1 «Il mio profondo, intimo, arcaico cattolicesimo» Pier Paolo Pasolini

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1 «Il mio profondo, intimo, arcaico cattolicesimo» Pier Paolo Pasolini
«Il mio profondo, intimo, arcaico cattolicesimo»
Pier Paolo Pasolini e i crocifissi della storia
di Marco Vanelli
Inoltre: per me la bellezza è sempre una «bellezza morale»:
ma questa bellezza giunge sempre a noi mediata: attraverso
la poesia, o la filosofia, o la pratica: il solo caso di
«bellezza morale» non mediata, ma immediata, allo stato
puro, io l’ho sperimentata nel Vangelo1.
Nel film La ricotta (1963) a un dato punto il giornalista del rotocalco alla moda “Tegliasera”,
mentre intervista il corpulento regista interpretato da Orson Welles, fa la fatidica domanda: «Che
cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?». E il regista sornione: «Il mio profondo, intimo,
arcaico cattolicesimo»2. Il giornalista annota ossequioso sul suo taccuino.
Questa è una battuta-chiave per comprendere alcune contraddizioni o sfaccettature del pensiero di
Pasolini in merito al cristianesimo, come d’altra parte l’intero episodio del film collettivo Rogopag
è un’opera-chiave nella multiforme produzione pasoliniana.
Un’altra delle domande che vengono fatte al regista riguarda la morte. Senza tentennamenti, egli
risponde: «Come marxista, è un fatto che io non prendo in considerazione»3.
Ecco espressi dialetticamente – ma forse nemmeno tanto – i due termini dei riferimenti valoriali di
Pasolini, cristianesimo e marxismo, legati ad aspetti per lui altrettanto importanti come antichità e
morte. Un marxismo vissuto e sentito da parte del poeta cineasta in termini soprattutto umanitari, e
un cristianesimo di cui egli invece sottolinea sempre gli elementi rivoluzionari. Ma non si tratta di
un catto-comunismo politicamente strategico o di sincretismo intellettuale, bensì di due istanze
egualmente radicate in lui4, che gli permettono di comprendere la storia e confondersi con quel
sottoproletariato che Pasolini tanto amava. Fino a versare il proprio sangue con una morte per certi
aspetti redentrice. Come scrive il cugino Nico Naldini:
Nessuna remora da parte di Pasolini a denunciare il proprio “populismo”, l’“umanitarismo” – che gli furono
rimproverati dalla cultura ufficiale della sinistra degli anni Cinquanta – e a considerare il messaggio dei Vangeli alla
radice della rivoluzione socialista5.
E in una lettera del 1954 al poeta Carlo Betocchi, Pasolini scrive:
Cristo, facendosi uomo, ha accettato la storia, non la storia archeologica, ma la storia che si evolve e perciò vive: Cristo
non sarebbe universale se non fosse diverso per ogni diversa fase storica. Per me in questo momento le parole di Cristo:
“Ama il prossimo tuo come te stesso” significano: “Fa’ delle riforme di struttura”6.
Anni dopo, proprio ai tempi dell’ideazione e della realizzazione de La ricotta, Pasolini, che teneva
la rubrica “Dialoghi” sul settimanale “Vie Nuove”, si trovava a ricevere dai lettori numerose
domande relative al dialogo tra marxisti e cattolici. Ecco un paio di passaggi delle sue risposte,
particolarmente significativi in questa direzione:
Nulla muore mai in una vita. Tutto sopravvive. Noi, insieme, viviamo e sopravviviamo. Così anche ogni cultura è
sempre intessuta di sopravvivenze. Nel caso che stiamo ora esaminando, ciò che sopravvive sono quei famosi duemila
anni di imitatio Christi, quell’irrazionalismo religioso. Non hanno più senso, appartengono a un altro mondo, negato,
rifiutato, superato: eppure sopravvivono. Sono elementi storicamente morti ma umanamente vivi che ci compongono.
1
Pier Paolo Pasolini, Lettera a Alfredo Bini, [Roma], 12 maggio 1963, in Id., Lettere 1955-1975, a cura di Nico
Naldini, Torino, Einaudi, 1988, p. 514.
2
Pier Paolo Pasolini, La ricotta, in Id., Alì dagli occhi azzurri, Milano, Garzanti, 1989, p. 473.
3
Ibidem.
