L`eredità del cinema delle origini nel videogame
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L`eredità del cinema delle origini nel videogame
UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI BOLOGNA FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di laurea in D.A.M.S. L’eredità del cinema delle origini nel videogame: il caso di Doom Tesi di laurea in Istituzione di storia del cinema Relatore Presentata da Prof. Claudio Bisoni Alberto Larese Correlatore Dott.ssa Valentina Re Sessione II Anno accademico 2007/‘08 Indice Introduzione 4 1 Doom nella storia 8 1.1 Il fenomeno Doom 1.2 L’avvento dei first-person shooters 18 1.2.1 Le origini: Maze war 18 1.2.2 3D Monster Maze 22 1.2.3 Gli anni ’80 23 1.2.4 Le prime produzioni della iD Software 26 2 La costruzione del soggetto-macchina 9 29 2.1 Le tracce del dispositivo: dal cannocchiale al fucile digitale 31 2.2 Il movimento di macchina: dalle phantom rides al joypad 42 3 Il dispositivo tecnologico 54 3.1 55 Il cyborg ed il torpore dei sensi 3.2 La prospettiva centrale 65 2 3.2.1 La violenza concettuale 66 3.2.2 Il fenomeno allucinatorio 69 4 La visione in prima persona 76 4.1 Lo sguardo in macchina come lotta contro la cultura 78 4.2 L’a parte del dispositivo di controllo 89 4.3 Il finale punitivo 97 4.4 Lo specchio in Lady in The Lake e Doom III 108 Conclusioni 120 Bibliografia 135 Filmografia 138 Ludografia 141 Tavole 143 3 Introduzione Era il 1989. Non ricordo esattamente quale fosse stata la motivazione principale nel chiedere per il mio compleanno il “Nintendo”, così come era abitudine allora chiamare la console 8-bit della casa giapponese, la cui denominazione formale N.E.S., che sta per Nintendo Entertainment System, aveva un che di esotico, di americano ma anche di giapponese, in un epoca priva di internet, in cui questi paesi lontani, sconosciuti e mitizzati, erano semplici macchie di colore sulle cartine geografiche dell’atlante De Agostini, e pochi saggi avevano la consapevolezza della portata rivoluzionaria del videogame come mezzo di comunicazione, del “Nintendo” e del suo Super Mario Bros., il Maradona delle avventure elettroniche. Non dover più pagare le partite ai cabinati arcade del tempo segnò una svolta decisiva nella mia carriera videoludica, in quanto ebbi per la prima volta la possibilità di soffermarmi sull’immagine elettronica, di rivederla all’infinito, di analizzarne le logiche compositive, tanto che, dopo aver definitivamente completato l’ultimo livello di ogni gioco acquistato, lo scopo diventava subito quello di trasgredire le regole ed i limiti imposti dai programmatori, di arrivare con l’avatar nel “fuoricampo” dell’ambiente di gioco, nel non-luogo per eccellenza, ove la presenza del giocatore non era prevista, di scoprire i bug di programmazione e di provocarli a proprio piacimento: tutto all’insegna di trovare il bordo del gioco, il punto di contatto tra il mondo finzionale e quello reale, di evadere le noise regole che, come una prigione, mortificano l’esistenza dell’avatar, diretta emanazione della mia esistenza, e di lasciare libero sfogo alla fantasia, in una realtà dominata dall’immaginazione: era facile immaginare Super Mario saltare fuori dallo schermo sul tavolo del televisore e poi continuare la propria corsa sulle varie “piattaforme” presenti nella stanza e, anche se ero ben consapevole che questa sovrapposizione delle due realtà non si sarebbe mai oggettivamente realizzata, ciò non frenò mai interesse in questa direzione. Dopo queste primitive esperienze, ovviamente l’incontro con Doom non potè che sconvolgere la mia esistenza, presentandosi, ed oggi ne sono ancora convinto tanto che sto scrivendo questa tesi, come il videogioco definitivo: mai nessun gioco prima aveva avuto tale capacità di catturare totalmente la mia attenzione, di terrorizzarmi al punto tale da sobbalzare in aria con il cuore a mille se un rumore reale si sovrapponeva improvvisamente a quelli digitali, di ubriacare i miei sensi fino a far sovrapporre, per 4 qualche minuto dopo la sospensione della partita, le logiche d’azione e le visioni architettoniche del gioco a quelle della realtà, tanto da confondere palesamente le une con le altre: grazie a Doom, Super Mario era uscito dallo schermo, ma per diventare me, e da quel momento ho sempre considerato questa capacità di inglobare lo spettatore nell’immagine, fino a fargli confondere il limite tra le due realtà, un fattore di superiorità e di evoluzione tecnica del videogame rispetto al cinema, l’altro grande strumento di evocazione dell’immaginario di quest’epoca. Per molto tempo ho guardato ai prodotti della settima arte con passione, ma anche con una certa dose di sufficienza, cercando le tematiche e gli stili di rappresentazione più lontani dalle consuete regole del “buon” film, convinto che, comunque, il divario col videogame, e soprattutto con il genere dei first-person shooters, non sarebbe mai stato colmato, nonostante tutti gli artifici tecnico-linguistici che registi di tutto il mondo continuano a proporre; il cinema mi sembrava un mezzo di comunicazione meccanicamente e linguisticamente perfetto per raccontare storie, ma, al tempo stesso, carente di una effettiva partecipazione dello spettatore, incapace di rendere il senso di presenza alle visioni mostrate, di lasciare spazio alla scelta soggettiva, di mostrare il fuoricampo e i meccanismi che stanno dietro la rappresentazione: questa sua quasi fastidiosa “perfezione” ha contribuito decisamente alla mia scelta di questo corso di laurea, proprio allo scopo di smontare la macchina cinema, pezzo dopo pezzo. Tuttavia, proprio intraprendendo lo studio delle origini storiche di questo mezzo, cosa che, seguendo molto stupidamente l’opinione comune, ritenevo sarebbe stata oltremodo noisa, iniziai a conoscere il cinema delle origini oltre i miei pregiudizi, scoprendo in esso un mondo sconosciuto, un cinema giovane fatto di inventori e artigiani, continuamente alla ricerca di qualche novità interessante da apportare al mezzo, e un pubblico vivace, genuino e rumoroso, tanto da essere un buon rivale all’immagine cinematografica in fatto di spettacolarità, ma, soprattutto, un cinema fatto di pellicole straordinariamente al di là del linguaggio cinematografico istituzionale, prive di ogni regola esplicita, capaci di interpellare lo spettatore e ringraziarlo di aver comprato il biglietto, di semplici visioni panoramiche esotiche e di brevi gag non pretenziose: tutto ad un tratto, e tutto assieme, mi accorsi di aver scoperto un cinema oltre il cinema, sepolto sotto una marea di regole e divieti che lo spettatore moderno ha assimilato dentro di sé come innate, capace di sperimentare e rinnovarsi di continuo, di chiamare in causa direttamente lo spettatore, come se lo schermo non esistesse, di bastare come spettacolo in sé e per sé, nonostante la mancanza di un linguaggio codificato e di qualsiasi complessità tematica. 5 Nel cinema delle origini avevo trovato tutto ciò che ritenevo mancasse al cinema in generale, tutto ciò che poteva avvicinarlo all’interattività del mondo dei videogame e a Doom, spingendomi ad assumere come definitiva e fondamentale la distinzione instaurata da Noël Burch tra “Modo di Rappresentazione Primitivo”, la “mia” scoperta, e “Modo di Rappresentazione Istituzionale”, cioè il cinema oggi diffuso1. Tuttavia, come la miglior risposta possibile ad una domanda, questa scoperta non fece altro che riempirmi di interrogativi che, come tarli nella mente, sono rimasti dentro di me per molto tempo, scavandosi una rete di cavità vuote, teorie e pensieri in divenire, in un unico percorso che va dal cinema delle origini a Doom, e che oggi intendo riempire definitivamente con questa tesi; di fatto, ciò che mi chiedo è come sia possibile che il cinema primitivo abbia anticipato di quasi cento anni un genere di un altro medium, come il videogioco in prima persona e, nel nostro caso, il più famoso esponente di questa categoria videoludica, cioè Doom, in tutta una serie di pellicole create per interagire direttamente con lo spettatore, utilizzando, in piena libertà, inquadrature marginalizzate o vietate nel cinema istituzionale. A tale proposito, dopo aver compiuto una breve panoramica sull’impatto sociale di Doom ed averne individuato i precedenti storici nel mondo del divertimento elettronico, intendo tracciare un profilo, comune a entrambi i media, del soggetto interagente con l’immagine, presupposto dall’impianto rappresentativo di ciascuno di essi, sia all’interno della cornice, come entità virtuale, che fuori da essa, come entità fisica; infine, in base al profilo delineato, intendo analizzare la comunicazione psicologica che gli elementi costitutivi dell’immagine instaurano con il soggeto durante la fruizione, a partire dalla prospettiva centrale fino ad arrivare all’inquadratura a carattere soggettivo, per poi analizzare il caso particolare di Lady in The Lake di W. Montgomery, pellicola del 1947 il cui impianto visuale anticipa le future visioni di Doom. Per intraprendere la mia ricerca mi baserò soprattutto su alcuni testi fondamentali, tra cui Il lucernario dell'infinito. Nascita del linguaggio cinematografico di Noël Burch che delinea chiaramente gli elementi costitutivi del linguaggio del cinema delle origini ed il contesto sociale in cui il mezzo cinematografico andò a collocarsi, il fondamentale La rappresentazione dello sguardo nel cinema delle origini in Europa. Nascita della soggettiva di Elena Dagrada, di cui questa tesi si propone di espanderne alcune tematiche, Dentro lo sguardo di Francesco Casetti, soprattutto nel capitolo 3:Punti di vista, in cui 1 Burch Noël, La lucarne de l’infini. Naissance du langage cinématographique, Paris, Editions Nathan/Her, 1990 (tr. it. di Paola Cristalli, Il lucernario dell'infinito. Nascita del linguaggio cinematografico, Milano, Il Castoro, 2001). 6 analizza i limiti linguistici del cinema istituzionale, Gli strumenti del comunicare. Mass media e società moderna di Marshall McLuhan, nella sua lucida lungimiranza sull’impatto dei media nella società moderna, e un altro grande classico come La prospettiva come “forma simbolica” di Erwin Panofsky, guida definitiva allo studio della prospettiva rinascimentale, senza dimenticare due testi che al loro interno raccolgono e sintetizzano il complesso di teorie psicoanalitiche che hanno visto il cinema come oggetto di osservazione, Estetica del film di Jacques Aumont, Alain Bergala, Michel Marie e Marc Vernet e Semiologia del cinema e dell’audiovisivo. Parole chiave nell’analisi del film di Robert Stam, Robert Burgoyne e Sandy Flitterman-Lewis. 7 1: Doom nella storia 8 1.1: Il fenomeno Doom "What do you have in there?" “Doom” da Il colore dei soldi di Martin Scorsese Nel corso degli anni ’90, decennio in cui andava esplodendo il fenomeno “generazione X”, priva di ideali e di una solida prospettiva verso il futuro, la iD Software di Mesquite nel Texas, casa di produzione di videogame, nota già per aver rilasciato il discusso Wolfenstein 3D, sparatutto in prima persona in cui l’eroe-giocatre deve sconfiggere i nazisti, lanciò sul mercato una vera e propria bomba mediatica dal nome di Doom, dall’inglese “destino”, nel senso di “sentenza” o “fatalità”, o meglio ancora, “destino avverso”; la reazione del pubblico non fu però di certo contraria all’avventura proposta dal team texano e ben presto il videogame vendette quttro milioni di copie in tutto il mondo, rendendo la faccia del protagonista presente nell’interfaccia di gioco, famosa tanto quanto quella di un qualsiasi attore di Hollywood. L’avvento sul mercato di tale prelibatezza ludica sembrò ridefinire il concetto stesso di videogioco, ed in particolare di sparatutto: come i migliori videogame violenti che la storia ricordi, su tutti Carmageddon e Carmageddon II: Carpocalypse Now, anche Doom fu capace di sconvolgere l’esistenza di quella generazione di adolescenti fanatici del grunge, e contemporaneamente di traumatizzare fino alla paranoica persecuzione le generazioni precedenti, quelle dei genitori che non riuscivano a concepire chi avesse mai avuto il coraggio di metter in circolazione un gioco così “maleducato” da includere parolacce, sangue, violenza, cadaveri e squartamenti in una cosa sola. A questo proposito, non tardò di certo ad arrivare la reazione critica delle varie associazioni parentali in difesa dell’immacolatezza di questi poveri ragazzi, vittime inconsapevoli di un incantesimo multimediale che gli stava, giorno dopo giorno, rubando la vita, nel trascorrere migliaia di ore incollati davanti al televisore di casa in cerca di un passaggio segreto, di una nuova armatura da sostituire con quella distrutta dai colpi inferti da uno dei vari mostri presenti all’interno dei labirinti di Doom. 9 Ma la cosa che più colpisce di questo videogame ancora tutt’oggi, e noi ora possiamo solamente immaginare quale effetto avesse potuto provocare quando i primi arditi intrapresero l’avventura di inserire i floppy disk nel computer e premere “ok”, è la tensione che esso suscita nel giocatore. Ciò che più differenzia un gioco come Doom da tutti gli altri presenti sul mercato di allora è certamente l’altissimo livello di coinvolgimento nel vagare armato in un labirinto pieno di trappole e di mostri pronti ad ucciderci; giocare a Doom non è solo “emozionante”, ma il termine che più s’avvicina ad una descrizione corretta dell’interattività emozionale con lo schermo durante le partite è “adrenalinico”: il cuore batte a 100 all’ora mentre pian piano eploriamo l’ambientazione desolata, poiché, ad ogni istante, potrebbe aprirsi una porta segreta, o una botola, o più semplicemente, potrebbero apparire all’improvviso dei nemici agguerriti da dietro l’angolo, e minare la nostra incolumità: il suono dei gemiti dei mutanti scalpitanti, e quello più fastidioso, e “industrial”, dei meccanismi che si incontrano via via nel percorso, emergono all’improvviso dal silenzio, magari facendoci sobbalzare inutilmente dalla sedia e facendosi sprecare inutilmente decine di colpi a vuoto. La tensione di Doom sembra ricordare quella vissuta dai soldati americani durante la guerra del Vietnam, costretti a vagare per giungle sconosciute e labirintiche con l’indice nervoso posto sul grilletto del fucile, in attesa che “charlie” faccia la propria comparsa da un punto qualsiasi della selva, magari semplicemente con una trappola nascosta tra le foglie, o peggio ancora, con una raffica di fucile. E’ quindi la “immersione” il vero fattore vincente di questo mix letale di armi, violenza e testosterone, ossia la capacità del gioco di immergere il proprio fruitore fino alla soglia dello schermo, col viso un po’ oltre la superficie piana, come se la mano armata presente in primo piano fosse quella appoggiata sul joystick, e la vita in gioco fosse proprio la nostra. Sebbene l’uso della soggettiva in un ambiente 3D non costituisse un elemento di novità assoluta nel panorama dei videogame del 1993, Doom, tuttavia, offriva qualcosa in più rispetto ai propri predecessori, compreso Wolfenstein 3D: Doom è veramente “letale”, nel senso che sa abilmente combinare la violenza gratuita di un qualsiasi picchiaduro alla Street Fighter 2, l’uso ed il potere di utilizzare delle armi, anche fantascientifiche, di un comune sparatutto, l’alto tasso di mostruosità e di alienazione del mondo raffigurato e degli esseri che lo popolano, degno dei migliori film horror alla Sam Raimi, ed infine la superba immersività della visione in soggettiva, grazie alla quale non possiamo scorgere le fattezze umane del nostro avatar, di cui possiamo, invece, vedere solo un viso simbolico, utile come indice figurato del nostro grado di 10 salute fisica, particolare questo che verrà poi eliminato nel sequel Doom 3, e gli avambracci, nel caso in cui desideriamo, o siamo costretti, combattere i nemici a mani nude. Non ci sono personaggi da far saltare da una piattaforma ad un’altra, come in Super Mario Bros., e non ci sono neppure aerei da pilotare: l’avatar non è proprio visibile poiché il giocatore è il personaggio, o meglio, è dentro il personaggio, dentro la sua corazza protettiva, dentro l’immunità fisica, e solo fisica, dell’interazione con lo schermo. Il consueto distacco gioco-utente che aveva riguardato i videogame fino ad allora prodotti, venne bruscamente interrotto dall’avvento di questo sparatutto in soggettiva, il quale limita profondamente le meccaniche narrative di una qualsivoglia vicenda possibile, in questo caso, l’esplorazione di ambienti militari abbandonati dopo la sopraggiunta di un alquanto indefinito”male” di provenienza sconosciuta, a favore invece di un altissimo grado di immedesimazione dell’utente, quasi come se questo sparatutto appartenesse alla categoria delle simulazioni, un genere di simulazione paradossalmente fantastica e fantascientifica. Il coinvolgimento mentale del giocatore è così elevato che, dopo qualche ora di gioco, al momento del ritorno alla realtà, il giocatore vive per un periodo di qualche minuto una sorta di sbornia percettiva che gli fa confondere e decodificare le informazioni spaziali esterne ancora pervase dal codice percettivo del gioco, fino a spingerlo a muoversi con circospezione anche lungo i corridoi e le pareti di casa, e ad avere come primo e naturale stimolo l’istinto di premere la barra spaziatrice per aprire la porta del bagno: in questo effetto di sbandamento sensoriale, Doom ricorda molto l’emozione che un film particolarmente coinvolgente lascia nello spettatore al momento della sua conclusione. Esemplare è il caso di quel ragazzo di Torino, il quale, dopo aver passato cinque giorni e cinque notti davanti a Street Fighter 2, credeva di essere uno dei personaggi del gioco, per poi essere ricoverato nel reparto di psichiatria dell’ospedale Mauriziano del capoluogo piemontese, mentre ancora cercava di colpire i suoi… avversari… con calci volanti e palle di fuoco2. Il caso in questione è senza dubbio un caso limite, ed ogni esposizione di 5 giorni e 5 notti a qualsiasi cosa provoca sicuramente degli effetti collaterali, che essi siano videogame, radiazione solare, sostanze tossiche, discorsi inconcludenti… Tuttavia, come tutti i casi al limite della realtà e della credulità (per chi ne viene a conoscenza), essi sanno palesare con veemenza un fenomeno costante ed assodato che altrimenti sarebbe sempre preso come una stranezza, un evento frivolo di poca importanza, una necessità insulsa, come una timida nuvoletta in una giornata di sole. 2 Da un articolo apparso sulla rivista di gossip Oggi del 01/12/1999. 11 Realizzato inizialmente per il sistema operativo DOS, in seguito allo strepitoso successo, Doom venne poi adattato dapprima per il Windows 95 e, in seguito, per l’intera scena videoludica di quel tempo, dal Super Nintendo al Mac OS: ogni console e computer dell’epoca potevano vantare nella propria gamelist la presenza del capolavoro di John Romero e soci, senza contare la stima secondo cui la versione shareware, contenente il primo dei tre episodi, distribuita gratuitamente via internet, sarebbe stata scaricata, a tutt’oggi, da dieci milioni di persone3. La trama del gioco racconta come il protagonista, denominato familiarmente “Doomguy”, dopo una lite con un suo superiore, sia stato inviato su Phobos, luna marziana, ad indagare su di un incidente avvenuto nei pressi del dispositivo di teletrasporto con l’altra luna di Marte, Deimos: il satellite in questione era sparito del tutto, mentre dal portale erano iniziati ad uscire mostri di ogni genere, snodo narrativo, questo, che ricorda fortemente la trama di Howard… e il destino del mondo, pellicola del 1986 diretta da Willard Huyck, sebbene il film sia particolarmente demenziale e pacchiano. Il compito del nostro eroe sarà innazitutto quello di sopravvivere e poi di raggiungere gli altri membri della spedizione, persi all’inizio della ricerca. Nel corso della vicenda Doomguy scoprirà come l’uso del teletrasporto non abbia messo in comunicazione semplicemente le due lune marziane, bensì abbia creato una sorta di ponte con un altro livello di esistenza, un’altra dimensione, il vero e proprio inferno di derivazione cristiana su cui giace sospesa la luna scomparsa: come non pensare ora a quanto un gioco come Doom abbia potuto influenzare il successivo Punto di non ritorno di Paul W. S. Anderson? Dopo aver percorso i laboratori tecnologici miltari di Phobos, Doomguy verrà teletrasportato sul satellite scomparso, per poi scendere direttamente sulla superficie infernale ed affrontare infine un ibrido mostro-tecnologico, lo spider mastermind, denominato così proprio perché costituito di un enorme cervello dotato di occhi e bocca, montato su di un supporto tecnologico a garantirgli il movimemento grazie a tre enormi zampe da ragno. Gli altri nemici sono rappresentati dalla categoria di mostriumani-tecnologici-animali, degni dei migliori film di fantascienza ed horror: si va dal soldato murante, il cosiddetto former human, fino ad una sorta di yeti marrone-lancia palle di fuoco, denominato imp, al mostro volante sferico, detto cacodemone, che ricorda tanto il mostro occhiuto di Grosso guaio a Chinatown, diretto dal maestro sci-fi John Carpenter, fino al baron of hell, moderno minotauro dotato di gambe caprine. 3 Si veda Doom in www.wikipedia.org; ultima visita al 30/10/08. 