliniche del paziente e dei fattori di rischio, finendo per sottostimare la validità e
l’affidabilità delle scale.
Il modello di rischio delle cadute di Hendrich II
Il modello prende in considerazione i seguenti otto fattori di rischio:
1. confusione, disorientamento, impulsività;
2. depressione sintomatica;
3. alterata eliminazione urinaria;
4. capogiri, vertigini;
5. sesso maschile;
6. assunzione di antiepilettici (modifica di dosaggio o sospensione);
7. assunzione di benzodiazepine;
8. mobilità alterata, valutata con il test "Get-up-and-go".
Come si vede dai fattori elencati, il modello di Hendrich valuta esclusivamente i fattori di
rischio intrinseci e non prende in considerazione i fattori di rischio estrinseci, come ad
esempio le condizioni dei pavimenti, la presenza dei dispositivi di assistenza, illuminazione
o le scarpe del paziente, che andranno valutati separatamente.
A ciascuno dei fattori di rischio identificati da Hendrich è assegnato un punteggio diverso,
pesato sulla base dei valori di odds ratio individuati nello studio del 2003, che misurano la
probabilità che si verifichi una caduta come risultato di quel particolare fattore di rischio. In
questo modo i diversi fattori di rischio della scala presentano punteggi diversi, con un
range che va da 4 a 1. Se un fattore non è presente, il paziente riceve un punteggio di 0. Il
punteggio complessivo viene ottenuto sommando i punteggi ottenuti nelle varie voci della
scala e può andare da un minimo di 0 (nessun rischio) ad un massimo di 16 (massimo
rischio). Un punteggio complessivo uguale o superiore a 5 indica un alto rischio di cadere
(Hendrich et al., 2003).
Come avviene la valutazione
I pazienti devono essere valutati con il Hiifrm al momento dell’accoglimento nel servizio e
di routine durante ogni turno o quando la loro condizione clinica e funzionale si modifica.
Per la compilazione l’infermiere si basa sia sull’osservazione diretta del paziente che sui
dati raccolti durante l’intervista, che mirano a verificare la presenza dei fattori di rischio.
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Di seguito descriviamo i singoli fattori considerati nella scala con i relativi punteggi,
riportando anche dei suggerimenti forniti dall’autore per rendere più chiara la sua
compilazione (Hendrich, 2007).
Confusione, disorientamento, impulsività. La confusione e il disorientamento possono
essere valutati prendendo in considerazione la storia del paziente o attraverso l’intervista o
osservando il suo comportamento.
Se sono presenti una o più delle manifestazioni elencate di seguito, a questo fattore di
rischio viene assegnato il punteggio di 4:
• comportamento impulsivo o imprevedibile;
• allucinazioni;
• agitazione;
• variazioni nell’attenzione, cognizione, attività psicomotoria, livello di coscienza o nel
ciclo sonno-veglia;
• comportamento non realistico, inappropriato o inusuale;
• disorientamento temporale o spaziale, o di persona;
• incapacità di seguire o mantenere le istruzioni relative alle attività della vita
quotidiana.
Nella valutazione di questa voce non è necessario distinguere tra gli stati acuti o cronici di
confusione o disorientamento, in quanto entrambe le situazioni portano a un rischio di
caduta.
Depressione. Un paziente può essere considerato depresso se risulta nella sua anamnesi
patologica o se è stata fatta una diagnosi di depressione. Un paziente in terapia
antidepressiva che non mostra i sintomi di depressione non deve essere valutato a rischio
(punteggio = 0) in quanto la depressione è considerata sotto controllo terapeutico. A
questa voce viene assegnato un punteggio di 2, osservando la presenza dei seguenti
segni e sintomi di depressione:
• sentimenti di impotenza, di disperazione o di sopraffazione prolungati nel tempo;
• pianto;
• perdita di interesse nelle vicende della vita;
• umore malinconico;
• ritiro dalla vita sociale;
• affermazione del paziente di sentirsi depresso.
Un punteggio positivo per la depressione sulla scala di Hendrich II non comporta una
diagnosi di depressione, in quanto essa richiede una valutazione più completa da parte di
uno specialista. Se ad un paziente viene assegnato un punteggio di 2 senza che sia
segnalata in cartella una diagnosi di depressione, sarà necessario avvertire il medico della
necessità di una valutazione più approfondita.
Eliminazione alterata. A questo fattore viene assegnato un punteggio di 1 e le
manifestazioni che vanno ricercate sono: incontinenza urinaria o fecale, incontinenza da
urgenza o da stress, diarrea, minzione frequente e nicturia.
Un paziente con un catetere vescicale a permanenza non è considerato a rischio di
alterata eliminazione, a meno che non stia presentando contemporaneamente uno o più
dei sintomi sopradescritti. Quando il catetere viene rimosso, il paziente deve essere
considerato a elevato rischio di funzione alterata fino al ripristino del normale modello di
eliminazione.
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È importante notare, però, che qualsiasi paziente che riceve un punteggio uguale o
maggiore di 5 sul modello di Hendrich è particolarmente vulnerabile quando utilizza la
toilette, indipendentemente dal fatto che abbia avuto o meno un punteggio positivo a
questo item.
Capogiri o vertigini. I pazienti che presentano vertigini o giramenti di testa ricevono un
punteggio di 1. Se non diagnosticata in precedenza o registrata nella storia clinica del
paziente, la presenza di capogiri o vertigini si basa sulla segnalazione del paziente stesso.
Il paziente può descrivere i sintomi con affermazioni del tipo: "La stanza mi sta girando
attorno" o "Mi sento girare”. Un altro modo per valutare la presenza di vertigini è quello di
osservare se il paziente ondeggia quando sta in piedi (ad esempio durante il Get-up-andgo, test descritto di seguito). Questo segno è spesso osservato negli anziani con disturbi
di deambulazione e dell’equilibrio oppure nelle neomamme come effetto collaterale
dell’anestesia epidurale.
Sesso maschile. Hendrich e coll. misero in evidenza nel loro studio del 2003 che il sesso
maschile è a maggior rischio di cadere, pertanto a tutti gli uomini viene attribuito un
punteggio di 1. Il maggiore rischio di cadere potrebbe essere legato al fatto che gli uomini
tendono maggiormente ad avere comportamenti rischiosi, a fare da soli o a ignorare le
prescrizioni.
Farmaci antiepilettici e benzodiazepine. Questesono le sole due classi di farmaci che il
modello prende in considerazione direttamente. Gli effetti avversi comuni ad altri farmaci,
come ad esempio le vertigini, l’alterata eliminazione, l’andatura instabile e la confusione,
sono già rappresentati in altre voci della scala. Antiepilettici e benzodiazepine sono
considerati fattori di rischio indipendenti perché colpiscono il sistema nervoso centrale e
possono causare atassia cerebellare, debolezza, e alterazioni dell’andatura. Per ricevere
un punteggio positivo, il paziente deve realmente assumere uno di questi farmaci, non
semplicemente averne la prescrizione. Ai pazienti trattati con un antiepilettico viene
attribuito un punteggio di 2 se il farmaco viene somministrato, sospeso o cambiato
improvvisamente, mentre ai pazienti a cui sono somministrate benzodiazepine viene
attribuito un punteggio di 1.
Get-up-and-go test. Il punteggio di questo test va da 0 a 4 ed è basato sulla capacità del
paziente di alzarsi da una sedia e assumere la posizione eretta. Sebbene il test preveda
anche di far fare al paziente qualche passo, lo studio del 2003 ha trovato che era
sufficiente la sola azione di far alzare il paziente per predire il rischio di caduta. Per
valutare la capacità del paziente di alzarsi, l’infermiere deve far sedere su una sedia o sul
lato del letto il paziente con le mani appoggiate sulle cosce e chiedere di alzarsi: il
paziente che è in grado di alzarsi con un unico movimento senza l’utilizzo delle mani e di
fare qualche passo ottiene un punteggio di 0; il paziente che si alza con una sola spinta
delle mani ha un punteggio di 1; il paziente che ha bisogno di più tentativi per alzarsi
appoggiandosi al letto, al deambulatore o ai braccioli della sedia ma in ultima analisi è in
grado di alzarsi ha un punteggio di 3; un paziente che non è in grado di alzarsi senza aiuto
riceve un punteggio di 4.