4
Si pensi anche soltanto ai titoli delle sue raccolte poetiche: Le ceneri di Gramsci e L’usignolo della Chiesa Cattolica.
5
Nico Naldini, Introduzione, in Pier Paolo Pasolini, Romàns, a cura di Nico Naldini, Milano, Tea, 1996, p. 8.
6
Pier Paolo Pasolini, Lettera a Carlo Betocchi, Roma, 17 novembre 1954, in Id., Lettere 1950-1954, a cura di Nico
Naldini, Torino, Einaudi, 1986, p. 709.
1
Mi sembra che sia ingenuo, superficiale, fazioso negarne o ignorarne l’esistenza. Io, per me, sono anticlericale (non ho
mica paura a dirlo!), ma so che in me ci sono duemila anni di cristianesimo: io coi miei avi ho costruito le chiese
romaniche, e poi le chiese gotiche, e poi le chiese barocche: esse sono mio patrimonio, nel contenuto e nello stile. Sarei
folle se negassi tale forza potente che è in me: se lasciassi ai preti il monopolio del Bene7.
Ho sostenuto poi, anche, che nulla di ciò che è stato esperimentato storicamente dall’uomo, può andare perduto: e che
quindi non possono essere andate perdute neanche le parole di Cristo. Esse sono in noi, nostra storia. E io sono ancora
(e ancora ingenuamente) convinto che per un borghese una buona lettura del Vangelo è sempre un fertilizzante per una
buona prassi marxista8.
Nella lingua italiana esistono dei termini che non hanno equivalenti in altre lingue: «poverocristo»,
«cristincroce», «eccehomo», «vivere un calvario» o «vivere una viacrucis». Sono espressioni
comuni, antiche, popolari, che denunciano l’intimo legame culturale, prima ancora che di fede,
esistente nella nostra tradizione con il dettato evangelico e con la figura del Cristo. Possono essere
usate anche da chi non va in chiesa, da chi non crede, da chi bestemmia. Anche un comunista del
popolo, al tempo di Pasolini, non avrebbe avuto difficoltà a pronunciarle.
La Passione viene vista come un archetipo, come punto di riferimento tutto umano per descrivere le
sofferenze degli ultimi, dei derelitti, dei «povericristi», appunto. E ciò si è riversato anche nella
grande stagione cinematografica del Neorealismo, quella alla quale si è abbeverato il giovane
Pasolini. I personaggi dei capolavori di Rossellini e di De Sica, non erano altro che delle
incarnazioni moderne di Cristo, che assumeva il volto della Magnani, di Fabrizi, del comunista
torturato a morte in Roma città aperta, o del disoccupato di Ladri di biciclette9.
E come paradigma, la Passione di Cristo ritorna in tutta l’opera cinematografica di Pasolini, da
Accattone a Salò, con una particolare sottolineatura proprio ne La ricotta. Come si sa, il film è la
storia di Stracci, un sottoproletario che si arrangia a fare la comparsa cinematografica per sfamare la
numerosa famiglia, in un periodo, i primi anni Sessanta, in cui le grosse produzioni americane
sbarcavano a Cinecittà per realizzare dei kolossal di argomento storico, biblico o mitologico.
Così Stracci, che impersona il “buon ladrone” in un film ispirato al vangelo, girato nella periferia
romana, si ritrova a dover cedere il “cestino”, cioè il pranzo preparato per ogni membro della
troupe, alla moglie e ai quattro figli che lo vengono a trovare sul set.
Pasolini raffigura quel pasto come una scena sacra, dove la fame atavica dei poveri è accompagnata
non a caso dalle note del Dies Irae. Stracci deve tornare al lavoro, ma prima riesce con un buffo
travestimento da donna ad ottenere un altro cestino. Il tempo di rimettere a posto il costume che
aveva trafugato basta al cagnolino della diva protagonista del film per far fuori il pasto di Stracci.
Di nuovo digiuno, l’uomo si scontra con la bestiola quasi fosse un cane anch’egli:
Ma poi riprende il controllo, che ca...! e, da cane ritornato uomo, lo lascia perdere.
Si mette a sedere, e disperato, con le lacrime agli occhi, guarda il nemico.
STRACCI – Te pare bello quello che hai fatto? Eh?
E si asciuga avvilito, le lacrime10.