12 Ma è proprio nell’armamentario, necessario a sconfiggere questa marea di nemici e componibile durante il corso del gioco, che risiede uno dei fattori di maggior successo del gioco: a disposizione delle fantasie violente e di doom-inio del giocatore viene data la possibilità di attaccare il nemico semplicemente a mani nude, oppure armati di pistole, fucili, mitraglie, lanciarazzi, tutto degno del miglior film d’azione di Schwarzenegger targato anni ’80, per poi sfondare nella pura fantascienza col fucile al plasma, che, manco a farlo apposta, costituisce l’arma più potente, seconda solo al BFG 9000, in grado di lanciare 40 celle di plasma alla volta. Infine, una chicca, l’arma forse più famosa e originale del gioco, che la iD Software ha ben pensato di dare la possibilità di utilizzare per rivivere con allegria la frenesia dello smembramento di corpi ancora in vita: la motosega, proprio come quella di Non aprite quella porta di Tobe Hooper, che aveva impressionato un’intera generazione di cinefili, la stessa che poi d’altronde giocherà a Doom. Inoltre, c’è da sottolineare che tra tanti oggetti magici, medicine, munizioni e armature, in gergo videoludico power-up, sparse nei labirinti del gioco, ve n’è uno in particolare che apporta al gameplay la cosiddetta modalità Berserk, in onore al protagonista di un serie manga giapponese, famoso per un costante ed elevatissimo livello di collera: al momento di raccolta di uno di questi oggetti, Doomguy abbandona automaticamente le armi per combattere i nemici direttamente a mani nude, il cui potere offensivo viene notevolmente potenziato rispetto alla norma, il tutto emettendo una sorta di grido isterico-collerico, segno della furia che per quei brevi, ma intensi, istanti di soddisfazione videoludica, cattura il protagonista della vicenda. Il gioco si sviluppa in tre sezioni principali, denominate rispettivamente KneeDeep in the Dead, The Shores of Hell e Inferno, divise ciascuna in nove episodi, di cui uno segreto da scoprire tramite passaggio segreto. L’ambientazione rispecchia la vicenda narrata nelle cut-scenes e sfuma dal tecnologico iniziale della sezione su Phobos, passando attraverso il mostruoso fantascientifico della seconda sezione su Deimos, fino alla terza sezione, ove la tecnologia scompare quasi completamente per lasciare spazio alla fantasia dei level-designers, novelli Dante Alighieri. Escludendo alcuni episodi dell’ultima sezione ed alcuni tratti di cosiddetta “passeggiata spaziale” sulla superficie, sia dei satelliti che di marte, l’ambientazione è perennemente claustrofobica, con corridoi stretti e soffitto molto basso, ad impedire qualsiasi sfogo libero-poetico-sospirante verso il cielo marziano e garantire così una costante oppressione psicologica. La labirinticità la fa comunque da padrona durante l’esplorazione spaziale degli ambienti, dotati di numerose porte a scomparsa, cunicoli, passaggi segreti, ascensori e 13 trappole; i livelli costituiscono, infatti, dei veri e propri rompicapo da risolvere per trovare l’uscita, e al giocatore è lasciato il compito facoltativo di esplorare ogni singola parete premendo la barra spaziatrice, in cerca di un accesso segreto a stanze nascoste, magari ricche di power-up o, nel caso peggiore, di nemici agguerriti. Fatta eccezione per le porte, il grado di interazione con l’ambiente risulta notevolmente scarso se consideriamo altri videogame d’avventura presenti sul mercato di allora, e l’interazione si riduce all’azionare qualche meccanismo particolare, accendere o spegnere delle luci, o far esplodere con un colpo i bidoni di liquido infiammabile sparsi qua e là, contribuendo a creare quell’atmosfera fredda e distaccata che viene letteralmente “subita” psicologicamente dall’utente, per il quale la sopravvivenza in mezzo a mille nemici si rivela già un compito particolarmente ostico che richiede un alto grado di sangue freddo per poter essere raggiunto al meglio, condizione questa che ricorda le vicende di Ripley in Alien, per cui il girovagare nella navicella spaziale è sempre e comunque connesso alla presenza della creatura aliena: è noto, infatti, come i creatori di Doom si siano ispirati alle ambientazioni futuristiche del film di Ridley Scott, tanto che inizialmente il gioco avrebbe dovuto costituire l’adattamento videoludico della pellicola in questione, progetto poi abbandonato per motivi di libertà creativa, secondo quanto dichiarato da John Carmack, programmatore del motore grafico4. E se l’ambientazione futuristica e le tematiche splatter, ispirate alla serie de La casa di Sam Raimi5, sono state in grado di ricevere un così alto tasso di gradimento da parte del pubblico, ciò si deve sicuramente alle innovazioni grafiche che Doom portò con sé rispetto ai suoi predecessori, in particolare Wolfenstein 3D: pur non essendo un vero e proprio 3D, ma bensì un tre dimensioni simulato in ambiente 2D, il motore grafico del gioco permise ai graphic designers di utilizzare delle textures su tutte le superfici, di variare anche gradualmente la luminosità degli ambienti, di creare livelli a più piani e, ultimo ma non di minore importanza, permettendo all’arma tenuta in mano dall’avatar di ondeggiare a destra ed a sinistra, aumentando così il potenziale di immersività della visione in soggettiva. Inoltre, la nuova tecnologia ha permesso di applicare nel gioco le foto digitali che i programmatori realizzarono durante lo sviluppo del gioco: se alcuni nemici derivano da modellini in latex o in creta, realizzati da Adrian Carmack e Gregor Punchatz, e successivamente fotografati da varie angolazioni per poi essere ricomposti in oggetti unici nel gioco, fucile e pistole sono delle vere e proprie armi giocattolo aquistate 4 Kushner David, Masters of Doom: How Two Guys Created An Empire and Transformed Pop Culture, New York, Random House, 2004. 5 Kushner David, op. cit. 14 all’epoca, mentre la mano in primo piano è quella di Kevin Cloud, un altro addetto all’artwork alla iD Software. Gli effetti sonori low-fi provengono da librerie audio prive di diritti di royalty, la Sound Ideas General series, tanto che è possibile ascoltare gli stessi effetti in film e telefilm dell’epoca. Un altro dei fattori vincenti di questo capolavoro multimediale sta nella modificabilità delle versioni uscite per pc. Fin dall’uscita del suo predecessore, Wolfenstein 3D, iniziò il fenomeno per cui gli stessi giocatori, dotati di qualche conoscenza di programmazione, iniziarono a creare e distribuire gratuitamente delle patch in grado di modificare alcune caratteristiche del gioco. Se, inizialmente, questo fenomeno fu sottovalutato dalla casa produttrice, successivamente fu generale l’impegno a rilascire una versione di Doom facilmente modificabile: ben presto non tardarono ad arrivare risposte in questo senso da parte del popolo dei giocatori, mentre numerose patch di tutti i tipi andarono ad arricchire l’esperienza ludica che il gioco originale era già in grado di fornire. Installando queste utilities direttamente dal proprio pc, si potevano inserire nuovi oggetti e nuove texture, variare i parameri di gioco, quali potenza delle armi, dell’armatura e dei nemici, oppure, ancora meglio, la possibilità di creare dei veri e propri nuovi livelli di gioco, talvolta ispirati a pellicole cinematografiche: famosi sono i casi delle patch su Alien, Batman e Guerre Stellari. La modificabilità di gioco, oltre a dare libero sfogo alla fantasia del popolo di Doom, permise di aumentare notevolmente la longevità di gioco, tanto che, oramai, è consuetudine, per le case produttrici, di favorire la proliferazione di queste espansioni. Doom ottenne un consistente successo, vendeno all’incirca due milioni di copie in tutto il mondo, adattando la versione a qualsiasi tipo di postazione multimediale esistente, compreso i telefoni cellulari. Si calcola che nel 1995 vi erano più copie di Doom installate su computer che di Windows 95, il che spinse Bill Gates a far creare ai propri progettisti della Microsoft una versione del gioco adattabile anche al sistema operativo a finestre6. I riconoscimenti si sprecano: nel 1994 Doom è stato premiato come Miglior gioco dell’anno dalle testate specialistiche di Pc Games, Pc Magazines e Computer Gaming World, e come Miglior gioco d’azione-avventura dall’Accademy of Interactive Art & Science; nel 2004, Pc Games ha incoronato Doom come gioco più influente nella storia dei videogiochi, mentre Gamespot lo ha dichiarato come uno dei 10 games più importanti 6 Si veda la nota 4. 15 di tutti i tempi. Come ogni successo che si rispetti, anche Doom fu sottoposto a numerose critiche negative per via della violenza contenuta nel gioco e dell’uso ingente della simbologia cristiana, da parte di associazioni religiose, di genitori e perfino dell’allora presidente americano Bill Clinton. La presenza di una svastica sul pavimento di un livello creò un putiferio tale da spingere la iD a rilasciare una patch che la sostituisse con una texture più adeguata, sebbene John Romero, uno dei creatori del gioco, abbia sempre sostenuto che essa andava considerata come un omaggio al predecessore Wolfenstein 3D, il cui protagonista combatte proprio contro i nazisti7. La polemica continuò quando si venne a scoprire che i due ragazzi autori della strage alla Columbine High School erano patiti giocatori di Doom, tanto che, secondo una leggenda metropolitana, i due avrebbero creato, tramite l’editor del gioco, dei livelli che rispecchiavano la struttura architettonica della scuola per allenarsi al massacro8. Certo è che Doom non passò non passo di certo indifferente agli occhi del mondo di allora, proprio per via della sua grande capacità di stimolare l’immaginazione comune. Adottando l’uso della prospettiva in prima persona, esso rivoluzionò l’allora nascente genere dei first-person shooters, degli sparatutto e di avventura, inserendosi in una tradizione di visione che ritrova le sue radici fin dagli albori dei videogames e, volendo, molto più indietro ad incontrare la rivoluzione prospettica del Rinascimento italiano. La capacità dell’interfaccia di fondere così profondamente il giocatore con la macchina, tanto da fargli dimenticare il mondo circostante, alienandolo, in questo modo, dalla vita sociale, se non quella via etere in appassionati deathmatch, è stato sicuramente il segreto, non più oramai tanto segreto, del successo di questo straordinario prodotto: esemplare è il fatto che molti anni dopo la diffusione presso il grande pubblico, ogni gioco in prima persona veniva puntualmente definito come “clone di Doom”, e ci vollero anni prima che la terminologia comune si adeguasse. Il significato e la rilevanza di questa particolare inquadratura, che al cinema ha sempre suscitato numerose ricerche e perplessità teoriche, troverà la propria naturale dimensione all’interno di questo “gioco per adolescenti troppo carichi di testosterone”, come definito da Dana Scully in una puntata di X-Files, scritta nientemeno che da William Gibson e Tom Maddox9. L’immersività totale provocata nei giocatori creò notevoli perplessità nel mondo occidentale degli anni ’90, già protagonista di svariate crociate nei confronti dei videogames, ed il libero uso delle armi, connesso alla violenza intrinseca del gioco, hanno portato l’opinione pubblica a crocifiggere tali 7 Si veda Game Talk da http://rome.ro/, il blog di John Romero, l’autore di Doom; ultima visita al 30/10/08. Si veda nota 4. 9 La puntata in questione è First-Person Shooter, della settima serie di X-Files. 8 16 forme di svago, tanto che qualche teorico cospirazionista sostiene che tali prodotti insegnino, in maniera subdola, le tecniche logistico-tattiche della guerra, o meglio ancora, della guerriglia, alle nuove generazioni, nelle quali serpeggia pericoloso il fenomeno del pacifismo e dell’avversione verso il servizio militare obbligatorio, nonostante questo sia in via d’estinzione in tutto il mondo occidentale10. Qualunque sia l’angolazione con cui venga visto il fenomeno Doom, esso non fa altro che colpire e stimolare una reazione, positiva o negativa che sia; il mondo dei videogame non è stato più lo stesso dopo quel dicembre del 1993, epoca dell’uscita del gioco, e tutti, chi più chi meno, tra cui game designers, case di produzione, giocatori, genitori di giocatori, si ritrovano tutt’ora a confrontarsi con questo particolare genere di videogame che Doom ha profondamente ispirato, basti pensare al consistente numero di FPS rilasciati negli ultimi 3 anni, da Crysis a F.E.A.R., alla serie di Call of Duty giunta fino al quarto episodio, allo storico Unreal Tournament, ad Halo, Bioshock, e chi più ne ha più ne metta. Da quando questo prodotto controverso ha visto le luci della ribalta, il concetto di interattività, di immersione, di videogame stesso è cambiato profondamente, ed il successo planetario ha fatto da naturale contrappeso alla quantità di critiche negative piovute nei suoi confronti. Personalmente, credo che l’avvento di tali bombe mediatiche, che esse siano dischi musicali o pellicole cinematografiche, costituiscano dei passaggi obbligati per tutto il mondo culturale in quanto portano a galla ciò che è già iscritto nella cultura stessa ma che non è ancora ben visibile all’occhio comune: come la porticina di Alice, che inizialmente è impossibile da passare, così oggi è impossibile pensare di fare un videogame senza incorrere nell’eredità che Doom ha lasciato sulla scena videoludica e, grandi o piccoli che siano, gli altri giochi hanno dovuto per forza di cose adattarsi, scendere a qualche compromesso, per poter garantire la propria esistenza ed il proprio successo, pena la sparizione nell’oblio, com’è successo per il genere degli sparatutto, così famoso negli anni ’80, il quale è stato spazzato via dalla pietra miliare della iD Software che ne ha irrimediabilmente rivoluzionato lo stile e le modalità d’interazione. 10 Si veda Controllo mentale in www.disinformazione.it; ultima visita al 30/10/08. 17 1.2: L’avvento dei first-person shooters Le origini di un gioco come Doom risalgono assai indietro nella storia dei videogame, e le innovazioni, che la sua comparsa nel 1993 ha apportato al genere degli sparatutto in prima persona, sostanzialmente fondandolo, o meglio ancora, ri-fondandolo, trovano i propri antenati teorici nelle primissime esperienze videoludiche della storia, quando i computer erano ancora macchinari grossi ed ingombranti, destinati ai soli centri di ricerca o ai campus universitari degli Stati Uniti, ed è sorprendente notare come la comparsa di questa nuova forma di intrattenimento sia praticamente coincisa con l’avvento di tutta quella gamma di caratteristiche di gioco che ritroveremo poi nel prodotto della iD Software. 1.2.1: Le origini: Maze War Maze War (d’ora in poi MW) è generalmente considerato il capostipite di questo genere, anticipando sorprendentemente di quasi vent’anni le modalità d’interazione visiva che stregheranno un’intera generazione di videogiocatori nel corso degli anni ’90 ed oltre. Il programma fu inizialmente scritto da Steve Colley su un Imlac PDS-1’s all’Ames Research Center della NASA in California, durante un programma estivo di collaborazione che la scuola superiore di Colley, allora ancora teenager, aveva intrattenuto con l’ente spaziale. Inizialmente concepito come sotware per disegnare labirinti e navigarci all’interno da una visione in prima persona, presto, grazie anche all’aiuto di due studenti amici del creatore, Gerg Thompson e Howard Palmer, il programma, utilizzabile da parte di un solo singolo utente, venne adattato poi per essere collegato ad un altro modello di Imlac, tramite una connessione via cavo, per consentire la navigazione del medesimo labirinto anche da parte di un altro utente. I tre programmatori capirono subito che la possibilità di colpire l’avversario con una sorta di palla di fuoco avrebbe reso MW un vero e proprio gioco da condivere con altri: i partecipanti potevano ora cercarsi nel labirinto, cercare di cogliere l’altro di sorpresa ed attaccarsi a vicenda: così nacque il primo sparatutto in prima persona della storia11. 11 Si veda Maze War in www.wikipedia.org; ultima visita al 30/10/08. 18 Tra tutte le caratteristiche di cui questo programma di disegno è dotato, la prima che salta subito agli occhi, in un involontario gioco di parole, è proprio la visione in prospettiva 3D, la stessa di Doom e di conseguenza di tutto il genere in questione. Nonostante le intenzioni iniziali di creare un software in grado di costruire labirinti a due dimensioni, Steve Colley ebbe la straordinaria intuizione di permettere all’utente di sperimentare l’efficacia del dedalo dalla prospettiva di Teseo, ossia di colui che vi si trovi all’interno. Certo è che la futura prospettiva ludica non era comunque nei piani del giovane californiano, il quale non corredò la sua creazione né di un punteggio di alcuna sorta, né di un vero e proprio scopo preciso, e neppure, in fondo, di un’abilità richiesta in particolare, dato che l’utente doveva percorrere il labirinto costruito da lui stesso: il nuovo tipo di interazione con la macchina, e soprattutto il nuovo modo di concepire l’eplorazione spaziale costituiscono la vera novità della versione iniziale di MW, tanto che qualcuno ha visto in questo arcaico programma di grafica uno dei primi, se non il primo, esempio di realizzazione effettiva di quella che poi sarà chiamata “realtà virtuale”, se consideriamo lo sviluppo che questo tipo di giochi ha espresso fino ai giorni nostri e l’altissimo grado di immedesimazione ed immersività che ora sono in grado di offrire. Come i pittori rinascimentali, protagonisti di quella rivoluzione culturale che ha portato le piatte raffigurazioni medievali a diventare le cosidette “finestre sul mondo” così, nel 1973, grazie all’applicazione della prospettiva, gli schermi degli elaboratori elettronici di quel tempo diventarono tutto ad un tratto “trasparenti” ed assunsero così la blasonata terza dimensione garantita dall’infinita profondità del punto di fuga, cosa che la piattezza di un simulatore di ping pong, come Pong, o uno sparatutto spaziale come Space Invaders, non erano assolutamente in grado di fornire. MW ha proposto non solo un innovativo modello di interazione macchina-utente, ma ha anche permesso l’accesso, tramite l’organo della vista ed un apparato di controllo manuale, ad una dimensione altra, la dimensione di Teseo nel labirinto di Cnosso. E proprio l’ambientazione labirintica, che fa da perfetta controparte ludica alla visione in soggettiva, costituisce un altro di quei temi che saranno tramandati nel corso degli anni fino a noi. La dimensione soggettiva del movimento nello spazio ha senso ludico solo quando c’è incognita ed esplorazione, altrimenti la “navigazione” si limiterebbe alla percorrenza di spazi prevedibili; il labirinto, come sinonimo dell’intricatezza della vita reale12, si ritrova rappresentato sullo schermo con tutte le incognite dei suoi meandri, così diversi ma contemporaneamente così uguali, suscitando 12 Sambo Marco Maria, Labirinti, da Cnosso ai videogames, Roma, Castelvecchi, 2004. 19 nel giocatore quel senso di sfida e di ricerca di equilibrio implementato dalla competizione con l’avversario. Infatti, se la semplice possibilità di vagare all’interno del dedalo non fornisce di per sé un particolare diletto in quanto l’interfaccia stessa provvede ad informarci sulla nostra posizione tramite una rappresentazione piana collocata in basso sullo schermo, la possibilità di fronteggiare un altro Teseo senza conoscerne la locazione sulla mappa, ha garantito quella dimensione ludica così tipica di questo genere: d’improvviso, vagare lungo un corridoio o girare un angolo è diventato altamente emozionante ed adrenalinico grazie alla tensione di poter incontrare l’avversario da un momento all’altro, e magari di sorprenderlo alle spalle, oppure di poter essere a propria volta sorpresi e sconfitti, il che, in fondo, è la stessa identica cosa che succede con Doom quando ci connetiamo on-line per competere, in una gara senza esclusione di colpi, con un altro Doomguy, seduto chissà in quale angolo del pianeta ma interfacciato col nostro sparattutto. E soprende ancora di più constatare che, proprio come allora, anche Doom, vent’anni dopo, non sia mai stato pensato per permettere la sfida fra due giocatori con un’unica piattaforma di gioco, ma solo tramite un collegamento a distanza tra due piattaforme; la risposta può sembrare scontata, in quanto, potendo visualizzare sia la propria posizione che quella del nemico su di un unico schermo, verrebbe sacrificata la dinamica di gioco basata sul nascondersi e sorprendere l’avversario, anche se vari tentativi in questa direzione sono stati fatti nel corso degli anni, e con discreto successo, come nel caso di Crash Team Racing, titolo della Naughty Dog prodotto nel 1999 per Playstation, semplicemente escludendo la mappa generale di gioco con le relative posizioni dei concorrenti dalla visualizzazione sullo schermo. Tra tutte le innovazioni, MW è stato anche il primo videogame a rappresentare l’avatar come entità organica, a dispetto delle navicelle spaziali o dei semplici “dot”, e ciò non è possibile apprezzarlo nella modalità singola di gioco, in cui la visione dello spazio è totale ed esente da riferimenti al protagonista di gioco, come sarà poi la mano in primo piano di Doom, ma si nota invece in modalità multiplayer: ogni giocatore viene rappresentato proprio con un occhio nella sua rotondità (fig. 1), un po’ come l’occhio distaccato e assoluto della prospettiva albertiana13, che guardacaso definisce la rappresentazione ambientale del gioco: esso è l’occhio divino, l’unico a permettere l’illusione prospettica che piega lo spazio a questo inganno mentale, e distaccato dal corpo poiché la sua visione rimane identica ed assoluta anche se non vi è nessuno ad esperirla. L’organo della vista è anche il simbolo della visione in sé, ed il team 13 Pecchinenda Gianfranco, Videogiochi e cultura della simulazione: la nascita dell'homo game, Roma, Laterza, 2003, p. 32. 