(per chi legge, non per chi scrive).
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(per chi legge, non per chi scrive).
OTTOBRE 2012, NUMERO UNO periodico quadriennale gratuito (per chi legge, non per chi scrive). Direttore: S.E.Cav. Amilcare Pachuco. Reg. Trib. di Sparta n. XX del 12/03/481 a.C. previa corruzione degli Efori. Serse è grande, Serse è il tuo Dio, Signore del Cielo e della Terra. Ottobre 2012, numero uno 1 La Copertina................................................................................. di Sgmnaff'o 2 Guarda in basso a sinistra... bravo! 3 Pachuco.................................................................................... di Davide Urgo 4 “Dell'amore e d'altri... no” 5 Correva............................................................................................ di Egestre 6 Pachuco.................................................................................................. di Pit. 7 Frammenti di un discorso amoroso.................................................... di Lady B. 10 Non può fare a amor riparo se non gente rozze e 'ngrate............. di Pit & Pallina 16 Ecco Gesù................................................................................. di Davide Urgo 17 La moglie cuscino..................................................................... di Schizzechéa 22 Violini e pollai, un amore lungo una vita (anteprima)........... di Gennaro Carbone 24 L'Editoriale.................... di S. E. il Cav. Amilcare Pachuco (responsabilità legale di Sgmnaff'o) se anche tu vuoi insultarci [email protected] 2 oppure evitaci su facebook alla pagina Hey, Pachuco 3 Ok, facciamo chiarezza. Qualcuno, bello brutto o inguardabile o interessante, t'è venuto vicino, t'ha detto qualcosa, e poi t'ha dato quest'ammasso di fogli. Ecco, prima di scagarli e buttarli considera che ci si è lavorato, e tanto: consideralo soltanto, poi sei liberissimo di scagobuttarlo il giornale, tornare a casa e vagolare per i canali TV o su internet in cerca di qualche obeso chiagnazzaro checelastamettendotuttaperperderepeso o troia sbatticulo che ti risparmi la fatica di vivere l'ultimo pezzo di giornata. Oppure, se proprio non ti costa niente, continua a girar pagine e guarda e leggi. Se ti dà fastidio che siamo bravi, se è una minaccia per la tua autostima, sappi che sì, è vero: siamo più bravi di te. Specialmente se hai fatto la Comics, o hai già esposto, o hai già pubblicato. palliiiiiina L'importante, anche se non ci si riesce, è provarci. No, non è quello che hai capito, non sto blabblando su noi e il nostro lavoro. Si vive per piacere a qualcuno, più che mai a noi stessi, ancor più agli altri. Siamo, i più, pessimi interpreti di noi stessi. Quel che vorremmo essere, quello che abbiam paura di diventare, e al qqqqq centro noi stessi – ego, ego, ego – pendolini frenetici tra la paura e l'egoismo. Passiamo una vita ad escogitare modi per creare un'immagine di noi stessi che piaccia a noi e agli altri, a tentare di non far schizzare fuori ciò che siamo davvero dentro. Ma, prima o poi, e non a tutti, la verità di quello che siamo vien fuori, prepotente e spiazzante, travolge quello che fingiamo di essere, e il cuscino diventa bollente, il petto s'apre. La maschera esplode. PIT. «Cosa canterò, piccolino, quando Le nuvole diventeranno grandi Grandissimi occhi di pianto?» A questo slancio inutile e insaziabile, distruttore infame dell'edificio razionale, controllato, quotidianizzante, bugiardo che chiamiamo vita, abbiamo dato nome 4 AMORE correva Correva. Correva e correndo strusciava, macchiandosi. S’infastidiva come una gran dama e si passava, gettando occhiatacce in giro, con forza una mano sul fianco. E riprendeva. Riprendeva con una foga, con una lena da vecchia massaia, come un aratro tirato da buoi, con la pazienza d’una nutrice, a offrire il suo fianco al su e al giù, avanti e dietro, senza cura dell’ora, senza pensare a nessuna briglia. Che pensi quando ci dai dentro? Può sembrare nel darci dentro il momento in cui pensare? Sei distratto, mi sembri lontano. Sono sempre distratto. E muti poi, muti nel rumore del letto e del materasso bianco che cigola. Correva e le briglie le si erano rotte. Un diavolo, un diavolo questa donna. Armeggiava i più segreti slanci in quelle gambe ora sudate. Sentivo scorrere dentro lei una tensione, un’energia da staticizzare i peli delle braccia e da far incupidire l’entusiasmo d’un vecchio amore che prendeva forza : non era lì la salvezza dalla gabbia, ma le gambe tremavano e i corpi sudavano. E questo a volte poteva bastare. di Egestre Correva, a lei non sembra potesse bastare niente. Era ingorda e voleva tutto il tempo, tutti i pensieri, tutte le tue voglie, come una vera donna. E le tempie pulsavano e gli occhi s’arrossavano mentre lei si prendeva tutto e lui sempre più vuoto, sempre più preso dal