Se il paziente ha vertigini o deficit di equilibrio è sempre consigliabile essere in due
operatori ad effettuare il test per supportare il paziente durante la prova. Se il paziente non
è in grado di effettuare il test, tutti gli altri fattori di rischio dovranno in ogni caso essere
valutati.
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Se il paziente ha un punteggio uguale o superiore a 5 senza questo test e può tentare di
alzarsi, dovrebbe essere considerato ad alto rischio di cadute; se il paziente non effettua
tentativi di alzarsi ed ha un punteggio uguale o superiore 5 per gli altri fattori di rischio, tali
fattori di rischio devono essere registrati in cartella e gli interventi per prevenire le cadute
dovranno essere messi in atto nel momento in cui il paziente sarà in condizione di tentare
di alzarsi.
Ulteriori considerazioni
Anche se le cadute in area critica sono rare, esse possono avere conseguenze molto gravi
per i pazienti critici che presentano molti fattori di rischio durante le fasi acute della
malattia. Tuttavia se i pazienti sono in coma o in ventilazione meccanica o semplicemente
non sono in grado di alzarsi senza aiuto, non hanno occasione di cadere, anche se sono
presenti gli altri fattori di rischio. Questi pazienti dovrebbero essere valutati ugualmente e i
fattori di rischio dovrebbero essere documentati in cartella. Non appena sono in
condizione di tentare di alzarsi di nuovo, dovrebbero essere inseriti nel protocollo di
prevenzione: infatti le cadute si verificano spesso in questi contesti quando i pazienti si
svegliano dallo stato di coma o nelle fasi precoci di ripresa della mobilità, quando lo staff
assistenziale non ha ancora potuto registrare il cambiamento.
I pazienti seriamente compromessi o debilitati presentano numerosi fattori di rischio, ma
non sono in grado di alzarsi senza l’aiuto di una o più persone. Questa tipologia di pazienti
non cade quando si mette in piedi, ma piuttosto cade dal letto o rimane intrappolata nelle
spondine del letto. In ogni caso è necessario essere molto attenti nel prevedere ciò che
può o non può accadere con specifici pazienti.
Tutti i pazienti devono essere sottoposti alle valutazioni più opportune e devono ricevere
gli interventi di prevenzione di cui hanno bisogno. Questi pazienti potranno beneficiare di
una valutazione dei rischi ambientali, nonché dell’identificazione dei fattori di rischio
individuali.
A differenza di altre scale per la valutazione del rischio di cadute, nel modello di Hendrich
la storia di precedenti cadute non è stata considerata come fattore di rischio: infatti, nello
studio del 2003, condotto su 1.135 pazienti ospedalizzati, le cadute precedenti non sono
risultate essere un fattore predittivo indipendente di cadute. La storia di cadute è
significativa in quanto vi è sempre associata la presenza di altri fattori di rischio che
predispongono alle cadute.
Vantaggi e limiti del modello
Uno dei principali punti di forza del modello di Hendrich II è il ridotto tempo necessario per
la sua compilazione: infatti, sono sufficienti da 1 a 5 minuti. Lo strumento può essere
compilato al momento dell’ammissione del paziente senza ulteriore richiesta di dati perché
molte delle informazioni necessarie fanno già parte della valutazione iniziale del paziente.
Inoltre, a differenza di altre scale, vengono prese in considerazione due categorie di
farmaci che sono a maggior rischio di cadute e gli effetti collaterali causati da altre
categorie di farmaci. Non in ultimo, è possibile integrare questa scala nella
documentazione clinica esistente, sia cartacea che elettronica, richiedendo il permesso
all’autore ideatore del modello. Per ogni singolo fattore di rischio identificato è possibile
pianificare interventi mirati alla sua rimozione.
Anche se il modello può essere utilizzato durante l’attività assistenziale routinaria da parte
di tutti gli infermieri, è necessaria una breve preparazione per il suo corretto utilizzo. La
letteratura suggerisce, prima di introdurre uno strumento di valutazione del rischio di
cadere in uno specifico setting assistenziale, di valutarne la validità nello specifico
contesto e sulla specifica tipologia di pazienti su cui dovrà essere utilizzato (Haines et al.,
2006; Oliver et al., 2004).
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Hendrich II fall risk model©
Fattori di rischio
Punteggio
Confusione/disorientamento/impulsività
(agitazione, allucinazioni, deficit di attenzione, disorientamento
tempo/spazio/persone, incapacità di seguire ordini e indicazioni)
4
Depressione sintomatica
(non presenta interesse per la vita, mancanza di speranza, senza
affetti e interessi, malinconia, dichiara di essere depresso)
2
Eliminazione urinaria e fecale alterata
(ad esempio nicturia, diarrea, incontinenza da stress o da urgenza, pz
a cui è stato appena rimosso il catetere vescicale)
1
Giramenti di testa/vertigini
1
Sesso (Maschio)
1
In terapia con antiepilettici (anticonvulsanti):
(ad es. tegretol, zarontin, talora, gabapentin, neurontin, lamictal,
fenobarbitale, gardenale, luminale, aurantin, dintoina, misogine,
topamax)
2
In terapia con benzodiazepine:
(ad es. alprazolam, xanax, valeans, librium, reliberan, rivotril, transene,
aliseum, ansiolin, diazepam, tranquirit, valium, vatran, dalmadorm,
felison, lorazepam, control, tavor, zeloram, midazolam, ipnovel, serpax,
normison, halcion, triazolam)
1
Get-up-and-go test*: (seleziona una delle voci seguenti)
* nel caso il paziente non sia valutabile in questa prova, monitorare i cambiamenti relativi al livello
di attività, e valutare gli altri fattori di rischio, registrare nella cartella clinica del paziente con la
data e l’ora
Capace di alzarsi con un solo movimento – Non perde l’equilibrio
facendo dei passi
0
Si da una spinta per alzarsi, con successo in un solo movimento
1
Necessita di più tentativi, ma si alza con successo
3
Incapace di alzarsi senza assistenza durante il test
(oppure c’è una prescrizione medica che definisce la stessa cosa e/o si
prescrive riposo assoluto a letto)
4
TOTALE (uguale o maggiore di 5 = alto rischio)
Riprodotto con il permesso di Ann Hendrich. Traduzione italiana e adattamento a cura di
Ivziku & Matarese. L’uso della scala necessita di autorizzazione da parte dell’autore Ann
Hendrich [e-mail: [email protected]].
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Ringraziamenti
Gli autori desiderano ringraziare la dott.ssa Ann Hendrich per gli utili suggerimenti forniti
per la redazione del presente contributo.
BIBLIOGRAFIA
- Caldevilla M N, Costa M A, Teles P, Ferreira P M (2012). Evaluation and cross-cultural adaptation of the
Hendrich II fall risk model to Portuguese. Scand J Caring Sci. doi: 10.1111/j.1471-6712.2012.01031.x. Epub
ahead of print.
- Haines T P, Bennell K L, Osborne R H, Hill K D (2006). A new instrument for targeting falls prevention
interventions was accurate and clinically applicable in a hospital setting? J Clin Epid, 59, 168-175.
- Hendrich A, Nyhuis A, Kippenbrock T, Soja M E (1995).Hospital falls: development of a predictive model for
clinical practice. Appl Nurs Res, 8(3), 129-39.
- Hendrich A, Bender P S, Nyhuis A (2003). Validation of the Hendrich II fall risk model: a large concurrent
case/control study of hospitalized patients. Appl Nurs Res, 16(1), 9-21.
