schede film - Laceno d`oro

Transcript

schede film - Laceno d`oro
il cinema che riflette
schede film
festival internazionale del cinema
18 agosto / 30 settembre 2015
40° edizione
Regione Campania
Comune di Avellino
Comune di Ariano
Comune di Atripalda
Comune di Candida
Comune di Manocalzati
Comune di Mercogliano
Comune di Mirabella Eclano
Comune di Pietradefusi
Comune di Summonte
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e Paesaggistici per le province
di Salerno e Avellino
Soprintendenza per i Beni Storici,
Artistici ed Etnoantropologici
per le Province di Salerno e Avellino
Università di Salerno Cattedre di
Sociologia degli audiovisivi
sperimentali e Sociologia delle arti elettroniche
Dipartimento di Scienze Politiche,
Sociali e della Comunicazione
Teatro Carlo Gesualdo
Conservatorio Domenico Cimarosa
Sentieri Selvaggi
Quaderni di Cinemasud
Centrodonna
Zia Lidia Social Club
Centro Culturale Camillo Marino
Comitato Eliseo
Cactus Film Produzioni
Labus
Rete degli spettatori
In collaborazione con
Movieplex
Ideazione, cura e organizzazione
Circolo di cultura cinematografica
ImmaginAzione
www.lacenodoro.it
Pasolini
Regia: Abel Ferrara
Durata: 90’
Origine: Italia, Francia, 2014
Soggetto e sceneggiatura: Abel Ferrara, Maurizio Braucci
Interpreti: Willem Dafoe, Ninetto Davoli, Riccardo Scamarcio, Giada Colagrande,
Maria de Medeiros, Adriana Asti, Valerio Mastandrea, Roberto Zibetti
Fotografia: Stefano Falivene
Produzione: Capricci Films, Urania Pictures S.r.l.
Pier Paolo Pasolini, scrittore, regista ed intellettuale controverso, ucciso la notte del 2 novembre 1975
all’idroscalo di Ostia, è simbolo di un’arte scomoda che lotta contro il potere. I suoi film hanno subito una
pesante censura e ancora oggi la dinamiche della sua morte hanno tanti punti oscuri. Il giorno della sua
morte, Pasolini ha passato le ultime ore con l’adorata madre e più tardi con i suoi amici più cari, fino a
quando si inoltra nella notte in cerca di avventure con la sua Alfa Romeo. Il film ripercorre questo giorno.
Dopo Welcome to New York, distribuito solo in streaming, Abel Ferrara torna con un film interpretato
da Willem Dafoe (alla quarta collaborazione dopo New Rose Hotel, HYPERLINK “http://www.sentieriselvaggi.it/193/27682/Go_Go_Tales,_di_Abel_Ferrara.htm” Go Go Tales e 4:44 – Ultimo giorno sulla terra).
Il film è stato in concorso alla 71a edizione del Festival di Venezia. Ferrara parla di se stesso, girando
un film intimo, piccolissimo, aggrappandosi alla figura e alle parole di un personaggio “enorme”. E per
questo il momento decisivo è quell’interpolazione, quell’aggiunta all’intervista di Furio Colombo: “Farei
film anche se fossi l’ultimo uomo sulla terra. O faccio film o mi suicido”… E Ferrara davvero filma come
se fosse l’ultimo giorno, con quel che ha, trasformando le evidenti limitazioni materiali in un discorso
di senso compiuto e spiazzante, in vortici di densa umanità. Ferrara gira con i resti delle cose, cuce gli
spezzoni, i tagli del girato, del montato e della carne. A partire dai brandelli delle opere incompiute di
Pasolini, Petrolio, Porno-Teo-Kolossal, per arrivare a quegli squarci di Roma, che sembrano rubati contro
ogni autorizzazione, ogni licenza istituzionale, ogni ipotesi di grande bellezza.
