Quel che ricorda un reggiano del Vajont RS n.108

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Quel che ricorda un reggiano del Vajont RS n.108
Ivan Bondi
Quel che ricorda un reggiano del Vajont
Intervista
Andrea Paolella
La forza dell’indifferenza! – è quella che ha permesso
alle pietre di durare immutate per milioni di anni.
(Cesare Pavese, Il mestiere di vivere)
Quando i delitti si moltiplicano, diventano invisibili.
Quando le sofferenze diventano insopportabili, non si odono più grida.
È naturale che sia così.
Quando i crimini vengono come la pioggia, nessuno più grida basta.
(Bertold Brecht, Primo congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, Parigi 1935)
Ivan Bondi è un mio vicino di casa. È un ex-macchinista delle Ferrovie
dello Stato, reggiano, classe 1943. Abitiamo entrambi in questa sporca, rumorosa, rissosa, meravigliosamente vitale strada, che è via Umberto Ceva. Per
qualche anno, da buoni vicini ci siamo semplicemente salutati, con un cenno
della mano e, poi, ognuno per la sua strada, che poteva essere solamente via
Eritrea o il viale alberato della circonvallazione, piena di macchine di lusso
veloci e arrabbiate. Poi da qualche mese abbiamo cominciato a parlare. E mi
ha raccontato questa storia, che è solo una piccolissima stilla nel mare disperato del Vajont. Un mare evitabile. I nostri vicini di casa sono tutti testimoni
di qualcosa.
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Ivan Bondi (foto di Andrea Paolella)
Come sei capitato sul Piave?
Sono nato a Mazzalasino di Scandiano. Fino alla quarta elementare ho fatto
le scuole a Ca’ de Caroli, e l’ultimo anno delle elementari l’ho fatto a Castellavazzo, comune limitrofo di Longarone e pure sinistrato dal disastro del Vajont.
Le scuole di avviamento le ho fatte a Longarone. Io e la mia famiglia siamo capitati a Castellavazzo perché mio padre, che lavorava nel cementificio di Ca’ de
Caroli, chiese di andare là perché sapeva che la filiale della ditta aveva bisogno
di un capofabbrica. Nella mia fantasia era un posto di lupi e orsi.
Arrivammo di notte, e nel buio vedevo le pareti rocciose dietro la stazione. Mi ero spaventato. Il giorno dopo, osservando boschi, dirupi, anfratti, mi
piacque moltissimo. Mi dicevo: «Qua trovo pane per i miei denti». Ero uno spericolato tra amici spericolati. Dopo l’avviamento sono andato a Belluno a fare
un corso per disegnatore meccanico. Passavo dei mesi, degli anni ad aspettare
che qualche mio amico mi chiamasse da Parigi, dalla Svizzera, dall’Africa, che
intercedesse per me, mi trovasse un posto di lavoro. Ho lavorato un anno alla
Faesite e poi dal ’68 andammo tutti a Santarcangelo di Romagna.
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Com’era la tua vita di ragazzo tra le montagne?
Era un’adolescenza esaltante per le nostre scorribande, per il fiume Piave
dove si facevano i bagni e si potevano scoprire zone boscose e rifugi della
prima guerra mondiale, costeggiare burroni. Ci si diventava così tra amici. Mio
padre diceva: «L’è imposebil che ‘ste ragasol al pos arivér a vint’an!» [è impossibile che questo ragazzino possa arrivare a vent’anni]. C’era sempre la possibilità di cadere e di farsi molto male. Una volta sono caduto da una roccia:
avevo sbattuto la schiena e c’era un principio di emorragia interna. Fortuna
che passò. Abbiamo anche causato molti guai: per nostra leggerezza un giorno
tra i boschi appiccammo un fuocherello che divorò la montagna intera. Quella
montagna sovrastava il paesino di Termine di Cadore e in fondo alla scarpata
c’erano la ferrovia e la statale. I pini erano resinosi, il fuoco divampò velocemente. Noi eravamo scappati via impauriti, ma era stato un incidente. Grazie a
Dio il fuoco giunto alla cima si fermò. Dai nostri genitori botte da orbi.
Che cosa ricordi della gente della valle negli anni Cinquanta? Andavate spesso a Longarone da ragazzi?
