Programma di sala - Comune di Piombino
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Programma di sala - Comune di Piombino
XXXIV STAGIONE CONCERTISTICA _14_15 JOHN AXELROD direttore ANDREA LUCCHESINI pianoforte john axelrod direttore andrea lucchesini pianoforte Ludwig van Beethoven Concerto n.5 in mi bemolle maggiore per pianoforte e orchestra op.73 ‘L’Imperatore’ Allegro Adagio un poco mosso Rondò: allegro ma non troppo *** Sinfonia n.5 in do minore op.67 empoli, teatro excelsior martedì 27 gennaio 2015 ore 21.00 Firenze, Teatro Verdi* mercoledì 28 gennaio 2015 ore 21.00 Piombino, Teatro Metropolitan giovedì 29 gennaio 2015 ore 21.00 siena, Teatro dei rozzi venerdì 30 gennaio 2015 ore 21.00 arezzo, auditorium fiere e congressi sabato 31 gennaio 2015 ore 21.00 *concerto fiorentino registrato e trasmesso in differita da Rai Radio3 Registrazioni e produzioni audio a cura di SoundStudioService Allegro con brio Andante con moto Scherzo: Allegro Allegro john axelrod Con il repertorio estremamente vasto, i programmi innovativi e il carismatico stile direttoriale, John Axelrod continua ad imporsi sempre più come uno dei direttori più interessanti del panorama odierno ed è richiesto dalle orchestre di tutto il mondo. Dopo aver completato con successo la sua carica quinquennale come direttore principale della Luzerner Sinfonie Orchester e direttore musicale del Teatro di Lucerna, la posizione di direttore musicale dell’Orchestre National des Pays de la Loire (ONPL) e di direttore principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano “G. Verdi”, nel novembre 2014 viene nominato direttore principale e artistico della Real Orquesta Sinfónica de Sevilla (ROSS). Mantiene anche la posizione di direttore principale ospite dell’Orchestra Sinfonica di Milano “G.Verdi”. Sin dal 2001, John Axelrod ha diretto oltre 150 orchestre internazionali, 30 titoli d’opera e 50 prime assolute. Fra le orchestre con cui collabora regolarmente figurano la RundfunkSinfonieorchester di Berlino, la NDR Symphony di Amburgo, la hr-Sinfonieorchester di Francoforte, l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI di Torino, il Teatro La Fenice di Venezia, il San Carlo di Napoli, la Real Orquesta Sinfonica de Sevilla, la OSI di Lugano, la Camerata Salzburg, la ORF Radio Symphony e i Grazer Philharmoniker. La sua attività operistica comprende nuove produzioni del Candide di Bernstein al Théâtre du Châtelet e al Teatro alla Scala, Flight di J.Dove per la Leipzig Oper, Tristano e Isotta ad Angers/Nantes. Per il Festival di Lucerna ha diretto le nuove produzioni di Kaiser von Atlantis, Rigoletto, Rake’s Progress, Don Giovanni, L’opera da tre soldi, Idomeneo. Nel 2014 ha diretto Evgenij Onegin al Teatro San Carlo di Napoli e inaugurato il Festival di Spoleto con il trittico: Erwartung, La Dame de Monte Carlo e La Mort de Cléopâtre. Le prossime produzioni saranno la prima assoluta de Lo specchio magico di Fabio Vacchi al Maggio Musicale Fiorentino e la nuova produzione di Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny di Weill per l’Opera di Roma. Appassionato sostenitore delle nuove generazioni di musicisti, John Axelrod collabora con diverse orchestre giovanili professionali, andando in tournée con la Schleswig Holstein Festival Orchestra al Festival di Salisburgo, l’Orchestra Giovanile Italiana, l’Accademia della Scala a Muscat, la Nord Deutsche Junge Philharmonie in Germania, la Sinfonia Iuventus in Polonia e la Vienna Jeunesse Orchester in Austria. John Axelrod incide regolarmente sia il repertorio di tradizione che quello contemporaneo per etichette quali Sony Classical, Warner Classics, Ondine, Universal, Naïve e Nimbus. L’ultimo progetto discografico Brahms Beloved per la Telarc vede l’integrale delle Sinfonie di Brahms, con l’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi, abbinate ai Lieder di Clara Schumann. Laureato alla Harvard University nel 1988 e formatosi nella tradizione di Bernstein, ha studiato al Conservatorio di San Pietroburgo con Ilya Musin nel 1996, e ha partecipato al programma dell’American Symphony Orchestra League. andrea lucchesini Formatosi sotto la guida di Maria Tipo, Andrea Lucchesini si impone all’attenzione internazionale giovanissimo, con la vittoria del Concorso Internazionale “Dino Ciani” presso il Teatro alla Scala di Milano. Suona da allora in tutto il mondo con le orchestre più prestigiose, collaborando con direttori quali Claudio Abbado, Semyon Bychkov, Roberto