20 novembre 2013. Appunti SdC con Carrón

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20 novembre 2013. Appunti SdC con Carrón
Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón
Milano, 20 novembre 2013
Testi di riferimento: J. Carrón, Come nasce una presenza?, suppl. Tracce-Litterae communionis,
n. 9, ottobre 2013, pp. X-XVI.
• You
• Liberazione n. 2
Gloria
Ci eravamo dati come lavoro la seconda parte della Giornata d’inizio anno. Comincio leggendo una
delle questioni che erano emerse nell’ultima Scuola di comunità, che ci permette di andare avanti:
«Sono rimasto colpito da molte cose all’ultima Scuola di comunità, ma a un certo punto una cosa mi
ha sorpreso, quando tu hai chiesto: “Come accade, come riaccade, anche per quelle persone che
possono in un certo momento far fatica e partecipando allo stesso gesto non ne sperimentano la
vibrazione?”. Io stavo già pensando tutte le possibili cose negative: certo, non riaccade perché sei
nella posizione sbagliata, sei chiuso, perciò non vedi le cose. Tu però mi hai stupito dicendo: “È il
disegno di Dio […] che […] dà la grazia a qualcuno perché continui a succedere davanti ai nostri
occhi, perché attraverso di lui, attraverso la sua testimonianza, possa arrivare anche agli altri la
stessa eco dell’inizio”. Mi ha stupito, ma non ha diminuito il problema, forse per il mio carattere o
per circostanze, alcune delle quali mi sono cercato io. Quasi sempre il fatto che capiti ad altri per
me non è una grazia, un dono, ma sembra quasi una conferma che gli altri arrivano dove io non
riesco ad arrivare. È come se il fatto di vederlo in altri non riuscisse a eliminare due forti obiezioni.
Prima: il dubbio che in fondo il cambiamento e la felicità che vedo in altri non siano veramente ciò
che desidero. Seconda: il dubbio che anche se è quel che desidero, mai ci arriverò e mai lo capirò.
Volevo chiederti come può cambiare questa posizione. A me sembra che, in fondo, se una cosa non
succede a me non è il mio nome che è chiamato, ma sempre quello degli altri; come se anche nel
movimento la grandezza fosse solo per alcuni, non per tutti; mentre invece tu parlavi del
cambiamento che uno vede in altri come se fosse una possibilità per tutti». Lo stesso mi scrive
un’altra persona: «Che qualcosa capiti a un altro è un segno di speranza anche per me. Questo regge
nella teoria fino a un certo punto, ma nella pratica non regge perché per vivere devo fare esperienza
io». E come faccio esperienza io se non attraverso un altro? Come avete fatto esperienza nella
vostra vita se non attraverso un altro davanti a voi? Don Giussani chi era? Un angelo del cielo? O
era un altro attraverso cui succedeva, come abbiamo detto nell’ultima Scuola di comunità citando
lui stesso, una «eco di quell’avvenimento» nel presente? Non c’è un altro metodo! Accade
attraverso un altro, perché questo è stato il metodo di Dio, da Abramo fino a oggi: scegliere uno
perché attraverso quest’uno arrivi ad altri. Allora, non è che succeda agli altri e non succeda a me,
succede a me attraverso gli altri, come è accaduto sempre. Nessuno sarebbe qui – nessuno! – se non
fosse successo qualcosa attraverso un altro. Allora la questione è se io, quando lo vedo accadere in
uno – chiunque sia questo uno che il Mistero ha scelto per arrivare a me – continuo a obiettare che,
siccome non succede secondo l’immagine che ho io di come deve succedere, non succede. Succede!
Tanto è vero che diciamo che accade agli altri. Allora ciascuno deve decidere davanti a quel che
succede, perché quando il Signore fa succedere davanti a me qualcosa, allora è per me! Tutti lo
abbiamo sperimentato, e non pensiamo di cavarcela dicendo che non lo abbiamo visto o che,
essendo successo agli altri, non è successo a noi. È successo a me perché è stato dato a me
attraverso un altro; non c’è un altro modo. È il contenuto delle parole di Gesù: «Se non ascoltano
Mosè e i Profeti, neppure se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi». Qui si gioca tutta la nostra
posizione davanti al reale: se noi ci lasciamo veramente spostare davanti a quello che accade. Gesù
era l’ultima cosa che sarebbe potuta passare per l’anticamera del cervello di coloro che vivevano al
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Suo tempo come metodo scelto da Dio per arrivare a tutti. Ciascuno deve guardare questo metodo.