- Hendrich A (2007). How to try this: predicting patients falls. Using the Hendrich II fall risk model in clinical
practice. Am J Nurs, 107 (11), 50–58.
- Kim E A N, Mordiffi S Z, Bee W H, Evans D K (2007). Evaluation of three fall-risk assessment tools in an
acute care setting. JAN, 427-435.
- Ivziku D, Matarese M, Pedone C (2011). Predictive validity of the Hendrich fall risk model II in an acute
geriatric unit. Int J Nurs Stud, 48(4), 468-74.
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hospital in-patients: a systematic review. Age and aging, 33, 122-130.
- Rubenstein L Z (2006). Falls in older people: epidemiology, risk factors and strategies for prevention. Age
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Motivazione e soddisfazione degli studenti del Corso di
laurea in infermieristica di Bari
di Vitale Elsa (1), Esposito Antonio (2)
(1) Docente del Corso di laurea in infermieristica - Università degli Studi di Bari, sede di Bari Policlinico; Infermiere, Uo Ortopedia II, Azienda ospedaliero-universitaria, Policlinico di Bari
(2) Infermiere, Uo Ortopedia II, Azienda ospedaliero-universitaria, Policlinico di Bari
Corrispondenza: [email protected]
Perché una persona studia per diventare qualcuno? Perché si aspira ad ottenere un titolo
universitario? Perché qualcuno sceglie un certo tipo di lavoro piuttosto che un altro? Come
mai alcune persone sono alla continua ricerca del miglioramento professionale, mentre
altre semplicemente si accontentano?
La spinta motivazionale, sia per la produttività che per quel che riguarda la salute
lavorativa del professionista, è fondamentale. Ma che cosa si intende per motivazione al
lavoro? Si può definirla come la spinta interiore che porta l’individuo ad applicarsi con
impegno nel lavoro, ovvero una sorta di forza interna che stimola, regola e sostiene le
principali azioni compiute dalla persona. Può essere descritta anche attraverso le varie
fasi di un ciclo: l’origine del bisogno è avvertita come una tensione interiore, rispetto alla
quale l’individuo ricerca i mezzi per il soddisfacimento; quando il soggetto riesce a
soddisfare questa necessità, rivaluta la situazione e verifica la presenza di nuovi ed
ulteriori bisogni. Essa è intrinseca all’individuo e non può essere indotta dall’esterno:
mediante interventi esterni si riesce a sollecitarla o, al più, ad alimentarla (Maslow, 1943).
La partecipazione della persona alle decisioni lavorative risulta essere un fattore molto
importante riguardo la motivazione lavorativa. Il personale si deve sentire parte integrante
del tutto e deve essere incoraggiato a stabilire i propri obiettivi e le proprie modalità di
raggiungimento degli stessi. Un ulteriore fattore significativo nel mantenere la motivazione
professionale sembra essere la coerenza fra gli obiettivi del personale e gli obiettivi
dell’organizzazione: è fondamentale che la persona si riconosca nell’organizzazione.
Qualora tale condizione non sussista, la persona sarà contraddistinta da un certo grado di
insoddisfazione lavorativa, che porta con sé un impatto negativo a livello di produttività.
L’insoddisfazione, a sua volta, diviene spesso uno dei fattori determinanti l’abbandono del
lavoro o comunque di un frequente turn over di personale, incidendo notevolmente su
costi, tempi e qualità del servizio offerto. Da ciò si evince l’altro concetto cardine della
nostra ricerca: la soddisfazione del proprio lavoro, intesa come il modo in cui le persone
sentono il proprio lavoro ed i differenti aspetti che lo qualificano (Knoop, 1995). In termini
molto più semplici, potrebbe dirsi quanto il lavoro piace o non piace alle persone. Va
ricordato, nel parlare di motivazione e soddisfazione, che non si può essere soddisfatti
senza essere motivati, ma si può essere motivati senza essere soddisfatti.
La professione infermieristica è una delle professioni d’aiuto della nostra società; le abilità
comunicative e lo scenario di una relazione d’aiuto con l’altro sono i punti chiave di questo
genere di professioni. Molto spesso, sia per il contesto costante di sofferenza, sia per le
caratteristiche proprie della professione sopra citate, questo implica un coinvolgimento
emotivo importante da parte del professionista stesso.
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I meccanismi direzionali di una motivazione sono due: il meccanismo verso e il
meccanismo via da (Wiley, 1997): il primo muove l’individuo verso qualcosa di positivo e
pur essendo difficile da instaurare è duraturo nel tempo. Il secondo, invece, è più
immediato, è più facile da instaurare perché crea velocemente soluzioni, ma la
motivazione che ne risulta è di breve durata. Trasferendo questi concetti nella pratica
lavorativa si osserva che una persona può svolgere un certo intervento perché crede in
questo e quindi va verso qualcosa di positivo o perché se non rispetta i suoi compiti verrà
punita e/o penalizzata (meccanismo via da). Si può riflettere sul fatto che i sentimenti che
guidano la persona con motivazione verso siano diversi da quelli che guidano la persona
con motivazione via da: in generale possiamo affermare che chi adotta il meccanismo
verso sia molto più soddisfatto, in quanto più partecipe, di chi invece attua il meccanismo
via da e che quindi non crede in quello che fa ma che è obbligato a fare per evitare
conseguenze negative (es. il licenziamento).
Il progresso del management sta portando sempre più verso la maggiore considerazione
per lo stato di benessere del personale piuttosto che per l’organizzazione aziendale: “le
buone condizioni lavorative sono certamente un presupposto indispensabile per la qualità
del servizio fornito; le relazioni umane insoddisfacenti deteriorano la migliore
organizzazione e spesso provocano negli operatori un malessere avvertito come
individuale, percepito come una caduta della propria motivazione, come distanza ed
estraneità dell’organizzazione dalle proprie aspirazioni professionali, o di quella parte della
personalità che si realizza nel mondo del lavoro” (Iurlaro F, 2010).
Il nostro contributo alla questione
Abbiamo ritenuto importante conoscere le motivazioni e le soddisfazioni degli studenti che
frequentano il Corso di laurea in infermieristica presso l’Università degli Studi di Bari.
Partendo dalla descrizione delle loro motivazioni e delle loro soddisfazioni, ponendo
particolare importanza ai fattori determinanti la loro scelta accademica ed i bisogni
espressi mediante l’indicazione di specifiche aspettative nei confronti dell’organizzazione e
delle strutture universitarie, il nostro fine è stato quello di comprendere quali potranno
essere nel futuro gli obiettivi da fissare nell’ambito della didattica. A tal fine è stato
somministrato un breve questionario, composto da 7 quesiti, agli studenti del II anno (132),
per poter anche delineare il loro grado di soddisfazione, che per inciso riflette la
percezione della figura dell’infermiere e il grado di soddisfazione ad esso attribuibile.
Dalle risposte emerge che il grado di motivazione e di soddisfazione varia col variare
dell’età anagrafica e in minor misura dal sesso: gli studenti più grandi dichiarano livelli di
soddisfazione che vanno dal molto all’abbastanza (Figura 1). È da notare come le
sfumature più estreme di livello di soddisfazione siano attribuibili solo alle classi di età più
giovani.
Figura 1 – Livello di soddisfazione della scelta
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Circa la motivazione della scelta di questo Corso (Figura 2) risulta una voce importante e
presente in tutte le classi di età il facile accesso al mondo del lavoro ed ancora la
possibilità di poter aiutare gli altri. Comprensibile è il fatto che una limitata quota di studenti
non sappia ancora indicare il motivo che li ha spinti verso questo Corso di laurea, se si
correla questo gruppetto con l’età anagrafica.
Figura 2 – Motivazione della scelta
Si è anche sondato quanto i cambiamenti intervenuti per questa professione negli ultimi
decenni abbiano inciso sulla scelta: questa condizione sembra entusiasmare soprattutto il
sesso femminile. Abbiamo anche verificato quanto la possibilità di lavorare in autonomia
sia importante per la soddisfazione professionale: le risposte sono state per lo più positive,
soprattutto per le classi di età più giovani (Figura 3).