Nella figura della diva altezzosa, interpretata da Laura Betti, interessata solo al suo cane e forse a
quel giovanottello che fa la comparsa e le ronza attorno speranzoso (Ettore Garofalo), non è difficile
riconoscere certi tratti di Anna Magnani, che l’anno precedente era stata per Pasolini la protagonista
di Mamma Roma. Sono noti i contrasti che si verificarono durante la lavorazione di quel film tra il
regista e l’attrice, ed è ancora più nota la passione che quest’ultima nutriva per i suoi cani. In più,
l’attore che faceva la parte del figlio della prostituta chiamata “Mamma Roma” era proprio Ettore
Garofalo, in un ruolo che lo vedeva morire, legato a un tavolaccio del riformatorio, in una
7
“Vie Nuove”, n. 47, a. XVI, 30 novembre 1961, ora in Pier Paolo Pasolini, Le belle bandiere, Roma, L’Unità/Editori
Riuniti, 1991, p. 140.
8
“Vie Nuove”, n. 30, a. XVII, 26 luglio 1962, ora in Pier Paolo Pasolini, Le belle bandiere, cit., p. 182.
9
Merita ricordare come l’interprete di Ladri di biciclette, Lamberto Maggiorani, ritorni nei film di Pasolini come
comparsa sia in Mamma Roma che, per l’appunto, ne La ricotta.
10
Pier Paolo Pasolini, La ricotta, cit., p. 472.
2
composizione figurativa che attingeva alla pittura religiosa Masaccio e Caravaggio (pur ricordando
di primo acchito il Cristo morto di Mantegna)11.
Il pianto finale di “Mamma Roma” alla notizia della morte del figlio, sorretta da altre donne,
rimandava concettualmente e iconograficamente allo Stabat Mater, cioè al dolore di Maria ai piedi
della croce. A questo punto è lecito ritenere che la battuta che sentiamo dire al regista ne La ricotta,
durante una ripresa del film, rivolta alla diva distratta: «Sonia, ricordati che sei ai piedi di Cristo:
non pensare al tuo cagnolino!», probabilmente è un adattamento di simili rimproveri fatti da
Pasolini alla Magnani sul set di Mamma Roma.
Proprio attingendo alla sceneggiatura di quel film (pubblicata da Rizzoli12), il personaggio del
regista ne La ricotta, durante la sequenza dell’intervista da cui siamo partiti, legge al giornalista dei
versi di una poesia dello stesso Pasolini:
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assito, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più13.
Non solo con quella citazione si sottolinea il legame con il film precedente, ma viene caricato il
personaggio del regista di tutte le contraddizioni che lo stesso Pasolini viveva in quel momento,
quando era in procinto di girare Il Vangelo secondo Matteo. Il regista de La ricotta, che si definisce
«una forza del Passato», cattolico e marxista a un tempo, «feto adulto» in cerca di fratelli morti da
secoli, sta facendo un film dove la Passione viene ricostruita attraverso dei tableaux vivants presi da
celebri quadri di Pontormo e Rosso Fiorentino.
Il suo è un approccio intellettuale al mistero della sacralità: alle pitture manieriste aggiunge i versi
di Jacopone da Todi e le musiche di Domenico Scarlatti e di Cristoforo Gluck. Egli usa dei
sottoproletari come Stracci per fare le comparse, mettendo loro in testa finte aureole e panneggi
multicolori, ma quel linguaggio, quelle pose, quelle musiche (che vengono sostituite con ballabili
alla moda) e quelle citazioni risultano del tutto incomprensibili agli esponenti del popolo, che
ridono e si muovono mentre dovrebbero restare seri e immobili come le figure delle pale d’altare.
11
Pasolini fu sarcastico in proposito: «siccome, nel finale, la figura di Ettore è vista di scorcio, ecco che tutti, in coro,
hanno fatto il nome del Mantegna!
Mentre il Mantegna non c’entra affatto, affatto! Ah, Longhi, intervenga lei, spieghi lei, come non basta mettere una
figura di scorcio e guardarla con le piante dei piedi in primo piano per parlare di influenza mantegnesca! Ma non hanno
occhi questi critici? Non vedono che bianco e nero così essenziali e fortemente chiaroscurati della cella grigia dove
Ettore (canottiera bianca e faccia scura) è disteso sul letto di contenzione, richiama pittori vissuti e operanti molti
decenni prima del Mantegna? O che se mai, si potrebbe parlare di un’assurda e squisita mistione tra Masaccio e
Caravaggio?» (“Vie Nuove”, n. 40, a. XVII, 4 ottobre 1962, ora in Pier Paolo Pasolini, Le belle bandiere, cit., p. 198).