C’è poi un’altra questione che stupisce ancora di più: tutto l’avvenimento cristiano sta arrivando
costantemente a noi attraverso la totalità della vita della Chiesa. Di recente – ma mi succede spesso
– una persona mi ha raccontato che, di fronte ad amici che si trovano in difficoltà veramente grandi,
lei cita un testo della Bibbia o una cosa che ha sentito dire dal Papa. Sembrerebbe la cosa meno
personale, la meno adeguata al problema che ha il singolo davanti a noi con la sua difficoltà. E
perché lo cita? Perché questa risposta oggettiva, che è l’annuncio cristiano, è l’unica che può
rispondere al problema personale! L’esempio eclatante è quello del limite più grande che abbiamo:
davanti alla morte non c’è alcuna cosa più risolutiva che annunciare che Cristo è risorto (così come,
davanti al nostro male, non c’è altro da dire che: «I tuoi peccati sono perdonati»). Ditemi se c’è
qualcosa di più personale, di più adeguato al mio bisogno che non sia l’annuncio cristiano! Per
questo mi stupisce che molti abbiano ridotto il «dire il mio nome» a un sentimentalismo di cui non
se ne può più! E la cosa più grave è che questo sentimentalismo cancella dalla faccia della terra e
dalla faccia della nostra vita il fatto che noi, tutti noi – come abbiamo detto ad Assago – siamo stati
scelti: «È una scelta oggettiva che non ci strappiamo più di dosso, è una penetrazione del nostro
essere che non dipende da noi e che non possiamo più cancellare [...]. Non esiste niente di […] più
rivoluzionario di questo» (p. XI). Questo è ciò che è più reale, più oggettivo. E se anche in questo
momento a me sembra che non mi faccia vibrare come lo ha fatto in altri momenti, non è perché sia
meno vero, non è perché sia meno consistente, non è perché sia una risposta meno adeguata al mio
problema e alla mia situazione personale. Se non vibro è perché lo tratto da “già saputo”, e non mi
ci metto davanti con tutto il mio bisogno, con tutto ciò di cui veramente è fatta la vita, per sentire
tutta (ma tutta!) la risposta che l’annuncio cristiano porta con sé. Allora, amici, se non ci rendiamo
conto che tutti noi siamo chiamati per nome – ritorneremo su questo agli Esercizi della Fraternità –,
poi viene fuori il problema posto dalla seconda lettera che ho citato. Capite perché don Giussani ci
teneva alla questione della personalizzazione della fede? Perché se l’annuncio cristiano non diventa
mio, sarò sempre incastrato. Mi scrive uno: «Ti scrivo per raccontarti due piccoli episodi che mi
sono capitati, ma che hanno provocato dentro di me un grande turbamento, perché dopo
quarant’anni di movimento uno scopre che è ancora all’inizio del cammino. Dopo il lavoro sono
andato a fare una passeggiata in una strada della mia città. C’era molta gente. A un certo punto, mi
hanno fermato due giovani (penso fossero evangelici), volevano parlarmi del loro culto. Io, appena
capito chi erano – anzi: non chi erano, ma cosa volevano –, ho reagito con spavalderia: “Voi dite
questo, ma io ho incontrato Gesù, quindi non riuscite a smuovermi, anzi, se volete ve la dico io la
verità”. Pochi minuti e mi sono allontanato soddisfatto di averli sistemati velocemente. Ma subito
sono stato insoddisfatto. Cosa ho raccontato di me? Niente! Ho contrapposto ideologia a ideologia.
Dopo pochi giorni, il secondo episodio. Dopo il lavoro torno nell’albergo dove alloggio e mi fermo
a chiacchierare con il portiere, gli chiedo come sta e mi dice che ha mal di schiena. “Ma io so tutto
del mal di schiena, ne soffro da quarant’anni!”: e gli dico tutto quel che occorre fare per il mal di
schiena, e ciò che gli dico è così vero che lo convince decisamente, più di quel che gli aveva detto il
medico. Vado via soddisfatto. Ma da quel momento non sono più stato tranquillo. Perché su una
cosa banale, il mal di schiena, ho giustamente fatto riferimento all’esperienza; e invece quando si
tratta di Gesù o del movimento faccio il discorso. Perché? Eppure sono certo di quel che ho
incontrato, non ho dubbi; ma io faccio il discorso. Eppure esperienza ne ho fatta, ma anziché
guardarla faccio il discorso. Non posso crederci! Sono quindici giorni che è successo l’episodio, ma
non mi do pace [lo capisco]. Davvero hai ragione che occorre decidere di seguire don Giussani e
seguirlo innanzitutto nel suo metodo. Perché non faccio riferimento all’esperienza, ma teorizzo?».
Perché tante volte non è vero che facciamo esperienza. E per questo un’altra persona scrive: «Ma
com’è che si fa a far diventare cammino l’esperienza della Maddalena? Perché a me accade come se
ogni mattina io dovessi ri-mendicare la stessa esperienza per poter vivere e il giorno dopo capisco
sempre di essere bisognosa di rifarla, ma fra le due esperienze c’è sempre un vuoto spaventoso di
buio, e l’unica speranza di incontrare qualcuno con quelle caratteristiche senza pari è una necessità
per vivere. Come per te è diventato cammino?». Qui, amici, ci troviamo davanti a una questione
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fondamentale di metodo, perché se noi non facciamo esperienza, alla fine non abbiamo altro da
comunicare a noi stessi e agli altri, che un discorso. Quando parliamo del sentirsi chiamati per nome
noi abbiamo fatto esperienza o no? O è soltanto un discorso sull’altro, e noi non c’entriamo? Perché
questo è decisivo? Perché senza questo ciò che vivo non incrementa in me la certezza, e quindi sono
sempre in balìa di tutto il resto. Invece don Giussani ci ha detto sempre che l’esperienza è vivere ciò
che mi fa crescere, non c’è esperienza se io non cresco nell’autocoscienza di me. Scusate se mi
dilungo. La settimana scorsa, durante un raduno di universitari, una ragazza ha raccontato di una
sua amica, intervenuta alla Scuola di comunità che tiene lei in facoltà, che aveva riferito di come era
stata a fare un servizio sociale (medico e igienico) per le prostitute, e tutte le persone rifiutavano il
servizio. «Mi sono stufata di ricevere rifiuti, e a una ho semplicemente chiesto: “Ma come stai?”.