Figura 3 – Livello di soddisfazione professionale
Successivamente si è voluto sondare quanto il lavoro in équipe sia importante per la
soddisfazione professionale: le risposte sono state entusiasmanti, tranne che per qualche
giovane studente (Figura 4).
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Figura 4 – Livello di soddisfazione nel lavoro in équipe
Si è valutata anche la relazione tra aggiornamento professionale e soddisfazione: le
risposte sono state positive, anche se alcuni studenti non lo ritengono importante.
Si è infine indagato il grado di soddisfazione della società verso l’infermiere: molti studenti,
di ambedue i sessi, non considerano soddisfacente il ruolo sociale che l’infermiere riveste
oggi nella nostra società (Figura 5).
Figura 5 – La soddisfazione della nostra società verso l’infermiere
Gli studenti sono per la maggior parte soddisfatti e motivati rispetto al Corso di laurea
scelto ed il percorso formativo intrapreso, sebbene sia per loro deludente il fatto che
l’infermiere sia scarsamente considerato nella nostra società. Se il ruolo sociale
dell’infermiere non soddisfa lo studente si può ipotizzare che lo studente stesso non si
senta abbastanza apprezzato dalla società in qualità di professionista rispetto a quanto ha
studiato e ai sacrifici fatti per diventare professionista.
BIBLIOGRAFIA
- Biton V, Tabak, N (2003). The relationship between the application of the nursing ethical code and nurses’
work satisfaction. International journal of nursing practice; 9, 140 – 157.
- Chu C I Hsu, Price H M, Lee, J L (2003). Job satisfaction of hospital nurses an empirical test of a causal
model in Taiwan. International nursing review; 50, 176 – 182.
- Draper, J, Halliday, D, Jowett S et al. (2004). Nhs cadet schemes: student experience, commitment, job
satisfaction and job stress. Nurse education today; 24 (3), 219 – 228.- Dorr D A, Horn S D, Smout R J
(2005). Cost analysis of nursing home registered nurse staffing times. J Am Geriatr Soc; 53: 840 – 845.
- Ingersoll, G, Olsan T, Drew-Cates J et al. (2002). Nurses’ job satisfaction, organizational commitment, and
career intent. Journal of nursing administration; 32 (5), 250 – 263.
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Valutazione e documentazione del sonno nell'anziano
di Nicola Pisaroni
Infermiere, Coordinatore Socio sanitario responsabile - Casa di riposo per anziani ‘Emilio
Biazzi’, Castelvetro Piacentino
Corrispondenza: [email protected]
La nostra esperienza è nata dall’esigenza di creare un gruppo di lavoro eterogeneo che
potesse approfondire il tema del rischio di cattivo sonno nell’anziano, individuando nelle
pratiche quotidiane una performance non adeguata. Infatti riscontravamo una valutazione
del sonno sostanzialmente soggettiva e a discrezione dell’operatore in servizio, con
ripercussioni sulle performances diurne dell’anziano, a volte anche sull’adeguato utilizzo di
farmaci ipnoinducenti.
Ci siamo pertanto orientati a costruire uno strumento che permettesse di descrivere in
modo omogeneo il riposo notturno nella terza età. Il fine era di rilevare il rischio di cattivo
sonno per migliorare il benessere bio-psico-sociale della persona anziana, con risultati
positivi sull’autonomia della persona presa in carico, nonché sulle relative attività
assistenziali.
È nata così la proposta di elaborare un grafico nel quale registrare l’andamento individuale
del sonno nel tempo. Esso era suddiviso in 3 righe per descrivere le ore di sonno e 31
colonne per monitorizzare il sonno nei giorni del mese in corso.
Dopo aver implementato questo primo strumento, si è ritenuto necessario approfondirne lo
studio, giungendo così ad elaborare uno strumento più compiuto.
Un percorso di cambiamento
Questo percorso di cambiamento, iniziato nel settembre 2010, è passato attraverso 6 fasi
ed ha coinvolto inizialmente 8 operatori, compresi tre Oss successivamente ritiratisi per
motivi personali.
Prima fase
Ci siamo riuniti ed organizzati, abbiamo raccolto riferimenti bibliografici e sitografici,
abbiamo discusso di come progettare la scala e di come verificarne l’attendibilità. Abbiamo
chiesto al personale in servizio di compilare la grafica comportamentale diurna e notturna
per un periodo di 15 giorni per tutti gli ospiti.
Seconda fase
È stata progettata la prima scala composta da due parti:
1. monitoraggio notturno;
2. un questionario composto da 10 domande, per raccogliere informazioni utili sul
sonno, sul riposo effettivo, sulle abitudini. Tale questionario veniva compilato solo se
il punteggio del monitoraggio superava i 4 punti. Il gruppo, dopo aver osservato le
schede compilate, è arrivato alla conclusione che la scala ed il monitoraggio
compilati su un unico foglio non fotografavano la situazione nel “qui ed ora”.
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Terza fase
È stata pertanto elaborata una nuova scala indipendente dal monitoraggio, che rileva solo
il rischio di cattivo sonno. La scala si basa su 18 domande a risposta chiusa (a 2 variabili)
e permette di definire un punteggio di rischio di cattivo sonno.
Quarta fase
È iniziata la sperimentazione della scala presso la Casa di Riposo per Anziani (Cra) ‘Emilio
Biazzi’ e presso altre 4 strutture che hanno partecipato al lavoro: una Fondazione, una
Asp, una Rsa ed un’altra Cra. In queste strutture, è stato compilato, tra maggio e giugno
2011, un grafico di monitoraggio notturno di 15 giorni e l’ultima versione della scala (rev 2).
Quinta fase
Una volta ritirate le schede si è proceduto con l’elaborazione dei dati raccolti nella IV fase.
Inoltre dal confronto con gli operatori delle altre strutture è stato evidenziato che alcune
domande erano incomplete o poco chiare, così la scala è stata ulteriormente revisionata,
elaborandone l’ultima versione (rev 3).
Sesta fase
È stato riproposto alle strutture sopra citate un nuovo monitoraggio di 30 giorni con la
revisione 3 dello strumento. Inoltre in questa fase è stato chiesto alle strutture di variare
alcune abitudini di scorretta igiene del sonno risultanti dalle scale compilate nella fase IV.
I risultati al primo monitoraggio
Il primo monitoraggio, durato 15 giorni (maggio-giugno 2011), ha coinvolto 286 ospiti delle
strutture citate. Mentre alcuni elementi che emergono dai risultati non risultano
modificabili, come per esempio l’età (>65 anni) o la presenza di alcune delle principali
patologie inducenti insonnia, altri hanno fornito alcune utili informazioni in merito a possibili
ambiti di cambiamento (Tabella 1).
Tabella 1 - Risultati al I monitoraggio
il 98,4% delle persone prese in esame presenta età > 65 anni
il 93,2% è affetta dalle principali patologie
il 16,2% presenta sintomatologia dolorosa
il 5% delle Strutture presenta casi di inquinamento acustico
il 100% delle Aziende ha una temperatura ambientale adeguata
il 30,8% delle persone presenta una variazione del suo ambiente di vita
il 14,2% manifesta risvegli notturni spontanei o indotti
il 16% risultano allettatati
il 56,4% degli anziani oggetto di studio non svolge attività ricreative e/o riabilitative o le svolge
dopo le h. 16.00
il 32% esegue un riposo pomeridiano > alle 2 ore
il 9% esegue un pasto serale eccessivo o digiuna
il 4,8% manifestano abitudini voluttuarie
il 37,8% assumono terapia lassativa e/o diuretica la sera
il 44,8% assumono terapia inducente il sonno
il 12,6% presentano alterazioni del ritmo circadiano
il 0.2% manifestano apnee ostruttive del sonno
il 19,4% delle persone prese in esame presentano eventi traumatici nel vissuto
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Inoltre è stato calcolato il rischio di cattivo sonno che emergeva come dato sintetico dalla
misurazione della scala per i singoli ospiti, suddiviso nelle diverse strutture coinvolte:
• il 25,8 % delle persone prese in esame nelle 5 strutture presenta un rischio lieve di
cattivo sonno (Figura 1);
• il 55,6 % delle persone presenta un rischio moderato di cattivo sonno (Figura 2);
• il 18,6 % delle persone presenta un rischio elevato di cattivo sonno (Figura 3).