cielo notturno. Lei aveva sempre la pretesa di poter dipingerlo quel cielo. Buon dio, non puoi esserci solo tu. Perderò tutto. Perderai tutto, è vero, ma ci sarò io. Ti basterò. Correva, e doveva bastare? Correva e gli fischiavano le orecchie e gli occhi sfocavano il soffitto. Lei sembrava rinforzarsi mentre correva, mentre poi lui sbiancava, cercando di tenere il ritmo perdeva una serie di facce che non avrebbe dispiaciuto perdere, ma sapeva che, prima o poi, se ne sarebbe pentito. Non riusciva a tenere il suo passo, con i suoi nervi impoltriti nel tram-tram delle città e di tutte quelle strade in cui ci si poteva disarmare di tutte le proprie idee. Pazienza, tesoro, pazienta : camminiamo, teniamoci per mano. Fai il finocchio adesso? Correva e correndo strusciava sulle bianche lenzuola. Si sporcava e, semplicemente, non le interessava, così come non interessava a lui, così come non interessava al lenzuolo, così come non interessava a nessuno. 5 oscillazioni. BAM. mi fai male, cazzo. ti allontani ed inizi a scrivere mille poesie; ma ti dimentichi che alle scuole medie ci ripetevano in continuazione di non essere retorici. allora prendi una enorme gomma per cancellare, bianca; ma non ti accorgi che seppure le parole si cancellano, rimangono trucioli scuri ed un po' di grigio sulla punta. c'è un sorriso, e tu provi a ricomporre i versi; ma continui a farmi male. ti inizi a nascondere dietro una tenda scura; ma il sole la consuma ed io riesco di nuovo a vedere quello che c'è dietro. stai zitto, provi a non respirare. io vorrei tanto che tu urlassi, invece. ripescando pensieri stupendi in un giorno d'inverno. fa freddo, fuori. anche un po' qui, su una torre distante dal mondo reale non più di trenta scalini. ma davvero distante. forse perché la finestra lascia entrare un respiro d'aria gelida, mentre tubi blu (mai dipinti, è sempre stata una promessa) provano a trasmettere calore. mi sa che la loro è un'altra piccola, inutile, impresa impossibile. trecento anni di storia letteraria d'Italia mi fanno compagnia. alla mia destra, fieri, in caratteri piccoli e neri. ho espresso un desiderio, pochi minuti fa. mentre una fiamma colorata rendeva bruna cenere un foglio di plastica, portandolo verso il cielo per pochi secondi. poi è tornato giù, qualcuno lo ha preso poco prima che toccasse il suolo. in quell'attimo ha innalzato le mie speranze. io voglio credere che le porti a chi di dovere; che l'anidride carbonica fuoriuscita arrivi al suo (al mio) destinatario. e che quell'ora diventi tangibile. non posso dire cosa ho desiderato. romperebbe il segreto che tutti già conoscono. au dessus de la ville. sopra la città vorrei volare sopra la città ed essere più grande della città intera. nel caos creato, spero di far disperdere questo senso di delusione. nonseipiùquellapersonachecredevotufossi. ma non provo (per te) nulla di diverso da prima. mi fai giocare con la tua bambola? ti prego. voglio metterle la gonna. e la giacca, perché fa freddo. ma non il cappotto, perché la temperatura è salita un po’. le farò indossare le scarpe più belle. quelle nere, lucide, con la fibietta. poi giocherò. e la porterò a ballare. metterò la musica, e ci ballerò insieme. sarà divertente. ti prego, mi fai giocare con la tua bambola? prometto che la tratterò bene. meglio di come ho mai trattato le mie. è preziosa; ed io me ne accorgo solo adesso. non so cos' accadde o perché. da dove venisse tutto quel nulla, così intenso, non si sa. quel senso di putrida solitudine era evanescente. il tempo occupato troppo portava quasi tranquillità. non c'era armonia; ma quasi solo note stonate che però, messe insieme, producevano qualcosa di così particolare da poter essere definito 'bello'. baroque. c'era stato un incontro, di sguardi, di ricordi. ed adesso tutto scorreva più lento; malleabile. l'unica vera necessità era non pensare più. tendere. * quanta schifosa retorica. scusa, ma io t'aspetto. Frammenti di un discorso amoroso di Lady B. 7 Firenze; città d’arte. Solchi, con passo incerto, vie che hanno mill’anni diverse volte. Multiculturalità d’occasione, che si concentra in poche strade ed in una piazza. Un incrocio tra l’imponenza e la rigidità nordica e le cittadine frutto del processo di urbanizzazione del Suditalia; osservi seduto al tavolino di un bar che ti chiede soldi ed un’ironia che non possiedi. Vorrei vederti danzare, tra lo spazio e l’aria pulita; sorridere, mentre siedi in un intreccio di pensieri; già quasi del tutto districato dalla linearità di ciò che hai intorno. Ma non ti vedo. Non ti sento; non ti ascolto. Forse è perchè non ci sei; forse perchè non ho ancora deciso di incontrarti. In questo momento basta l’aria non troppo calda, il sorriso e qualche sigaretta. (Malinconia di una domenica pomeriggio d'inizio autunno, che porta con sé un vento profumato ed il ricordo di fragorose