Welcome To New York
Regia: Abel Ferrara
Durata: 124’
Origine: Francia, Stati Uniti, 2014
Soggetto e sceneggiatura: Abel Ferrara, Christ Zois
Interpreti: Gérard Depardieu, Jacqueline Bisset, Marie Mouté, Pamela Afesi
Fotografia: Ken Kelsch
Produzione: Belladonna Productions, Wild Bunch
Il film, nato sul set di 4:44 – Ultimo giorno sulla terra, e ispiratosi alla vicenda di Dominique StraussKahn, ex direttore dell’FMI, narra di uno scandalo a sfondo sessuale che coinvolge un politico francese
molto influente e delle vicende giudiziarie che lo vedono protagonista, interpretato da Gérard Depardieu, affiancato da Jacqueline Bisset nel ruolo della moglie. Se 4:44 raccontava i nostri ultimi istanti di
vita prima dell’apocalisse, Welcome to New York – uscito esclusivamente in streaming in diversi paesi
europei – ci si affaccia immediatamente dopo, in un mondo (?) dove il filo diretto con la morte è persino
inutile in quanto completamente annichilito da parametri politici ed economici inestirpabili nella loro
artificiosa compulsione. Deveraux/Strauss Kahn scopa fino all’annientamento fisico (la smorfia cartoonesca di Depardieu durante la prima fellatio) con la stessa foga con cui il capitalismo che incarna prosciuga
risorse ai poveri e ai malati (“succhiala, succhiala!” ripete il protagonista alle sue puttane). Ingombrante
il corpo grasso di Depardieu. Troppo enorme per non essere relegato costantemente a lato dello schermo. Prendere senza lasciare. È la società dello spettacolo signori e non poteva che raccontarcela così il
cineasta americano più puro e indipendente degli ultimi decenni. Possiamo scegliere quale corpo guardare, ma il segno rimane quello: “Le cose non cambieranno mai” confessa in uno strepitoso monologo
Deveraux, “nessuno vuole essere salvato davvero!”. Eccola la redenzione impossibile. L’autodistruzione
ormai è consapevolmente senza uscita in quanto estranea alla spiritualità e tutta interna a una visione
coraggiosamente politica.
4:44 – Ultimo giorno sulla terra
Regia: Abel Ferrara
Durata: 85’
Origine: Stati Uniti, 2011
Soggetto e sceneggiatura: Abel Ferrara
Interpreti: Willem Dafoe, Natasha Lyonne, Paul Hipp, Shanyn Leigh
Fotografia: Ken Kelsch
Produzione: Fabula Producciones, Funny Balloons, Wild Bunch
Alle 4:44 di domani la Terra scomparirà, colpita da una catastrofe che la devasterà senza lasciare sopravvissuti. Tutto svanirà per sempre e non è servito a nulla prevedere l’imminente disastro in anticipo.
Cisco è un attore di successo che si barrica nel suo appartamento di New York. Con lui c’è la pittrice
Skye, la sua compagna. Anche per loro sarà l’ultimo giorno sulla terra. Certo è che Abel Ferrara, arrivato
ai sessant’anni, sembra avere ormai passato la soglia della disperazione morale e spirituale che attraversava il suo cinema quando lo scriveva con Nicholas St.John. Lentamente ma con decisione, il suo
cinema non ha certo abbandonato le riflessioni e le ossessioni per l’area oscura del nostro immaginario,
ma sembra direzionato verso un approccio decisamente più esteriore, quasi antropologico, della deriva
umana, piuttosto che scavarne nelle trame della pelle quel sangue sgorgante di un dolore interiore che
non conosce più il futuro. Ed è proprio del futuro, o meglio della “fine del futuro” che ci parla questo 4:44,
che ci porta in un mondo non troppo lontano da noi dove le previsioni catastrofistiche degli ambientalisti
si sono avverate con risultati persino peggiori: il mondo sta finendo. La catastrofe è imminente e irreversibile, e tutti non possono far altro che scegliere come prepararsi a questo evento finale dell’umanità,
anche i due protagonisti del film, Cisco, un attore di successo (Willem Dafoe) e Skye (Shanyn Leigh)
sua compagna giovane pittrice. Nel loro bel loft con terrazza, scelgono di vivere assieme questi ultimi
momenti. Skye in maniera molto più spirituale, dipingendo e facendo yoga, Cisco, alternando rapporti
sessuali con la compagna a telefonate via Skype con amici e parenti. Viaggio al contrario, dall’Inferno
verso il Paradiso, a Ferrara non resta che la contemplazione misticheggiante o la riflessione sociologica.
Il demone non c’è più. Del resto, ormai, “siamo già angeli”…
Mulberry St.