20 improvvisato di programmatori californiani non poteva trovare modo migliore per esprimere graficamente questo nuovo tipo di avatar, il quale possiede nella sua sovrumanità quel qualcosa di post-umano che sarà poi tipico dei protagonisti degli sparattutto in prima persona a partire da Wolfenstein 3D in poi, il super-uomo che, grazie alla fusione con le macchine, aumenta la propria capacità di esperire il mondo esterno, modificando a proprio piacimento lo stimolo percettivo: L’avatar è inoltre predispoto per sopravvivere a lesioni e ferite che normalmente ucciderebbero un uomo vero. Può inoltre trasportare un ampio arsenale, sfidando tanto le leggi della fisica quanto il buonsenso. E’, in sintesi, un cyborg, un personaggio post-umano.14 L’occhio di MW permette al giocatore di sostituire la comune percezione dello spazio con quella fornita dall’Imlac PDS-1’s, ed immergersi così nel labirinto alla ricerca dell’avversario da battere. C’è da dire che tra tutti i possibili avatars che potevano essere scelti per assumere le sembianze dell’avversario, quella dell’occhio umano è sicuramente la più autoreferenziale di tutte, ma allo stesso tempo la più significativa: chi gioca a MW affida la propria esistenza all’organo della vista ed alla visione prospettica, mentre il resto del corpo, fatta eccezione per le mani che controllano l’interfaccia, viene abolito e dimenticato: infatti, non vi è alcun riferimento grafico ad organi per il movimento di alcuna sorta. Infine, è da sottolineare che, anche nella possibilità di modificare e creare labirinti a proprio piacimento, MW anticipa il futuro editor di livelli di Doom a disposizione dell’utenza, il quale ha contribuito al successo ed alla longevità del prodotto, sebbene esso sia il motivo iniziale per cui questo programma è venuto alla luce. L’avvento di MW dettò così una serie di parametri, sia di gioco vero e proprio, che di interfaccia grafica, tanto che le generazioni successive di videogame svilupparono solo singolarmente o a gruppi tali caratteristiche, senza mai però compiere un passo avanti decisivo in ognuna di queste, come successe invece con Doom, il quale sembra la trasposizione moderna dell’originario programma per l’Imlac. E’ questo il caso di Star Rider (d’ora in poi SR) del 1979, prodotto per l’Atari ad 8 bit e programmato da Doug 14 Bittanti Matteo, Gli strumenti del videogiocare. Logiche, estetiche e (v)ideologie, Milano, Costlan, 2005, p. 163. 21 Neubauer. Il gioco è un classico sparatutto con navicelle spaziali e quant’altro, ambientazione e nemici alla Star Trek, serial televisivo tanto in voga in quegli anni, con l’unica differenza che, rispetto alla media di giochi di questo tipo, SR raccoglie già qualche eredità di MW, in particolare la visione in soggettiva dello spazio esterno all’astronave, aggiungendoci la novità della rotazione a 360 gradi della navicella nello spazio. 1.2.2: 3D Monster Maze Successivamente è il turno di 3D Monster Maze (d’ora in poi 3DMM) a continuare a sviluppare quell’allora informe genere che era lo sparatutto in prima persona. In realtà, a differenza degli altri giochi che abbiamo analizzato, 3DMM non fornisce la possibilità di colpire alcun avversario, ma piuttosto riprende la tematica del labirnito di MW e ci aggiunge una forte dose di adrenalina; il gioco creato da Malcolm Evans nel lontano 1981 per il Sinclair ZX81 consiste nell’essere calato all’interno di un labirinto creato di volta in volta dal computer, dotato di una sola via d’uscita e di cui non si dispone di alcuna mappa: la novità è che nel dedalo si nasconde un tirannosauro rex pronto a mangiare il giocatore, il cui compito è solo quello di scappare il più abilmente possibile, evitando di rimanere chiuso in qualche vicolo cieco, trama che non può non richiamare alle nostra mente la dinamica di Alien di Ridley Scott. Inizialmente il dinosauro aspetta paziente la mossa del giocatore, ma una volta che questo si muove, comincia la caccia, e se ci si trova nelle vicinanze del mostro, questo si muove più impazientemente, mentre nel caso contrario tende a calmarsi; infine, se il giocatore viene avvistato, il tirannosauro punta direttamente verso la preda con lo scopo di mangiarla facendo così terminare il gioco. Il livello di ansietà viene poi fomentato dalla presenza di brevi frasi che descrivono il comportamento dell’animale, come “He is hunting for you”, “Footsteps approaching” o “Rex has seen you”. Considerato una delle pietre miliari della storia dei videogame, 3DMM fu anche il primo videogame a rappresentare il 3D su una piattaforma per l’home entertainment, oltre che ad usare la prospettiva in prima persona. Difatti, se da un lato le innovazioni di gioco rispetto a MW non sono molte, basti pensare all’invariato girovagare nel labirinto, tuttavia è proprio nella modalità di esplorazione dell’ambiente che si spiega il successo di questa release, la quale punta tutte le sue carte sull’emozione d’essere al’interno di un 22 labirinto senza mappe a disposizione e di dover fuggire freneticamente dal mostro, il quale potrebbe essere dietro ogni angolo, senza contare che la tensione sale e scende come un termometro impazzito a seconda del tipo di frase che il computer usa per descrivere il comportamento e la prossimità del tirannosauro, il tutto condito, o forse è proprio il piatto principale, dalla visuale in prima persona che garantisce sempre un elevato livello di immedesimazione. La visione del mostro che corre verso di noi ingrandendo velocemente la propria figura, da semplice schermata composta di pixels, diventa fonte di panico e batticuore, lasciando al giocatore il compito di trovare velocemente una strada alternativa, o un temporaneo nascondiglio, con la speranza di non incappare in qualche strada chiusa ma bensì nell’uscita. Fa sorridere come, in caso di sconfitta, il gioco ironizzi sarcasticamente sulla brutta fine del player, visualizzando una schermata composta al centro da una scritta che ci informa sul punteggio ottenuto “posthumously”, termine intraducibile in italiano se non con “postumatamente”, mentre tutt’attorno i denti del tirannosauro, visti da dentro la sue fauci, ossia sempre in prima persona, fanno da cornice al testo. Insomma, immedesimazione fino alla fine per questo gioco prodotto per l’Atari ad 8 bit, il quale costituiva a quel tempo una piattaforma di gioco tecnologicamente molto avanzata, sebbene non fosse ancora in grado di garantire una mobilità del giocatore a 360 gradi, ma “solo” in avanti, a destra ed a sinistra, a colpi di 90 gradi alla volta, il che rivela una certa regressione rispetto al sistema di visione di SR, il quale risulta più avanzato anche nella paletta grafica dei colori, quattro colori più bianco, nero e grigio, rispetto a 3DMM che poteva visualizzare solo gli ultimi tre. 1.2.3: Gli anni ‘80 Durante gli anni ’80 non si assistono a grossi sviluppi in direzione di quello che sarà poi il genere degli sparatutto in prima persona, quanto piuttosto ad una gara tra le case produttrici di games per la produzione di videogiochi arcade in 2D, delle vere e proprie tavole da gioco, il cui scopo è praticamente quello di usare al meglio le robuste manopole e pulsanti dei cabinati coin-op, (abbreviazione per coin-operator, letteralmente “dispositivo funzionante a moneta”), di cui Track & Field della Nintendo, uno tra i più noti, rappresenta forse l’apice dello “smanettamento” e del maltrattamento dei cabinati, oltre a riassumere il paradigma di gioco di quel tempo. Gli sparatutto ritornano 23 prepotentemente a 2 dimensioni a scorrimento verticale, dopo le innovazioni di SR, raggiungendo l’apice della propria evoluzione e del proprio successo, mentre le esperienze “adventure”, come potevano essere 3DMM, vengono catalizzate dall’allora nascente genere platform, di cui Super Mario Bros., con le sue oltre 40 milioni di copie vendute in tutto il mondo, ben fa capire quale fosse l’andamento del mercato videoludico di quell’epoca. In questi anni vi è quasi un abbandono totale nel campo di ricerche sul 3D, così come della visuale in soggettiva, molto probabilmente dovuto ad un’impellente carenza tecnica poi colmata con i nuovi dispositivi hardware verso la fine degli anni ’80: mentre la ricerca faceva passi da gigante nella qualità delle rappresentazioni bidimensionali, definizione e colore in primis, iniziavano allora i primi passi, seguendo la traccia indicata da Pong, un altro “padre” della storia dei videogames, nel controllo della fisica degli sprites, come scatole che si rompono, cadute dei personaggi e così via. Sembrò quasi una regressione ricercata e voluta alla piattezza del 2D, il quale risultò più adatto ad essere fruito tramite i cabinati a monete, che costituivano la fetta principale del mercato di allora; il fattore denaro influenzò anche le modalità di gameplay, spostando il target del mercato lontano dalle avventure immersive che saranno poi gli FPS: se qualcuno ha definito, generalizzando, gli anni ’80 come il decennio dell’esteriorità, ciò vale sicuramente anche per i videogame di quell’epoca i quali si proponevano come delle vere e proprie “tavole viventi” alla Méliès, in cui il posto dello spettatore era relegato fisso al centro della sala come nel teatro di varietà, esterno alla rappresentazione, allo stesso modo il giocatore di allora nei confronti di giochi che non proponevano uno scopo narrativo, un’avventura da vivere immedesimandosi nel personaggio, ma, al contrario, solo una successione di livelli in ordine crescente di difficoltà, al fine di spillare il quantitativo maggiore di soldi al giocatore, e ciò lo dimostra il fatto che questi giochi sono largamente considerati come i più difficili della storia. Nonostante tutto però, gli anni ’80 furono anche gli anni in cui si andavano affermando le console casalinghe, da ricordare il N.e.s. dell’onnipresente e sempre all’avanguardia Nintendo, la cui competizione commerciale spingerà le tecnologie verso una rapida evoluzione, fornendo, da un lato, le premesse tecniche per ricreare ambienti realistici in prospettiva centrale (sono questi gli anni in cui faceva i primi passi la grafica poligonale, di cui ricordiamo lo storico Hard Drivin', primo simulatore di guida in prima persona ad usare questo tipo di grafica), mentre dall’altro creeranno quell’utenza di “smanettoni” che costituirà poi il popolo di Doom. Il decennio della cocaina e del 24 benessere vide anche d’altra parte l’affermazione di tutte quelle tematiche che poi migreranno intercambiabilmente dal cinema ai videogiochi, tra cui l’esaltazione della violenza ingiustificata e delle armi nei film dell’icona Arnold Schwarzenegger che ritroviamo poi nei “picchiaduro”, come Street Fighter e Final Fight, il ritorno del grand guignol sia al cinema, nel genere dello splatter come in La mosca di Cronenberg, che in innocui giochi per bambini, in cui la componente sado-masochistica è nascosta abilmente da grafiche accattivanti e bambini sorridenti sulle confezioni e negli spot: caso emblematico è rappresentato da L’allegro chirurgo, gioco da tavolo edito dalla MB, in cui lo scopo è asportare organi a caso da un paziente brutto, panciuto e col naso da clown, che s’illuminava nel caso stessimo usando male le pinzette elettrificate necessarie per l’intervento. La violenza intrinseca in esso è ben mascherata dalla “simpatia” dei termini con vengono descritti gli organi ammalati, oltre che già inculcare nei giovanissimi giocatori l’idea di un essere post-umano, in parte uomo ed in parte macchina, o oggetto estraneo che dir si voglia, con cui giocare: ecco che “la caviglia slogata” diventa una “simpatica” chiave inglese installata direttamente dentro il corpo, le costole perdono la loro unicità ed insostituibilità per diventare definitivamente “costole di ricambio”, per non parlare del cuore, ovviamente “infranto”, e della necessità di asportarlo…; e se da un lato il dolore del paziente segna il fallimento dello scopo del gioco, dall'altro alimenta e dà sfogo a quella sorta di soddisfazione malsana di vedere soffrire un essere dall’aspetto buffo e senza dignità, la stessa che porterà svariati possessori del famigerato Tamagotchi a far morire tra atroci sofferenze il proprio animale domestico digitale, la stessa che ci spingerà a compiere efferati massacri in Doom senz’alcun ombra di rimorso, dato che, per un motivo o per l’altro, l’Altro meritava questa fine: E’ indubbio che alcuni videogiochi enfatizzano, amplificano, estremizzano il gesto violento: in questo caso, il gioco di-verte e di-sturba assieme. Un intero genere, quello dei first-person shooter, comparso all’indomani della Prima guerra del golfo (1991), simula, in modo realistico, l’annientamento dell’Altro. Detto altrimenti, i videogiochi, al pari di una certa produzione cinematografica, dilatano l’importanza culturale e mediatica della violenza: elevandola a meccanismo retorico, la celebrano e la riaffermano in forma simbolica. In molti videogame, la violenza è l’unica forma di negoziazione possibile con l’Altro: le strategie dei “buoni e dei “cattivi” coincidono. Omino a una dimensione, il personaggio virtuale è sempre un “nemico”, “avversario da umiliare”, “demone da annientare”.15 15 Bittanti Matteo, op. cit., p. 12. 25 Tutto ciò perché il gioco della iD Software non rappresentava semplicemente un prodotto innnovativo, quanto piuttosto la realizzazione e l’affermazione di un processo culturale le cui basi, come quelle di un iceberg, avevano, ed hanno ancora di più oggi, preso piede stabilmente nella cultura occidentale fino all’origini dell’Umanesimo, in cui i cosiddetti “uomini di scienza”, antiche prefigurazioni dell’allegro chirurgo, dissezionavano cadaveri per capire come funzionasse la fredda ed imperfetta macchina umana, non come il sempre nobile pensiero il quale consentiva invece di superare i propri limiti fisico-percettivi, innanzitutto e guardacaso visivi, tramite l’utilizzo di protesi esterne come il cannocchiale, per diventare poi, grazie alle console degli anni ’90, quel freddo calcolatore omicida ai limiti dell’immortalità che è l’eroe di Doom. 1.2.4: Le prime produzioni della iD Software Con gli anni ’90, e precisamente con il dicembre del 1991, data di rilascio di Catacomb Abyss (d’ora in poi CA), videogame per ambiente DOS creato dalla allora nascente iD Software, le cose cambiarono, ed iniziò l’ultima fase di quella lunga corsa verso la realizzazione di uno sparatutto in prima persona di successo che sarà poi Doom. CA fu il primo gioco per pc ad adottare la soggettiva come modalità di visione di gioco, introducendo inoltre alcune innovazioni divenute poi stabili nel genere: prima fra tutte, la possibilità di “fotografare”, tramite la memorizzazione nell’hard disk e in qualsiasi momento la partita, zona raggiunta, energia disponibile e così via, creando così, per dirlo nel linguaggio di Windows, un “punto di ripristino”, caratteristica importantissima al fine di evitare, come era consuetudine fino ad allora, di dover reiniziare il livello ogni volta che la partita non andava a buon fine, risparmiando così al giocatore l’onere di dover ripercorrere tutto lo spazio di gioco già precedentemente praticato e di sconfiggere di nuovo gli stessi nemici già incontrati sulla propria strada, magari per poi riperdere un’altra volta, minando le basi nervose dell’utente; inoltre CA introduce la raffigurazione in primo piano della mano dell’avatar, immobile in basso al centro dello schermo, ad aumentare il coefficiente di immedesimazione del gioco. Le catacombe, per cui vaga l’eroe della vicenda, rispettano le coordinate di MW nella loro struttura labirintica, garantendo l’emozione di scoprire cosa c’è dietro l’angolo, e, a questo proposito, è da notare come nell’interfaccia dell’utente sia presente un sensore di distanza dal nemico, una sorta di radar che però non mostra la struttura della catacomba, quindi può succedere 26 che il giocatore si ritrovi vicinissimo al nemico, il quale è però situato proprio al di là della parete, meccanismo questo adottato poi in seguito nel genere stealth da Tenchu. Sebbene le qualità grafiche di CA, 16 colori a bassa risoluzione, siano ad un livello notevolmente inferiore rispetto a quelle a cui siamo abituati oggi, questo gioco rappresenta una delle pietre miliari nella storia dei FPS, in quanto la strada che divide queste due release della iD Software è molto breve, e mancano solo pochi tasselli affinchè il genere possa raggiungere il proprio archetipo. Convinti del successo di CA, alla iD decisero di continuare a spingere nella direzione dello sparatutto in prima persona, e nel maggio del 1992 rilasciarono Wolfenstein 3D (d’ora in poi W3D), predecessore di Doom ed inferiore ad esso solo per la qualità del motore grafico, che rendeva l’interazione dell’avatar con l’ambiente ancora troppo “ingessata”, ma non di certo per caratteristiche di gameplay, tanto che questo titolo è da considerarsi il primo vero sparatutto in soggettiva della storia, ammettendo che CA ne ha anticipato numerose caratteristiche. La storia narra di un soldato americano di origini polacche che, in seguito ad un tentativo di fuga da un castello in cui era stato imprigionato, scopre che i nazisti suoi aguzzini stanno creando un esercito mutante di zombie per la conquista del mondo: al nostro toccherà risolvere la situazione, dapprima sconfiggendo il malvagio dottor Grosse, responsabile degli esperimenti, per poi trasferirsi in Germania al Reichstag, ove si ritroverà a combattere nientemeno che Adolf Hitler in persona, costui dotato di un’attrezzatura robotica in grado di moltiplicare le sue forze. Già a questo punto possiamo notare come questo FPS si doti, fin dall’inizio, di una storia che, seppur richiamando il fenomeno storico del nazismo, getta uno sguardo nella fantascienza, creando una commistione originale di nemici e missioni, già a partire dalla trama. Inoltre, come Doom, il giocatore ha a disposizione un piccolo arsenale di armi con cui divertirsi, e numerosi power-up da raccogliere durante il gioco, come kit-medici, cibo e munizioni. La struttura dei livelli rispecchia la consolidata tradizione labirintica con stanze e passaggi segreti, lasciando al giocatore il compito di scovarli. Il gioco è strutturato in tre episodi di dieci livelli ciascuno, e come sarà poi per il suo noto successore, fu lanciata inizialmente una versione shareware contenente solo il primo episodio, lasciando la facoltà all’utente di decidere se acquistare il resto del gioco oppure no; e sempre come Doom, W3D suscitò non poche critiche negative dovute all’uso di svastiche nonché dell’inno dei nazisti, tanto che in Germania il gioco venne addirittura confiscato, mentre negli Stati Uniti la iD fu costretta a modificare il gioco originale escludendo sia i riferimenti al nazismo, che il sangue presente copiosamente che 27 venne rimpiazzato col sudore per dare un’apparenza meno violenta a tutto il gioco; inoltre, la possibilità di uccidere i cani addestrati dei nemici ferì la sensibilità degli attivisti per i diritti degli animali che constrinsero la casa produttrice a sostituirli con dei ratti giganti, suscitando l’ilarità generale di chi, come i programmatori, non capivano perché fosse lecito uccidere topi e persone ma non pastori tedeschi. Il successo di W3D fu tale che subito John Romero e soci crearono un seguito denominato Spear of destiny, rilasciato nel settembre del 1992, che non innova nulla rispetto al gioco da cui trae origine, ma propone nuovamente lo stesso gameplay con nuovi livelli e la continuazione delle avventure di B.J. Blazkowicz, protagonista del gioco. Oramai mancava soltanto un anno all’uscita di Doom, periodo in cui gli sviluppatori del gioco avrebbero messo a punto quel motore grafico che apportò tutte quelle migliorie necessarie all’esplosione di popolarità del genere. A livello di realizzazione effettiva, la distanza che separa MW da Doom è enorme, sebbene, come abbiamo visto, a livello teorico il gioco degli anni ‘70 già anticipava in quasi tutto e per tutto il gameplay di Doom: come l’invenzione del cinema non rischiese l’ingegno di un solo inventore, ma bensì di una serie di condizioni necessarie, sia a livello di scoperte scientifico-tecnologiche, che a livello culturale, perché si potesse parlare di cinema nel vero senso della parola, così, il genere dello sparatutto in prima persona visse per vent’anni una sorta di periodo di incubazione in cui i requisiti tecnici, come l’evoluzione della grafica poligonale, tematici, con l’affermazione delle tematiche horror-splatterfantascientifiche, e ludici, con il completamento di uno schema di gameplay adeguato, furono pian piano accumulati con gli anni, per poi convergere tutti assieme in Doom, creando quel mix di adrenalina, fantascienza ed immedesimazione che conquistarono una generazione intera. 