12
Pier Paolo Pasolini, Mamma Roma, Milano, Rizzoli Editore, 1962. Il volume, oltre alla sceneggiatura, contiene (come
era abitudine di Pasolini anche in altre sceneggiature pubblicate) del materiale aggiuntivo, di carattere saggistico e
letterario, come la poesia Un solo rudere... che poi confluirà, con lievi varianti, in Poesia in forma di rosa (1964).
13
Pier Paolo Pasolini, Un solo rudere..., da Poesia in forma di rosa (1961-1964), in Id., Le poesie, Milano, Garzanti,
1975, p. 344.
3
La cultura figurativa di Pasolini (allievo in questo di Roberto Longhi) affiora continuamente nei
suoi scritti, nelle immagini dei suoi film e perfino nei suoi versi (dedicati, in questo caso, proprio a
La ricotta):
Il Santo è Stracci. La faccia di antico camuso
che Giotto vide contro tufi e ruderi castrensi,
i fianchi rotondi che Masaccio chiaroscurò
come un panettiere una sacra pagnotta...14.
Certo, il Santo è Stracci, non gli altri, agghindati come in un presepe vivente. Stracci è un nuovo
Cristo, quel Cristo che si immola ogni giorno sotto gli occhi di tutti, ma nell’indifferenza generale.
Sì, perché nel seguito della vicenda de La ricotta, Stracci riesce a vendicarsi del cane della diva
vendendolo al giornalista di “Tegliasera” che, passandogli di fronte, l’ha visto e se ne è innamorato.
Con le mille lire guadagnate, Stracci si precipita nella campagna a comprare della ricotta e del pane
da un venditore ambulante e torna di nuovo sul set per potersi finalmente sfamare. Ma anche questa
volta non ce la fa a mangiare, perché deve prepararsi per la scena da girare. Così nasconde la ricotta
in un anfratto e va a farsi “inchiodare” in croce.
La diva però fa una bizza e pretende di girare prima le sue scene, così i tre crocifissi rimangono a
terra, legati, in attesa. La troupe si prende gioco di Stracci, della sua fame, e come in una
inconsapevole parodia della Passione, gli viene offerto da mangiare e da bere, senza però che il
poveraccio possa davvero accostarsi al panino e alla bottiglia di aranciata che gli pongono vicino
alla bocca. È poi la volta delle sollecitazioni sessuali: si assolda una procace comparsa per fare uno
spogliarello di fronte a lui, così da farlo patire anche sotto quel profilo.
Finalmente “schiodato” dalla croce, Stracci può correre a mangiarsi la ricotta col pane. Viene
mostrato in velocità accelerata, come nei film comici del muto. In precedenza, ad accompagnare
simili scene ridicole, Pasolini aveva utilizzato l’aria della Traviata: “Sempre libera degg’io”,
suonata a mo’ di marcetta. Ora, però, torna il tema del Dies Irae a sottolineare di nuovo la sacralità
di quel pasto che fa ridere i membri della troupe che assistono e che gli portano una gran varietà di
cibi per proseguire lo “Stracci Show”. Lui mangia, come una scimmia allo zoo, incurante degli
spettatori. Nella sua bocca vorace si riassumono i milioni di bocche affamate che nei secoli e in
ogni latitudine sono state vittime dell’ingiustizia sociale.
Intanto il regista continua a barcamenarsi tra arte, ideologia, fede e compromessi. Il produttore fa
visita al set, con codazzo di paparazzi e celebrità. Per loro si allestisce un banchetto ai piedi delle
croci e si fa un finto ciak proprio con l’appello del ladrone buono a Gesù: «Quando sarai nel regno
dei Cieli, ricordami al Padre tuo»15.
Stracci, congestionato, dice la sua battuta prima all’aiuto regista, mentre in sottofondo una banda
continua a strimpellare la Traviata. Poi la ripete, ma la musica questa volta cessa: si sente solo il
vento sotto le sue parole, che non sono più quelle del copione, ma sono quelle dello Stracci-alter
Christus che muore sulla croce di fronte alla costernazione del regista. «Povero Stracci! – dirà
questi – Crepare, non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo»16.