Abbado, Riccardo Chailly, Dennis Russell Davies, Charles Dutoit, Daniele Gatti, Gabriele Ferro, Gianluigi Gelmetti, Daniel Harding, Vladimir Jurowski, Gianandrea Noseda e Giuseppe Sinopoli. La sua ampia attività, contrassegnata dal desiderio di esplorare la musica senza limitazioni, lo vede spaziare da programmi del repertorio classico all’oggi e gli vale già nel 1994 il riconoscimento dei musicologi europei da cui riceve - unico italiano finora - il Premio Internazionale Accademia Chigiana, mentre l’anno successivo il Premio “Abbiati” testimonia l’apprezzamento della critica italiana. Andrea Lucchesini ha al suo attivo numerose incisioni discografiche, le prime delle quali risalgono agli anni ‘80 per EMI International (Sonata in si minore di Liszt, Sonata op.106 “Hammerklavier” di Beethoven, Sonata op.58 di Chopin); successivamente realizza Pierrot Lunaire di Schönberg e Kammerkonzert di Berg per Teldec, con la Dresdner Staatskapelle diretta da Giuseppe Sinopoli. Ha inciso inoltre per BMG il Concerto Echoing curves di Luciano Berio sotto la sua direzione: è una delle tappe fondamentali di una stretta collaborazione con il compositore, accanto al quale Lucchesini vede nascere l’ultimo e impegnativo lavoro per pianoforte solo, la Sonata, eseguita in prima mondiale nel 2001 e successivamente consegnata - con tutte le altre opere pianistiche di Berio - ad un disco AVIE Records che riceve unanime plauso dalla critica internazionale. Altrettanto festeggiata la registrazione dal vivo che Lucchesini realizza del ciclo integrale delle 32 Sonate di Beethoven per Stradivarius: la raccolta ottiene tra l’altro il riconoscimento di “disco del mese” della prestigiosa rivista tedesca Fonoforum. Il disco dedicato agli Improvvisi di Schubert, incisi per AVIE Records, è stato accolto con entusiasmo dalla critica internazionale, tanto da essere nominato disco del mese da Musicweb International. Nell’autunno 2013 ha iniziato la registrazione dei concerti di Beethoven con l’Orchestra della Radio della Svizzera Italiana e la direzione di Antonello Manacorda, registrazione che si conclude a settembre 2014. Convinto che la trasmissione del sapere musicale alle giovani generazioni sia un dovere morale, Lucchesini si dedica con passione all’insegnamento, attualmente presso la Scuola di Musica di Fiesole, della quale dal 2008 è anche direttore artistico. È inoltre invitato a tenere masterclass presso importanti istituzioni musicali europee, quali la Musik Hochschule di Hannover, il Sommer Wasserbuger Festspiele e il Mozarteum di Salisburgo; dal 2008 è Accademico di S.Cecilia. Tra gli impegni più recenti ricordiamo concerti a New York, il ritorno in recital a Monaco, a Madrid e a Barcellona, e con orchestra a Colonia, Düsseldorf, Monaco e La Coruna. Ludwig van Beethoven (Bonn 1770 – Vienna 1827) Concerto n.5 in mi bemolle maggiore per pianoforte e orchestra op.73 ‘L’Imperatore’ durata 36 minuti circa Terminato nel 1809, pubblicato nel 1811 e presentato in pubblico a Lipsia sempre nel1811 da Friedrich Schneider e a Vienna l’anno successivo da Cari Czerny (mai dall’autore), il Concerto opera 73 è l’ultimo lavoro in assoluto di tutta la produzione di Beethoven per strumenti solisti e orchestra, e, in effetti, costituisce il risultato più ambizioso e avveniristico del compositore in questo campo. Dopo avere sovraccaricato di inediti contenuti drammatici, con il Terzo Concerto, le limpide strutture del modello mozartiano, dopo avere intrapreso, con il Quarto Concerto, la ricerca di nuovi equilibri fra il solista e la compagine orchestrale - equilibri comunque improntati a una dimensione lirica e quasi cameristica - Beethoven torna, con il cosiddetto “Imperatore”, alla tradizione del concerto “brillante”, ma volgendo la funzione del solista verso un protagonismo assoluto che lo porta a ripensare sostanzialmente il rapporto pianoforte-orchestra. Alla base di questo ripensamento si pone la consapevolezza dei nuovi traguardi tecnici raggiunti dalle case costruttrici di pianoforti in risposta all’ampliamento del pubblico e delle sedi di esecuzione; non a caso Beethoven era entrato in possesso, nel 1804, di un pianoforte Erard, la cui escursione dinamica superava di molto quella dei più eleganti e meno sonori strumenti viennesi. Di qui nasce quell’esaltazione del virtuosismo pianistico che investe di sé il Quinto Concerto; un virtuosismo che non si fonda, però, sulla scorrevolezza brillante e sui preziosi intarsi miniaturistici