Figura 1- Rischio lieve
Figura 2 - Rischio moderato
Figura 3 - Rischio elevato
Conclusioni
Come per altre scale di valutazione, individuare le situazioni a rischio significa lavorare per
la prevenzione di un disagio/problema dell’assistito: l’inserimento nell’area di rischio
rappresenta per l’operatore un campanello d’allarme.
La funzione della scala, quindi, è quella di: evidenziare il rischio, prendere in esame tutti i
fattori negativi, valutando quali fra questi possono essere ridotti o eliminati attraverso
strategie ed interventi mirati.
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Dopo i primi 15 giorni di monitoraggio, su di un campione di 286 persone si è evidenziato
che oltre ad età e patologie, vi sono alcuni fattori ricorrenti che pongono molti soggetti a
rischio almeno moderato: questo ci ha fatto riflettere sulla qualità di vita all’interno delle
strutture.
Altra considerazione che abbiamo potuto fare, dopo il primo periodo di monitoraggio, è che
del 74,2% degli ospiti presenti nelle 5 strutture esaminate che presenta un
moderato/elevato rischio di cattivo sonno, in realtà al monitoraggio risulta che solo il 20,6%
presenta gravi disturbi del sonno. Il restante 53,6% comunque dorme.
Inoltre del 25,8 degli ospiti presenti nelle 5 strutture esaminate che presentano un lieve
rischio di cattivo sonno, tutti, dopo un periodo di monitoraggio, risultano dormire.
Tutte le strutture hanno successivamente (luglio e agosto 2011) continuato a collaborare al
progetto, ripetendo il monitoraggio con grafico per una durata questa volta di 30 giorni, in
modo da eliminare anche i casi relativi alle insonnie acute. Sono stati coinvolti 210 anziani,
ma per motivi organizzativi non sono stati apportati cambiamenti alla scorretta igiene del
sonno. Di conseguenza i dati risultano, al secondo follow up, sovrapponibili ai primi.
Presso l’Istituto “Emilio Biazzi” si è deciso di modificare le abitudini risultate scorrette per
quelle persone, 17 ospiti, che al primo monitoraggio risultavano non dormire (punteggio ≥
7 al grafico del sonno). Di queste 17 persone, 4 hanno ottenuto un risultato al secondo
follow up sovrapponibile al primo; 4 sono peggiorate e 9 migliorate.
I 9 soggetti migliorati hanno dormito mediamente il 36,1 % in più e sono diminuite del 58,1
% le notti in cui questi 9 ospiti dormivano ≤ 4 ore (Figura 4).
Figura 4 - Monitoraggio del sonno alla I e alla II rilevazione
A questi ospiti si è cercato di migliorare l’igiene del sonno risultata scorretta, attraverso un
primo intervento non farmacologico:
• eliminazione della Tv, quindi di stimoli luminosi, all’allettamento (informando e
chiedendo il consenso);
• sostituzione dello stimolo luminoso con una musica rilassante;
• sostituzione di bevande eccitanti (teina, caffeina e simili), con tisane rilassanti e
stimolanti il sonno.
Si sottolinea che la nostra scala necessita di essere sottoposta ad un processo
sistematico di validazione, al fine di definirne la sensibilità e specificità nel riconoscere il
rischio di cattivo sonno, nonché la sua riproducibilità.
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BIBLIOGRAFIA
- Giacomelli R (2011). Disturbi del sonno. Diagnosi e interventi, non solo farmacologici. Assistenza anziani,
Maggio/Giugno; KDM International Srl –BO: 48-51.
- Meyer T J, University of Colorado (1999). Valutazione dell’insonnia; The Mc Graw-Hill Companies, INC.;
05.
- Swierzewski S J III MD (2010). Sleep Disorder T. pi; Healthcommunities; 09.
Risorse web per approfondire
www.sonnomed.it / AIMS Associazione italiana medicina del sonno
www.emedicine.medscape.com/article/292498-overview / Geriatric Sleep Disorder
www.neuropsicologia.it/content/view/183/55 / Igiene del sonno
www.nlm.nih.gov/medlineplus/sleepdisorders.html / Sleep Disorders
www.nursepedia.net / Scala di Karnofsky
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Il riordino della rete ospedaliera nella Regione Puglia:
analisi delle ricadute sull'attività del Seus 118
di Cesare Calamita (1), Roberta Sannicandro (2) Pasqua Laraspata (3), Marco Tommasi (4)
(1)Infermiere coordinatore C. O.118 Bari, docente Università degli Studi “Aldo Moro”
(2)(4) Infermiere Università degli Studi “Aldo Moro” – Bari
(3)Infermiere C. O. 118 Bari, docente Università degli Studi “Aldo Moro”
Corrispondenza: [email protected]
Il contesto
Nel dicembre 2010 la Giunta regionale ha approvato il Regolamento di “Riordino della rete
ospedaliera della Regione Puglia”. Questo Regolamento prevede interventi volti alla
realizzazione di un nuovo modello organizzativo, finalizzato ad implementare setting di
cura e assistenza più appropriati ai bisogni emergenti della popolazione, ridefinendo
l’offerta di posti letto ospedalieri.
La riorganizzazione, articolata e complessa sia per fattori di carattere gestionali che
culturali, deve essere completata in un arco temporale di tre anni. La ragione di fondo che
ha portato alla definizione del riordino della rete ospedaliera è quella di migliorare la
qualità del Servizio sanitario regionale attraverso un’ottimizzazione dell’uso delle risorse in
un ottica di contenimento dei costi.
Nello specifico, gli interventi sono mirati a ridurre i ricoveri, i posti letto per acuti e a
riconvertire e/o disattivare alcuni presidi ospedalieri.
I criteri utilizzati per l’attuazione del processo di riorganizzazione sono stati:
• disattivazione di presidi ospedalieri con meno di tre unità operative per acuti, in cui
gli indicatori non erano congruenti con gli obiettivi di salute in termini di performance
e outcome. Gli indicatori presi in esame sono stati quelli di:
• attività (tasso di occupazione posto letto, turnover, attività dei servizi
ambulatoriali);
• struttura (dotazione posti letto, spazi, attrezzature, dotazione organica);
• processo (attività di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione);
• esito (efficacia e soddisfazione degli utenti);
• accorpamenti e disattivazioni di singole Unità operative negli ospedali non destinati
alla chiusura. A orientare la scelta sono stati gli indicatori di attività e di struttura:
carenze d’organico (comparto e dirigenza medica), tasso d’occupazione negli ultimi
tre anni, numero di posti letto inferiore allo standard, secondo le indicazioni del
Piano regionale della salute;
• riconversione di ospedali disattivati in strutture sanitarie territoriali, ovvero
attivazione di strutture extraospedaliere in grado di garantire l’assistenza
domiciliare, semiresidenziale o residenziale a pazienti post acuti e cronici.
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La riorganizzazione prevede che circa 150.000 posti letto vengano riconvertiti nel modo
seguente:
• dal 10% - 15% dei ricoveri per acuti in strutture di lungodegenza o riabilitazione;
• dal 35% al 40% dei ricoveri in assistenza sostitutiva nell’ambito di Rsa e hospice;
• dal 45% al 50% dei ricoveri in attività ambulatoriale, day services o in prestazioni da
effettuarsi nell’ambito di case della salute.