28 2: La costruzione del soggetto-macchina 29 Fin dalle prime pitture rupestri che i progenitori dell’uomo tracciavano sulle superfici di rocce e caverne a scopo propiziatorio, tutta la storia della rappresentazione visuale è sempre stata basata sulla fruizione di una realtà costituita da parte di un soggetto vedente al quale è lasciato il compito di interagire psicologicamente con l’immagine, secondo le emozioni, i ricordi e le fantasie che il dato sensibile va ad attivare nella sua interiorità, rendendo la fruizione dell’immagine un’esperienza profondamente individuale, tanto da poter tranquillamente affermare che, per ogni singola rappresentazione e, più in generale, per ogni singola opera d’arte, esistono tante rappresentazioni quante sono le persone che la guardano. La rappresentazione diventa perciò una sorta di percorso suggerito per l’esplorazione della propria soggettività, in cerca di un coinvolgimento emotivo tale da rendere generale l’impressione personale, e di trasformare la realtà fittizia dell’immagine in una dimensione spazio-temporale verosimile. Ogni opera visuale comporta, perciò, la costruzione di un complesso di credenze, impressioni ed aspettative che l’individuo costruisce idealmente come strumento utile ad interagire attivamente con il dato percepito, seguendo le indicazioni, esplicite o meno, che la rappresentazione stessa gli suggerisce; il soggetto percipiente non è più uguale a sé stesso nel momento di visione, ma altera la propria coscienza ed il rapporto con i propri sensi in funzione dell’immagine, partecipando attivamente alla sua costituzione ideale ed a quella della sua soggettività espansa. Con l’avvento del videogame, viene data, per la prima volta, la possibilità d’interagire direttamente con l’immagine bidimensionale dall’interno di essa, andando a modificarne, in tempo reale, i valori visuali, secondo limiti ed obbiettivi prestabiliti, fornendo al giocatore un’illusione di presenza nella rappresentazione paragonabile solo al lavoro del burattinaio che determina il destino delle sue creature, i cui fili sono diventati i joypad e le tastiere del giorno d’oggi. L’individuo posto di fronte all’immagine videoludica, tramite il dispositivo di controllo, espande la propria identità andando a fondersi idealmente con il simulacro elettronico che il gioco ha previsto per lui, diventando, nella propria interiorità, un tutt’uno con il macchinario di visione. Doom, dal canto suo, ha costituito un ulteriore passo avanti nelle modalità di interazione del videogame, consacrando e sistematicizzando la visione in prima persona che, mai prima d’allora, aveva avuto una tale capacità di attrarre ed inglobare l’attenzione del giocatore nelle proprie logiche di violenza e tecnologia, anche se, a ben vedere, già nel cinema delle origini ritroviamo tutte le avvisaglie di questa futura rivoluzione dello sguardo. 30 2.1: Le tracce del dispositivo: dal cannocchiale al fucile digitale Una delle particolarità che un gioco come Doom ha introdotto nella simulazione della visione in soggettiva consiste nella mano dell’avatar posta in primo piano in basso sullo schermo (fig. 2), unica traccia visibile del nostro personaggio all’interno dell’intero sistema di gameplay. Fattore capace di aumentare l’immersione dell’utente all’interno della dimensione di gioco è, dunque, la mano, o sarebbe meglio dire l’arma, dato che, sia che si tratti di un bazooka che della semplice mano di Doomguy, tutte queste estensione figurate hanno lo scopo di colpire, ferire ed uccidere l’avversario, o chi si trova sulla nostra strada. Considerando la spazio in prospettiva centrale, l’arma ci consente di colpire a distanza l’oggetto nemico, le scatole sparse qua e là, magari contenenti qualche powerup utile alla nostra sopravvivenza, oppure un bidone di liquido infiammabile (fig. 3). Nella storia del videogame d’altronde non è nuova la possibilità di entrare in possesso di qualche aggeggio utile alla nostra avventura, di qualche sorta di “machete” che faciliti il compito di aprire un varco nella dura strada dell’eroe: basti pensare al buon vecchio Super Mario e alle sue letali palle di fuoco, capaci di fare incetta delle Koopas anche a distanza, ed utilizzabili ogni qual volta il Nostro trovava una sorta di fiorepower-up. Tuttavia, nel gioco della Nintendo, è abbastanza evidente come queste armi potenzino il nostro avatar e solo lui, ben visibile sullo schermo in terza persona, e quindi distaccato dal giocatore, rendendo l’interazione con l’arma mediata dall’avatar: un po’ come dotare di un miglior motore il nostro modellino radiotelecomandato. In Doom, invece, il rapporto con le armi è ben diverso: proprio la differente visuale, ora in prima persona, non prevede alcuna forma di mediazione visivo-narrativa da parte di alcun personaggio inquadrato, tanto che la posizione in cui sono raffigurate le armi cerca palesemente di darci l’impressione che esse siano nella mani del soggetto vedente, senza fare distinzione tra il personaggio virtuale ed il giocatore, rendendo il joypad o la tastiera, e quindi la macchina in sé, l’unica barriera tra il mondo reale e quello rappresentato, tra il giocatore ed il mondo virtuale, tra le mani dell’utente e la canna del fucile: tramite la semplice quanto immediata pressione di un tasto, Doomguy preme il dito sul grilletto, provvedendo inoltre a riempire automaticamente il caricatore per garantire raffiche di proiettili senza soluzione di continuità. 31 Sebbene l’immedesimazione che coinvolge chi gioca con un videogame, abbia fatto dire a generazioni intere frasi in prima persona, come “sono morto”, oppure, per l’appunto, “ho preso tale arma”, il modo di esprimere il proprio coinvolgimento ha subìto una svolta concettuale a partire dall’avvento di Doom: in mancanza di una figura visibile a cui attribuire il possesso e l’uso di uno strumento di offesa, questa forma di potenza virtuale viene dirottata direttamente al giocatore, il cui sguardo diegetico, coincide totalmente e limitatamente con quello rappresentato sullo schermo. Non vi è il bisono di mirare, in quanto l’arma è “incollata” al bordo del quadro, trasformando la nostra vista nel mirino della canna del fucile, o meglio, rendendo arma il nostro occhio, il cui fuoco di visione prospettica, il punto di fuga al centro del cono di visione, è il punto ove vengono direzionati i colpi: in Doom, guardare qualcosa è potenzialmente colpire qualcosa. La combinazione arma-vista non può non richiamare alla memoria uno dei primissimi macchinari atti a consentire la ripresa fotografica del movimento, uno dei precursori più illustri ed accreditati della macchina da presa prodotta qualche anno dopo dai fratelli Lumière: il fucile fotografico di Étienne Jules Marey (fig. 4). Vagando per le sale del Musée des Arts et Métiers di Parigi, è possibile imbattersi in un modello ben conservato dell’invenzione del fisiologo francese, le cui fattezze ci illustrano chiaramente come venisse utilizzato tale strumento, e ci spiegano come il soprannome di fucile non sia affato casuale, ma faccia invece chiaramente riferimento alla fonte d’ispirazione di questa ancora incompleta macchina da presa: come un normale fucile da caccia, al quale Marey sembrò opportuno rifarsi per via della praticità di puntamento, esso era dotato di un calcio vero e proprio da appoggiare alla spalla per garantire la stabilità, catturava la luce proveniente dall’oggetto inquadrato tramite la canna che, invece di scagliare proiettili, fungeva sia da mirino che da obbiettivo, mentre al posto del consueto caricatore aveva una mini camera oscura, ove delle lastre fotografiche circolari, oppure ottagonali, venivano impressionate ad un ritmo variabile, fino a 60 lastre al secondo, lasciando il compito al “cacciatore” di puntare lo strumento nella direzione più opportuna16; non è un caso infatti che in inglese, il temine “riprendere” venga tradotto proprio con il verbo “to shoot”, ossia sparare, mentre le riprese vengono definite “shots”, ossia colpi. Questa particolare connivenza tra l’atto di cacciare/uccidere e quello di riprendere è già stata 16 Si veda Étienne Jules Marey in www.wikipedia.org; ultima visita al 30/10/08 e Bordwell David e Thompson Kristin, Film History: An Introduction, Columbus, McGraw-Hill, 1994 (tr. it. di Alberto Farina e Riccardo Centola, Storia del cinema e dei film: dalle origini al 1945, Milano, Il Castoro, 1998). 32 sottolineata acutamente da Barthes nel campo della fotografia, con particolare attenzione al soggetto ripreso: La Fotografia (...) rappresenta quel particolarissimo momento in cui, a dire il vero, non sono nè un oggetto nè un soggetto, ma piuttosto un soggetto che si sente diventare oggetto: in quel momento io vivo una micro-esperienza della morte (...): io divento veramente spettro. Il Fotografo lo sa bene, egli stesso ha paura (non fosse altro che per ragioni commmerciali) di questa morte nella quale il suo gesto sta per imbalsamarmi. Niente sarebbe più buffo (se non fosse che si è la vittima passiva, il factotum sadiano) delle contorsioni dei fotografi per “rendere vivo” (...). Io non so cosa la società faccia della mia foto, che cosa vi legge (...); ma quando mi scopro sul prodotto di questa operazione, ciò che vedo è che sono diventato TuttoImmagine, vale a dire la Morte in persona; gli altri – l’Altro – mi espropriano di me stesso, fanno di me, con ferocia, un oggetto.17 Ora si può ben capire come mai l’atto di ripresa faccia riferimento sì all’impressione della radiazione luminosa su di un supporto sensibile all’interno di una inquadratura, ma anche porti con sé un certo grado di violenza, di soppressione dell’Altro, di ingabbiamento a visione prospettica del soggetto, in una prigione concettuale delimitata dal bordo del fotogramma. Osservare il mondo tramite uno strumento di visione non è tuttavia una pratica nata col XIX secolo, ma affonda le proprie radici ben più indietro nel tempo, fino all’epoca in cui i cosiddetti uomini di scienza mettevano a punto le primissime protesi esterne dell’occhio umano, con l’intento di espanderne le capacità, nell’eterno cruccio umanista di porre l’uomo al centro dell’universo, quasi che egli fosse il primo motore immobile, in grado di dominare la natura circostante dalla sua posizione fissa centrale, un po’ come il Dio cristiano medievale. La scoperta delle proprietà di magnificazione della lente, che convoglierà poi nella costruzione del primo cannocchiale della storia ad opera dell’occhialaio olandese Hans Lippershey nel 160818, permise all’uomo di raggiungere con lo sguardo, dalla propria posizione, distanze lontanissime, di osservare oggetti remoti, ed in questo modo di dominarne l’esistenza dall’alto delle proprie conoscenze 17 Barthes Roland, La chambre claire. Note sur la photographie, Seuil, Cahieres du Cinéma - Gallimard, 1980, (tr. it. di Renzo Guidieri, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi, 2003), p. 15. 18 Si veda Cannocchiale in www.wikipedia.org, ultima visita al 30/10/08. 33 tecnologiche e della propria magnificienza, mortificando così la natura attorno a sé ed i limiti che la natura ha imposto all’uomo, il quale sembrò avvicinarsi sempre più alla condizione divina. La presenza dell’uomo sulla terra smise idealmente di essere limitata dalla sua consistenza materiale, ma si estese nello spazio tanto quanto fosse stata la potenza magnificatrice del cannocchiale, fino a raggiungere, con Galileo, lo spazio siderale ed i pianeti del sistema solare, e dare all’uomo, per la prima volta della storia, la possibilità di vivere dimensioni spaziali differenti da quelle legate alla mobilità del proprio corpo: se un qualsiasi dipinto era in grado di rappresentare una dimensione Altra, ossia mediata da un sistema semiotico di simboli, la visione ottenuta col cannocchiale è di natura differente, ossia presentazionale19, la quale, eliminando il mezzo concettuale, fornisce un’esperienza diretta del mondo remoto direttamente tramite l’espansione sensoriale dell’uomo, anticipando di centinaia d’anni il concetto di “realtà espansa” che sarà poi dell’uomo moderno nel suo rapporto con le macchine, nell’eterna rincorsa alla chimera della realtà virtuale. Nel cinema delle origini non vi era ancora l’esigenza, quindi, di rendere invisibile sia la presenza della macchina da presa che dello spettatore stesso, il quale spesso veniva invitato direttamente dallo schermo a condividere con i personaggi le visioni “meravigliose” che la pellicola proponeva: Esiste lo sguardo dell’attore che, sulla scena, si dirige in macchina per rivolgersi espressamente allo spettatore in sala: per salutarlo, interpellarlo, per commentare gli eventi insieme con lui, per comunicargli le proprie intenzioni e sensazioni, per accoglierlo o farsi accogliere, nonchè per ringraziarlo di aver pagato il biglietto d’ingresso. Sono moltissimi i film delle origini in cui questo tipo di sguardo in macchina, accompagnato da una gestualità esplicita che chiama in causa la partecipazione dello spettatore, è diffuso al punto di sfiorare il rito.20 19 Il modo di rappresentazione presentazionale, a differenza di quello rappresentazionale, non ha rimandi ad alcun significato astratto differente dal dato percepito in sé, e perciò non necessita della conoscenza di alcun linguaggio simbolico per essere interpretato: nel momento stesso in cui il dato sensibile viene percepito, esso si presenta, cioè si spiega autonomamente. Vedi Burch Noël, op. cit., e Dagrada Elena, La rappresentazione dello sguardo nel cinema delle origini in Europa Nascita della soggettiva, Bologna, CLUEB, 1998. 20 Dagrada Elena, op.cit. 34 La presenza di un macchinario di visione, come il cinematografo, costituiva in effetti la principale attrazione per il pubblico, tanto che la presenza del dispositivo in sé non passava di certo inosservata né si dava tantomeno per scontata, come sarà poi per il cinema istituzionale, per il quale l’attenzione sarà rivolta principalmente alla narrazione; il cinema era di per sé una vera e propria attrazione, accanto ai funamboli, alle donne barbute ed agli animali esotici, in quanto condivideva con tali spettacoli circensi l’esigenza di essere esperito semplicemente per quella dose di meraviglia che l’immagine in movimento costituiva nell’immaginario collettivo, senza mediazioni concettuali di sorta.21 In effetti, il cinema non compare dal nulla ma si inserisce in quella tradizione di marchingegni per la visione che fin dai tempi della lanterna magica avevano stupito folle di bambini e curiosi; accanto alle prime proiezioni luminose con lanterna magica di Reynaud ed ai giochi ottici come il thaumatropio o il fenachistoscopio, a partire dall’introduzione del cinetoscopio, viene ripresa quella consuetudine di appoggiare l’occhio ad una fessura per fruire dello spettacolo ottico, come per il cannocchiale d’altronde, usanza di cui ritroviamo le tracce nella presenza del mascherino circolare all’interno delle pellicole delle origini: La figura del cerchio costituisce la cornice iconografica più ricorrente nei film a strumento ottico (...), tuttavia sarebbe ingenuo, oltre che riduttivo, interpretare questa cornice come una premura “realistica”. (...) Questo mascherino è una presenza iconografica che è senz’altro necessario collegare anzitutto con l’aspetto ottico e meccanico del visibile che tali immagini registrano, e che rimanda alla strumentazione – all’idea stessa della macchina – suscettibile di rendere questo genere di vedute possibili.22 Il fatto di porre il mascherino circolare in tutte le vedute che rappresentano ciò che il personaggio vede tramite uno strumento ottico, richiama il concetto di visione meravigliosa e fa riferimento a tutti quei marchingegni già ampiamente diffusi fino ad allora, macchine che la gente poteva utilizzare direttamente con i propri occhi. Sebbene non si possa parlare ancora di soggettiva vera e propria, il mascherino circolare segnala 21 22 Dagrada Elena, op.cit. Dagrada Elena, op.cit., pp. 54-55. 35 che quella è la visione che avremmo se vedessimo tramite la strumentazione utilizzata nel filmato dal personaggio, e quindi, indirettamente, ciò che vedremmo se noi fossimo il personaggio e vedessimo tramite i suoi occhi (fig. 5 e 6). Nel cinema delle origini il mascherino è sinonimo di visione espansa, fatto, questo, che non può non richiamare alla memoria l’esperienza del cannocchiale, primo e paradigmatico strumento di visione a distanza, tanto che spesso si tratta proprio di un cannocchiale ad essere utilizzato sullo schermo, a generare quelle visioni che allora venivano definite per l’appunto “magnified views”, viste magnificate, proprio come la lente di magnificazione utilizzata nel primo film che rappresenti la vista di un personaggio, Grandma’s Reading Glass di Smith del 1904, in cui il bambino offre allo spettatore delle immagini allora percepite come gigantesche sullo schermo, proprio grazie all’ausilio della lente di ingrandimento della nonna. La soggettiva del cinema delle origini è sempre strettamente connessa all’utilizzo di uno strumento della visione, e sembra che l’unica buona motivazione per rappresentare la visione di un personaggio sia quella di mostrare come egli veda tramite tale strumento, come se la vista nuda e cruda, priva di alcuna espansione tecnologica, non sia possibile oltre che rappresentabile, anticipando già molti decenni prima il concetto di eroe postumano, ossia di cyborg, che ritroveremo poi in Doom, nel binomio corpo-tecnologia, o, se vogliamo, organo di percezione-espansione della percezione. Il cinema delle origini non punta a nascondere questo tipo di mediazione tecnologica e, l’uilizzo del mascherino circolare, in un certo senso, distanzia lo spettatore dallo schermo, gli ricorda che quello che sta vedendo non è un rappresentazione verosimile della realtà, ma bensì una visione meravigliosa, perchè possibile solo grazie ad uno strumento meccanico; ciò assegna allo spettatore un posto in sala, il posto migliore, ben distante dall’immagine, come se lo schermo tondeggiante, dato che il nero della maschera si confonde col buio della sala, fosse un immenso cannocchiale capace di giungere fino all’occhio dello spettatore seduto nella sua poltrona. Egli non deve ricostruire e strutturare una vicenda fatta a pezzi dal montaggio, né tantomeno immedesimarsi psicologicamente in un personaggio, ma deve e può solamente godere passivamente della visione fornitagli da questo invisibile macchinario, suggeritogli dalla forma circolare: considerando queste inquadrature come le prime ad aver rappresentato lo sguardo di un personaggio, possiamo affermare che la prima forma di soggettiva mai apparsa nel cinema richiede una fruizione puramente passiva che distanzia lo spettatore dallo schermo invece che immergerlo dentro l’immagine; questo tipo di rapporto con lo spettatore non ha controindicazioni e funziona perfettamente da sé, al contrario delle 36 ambiguità che la figura della soggettiva creerà poi nel cinema istituzionale, di cui Lady in The Lake rappresenta solo il caso più evidente23: nel cinema delle origini è l’immagine circolare stessa a ricordare allo spettatore la propria origine fittizia e meccanica, chiarendo fin dall’inizio il tipo di lettura che essa dovrà avere da parte del pubblico. A partire dagli anni ‘10 il cinema subisce quel processo di istituzionalizzazione che porterà a definire tutte le regole necessarie al fine di ottenere un buon racconto e, di conseguenza, solo saltuariamente un buon spettacolo inteso come attrazione: cambia il posto del pubblico rispetto all’immagine, il quale non si trova più ben distanziato psicologicamente dal quadro, ma bensì si ritrova ad un passo dalla superficie, al limite tra sogno e realtà, quasi in procinto di oltrepassare lo schermo, come un voyeur che di nascosto osserva impotente la vita degli altri. L’attrazione meravigliosa con tutte le sue vedute circolari svanisce facendo diventare il film un potente e complesso “ponte” semiotico di interscambio di informazioni con il soggetto percipiente, al quale viene richiesto, di volta in volta, di mettere in campo le proprie esperienze personali per garantire un minimo grado di immedesimazione nella vicenda, facendo diventare l’esperienza cinematografica profondamente soggettiva. Non è l’immagine circolare ad essere sparita, ma è come se il bordo del cerchio della visione magica si fosse espanso sino ai limiti del fotogramma, rendendo l’esperienza di visione un calarsi in toto all’interno di un personaggio dalle qualità divine, post-umane per l’appunto, in grado di muoversi liberamente nello spazio e nel tempo, rendendo la soggettiva un inquadratura di per sè meta-cinematografica, poichè in grado di rivelare tutti i tipi di limitazione che la settima arte nasconde tra le sue pieghe. La soggettiva vive così una sorte avversa e ambigua per tutta la storia del cinema, fino alla sua riesumazione in Catacomb Abyss; come abbiamo visto, in questo titolo della iD Software, accanto alla soggettiva come unica modalità di visione, viene posta una mano aperta sulla cornice dello schermo in basso al centro, ad indicare la mano del protagonista, sia del gioco che della visione, capace di scagliare potenti incantesimi contro i nemici. Quella mano rappresenta inoltre la mano del giocatore, la sua espansione all’interno del mondo di gioco, ed è, a dispetto della forma umana, un’arma vera e propria, uno strumento di offesa nei confronti dei nemici virtuali che attentano alla vita virtuale del giocatore; in Doom poi, grazie alle innovazione del motore grafico, questa estensione sarà ancora più umana grazie all’ondeggiamento a destra e a sinistra durante gli spostamenti, mentre sarà ancora più arma, in grado di impugnare sempre più armi di 23 Si veda Casetti Francesco, Dentro lo sguardo, Milano, Bompiani, 1986. 37 ogni genere. Essa rappresenta a tutti gli effetti un traccia della nostra presenza nel mondo racchiuso nello schermo, diventando così il simbolo della nostra potenza distruttrice, capace di uccidere nemici che si muovono attorno a noi, infatti: Le imperfezioni nella creazione dell’illusione di una percezione naturale fanno sì che, nei giochi in prima persona, sia piuttosto disagevole, per il giocatore, valutare la distanza fra gli oggetti del mondo di gioco e la posizione dell’osservatore. Al contrario la soggettiva facilita la valutazione degli elementi vettoriali come traettoria e velocità degli oggetti in movimento. Questo assetto rende poco efficace la presenza di elementi che devono essere usati in relazione alla loro distanza dal personaggio-giocatore, come piattaforme e armi a corto raggio, che sono in effetti poco presenti e giocano un ruolo marginale nei videogame in prima persona, a differenza di quanto accade nei giochi in terza persona (...). Allo stesso modo, la soggettiva garantisce un surplus d’efficacia agli elementi che si dispongo vettorialmente, come la direzione, traettoria e velocità degli oggetti.24 Nel genere degli sparatutto in prima persona, l’uso di armi a corto raggio, in particolare, ed in generale tutti i tipi di interazione ravvicinata con oggetti presenti nell’ambiente 3D, gioca quasi sempre un ruolo marginale, in quanto risulta particolarmente difficoltoso agire sulla base delle informazioni spaziali che abbiamo a nostra disposizione (per esempio in Doom è difficile capire a che distanza dal nemico diventi efficace l’uso della motosega, se non grazie agli schizzi di sangue che letteralmente ci vengono incontro), cosa che non succede invece con armi dotate di un sistema di puntamento, le quali invece ci permettono di colpire oggetti e nemici anche se essi sono in movimento e rimpiccioliti dalla distanza. La nostra protesi nel mondo virtuale è perciò uno strumento che funziona meglio a distanza, in grado di estendere virtualmente la presenza fisica del giocatore tramite le munizioni sparate, in grado di mortificare l’oggetto puntato: l’arma virtuale, come quelle reali d’altronde, è come il fucile fotografico di Marey e il cannocchiale di Galileo, strumenti scientifici che consentono di controllare e dominare la realtà circostante tramite il senso della vista, e se nella visione monoculare del cannocchiale il mondo inquadrato si piega all’illusione 24 Maietti Massimo, Doom la prospettiva rinascimentale e la soggettiva videoludica, in Morris Sue e Bittanti Matteo, Doom. Giocare in prima persona, Milano, Costa & Nolan, 2005, pp. 31-32. 