Regia: Abel Ferrara
Durata: 91’
Origine: Stati Uniti, 2009
Interpreti: Matthew Modine, Danny Aiello, Gianni Russo, Frank Vincent
Fotografia: Jimmy Lee Phelan, Douglas Underdahl, Sean Price Williams
Nato nel Bronx e cresciuto a New York, Abel Ferrara iniziò la sua carriera cinematografica a Mulberry
Street nel 1975. La festa di San Gennaro, che ha il suo cuore nella strada del titolo, è il soggetto del suo
documentario. Alla vigilia della tradizionale festa di San Gennaro, gli abitanti di Little Italy si preparano
all’evento, liberando le strade dalle auto. Abel Ferrara si aggira, armato di telecamera, alla ricerca di
incontri, facce, amici, per raccontare un quartiere, una città, un mondo, ma soprattutto se stesso... Con
grande ispirazione, Ferrara si immerge nelle strade della sua Little Italy per raccontarne la trasformazione nei giorni della festa di San Gennaro. Un pezzo di Italia antica si riappropria in pieno delle sue
tradizioni e caratterizza quel quartiere di New York in maniera ancora più forte di quanto non faccia
normalmente. Ferrara si trova perfettamente a suo agio nel narrare un mondo e una storia che gli appartengono in pieno e il film diventa una piacevolissima scoperta di una cultura che troppo spesso i film ci
fanno vedere sotto la lente, a volte irreale, della fiction cinematografica. Ferrara interpreta se stesso, lo
stesso fanno i suoi amici e anche gli attori (come Matthew Modine) che lo vanno a trovare tra le strade
del quartiere. Per novanta minuti si conoscono personaggi singolari che costituiscono l’anima storica
della Little Italy che lentamente è destinata a scomparire, ma si parla anche di cinema, delle paradossali
storie che, nell’arco dei decenni, sono capitate al regista per terminare i suoi film a partire da quello
strano esordio che nel quartiere molti ricordano. Grande opera a metà strada tra diario intimo e cinema
documentaristico.
Chelsea on the rock
Regia: Abel Ferrara
Durata: 82’
Origine: Stati Uniti, 2008
Fotografia: David Hausen, Ken Kelsch
Abel Ferrara ha celebrato il mitico Chelsea Hotel con il suo primo documentario della carriera. “A rest stop for
rare individuals”. E’ il moto di questo luogo leggendario. Perché il Chelsea Hotel è quello in cui nel 1953 il residente a lungo termine Dylan Thomas partì per l’ubriacatura che gli risultò fatale, in cui Sid Vicious accoltellò
la fidanzata Nancy Spungen, in cui Arthur Clarke scrisse 2001 Odissea nello Spazio, Bob Dylan compose Sad
Eyed Lady of the Lowlands, Allen Ginsberg e Gregory Corso si incontravano per scambiarsi parole e poesia.
L’hotel del quale The New York Times Book Review ha scritto che “si può considerare uno dei pochi luoghi
civilizzati della città, se per civiltà si intende la libertà dello spirito, la tolleranza delle diversità, la creatività e
l’arte”. Un mito della storia recente insomma, newyorkese ma non solo. Sul quale, però, cala il sipario. L’hotel
cambia di mano, e diventa albergo di lusso. Costruito nel 1883 con dodici piani di appartamenti per 40 famiglie
(la prima coop di Manhattan), restò fino al 1902 l’edificio più alto di New York. Nel 1905 divenne hotel per clienti
a lungo termine. Nel corso della sua lunga vita ci hanno abitato, o sono comunque passati di lì, Mark Twain e
O. Henry, Jack Kerouac e Arthur Miller (che ci scrisse After the Fall), Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir,
Tom Wolfe e Gore Vidal, Patti Smith che divise una stanza con Robert Mapplethorpe. Abel Ferrara incontra ed
intervista chi e’ rimasto fino alla fine e ritrova Dennis Hopper, Milos Forman, Ethan Hawke, Grace Jones, Vito
Acconci. Ricostruisce con la fiction alcuni eventi emblematici del passato, sporca le immagini come fossero un
grido disperato e quasi senza speranza, attraversa i corridoi e le stanze come stesse girando un horror, si perde
e si ritrova continuamente. Magnifica stratificazione, in cui Abel Ferrara, si fa anima contemporanea dello
sguardo perso nel vuoto, dello sguardo ritrovato per un istante, per poi ricadere verso il cuore.