risate. Insostenibile incomprensibilità.) “Ho paura” disse. “Non devi aver paura” rispose. “Ho paura” ripeté. “Non ne avere, fidati” rispose, di nuovo. Scivolìo di sensazioni; scivolano come potrebbe scivolare una mano aperta sulla pelle di qualcun altro, stridendo. Occhi che si cercano di evitare; qualsiasi incontro renderebbe le conseguenze troppo sconosciute, vestite d'ombra in cima ad una scala. Rumore di organi; hanno tracciato stradicciole differenti e un po' tortuose, talvolta dimenticandosi di colorarle. “Sorridimi” disse. “Non posso” rispose. “Impara a convincerti che puoi, promettimelo” disse, di nuovo. Rovinosa empatia; fa cadere dalle montagne più alte, graffianti e grigie; ti lascia nudo a combattere contro te stesso. Richiesta d'aiuto; silenziosa si fa intendere tra tende che non fanno passare la luce; ma è restia, spaventosa. Si può. Nulla ci dev'essere proibito. Ma, spesso, la gente non lo ricorda. c’è una donna in strada, che piange. seduta all’ombra di un albero solo, e solitario. nei suoi occhi, se guardi bene, puoi scorgere il dolore. quello vero. è come se ognuna di quelle lacrime che vedi scivolare sul suo viso spigoloso porti con sé la parola ‘aiuto’. e tu non riesci a fare niente. se ti avvicini, la vedi allontanarsi. nei suoi occhi, se continui a guardare bene, anche da una certa distanza, vedi altre due donne. innamorate. una folle d’un amore impossibile. l’altra quieta, attenta. hanno entrambe mille dubbi. avvolte da acqua salata che già è scorsa via. portando con sé tempo e ricordi. le vedi allontanarsi, eppure le continui a sentire vicine. potresti sentire il loro respiro. vedere le loro bocche muoversi, parlandoti. ognuna a suo modo. ognuna a modo suo. l’ineffabilità di ciò che pensano è irraggiungibile, per te. “E’ il tempo che scorre lungo i bordi Il tempo che scorre lungo i bordi Ascolta ogni cosa qui dentro aspetta un segnale Puoi leggerlo nelle linee della mano o nei tuoi volti passati appesi intorno” Lo sentivo scorrere in silenzio, tra un altoparlante gracchiante ed il rumore di rotelline di plastica sul pavimento sconnesso. Ero immobile, ma tutto intorno a me vorticava come mille uomini che - improvvisamente - fanno un passo e cadono giù, venti trenta cinquanta metri in caduta libera con il solo sibilo dell’aria che urta contro il corpo a fargli compagnia. Quello, però, era un silenzio dilaniante. Urtava contro ogni piccola mia parte; graffiava senza lasciare segni. Dovevo prendere quel treno. Anche se non riuscivo ancora a muovermi. Anche se ogni piccolo movimento richiedeva uno sforzo inimmaginabile. Era l’ora. 8 Rimisi il cappello di lana nera, un po’ troppo anni-che-furono. Scelsi il biglietto giusto nella borsa a tracolla sempre troppo piccola. Tirai su, con uno scatto impercettibile, una valigia consumata di un colore ben poco definibile. Rimasi a fissare quelle numerose lampadine arancioni su uno sfondo nero, che per tutti significavano qualcosa, senza davvero mettere a fuoco. Poche luci in più: binario 15. Da qualche tempo ero convinta che i numeri avessero un significato, connettessero stati profondi della materia come una concreta analogia decadente. Il quindici poteva significare l’inizio di tutto, come il più vuoto nulla. Ma non c’era tempo per pensarci. La valigia e la forza di gravità trascinavano il mio braccio destro sempre un po’ più in basso; ma era uno sforzo quasi piacevole da sostenere. Click. Il tempo era definitivamente stampato sul rettangolo giallino che avevo in mano. Quella data diveniva, così, incancellabile. Era un altro tassello di un mosaico senza forma, con colori confusi ed immagini mutevoli. Avevo voglia di scappare. Prendere un treno non me lo permetteva. La mia voglia non era di andare via - io volevo poter allontanarmi da ciò che c’era. Non uno sguardo distaccato o superiore, non una consunta immanenza: l’inesistenza. Ma le mie possibilità erano molto limitate, e la mia incapacità di trovare possibili soluzioni mi rendeva inetta anche alla scelta più banale. Salii sul treno senza l’aiuto di nessuno. Guardai i binari un’ultima volta, affacciata, sui gradini in ferro. Sperai - ancora una volta - in un segnale, lasciandomi andare alle più banali illusioni. Poi nulla; partii. 