38 prospettica deformando i propri contorni attorno al punto di fuga, il quale coincide diametralmente con il punto di visione, ossia l’occhio dell’osservatore, che è anche il luogo ove risiede idealmente l’astrazione del dato percepito, all’interno di quella “piramide visiva” che definisce l’area dello spazio osservata, la cui base è delineata dal bordo dell’immagine mentre il vertice coincide con il punto di osservazione, così in Doom il mondo si piega alla logica del proiettile, il quale, direzionato verso il punto di fuga e, diametralmente quindi, verso il luogo di concettualizzazione del dato sensibile, rende infinito l’oggetto colpito mortificandolo, ossia togliendogli la finita durata dell’esistenza in cambio dell’eterna oggettività ed idealità della prospettiva, che confonde in un reticolo matematico i corpi viventi con l’ambiente circostante privo di vita.25 Se, nel cinema delle origini, il mascherino circolare segnava la distanza psicologica dello spettatore dall’evento presentatogli sullo schermo, ora questo moderno mascherino incorporato con la cornice dello spettro visivo, costituito dall’arma in primo piano, è il simbolo dell’oltrepassamento dellla superficie trasparente dell’immagine tramite l’occhio-arma, il consueto strumento di controllo della realtà dell’umanesimo. Se ai primissimi spettatori del cinematografo veniva ricordato indirettamente che quell’immagine tondeggiante posta davanti ai propri occhi non era una rappresentazione della realtà ma bensì una visione meravigliosa ottenuta tramite uno strumento meccanico, così, anche in Doom, la mano ci ricorda che stiamo adoperando una macchina, l’arma figlia della tecnologia, tramite la quale siamo calati all’interno dell’immagine a combattere i mostri che ci vogliono uccidere. Il mascherno di Grandma’s reading glass è diventato a tutti gli effetti la mano armata di Doom: Il mascherino è impiegato come segno (...) di una presenza mediatrice tra l’occhio e il mondo, da inendersi peircianamente come segno a tutto tondo, vale a dire in egual misura icona, simbolo, indice. (...) Un segno che progressivamente antropomorfizzerà le sue forme, accantonando la macchina per significare lo sguardo attraverso le sue più immediate ed umane appendici. (...) del resto, il mascherino è talvolta affiancato da mani, dita, cornici di specchi.26 25 Si veda Panofsky Erwin, Die Perspektive als “symbolische Form”, Leipzig, 1927 (tr. it. di Enrico Filippini, La prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, Milano, Feltrinelli, 1961). 26 Dagrada Elena, op. cit., p. 60. 39 Lo spettatore, da passivo qual era di fronte alle meraviglie di una tecnologia sconosciuta, nel corso della storia ha imparato a capire il funzionamento della macchina cinema, a ricomporre nella propria mente sequenze di inquadrature montate in modo sempre più complesso a livello spazio-temporale, fino a raggiungere con i videogames la capacità di essere egli stesso il regista della propria storia e della propria fantasia, tramite l’uso della videocamera virtuale e del carrello, in un’orgia di sangue e sperma, di testosterone e violenza, e come negare ora che il fucile di Doom, e tutte le armi di tutti i first-person shooters mai prodotti, non siano altro che figurazioni falliche, in cui i propri spari, invece di generare la vita, la tolgono? In fondo, la natura della soggettiva non è cambiata molto tra le immagini tondeggianti di inizio secolo e la mano di Doom: entrambe ricordano allo spettatore, della sua posizione psicologica nei confronti della rappresentazione, passiva prima e poi attiva col videogame, o inter-attiva; entrambe segnano che lo spettatore sta vivendo una condizione che va al di là dell’umana esistenza e dei suoi limiti, una condizione postumana che permette di estendere la propria presenza fisica avvicinando le cose a noi con lo strumento ottico, e di tenerle a distanza di sicurezza con l’arma da fuoco. La rotondità della maschera era il simbolo di ogni strumento in grado di fornire una visione magica, dal kaleidoscopio al fenatiscoscopio, tenuto in mano dall’uomo che osserva, per svelare poi nel videogame contemporaneo, l’altra faccia della medaglia, e diventare la rotondità della canna da fuoco, del proiettile, e d’altronde della visione all’interno del mirino che presagisce la morte dell’soggetto inquadrato. In Doom non esiste un mirino così come noi lo conosciamo: esso è presente, ma non è disancorato dalla vista, in modo da permetterci di puntare un nemico proveniente di lato; esso è congiunto indissolubilmente alla visione del mondo rappresentato, poichè si spara sempre e comunque nella direzione in cui guarda e si muove l’avatar, come se fosse esso stesso un proiettile, oltre che il soggetto della visione, concetto questo ben esplicato in in Max Payne, titolo del 2001, in cui dopo aver puntato esattamente il nemico tramite il mirino del nostro fucile da cecchino, una volta premuto il grilletto, la macchina da presa segue vertiginosamente la traiettoria del proiettile nello spazio in semi-soggettiva fino al raggiungimento del bersaglio. Il nostro spettro visivo ludico, ristretto come la visione di un mirino, 30 gradi rispetto alla visione umana che ne consta 120, è imprescindibile dall’arma, poichè Doomguy non è altro che un uomo-arma di cui possiamo vedere soltanto le mani, e di cui non sappiamo null’altro se non una faccia dalle espressioni grottesche ad indicare simbolicamente lo stato di salute del nostro eroe. La visione del mondo è sostanzialmente 40 quella visibile attraverso l’occhio del mirino, la stessa dell’immagine a mascherino circolare di inizio secolo, la stessa che si può avere guardando attraverso la canna del fucile fotografico di Marey: nel gioco della iD Software inquadrare significa più che mai “shoot”, sparare, catturare ed uccidere. 41 2.2: Il movimento di macchina: dalle phantom rides al joypad Fin dai tempi di Maze War è stato possibile, per il giocatore di videogame, navigare all’interno dello spazio prospettico a tre dimensioni, esplorarne i meandri tramite l’utilizzo di un comando esterno che permettesse di muovere il personaggio nella direzione desiderata: controllare il proprio avatar, nello spazio definito dallo schermo, rappresenta uno dei principali fondamenti di gameplay della quasi totalità di videogame mai creati, passando dal genere adventure, al platform e allo sparatutto, sia che si parli di due o di tre dimensioni, che di visione in soggettiva o meno. Non sono tutti uguali i modi di affrontare gli ambienti virtuali preparati dai programmatori, i quali, nel corso della storia del videogame, hanno saputo dosare e differenziare la modalità di esplorazione spaziale: infatti, se i primi giochi, come Spacewar, ed in generale tutti gli sparatutto precedenti all’avvento di Doom, consentono di muovere l’avatar limitatamente ad un unico asse, destra e sinistra, alto o basso, al fine esclusivo di schivare e colpire i nemici in uno schermo a due dimensioni che si srotola come una pergamena, già i platform game a livelli degli anni ’80 permettevano, non solo di muoversi lateralmente, bensì anche verticalmente, andando ad occupre la totalità dello spazio rappresentato, magari tramite la possibilità di far saltare il personaggio per raggiungere l’uscita dal livello, qualche power-up, o anche i nemici stessi, come nel celeberrimo Bubble Bobble della Taito con i suoi draghetti lancia-bolle. Con l’avvento poi dei primi platform game a scorrimento orizzontale, come evoluzione di quelli il cui livello si esauriva nella schermata unica e fissa, pian piano venne introdotta la possibilità di raggiungere località di gioco nascoste alla vista, e non più semplici punti remoti della “tavola vivente” anni ’80: ancora una volta, l’evoluzione di un gioco paradigmatico come la serie di Mario Bros. funge magistralmente da caso esemplare per un’intera generazione di videogame: se nel conclamato Super Mario Bros., già al nostro avatar, da buon idraulico, era consentito raggiungere zone di gioco remoto tramite le tubature sparse qua e là nello spazio di gioco, tra un fungo e una pianta carnivora, successivamente, col secondo episodio della serie, Super Mario Bros. 2, la linearità dei livelli va progressivamente sfaldandosi, consentendo di raggiungere la meta prefissata non più tramite un percorso prefissato, ma offrendo la possibilità di esperire 42 diversi percorsi in veri e propri scenari alternativi; nel terzo episodio, Super Mario Bros. 3, viene fornita, inoltre, una mappa generale dei livelli giocabili, presente anche nel successivo Super Mario World, in cui tutte le precedenti innovazioni vengono sommate e portate all’ennesima potenza, aggiungendo numerosi livelli nascosti e consentendo di termire il gioco con un minimo di dodici livelli giocati fino ad un massimo possibile di novantasei. Sebbene, come abbiamo già visto, negli anni ’70, videogame come Maze War e Star Rider offrissero già strutture di gioco a esplorazione spaziale non propriamente lineare, ci vollero ancora vent’anni prima che queste innovazioni prendessero corpo efficacemente in un unico prodotto, come sarà poi Doom, tanto che si possono considerare anche quelle anticipazioni come delle vere e proprie esplorazioni delle strade percorribili dal videogame allora appena nato, o come illuminanti premonizioni in un’epoca in cui la produzione dell’intrattenimento elettronico non era ancora soggetta alle ferree leggi di mercato, un po’ come le sperimentazioni del cinema delle origini in confonto con l’istituzionalizzazione del mezzo a partire dagli anni Dieci; ed è proprio in quelle ricerche, guidate dalla visionarietà dei pionieri dell’immagine animata, che ritroviamo già radicato il modo di esplorazione spaziale che sarà poi nel first-personshooter per eccellenza. Infatti, ciò che il videogioco texano ha proposto al pubblico del 1993 consisteva in una modalità di gioco del tutto innovativa per l’epoca: per via della visione in prima persona, non vediamo mai le sembianze del nostro avatar, ad esclusione della manoarma, e non vediamo neppure il suo corpo muoversi nello spazio, i suoi arti inferiori calpestare il suolo marziano, a patto di immaginare sempre che Doomguy abbia le fattezze di un uomo. Sebbene nella storia dei videogame la raffigurazione degli organi dei vari personaggi, meccanici o biologici che siano, finalizzati al movimento, non abbia mai costituito l’interesse principale né dei game designer né tantomeno dei giocatori, la possibilità di vedere anche solo abbozzato come si muova il nostro eroe nell’ambiente di gioco di Doom, è una possibilità che viene preclusa a priori, lasciando alla nostra immaginazione il compito di riempire quel vuoto. Non è possibile osservare gli arti inferiori dell’avatar, come d’altronde il resto del suo corpo virtuale, neppure quando, grazie ai perfezionamenti grafici delle schede video, sarà possibile, nel sequel Doom 3, svincolare il movimento nello spazio dal movimento del nostro occhio virtuale, e sarà perciò di conseguenza possibile guardare verso il basso, con l’unico risultato che invece di vedere quale genere di calzature i programmatori hanno riservato per il nostro 43 simulacro elettronico, vediamo solamente il pavimento nudo e crudo senza neppure la nostra ombra, come se l’avatar fosse invisibile, oppure sospeso a mezz’aria, e ciò accade non solo nella serie di Doom ma anche in molti altri celebri first-person-shooters, come Half-Life o Quake. Il corpo del personaggio in sé non ha forma virtuale e neppure dimostra di avere la necessità di essere mostrato: esso è vista che si muove magicamente galleggiando all’interno dello spazio tridimensionale, senza l’ausilio di organi per il movimento, dimostrando quanto l’occhio spartano visualizzato in Maze War abbia saputo anticipare i tempi. L’unica traccia di contatto col suolo è rappresentata dalle superfici nocive, radioattive o laviche, che talvolta incontriamo come fiumi che scorrono qua e là nel gioco, il cui prolungato contatto aggrava la salute del personaggio, senza però intaccare la stabilità della visione con movimenti o sobbalzamenti, come se si trattasse più di una sorta di malessere generalizzato: infatti, come la mano, è la tuta antiradiazione con la propria forma a ricordarci che quello che stiamo utilizzando è un essere dalle fattezze antropomorfe, anche se la sua acquisizione nel corso del gioco si riscontra solo a livello visivo in quanto la vista si ricopre di una sorta di patina verdognola, mentre sul piano fisico non v’è traccia del nostro nuovo capo d’abbigliamento. L’eroe letteralmente galleggia sul suolo facendo ondeggiare l’arma a destra e a sinistra, sobbalzando meccanicamente come potrebbe farlo una giostra, senza essere influenzato dall’ambiente esterno, neppure quando sono i nemici a colpirci, i cui colpi si limitano a spostare il punto di vista, come se fosse sempre e costantemente rigido come una statua; solo in caso di morte il punto di vista cala morbidamente ed innaturalmente verso il suolo, a simulare la caduta del corpo che, a dire il vero, sembra più una specie di collassamento su sé stesso, come se all’improvviso a Doomguy venissero meno le ossa diventando un corpo molle. Il galleggiamento non viene neppure perturbato dalla sua quiete quando, invece di “camminare” a velocità normale, schiacciamo il tasto della modalità di corsa veloce che ci permette di percorrere lo spazio al pari del “figlio del vento” Carl Lewis: suggerendoci ancora una volta la natura non-umana dei poteri del nostro eroe, la vista non subisce alcuna forma di perturbazione svelando come la corsa sia semplicemente una versione accelerata della camminata a passo normale. Tutto ciò che riguarda l’interazione del corpo con l’ambiente ha ripercussione sulla vista e solo su quella, così come tutto ciò che riguarda la vita e la sopravvivenza concerne sempre e comunque il nostro occhio, mentre lo spostamento, ed il mezzo che ne garantisce l’effettiva realizzazione, rimangono sempre un’incognita che non viene mai svelata; il movimento, inteso come dinamicità del punto di vista, ha a che vedere con 44 qualcosa di magico che ci permette di esplorare e conoscere luoghi inaccessibili, in quanto virtuali, alla nostra consueta dimensione d’esistenza: l’accesso alla remota, seppur quanto fantastica, superficie lunare marziana diventa un viaggio in territorio straniero, alla scoperta di misteri sconosciuti, un viaggio in cui il giocatore permane immobile di fronte allo schermo, mentre il suo punto di vista vaga nelle profondità spaziali fornite dall’illusione prospettica, condizione questa che non può non richiamare alla mente l’esperienza del pubblico di inizio secolo nei confronti di una delle attrazioni di maggior successo che la macchina cinema ha saputo proporre in quegli anni di pura libertà creativa, come il genere delle cosiddette phantom rides, ossia le “corse fantasma”: Queste vedute registrano ciò che era divenuto visibile per lo spettatore grazie al cinema, e alle esperienze percettive che lo avevano preceduto. O meglio: esibiscono nuove modalità di visione (...) con la rappresentazione del movimento come artificio, come trucco, come pura simulazione della mobilità acquisita dall’occhio umano. Una simulazione ottenuta al cinema assai presto, com’è noto, grazie ad ingegnosi espedienti di fortuna tra cui spicca quello di piazzare la macchina da presa su una barca per registrare in movimento lo spazio circostante. Ma anche su un treno in corsa, come accadde già all’inizio del 1896 per filmare le inondazioni di Lione, e successivamente i numerosi panorami che prendono spesso il titolo di “Panorama en chemin de fer”, in Francia, o di “Phantom ride” in Gran Bretagna. (...) Lo spettatore del tempo non si aspetta che in questi film il movimento svolga un ruolo “linguistico” o narrativo, o sia in qualche modo funzionale all’azione rappresentata, bensì ne apprezza l’esibizione fine a sé stessa.27 Non vi sono storie da raccontare in questi filmati, nessun aneddoto divertente o sketch improvvisato, poiché il panorama in movimento costituiva di per sé uno spettacolo sufficiente a garantire il diletto del pubblico che poteva gustarsi le componenti dinamiche dell’immagine ripresa dalla testa di un treno (fig. 8 e 9), macchinario che più di ogni altro ha ispirato le fantasie popolari di quell’epoca, in quanto porta d’accesso a mondi remoti e sconosciuti, tramite la velocità che riduceva le distanze, modificando la normale percezione allora conosciuto dello spazio e del tempo. Il movimento di macchina, 27 Dagrada Elena, op. cit., p. 52. 45 inventato dall’operatore al servizio dei Lumière, Alexander Promio, posizionando la sua macchina da presa su una gondola a Venezia per “riprodurre gli oggetti immobili con il cinema in movimento”28, non tardò ad essere applicato nelle situazioni più disparate ai quattro angoli del mondo: dalle riprese dei treni delle località più esotiche, fino ai tram nel centro delle città, come Electric Tram Rides from Forster Square, Bradford del 1902, o le imbarcazioni che percorrevano i corsi d’acqua nelle capitali del mondo, come ad esempio Panorama of Calcutta del 1899: l’importante era rappresentare i paesaggi, meglio se sconosciuti, in movimento, regalando al popolo l’illusione di poter vivere le stesse emozionanti esperienze di viaggiatore ed esploratore che solo pochi benestanti potevano permettersi, come nel caso della celeberrimo Hale’s Tour (fig. 10): Lo scopo di questo “spettacolo” era quello di offrire ai passeggeri riproduzioni accettabilmente fedeli alle scene che avrebbero potuto vedere se realmente avessero attraversato, seduti in un treno, le più pittoresche regioni del mondo. Le riprese che venivano proiettate, infatti, erano effettuate da un treno vero. L’illusione del viaggio doveva essere accentuata dal binario leggermente sconnesso, che provocava dondolii e vibrazioni, e creava così la sensazione della velocità. All’interno del tunnel, un’apposita macchina doveva poi provocare una forte corrente d’aria, che percorreva il vagone da cima a fondo. Si può immaginare che venissero forniti anche dei rumori adeguati – fracasso della locomotiva, fischi, stridori e così via.29 L’immagine proiettata, dunque, non forniva alcun riferimento visivo né della macchina da presa, né del mezzo che consentiva il movimento, ossia il treno, ad esclusione del riferimento indiretto costituito dal binario da percorrere e dalla linea di pali telegrafici al suo fianco, un po’ come l’altra giostra da fermo dell’epoca, il Cineòrama, apparso all’esposizione universale di Parigi, che simulava l’atterraggio a bordo di una mongolfiera, tramite la proiezione contemporanea su dieci schermi dalle dimensioni di nove metri per nove sulla superficie del tendone che circondava la folla di spettatori, fino 28 Sadoul Georges, Histoire générale du cinéma, vol II: Les pionniers du cinema (1832 – 1909), Paris, Editions Denoel, 1947-1948, p. 263. 29 Fielding Raymond, Hale’s Tours, Ultra-Realism in the pre-1910 Motion Picture, citato in Burch Noël, op. cit., pp. 40-41. 46 a duecento, posizionati in un simil-cesto da mongolfiera da cui assistere allo spettacolo30: anche in questo caso le immagini, riprese da un certo numero di cineprese poste al di sotto del mezzo, non presentavano alcun riferimento al mezzo di trasporto né tantomeno alle macchine da presa, pena la malriuscita della simulazione. Entrambi, Hale’s Tour e Cineòrama, si proponevano quindi come una vera e propria simulazione della vista possibile a bordo di questi mezzi di trasporto: le corse su rotaie vennero definite phantom perchè queste visioni non provvedevano a fornire alcuna traccia visibile del macchinario all’interno del quadro, come se il soggetto vedente non fosse dotato, come i fantasmi, di un vero e proprio corpo fisico, il quale d’altronde non è mai visibile, mentre il suo incedere nello spazio risultava perfettamente lineare, proprio come gli ectoplasmi che nell’immaginario comune galleggiano nello spazio privi di qualsiasi organo per il movimento; il termine ride, corsa intesa nel senso di cavalcata, serviva proprio a sottolineare l’utilizzo di un mezzo di trasporto che fornisse visioni inconsuete per quell’epoca, in cui la velocità di scorrimento impediva di cogliere e fissare i dettagli del paesaggio, mentre il movimento in sè costituiva l’attrazione principale. E’ soprattutto nel corso del XIX secolo che il lento processo di trasformazione dello sguardo giunge ad una svolta decisiva. Sia perchè in quel periodo queste macchine della visione si perfezionano e si moltiplicano (...), sia perchè il loro destino si intreccia con i mutamenti culturali prodotti dall’avvento del progresso industriale. In particolare, incrociano sul loro cammino l’avvento della ferrovia, ed il conseguente capovolgimento nella percezione dello spazio e del tempo provocato da questa macchina per eccellenza, che svolge un ruolo fondamentale in quel processo che è stato definito di “panoramatizzazione” dello sguardo (...) celebrando la nascita di un nuovo tipo di spettatore, a ragione definito “viaggiatore immobile”.31 Gli spettatori di questi spettacoli di “corse fantasma” erano immobili di fronte ad una rappresentazione priva di un soggetto totalmente esplicitato, come sarà poi per il giocatore di Doom, con l’unica differenza che il gioco dell iD Software trasforma la passività del cinema nell’interattività del videogame, grazie ad una interfaccia di 30 31 Si veda Cinéorama in www.wikipedia.org; ultima visita al 30/10/08. Dagrada Elena, op. cit., p. 23. 