Allora da lì abbiamo incominciato a parlare, l’ho invitata a prendere un caffè e sono riuscita almeno
a entrare in rapporto, e poi alla fine ha accettato quello che le offrivo». E la ragazza che conduceva
la Scuola di comunità le ha detto: «Ma non ti sei accorta che tu eri una presenza?». Ma l’altra ha
continuato: «Poi ho avuto un dialogo con un’altra prostituta che mi ha detto: “La vita è sempre da
piangere”, e io davanti a questo non ho saputo cosa dire», riconoscendo di non essere stata una
presenza. Allora io ho interrotto il racconto e ho detto all’amica che tiene la Scuola di comunità:
«Hai sbagliato tu. Perché quella ragazza aveva perfettamente ragione nel dire che non era una
presenza? Primo, perché non aveva fatto esperienza. Se un altro deve dirti di accorgertene, vuol dire
che quel che è stato vissuto da te non è stato giudicato. E quindi – dice Giussani – non è esperienza.
E qual è stata la prova provata che non era cresciuta, cioè che non aveva fatto esperienza vera? Che
quando la prostituta le ha detto che la vita era da piangere, lei non aveva niente da dire». Noi in
tante occasioni non sappiamo cosa dire! Per questo, qui abbiamo una questione di cui dobbiamo
prendere consapevolezza perché, cito Giussani, «l’“esperienza” connota perciò il fatto
dell’accorgersi di crescere» (Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, p. 126). E per questo
occorre che ciascuno si renda conto di che cosa gli succede nella vita, facendo il paragone con le
esigenze del cuore, perché altrimenti non cresciamo, possiamo stare venti anni o quarant’anni nel
movimento, ma in modo formale. Per questo don Giussani dice testualmente: «La nostra compagnia
o diventa esperienza oppure realmente diventa pericolosa: perché chi ci sta ci sta da gregge» (Certi
di alcune grandi cose. 1979-1981, Bur, Milano 2007, p. 249). Cosa vuol dire questo? Che non ci
serve per crescere e quindi, siccome noi non cresciamo nell’autocoscienza, è impossibile che questo
ci consenta, poi, di stare davanti al reale con tutte le sue sfide. Infatti, qual è il segno di questa
assenza di autocoscienza? Come abbiamo detto agli Esercizi, lo smarrimento davanti alle sfide del
vivere. Invece non sempre è così, e infatti ci sono testimonianze di come è possibile affrontare le
sfide del vivere se uno fa un’esperienza.
Poco più di un mese fa è nato Giacomo, il mio quarto figlio, e dopo diciannove ore di vita è salito
al cielo perché affetto da una grave malformazione, la stessa che aveva avuto la mia prima figlia,
nata e morta undici anni fa. Quando l’ho saputo al terzo mese, io ero letteralmente disperata, mi
sembrava un’enorme ingiustizia e ho pensato veramente che questa volta avrei interrotto la
gravidanza, tanto mi sentivo arrabbiata con Gesù e debole e incapace di portare avanti questa
prova ulteriore. Tuttavia niente mi corrispondeva, né interrompere la gravidanza né portarla
avanti moralisticamente. Mi sentivo in trappola e mi rimbombava nella testa e nel cuore la
domanda che tu avevi posto agli Esercizi: «Del fascino per Cristo cosa è rimasto?». Io lo avevo
perduto e lo stavo cercando. Nella disperazione più totale avevo però la domanda, forse incerta e
debole, che nulla andasse perduto e di riconoscere in quello che accadeva un Padre che aveva un
disegno buono per me. Per fortuna un medico ginecologo, mio amico carissimo, mi disse che, di
fronte alla mia quasi-decisione di abortire, avrei potuto chiedere consiglio all’arcivescovo della
mia città. Credo proprio che attraverso questo medico Gesù mi abbia chiamato la prima volta,
delicatamente, ma già. Mi sono fidata, e così è avvenuto l’incontro con il cardinale, incontro
talmente potente, non appena per le parole che ci ha detto, ma per l’abbraccio, lo sguardo, la
certezza che ci ha trasmesso. Uscendo, sia io sia mio marito sapevamo di aver incontrato Gesù e
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che da quel momento non saremmo più stati soli e che il nostro limite e la nostra fatica non
sarebbero stati un’obiezione alla verità. Sono stata guardata e allora ho visto, come diceva
sant’Agostino, e come ci hai detto tu. Ho iniziato a vedere la realtà non attraverso la ferita che
apriva, ma per quel che avrei potuto ricevere da Gesù se solo fossi andata avanti. E da lì in poi ho
vissuto una sovrabbondanza di presenza, nella carne, nelle facce, nelle parole di amici e della
Chiesa tutta, ed era un abbraccio mai sentimentale, ma che mi ha guarita, mi ha fatto cambiare il
modo che prima avevo di stare di fronte al reale rendendo amabile la realtà, non solo qualcosa da
sopportare con il fiato tirato. Quando però nel corso di un’ecografia verso il quinto mese ho visto
chiaramente che Giacomo non solo non guariva, ma, al contrario, aumentavano le sue
malformazioni, ho perso improvvisamente l’equilibrio. In quel momento ho capito che mentre io
desideravo mio figlio sano, Gesù lo amava così com’era, e sono stata malissimo, proprio come una
bambina davanti al padre quando capisce che lui ha già deciso. Tuttavia nel dolore soffocante di
quei giorni non chiedevo più il miracolo della guarigione, chiedevo solamente che Gesù non mi
lasciasse, che continuasse a concedermi la Sua forza. Avevo bisogno solo di Gesù più che di un
figlio sano, perché capivo che senza di Lui sarei naufragata dentro la mia ferita. E nei mesi
successivi, fino al giorno del parto, ho continuato a chiedere che mi mostrasse la Sua potenza e la
Sua tenerezza. Dicevo proprio queste parole nelle preghiere. Ed ora che Giacomo è nato credo che
Gesù abbia risposto totalmente a questa mia domanda. In quelle diciannove ore di vita, infatti,
Gesù ha dominato in quella stanza d’ospedale, tanto che non solo i nostri amici, ma medici,
infermieri, ostetriche, gente non credente, tutti hanno voluto partecipare stupiti di questa vita e