La nostra esperienza
Nel nostro contesto operativo, il Sues (Servizio di urgenza emergenza sanitaria), abbiamo
voluto valutare se l’applicazione del Regolamento di riordino della rete ospedaliera ha
prodotto cambiamenti significativi sul sistema dell’emergenza/urgenza nel periodo 20102011.
Per misurare le eventuali ricadute abbiamo considerato:
• l’accesso di pazienti soccorsi dal 118 con codice verde a Uuoo di Medicina e
chirurgia, Accettazione d’urgenza degli Ospedali Dea di 1° e 2° livello;
• l’isostima del codice verde (corrispondenza fra il codice d’invio, assegnato dopo
l’intervista telefonica dall’infermiere di Centrale operativa 118, e codice di rientro,
dopo valutazione sanitaria, assegnato dal Personale dell’emergenza territoriale
118);
• i codici numerici attribuiti a seconda dell’intervento effettuato, in particolare il codice
0 che corrisponde a “trattamento sul luogo” e “rifiuto trasporto in ospedale”.
Sono state analizzate tutte le emergenze in codice verde con accesso nei Dea di 1° e 2°
livello: “San Paolo”, “Di Venere” e “Aou Policlinico” di Bari provenienti dal territorio
dell’ospedale “Civile” di Bitonto, riconvertito in Punto di primo intervento, e dal “F.
Fallacara” di Triggiano ridimensionato (a seguito della chiusura delle Uuoo di chirurgia,
ortopedia, ginecologia e pediatria).
Per le emergenze del territorio afferenti all’ospedale “Monte Iacoviello” di Santeramo
riconvertito in Punto di primo intervento sono stati analizzati gli accessi in codice verde
giunti presso gli ospedali “F. Miulli” di Acquaviva e “Umberto I” di Altamura Dea di 1° livello.
Infine, è stata presa in considerazione la correlazione tra codice d’invio e codice di rientro
in quantoindicatori di qualità del Sistema di emergenza e urgenza territoriale (undertriage sottostima della gravità: codice di invio inferiore al codice di rientro; overtriage sovrastima della gravità: codice di invio superiore rispetto alla valutazione sanitaria;
isostima: codice di invio uguale al codice di rientro). L’analisi e la valutazione sono state
effettuate in due periodi: uno antecedente al riordino (marzo, aprile e maggio 2010) e uno
successivo al riordino (marzo, aprile e maggio 2011).
I risultati
L’analisi dei dati raccolti ha evidenziato che nei due periodi messi a confronto vi è stata
una riduzione del 5% dell’isostima del codice verde e, in correlazione, un aumento del 4%
del codice 0. La riduzione dell’isostima del codice verde può essere dovuta al rifiuto del
trasporto in ospedale: in questo caso, il codice verde diventa codice 0 (Figura 1).
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Figura 1- Isostima codice 0 e codice 1 nel periodo marzo/maggio 2010 e marzo/maggio
2011
L’analisi degli accessi dei codici verdi trasportati dal 118 nei Dea di 1° livello “F. Miulli” di
Acquaviva e “Umberto I” di Altamura ci ha consentito di affermare che non vi sono stati
incrementi significativi degli stessi in seguito alla chiusura dell’ospedale minore di
riferimento territoriale “Monte Iacoviello” di Santeramo. Questa struttura, non dotata di
unità operative specialistiche, era poco utilizzata dal 118: tra il primo e il secondo periodo
d’indagine si è registrato un aumento di accessi del 2% presso l’ospedale “F. Miulli” e
nessun aumento presso l’ospedale “Umberto I” di Altamura.
Gli accessi dei codici verdi trasportati dal 118 verso i Dea di 1° e 2° livello “Policlinico”, “Di
Venere” e “San Paolo” di Bari, in seguito alla chiusura dell’ospedale minore di riferimento
territoriale il “Civile” di Bitonto e al ridimensionamento dell’ospedale “F. Fallacara” di
Triggiano, sono stati sostanzialmente costanti nei due periodi d’indagine. È stato possibile
rilevare solamente un aumento pari all’1% degli accessi sia verso l’ospedale “Policlinico”
sia verso l’ospedale “Di Venere” e una riduzione degli accessi del 3% verso l’ospedale
“San Paolo”.
Relativamente alla valutazione sanitaria, l’analisi dei dati ha evidenziato un aumento del
2% di pazienti che hanno “rifiutato il trasporto in ospedale” e un decremento del 3% di
“trattamento medico in luogo” (Figura 2).
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Figura 2- Valutazione sanitaria 0
Le ragioni di questa variazione sono riconducibili principalmente a due motivazioni:
• alcuni pazienti, dopo essere stati trattati sul posto, rifiutano il trasporto in ospedale
presumibilmente per la non approvazione della destinazione o perché non hanno
intenzione di allontanarsi dalla propria residenza;
• il paziente trattato sul posto rifiuta il trasferimento in ospedale perché ha avuto un
beneficio dal trattamento a domicilio, che si conclude con la codifica “rifiuto
trasporto in ospedale”.
Questo comporta una distrazione di risorse e un allungamento dei tempi d’intervento da
parte dei mezzi di soccorso.
Ciò che emerge dal nostro lavoro di analisi è la necessità d’interazione e integrazione tra
Seus 118, Medicina generale e Continuità assistenziale, al fine di migliorare l’offerta
sanitaria ai cittadini, utilizzando le risorse economiche e strutturali in modo efficace ed
efficiente.
BIBLIOGRAFIA
- Di Pietro G (2008).Protocollo operativo per il personale 118. Centrale Operativa 118, Regione Puglia, Auo
Policlinico, Bari.
- Sannicandro R(aa 2010/2011).Diagnosi infermieristica per i codici di minore gravità: verifica
dell’applicazione del riordino della rete ospedaliera della regione Puglia negli ospedali della provincia di Bari
(Tesi di laurea). Bari, Università degli Studi di Bari.
- Dl n. 125/2010: Piano operativo allegato al piano di rientro della Regione Puglia.
- Regolamento regionale n. 18/2010 “Riordino della rete ospedaliera della Regione Puglia per l’anno 2010”,
Bollettino Ufficiale della Regione Puglia n. 188 suppl. del 17/12/2010.
- www.nsis.salute.gov: Sistemi informativi relativi agli obiettivi strategici, "Assistenza emergenza urgenza",
data di accesso 02/02/2012.
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Le ferite acute
di Gloria Caminati e Angela Peghetti
Mc Graw Hill 2012
pagine 460, euro 40,00
Il volume di Caminati e Peghetti rappresenta senza dubbio
un’opera innovativa, offrendo una trattazione aggiornata e
validata delle ferite acute, con particolare riferimento alle
ustioni, alle ferite traumatiche e alle ferite chirurgiche.
ll percorso che le Autrici ci propongono parte proprio dalla
storia della gestione delle lesioni cutanee. Nei primi due
capitoli Favero e Prisco ci introducono al tema della cute e
delle sue alterazioni: ”la pelle comunica utilizzando il
linguaggio della natura che accomuna tutti gli esseri viventi:
vissuto, emozioni, eventi patologici, trovano unità sulla e nella
pelle” (p. 3). Parlando di questo sensibile confine che delimita
il sé dal resto del mondo, gli Autori ci descrivono che “il
bisogno di contatto è qualcosa che va oltre il rapporto
strumentale (p.7), il tatto, l’organo di senso legato alla pelle
(…) attraverso il tatto conosciamo, valutiamo, scegliamo, ricordiamo” (p.7)
Se questa è la storia, storico è quanto nei secoli l’uomo abbia fatto per trattare le lesioni
della cute (cap. 2), con rimedi quali il fango e corteccia di albero per tamponare le ferite,
l’applicazione di impasti di erbe, radici e foglie per la loro guarigione. Una storia che
diventa arte nel corso dei secoli, perfezionandosi nell’accogliere principalmente pratiche
tradizionali, piuttosto che trattamenti scientificamente fondati.