47 controllo che permette di decidere dove debba dirigersi il “treno”, e non più ammirando inermi lo scorrere dello spazio in un percorso prefissato. Il giocatore, al giorno d’oggi, è diventato ancor più viaggiatore immobile, lasciando il proprio occhio in testa al treno e fondendo il proprio corpo fisico con quello virtuale e meccanico di esso, diventando il macchinista di se stesso ed acquisendo così la possibilità di controllare velocità e direzione del movimento. Cavalcare, ride, in spazi sconosciuti si è rivelato essere un tratto comune di questa modalità di visione, ancora di più nel movimento sussultorio dell’avatar di Doom che ricorda inevitabilmente la visione a bordo di un cavallo, mantenendo così, sempre in auge, il mito dell’esploratore in terre esotiche, il quale si muove nello spazio senza sapere cosa gli si prospetterà davanti agli occhi da un momento all’altro, fornendo quell’adrenalina mista a terrore, di cui la generazione degli sparatutto in prima persona sarà ghiotta. E proprio come le phantom rides faranno proprio lo spazio Lumière, in cui la profondità di fuoco ravviverà il sistema prospettico rinascimentale, rendendo ancora una volta la superficie del quadro trasparente e virtualmente oltrepassabile, così alla iD penseranno bene di riproporre la costruzione di ambienti a tre dimensioni, sebbene non sia un vero e proprio 3D, per catapultare come un proiettile il giocatore all’interno dello spazio rappresentato, il quale, grazie al movimento, diviene praticabile: come i videogiochi in prima persona hanno portato una rivoluzione nel videogame moderno, sfondando la piatta superficie bidimensionale dei giochi arcade degli anni ’80, così le phantom rides, assieme a tutta una gamma di pellicole del cinema di allora, ed in particolare quelle della cosiddetta “scuola di Brighton” inglese, puntavano a sfondare il quadro autarchico di derivazione teatrale che caratterizzava gran parte della produzione cinematografica del tempo, lo spazio bidimensionale, per così dire, alla Méliès, che distaccava lo spettatore dallo schermo invece che risucchiarlo dentro l’immagine32: il posto fisso al centro della platea di fronte alla rappresentazione piatta aveva sempre relegato l’interazione con lo schermo ad un rapporto psicologicamente distaccato, in cui la distanza dall’immagine era ben garantita dalla limitata profondità della struttura teatrale palco-sfondo, rendendo di fatto l’immagine piatta ed abrogando l’illusione prospettica conseguente alla visione monoculare della macchina da presa: lo spettatore veniva così pesantemente estromesso e tenuto a distanza dalla scena, eliminando ogni sorta di continuità fisica e psicologica con la sala. 32 Si veda Burch Noël, op. cit. 48 Come i registi della scuola di Brighton puntano le proprie ricerche verso un avvicinamento simbolico ed un accentramento psicologico dello spettatore rispetto alla rappresentazione, tramite l’incremento del suo ruolo creativo nel processo di fruizione dell’immagine, così le phantom rides inglesi, accanto alle strutture architettoniche di messa in scena costruite per fornire una cornice fisica alla fruizione all’immagine già di per sè soggettivante, come nel caso dell’Hale’s Tour o del Cineòrama, puntano ad eliminare le distanze dal pubblico facendo sparire il soggetto vedente, ossia eliminando ogni riferimento indiretto e diretto alla macchina da presa, e spostando quindi l’attenzione verso l’esplorazione visiva del paesaggio, in cui l’immagine in movimento, che già di per sé costituiva un’attrazione, si “autocrea” scorrendo nello spazio, senza alcun tipo di messa in scena o di meccanismo narrativo utile a suggerire le articolazioni della vicenda rappresentata, pareggiando così il bagaglio cognitivo dello spettatore a quello dell’operatore e della sua macchina da presa: la mancanza di un soggetto visibile a cui attribuire la visione dell’immagine e, contemporaneamente, la mancanza di una figura umana in cui immedesimarsi o conferire qualche forma di aspettativa, fanno sì che l’aspetto narrativo della rappresentazione venga schiacciato e soppresso dalla sempre nuova istantaneità dello scorrere del paesaggio, come se il soggetto percipiente non stesse vedendo un racconto, una storia vissuta e/o fittizia, predigerita come linguaggio e proposta come trasposizione di evento passato, ma bensì stesse esperendo una vera e propria realtà analoga e contigua alla propria, facendo dimenticare al pubblico di allora, per qualche istante, che quel genere di viaggi potevano essere intrapresi solo dai ricchi dell’epoca e non di certo dalla classe proletaria. Non è un caso infatti che nell’Hale’s Tour: La parte anteriore del vagone è aperta, e permette al pubblico di contemplare le immagini prese da un cinepresa sistemata sul cacciapietre di una locomotiva in movimento e ora proiettate su di uno schermo, da una cabina situata un poco più in alto e più indietro rispetto al vagone. Le dimensioni dello schermo e la distanza tra questo ed il proiettore sono tali che l’immagine copre l’intero campo visivo di coloro che occupano il vagone e risulta dunque a “grandezza naturale”.33 33 Fielding Raymond, op. cit., citato in Burch Noël, op. cit. 49 Infatti, questo genere di pellicole non venivano concepite e fruite come una realtà altra, una dimensione immaginaria in cui gli eventi rappresentati accadono senza intaccare la dimensione dell’osservatore, ma bensì come continuazione dello spazio della sala di proiezione, opponendo al concetto di rappresentazione quello di simulazione, come spiegato molto lucidamente da Lev Manovich: La cornice dello schermo separa due spazi che hanno scale dimensionali diverse: lo spazio fisico e lo spazio virtuale. (...) La tradizione alternativa di cui fa parte la realtà virtuale si ritrova tutte le volte che la scala di rappresentazione è identica a quella dell’ambiente umano, per cui i due spazi diventano continui. È la tradizione della simulazione, anziché quella della rappresentazione dominata dalla presenza di uno schermo. La tradizione della simulazione mira a mescolare, anziché a separare, lo spazio fisico e lo spazio virtuale. Perciò i due spazi hanno la medesima scala dimensionale, il loro confine viene sminuito. (...) Se nella tradizione simulatoria lo spettatore esiste in uno spazio unico e coerente (...) nella tradizione rappresentativa lo spettatore assume una doppia identità, esiste simultaneamente nello spazio fisico e nello spazio rappresentativo.34 Nel genere delle phantom rides, ed in particolare nell’Hale’s Tour, o nello stesso Cineòrama, la continuità con lo spazio rappresentato è fondamentale a garantire l’effetto di simulazione della visione, e ciò viene permesso grazie all’uso di uno schermo la cui grandezza scalare delle proporzioni spaziali sia identica a quella della dimensione umana, come negli affreschi che sfruttano l’illusione prospettica simulando una continuità tra lo spazio fisico e quello raffigurato. Il vagone ricostruito tutt’attorno all’immagine, assieme a tutta quella di gamma di rumori e suoni, di sobbalzamenti e folate di vento, serviva proprio a rafforzare l’impressione che l’immagine in movimento non fosse altro che la reale vista percepita dal treno, e che in fondo non vi fosse alcuna proiezione. Il soggetto vedente, ossia la macchina da presa, e quello movente, ossia la locomotiva, spariscono, mentre l’immagine si dà allo spettatore come una percezione reale, ed in questo modo è come se lo spettatore si calasse nell’occhio della macchina da presa vivendo l’immagine in tempo reale, diventando il protagonista della visione, l’occhio che galleggia privo di 34 Manovich Lev, The Language of New Media, Cambridge, The MIT Press, 2001 (tr. it. di Roberto Merlini, Il linguaggio dei nuovi media, Milano, Olivares, 2002), pp. 150-151. 50 fisicità in mondi esotici, proprio come nel videogioco della iD: Doom e la sua soggettiva non rappresentano l’organo diegetico con cui il giocatore muove il proprio avatar, ma pretendono che sia il giocatore stesso a muoversi nello spazio rappresentato, rendendolo protagonista della visione; allo spettatore delle origini non è concesso di vedere le sembianze del soggetto vedente montato sul mezzo di trasporto, la macchina da presa in testa al treno, così in Doom il corpo di Doomguy non viene mai visualizzato direttamente, ma solo con riferimenti indiretti, come la mano che ondeggia, così a cavallo del XX secolo, in cui solo la costante presenza delle rotaie e dei pali del telegrafo potevano suggerire la natura della visione: lo scopo di entrambe le strategie cognitive nei confronti dello spettatore è quello di massimizzare sì il più possibile la mediazione da parte della macchina, ma, contemporaneamente, anche quello di minimizzare la consapevolezza di questa mediazione nello spettatore, dato che l’interfaccia uomo-macchina, mai come in una simulazione, costituisce solo una scomoda barriera fisico-psicologica tra la percezione visiva e l’immagine, e necessita di essere soppressa il più possibile. L’utilizzo del treno come carrello per la macchina da presa fissata alla sua estremità garantiva alle phantom rides riprese iperstabili e fluide, minimizzando i riferimenti visivi diretti al mezzo di trasporto che aveva reso possibile questa visione così “fantasmatica”, in modo da de-soggettivizzare il più possibile la rappresentazione rendendola potenzialmente una simulazione di viaggio, come succederà nelle strutture appositamente costruite; a distanza di decenni, non è un caso che il primo genere di videogame che abbia messo in campo un ambiente tridimensionale percorribile sia stato proprio quello della guida, a partire dalle prime esperienze di Star Rider fino al più recente e fondamentale Hard Drivin’, gioco edito dalla Atari Games nel 1988, il quale può essere considerato a pieno diritto il primo vero simulatore di guida vero e proprio, in quanto dotato di un cabinato appositamente creato per la fruizione arcade, il quale riproduceva fedelmente l’abitacolo di un’autovettura, con manopola del cambio, cruscotto e pedali, inaugurando un fortunato genere che avrà come successori dapprima il vertiginoso Virtua Racing, fino ad arrivare alla serie di Gran Turismo, simulatore di guida per antonomasia. Così anche Doom può essere, a tutti gli effetti, considerato un gioco di guida, di guida “umana” per intenderci, in cui non abbiamo gomme, freni o fenomeni di aquaplaning da gestire, ma invece dobbiamo percorre lo spazio tridimensionale del livello dal punto a al punto b, ben visualizzabili sulla cartina (fig. 11), con due “marce” disponibili, ma con la possibilità, anzi, il dovere, di usare il nostro “machete”, pugno o pistola che sia, per aprirci una strada in mezzo alla selva di nemici. 51 Il nostro eroe, ancora una volta, dimostra di non assomigliare tanto ad un essere umano, quanto invece ad una macchina su cui vengono montate a turno le armi di cui disponiamo; e questa impressione è ancora più rafforzata in caso di sconfitta: invece di annebbiarsi la vista, di stramazzare senza forze al suolo, Doomguy si accascia dolcemente al suolo mantendo gli occhi aperti, continuando cioè a percepire le informazioni luminose e spaziali dell’ambiente di gioco, perdendo invece ogni forma di mobilità ad esso legata, quindi la possibilità di ruotare su se stesso e di vagare nello spazio, come se il nostro arma-mirino-vista, al momento del decesso, si disancorasse semplicemente dal marchengigno che fino ad allora gli aveva consentito la motilità, “smontando” letteralmente dal treno immaginario (fig. 12). La vista in soggettiva, prospettica e quindi assoluta35, non muore mai, mantenendo, al contrario, intatta la sua funzionalità, anche quando Doomguy perisce, rivelandoci in questo modo che l’essenza della vita in Doom sta proprio nella mobilità del punto di vista: vivere significa poter volgere lo sguardo ed eplorare con esso spazi nuovi, percepire con l’occhio sì immobile ma montato su di un dispositivo per il movimento, proprio come gli operatori cinematografici della prima ora montavano la loro macchina da presa sul cacciapietre di treni che percorrevano i territori di tutto il mondo. In entrambe le forme di rappresentazione, percepire come visione è indissolubilmente legato alla possibilità di spostamento del punto di vista, e solo la coesistenza di questi due elementi possono garantire allo spettatore, nel caso del cinema, ed al giocatore, nel caso del videogame, il viaggio tramite l’immagine e tramite l’immaginazione da essa stimolata, seduti entrambi nella propria poltrona, nel mito del Viaggio Immobile, redivivo grazie all’avvento del videogame in prima persona, ben diverso dal concetto di trasporto inteso come delegamento emotivo al personaggio, tipico del cinema istituzionale, in cui la presenza dello spettatore nella rappresentazione si realizza solo su di un piano psicologico in qualità di voyeur, spione impotente ben escluso dalla vicenda. Doom recupera quella dimensione partecipazionale implicita in quelle primitive vedute panoramiche tanto famose all’epoca, che facevano sognare il popolo oppresso dalle ambizioni del sistema capitalistico, tuttavia cambiandone radicalmente la prospettiva e trasformando quelle visioni così eteree e paradisiache nella vischiosità malata di un inferno da cui scappare con l’uso della violenza, secondo il gameplay proposto da Doom, sempre, però, tramite l’utilizzo degli stessi macchinari, quali la macchina da presa ed il treno, questa volta comodamente digitalizzati nel pc di casa. Se 35 Si veda Panofsky Erwin, op. cit., p. 70. 52 allora occorreva allestire una convincente quanto verosimile scena attorno alla rappresentazione per rafforzare l’impressione di essere proprio sul treno su cui era montata la cinepresa, così, al giono d’oggi, basta appoggiare le mani sul sistema di controllo per essere catapultati sul nostro treno immaginario armati fino ai denti con lo scopo di rendere silenzioso come il paradiso anche un posto rumoroso come l’inferno. 53 3: Il dispositivo tecnologico 54 3.1: Il cyborg ed il torpore dei sensi “The conscious man is dead And I buried him Beneath this scarred tissue Armored skeleton The machine is now alive Desensitized with open eyes” Fear Factory, H-K (Hunter-Killer) La nascita del cinema ha coinciso non solo con l’avvento di tutto quel bagaglio di tecnologie con lo scopo di impressionare su di un supporto sensibile le radiazioni luminose provenienti dalla porzione di mondo inquadrato dalla macchina da presa, ma anche, dall’altro versante, con la necessità sia di costruire un dispositivo necessario alla proiezione delle riprese effettuate su di una superficie piana, che di predisporre di un ambiente ideale ove poter fruire di tale spettacolo luminoso. In questa problematica il cinema poteva godere di illustre predecessore, il prassinoscopio di Reynaud, che, pochi anni prima della proiezione dei fratelli Lumière al Grand Café di Parigi, era già riuscito a proiettare le prime immagini in movimento su di uno schermo accessibile ad un grande pubblico. Come sappiamo, nonostante le innovazioni tecniche che Reynaud riuscì ad apportare al proprio marchingegno, lo scorrimento delle immagini risultava ancora troppo imperfetto, mentre il ritmo dal canto suo andava eccessivamente a rilento; ben presto, altri inventori riuscirono a creare delle apparecchiature in grado di ottenere gli stessi risultati del prassinoscopio ma con sistemi più semplici ed economici, tanto da far chiudere i battenti a questo pioniere dell’immagini in movimento36. Le prime sale di proiezione della storia del cinema non erano ancora ambienti predisposti a tale scopo: le pellicole venivano proiettate un po’ ovunque, a condizione che l’ambiente fosse al chiuso per garantire il necessario contrasto tra la luce proiettata e l’oscurità della sala; gli ambienti prediletti erano quindi i “café” parigini, ove già erano in programma numerosi spettacoli culturali, i teatri, la cui forma poteva garantire ad un vasto pubblico di poter godere dello spettacolo, i tendoni da circo, soprattutto quando il 36 Bordwell David e Thompson Kristin, Film History: An Introduction, Columbus, McGraw-Hill, 1994 (tr. it. di Paola Bonini, Cinema come arte: teoria e prassi del film, Milano, Il Castoro, 2003), p. 47. 55 cinema inziò il suo fortunato matrimonio con lo spettacolo circense con cui presenta ancor’oggi una notevole affinità tematica e compositiva, e numerose, anzi, numerosissime sale improvvisate che potevano essere anche delle semplici stanze in mano ai primi gestori, le quali, dopo l’esplosione di popolarità del mezzo cinematografico, sorgevano un po’ ovunque. Man mano che l’industria cinematografica prese corpo, sorse anche la necessità di sistematicizzare i proventi delle sale creando degli ambienti sicuri e confortevole accessibili anche per le fasce di pubblico medio-elevato, come ben ci racconta Noël Burch nel suo Lucernario dell’infinito: ...per i primi dieci anni il cinema fu una sorte di “teatro dei poveri”, capace di attrarre quasi esclusivamente le classi lavoratrici (operai ed artigiani) dei centri urbani...37 Le sale erano soprattutto considerate dei luoghi pericolosi per via degli incendi che frequentemente avvenivano nel corso delle proiezioni, tra cui il tristemente noto incendio del Bazar de la Charité del 1897, in cui persero la vita parecchi esponenti del mondo parigino: La paura degli incendi causati da incidenti di proiezione era per la verità ampiamente giustificata: la maggior parte delle apparecchiatura utilizzavano solo pellicole al nitrato e lampade all’acetilene o al gas di città, ovvero la più esplosiva delle combinazioni. [...] è comunque ragionevole supporre che quell’incidente (del Bazar) abbia contribuito, in un primo tempo, a filtrare socialmente il pubblico del cinema...38 Tuttavia, sorprende, e commuove, il fatto che, nonostante ciò, le classi più povere continuassero ad andare a quegli spettacoli sprezzanti della minaccia incombente: ...questa paura riguardava esclusivamente le classi sociali per le quali il rischio fisico non costituiva una condizione naturalmente connessa alla vendita della propria forza 37 38 Noël Burch, op. cit., p. 45. Noël Burch, op. cit., p. 49. 56 lavoro. Per l’operaio le cose andavano ben diversamente, soprattutto in un’epoca di capitalismo selvaggio, quando l’incidente sul lavoro [...] era un fatto più comune di quanto lo sia oggi. [...] Pericolo e disagio erano invece il pane quotidiano per il lavoratore manuale [...] In confronto a tutto questo, il cinema, nonstante il fumo, la cattiva aerazione, il sudore dei corpi, nonostante la scomodità delle sedie e l’ambiente 39 non dei più civili, poteva passare per un piacevole luogo di svago Questo erano le sale cinematografiche di allora. Probabilmente, la progressiva trasformazione da questa tipologia a quella moderna, ossia sala totalmente buia, con sedili comodi e disposti in modo tale che gli spettatori delle file posteriori possano godersi lo spettacolo senza maledire lo spilungone seduto proprio nel sedile davanti a loro, è dovuto ad una serie di cause, e non solo all’inumanità delle sale degli albori; probabilmente, il sempre maggior grado di complessità del linguaggio cinematografico ha via via richiesto una maggiore partecipazione intellettuale del pubblico, costretto sempre più a fruire del film racchiuso nella propria interiorità e ad evitare distrazioni esterne che possano far perdere qualche passaggio fondamentale, come un vicino di sedia chiacchierone, con schermi sempre più grandi in modo da catalizzare il più possibile l’attenzione ed una comoda poltrona in cui abbandonare il proprio corpo. Da ambiente sociale in cui poter interagire con le persone presenti in sala, fruire appieno dello spettacolo cinematografico è diventato con gli anni un fatto di isolamento ed alienazione. Oggi, nonostante il continuo perfezionamento delle tecniche di ripresa e proiezione, l’atteggiamento del pubblico nelle sale sta ritornando paradossalmente a quello delle origini, grazie alla politica delle multisala americane che svilisce il film da opera d’arte a passatempo tra un acquisto e un gelato, rendendo distratta e chiassosa la fruizione generale del film, mentre solo nelle sale “all’antica”, cioè edifici adibiti esclusivamente alla proiezione e fruizione di pellicole, si ritrova ancora una certa “religiosità” nell’assistere alla magia del proiettore. Ma, come ogni prima volta che si rispetti, essa sa configurare, ed allo stesso tempo rivelare, le strutture e le motivazioni più profonde che soggiacciono dietro la propria invenzione; così, le prime sale di proiezione, prese in prospettiva ed in rapporto con quelle attuali, ci rivelano inaspettate proprietà che un gesto così comune e banale sembra non poter possedere. La sala di oggi e quella di ieri non sono due modi differenti di fruire di un film, quanto piuttosto le facce della stessa medaglia, ed ognuna sa essere 39 Noël Burch, op. cit., p. 50. 