Quella morte è un monito per il regista intellettuale, colui che ha cercato di esprimere il suo
«arcaico cattolicesimo» attraverso la cultura, e non l’ha riconosciuto nella realtà circostante. Come
ha scritto in proposito Guido Aristarco:
Con la morte-redenzione si chiude il film, come già si erano conclusi Accattone e Mamma Roma: la morte ha per
Pasolini il valore di un appello alla verità in un mondo avvolto dalla menzogna; essa rappresenta il momento da cui tutta
l’esistenza prende significato, è catarsi, liberazione dal male e dalla colpa. L’autore si «confessa» nella sequenza finale,
trovando nel sottoproletariato che muore la prospettiva d’una propria personale salvezza. Questa possibilità di
14
Pier Paolo Pasolini, I Santi? Non sono..., da Poesia in forma di rosa (1961-1964), in Id., Le poesie, cit., p. 396.
Pier Paolo Pasolini, La ricotta, cit., p. 485.
16
In realtà la battuta pronunciata originariamente era: «Povero Stracci crepare è stato il suo modo di fare la
rivoluzione», ma fu modificata assieme ad altri dialoghi e furono apportati piccoli tagli al montaggio a seguito del
processo che Pasolini subì per vilipendio alla religione di Stato dopo l’uscita del film. Per tutta la vicenda si veda:
Processo Pasolini, a cura di Annamaria Guadagni, supplemento al n. 115 dell’“Unità” del 18 maggio 1994.
15
4
redenzione non viene però contemplata come utopia astratta, né viene indicata come concreta soluzione dei problemi,
bensì viene assunta criticamente come alternativa all’irrisolvibile alienazione del regista/Welles17.
La morte come «alternativa all’irrisolvibile alienazione del regista»: in questa prospettiva possono
essere lette le morti sacrificali dei successivi film di Pasolini: quella di Cristo nel Vangelo secondo
Matteo, ovviamente, ma anche quella del corvo-professore in Uccellacci e uccellini, mangiato da
Totò e Ninetto allegramente inconsapevoli di compiere in quel modo una specie di eucaristia laica.
Il corvo «doveva essere mangiato», alla fine: questa era l’intuizione e il piano inderogabile della mia favola. Doveva
essere mangiato, perché, da parte sua, aveva finito il suo mandato, concluso il suo compito, era, cioè, come si dice,
superato; e poi perché, da parte dei suoi due assassini, doveva esserci l’«assimilazione» di quanto di buono – di quel
minimo di utile – che egli poteva, durante il suo mandato, aver dato all’umanità [...]18.
E ancora: la serva Emilia che si fa seppellire viva in Teorema; il padre che nello stesso film si
spoglia delle vesti e dei suoi averi e vaga nudo nel deserto, emettendo (a braccia spalancate, come
in croce), un urlo «destinato a durare oltre ogni possibile fine»19. E proseguendo con la doppia
immolazione di Porcile, i sacrifici umani di Medea che imbevono la terra di sangue, fino ai corpi
straziati di Salò. Quei corpi giovani e nudi che Pasolini negli anni immediatamente precedenti
aveva sperato di poter celebrare nella “vacanza” della Trilogia della vita, ma che sullo schermo
dimostravano tutta la loro corruzione operata dal potere capitalista, con i segni dell’abbronzatura
bene in vista a ricordare quanto fosse impossibile il sogno di risuscitare oggi l’innocenza erotica
delle epoche passate. Così, con un accanimento feroce, gli stessi corpi diventavano in Salò vittime
delle peggiori perversioni raccontate dal marchese De Sade e incarnate dal Fascismo nella sua fase
storicamente morente, ma forse vittime anche dello stesso regista che implacabile puntava l’arma
della sua cinepresa sulla loro pelle scoperta.
Infine una morte redentrice diventa quella stessa di Pasolini, in una prospettiva già anticipata da
segnali suggestivi (l’interprete di Maria ai piedi della croce nel Vangelo è Susanna, la mamma del
regista), che lo avevano portato a identificarsi nel Cristo e a muoversi nella direzione del
sacrificio20. Come nota Giovanni Ricci:
Il tentativo di Pasolini [nel Vangelo] è quello di offrire una rappresentazione che renda evidente che Cristo non è
«cultura», ma «vita», comunicando allo spettatore tutta la violenza e il mistero della sua morte. Alla base di tutto c’è la
volontà di Pasolini di identificarsi con il Cristo, perseguita durante l’arco di tutta la sua vita, e espressa con la sua arte
prima e dopo il Vangelo.