di un esibizionismo “vecchio stile”, ma sulle possenti ottave, sui grandiosi effetti di eco del pedale di risonanza, sulla corposità accordale, insomma sullo sfruttamento compiuto di tutte le risorse dinamiche della nuova generazione di strumenti. Così, rispetto allo strumentale, il pianoforte diventa “la struttura portante del discorso” (Rattalino), in modo tale da condurre anche a un assestamento delle regole di costruzione formale del concerto. Nel primo movimento manca la tradizionale cadenza del solista - che, essendo protagonista assoluto, non ha bisogno di una sezione a sé dedicata - ma lo strumento fa il proprio ingresso, quasi una irruzione, immediatamente, con una introduzione eclatante di arpeggi, scale, trilli, che lasciano poi il posto alla esposizione vera e propria, in cui l’orchestra presenta con una magniloquenza degna del solista il materiale tematico (una prima idea fortemente affermativa e un secondo tema dalla configurazione misteriosamente marziale, ripresa dai corni); e tutto il tempo vede la prevalenza, estrosa, magnifica e quasi pletorica, del disegno pianistico, secondato dalla compagine orchestrale con una sontuosa veste timbrica. Il protagonismo del solista non viene meno nel movimento centrale, ma si converte verso una poetica intimista; alla raccolta melodia iniziale degli archi il pianoforte risponde con un semplice ed espressivo motivo in terzine; poi lo strumento riprende e ricama le idee tematiche; puntando soprattutto sul compiacimento di dolcissime situazioni coloristiche. Senza soluzione di continuità avviene la transizione al finale, animato da una vitalistica propulsione ritmica e dal carattere ritmicamente irregolare del refrain; la presenza festosa e irruente del solista - incline però anche a momenti di più discreta complicità, come il garbato colloquio col timpano, subito prima della conclusione - riafferma il contenuto di spaziosa grandiosità del concerto, e con esso si pone come ineguagliato esempio agli spensierati epigoni dell’età Biedermeier. Arrigo Quattrocchi Sinfonia n.5 in do minore op.67 durata: 36 minuti circa La Sinfonia n.5 in do minore è l’emblema universalmente riconosciuto dell’arte di Beethoven, il paradigma immortale di quella dialettica drammatica fatta di slanci eroici e nutrita dalla forza delle idee che ne costituisce la linfa vitale. I primi abbozzi (fra cui anche il celebre incipit del primo movimento) risalgono al 1804 circa, subito dopo il completamento dell’«Eroica», ma di lì a breve vennero abbandonati da Beethoven per comporre, rapidamente, la Quarta Sinfonia; la stesura più consistente è invece rintracciabile nel periodo fra la primavera del 1807 ed i primi mesi del 1808, inaspettatamente intrecciata a quella della Sesta Sinfonia, la celebre «Pastorale», alla Quinta dunque legata per genesi ma della quale costituisce un’antitesi clamorosa (ma la compresenza di opposti non deve stupir più di tanto, perché si ritrova diverse volte nella produzione beethoveniana). La singolare contemporaneità delle due Sinfonie rimane del resto documentata dal loro abbinamento nel programma di un concerto rimasto famoso nella storia per l’entità del programma, e che si tenne al Theater ander Wien il 22 Dicembre 1808, diretto dallo stesso Beethoven: una serata che vide l’esecuzione appunto delle Sinfonie nn.5 e 6, ma pure dell’aria «Ah! perfido», del Concerto n.4 per pianoforte, della Fantasia Corale op.80, persino del Gloria e del Sanctus dalla Messa in do maggiore. «Così il destino bussa alla porta», pare che abbia risposto Beethoven alle continue domande dell’allievo Anton Felix Schlinder sul significato dell’insistente motivo che apre la Quinta: poco importa interrogarsi sulla veridicità o meno della spiegazione, che ha senz’altro contribuito al fiorire di un’aneddotica sempre più strampalata (come quella che vuole il celebre motivo parente stretto del verso fatto dal rigogolo, una specie di uccello udito da Beethoven durante una gita al Prater!); soprattutto, se ingenuamente presa per buona, non andrà considerata alla lettera. Certo invece è che, soprattutto all’indomani delle esecuzioni successive, già diversi fra studiosi o semplici cronisti della vita musicale non poterono sottrarsi all’imperativo categorico di rintracciare nella Quinta un forte contenuto emotivo ed ideologico, da spiegarsi attraverso associazioni di immagini o programmi più o meno fantasiosi, comunque alla fine sempre riconducibili ad una medesima idea di