57 rivelatrice in negativo degli aspetti dell’altra. Se prendiamo in considerazione le caratteristiche principali della visione in sala, quali la fissità dello spettatore, il buio avvolgente e lo schermo posto di fronte alla platea, niente è stato realmente inventato rispetto a come si proiettavano i film agli inizi, ma, piuttosto, si può parlare di evoluzione a partire da una base prefissata, come un bambino ha già in sé tutto ciò, organi e informazioni di crescita, che gli servirà nel corso della crescita per diventare adulto: le epoche e le esigenze sociali, oltre che le innovazioni tecnologiche, hanno cambiato le tecniche, la durata, la costruzione narrativa, gli schermi ed il suono, ma non hanno cambiato nel profondo ciò a cui gli spettatori dell’inizio del ‘900 potevano assistere rispetto a quello a cui assistiamo noi del ventunesimo secolo. Le sale cinematografiche si sono evolute, passando da ambienti poco raccomandabili a comode e tranquille sale d’intrattenimento, ma tuttavia in esse non è cambiato sostanzialmente il modo di vedere lo schermo ed essere coinvolti da quella magica esperienza che è il cinema, fin dalle sue origini. Per analizzare l’esperienza di fruizione all’interno della sala di proiezione ci vengono in aiuto le considerazioni sull’avvento dei nuovi media tecnologici che Marshall McLuhan fa nel suo Strumenti del comunicare, che, nonostante l’anno di pubblicazione remoto, il 1964, ben si adatta ai fini della nostra ricerca. Dapprima, egli analizza il mito di Narciso come metafora dell’avvento delle nuove tecnologie: Il mito greco di Narciso riguarda direttamente un determinato aspetto dell’esperienza umana, come dimostra la provenienza del nome stesso dal greco “narcosis”, che significa “torpore”. Il giovane Narciso scambiò la propria immagina riflessa nell’acqua per un’altra persona. E questa estensione speculare di sè stesso attutì le sue percezioni sino a fare di lui il servomeccanismo della propria immagine estesa o ripetuta. [...] Il senso di questo mito è che gli esseri umani sono soggetti all’immediato fascino di ogni estensione di sè, riprodotta in un materiale diverso da quello stesso di 40 cui sono fatti. Narciso è come l’uomo che osserva lo schermo cinematografico: l’immagine di sé riflessa nell’acqua rappresenta l’estensione di sé che l’uomo non riesce a riconoscere 40 Burch Noël, La lucarne de l’infini. Naissance du langage cinématographique, Paris, Editions Nathan/Her, 1990 (tr. it. di Paola Cristalli, Il lucernario dell'infinito. Nascita del linguaggio cinematografico, Milano, Il Castoro, 2001), p. 51. 58 come propria: il fascino che questa induce nel soggetto vedente spinge la mente a creare una sorta di “circuito chiuso” tra l’immagine riflessa e l’occhio percipiente che riduce l’intera sensibilità del corpo al solo senso della vista, a scapito ovviamente degli altri sensi i quali vengono, per appunto, narcotizzati sino a farne dimenticare la presenza. Già a questo punto possiamo trovare delle analogie con la fruizione cinematografica in quanto esso richiede l’utilizzo di un solo senso, massimo due, vista e udito, e contemporaneamente spinge a dimenticarsi delle sensazioni provenienti dagli altri: tatto, gusto e olfatto non servono e di conseguenza vengono “soppressi”, ossia narcotizzati. Non a caso, l’evoluzione delle sale di proiezione ha puntato proprio a consentire il maggior abbandono possibile del corpo, con poltrone sempre più larghe e comode, oltre che a creare un’oscurità pressochè totale nella sala, l’oscurità tipica della stanza da letto che induce, per l’appunto, al sonno. La sala rappresenta quindi un ambiente ove riposare la propria sensibilità, in contrapposizione allo stress causato dai ritmi ed esigenze della civiltà industriale, infatti: Studiosi di medicina come Hans Selye e Adolphe Jonas sostengono che tutte queste estensioni, sia in salute che in malattia, non sono che tentativi di conservare l’equilibrio. Esse le considerano “autoamputazioni” e ritengono che il corpo ricorra al potere o alla strategia autoamputativa quado la sua percezione non riesce ad individuare o ad evitare la causa dell’irritazione. [...] Nella tensione fisica dovuta ad un sovrastimolo di qualunque tipo, il sistema nervoso centrale, al fine di proteggersi, provvede strategicamente ad amputare o isolare l’organo, il senso o la funzione molesta. In questo conteso lo stimolo ad una nuova invenzione è lo stress 41 dell’accelerazione del ritmo e dell’aumento del carico. Lo stress indotto dall’accelerazione del ritmo di vita, sopraggiunto con l’avvento dell’epoca industriale, comporta l’invenzione di nuove tecnologie che garantiscano l’amputazione del senso sovrastimolato; come l’uso di un mezzo a motore salvaguarda l’uso degli arti inferiori dal compito gravoso di trasportare delle merci, così i nuovi media salvaguardano il sistema nervoso centrale dal compito di vivere una vita così alterata dai ritmi naturali. La parte del corpo più stimolata è dunque il sistema nervoso centrale che gestisce tutti i sensi, ed il corpo, a sua volta, lo protegge dalle variazioni di stimolo 41 Marshall McLuhan, op. cit., p. 52. 59 eccessive dell’ambiente esterno; guardacaso, in sala di proiezione, è proprio il corpo che subisce la maggior narcotizzazione. Il cinema sembra essere diventato ora, in parte, un’invenzione necessaria al fine di creare del comfort per alleviare le sofferenze subite dal corpo, sia a livello fisico che psichico; entrare in sala vuol dire, sia per lo spettattore di allora che per quello di oggi, estraniarsi dal peso della vita moderna, attraverso il comfort della sedia ed il buio della sala. Tuttavia, l’unico senso che rimane in funzione è quello della vista. La vista è per eccellenza il senso che amputiamo da noi stessi nel momento in cui assistiamo ad una proiezione per subire passivamente le immagini già predisposte dello schermo, per vivere la nostra estensione. In sala, cambia totalmente l’equilibrio tra i sensi, il corpo viene abbandonato mentre la vista diventa un circuito chiuso con le informazioni luminose delle immagini, come Narciso che, innamorato della propria immagine riflessa, si intorpidisce nel corpo sino a farlo diventare un meccanismo insensibile il cui unico scopo è di servire la funzione della vista: Una volta amputato, ogni organo diventa un circuito chiuso di grande intensità [...]. Per contemplare, utilizzare o percepire qualsiasi estensione di noi stessi in forma tecnologica è necessario riceverla […] E’ l’ininterrotta ricezione della nostra tecnologia nell’uso quotidiano che, nel rapporto con queste immagini di noi stessi, ci 42 pone nella posizione narcisistica della coscienza subliminale e del torpore. La tecnologia, ed in questo caso lo scorrere delle immagini sullo schermo, creando un circuito chiuso a livello visivo, da una parte addormenta il corpo, e dall’altro, parallelamente, spinge lo spettatore a racchiudersi nella propria interiorità, a prenderne coscienza, come se egli si fosse risvegliato in altro mondo: L’effetto narcotico della nuova tecnologia [...] tende a cullare l’attenzione mentre a sua 43 volta la nuova forma chiude violentemente le porte del giudizio e della percezione 42 43 Marshall McLuhan, op. cit., p. 56. Marshall McLuhan, op. cit., p. 73. 60 Nel momento di visione in sala, mentre lo spettatore scopre ed esplora la propria interiorità, contemporaneamente chiude la percezione del mondo esterno ed il giudizio che ne dà di esso, e ciò potrebbe spiegare perché, posto di fronte ad uno spettacolo così lontano dalla propria vita quotidiana, egli smetta di giudicare le immagini come irreali, ma, al contrario, inizi a partecipare emozionalmente al flusso narrativo del film. Le condizioni di visione imposte dalla sala cinematografica favoriscono, quindi, la sospensione dell’incredulità nell’immagine, spingendo lo spettatore a creare una stretta interazione tra la propria interiorità e l’immagine mostrata, narcotizzando il corpo e risvegliandolo, parallelamente, in un’altra realtà. Il torpore è narcosi dei sensi a patto che il soggetto non prenda coscienza di sé e della reale natura delle estensioni, ossia che esse non sono altro che prodotti creati dall’uomo, il che porterebbe inevitabilmente il soggetto a disconoscere l’estensione come Altro da sè. Narciso, infatti, si innamora della propria immagine proprio perchè non riconosce che essa riflette semplicemente sè stesso, come d’altronde il cinema fa con l’uomo. Lo spettatore in sala di proiezione usufruisce di una tecnologia, considerata come estensione di sé, che lo porta a chiudersi ed esplorare la propria interiorità: questo fenomeno risale fino agli albori della civiltà scientifica, e che può essere accostato a tutti i media con cui l’uomo, da allora, ha avuto a che fare, compreso il cinema: [...] Il corpo è stato “il primo e il più naturale strumento dell’uomo”. Successivamente, in seguito ad una sorta di specializzazione funzionale, si sono verificati nella storia dell’umanità (e dell’immagine dell’uomo) due modelli evolutivi rispetto ai quali il corpo ha cominciato a funzionare soltanto da cornice, da frontiera: [...] possiamo riferirci ad un evoluzionismo eso-somatico che, a partire dalla mano-utensile, si è sviluppata, appunto, fuori dal corpo, incarnandosi in una serie di protesi dei diversi sensi dell’uomo [...], e di un evoluzionismo intra-somatico che, a partire dalla faccialinguaggio, si è sviluppata come pensiero all’interno dell’uomo.44 La specializzazione funzionale ha inizialmente creato una scissione tra la tecnologia ed il corpo, e tra il pensiero ed il corpo stesso: se da un lato si è assistito alla progressiva ricerca di nuovi ritrovati tecnologici che potessero sostituire le facoltà 44 Pecchinenda Gianfranco, Videogiochi e cultura della simulazione: la nascita dell'homo game, Roma, Laterza, 2003, p. 54. 61 sensoriali, come il cinema lo è per l’occhio e la memoria, così dall’altro le facoltà celebrali e le sue funzioni, sono state oggettivate separandole dagli organi veri e propri: [...] la funzione di percepire, pensare ed osservare [...] si presentò innanzitutto come una componente dell’uomo al pari del cuore, dello stomaco e del cervello, come una sorta di sostanza priva di sostanza nell’uomo; l’atto di pensare si condensò nella rappresentazione di un “intelletto”, di una “ragione”. 45 A partire dal Rinascimento, l’intelletto umano venne sempre di più considerato nella sua funzionalità meccanica di interpretazione del dato sensibile, al pari di un normale organo interno: espandere la capacità tecnico-sensibile del corpo significò di conseguenza espandere le capacità intellettuali-cognitive della mente. Il corpo trova nuova vita nella tecnologia che amplifica i suoi orizzonti di conoscenza, dal cannocchiale fino alla cinepresa: la percezione del mondo si estende quando il corpo cessa la propria originaria esistenza per fondersi con le tecnologie; esso diventa frontiera tra la mente ed i nuovi organi di percezione espansa: L’ibridazione tra uomo e tecnologia [...] si realizza nel cyborg. [...] Il cyborg che esce da se stesso come i mistici e gli allucinati della tradizione religiosa, ma in senso letterale e fisico, non più solo mentale ed immaginativo. La sua estasi (ex-stasi, stare fuori da sè stessi, uscire da sé) non è piu un’esperienza eccezionale e straordinaria, è una condizione quotidiana. [...]Ecco perché la sua esperienza non può essere la stessa dell'uomo tradizionale. [...] Chi vive con il cervello fuori dalla testa e i nervi fuori dalla pelle, per usare l’espressione di McLuhan, non sa più che cosa voglia dire interiorità rispetto all’esteriorità, vive in una condizione di estasi continua.46 Seppur estremo, il cyborg sembrerebbe quindi il modello a cui tenderebbero tutti i media tecnologici della nostra epoca, quello dell’uomo fuso con la tecnologia, che 45 Elias Norbert, La società degli individui, 1990, Il Mulino, Bologna, citato in Pecchinenda Gianfranco, op. cit. 46 Caronia Antonio, Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale, Milano, ShaKe, 2001, citato in Pecchinenda Gianfranco, op. cit. 62 rinuncia al corpo per poter usufruire delle macchine che gli garantiscono la percezione di una nuova realtà, più espansa e completa della prima. Il corpo muore, ma la mente sopravvive, per vivere in una condizione permanente di estasi in cui l’interiorità si sovrappone all’esteriorità in un’unica visione allucinata, una sorta di paradiso, proprio come in sala di proiezione: da una parte il corpo viene abolito, mentre, dall’altra, esso viene sostituito con una realtà risultante dalla fusione tra l’informazione esterna, proveniente dallo schermo, e l’autopercezione interna, dovuta alla desensibilizzazione di tutti i sensi tranne la vista. Confrontando ora le modalità di fruizione che caratterizzano il cinema ed il videogame, risulta evidente quanti elementi il secondo abbia ereditato dal primo, fin dalle originarie esperienze del televisore, primo medium di immagini dinamiche ad essere entrato nelle case delle gente, diventando contemporaneamente il primo schermo per pc e console casalinghe accessibili al grande pubblico. Come in sala, anche nel salotto di casa sono gli stessi i requisiti per vedere al meglio le immagini provenienti dal tubo catodico: rimanendo fedeli alla tradizione visiva iniziata fin dai tempi della camera oscura, la fissità dell’osservatore si realizza nella fissità dello schermo e dell’elemento d’arredamento postogli di fronte, che esso sia una sedia oppure una comda poltrona: il giocatore di Doom, come lo spettatore in sala, si incolla immobile al proprio posto, assorbito completamente dal rapporto visuale con lo schermo, tralasciando la percezione del proprio corpo che risulta intorpidito; solo l’interfaccia di controllo richiede una partecipazione fisica al gioco, e difatti abbiamo puntualmente i nostri arti chiaramente simbolizzati sullo schermo, con le armi poste in basso come una sorta di mascherino all’inquadratura soggettiva. La vista, parimenti al cinema, diventa un circuito chiuso in cui vengono veicolate tutte le altre informazioni sensoriali legate alla percezione del corpo, ossia gli organi sensoriali di contatto: non a caso, in Doom, ogni forma di contatto con il mondo rappresentato passa attraverso i due sensi della distanza, vista e udito, come se essi fossero le uniche manifestazioni di presenza all’interno del mondo finzionale: quando Doomguy viene colpito, o entra in contatto con sostanze nocive o “maligne”, nel vero e proprio senso cristiano della parola, un bagliore rosso lampeggia a tutto schermo, come la spia di malfunzionamento del T-1000 in Terminator 2, e contemporaneamente si può udire un grido di dolore dell’avatar che si ripete meccanicamente sempre uguale a se stesso fino alla cessazione del dolore o alla morte del protagonista. 63 Secondo il mito, l’alienzione ed il torpore che coglie Narciso impedisce al giovane di capire l’amore che la ninfa Eco gli offre, nonostante questa tenti di conquistarlo con frammenti degli stessi discorsi del giovane: l’isolamento dalla socialità previsto dalla fruizione interiore del cinema e del videogame in soggettiva, impedisce che l’individuo instauri ogni sorta di rapporto sociale con altri esseri viventi, per essere risucchiato nella spirale di violenza qual è il cono prospettico della visione monoculare di Doom, lasciando alla mediazione delle macchine anche le uniche forme di contatto col mondo esterno, come nel caso delle sfide via internet, che rendono i rapporti sociali inevitabilmente votati alla natura violenta del gameplay. Il giocatore, incollato allo schermo e spesso isolato sia fisicamente ma soprattutto socialmente, esplora col batticuore l’ambientazione virtuale, per dimenticarsi della propria esistenza nel mondo reale e sociale e trasferire la propria coscienza in una condizione estatica di fusione tra il dato percepito e soggettivizzato internamente e l’autopercezione corporea esterna, nell’eterna condizione allucinata di chi non distingue più la rapresentazione dalla realtà, come gli spettatori di Arrivée d'un train à La Ciotat. Nel momento in cui ha inizio la partita, immediatamente il giocatore auto-amputa il proprio corpo per assumere le sembianze tecnologiche dell’eroe post-umano di Doom, la nostra estensione digitale sul suolo della luna marziana, con lo scopo di portare a fondo la missione e realizzare appieno la nostra la nostra natura di macchine per terminare, di terminator veri e propri, e uccidere ogni forma di vita che entri nel nostro campo visivomirino. 64 3.2: La Prospettiva Uno degli aspetti che più hanno impressionato e lasciato il segno di Doom è sicuramente l’assunzione di un punto di vista soggettivo combinato all’uso della grafica 3D: l’immersività che deriva questo disposizione ottica di gioco è famosa e riconosciuta in tutto il mondo come il tratto fondamentale del gioco della iD. Tuttavia, andando ad analizzare più approfonditamente la suddetta visione, ci accorgeremo che essa funziona in base ad un’invenzione che risale addirittura al Rinascimento, epoca in cui, in Italia, numerosi pittori ed architetti, cercavano una sistema di visione per la rappresentazione dello spazio e della sua profondità sulla superficie bidimensionale della tela in cui posizionare le figure ritratte: si tratta ovviamente della prospettiva, destinata a sconvolgere e rivoluzionare l’apparato visuale occidentale, fino a raggiungere, ai giorni nostri, il mondo dei videogiochi le cui ambientazioni vengono progettate con la grafica 3D, la stessa grafica a punto di fuga prospettico inventata da Filippo Brunelleschi e istituzionalizzata poi da Leon Battista Alberti. Il sistema prospettico costituisce un vero e proprio strumento concettuale che permette al creatore dell’immagine, dal pittore al game designer, di sfruttare un’illusione ottica e mentale tipica della mente umana, creando dei veri e propri spazi immaginari ove posizionare i protagonisti della rappresentazione, sempre che non sia l’ambiente stesso il protagonista della rappresentazione. La nuova spazialità venutasi a creare sulla superficie, se esaurisse i suoi tratti nell’aspetto grafico e fisico, si limiterebbe allo spazio delimitato dal bordo del quadro, creando un sorta di “tunnel” dove posizionare le figure; al contrario, l’assunzione di un punto di fuga attorno a cui tutta la rappresentazione piega le proprie forme, non crea semplicemente uno spazio visibile idealmente praticabile, ma estende le dimensioni di questo spazio ben oltre i confini del percepibile, oltre il bordo del quadro, ove non c’è più rappresentazione, proprio come se la superficie fosse una sorta di “finestra sul mondo”. Nel momento in cui si osserva un’immagine dotata di prospettiva, si ha l’impressione di poter scorgere una piccola porzione di un mondo decisamente più vasto del percepibile, esteso tanto quanto il punto di fuga onnipresente ed infinitamente esteso come il mondo dell’osservatore, andando a configurarsi non più come una semplice rappresentazione, ma come una vera e propria dimensione Altra, un mondo parallelo alternativo in contatto con la dimensione reale tramite la finestra prospettica. 65 La creazione concettuale di una spazialità illusoria sottende ad una buona fetta della storia dell’arte figurativa occidentale: se, con il quadro e la sua fissità, è possibile, grazie alla prospettiva, immaginare la vastità di un mondo, per così dire, “fuori campo”, nel cinema, grazie all’introduzione del movimento di macchina e degli artifici spaziotemporali del montaggio, si può esplorare l’ambiente rappresentato guidati dalla volontà del regista, mentre in Doom siamo noi a decidere ove volgere il nostro sguardo, vagando per tutto il fuoricampo che vogliamo. 