Fino a qui tutto bene
Regia: Roan Johnson
Durata: 80’
Origine: Italia, 2014
Soggetto e sceneggiatura: Roan Johnson, Ottavia Madeddu
Interpreti: Alessio Vassallo, Paolo Cioni, Silvia D’Amico, Guglielmo Favilla, Isabella Ragonese
Fotografia: Davide Manca
Produzione: Roan Johnson
La sua esibita povertà è la sua forza. La sua semplicità, per certi aspetti anche la sua ingenuità, dà una bella
ventata d’aria fresca al cinema italiano. Fino a qui tutto bene è l’altra faccia degli ‘immaturi’ di Paolo Genovese
o di quelle commedie sui giovani post-universitari in crisi. E per certi aspetti, nelle luci di Pisa, nel modo in
cui è vissuto quell’appartamento dove i cinque ragazzi che ci hanno vissuto e studiato per anni e ora ci stanno
trascorrendo l’ultimo fine settimana, e rimanda più a certe commedie francesi, dal modo in cui l’abitazione
muta nel corso del film (da Travaux. Lavori in casa di Brigitte Rouan a Il mio migliore incubo! di Anne Fontaine)
al rapporto con quello spazio visto come provvisorio che però poi rappresenta un pezzo di vita determinante
del loro pecorso di L’appartamento spagnolo di Cédric Klapisch. Il cinema di Johnson ha un innato senso del
ritmo, entra nelle zone di una comicità che combacia anche con quella toscana senza mai farla diventare facile
punto d’approdo. È un cinema che è anche in fase di evidente crescita. Il momento in cui i protagonisti vanno
su quella curva di una strada in cui è morto un loro amico o il dialogo illusorio tra l’attrice e il suo ex, portano
dentro anche quelle zone di febbrile malinconia dove stavolta ciò che si perde non è vissuto al passato ma al
presente. Come se quello di Fino a qui tutto bene fosse già una specie di ‘grande freddo’ che si sta vivendo
prima che sia finito.
Biagio
Regia: Pasquale Scimeca
Durata: 90’
Origine: Italia, 2014
Soggetto e sceneggiatura: Marcello Mazzarella, Pasquale Scimeca
Interpreti: Marcello Mazzarella, Vincenzo Albanese, Silvia Francese, Omar Noto, Doriana
Le Fauci
Fotografia: Duccio Cimatti
Produzione: Arbash Società Cooperativa
È la storia vera di un uomo, Biagio, e della sua radicale scelta di vita, vivere da eremita sul Monte Grifone,
spogliandosi d’ogni bene, seguendo i passi di San Francesco d’Assisi. Lascia all’improvviso Palermo e a
piedi raggiunge Assisi, incontrando sul suo cammino personaggi diversi, attraversando boschi e foreste,
dormendo per strada, patendo il freddo e la fame. “La gente moriva per strada, la paura era impressa sulle
facce e sulle cose, e l’unico Dio era il denaro…”. Questa è la frase che accompagnerà il missionario laico, nel
viaggio esistenziale (c’è sempre con Scimeca), ritrovando in solitudine l’armonia con se stesso e la natura.