9 NON PUÒ FARE A AMOR RIPARO Attenzione alla sovrastruttura Allora?! lo guarda, sorriso a metà, di sott' occhi, e non altro che un altro Allora?! non rispose, ancora. Lo vedi??? frà – cioè... le tue sono elucubrazioni, voli pindarici, strutture babeliche, tirate ciceroParole, Micco, paroleho capìììto ma so' parole inconcludenti!! tu vuoi parlare di aiutare la gente dentr' 'e quartiére, purtàrle ajùto, ma stai sbagliando, fràààà! Chello ca facciàme nuje ha da riguarda' tutte quante, amm' 'a piglia' 'o potere polìììtico e quèlle ca tu vuo' salva'je nun voglio salva' 'nu sfaccette 'e nisciuno!! je vulesseho capìììto!!ma si nunn aggio manco fernufràààà quello che tu vuoi fare è salvare perzóne ca pe' mme andrébbere fucelàte... ca so' ttroppo inserite dentr' 'o sistema!! llòre nun so' ppiù èssere umàne, 'a cultura, ll'attività umane, 'a cuscienza civile ca tu vuo' purta'me fa schìfo 'a cuscienza civileho capìììto ma quéste 'a scambiàsseno cu 'nu motorino nuovo... ma d'altronde è normàle... tu vuoi cambiare le cose partendo dalla sovrastruttura, sbagli SBAGLI in partèèèènza!! tu vuo' offèndere a Marx!!senti... ma tuNO MO SENTI: hai ragione guarda SU TUTTO. ma ti prego: un favore: SMETTILA DI PARLARE NAPOLETANOma che ddìììììciNO, MI'... a te dà fastidio se uno dice ma però?? se uno dice se io avrei???... ALLORA?!ma è normàààle... qui si insulta il linguaggio delle persone che sono deposito della nostra culturae ALLORA, pe' ppiacere, 'nu 'nsurda' 'o pparla' de 'a ggente ca ttengo 'into 'o coreCHE?!!non insultare il linguaggio delle persone che amo. Disse, e si trasformò in un'enorme sovrastruttura. Per la precisione, un gazebo. Di Micco il rivoluzionario non abbiamo notizie se non incerte, non sappiamo niente se non che la rivoluzione ancora non l'ha fatta. SE NON GENTE ROZZE E 'NGRATE 10 di Pit & Pallina a spilinguacchiar girasoli Ardeva, mercè, sospirava. Liturgicamente. Viveva. Incazzava di febbri mendìche, o più stente. E si compiaceva dei giochi, tristissima vegliava a inceder tra stami (senza mai concedermi partecipare) che spilinguacchiava sui muri turchini, lugùbri, incuranti 'miei tremuli accenti. Pa ùra schi fósa mi sveglio mi rilavo i denti, raccendo la plastica del cellulare, rilavo la guallera i piedi le ascelle bonsgiùr tulemònd. suona. il cellulare. solita: settembre è già qua, – Marco, non sei venuto? – signo' non ho più avuto la telefonata, e perciò non ho messo la sveglia, scusatemi, vi ho mandato un messaggio. – Ma non ti dovevo confermare se dovevi venire o no io ti dovevo avvisare se la lezione tu e Federica la facevate in ufficio vicino casa tua così non ti facevi un' ora di viaggio sotto al sole o venivi a casa mia Marco l'esame è tra pochissimo io non so come – signora ci vediamo oggi alle cinque? – sììì sì vabbèèène ma io adesso sto a casa mia e devi venire qua... con mezzi tuoi mi dispiàààce... io ti avevo detto ieri s – va bene a più tardi buona giornata. clic, più o meno. stracazzo, ma quanto mi sta sopra il cazzo ma scendile da cuóllo a 'sta figlia, fossile di una vacca in calore ma vivi. 'mmamìa fratacchió, malepanza. ouhà, 'sto cesso. 'n ci sta 'n dilandòg. no no no. senza, io non cago. uuuno a caaso cazzo, a memoria lo so. dio cazzo, 'n c'è tempo va bene 'sto qui se no immerdo il quartiere cazzazzazzazZZZZ – AOWUHUAAAH... cristo. sono solo. non sta più con me. mai ppiù mai ppiù maippiooOUHWAUH... 'st' era grossa. non studio. non scrivo non rido. non suono... diocazzo... con te era la balla che illudeva perché credeva a se stessa, era forte e perciò riusciva a straziare, a fare uscire il sangue. il dolore della tua balla mi manteneva sveglio. al riparo da me stesso. potevo darti la colpa di tutto: le mie sconfitte, le mie mancanze, i miei brufoli sul culo pallido. non ci sei più tu, a provare a uccidermi per salvarmi dall'orrore della mia libertà senza speranze. al loro posto tu, falsa speranza, morbida e bianca, hai cercato di bastare a me più che a te stessa senza neanche accorgerti di quello che stava succedendo. senza volertene accorgere. addio, anima mia. siamo stati i peggiori attori di noi stessi. raccogli, per quanto vuoi, puoi, sai, il tuo sangue. il mio, come ho sempre fatto, così come ti aspetti, te lo lascio lì, nella gola, sotto le unghie. non voglio alzarmi, non voglio studiare, non voglio suonare scrivere lavorare la mia balla non strazia perché lo sa che non è reale, lo sa che l'unico suo prodotto naturale è menzogna. è merda. affanculo, non mi alzo, resto qua. tutta la giornata a riprodurmi nel cesso. «Dasìdo» le uscì con il vezzo di femmina, io le passai a cuore stretto quanto rimaneva di me, e 'n fazzoletto (guardo le gambe strette nel jeans stretto, ma non come sempre... ma non come sempre... le cosce. mi s'indura il pezzo ma non come sempre – cioè: non sessualmente la stringo, anelando 'l mio corpo 'l suo corpo Cico e quanto poté imprimere l'anima ai sensi di sordo tremore, di flebil tormento Claudia e quanto strapparle potei dal vestito quel torbido, torbido voler piacere per forza a qualcuno gli disse Francesco mi dici che abbiamo sbagliato? A vivere, penF r a n c e s c o... sa, ma grida a provarci, cazzaccio di Dio, ma dov'è che... com'è che 'ste cose l'hai tenute dentro per tutto 'sto tempo? e tutto 'sto tempo tu m'hai... cioè – violenza m'hai fatto capito? Francesco Francesco io non so, adesso, che devo dirti. E qui Cico capisce: ci stiamo lasciando ci stiamo lasciando è sicuro non c'è un cazzo niente che porti altri fatti e non questo