continuavano a ringraziarci, e io e mio marito eravamo sorpresi di quanto Gesù, attraverso un
piccolo bambino gravemente ferito, stava generando proprio lì in ospedale, in un ambiente
dominato dalla cultura dello scarto. Giacomo c’era e sembrava dire: «Sono nato e ora sarò con voi
per sempre». E poi vedevano noi, una mamma e un papà che nella loro idea avrebbero dovuto
essere distrutti dalla disperazione; invece eravamo inspiegabilmente ma realmente felici, perché
grati e commossi per questa vita inattesa. In fondo sono certa che tutti, entrando in quella stanza,
fossero afferrati da Gesù; consapevoli o meno di questo, Gesù ha afferrato e dominato tutti. Senza
che noi facessimo nulla, Lui ha trasfigurato la realtà. Quando tu hai tenuto un’assemblea nella
nostra città, mio marito ha invitato la caposala, che non è del movimento, perché voleva farle
conoscere il luogo che ci genera e che ci ha permesso di aderire così alla realtà. Lei è venuta, si è
commossa, e ora mi dicono che in ospedale non sia più la stessa persona, lei e qualche medico
hanno addirittura proposto di formalizzare un percorso di accompagnamento per bambini come
Giacomo, una cosa assolutamente impensabile prima, perché bambini come Giacomo nella cultura
dominante neanche dovrebbero nascere. Ora, nel ricominciare il tran tran della vita quotidiana,
certamente mi ritroverò ancora intrappolata nella realtà, ma per fortuna ho fatto l’esperienza di
questa Sua vittoria e di questa Sua presenza carnale nella faccia dei miei amici, a cui ho imparato
a dare il Suo nome, e questo rimarrà sempre il punto da cui ripartire. Questa certezza, che prima
era debole e sempre al vento, è il dono più grande che Giacomo mi ha lasciato e di cui sarò grata
per sempre.
È Lui che trasforma la realtà generando una presenza così.
Io mi permetto di intervenire su quel che ha raccontato la nostra amica – spero mi perdonerai se lo
faccio –, anche un po’ sollecitato da quel che dicevi tu introducendo: ciò che di vero succede a un
altro, succede a me. E allora vorrei dire cosa è successo a me adesso, ascoltando questo racconto.
Io penso che, almeno per me, quello che lei ha raccontato adesso è l’esempio più significativo, più
sinteticamente acuto, direi, di tutto il contenuto della proposta della Giornata d’inizio anno. In
sintesi c’è dentro tutto, soprattutto il fatto che per me questo spolvera via qualunque residuo di
sospetto che la presenza nasca, cominci con un’iniziativa nostra, quasi che ci sia lo sguardo di un
Altro – Cristo che mi ha chiamato per nome – e poi tocchi a me “generare” una presenza. A me
quello che ha colpito è il fatto che si capisce bene che lei e suo marito non avevano il “problema”
di testimoniare agli altri, ma di vivere questa situazione. E per poter vivere questa situazione hanno
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cercato l’unico sostegno che poteva permetterglielo, cioè ciò a cui loro appartengono, il giudizio
della fede. E quel che a me colpisce in tutto questo è che veramente uno diventa strumento di una
cosa impensabilmente più grande perché la cerca, non perché la deve spiegare agli altri, perché la
cerca, perché gli è indispensabile per poter vivere. Noi siamo certi di qualcosa e magari questa
certezza è inizialmente fragile, e Dio dà le circostanze perché cresca, perché seguendoLo dentro la
circostanza io possa imparare ad amarLo. E allora imparo ad amarLo, e amandoLo,
riconoscendone il volto che a poco a poco si chiarisce, imparo ad amare quel bambino, cioè
comincio ad amare quel bambino per quel che è e non per quel che dovrebbe essere. Lo amo per il
suo destino. E gli altri che vedono cominciano a desiderare di poter amare anche loro così (per cui
uno comincia a ipotizzare di formare un percorso per i bambini come Giacomo). Cioè, questo
amore è desiderabile perché ciò che fa grande un gesto non è la circostanza drammatica, no, ciò
che fa grande un gesto è quel che lei ha raccontato, che uno impara – impara! – ad amare Cristo, e
imparando ad amare Cristo impara ad amare tutto. Attraverso tutto ciò che è dato ama di più
Cristo e quindi ama tutto. A me veniva in mente quel che ho letto nelle prime pagine di Vita di don
Giussani: ciò che dà gusto alla vita, ciò che ci fa grandi, è essere “impastati” con Lui, cioè essere
della stessa pasta, che è anche quel che colpisce gli altri. Noi possiamo cercare di mostrare quel
che vogliamo, ma ciò che colpisce è ciò che è vero fino in fondo per noi, ciò che genera una
certezza in noi.
Il racconto della nostra amica è un esempio che, quando la vita stringe, quel che serve è vivere tutta
la portata dell’annuncio cristiano che ci è stato fatto; è aderendo a questo che uno può stare davanti
alle circostanze. È attraverso le circostanze che cresce l’amore a Cristo, perché è la verifica che
Cristo ci sostiene. Non ci sostiene “prima”, ci sostiene “dentro” queste circostanze. Se uno non fa
esperienza di questo, sostituisce Cristo con il discorso. Ciò che ci fa passare dal discorso alla
presenza è il fatto che tu lo vedi accadere lì, che ti sostiene lì, in mezzo al guado. E questo che cosa
ha come risvolto (per vedere come tutto è unito nella Giornata d’inizio anno)? Che viene fuori una
presenza che si pone nel reale, non fuori dal reale. Vivendo la vita, uno pone lì, tra i medici, la
caposala, gli infermieri, le persone che sono intorno, una modalità diversa di vivere il reale, che è
veramente una perturbazione, e non perché aggiunge qualcosa a quel che c’è, no, ma semplicemente
perché mette davanti a tutti una diversità desiderabile. Alcuni di quell’ospedale sono venuti, poi,
all’assemblea cittadina proprio per vedere ciò che era all’origine di quel che avevano visto in lei. E
qualcuno di loro si è quasi arrabbiato, e alla fine dell’assemblea le ha detto: «Ma perché non mi
avevi detto che occorreva pagare il fondo comune?». Senza neanche appartenere al movimento!