Fino alla fine degli anni Cinquanta per noi Longarone era come una calamita che ci attraeva, potevamo andare al cinema, c’erano dei bar, qualche
gelateria, cose che a Castellavazzo mancavano e per noi arrivare a Longarone
era molto facile. Noi eravamo dei rustici, gente incolta, trovare un diplomato
a Castellavazzo era quasi impossibile. Longarone era tutto un’altra cosa. Parevano più borghesi, più avanzati, più ingentiliti. Ci guardavano, non dico con
sufficienza, ma sapendo che venivano da paesi vicini. Noi facevamo i bulletti.
Notavi delle differenze sostanziali. A Erto invece sono andato poco. Il massimo della diversità di Longarone erano Erto e Casso. A Longarone vedevamo
i giovani di quei paesi. Altra categoria. Quasi li ammiravamo. Sembravano
selvatici, forti, capaci di spostare delle montagne.
Alla gente piaceva bere l’ombreta nei bar, un vino povero. Bevevano tutti
poi perché era la tendenza generale, forse per dimenticare la fatica quotidiana.
C’era povertà: alcuni lavoravano al cementificio di Castellavazzo, altri alla cartiera proprio sotto la diga e altri ancora alla Faesite a Faé Fortogna. La Faesite
produceva proprio faesite. Quasi tutti i miei amici, dai diciassette anni in poi,
emigravano verso la Francia, perché avevano già dei parenti che riuscivano a
fargli avere un visto, un contratto e questi ragazzi partivano, sul posto vivevano nella baracche e prima di Natale ritornavano a fare bisboccia in paese
con gli amici e ci raccontavano di Parigi, del «Moulin Rouge», ci portavano
le sigarette «Gitanes». Provavo un senso di abbandono. Trovare un lavoro in
quelle terre si è rivelato per me difficile. Alcuni sono andati in Germania a fare
i gelatai. La gente campava con le rimesse degli emigranti. Almeno l’ottanta
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percento dei giovani emigrava. Mi ricordo le donne vestite di nero salire verso
i boschi con un paio di caprette. Le vedevi raccogliere fascine che mettevano
poi in una gerla. Era ancora abitudine sfruttare la montagna. Qualcuno lavorava nelle cave di pietra, altri come stagionali, portavano le bestie al pascolo.
Longarone era tutta un’altra cosa. Avevano anche una parlata più sciolta.
Avevamo quasi una sudditanza psicologica verso gli anziani. Se qualcuno ci
chiedeva qualcosa, immediatamente rispondevamo: «Comandi!»
Cosa ricordi della diga?
Noi di Castellavazzo non sapevamo niente della diga e dei pericoli degli
smottamenti. Faceva impressione ai longaronesi vedere questo muro nella
gola. Dava un senso di insicurezza. Nessuno poteva pensare a un evento
catastrofico anche perché erano arrivate pochissime voci a noi della valle.
Noi non sentivamo le scosse che sentivano ad Erto e Casso. Le percepivano i
tecnici. Qualcuno a Longarone sapeva di qualche smottamento ma niente di
Il bacino massimo regime prima della frana (foto Ghedina, 1963)
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Il monte Toc prima della frana del 1963 (foto Ivan Bondi, inedita)
preoccupante, perché altrimenti la gente non sarebbe rimasta lì, sarebbe scappata. Ogni tanto capitava di andare alla diga. Occasionalmente capitava che si
scendesse da Erto e, andando verso Longarone, si passava a vedere la diga in
costruzione. Alcuni mesi prima in un altro bacino della val Zoldana ci fu una
frana, tracimò l’acqua e un operaio morì.
La diga del Vajont mi faceva davvero impressione. Guardando il vuoto incredibile mi girava la testa. Mi ricordo di due operai che camminavano a filo
del burrone. Uno ha detto: «C’è una puntella di ferro laggiù, la vado a togliere».
Si era legato e senza problemi era sceso oltre cinquanta metri. Io mi chiedevo:
«Ma per Dio, com’è possibile? Come fa?». Molti operai erano di Erto, tutti abituati a salire sulle cime più pericolose.
Quando andavo a scuola a Longarone, ci portarono nel cuore della montagna a vedere la centrale, scavata nella profondità della roccia. I tecnici che
ci lavoravano sono morti tutti: le casette dei tecnici erano proprio a ridosso
del muro, penzoloni sulla diga. Le prime a sparire con la frana. Dava una
grande impressione la centrale, con le sue macchine super moderne, i grandi
alternatori.