base, che è poi quella che ha contribuito a creare e sostanziare un giusto mito: vale a dire intendere la Quinta Sinfonia come metafora musicale, possente come nessun altra, di una lotta titanica contro la sorte che però conduce alla vittoria finale. Difficile, ancora oggi, sottrarsi a quest’idea ascoltando la Sinfonia n.5, costruita su di una dialettica degli opposti che a Beethoven derivava da Kant e nutrita dall’ottimismo e dalla fiducia nell’uomo nati dal pensiero illuminista; simili idee mai prima di allora (neppure nell’«Eroica», dalla quale la Quinta pur discende) avevano conosciuto forme così grandiose, determinate ed esplicite. Se la Terza Sinfonia aveva celebrato l’eroe ideale in quattro movimenti distinti, la Quinta distribuisce nella medesima successione quattro momenti l’un con l’altro avvinti di una vicenda che è esistenziale e tutta drammatica, e che dal conflitto del primo tempo si risolve positivamente solo nell’ultimo. La Quinta dunque come espressione etica, oltreché poetica, tesa all’affermazione degli ideali umani più alti nella lotta per la conquista del bene. Il conflitto esistenziale è anzitutto conflitto di idee musicali, ed è posto con evidenza nell’«Allegro con brio» che getta le basi per l’immensa costruzione della Sinfonia. A generare il discorso è una cellula, non un tema vero e proprio, che esplode negli archi con particolare violenza: tre note (sol) che si schiantano con forte accentazione su un’altra (mi bemolle). È una sorta di motto, lapidario e carico d’interrogativi, che per la seconda volta risuona già con note diverse (un tono sotto, ma con identica incisività ritmica) e che da quel momento corre verso una serie di trasformazioni che comunque rimandano alla sua prima origine: quasi a formare, con fare irrequieto, quello che stavolta è un vero tema, chiave di volta dell’intero movimento ma soprattutto dell’intera Sinfonia, dove riapparirà di continuo. Di temi ne esiste anche un secondo, di natura più dolcemente melodica e quasi implorante, che dall’altro in realtà è schiacciato nel corso di uno sviluppo perentorio ed inarrestabile. Tutto il primo tempo si regge su questo contrasto drammaticissimo, che vede però l’affermazione indiscutibile del primo fatale motivo; solo nelle ultime battute il secondo motivo risuona, da solo e pieno di sgomento, nella voce dell’oboe. Ma quel canto desolato è repentinamente scacciato ancora una volta. L’«Andante con moto» prosegue l’idea di una lotta finora disperata, stavolta ricercando nuovi motivi di speranza. Il canto disteso che lo informa dall’inizio, una melodia espressiva e articolata, si regge su un ritmo di marcia che ha un carattere fiducioso oltreché di virile dignità; e s’impone qui, fra le molteplici variazioni di una dialettica divisa fra brevi momenti di accensione e ripiegamento, un solenne motivo che dalla costola di quello nasce, intonato da ottoni e timpani (finora mai ascoltati), nella radiosa tonalità di do maggiore: segnale d’un ritrovato ottimismo, per quanto l’implacabile motivo che ha aperto la Sinfonia continui ad affacciarsi qua e là e con fare sinistro. L’«Allegro» si rivela ancora un momento abbastanza tortuoso ed oscuro, con un fugato vigoroso che cerca di affermare ancora quel do maggiore che è simbolo di luce e salvezza. Nell’ultima parte, si dipana un gioco misterioso di pizzicati ed arpeggi, che coinvolge anche gli spettrali interventi dei contrabbassi, avviato lentamente verso un percorso gravido di sinistre attese e scandito dal rintocco lontano dei timpani. E invece lo sbocco è trionfale, raggiante: senza soluzione di continuità, l’«Allegro» finale spazza via gli oscuri presagi del precedente movimento, e intona la sua fanfara di vittoria nella sfolgorante luminosità del do maggiore, stavolta definitivamente conquistata, e nelle voci giubilanti di un organico che chiama in causa (per la prima volta nella Quinta) anche tre sacrali tromboni, l’ottavino ed il controfagotto. Il flusso tematico è più complesso di quel che si creda, ma il suo vigore è al servizio di una ferrea logica sinfonica che annulla ogni contrasto ed accoglie con superba naturalezza quell’eccitato slancio trionfale. Per un solo momento, riaffiora il dubbio del fosco do minore; ma poi il discorso riprende incalzante, e si accende in una danza gioiosa quanto sfrenata: in quel trionfo incontenibile e definitivo del do maggiore sul do minore, la vittoria della luce sulle tenebre conosce il suo inno. Francesco Ermini Polacci