Perché era la prima volta che sentivano parlare del fondo comune, negli avvisi. Uno che partecipa a
una cosa così, anche se non è successo direttamente a lui, ha sperimento qualcosa per sé, sì o no?
Come è possibile altrimenti che fossero a una nostra assemblea, visto che è gente diversa per
cultura, come mentalità, come pensiero? Allora come è possibile generare una presenza? Soltanto
per la fede. Per nessun’altra cosa, nessuna! Ditemi se qualcosa avrebbe potuto generare una
presenza nel reale che sfidasse di più! Ditemi qualche altra strategia che possa veramente smuovere
il cuore, sfidare la ragione, le persone che stanno agli antipodi, se non una cosa così! Che cos’è una
presenza? Quando accade è facilissimo riconoscerla. Allora, in che cosa questa testimonianza
corregge l’immagine che noi abbiamo di una presenza? Che cosa dobbiamo imparare sull’origine
che genera una presenza così? Perché la cosa stupefacente è che come stupisce noi, così stupisce gli
altri, non è che noi abbiamo bisogno di una cosa e gli altri di un’altra: è lo stesso, identico.
Noi non abbiamo bisogno di altro, se non del mangiare e del bere, del vivere e del morire. Questa è
una Presenza che “perturba” l’ambiente. Qui vediamo che, senza dover fare altre aggiunte, la
testimonianza semplice di una modalità di affrontare la realtà, di vivere una circostanza, è quello
che tutti stanno aspettando. Perché la presenza non è quello che decidiamo. La presenza è quello
che è, lo vedono tutti e lo riconoscono tutti, quelli di dentro e quelli di fuori, non c’è una presenza
“per noi” e un’altra “per gli altri”. Quando c’è una presenza, tutti la riconoscono. Allora la
questione è: come vivere così? Che cosa rende possibile che io, vivendo la vita così come viene,
con tutte le sfide che la vita mi pone, ponga nel reale una diversità? Altrimenti della nostra presenza
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non si interesserà nessuno. Invece quando viviamo le sfide di tutti con negli occhi quello che a noi
ci è capitato, poniamo nel mondo una presenza che desiderano tutti. Poi ciascuno dovrà decidere
come rispondere alla sfida di avere visto questa presenza. Questo è un affare di ciascuno, degli uni e
degli altri, come anche di noi. Ma questa è una presenza che non lascia indifferente nessuno. Senza
polemiche, semplicemente per il fatto di porsi. Questo è quello che don Giussani sta cercando di
farci capire parlando della personalizzazione della fede. Perché gli interessa la personalizzazione
della fede? Perché altrimenti noi di questo non potremmo fare esperienza. E in che cosa si vede?
Come abbiamo ripetuto agli Esercizi, in che cosa si vede che non è avvenuta in noi questa
personalizzazione? Nello smarrimento dell’adulto davanti alle vicende del vivere. La questione è:
noi vogliamo imparare a stare nel reale così in ogni circostanza del lavoro, della famiglia, con i
figli, con gli amici, o ridurre tutto semplicemente a una serie di episodi eclatanti, ma senza storia?
Questa mi sembra una questione decisiva, ed è quello a cui ci sta costantemente invitando il Papa:
quando invita a risvegliare la vita della fede nei nostri contemporanei, che cosa intende? Suscitare
delle domande, come all’inizio del cammino della Chiesa. Perché vivono così? Perché una madre
può vivere così? Cioè, che cosa li spinge a far così? Sono interrogativi che portano al cuore
dell’evangelizzazione, della missione: testimonianza della fede e della carità. Ciò di cui abbiamo
bisogno, specialmente in questi tempi, dice il Papa, sono testimoni credibili, non persone
innanzitutto coerenti. Persone che, vivendo le sfide del vivere, con la povertà di tutti, zoppicando
come tutti, a volte sbagliando, pongono una modalità diversa di stare nel reale. E risvegliano così
l’attrazione per Gesù Cristo.
Questo introduce un’altra questione, che emerge in molte lettere, come in questa: «Io voglio capire
che cosa vuol dire la parola presenza, quando dici che occorre “sfondarla e sfrondarla […] perché la
presenza è nella persona, solo ed esclusivamente nella persona” [lo dice Giussani]. Non capisco che
cosa significa “sfondare e sfrondare” e soprattutto mi interessa l’accento posto sulla persona, sul
fatto che la presenza è nella persona, solo ed esclusivamente nella persona. Io sono della
generazione dell’“utopia” e ancora, quando sento questo accento sulla persona, sento una cosa
strana, come se la mia persona non potesse bastare. Forse qui l’accento sulla persona significa,
come dice dopo, la chiarezza della coscienza che si chiama fede [effettivamente è così],
l’intelligenza che identifica ciò di cui tutto consiste. Io mi accorgo che, vivendo, spesso sono piena
di risposte, ma non di domande, e che queste risposte non mi portano a una certezza, una chiarezza
di giudizio, non mi portano a consistere della Sua presenza ogni istante. Però, ci pensa la vita poi a
spaccare e ad aprire ferite attraverso le quali Cristo possa passare [le circostanze a volte noi le
pensiamo contro di noi, ma sono la possibilità attraverso cui Cristo può entrare, passare] e mi
accorgo che attraverso tutto questo Cristo mi sta chiedendo: “Ma in che cosa consisti? Cosa ti
interessa davvero?». Un’altra lettera dice: «Riprendendo la seconda parte del testo ho ritrovato un
ripetuto richiamo alla nostra unità, quasi fosse un sinonimo del Mistero di Cristo, non intesa come
un richiamo alla coerenza e consistenza di un’organizzazione, ma piuttosto come condizione
esistenziale per fare l’esperienza di una presenza». Che cosa vuol dire che una presenza così è nella
persona? Forse occorre correggere Giussani? Cosa vuol dire che tutta la presenza è nella persona?