Affidare alla propria madre la parte di Maria non è che uno dei tanti indizi, il più evidente, della sua sofferta imitatio.
Un’imitazione ricercata non da un credente, ma da un uomo che ha trovato nella figura di Cristo, spesso tramite la
mediazione della poesia, una continua fonte di interrogazione21.
Allo stesso modo, un altro dato autobiografico consisté per Pasolini nell’attribuire a san Paolo, nella
sceneggiatura mai divenuta film, l’omosessualità come «spina nel fianco» che tormenta
17
Guido Aristarco (a cura di), Guida al film, Milano, Fabbri Editori, 1979, p. 189.
Pier Paolo Pasolini, Le fasi del corvo, in Uccellacci e uccellini. Un film di Pier Paolo Pasolini, Milano, Garzanti,
1966, p. 58.
19
Pier Paolo Pasolini, Teorema, Milano, Garzanti, 1968, p. 200.
20
A sostenere questa tesi è Giuseppe Zigaina, pittore e amico di Pasolini: «il Vangelo si è rivelato uno squarcio di luce
autobiografica che, anziché illuminare la mente degli spettatori, li accecherà a tal punto che nessuno di essi sarà sfiorato
(anche dopo molti anni) dall’idea che il film potesse essere l’anticipazione del progetto di morte sacrificale dell’autore»
(Giuseppe Zigaina, Hostia, Trilogia della morte di Pier Paolo Pasolini, Venezia, Marsilio, 1995, p. XXVI).
21
Giovanni Ricci, Il Cristo cinematografico di Pasolini, in “Ciemme”, n. 146, a. 34, aprile 2004, pp. 38-46. Nello
stesso fascicolo della rivista “Ciemme” si può leggere il saggio di Alfonso Moscato, Per una lettura dialettica del
cinema di Pasolini (pp. 23-35), dove pure vengono analizzati alcuni aspetti relativi al cristianesimo e al marxismo nel
pensiero e nell’opera di Pasolini; inoltre è riprodotta la Sinossi del film “Il Vangelo secondo Matteo” (pp. 48-49), tratta
dal press-book originale del film, con ogni probabilità scritta dallo stesso Pasolini. Sempre su “Ciemme”, nel fascicolo
n. 149 (a. 35, aprile 2005), compaiono tre saggi sul tema della Passione in Pasolini: Tomaso Subini, “Il Vangelo
secondo Matteo” e le sue fonti (pp. 15-23); Pierre Sorlin, Pasolini e la passione senza redenzione (pp. 24-29); Guido
Bertagna s.j., «...il mio sentimento irrazionale per Cristo». L’itinerario cristico di Pasolini (pp. 30-37).
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l’apostolo22. Anch’egli morirà come Cristo, versando il proprio sangue per la redenzione degli
uomini:
Paolo si abbatte sul ballatoio, immobile sul suo sangue. Ha una breve agonia. E ben presto si perde in lui ogni segno di
vita. Il pavimento del ballatoio è sconnesso. Il sangue si raggruma in una fessura, e comincia a gocciolare giù, sul
lastricato del cortile. È una piccola pozza rosea, su cui continuano a cadere le gocce del sangue di Paolo23.
Perciò le parole scritte in una lettera a don Giovanni Rossi della Cittadella Cristiana di Assisi,
consulente per il Vangelo, dove Pasolini parla del rapporto conflittuale con la propria
omosessualità, possono quasi esser lette in chiave profetica:
Sono “bloccato”, caro don Giovanni, in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere. La mia volontà e l’altrui sono
impotenti. E questo posso dirlo solo oggettivandomi e guardandomi dal suo punto di vista. Forse perché io sono da
sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita, o molti miseri
peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nelle staffe, così che la mia corsa non è una
cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul
cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio24.
Sembra quasi che Pasolini, rievocando la caduta di san Paolo, descriva in anticipo la tragica scena
che si svolgerà all’Idroscalo di Ostia il 2 novembre 1975.
22
Cfr. Pier Paolo Pasolini, San Paolo, Torino, Einaudi, 1977, p. 71.
Idem, p. 165.
24
Pier Paolo Pasolini, Lettera a don Giovanni Rossi, Roma, 27 dicembre 1964, in Id., Lettere 1955-1975, cit., pp. 576577.
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