Claudia, ma in che senso? Ma cosa in che senso? Ridicola!!! tu tu TU MI STAI LASCIANDO!!! Francece... sco... calma... E chi vuole di' niente?!... ma no, Frànce, aspetta, aspe', fammi parlare... ma non avéi detto 'on ho niente da dirti, non avevi de-Frafrancesco checcazzo!! e falla parlare un pochino la gente tu sei tu sei sempre tu l'inteliggènte? Io voglio soltanto che tu ed io parliamo, che si smette con tutto 'sto... non capirsi, ecco... perché poi io parlo e tu t'arrabbi e mi fai arrabbiare pure a me, e si finisce Claudia!... cioè, Claudia io tu stavi dicendo una cosa precisa, è inutile fa' 'sti preamboli così – dico... – sciacqui, tu... Francesco, vedi, lo vedi come fai? Claudia è inutile, guarda, attaccarsi alla forma tu nella sostanza stai dicendo BASTA CON LO STARE INSIEME, poi... se io m'incazzo o mi faccio i balletti ma scusa che conta?! Cioè... vedi?! non parli!! tu... non parli... ALLORA???? Non piangere, dai... ma chi cazzo che piange??? ma Francesco... basta. Se non parlo è perché ogni cosa che dico tu mi salti addosso e non mi fai finire e poi piangi e nemmeno ma NON STO PIANGENDO!!!! 'sto cazzo di DIO!!! 12 Francesco FRANCESCO! sto dicendo che tu nemmeno capisci in che senso io dico di prenderci una pausa FRANCESCO!!! Lasciò Claudia sopra a Bellini, sicuro esser niente e voltarsi e restare. Guardava le cazzo di chiome degli alberi, sì da costringersi a stare a test' alta. E Claudia, non venire appresso, nemmeno chiamava. Lui passa oltre l'angolo. Manco chiamò. 13 Peppe Oggi non mi metto a studiare per niente. Ma proprio col cazzo che l'apro 'sto libro. È inutile che ci si mette a pressarmi il cervello, che poi – poi che fa? Quest'esame è sicuro, sicuro un giochetto. E pure se mi viene male è impossibile proprio che va proprio il cesso. Che quello si può sempre poi rifiutare; male che mi vada io lo faccio a settembre e in quel caso c'ho pure un bel mese di tempo e col cazzo col cazzo che mo mi ci metto. Mi rompo mi scoccio che ci posso fare? il telefono? Il mio. Ma dove cazzo sta... porrrca! Ecco. Ma e silenzio – un respiro nemmeno. Poi ma stai a telefono? No... no. Dormivo – cioè... m'ero svegliato e poi stavo nel letto... ma ué mo le tolgo il telefono a mamma e ti chiamo. Stai a casa? Ma stavi dormendo? No. Vabbuo' alla fine m'ero già svegliato non ti preoccupare, io No ma se stavi dormendo ti chiamo più tardi davvero Giu Gianna t'ho detto STAI A CASA? No... e di nuovo zitta. Mi piglia madonna mi piglia 'na rogna: io lo so mo lo dice mo sto da Riccardo... porco schifo mondo di merda!! Ah... 14 e – vabbuo'... dimmi. Ci stava Vorzillo che voleva fare il lisìng. Porco dio, quant'è uguale. e avevo un travone di cazzo, gonfio manco male, GO BABY GO-FUMME!! scoppiavo di sangue. mi tenevo il medio all'inciuccio, lo straggo, poi là, tutto dentro nel bùcio, TAKE BITCH!!, questa grida. fa male? che? dici di no? mo lo vedi, se urli, troione, hehé. mi ci ficco. ti ci vengo dentro. manco te n'accorgi. non capirai un cazzo. avvicino il naso ad il bùcio due mani e le stringo le afferro le pacche, stringo, apro, MADÒÒÒÒ!!!, ci do tanto di lingua e pure nel fetillo di 'sto porco dio. ci sto. eccomi vai con il suka yessSSDEEENCH!! dai di nerchia, cumpà. ci sto, baby, ci sto mo mi senti. troione. troione. mo vedi. un minuto. non capirai niente. puttana. ti sbrodolo, che non ci credi? ma non te lo dico. te n'accorgerai quando per tanta sborra piglierai l'ombrello. diocane, l'ombrello. ti sfondo. un minuto e... ti... cazzo d'un dio che t'ha preso... che l'eri un drittone eri 'n albero DAAAIIII che si drizza di nuovo... TI SFONDO, TI!! 'n attimo, che si ridrizza... o dio ma che fa, questa – che??? l'ha capito. l'acchiappo le reni «CHE FFAII???» dio... più calmo, l'ho fatta zombare «OOooh... baby... ti giri proprio sul più meglio? hweoùùff... c'era pronto un World-war paradisoooufff... tutto... nel tuo culo...» stop... stop. non c'è fiato – devo... respirare... dio-cazzo d'un dio... lei sta lì, metà pecora e metà più barbie, col culo qui a me ma la schiena incurvata a voltarsi e guardarmi. l'ho io bloccata così, così sgraziata. così ridicola. due passi indietro di ginocchia, poi braccio sul letto. ma piano, però. so' una vacca, dio cane. pie' a terra: sinistro, vai: destro. m'alzo, sorrido fintissimo, la guardo. il guarda. lo guardo pur io: pare fottersi, lui, di noi due, lì a fissarlo due folks dell'old west nella piazza-patibolo appena impiccato, attoniti, indifferenti: lì, pènzolo, sta e se ne fotte, se ne fotte, se ne fotte. [qui accadrebbe che Elvis si deprime, scazza, rottincula, piglia la coca e insorca la peggio pippata della sua vita. infatti, ci muore. ma la situazione, la storia: è deprimente, insomma: non ho più la forza né la fantasia di raccontarvelo.] 