Tante volte questo, come dice la lettera, è percepito come se fosse una cosa assolutamente
individualistica. Invece cosa vuol dire che la persona è costruita nel rapporto con la comunità
cristiana e che la comunità è il luogo della generazione della persona?
Perché allora uno può essere da solo nel fare un gesto, ma nessuno pensa che possa farlo da solo,
tanto è vero che tante persone dicono: «Ma dove l’hai imparato questo? Come sei in grado di fare
così?». E allora uno, se è leale, deve fare riferimento al luogo generativo di questo suo
atteggiamento. Per questo dice don Giussani: la compagnia è nell’io. La mia identità non la posso
staccare da questo luogo che mi genera, perché l’io che è ciascuno di noi non sarebbe quello che è
adesso, se non appartenesse a un luogo. In questo senso la comunità contribuisce alla costruzione
della nostra persona. E si può esprimere, poi, in certi gesti, in modo comunitario o in modo
personale. Ma il modo personale non è individualistico, perché non ci sarebbe quella persona storica
con quel volto e con quella modalità di stare nel reale, se non appartenesse a quel luogo. Tante
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volte, se noi stiamo da soli nel lavoro, pensiamo: «Siccome sono da solo, che cosa posso fare, come
posso testimoniare?». No! Tu non sei mai da solo, non siamo mai da soli, perché una persona può
mostrare una diversità di vita che fa scattare negli altri la domanda: «Ma tu perché sei cosi?». E per
dare risposta a questa domanda uno deve fare riferimento al luogo a cui appartiene. Cioè, nell’io è
tutta dentro la comunità. Possiamo esprimerlo in un modo o in un altro, ma sempre l’origine è
questo luogo.
E questo è così decisivo che succede anche con persone che non hai scelto tu, anche con persone
che possono non esserti simpatiche, ma senza di loro tu non saresti così. La questione non è
sentimentale di simpatia – più simpatia o meno simpatia –, che ci sia un luogo oggettivo che
costantemente mi rigenera, perché la tua vita si nutre costantemente delle testimonianze di tante
persone, al di là che siano simpatiche o no, di quello che ti testimoniano, di quello che ti fanno
vedere, di quello a cui ti introducono. E tu sei grato di avere persone che ti accompagnano così al
destino. La questione è se questa unità, che ci costituisce, determina poi esistenzialmente la vita.
Quello che determina la vita è se c’è qualcosa di oggettivamente presente per cui tu vedi che,
indipendentemente da tanti limiti, di fatto l’appartenenza a questa unità ti costruisce, è decisiva per
te. Se noi non andiamo a fondo del perché vale la pena una appartenenza così per la costruzione
della nostra vita, ma chi ce lo fa fare a rimanere nel movimento? Se noi non arriviamo a capire la
portata di questa unità, finiremo con l’affermare l’unità formalisticamente, e basterà il minimo
inconveniente per mandarla a quel paese, ma solo perché uno non ha capito cosa si gioca in quella
unità.
È evidente, per quanto ci è stato testimoniato stasera: la mamma di Giacomo, anche se è lei a
portare il dramma, non è l’origine della presenza, l’origine della presenza è il luogo costitutivo dove
il suo io viene costantemente generato. Per questo ciascuno deve guardare la propria esperienza e
vedere se questa generazione la può ottenere da solo. Il «noi» fa parte della definizione dell’io,
nessuno è qui senza dover ammettere fino a che punto il suo io storico è stato generato in un luogo
che lo costituisce. E questo fa capire in un modo reale, storico, qual è il nesso tra una presenza nella
persona e il luogo dove si costruisce la persona, l’unità a cui appartiene per la costruzione di questa
persona che è ciascuno di noi. La comunità non è un ornamento o un cappello, ma è il luogo
decisivo della generazione di ciascuno di noi. Dire «io», anche se sono da solo, non vuol dire
qualcosa di individualisticamente inteso, ma vuol dire, come ha testimoniato la mamma di
Giacomo, che quando la gente vede quel che ha visto in lei, va a vedere il luogo dove lei stessa è
stata generata. È tutto nella persona; dove lo hanno visto è stato in lei, ma non si può staccare dal
luogo generativo. Dire «io», anche quando si è soli, non può succedere senza che l’io abbia dentro il
noi, il luogo che l’ha generato e che lo genera costantemente. Come dice Giussani, la prima
compagnia è nell’io. La mia identità non la posso staccare da questo luogo. Per questo
l’appartenenza a questa unità è cruciale e non è in contrapposizione con l’io. Poi se succede che
possiamo dirlo insieme, lo diremo insieme; se occorre, come in questo caso, dirlo personalmente, lo
diremo personalmente. Tante volte uno può essere da solo nel luogo di lavoro, ma questo non vuol
dire che sia isolato, purché sia definito dall’appartenenza; perché allora, anche lì, sfrondato di tutto,
può testimoniare un luogo che lo sta generando costantemente. E questo si vede nella diversità che
quella persona vive. Per questo se noi cerchiamo di capire i nessi e non contrapporre le cose, forse
ci aiutiamo a capire, perché, se uno è così “presenza”, è soltanto perché appartiene a un luogo che
costantemente lo genera e lo costruisce. E questo è fondamentale per la persona, che poi si pone con
tutta se stessa davanti al reale.