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Che cosa ricordi del 9 ottobre del 1963?
Era nostra abitudine andare a Longarone tutte le sere. Facevamo il giro di
tutti i bar. Si andava nei bar perché non tutti avevano ancora la televisione
a casa. Anche le donne capitava di trovarle al bar, davanti alla TV, di sabato
sera. Si giocava a carte, si bevevano liquori, grappa, cognac. Il 9 ottobre del
1963 ho avuto fortuna. Anche quella sera, saremmo dovuti essere a Longarone. Siamo partiti dopo cena in direzione di Longarone, per andare a vedere la
partita alla televisione, al bar Centrale. Eravamo in tre. Ci accompagnava un
certo Gigi, che per quattro soldi ci portava dappertutto, ufficialmente diceva di
essere tassista. Oltre questo Gigi eravamo io e un mio amico, Giacomo. Arrivati a metà strada al mio amico Giacomo venne l’idea, che si è rivelata salvifica
per noi, di ritornare sui nostri passi. Invece di andare al bar Centrale siamo
andati nel Cadore. Esattamente a Tai di Cadore. Nel pomeriggio, tornando da
Belluno in treno assieme a me, Giacomo aveva conosciuto una ragazza di Tai.
Poi andammo a cena. Quella sera gli frullava qualcosa. A Tai in ottobre, alle
nove di sera, non c’era nessuno. Dovevi andare in giro per i bar. Girammo per
Longarone dopo il disastro. Si notano i murazzi e il municipio miracolosamente salvo con una
decina di case (senza autore, inedita)
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alcuni bar di Tai. Una noia incredibile. Eravamo mogi mogi, taciturni, anche
con poca voglia di bere. Ben presto abbiamo deciso di tornare indietro. Non
c’era un cane per strada. Al ritorno, arrivati in prossimità di Ospitale di Cadore,
vedevamo che la valle era tutta al buio, a circa dieci chilometri da Longarone.
Tutto era al buio. Arrivammo a Castellavazzo. Anche lì tutto buio. Siamo scesi
e abbiamo chiesto: «Come mai siamo tutti al buio?» Ci hanno detto: «Pare che
Longarone non ci sia più!», «Pare che la diga sia caduta!»
Tutta la valle del Piave era al buio, buio e silenzio. In quattroequattrotto
abbiamo proseguito per Longarone. Arrivati alle prime case che erano in piedi,
c’era silenzio. Qualche persona che si aggirava. Dopo cinquanta metri dalle
prime case ci siamo trovati la strada sbarrata fin quasi al tetto da pali, alberi,
blocchi di cemento, di tutto. Abbiamo dovuto scavalcarlo, facendo attenzione
a non scivolare. Una melma fredda come ghiaccio. C’era freddo a Longarone.
Tutto quello che toccavi era freddo, melmoso e diaccio. Siamo saliti per questo
sbarramento e poi scesi con precauzione. Arrivati e scesi dall’altra parte c’era
una piana totale. Una melma che ci si affondava fin quasi le caviglie. Una nebbiolina che si stava un po’ diradando. Un silenzio totale. Come fosse passata
una colata lavica. Non c’era nulla. Lo sbarramento era un pochino prima del
municipio, che è rimasto come allora. Poi nient’altro, il vuoto. Solo freddo e
melma. Io e il mio amico abbiamo sentito un lamento. Era un bambino che
emergeva solo capo da questo fango. Aveva un occhio un po’ rovinato. Abbiamo cercato di tranquillizzarlo. Abbiamo cercato di scavare con le dita per
liberarlo. Ma non era facile perché il fango era sempre più compatto. Dopo un
bel po’ siamo riusciti a liberarlo fin quasi alla vita. Poi ci hanno sostituito i soccorritori. Il bambino è stato travolto quando ancora era nel lettino, avrà avuto
sei o sette anni. Il lettino era stato piegato ad «U» e il bimbo ne aveva seguito
la piega. Anche i soccorritori attrezzati hanno fatto una gran fatica ad estrarlo.
Il mio amico si era allontanato da me e ha notato una ragazza, tutta ammaccata, sofferente, ma viva. Ragazza che noi conoscevamo perché era figlia di un
negoziante (gelataio?) di Longarone. Questa ragazza avrà avuto quattordici o
quindici anni. Siamo poi andati all’ospedale di Belluno. Il mio amico Giacomo
le disse: «Sono stato io a trovarti».