15 LA MOGLIE CUSCINO di Schizzechéa 17 18 21 Violini e pollai, un amore lungo una vita Anteprima, il racconto completo è su www.heypachuco2012.wordpress.com di Gennaro Carbone Prefazione Francisco Malakjiev (Stoccolma 1902-Benares 2000) è passato alla storia come lo scrittore più sbadato di tutti i tempi. Dei suoi lavori giovanili restano pochi miseri raccontini adolescenziali e, di ben altro spessore, i geniali testi per tabelle oculistiche, composti nell’ottobre del 1920. Cosa dire invece di Violini e pollai, un amore lungo una vita, il mastodontico libro cui lavorò per oltre sessant’anni e che avrebbe dovuto consegnarlo al pantheon dei migliori autori del Novecento? Malakjiev decise da subito di lasciare inedito il suo capolavoro sino a che non fosse stato ultimato. Mai scelta fu più infelice. Delle oltre sedicimila pagine manoscritte (Malakjiev odiava i computer) ci sono giunti solo 5 minuscoli frammenti, pregevolissimi certo, ma che proprio per questo lasciano l’amaro in bocca ai bibliofili come Dell’Utri, i quali non possono non pensare a cosa avrebbe potuto, e anzi dovuto, essere l’intera opera. Quasi tutto il materiale perso andò in fumo nell’incendio della casa di Benares appiccato da un disgraziato fiammifero dello stesso Malakjiev. 24 capitoli furono nascosti sotto terra quando ancora l’autore temeva la censura paterna e mai più ritrovati dopo il 1999. Infine tre capitoli furono divorati dal primogenito di Francisco, Bennihouana Malakjiev, che poi sarebbe diventato il poeta che noi tutti leggiamo e ammiriamo. Nell’estenuante narrazione diaristica dell’amore di Ciro e Ivana avrebbero dovuto confluire sia le banalità borghesi del romanzo millefoglie stile Arbasino sia la monotona epica quotidiana di memoria bertolucciana. Purtroppo non ci rimane che leggere i brani superstiti e rammaricarci. Eridano Garronzo 22 Cap. 2, pag. 157 e segg. […………] Mezzogiorno. Il sole si imbucava fra le nubi spesse con luce incerta e poco rassicurante come il sorriso di un bancario alle prime armi che tenta di spacciare bond argentini parlando di Maradona. Lungo la riviera del Volturno due sedicenni eterosessuali, un maschio e una femmina, entrambi un sesso alla volta, passeggiavano mano nella mano. In alto, oltre le sbarre del parapetto, il cielo era un lingotto satinato; privo del consueto nitore, molestava la vista dei giovani. In compenso però l’afa non difettava affatto, ma soffiava forte sulle loro facce affrante sferzando, fra infinite sofferenze, perfino il fiato dei due fanciullini fraternamente affiancati. – Come hai detto che ti chiami? – chiese lei tutto a un tratto. – Uffa! Mi chiamo Smerdiakov, ma gli amici mi chiamano Ciro, – rispose lui con tono cantilenante. – Smerdiakov?! Che nome bislacco! Com’è che te l’hanno appioppato? E perché mai sbuffi? – Aridàglie! Mi hanno chiamato così perché mio padre adorava i Fratelli Karamazov ma aveva gravi problemi di autostima. E sbuffo perché è la terza volta che te lo ripeto. – Ah, scusami. Ultimamente soffro di amnesie temporanee di breve durata e oggi ho dimenticato di prendere le mie pillole. – Sì, l’hai già detto, – ribatté laconico Smerdiakov mentre adocchiava un sampietrino divelto poco distante. – Già... ehm, – la ragazza si guardò attorno spaesata, poi parve riprendersi – comunque io sono Sgualdrina. È colpa di mia madre se mi chiamo così. Si supponeva che avesse problemi di autostima, in realtà spasimava semplicemente per il cazzo. Comunque chi mi conosce mi chiama Ivana, suono il violino e faccio volontariato. – Sì sì, so anche questo, mio malgrado. – Ciro Smerdiakov era ormai sconsolato. – Ti ho mai detto che suono il violino? – Oh, Cristo! Lungo la riviera del Volturno due sedicenni eterosessuali, un maschio e una femmina, entrambi un sesso alla volta, passeggiavano mano nella mano; la luce era grigia e il clima afoso, se nel frattempo aveste avuto un’amnesia. Non la giornata né la ragazza ideale, quindi, per un appuntamento. Ciononostante Smerdiakov non perse il suo proverbiale ottimismo bucolico. – Tu mi piaci, Sgualdrina. – Oddio, dimmelo ancora. – Dirti cosa? – Dammi dei nomignoli sconci, fammi sentire sporca. – Ma Sgualdrina è il tuo nome! – Ah, già! Dicevi? – Tu mi piaci. Mi piaci un sacco. Quando ti ho visto a scuola per la prima volta ho pensato: «Capperi, che tonno!» Poi mi sono vergognato, ti giuro, mi sono vergognato tantissimo, perché mi sono ricordato dei tuoi occhi: erano dolci come quelli di Clementina, la mia bufalotta preferita. In quell’istante ho capito che volevo mungerti e avere tanti figli con te. – Davvero? Lo sapevo che sotto quel broncio bretone si nascondeva un cuore tenerissimo. Abbracciami, vecchia canaglia! – disse con occhi da cerbiatta Ivana che ancora non aveva ben chiaro chi fosse quel tizio. Allora Ciro, vincendo la sua atavica timidezza, la strinse forte a sé. Forse un po’ troppo. Ivana aveva il volto immerso nel torace di Ciro, compresso fra le su possenti braccia abituate più