Volevo raccontare un episodio in cui mi sono scoperto capace di un giudizio cambiato. È venuta a
lavorare dove sono io una persona del movimento che era stata in precedenza in un altro luogo
dove aveva avuto un’esperienza molto bella. Quando è arrivata pian pianino è venuta fuori una
grossa arrabbiatura per una totale non corrispondenza tra quel che lei vedeva e il suo desiderio,
addirittura in maniera esagerata: tutto era brutto. Io all’inizio mi sono limitato a cercare di limare,
di addolcire, di sottolineare gli aspetti belli, che sono convinto esistano. Man mano che passava il
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tempo queste critiche diventavano sempre più severe. E questo suscitava in questa persona un
grosso scandalo e, man mano che ne parlavamo, un’accusa implicita a me perché affermavo
qualcosa di buono lì, come se invece a me questo andasse bene. Quando questo dialogo è diventato
esplicito fino a questo punto, dentro di me è sorta una grossa obiezione al suo giudizio, perché
capivo bene che non voler distruggere è diverso dall’essere connivente. E pensando alla mia storia
all’interno del luogo dove lavoro, con tutte le difficoltà che ci sono state, con tutto il cammino che
c’è stato per costruire qualcosa di buono, mi rendevo conto che questa era la realtà che mi era
stata affidata e che mi era data per custodirla e per farla crescere per la gloria di Gesù. Per questo
uno non può non amare la realtà che ha intorno a sé. Leggendo la Vita di don Giussani mi ha
veramente folgorato, a un certo punto, un brano: Monica della Volpe, colei che diventerà la
badessa di Valserena, racconta di come è stata la sua storia di incontro con il movimento. Va a un
raduno a Varigotti, rimane colpita, cede dopo tentennamenti, però quando torna a casa rimane di
nuovo invischiata dentro quello che era il suo ambiente e ritorna fuori il dubbio; allora l’amico che
l’ha invitata a Varigotti la vuole portare a Milano, e la porta. Dice: «Non so come, riesce a
infiltrarsi in un pranzo di capetti con il Gius, al ristorante. “Io li vedo tutti lì: piccini, ansiosi di
carpirsi una parola, uno sguardo del capo. Insopportabili. Poi vedo Giussani che si fa portare un
carciofo crudo, con una salsina. Comincia a staccare le foglie a una a una, le mangia ed esclama:
‘Ah, come è buono questo carciofo! Come è buono questo carciofo!’”. Come è diverso dai preti che
conosce a Bologna. Intanto Giussani “guarda quegli altri, gli lancia battute, zampate fra l’ironico
e l’affettuoso, li prende in giro… e improvvisamente capisco: li ama tutti! Li conosce perfettamente,
li vede perfettamente, così piccini come li vedo io e anche di più, ma lui li ama tutti e ciascuno,
appassionatamente, come un padre”». Leggendo questa cosa ho subìto un contraccolpo, perché è
questo giudizio che ho scoperto su di me, cioè una capacità diversa di guardare la realtà. Mi sono
chiesto: va bene, allora cos’è che ha generato in me questo? Mi sono reso conto che è stato un
desiderio, sincero e disponibile, che la presenza di Gesù si manifestasse anche laddove non veniva
fuori come piaceva a me, dove non me l’aspettavo. Un desiderio che fosse reale, e disponibile…
Disponibile a che cosa?
Disponibile a che fosse diverso da come me l’ero immaginato.
Cioè disponibile a un disegno…
…Che era diverso da quello che avevo in testa io.
Disegno che può svilupparsi nel tempo, e non entrare come un elefante in una cristalleria. Perché
tante volte ci prende l’impazienza davanti a come succedono le cose, nel reale o in noi. Leggo per
questo un’altra lettera: «Vedo che tante volte non cambio, non scalfisco il mio modo naturalistico di
guardarmi, e ogni mattina riparto dalle mie pretese e da una riduzione di me, e questo sguardo
nuovo deve sempre rientrare da fuori. Come può essere la sequela, una sequela vera che arrivi a
cambiare il nocciolo del mio cuore e del mio sguardo, così che io possa davvero guardarmi così
sempre?». E quando succede così a chi diamo la colpa? Dobbiamo prendercela con qualcuno?