Alla fine del 1700, però, la gestione delle ferite acute cambia: da arte diviene scienza, con
la descrizione dei fenomeni di granulazione e i principi di riparazione tessutale, ben
descritti nei capitoli 3 e 4. Da queste scoperte si avrà l’evolversi delle conoscenze e la
possibilità di approcciarsi diversamente alla cura delle lesioni.
Arrivando ai nostri tempi, l’investimento scientifico in questo settore tipico degli ultimi anni
ha permesso di trasformare completamente la gestione delle ferite, prima basata
sull’esperienza, in una pratica basata sull’evidenza.
E’ questo un aspetto specifico di questa opera: il suo valore aggiunto sta nel definire
chiaramente sia l'arte che la scienza necessaria per la gestione del percorso clinico
assistenziale della persona con ferita acuta. L'arte di prendersi cura delle ferite (ustioni,
ferite chirurgiche e post traumatiche) è promossa in diversi capitoli del libro, che trattano lo
sviluppo delle competenze cliniche e delle conoscenze relative alla valutazione olistica
(es. aspetti metabolici nutrizionali, aspetti psicologici, altro) del soggetto assistito. La
scienza della guarigione delle ferite è descritta in modo chiaro e conciso dagli autori, che
discutono nel volume i molti fattori fisiologici e ambientali che promuovono o ritardano la
guarigione delle lesioni.
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L'Infermiere n°6 / 2012
Ma vi è un altro aspetto originale nel libro: Caminati e Peghetti hanno racchiuso e integrato
in questo testo le conoscenze e le esperienze di 52 tra infermieri, medici specialisti e altri
professionisti sanitari. Ne derivano contenuti teorici e clinici sulla gestione delle ferite ben
integrati tra di loro ed esaustivamente supportati dalla letteratura scientifica.
Gli argomenti trattati nella prima parte del testo approfondiscono ampiamente tutte le
tematiche correlate al trauma da ustione: vengono riportati dati epidemiologici
internazionali ed italiani, le evidenze relative al trattamento con particolare riferimento ad
aspetti rilevanti correlati all’assistenza, quali: la prevenzione, il dolore, le infezioni, il wound
care, il trattamento chirurgico, le alterazioni psicologiche, la nutrizione e la riabilitazione.
Nella seconda parte del volume viene posto particolare risalto all’assistenza e al
trattamento delle ferite traumatiche (tra queste anche le ferite di guerra) e chirurgiche,
fornendo specifiche indicazioni relative alla presa in carico globale della persona al fine di
prevenire le infezioni, garantire il miglior trattamento topico, con specifiche indicazioni
riguardanti l’utilizzo appropriato di antisettici e dispositivi di prevenzione. Vengono fornite
inoltre specifiche indicazioni operative sui trattamenti delle ferite.
Oltre agli aspetti clinico assistenziali citati, il volume riporta esperienze interessanti e
innovative relative all’organizzazione di percorsi e di setting di cura che mirano a fornire
esempi di presa in carico globale dell’assistito, quali:
• la realizzazione di un percorso d’integrazione multi professionale e di un modello
organizzativo di case management in una realtà operativa per ustionati;
• la progettazione e l’implementazione di un ambulatorio di wound care a gestione
infermieristica;
• l’attivazione di un progetto di prevenzione delle ustioni nei bambini realizzato
secondo il modello educazionale di promozione della salute proced-proceed.
Dal testo emerge, altresì, l’elevato livello di autonomia e le competenze distintive dei vari
professionisti, in particolare dell’infermiere che presta assistenza a questa tipologia di
utenti, utilizzando un approccio che punta all’efficacia e all’appropriatezza.
Agli interessati alla materia non mancheranno neppure i più recenti sviluppi tecnologici
nell’ambito del wound care, quali: la terapia topica negativa, la terapia iperbarica e la
bioingegneria tissutale (es. utilizzo del gel piastrinico, delle cellule staminali, altro) che
hanno ampliato le possibilità terapeutiche nel mondo delle lesioni cutanee.
Sopra tutto, in ogni parte dell’opera traspare una grande attenzione alla persona, alla
quale viene data voce nel capitolo 19 attraverso la narrazione di protagonisti che hanno
vissuto e vivono l’esito di lesioni da ustione, i quali testimoniano come la realizzazione di
un buon approccio relazionale con gli operatori abbia un potente effetto taumaturgico.
I capitoli sono completati da ulteriori informazioni contenute in tabelle, nelle quali sono
descritte scale di valutazione e classificazione, principali tipologie di medicazione, superfici
di supporto, indicatori clinico organizzativi ed altro, completati da illustrazioni e foto.
Il volume in questione, in sintesi, è un testo capace di promuovere l’acquisizione di nuove
conoscenze nella gestione delle persone affette da lesioni cutanee acute.
Prof. Laura Rasero
Professore associato in Scienze infermieristiche
Coordinatore Master Lesioni cutanee nell’adulto e nel bambino: prevenzione e trattamento
Università degli Studi di Firenze
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L'Infermiere n°6 / 2012
Riprogettare la sanità. Modelli di analisi e sviluppo
di Roberto Vaccani
Carocci Faber, 2012
pagine 351, euro 33,00
In “Riprogettare la sanità”, l’autore, affronta un tema di cui
molto si è scritto: i sistemi sanitari che, tuttavia continuano ad
essere una questione quanto mai attuale e per molti versi
spinosa.
L’elevata complessità organizzativa che li contraddistingue,
caratterizzata da un’altissima differenziazione dei processi
lavorativi, delle competenze e delle attività, rappresenta una
sfida per chi li approccia da un punto di vista teorico e ancor
più per chi si occupa concretamente della loro gestione ai
diversi livelli.
Infatti, a essere messa in gioco è la capacità di avere e
mantenere una visione globale e integrata nel governo del
sistema, in un contesto in cui spesso a ragione o a torto lo
stesso viene scomposto, o rischia di esserlo, in sottosistemi
aziendali apparentemente più facili da governare ma il più
delle volte faticosamente riconducibili poi ad una visione d’insieme.
A rendere ancor più “complessa” la complessità concorre anche l’alta discrezionalità delle
Aziende sanitarie; da qui, l’indispensabilità di stili di direzione autorevoli ma negoziali.
Nell’analisi e nella riprogettazione di questo scenario si colloca l’opera di Vaccani che in
sei capitoli ripercorre gli elementi fondanti di un’organizzazione.
Nella prima parte, il percorso che fa l’autore inizia con un approccio all’analisi sistemica
che fa luce sulla crisi di sistemi gerarchizzati e centrati sulla divisione delle strutture e
sposta l’attenzione su sistemi più orizzontali e trasversali capaci di flessibilità e meno
proceduralizzati e standardizzati.
Il lavoro continua con il focus sulla complessità sia in termini di integrazione che di
progettazione e sulla necessità direttamente proporzionale di articolare maggiori e mirati
strumenti d’integrazione. Il filo conduttore è lo stesso: lasciare la logica prescrittiva a
favore di una logica di direzione per obiettivi.
Il cambiamento non è solo organizzativo, è anche e, forse prima, culturale: entrambi non
possono prescindere dalla formazione, motore indispensabile di qualsiasi cambiamento. È
proprio alla formazione e alla funzione formativa nelle organizzazioni che l’autore dedica
un capitolo nella seconda parte del volume.
Avviandosi verso la fine del percorso pone anche l’accento sulla centralità di governo e
sulla personalità dei dirigenti e finisce con l’argomentazione sui sistemi premianti, utili e
necessari a indirizzare e integrare le persone rispetto alle finalità organizzative.
A caratterizzare il percorso all’interno dell’organizzazione fatto dall’autore, è la
coniugazione, in ogni passaggio, fra teoria e pratica con la dissertazione di casi concreti.