Cerca Dio meditando e pregando, mescolandosi con i barboni della stazione, che nutre, lava, cura e chiama
tutti “fratelli”. Di ritorno a Palermo, dopo aver fatto perdere le tracce ai propri familiari, fonda, in una struttura fatiscente e abbandonata, la Missione di speranza e carità, che oggi ha più di 25 anni, accoglie persone
bisognose appartenenti a varie etnie, facendo crescere tra esse la solidarietà e il rispetto. Non c’è dubbio
che il pericolo più incombente in tali operazioni creative è quella di scivolare pericolosamente in un campo
minato, fatto di messaggi retorici, luoghi comuni, situazioni debolmente strutturate dal punto di vista narrativo e recitativo. Ma tutto ciò non accade, anzi ancora una volta Scimeca compie il miracolo di amalgamare
il verismo narrativo con il realismo visivo sulla terra e sugli uomini. Quello che colpisce maggiormente è
la forza espansa capace di catturare le fluttuanti e non confinabili espressioni naturalistiche, seguendo il
principio dell’impersonalità, lasciando altresì scorrere gli eventi e contemporaneamente restando aggrappati ai corpi e alla vita terrena, oltre le nostre credenze, i nostri schemi concettuali. Non dubitare di niente
e dubitare di tutto, il cinema potrebbe essere ombra di Dio sulla terra o almeno una nebbia difficile da diradare, senza ignorare il significato e la rappresentazione dell’esistere, l’inquietudine della ricerca interiore, le
interrogazione sull’oltre e sull’altro, rispetto a noi e al nostro orizzonte. Cloro
Regia: Lamberto Sanfelice
Durata: 95’
Origine: Italia, 2015
Soggetto e sceneggiatura: Elisa Amoruso, Sara Lazzaro, Lamberto Sanfelice
Interpreti: Sara Serraiocco, Piera Degli Esposti, Giorgio Colangeli, Ivan Franek, Anatol
Sassi
Fotografia: Michele Paradisi
Produzione: Ginevra Elkann, Damiano Ticconi
Jennifer è un’atleta, la incontriamo subito in acqua, a Ostia, mentre svolge i suoi allenamenti di nuoto sincronizzato, ma basta uno stacco di montaggio per abbandonare l’affascinante rarefazione della piscina e
ritrovarsi nella maestosità di un paesaggio montuoso. Una baita prestata dallo zio diventa la nuova “casa”
dove accudire il fratellino e un padre evidentemente depresso. Un esilio forzato che non uccide il sogno dei
campionati italiani di nuoto: Jenny continua ad allenarsi clandestinamente nella piscina dell’albergo dove
lavora, crea le sue coreografie solitarie in una disciplina sportiva che paradossalmente prevede il sincronismo con un altro corpo. Insomma è un atleta ormai a metà, che tenta disperatamente di mantenere i sincronismi con un mondo a valle, lontano, in riva al mare. La parola chiave diventa “responsabilità”: il fratellino
confuso, il padre depresso sull’orlo del suicidio, di chi è la responsabilità di tutto questo? E che responsabilità ha una ragazza di soli diciassette anni: quella verso i suoi sacrosanti sogni o quella verso le macerie della
sua famiglia in crisi? Cloro tenta un delicato equilibrio tra il lato emotivo dei suoi personaggi e il contesto
socioeconomico italiano visto come un acquario quasi inviolabile. Non sono gli eventi che interessano a
Sanfelice, ma solo gli effetti che questi eventi hanno avuto sui suoi fragili personaggi. Non è il sogno di
Jessica che si mette in scena (i campionati italiani), ma le flebili tracce di quel sogno che resistono come
un fiore sotto la neve del suo esilio. E allora: avendo come evidenti referenti le atmosfere
di una nobile autorialità europea à la fratelli Dardenne, pedinando silenziosamente la
ragazza sino a sfiorare lievi astrazioni visive à la Céline Sciamma, questo è un ottimo
esordio che con notevole fiducia nel cinema tenta di affidare ancora alle immagini e al
“paesaggio” (fisico e interiore) ogni giudizio etico sul nostro tempo.
Roma Termini
Regia: Bartolomeo Pampaloni
Durata: 79’
Origine: Italia, Francia, 2014
Fotografia: Bartolomeo Pampaloni
Primo lungometraggio del trentaduenne autore fiorentino, uscito dal Centro Sperimentale di Roma e formatosi
come regista a Parigi, dove realizza i primi cortometraggi e lavora su diversi set da videoassist. Stazione centrale
di Roma, principale stazione d’Italia: 480.000 passeggeri in transito ogni giorno. Tra tutta questa gente, nascosto
in mezzo alla folla, vive un gruppo di uomini e donne per i quali la stazione non è un punto di passaggio, ma un
luogo di vita. Roma Termini diventa allora un’immensa anonima abitazione, una città nella città che ospita queste
persone e le aiuta a trovare un modo per sopravvivere senza niente. Quattro uomini, quattro storie di persone in
caduta libera, che, giorno dopo giorno, si ritrovano sempre più ai margini della società. Opera in equilibrio precario tra astrazione e crudezza, tra attimi sospesi di poesia e immersioni in apnea nel cinema-verità, imbracciando
una telecamera e niente più, cercando e trovando la complicità di chi ha voglia di parlare, esprimersi, pur segnato
dall’esistenza per sempre. Termini è una vetrina trasparente, reticolo denso del mondo fisico e sociale, segnato
da un’infinità di impulsi, una molteplicità di motivazioni. Visionaria perché capace di filtrare il mondo fuori attraverso giochi di prossimità (come il barbiere barbone ad un pelo dalla stazione) e di conflitti (come i 50 centesimi
elemosinati alla mdp), agendo su noi viaggiatori, transitando da un punto all’altro con libertà. Sottraendosi ad ogni
grammatica lineare, dipingendo processi incompiuti. sintagmatica: sintassi plurale, fatta di tragitti incoerenti.