Dobbiamo prendercela con noi! Qui Giussani di nuovo entra con lo sguardo con cui ci ha guardato,
con cui guardava quei ragazzi durante il pranzo, perché il tempo fa parte del disegno di Dio, ed è
soltanto se noi abbiamo la pazienza di seguire che potrà accadere, come racconta questo amico: «Lo
vediamo nel piccolo della nostra vita questa concezione della nostra persona che è tale soltanto
perché c’è Uno che ridice il nostro nome, altrimenti saremmo ancora lì a piangere per il fatto di
vivere. Non è un’astrazione, è un’esperienza prima che una concezione, e proprio da questo
scaturisce un’autocoscienza di noi che è come quella nata in Maria, che non ha più potuto guardarsi
come prima, ma tutta determinata da quel “Maria!”. La mia vita è cambiata nelle piccole cose della
vita proprio così. Ho sempre cercato di evitare di guardare quel che mi accadeva, le circostanze che
mi ferivano non volevo vederle, quelle che mi infastidivano di più facevo proprio finta che non
esistessero [questo è il punto: possiamo essere qui, in fondo, sfuggendo costantemente da quel che
accade], andavo avanti con il braccio alzato davanti agli occhi, cercando di non farmi colpire, o
almeno il meno possibile. E qualcosa è cambiato quando ha cominciato a cambiare mio marito. Ha
iniziato lui facendo Scuola di comunità con alcuni colleghi, ha iniziato a guardarmi in un modo
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diverso, io non ho più sentito il bisogno di difendermi costantemente da lui e ho iniziato anche io a
cambiare [è il metodo di Dio, fa cambiare il marito prima di te: concediamo al Mistero questa
possibilità o no?]. E ho cominciato anche io ad andare a Messa appena potevo, quando il lavoro, i
figli e gli svariati impegni me lo permettevano, perché non potevo resistere a ringraziarLo di questo
dono. Poi mio marito mi ha fatto conoscere i suoi amici e sono rimasta stupita e affascinata dal
modo che avevano di guardarsi e di guardarmi. Nella semplicità di un gesto qualunque c’era la
ricerca di Gesù, cosa diceva alla loro vita, come stare di fronte al lavoro, alla scuola dei figli, alla
vacanza, a tutto. Tutto era abbracciato, guardato, giudicato, magari nella preoccupazione di scelte
difficili, ma non censurato. Ho cominciato ad andare a Messa non solo ringraziando, ma chiedendo
che potesse essere anche per me, di poterLo vedere sempre più. Infine quest’estate la sorpresa più
grande, quando mio marito mi ha chiesto: “Come vorrei che anche tra di noi ci fosse questo livello
di profondità di guardare a Cristo”. Non ho più potuto resistere. Non ho più potuto guardarmi senza
sentirmi chiamata per nome [attraverso quel che era successo a un altro!]. Adesso ho una grande
certezza: anche quando cado, quando tutto mi sembra contro o sono arrabbiata con tutti e con tutto,
ho chi guardare per risollevare lo sguardo. Non è un continuo dubitare della bellezza che ho
intravisto, come facevo prima; sono stata chiamata per nome e questo non me lo posso più togliere
di dosso, e sento sempre più frequente e più potente il bisogno di inginocchiarmi dinanzi al Signore
e domandarGli tutto. Perché l’evidenza della mia inadeguatezza, del mio errore, del mio limite, non
è più l’ultima parola su di me, ma vince la certezza di essere sempre riabbracciata e perdonata da
Chi mi ha voluto e mi dà ogni istante».
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 18 dicembre alle ore 21.30. Riprendiamo – non
abbiamo fretta! – il libro All’origine della pretesa cristiana, lo strepitoso capitolo ottavo: “La
concezione che Gesù ha della vita”, un capitolo talmente ricco e in continuità con quello che stiamo
dicendo in queste ultime Scuole di comunità.
È disponibile il Volantone di Natale, che propone un’immagine del Presepe, di Federico Barocci
(Pinacoteca Ambrosiana), e due testi: di papa Francesco e di don Giussani.
«L’incontro con Cristo, il lasciarsi afferrare e guidare dal suo amore allarga l’orizzonte
dell’esistenza, le dona una speranza solida che non delude. La fede non è un rifugio per gente senza
coraggio, ma la dilatazione della vita. La fede non è luce che dissipa tutte le nostre tenebre, ma
lampada che guida nella notte i nostri passi, e questo basta per il cammino. All’uomo che soffre,
Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una
presenza che accompagna» (Papa Francesco).
«Il cristianesimo è il legame che Cristo stabilisce con te, non che tu stabilisci con Cristo [potete
sostituire “il legame che Cristo stabilisce con te” con la forma di “chiamare per nome”, c’è qualche
differenza?] […]: puoi non averLo guardato in faccia fino a un minuto fa, e Lui stabilisce un legame
con te; puoi non guardarLo in faccia per trent’anni ancora, e fra trent’anni stabilisce un legame con
te. La decisione per l’esistenza è il sì che tu dici al legame che Cristo ha con te, come uomo, come
uomo ferito, mortalmente ferito. L’io diventa protagonista quando sa per cosa vive, quando
riconosce il suo destino, il destino attendendo il quale batteva i piedi sulla soglia, tra il freddo e il
gelo, da una parte, e dall’altra, il presentimento del calore che emanava dalla dimora» (Luigi
Giussani).
È iniziata la campagna abbonamenti di Tracce. Non è un caso che lo slogan sia: «Fai un regalo da
amico»: regalare un abbonamento alla rivista è uno dei modi semplici per far conoscere la nostra
esperienza ad amici, colleghi e via dicendo. È un modo per comunicare alle persone quello che
abbiamo di più caro. Per questo vi raccomando, ciascuno pensi tra le persone a cui vuol far
conoscere, mettere nelle loro mani uno strumento attraverso cui possa arrivare anche una briciola di
quello che noi riceviamo, come “toccare il mantello”.
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Accogliendo l’appello di papa Francesco, Comunione e Liberazione ha promosso una raccolta
straordinaria di fondi in favore delle popolazioni delle Filippine colpite dal tifone Haiyan. I
fondi raccolti verranno usati sia per partecipare alla carità del Papa − che tramite il Pontificio
Consiglio Cor Unum sostiene le opere di assistenza in favore degli sfollati e degli alluvionati − sia
per le necessità eventuali degli amici del movimento colpiti dal tifone.
Sul sito di CL trovate le indicazioni per la raccolta fondi.
Vi ricordo la preghiera tutti i giorni per papa Francesco, come ho scritto nella lettera dopo l’udienza
che ho avuto con lui.
Veni Sancte Spiritus