alle stalle che alle donne. Chissà se in quell’eccessiva dimostrazione d’affetto ci fosse anche una puntina del residuo risentimento per le precedenti incomprensioni ma, cristiddio, era come vedere un capibara nella morsa di un anaconda. Sgualdrina rischiava di morire soffocata. – Ciro, rischio di morire soffocata, – biascicò lei per l’appunto. – Ah, scusami. Pensavo a Clementina; è così che si abbracciamo i bufali: forte forte, altrimenti si sentono presi in giro. So molte cose sui bufali, sono molto più simili a noi di quanto si creda. Scusami, sono molto nervoso, e quando sono nervoso parlo di bufali. Si guardarono a lungo e si sorrisero imbarazzati. Avevano capito di avere molte cose in comune. Entrambi erano insicuri, come normale a quell’età, entrambi minorati. – Accidenti, s’è fatto tardi, – constatò Smerdiakov/Ciro sul suo orologio, – cosa farai oggi? – Penso che mi eserciterò col violino. Sto imparando a suonare Nella vecchia fattoria. – La mia canzone preferita! – Lo immaginavo! E tu, cosa farai? – Beh, dalle due alle quattro pulisco il pollaio, dalle quattro alle otto studio, dalle dieci a mezzanotte mungo le vacche e da mezzanotte alle due ti penso, te lo giuro. – Sei dolcissimo! […………] Cap. 38, pag. 1480 e segg. Drin Drin! Squilla il telefono, risponde Ciro. – Pronto, chi è? Cosa? Non capisco niente. Che? Quando? Oh santi numi, parli più forte! Da quest’orecchio sono quasi sordo! Oh, al diavolo! Il solito Smerdiakov. Ivana invece negli ultimi tempi si comportava in modo insolito. Da quando era rimasta incinta, specialmente dopo il parto degli undici gemelli, voleva sempre fare sesso. Sempre, non pensava ad altro. A parte il violino ovviamente. Sempre sesso e violino, sesso e violino, scopava e suonava, suonava e scopava. A volte suonava persino mentre scopava. Sì, quando Ciro, esausto dalle mille fatiche che si sobbarcava per il bene della fattoria e della famiglia, non riusciva a fotterla con violenza, come lei ormai amava. Ma il povero Ciro non aveva colpe. Ivana era diventata insaziabile e certo la sua stazza non facilitava le cose. La gravidanza le aveva completamente sformato il corpo moltiplicandone il volume. Pesava 132 kg e tutto l’immenso amore di Ciro spesso non riusciva a farsi largo fra quei prosciutti sudaticci e quelle pieghe insidiose come sabbie mobili. Con la voluttà era cresciuta anche l’arroganza di Ivana. – Vieni qui, pezzo di merda, sono le sei e un quarto. Mi devi una scopata o sbaglio? – Ma ho finito di scoparti appena venti minuti fa! – Cos’è, il tuo uccello non regge più i ritmi dei miei ormoni? Sarà meglio che mi cerchi un altro. Sì, un amante, un bel fustacchione cazzuto mi devo trovare, – il che per altro non era improbabile, almeno lì, a Pontelatone, un paesino di campagna con più bestie che uomini, ma in cui gli uomini erano molto più bestiali delle bestie. – Ti ho spompato, non è vero? – proseguì. – No, è solo che dovrei… – Tu mi trovi grassa, è questa la verità. Ti faccio schifo, non è vero? – disse il piccolo cetaceo fingendo di singhiozzare. – Ti dico di no. È solo che… – Ma vaffanculo, sei proprio uno stronzo rottinculo, – e dicendo così gli lanciò addosso un posacenere di marmo che lo schivò per un soffio, – adesso vieni qui e leccamela, coglione! – E va bene, te la lecco. Ma un giorno Smerdiakov dopo l’ennesima angheria decise di vendicarsi. – Ciro! Ciruzzo caro! Stronzetto! Vieni qui, raus! Sono le 8 e tu me lo ficchi nel culo, ah ah ah, non è così? – Ma sto cercando di fissare un chiodo al muro delle scale per appendere la foto. – Quale foto? – Quella in cui ci siamo io, tu, la prole e la fattoria che fa da sfondo. – Ma non dire stronzate! Vieni qui e inculami. Subitooo! – Oh, Cristo! Giuro sull’onore delle mie anatre che oggi l’ammazzo, – soliloquiò a mezza voce Ciro. Si recò di corsa in camera da letto. Ivana lo aspettava a pecorina col culo allargato dalle mani, già pronta a farsi iniettare una siringa di nefando e viscido piacere. – Ce l’hai fatta! Forza, dacci dentro, maschione. E mentre divaricava al massimo i turgidi quarti di luna un pipistrello sbozzolò dal fetido ano dove si era improvvidamente infilato scambiandolo per una grotta. La misera bestiola volò via impaurita a tutta velocità picchiando più volte sulle pareti, su cui rimasero impressi per sempre i lugubri calchi marron del suo corpo smerdato. Alla fine riuscì a imboccare la via della finestra e riacquisì la passata libertà. L’episodio non turbò Ciro né scompose la bramosia di Ivana. – Ho sentito un formicolio al culo. Me lo stai leccando? Che stai facendo?! Sbrigati a penetrarmi o mi metto a suonare! – D’accordo, puttana. Ciro estrasse con veemenza il creapopoli dalla patta e profferì: – Adesso te lo faccio vedere io, brutta mignotta! – Oh sì, continua ad offendermi; mi fai arrapare tantissimo! – Ora ti sfondo, puttanone stronza zoccola