Siamo arrivati a Longarone non più tardi delle undici, massimo undici e un
quarto: circa mezz’ora dopo la tragedia. Soccorritori ancora non se ne vedevano. Sono arrivati dopo. Hanno usato badili del cementificio di mio padre,
anche lui allarmato insieme al direttore. Con delle auto hanno portato una decina di attrezzi dal cementificio di Castellavazzo. Dopo mezzanotte, mi sentivo
stanco, avevo le mani rovinate per lo scavare. Mi sono venuti in mente i miei.
Ero preoccupato di loro. Pensavano fossi a Longarone anche io. Siamo restati
svegli tutta la notte.
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Quel che resta della chiesa (foto Ivan Bondi, 1964 inedita)
Una delle pochissime case superstiti (foto Ivan Bondi, 1964 inedita)
L’indomani?
Era una bellissima e fredda giornata di sole. Sono partito a piedi da solo e,
invece di scendere lungo la statale, sono sceso lungo il Piave. C’era un’enorme
distruzione dappertutto. La splendida villa Malcolm non esisteva più: aveva un
bellissimo parco che terminava a ridosso di alcune segherie sotto Longarone.
I proprietari inglesi venivano ogni quattro o cinque anni e davano delle feste.
La custode della villa era vedova e con lei c’era un figlio zoppicante. Penso
siano morti quella notte. Il passaggio violento dell’acqua aveva rivolto tutti gli
alberi posti lungo il fiume verso nord. Il ponte che collegava Castellavazzo a
Colissago non c’era più. Nella valle del Piave non c’era più nulla. Blocchi di
cemento e alberi rovesciati. Ho incontrato parecchi cadaveri. Naturalmente
tutti nudi, irriconoscibili, tranciati per metà, penzoloni su qualche albero, di un
blu tremendo. Ne avrò incontrati sette o otto che non avevano ancora raccolto. Così che sono arrivato a Longarone. Non c’era più nulla. Piana dilavata da
questa melma. Nemmeno le macerie delle case: dei muretti sono riapparsi solo
dopo diverso tempo. C’erano persone che cercavano l’abitazione dei parenti,
ma non riuscivano a trovarle perché non c’erano più riferimenti. Non si capiva
dove fosse stata la piazza e dove fossero le strade.
La piana di Longarone (foto Ivan Bondi, 1965 inedita)
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Che cosa ricordi del dopo Vajont?
Cominciavano a venire i parenti dall’estero. Mi ricordo i racconti di chi non
era a Longarone per puro miracolo: mi ricordo di un camionista che abitava
a Longarone, di nome Angelo Bez. Quella sera mio padre gli aveva chiesto
di lavorare qualche ora in più nel cementificio ed è stata la sua salvezza. Ma
non per i suoi. Continuavano a cercare sopravvissuti: l’ultimo lo trovarono la
domenica successiva al disastro in una cantina. Era arrivato l’esercito. Hanno
installato potenti riflettori che di notte illuminavano a giorno la valle del Piave.
Un aspetto surreale della vallata. Guardando la diga si aveva una sensazione
della forza tremenda dell’acqua: aveva calcinato le rocce, le aveva completamente ripulite del verde degli alberi, avevano un colore spento, di morte. Poi
abbiamo cercato di raggiungere la diga, ma era impossibile. Le gallerie erano
completamente piene di alberi e massi, completamente ostruite. Si cominciavano a contare i morti.
Che persone ricordi morte nella tragedia?