Non è solo visione, ripresa della vita, in cui la distanza dissiperebbe la mobilità nello sguardo. E’, appunto, partecipazione che offre vie possibili, anche di cadute nel baratro, dispiega archivi di ipotesi e di tracce. Lo sguardo
è spaesato, decentrato e sceglie le figure dell’erranza e dello sconfinamento, come il piscio versato nella notte.
Il Decameron
Regia: Pier Paolo Pasolini
Durata: 110’
Origine: Italia, Francia, Germania Ovest, 1971
Soggetto e sceneggiatura: Giovanni Boccaccio, Pier Paolo Pasolini
Interpreti: Franco Citti, Ninetto Davoli, Vincenzo Amato, Maria Gabriella Maione, Angela
Luce, Pier Paolo Pasolini, Silvana Mangano, Giacomo Rizzo
Fotografia: Tonino Delli Colli
Produzione: PEA Produzione Europee Associate, Le Productions Artistes Associés, Artemis Film
Il capolavoro di Boccaccio, dopo sei secoli di letteratura critica, ha incontrato sul proprio cammino un oggetto
sorprendente e un poco mostruoso: la riscrittura audiovisiva di un poeta-romanziere-saggista-cineasta che ne è,
insieme, anche la migliore rilettura critica. Nell’effettuare la trasposizione cinematografica del Decameron di Boccaccio, accade a Pasolini di riuscire in un’operazione sbalorditiva:, egli eleva Boccaccio a co-autore, e nel tentativo di restituire la prosa decameroniana egli finisce con l’esaltare le possibilità dell’espressione cinematografica.
Lungi dallo “sciogliere” la letteratura nel cinema, egli, con paradossale audacia, proprio nello sforzo di fedeltà alla
letteratura, riesce a celebrare l’apoteosi del cinema. La pellicola ottenne l’Orso d’argento al Festival di Berlino.
Nonostante il riconoscimento ufficiale e il buon successo di pubblico nelle sale, il film fu sottoposto a sequestro in
più regioni d’Italia, in seguito a numerose denuncie per pornografia, tutte archiviate dal tribunale di Trento, che,
rivendicando la propria competenza territoriale, ne ordinò ogni volta il dissequestro. Pasolini porta sullo schermo
nove novelle decameroniane, scegliendo per esse un’ambientazione napoletana, che si ripercuote sulla lingua dei
protagonisti, i quali si esprimono tutti in dialetto. All’invenzione boccacciana della cornice si sostituiscono due
racconti guida, quello di Ciappelletto, interpretato da Sergio Citti, che si colloca nel primo tempo del film, e quello
de L’allievo di Giotto, impersonato da Pasolini, al quale è destinato il secondo tempo e l’epilogo. La sceneggiatura
originaria rispecchia il progetto ambizioso di un lungometraggio della durata di tre ore, articolato in tre tempi, che
fu successivamente abbandonato. A questo “affresco di tutto il mondo”, come ebbe modo di definirlo il regista in
una lettera al produttore Franco Rossellini si sostituisce nel film del 1971 una selezione di novelle, scelte per affrontare i temi principali dello scontro tra le classi sociali e della liberazione sessuale. Pasolini sceglie di raffigurare
una realtà contadina ingenua e innocente, nella quale l’istinto domina i rapporti interpersonali, senza preconcetti
bigotti o conservatori. L’interrelazione sociale riproduce però i giochi di forza che contrappongono la borghesia
alle classi subalterne e si traduce in una condanna dello sfruttamento dei deboli.