Franco Vallicella
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La questione infermieristica: prendersi cura o curare?
di Rodolfo Costanza
Ambrosiana, Milano, 2012
pagine 448, euro 38,00
Chi pensa che l’infermieristica sia una pratica professionale,
intendendola come un insieme di procedure incentrate su
evidenze scientifiche, potrà ricredersi con questo volume,
interamente dedicato alla infermieristica quale scienza del
prendersi cura.
Un testo non certo facile da approcciare, in quanto pone un
percorso articolato e complesso, ma anche completo,
sull’evoluzione della nostra disciplina negli ultimi decenni.
L’infermieristica è esaminata in tutte le sue sfaccettature: dal
processo di professionalizzazione (capitolo 3) alla ricerca
dell’identità scientifico-disciplinare (capitolo 11), per arrivare
alla discussione su un nuovo paradigma per l’infermieristica
(parte terza), in cui emergono concetti e discussioni
veramente poco comuni, come quella sulle dyrropie (pagina
345 e seguenti) e sulla concezione Nanda a confronto con
quella dyrropica (pagina 363).
Molti infermieri potranno trovare in queste pagine capitoli interamente nuovi
dell’infermieristica e non solo per le scelte dell’autrice rispetto alla disciplina: il suo intento,
chiaramente espresso, è quello di riconsiderare l’insieme delle questioni che ruotano
attorno all’infermieristica.
Un volume probabilmente non per molti, di sicuro per chi ama le sfide ed è pronto ad
affrontare discussioni elaborate, accademiche, epistemologiche. D’altra parte, serve anche
questo per crescere.
Laura D’Addio
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Medicina del lavoro per le professioni sanitarie
di Angelo Sacco, Matteo Ciavarella, Giuseppe De Lorenzo
EPC Editore, 2011
pagine 208, euro 15,00
La medicina del lavoro è un tema trasversale a tutte le
organizzazioni, in relazione alla necessità di prevenire,
mantenere e riabilitare la condizione di salute degli operatori
relativamente alle funzioni che essi svolgono e all’ambiente
di lavoro nel quale operano. Il concetto che ne è alla base è
l’importanza e il valore della tutela della salute del lavoratore
in quanto risorsa dell’individuo nonché per l’organizzazione
stessa.
Il testo proposto da Sacco, Ciavarella e De Lorenzo
rappresenta un prezioso compendio su questa tematica e un
ottimo punto di riferimento per gli operatori sanitari. Esso è
stato pensato in modo particolare per gli studenti dei corsi di
laurea per infermieri, tecnici della prevenzione e altre figure
sanitarie nonché i Master di coordinamento delle relative
professioni.
Il
fatto
che
questo
insegnamento
sia
inserito
nell’ordinamento didattico, ad esempio per il Corso di laurea per infermieri, tra i corsi
previsti nella prima annualità, denota l’attenzione data a questa tematica, in modo che
divenga patrimonio di base di ogni professionista. Tale attenzione è giustamente motivata
dal fatto che gli infermieri e gli studenti infermieri risultano essere tra gli operatori a
maggior rischio per la salute, determinato sia da rischi biologici o ambientali, ma anche
legati all’organizzazione del lavoro o lo stress (p. 129).
D’altro canto nel testo viene ben chiarito l’ambito di responsabilità dei singoli rispetto al
necessario rispetto delle norme di prevenzione, nonché quello dell’Istituzione nel garantire
la sorveglianza ambientale o i periodici controlli sulla salute del lavoratore. Inoltre vengono
anche specificati i concetti di “validazione consensuale” e “non delega”, ai quali è dedicato
un sintetico paragrafo, nel quale si sottolinea che l’attività dei tecnici del lavoro “non dà
risultati efficaci senza la partecipazione dei lavoratori e delle loro rappresentanze e senza
tenere conto della loro esperienza e delle loro indicazioni” (p. 24).
Il testo si apre con una panoramica storica sull’evoluzione della medicina del lavoro,
facilitando così la consapevolezza del lettore in merito ad una tematica così importante per
la propria salute. In tal senso vengono descritte in modo puntuale le finalità della Medicina
del lavoro, indirizzate a “perseguire il benessere fisico e psichico dei lavoratori attraverso
una metodologia complessa ed articolata che si estrinseca a diversi livelli” (p. 20). Nel II
capitolo, dedicato agli aspetti normativi della tutela preventiva e assicurativa dei lavoratori,
viene illustrata l’evoluzione legislativa che ha orientato e indirizzato le organizzazioni al
raggiungimento di suddette finalità in questo ambito.
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L'Infermiere n°6 / 2012
In particolare si segnala dagli anni novanta in poi con il Dlgs 626/94 e più recentemente
con il Dlgs 81/2008 l’ampliamento dei soggetti destinati ad affrontare la sicurezza
aziendale quali: lo stesso lavoratore, il responsabile del servizio di prevenzione e
protezione e il medico competente. Un diagramma accompagna la descrizione
dell’insieme degli attori che compongono l’organigramma aziendale della sicurezza, che
aiuta efficacemente il lettore a comprendere la complessità del sistema di gestione della
sicurezza e la modalità a diversi livelli di attribuzione delle responsabilità. In tal senso, si
ritiene particolarmente importante il paragrafo relativo alle responsabilità del lavoratore,
come ad esempio evitare manovre pericolose o non rimuovere o modificare dispositivi di
sicurezza o partecipare ai corsi di formazione o informazione che non sempre ricevono la
dovuta attenzione. Altresì tali momenti formativi o di addestramento hanno la funzione ad
esempio di determinare un cambiamento della percezione soggettiva del rischio, al fine di
produrre “una convergenza fra concezione soggettiva e condizione oggettiva” (p. 57) del
rischio lavorativo, in assenza della quale i programmi di prevenzione sono destinati a
fallire.
Ma come si può misurare il rischio lavorativo ed eventualmente monitorare l’efficacia degli
interventi preventivi attuati? A questa domanda il testo risponde con un paragrafo (cap. 3)
dedicato proprio allo studio del fenomeno infortunistico e fornisce la descrizione di misure
epidemiologiche particolari come l’indice di frequenza o l’indice di gravità o la descrizione
sistematica delle caratteristiche dell’infortunio.
Il libro affronta poi negli ultimi capitoli temi particolarmente attinenti alla professione
infermieristica, come: la sorveglianza sanitaria, intesa come la valutazione dello stato di
salute del singolo lavoratore in relazione alla tipologia dei fattori di rischio al quale può
essere esposto (cap. 6), i rischi per la salute degli operatori sanitari, dei quali non sempre
c’è l’opportuna conoscenza e consapevolezza necessaria ad evitarli (cap. 8). A tal
riguardo, viene approfondito il tema dei rischi psicosociali (come burn out o mobbing) che
devono essere tenuti in conto quando si programma un intervento preventivo perché
“rappresentano uno dei principali motivi di abbandono del lavoro del personale
infermieristico” (p. 147). Particolarmente pertinente alle professioni sanitarie è il tema della
gestione degli infortuni come nel caso di rischio biologico o la gestione del primo soccorso
(cap. 7) sia dal punto di vista organizzativo, che della formazione degli operatori designati
a queste attività.
È infine da segnalare l’organizzazione del volume, mirata a facilitare l’apprendimento dei
contenuti proposti tramite una sintesi al termine di ogni capitolo e un test di
autovalutazione per fissare gli argomenti più importanti. Peraltro un glossario proposto in
appendice permette anche ai non addetti ai lavori di ben orientarsi nella terminologia
propria di questa disciplina. Inoltre, al termine del testo, per chi abbia intenzione di
approfondire il tema, viene presentata una bibliografia essenziale rappresentata
sostanzialmente da alcuni libri, una completa rassegna sulle norme legislative di
riferimento e un prezioso elenco, con relativa descrizione, degli organismi nazionali e
internazionali che si occupano di prevenzione e sicurezza del lavoro.
A cura della Redazione
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