Mi ricordo di una compagna di scuola che di cognome faceva Teza. Io ho
un senso di colpa verso questa ragazza: io le piacevo, e invece io la prendevo in giro. Facevo l’asino e dissimulavo la mia timidezza. È poi uscito un
bollettino parrocchiale con la lista di tutti i morti e io ho segnato quelli che
conoscevo. Ricordo una splendida ragazza di Castellavazzo; si chiamava Antonia. Aveva una ventina d’anni. Aveva lasciato il paese per andare sposa di
un benestante di Longarone. La vedevi contenta. Lui doveva avere un albergo
penso o un negozio. Era nato il loro bambino tre mesi prima. Sono morti tutti
e tre. Ricordo un amico della mia età: Cesare Arduini. Mi ricordo di un lunga
escursione in montagna, una di quelle che facevano noi, senza equipaggiamento, sulla Rocchetta Grande, proprio sulla diga di Pontesei. Ricordo un
cantore ciabattino di Castellavazzo, aveva una voce che era divina. Suonava la
chitarra e si accompagnava col canto. Mi faceva quasi lacrimare. Tornando la
sera verso casa, nelle vie interne del paese lo sentivo di notte cantare nella sua
casa in sasso vicina ad un anfratto roccioso. Era morto a Longarone, perché lui
lavorava alla cartiera che era proprio sotto la diga. Poi ricordo che era arrivato
un fratello di un mio caro amico di Castellavazzo, Adalberto Bratti. Quella famiglia si era trasferita in Alto Adige qualche tempo prima. Erano andati tutti via
tranne una figlia che era rimasta a Longarone. Erano molto poveri, in paese la
mamma la chiamavano la «Siora Poreta». Seppi da lui che anche un’altra sorella
di quattordici anni era venuta in visita alla sorella più grande e anche lei era
dispersa. Il ragazzo lo ospitavo a casa mia. Eravamo andati in giro per tutti i
cimiteri e avevamo trovato solo la sorella minore. La più grande non è stata
più trovata. I morti li portavano in tutti i cimiteri vicini a Longarone. Infinite
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processioni con la speranza di ritrovare i cari. Ma i corpi erano irriconsoscibili,
bluastri. Ricordo un caro amico reggiano di mio padre, Ennio Ligabue. Lui
era un habitué del bar centrale di Longarone. Aveva una quarantina d’anni.
Molto amico di mio padre. Gli unici due reggiani della zona. Si stabilì lì. Aveva
quattro femmine. È morto solo lui perché andava a Longarone. Io incontro la
figlia minore, Vanda.
Quando capiti a Longarone oggi, che impressione hai?
Ormai è passato molto tempo. Cinque anni dopo il disastro sono andato via
e il paese l’ho perso di vista per un bel po’. La fase costruttiva di Longarone
non la ricordo. Quando sono ritornato, Longarone era praticamente ricostruita.
Non era più la Longarone di un tempo. È abitata non più da longaronesi, che
sono sopravvissuti in pochi e di quei pochi molti sono andati via. Io la vecchia
Longarone mi sforzo di ricordarla bene, com’era. C’è molto cemento ora. Il
vecchio paese aveva un certo fascino, aveva belle piazzette intime. Un piccolo
parco ombroso verso la chiesa. Adesso non sai più cosa sia. Allora riconoscevo la parlata di Longarone. Quando torno vengo preso dallo sgomento, da un
Longarone oggi: La via principale (foto di Andrea Paolella)
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senso di pena di tragico. In quei luoghi, fatti di abbandono, di miseria, quando
ripenso a quelle persone che hanno condotto una vita dura e sono poi morte,
mi viene una pena profonda. Una vera tristezza metafisica. Gente che aveva
lottato duro. Non è stata fatta giustizia perché si sa che la giustizia non è mai
uguale per tutti, quando entrano in ballo poteri forti. Tutti vogliono dimenticare. La diga è quasi sempre presa d’assalto dai curiosi. In alto ci sono le bancarelle dei souvenir, curiosi che entrano nella chiesa votiva. Persone che hanno
sentito parlare del Vajont e si aspettano di trovare ancora l’acqua nel lago. Non
si può immaginare ora. Su quella massa di terra sono cresciuti alberi, hanno
costruito strade per collegare le due sponde. Non sembra una frana ma ormai
una montagna naturale. Solo salendo fino a Casso si può capire bene cosa è
stata la frana. Bisogna immaginare il bacino pieno, che ho visto proprio poco
tempo prima della tragedia. Mi ricordo anche il monte Toc.
Longarone oggi. Le case superstiti della tragedia (foto di Andrea Paolella)
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Dopo che hai fatto?
Nel ’68, seguendo la mia famiglia, sono andato a Santarcangelo di Romagna. Dopo un po’ sono diventato ferroviere, fino all’età della pensione. I paesi
della mia gioventù non li ho mai dimenticati e faccio in modo di non scordarli.
Almeno una settimana all’anno voglio ritornare.
Longarone oggi. Tra la fessura tra delle montagne si intravede la diga (foto di Andrea Paolella)
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