pompinara, ti sfondo! Un ghigno mefistofelico allignava sulle guance polpute di Ciro che cercava di incunearsi nei meandri del laido sfintere. – Oh, sì, sì, dammelo, dammelo! È tutto mio, sì? È tutto mio! Oddio sfondami, sfondami, disoppilami le viscere. Mi fai sentire una troia quando mi sbatti e dici così. Sono un troione, non è vero? – Sì, sei una grandissima troia! Anche Ciro si esaltava in momenti del genere. Del resto come biasimarlo? Erano le uniche occasioni che aveva per rispondere agli insulti quotidiani senza doversi sorbire la ritorsione di qualche canzoncina stonata che Ivana era capace di strimpellare per ore intere sul suo violino. – Allora lo sai quello che sei tu? Sei una troia? – Sì, sono una troia, scopami, sono una troia! – Brava, ripetimelo ancora. – Sono una troia! – Dillo più forte! – Sono una troia!! – Più forte, cazzo! – Sono una troiaaa!!! – Non ti sento! – Sono una troiaaaaaaa!!!! – Non ti sento! Urla!!! – Sono una troiaaaaaaaaa!!!!!! – E adesso alza le mani e dici ò-oh! Dici ò-oh-ò! – Cosa?! – Ivana si voltò di scatto sbigottita. Anche Ciro però fu sorpreso dalle sue stesse labbra. Per lui fu come cadere in un fosso e trovarci una torta, avrebbe detto Alessandro buon’anima. Tuttavia, impettitosi come non mai, prese la palla al balzo: la vendetta è un piatto che va servito freddo e Ciro non aspettava altri commensali. Trascinò Ivana per i capelli sino alle scale che conducevano alla cantina, le fece scendere un paio di gradini e le intimò di fermarsi proprio all’altezza del chiodo che stava martellando poco prima che la troia esigesse il suo pegno anale. Un uomo tuttofare come Ciro non dimentica mai il suo dovere. Afferrò Ivana per le tempie e le adagiò la nuca sulla capocchia del chiodo. – Che cosa vuoi farmi, pazzo? – gridò la sventurata. – Taci, Sgualdrina! – rispose Ciro; la chiamava Sgualdrina quando lo faceva arrabbiare, ma lei non parve capire. – Oh, sì! Insultami ancora, ti prego! Ciro sfruttò l’equivoco per tranquillizzarla, le bloccò entrambe le mani con le sue, si sollevò sulla punta dei piedi e cominciò a scoparle la bocca come un ossesso. – Ti piace, eh, troia? Cos’è, ora non parli più? – disse ridendo beffardo. Ivana era terrorizzata. Non riusciva a respirare, né intuiva quale strano disegno si celasse dietro gli occhi pulsanti e infuocati del marito. BANG- BANG- BANG- BANG! Ad ogni colpo dell’incessante ventre di Ciro la testa di Ivana martellava il chiodo facendolo penetrare sempre più in profondità. – Vengoooo! – Nitrì infine Ciro sborrando in bocca alla moglie semisvenuta Poi, impassibile, la lasciò ruzzolare pesantemente giù per le scale. – Uhhh! Ben ti sta! – disse traendo un grosso sospiro. Ripresosi dalla colossale sborrata andò in cucina e tracannò mezza bottiglia di vodka tutto di un sorso. – Ah, già! Il ritratto, – rammentò a se stesso. Afferrò il quadro dal tavolo su cui l’aveva lasciato e, finalmente, lo appese al chiodo. – Ah, ora sì! Che bella! – Ciro era soddisfatto. La foto era al suo posto, vendetta era stata fatta e l’inedito martello nucale-penieno aveva funzionato alla perfezione. Poté quindi fumarsi una sigaretta in santa pace e andare a dormire, sfinito, nel fienile. […………] Cap. 233, pag. 15816 e segg. […………] I due passeggiavano mano nella mano come da ragazzi, ma senza amnesie. La crisi di mezz’età era ormai un pallido ricordo. Le molte gioie successive avevano cancellato gran parte di quegli aspri battibecchi, l’arteriosclerosi aveva fatto il resto. Il laghetto ameno alle spalle del golf club di Grazzanise riverberava una luce dolce come un unicorno rosa che mangia miele. Lungo le sue sponde cinici e arzilli vecchietti si divertivano a nutrire i piccioni. Gettavano loro briciole di pane raffermo, prima più lontano poi sempre più vicino alle panchine su cui stavano seduti, aspettavano pazien-temente che i pennuti si avvicinassero gradualmente e si convincessero della bon-tà di quei rugosi sconosciuti, e quando arri-vavano a portata di sandalo POW! botte da orbi. – Ehi, coglione! Nessuno dà niente per niente a questo mondo. Prima lo capisci, meglio è per te! – disse uno di quei deliziosi vecchietti rampognando un piccione rintronato a cui aveva appena scoperchiato il cranio. – Oh, non sono adorabili?! – esclamò Ivana. – Fra un paio d’anni vorrei stabilirmi qui anch’io e imparare la loro saggezza. Insieme a te, ovviamente. Ti piacerebbe? Ciro era piegato in due dalle risate e dalla gobba. Proprio in quel momento un piccolo bolide, bianco e sibilante, si stampò nella sua bocca spalancata. – Bucaaaaaaaaa! – gridò Ivana. – Cioè voglio dire: Ciroooooooooooo! – e in tutta fretta gli praticò con successo la manovra Heimlich. Ma la pallina da golf, sputata in alto da Ciro, compì una strana traiettoria e finì nella gola di Ivana. – Agh, agh! – era blu, stava soffocando. CONTINUA SU www.heypachuco2012.wordpress.com