3.2.1: La violenza concettuale L’adozione di un punto di fuga, un punto sulla superficie della rappresentazione che segnali l’infinita profondità, comporta che tutti i punti all’interno del quadro facciano parte di una struttura concettuale più vasta: La percezione ignora il concetto di infinito; piuttosto essa è fin dall’inizio legata a determinati limiti della capacità percettiva e quindi ad un ambito limitato e definito dello spazio. E come non si può parlare di infinità dello spazio percettivo così non si può parlare della sua omogeneità. L’omogeneità dello spazio geometrico si fonda in ultima analisi sul fatto che tutti i suoi elementi, i “punti” che si raccolgono in esso, non sono altro che contrassegni di posizioni i quali tuttavia, al di fuori di questa relazione, della “posizione” in cui si trovano gli uni rispetto agli altri, non possiedono un contenuto autonomo. Il loro essere si risolve nel loro rapporto reciproco: è un essere puramente funzionale e non sostanziale. Poichè questi punti sono in fondo del tutto vuoti di contenuto, poichè sono mere espressioni di relazioni ideali, per essi non entra in linea di conto una qualsiasi differenza di contenuto. La loro omogeneità non è altro che quell’identità strutturale che si fonda sulla comunanza della loro funzione logica, della loro determinazione ideale e del loro significato ideale. Perciò lo spazio omogeneo non è mai lo spazio dato, bensì lo spazio costruito.47 Ponendo l’infinito all’interno del quadro nella costruzione prospettica, l’uomo cerca di superare idealmente i limiti fisiologici della percezione visiva dell’occhio: 47 Ernst Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen. Zweiter Teil: Das mythische Denken, Berlin, Bruno Cassirer, 1925, citato in Panofsky Erwin, op. cit. 66 l’infinito in sé non può essere rappresentato, ma, soprattutto, non può essere percepito, e questo ci rivela quale sia, e quanto sia vasta, la portata concettuale del sistema prospettico; esso è composto da una serie di punti distribuiti omogeneamente nello spazio, i quali non hanno contenuto autonomo, ma funzionano, invece, in relazione gli uni con gli altri, in base alla reciproca differenza di posizione. Non vi è differenza di contenuto tra un punto ed un’altro, ma solo la loro relazione è significante e funzionale nella costruzione di uno spazio strutturato. Ogni figura rappresentata all’interno del quadro viene sottomessa alla struttura concettuale della prospettiva, svuotandosi di un contenuto autonomo e acquisendo contemporaneamente una funzionalità ed una reciprocità con tutti gli altri punti dello spazio, tutti coinvolti nella tensione concettuale verso l’infinito. La costruzione prospettica, intesa come struttura visiva, diventa il vero e proprio contenuto della rappresentazione prima ancora che la rappresentazione riempa figurativamente e idealmente la superficie del quadro: essa antepone le esigenze strutturali di funzionalità reciproca dei punti nello spazio alla presenza di un oggetto da rappresentare, il quale, prima di qualificarsi con un qualsiasi attributo figurativo, deve conformarsi alla tensione verso il punto di fuga che ne determina l’illusione prospettica, pena la non veridicità della propria rappresentazione e la non conformità al resto della rappresentazione. L’omogeneità è il requisito e la prova che il sistema prospettico funziona piegando lo spazio al punto di fuga prospettico; i punti che lo compongono, come gli insiemi di punti che concorrono a delineare le figure, sono dotati di un potenziale interpretativo variabile a seconda della relazione instaurata con gli altri punti sparsi nello spazio figurato: la struttura proposta presuppone che sia l’osservatore a riempire queste relazioni puntuali, ponendole così in una visione più ampia e complessa che permette di vedere il quadro come un unico insieme strutturato, funzionale ed omogeneo, come uno sguardo d’insieme capace di cogliere il senso generale della percezione. Una struttura che ha come fondamento la percezione dell’infinito crea quel sistema di relazioni puntuali a contenuto potenziale che necessitano l’apporto di una soggettività percipiente per acquisire una validità strutturale, ossia ha bisogno di un soggetto che interpreti la superficie del quadro per creare quell’illusione di profondità e di sistematicità del mondo all’interno della cornice. Lo spazio si evidenzia sì in qualsiasi relazione puntuale venga presa in considerazione al momento della visione, ma, innanzitutto, si costituisce sulla base della relazione d’ogni punto con l’infinito: visualizzare graficamente quest’ultimo e porre tutto il resto in relazione ad esso significa 67 misurare la realtà in base un’operazione concettuale, qual è vedere l’infinito, ed estendere questa stessa concettualità a tutto lo spazio rappresentato, svuotandolo di un vero contenuto proprio. L’immagine percepita è quindi ampiamente sottoposta ad un’operazione di concettualizzazione e di soggettivizzazione che ne determina la veridicità percettiva. Tutto lo spazio visivo si piega inesorabilmente alla logica del punto di fuga che in Doom corrisponde inevitabilmente al punto in cui sono direzionati i colpi: la logica dello sguardo-arma, che dota l’intero gioco di una violenza insita nello stesso atto di percezione48, è supportata e garantita dalla visione prospettica, come se tutta la rappresentazione si piegasse alla logica del proiettile, dell’obbiettivo da colpire, e la struttura stessa dello spazio tendesse al centro del mirino, ponendo ogni punto in relazione ad esso: la prospettiva in Doom toglie ogni sorta di piacere estetico della visione, dell’esplorazione, del fascino della veduta esotica in terra straniera, tipica delle vedute cinematografiche degli albori, ravvivando elettronicamente il fantasma di un colonialismo mai realmente terminato, in cui la terra straniera costituisce solo terra da conquistare ed i popoli che vi vivono come popoli da sottomettere e, eventualmente, da piegare anch’essi alla logica del proiettile in caso di ostilità. Il potere di dominazione dell’arma è lo stesso che la visione prospettica applica alla porzione di spazio mostrato, piegando ogni punto al punto di fuga, conferendo qualità sovraumane al nostro avatar: [...] la vista veniva considerata in relazione ad un solo occhio, il quale era a sua volta concepito come un punto di vista statico e fisso, piuttosto che dinamico ed in movimento. Essa seguiva insomma la cosiddetta logica dell’occhio fisso, che mira al dettaglio, immobile (gaze), piuttosto che quella dello sguardo, dell’occhiata che guarda all’insieme (glance). La logica del “gaze” produrrebbe un tipo di visione della realtà costituita da elementi statici ed eternizzati: il mondo viene ridotto ad una serie di “punti di vista” distaccati ed indipendenti (disembodied) dall’osservatore.49 L’occhio che vede la prospettiva non è un occhio umano, in continuo movimento alla ricerca di una visione d’insieme delle cose, ma è uno sguardo statico, immobile ed 48 49 Si veda cap 2.1. Pecchinedda Gianfranco, op. cit., p. 32. 68 eterno che non permette di essere messo in discussione: come uno sguardo divino, le leggi matematiche che regolano la prospettiva ci suggeriscono che la rappresentazione basata su di esse abbia una validità eterna, al di là della presenza effettiva dell’osservatore; distaccata e completamente autonoma, essa ci fornisce uno sguardo che non è concesso all’uomo dalla natura, ma, bensì, va oltre le sue capacità, mostrando una visione che fonda la propria veridicità nella matematica. La struttura geometrica e la fissità distaccata dello sguardo conferiscono alla visione una validità scientifica, distaccandosi dalla relatività dell’opinione e sottraendo l’immagine a qualsiasi tentativo di relativizzazione: spazio esterno e corpo umano smettono di essere in contrapposizione per diventare fatti della stessa sostanza misurabile tramite le leggi della prospettiva; di fronte all’occhio divino, l’uomo rappresentato viene sommerso dall’ambiente circostante e, nella sua misurabilità, diventa come ciò che lo circonda, diventa misurabile, proprio come un oggetto. Le figure viventi che popolano il mondo di Doom non hanno valore, in quanto, al nostro occhio sovraumano, esse non sono diverse dai muri e dagli oggetti che delimitano il nostro cammino: esse sono, né più né meno, oggetti come altri, la cui entità è fusa e confusa nella struttura spaziale della prospettiva che rende emogeneo tutta la percezione visiva, e meritano di essere spazzati via dalla nostra strada, tanto più che esse sono pure ostili. 3.2.2: Il fenomeno allucinatorio Nel famoso episodio del 1895 al Grand Café di Parigi, gli spettatori, che stavano assistendo per la prima volta alla proiezione di Arrivée d'un train à La Ciotat dei fratelli Lumière, scapparono dalla sala prima del termine della pellicola in preda all’inquietudine ed al terrore, non tanto perché credevano reale il treno, quanto perché ritenevano possibile l’impatto col treno, e perciò hanno preferito scansarsi, un po’ come il giocatore di Doom che sposta lateralmente la testa per evitare la palla di fuoco scagliata dal nemico verso il proprio avatar: in entrambi i casi non viene evidentemente meno la consapevolezza dell’artificiosità dell’immagine meravigliosa proiettata sullo schermo, o di quella generata al pc, quanto invece viene percepita come reale la struttura spaziale prospettica, la quale, una volta letta automaticamente dalla mente umana come spazio 69 possibile, rischia di avere qualche forma di continuità con la dimensione fisica dell’osservatore, costringendolo a spostarsi: Cos’è che rende Doom un gioco tanto spaventoso? Il coincidere di numerosi fattori, certamente. Il senso di solitudine, l’inesorabilità del pericolo, la struttura labirintica degli scenari. Vi è un ulteriore aspetto, tuttavia: il terrore generato nello spazio in aggetto. Se lo schermo non è più una superficie su cui è rappresentata un’immagine illusoria, lo sfondamento dello spazio (ciò che c’è dietro lo schermo) avviene in entrambe le direzioni. Non solo ci si avventura “dentro lo schermo”, ma il mondo di gioco invade il nostro al di qua, lo spazio in aggetto.50 L’uso della costruzione inventata da Brunelleschi, che dota di profondità l’immagine, unita alla visione in soggettiva che ci rende protagonisti e possibili “obbiettivi sensibili” delle minacce virtuali, riporta in auge tutto un filone di pellicole che il cosidetto cinema istituzionale sopprimerà in favore del più serio, fruttuoso economicamente in quanto in grado di attrarre il pubblico borghese, genere narrativo: ancora una volta, stiamo parlando di tutte quelle vedute per cui il termine soggettiva risulta ancora azzardato, in quanto non esiste ancora la presenza figurata di un soggetto umano diegetico a cui attribuire le vedute, diventando così più simili a quelle inquadrature oggettive, in cui la macchina da presa ha sì una presenza attiva all’interno della rappresentazione, ma tuttavia non fa riferimento alla vista di alcuna figura umana51. Da un lato ci sono tutte quelle vedute panoramiche che puntano ad immergere lo spettatore fin oltre la superficie dello schermo fino a coincidere con la macchina da presa, come nelle phantom rides, nell’altro caso, invece, ci sono quelle pellicole che, sfruttando il cosiddetto “effetto allucinatorio” che vide protagonisti gli spettatori di Arrivée d'un train à La Ciotat, cercano, al contrario, di portare il mondo rappresentato al di qua dello schermo, per spaventare lo spettatore, come in How It Feels To Be Run Over di Cecil Hepworth, o nel piano emblematico del bandito che spara verso il pubblico all’inizio di The Great Train Robbery di Porter, e di richiedere da lui una partecipazione attiva alla rappresentazione: 50 51 Massimo Maietti, op. cit., in Morris Sue e Bittanti Matteo, op. cit. Si veda Casetti Francesco, op. cit., pp. 60-61. 70 Ma se nei film di Lumière l’effetto allucinatorio era tutto sommato accidentale, o per meglio dire era la conseguenza involontaria delle intenzioni “scientifiche” dell’autore. […] quell’effetto si trasforma in interpellazione intenzionale dello spettatore, diventa un esplicito invito al viaggio.52 Gli spettatori di allora, come i videogiocatori di oggi, rimangono vittime di una stato per molti versi simile alla condizione allucinatoria, definibile come percezione senza oggetto53, ossia percependo sensibilmente la presenza fisica di qualcosa che non è presente al momento della percezione, come l’effettiva presenza del treno dei Lumière all’interno del Salon Indien, di cui gli spettatori poterono cogliere solo lo stimolo luminoso dell’immagine sullo schermo. L’illusione prospettica, in questo caso, non basta a spiegare tale stato di alterazione di coscienza, ma piuttosto concorre assieme ad altri fattori ad un modificato rapporto con la realtà percepita: infatti, andando ad analizzare le condizioni di fruizione dell’immagine cinematografica e videoludica, la cosa che balza subito agli occhi sono tutta quella gamma di fattori che minano il confine sensibile tra l’immagine all’interno del quadro e la realtà fisica dello spettatore, in modo da impedire un confronto diretto tra le due dimensioni e far così cadere la veridicità della rappresentazione, a partire dall’immobilizzazione del soggetto vedente, presupposta dal sistema prospettico, la quale prolunga necessariamente il tempo di osservazione continua dell’immagine, escludendo lo spazio esterno alla cornice che diventa necessariamente un surplus da cancellare: basti pensare all’impianto luminotecnico e scenografico tipico delle esposizioni che tende a far risaltare le opere esposte contrastandole con un fondale molto poco illuminato o di colore neutro. Nel corso della storia del cinema il problema di far risaltare l’immagine proiettata va di pari passo con l’evoluzione delle sale di proiezione, in direzione di un progressivo annullamento dell’ambiente circostante, compreso lo spettatore; quando la macchina da presa dei fratelli Lumière fece la sua prima apparizione, non esistevano ancora degli ambienti preposti alla fruizione di filmati, così le prime sale cinematografiche che si ricordino furono i café parigini, ove si riuniva il pubblico intellettuale, come, per 52 Burch Noël, op. cit., p. 178. Vita A., Garbarini M., Psicopatologia generale, in Invernizzi Giordano, Manuale di psichiatria e psicologia clinica, Milano, McGraw-Hill, 2000. 53 71 l’appunto, il Gran Café della storica prima volta del cinema, ma in seguito, presso il grande pubblico, il cinema venne accostato invece al cosiddetto freak show, lo spettacolo circense dei fenomeni da baraccone, e ci volle molto tempo prima che il cinema nobilitasse sia i propri mezzi espressivi che le proprie sale di visione verso un progressivo accentramento psicologico dello spettatore54: la componente attrazionale prevaleva su quella rappresentativa proprio perchè la settima arte necessitava di emergere in mezzo alla confusione degli ambienti che di volta in volta venivano improvvisati a sale cinematografiche; la stessa presenza eventuale di un imbonitore con il compito di guidare l’attenzione del pubblico nei confronti dell’allora inedita immagine in movimento, ci suggerisce quanti fattori di distrazione si contendevano l’attenzione della platea, tendendo ad invertire il rapporto di visibilità tra la rappresentazione e l’ambiente sociale. Con l’avvento e la stabilizzazione della forma narrativa durante il corso degli anni ‘10 fino all’introduzione del sonoro, progressivamente il cinema ha puntato a sopprimere il suo aspetto attrazionale fine a se stesso per elevare, invece, una nuova forma di rappresentazione che colpisse psicologicamente lo spettatore, al fine di fargli mettere in campo il suo bagaglio cognitivo in cambio di una maggiore immersione psicologica nella vicenda ed una delegazione emotiva verso i personaggio, trasformando profondamente il modo di fruire dello spettacolo cinematografico, il quale favorirà sempre più una fruizione isolata dal resto del mondo, a scapito della socialità che caratterizzava quegli ambienti alle sue origini: le scomode seggiole, spesso poste in maniera disordinata e arbitraria, vennero rimpiazzate da vere e proprie poltrone in cui abbandonare comodamente il proprio corpo, ben distanziate le une dalle altre ad evitare contatti sconvenienti, mentre le sale, soprattutto dopo l’introduzione del sonoro nel 1927, divennero sempre più luoghi silenziosi dove chiudere la bocca ed aprire bene le orecchie per ascoltare le voci dei personaggi, gli effetti sonori e le musiche, fino ad arrivare all’introduzione del Dolby Surround che, letteralmente, “immerge” lo spettatore in un ambiente sonoro a tre dimensioni; le chiacchiere, le osservazioni e gli schiamazzi del pubblico diventarono un vago ricordo, in favore di una rigida alienazione e chiusura in se stessi, necessaria al discorso interiore dello spettatore che dialoga psicologicamente con gli elementi linguistici proposti dall’immagine in movimento; gli schermi diventarono sempre più grandi e rettangolari tanto da ricoprire tutto l’arco visivo dello spettatore sedutogli di fronte e limitare così inutili divagazioni dello sguardo verso zone della sala di proiezione, oramai al limite dell’oscurità più totale. 54 Noël Burch op. cit., p. 45. 72 La prospettiva che struttura l’immagine ripresa con l’obbiettivo prevede che l’osservatore sia immobile di fronte ad una visione che si pone come assoluta, statica ed eternizzata, la cui validità spaziale va oltre il semplice bordo del quadro, ma che invece si dilata all’infinito, sia in profondità che in larghezza, creando una spazialità, un mondo virtuale, adiacente a quello dello spettatore, rendendo la superficie della rappresentazione trasparente come il vetro di una finestra, secondo la definizione di Leon Battista Alberti. In sala di proiezione, la validità concettuale della struttura prospettica dell’immagine si espande ben oltre la superficie dello schermo andando a riempire il vuoto percettivo lasciato proprio da quel buio in sala, il quale non fornisce alcuna informazione spaziale sulla reale dimensione fisica dello spettatore, il quale si ritrova idealmente immerso nella dimensione spazio-temporale della rappresentazione, la quale si propone come visione unica, totale ed assoluta, riportando in auge il concetto, ma solo quello, del viaggiare immobile nello spazio diegetico seguendo la mobilità dell’occhio della videocamera, proprio come nell’Hale’s Tour di inizio ‘900, spostando tuttavia l’attenzione dal dato percepito in sé, come nelle vedute meravigliose, alla barriera semiotica astratta costituita da tutti gli elementi del linguaggio cinematografico. L’immersione visiva garantita dalla prospettiva, sempre presente nella tradizione rappresentativa occidentale fin dal Rinascimento, unita a quella auditiva del giorno d’oggi fornita dall’impianto surround, spostano la coscienza dello spettatore in un universo finzionale in cui le percezioni corporee vengono ri-mediate dagli organi della vista e dell’udito, permettendo la percezione fisica di un’immagine visiva, che sia il tocco della donna desiderata dall’eroe fino allo scontro con l’automobile di How It Feels To Be Run Over. Ecco spiegato il terrore degli spettatori davanti alla proiezione di Arrivée d'un train à La Ciotat: sebbene le sale di proiezione abbiano subito un’evoluzione tecnologica evidente ed innegabile, possiamo supporre che, al contrario, non vi sia stata una altrettanto profonda evoluzione concettuale, in quanto tutte le condizioni affinché la realtà luminosa sfondi la barriera fisica dello schermo fino ad ingannare, come un’allucinazione, gli spettatori, erano già presenti nelle sale degli albori, sebbene la loro costituzione architettonica e logistica non fosse istituzionalizzata come al giorno d’oggi: la mancanza di un’oscurità adeguata, unita al chiasso ed alla scomodità della visione, avranno avuto sì un’incidenza negativa nel rapporto concettuale con l’immagine proiettata, ma di sicuro non avranno compromesso quell’effetto allucinatorio che ancora per molti anni a seguire sarà sfruttato commercialmente in ogni angolo del mondo. 73 Allo stesso modo, Doom ed il suo spazio aggettante mantengono quell’incredibile capacità di catturare l’attenzione e la credulità del giocatore tipica dell’effetto allucinatorio, fino a creare delle temporanee sfaldature percettive in cui l’individuo sovrappone la struttura concettuale e linguistica del gioco al dato reale percepito, come nel caso di Alessandro, ragazzo adolescente di Torino, finito al reparto di psichiatria dell’ospedale Mauriziano in seguito ad una prolungata esposizione al suo gioco preferito, Street Fighter II, che gli ha provocato un perenne stato allucinatorio in cui credeva di essere uno dei personaggi del gioco55. La fruizione di un videogame, sia sul televisore di casa che sullo schermo di un personal computer, raccoglie a piene mani l’eredità lasciata dal cinema, rientrando appieno nella tradizione rappresentativa occidentale: a partire dal buio necessario a vedere meglio l’immagine, grazie a schermi sempre più grandi, unito alla necessaria immobilità del corpo appoggiato su di una comoda poltrona, il salotto di casa non ha niente a che invidiare ad una moderna sala di proiezione, con cui condivide anche l’impianto sonoro 5.1, utilizzato oramai da ogni first-person shooter recente, e la grafica digitale in 3D satura di particolari, come nel caso degli ultimi film ad effetti speciali, tra cui l’ultima trilogia di Star Wars pubblicata da George Lucas, in cui ogni porzione dello schermo è minuziosamente riempita con qualche dettaglio interessante. L’alienazione dal mondo sociale ed il torpore dei sensi agli stimoli percettivi esterni pongono il giocatore nel mondo prospettico di Doom, in cui, il confine tra ciò che sta dentro lo schermo e ciò che sta fuori si fa incredibilmente labile, riducendo pesantemente i cardini strutturali della rappresentazione, riesumando l’esperienza simulatoria che vide protagoniste le varie installazione del cinema delle origini, senza artifici di montaggio e post-produzione, annullando ogni possible traccia dell’interfaccia e proponendo una percezione im-mediata garantita in real-time dal dispositivo elettronico. [...] il dipinto, il film, la televisione, il radar, e il display del computer. In ognuno di essi la realtà viene delimitata dal rettangolo di uno schermo [...] L’atto di suddividere la realtà in ciò che esiste e ciò che non esiste duplica simultaneamente la figura dello spettatore, che si ritrova così ad esistere in due spazi: lo spazio fisico e familiare del suo corpo reale e lo spazio virtuale dell’immagine racchiusa nello schermo.56 55 56 “Oggi” del 01/12/1999. Lev Manovich, op. cit. 140. 74 Il superamento del quadro proposto dalla struttura prospettica, che ritroviamo sia nel videogame odierno che nelle esperienze simulatorie del cinema delle origini, ripara la frattura fra l’individuo ed il suo simulacro, tra immagine e percezione di essa, avvicinandoli fino a farli letteralmente coincidere ed annullare ogni forma di mediazione linguistica e tecnologica con la realtà virtuale. Lo sfondamento della finestra albertiana, necessario ad espandere il quadro fino a sostituire il mondo reale, risulta fondamentale per la buona riuscita della simulazione, che essa sia un atterraggio in mongolfiera, come il Cineòrama, o la manifestazione di una violenza distruttrice come Doom. 75 4: La visione in prima persona 76 Il tratto stilistico che ha sempre contraddistinto Doom dagli altri videogame dell’epoca è stato sicuramente l’uso della tanto blasonata visione soggettiva, così ambigua quando usata nel cinema e così efficace quando combinata con l’uso di un dispositivo che permetta di controllare i movimenti del soggetto in questione. La storia di questa inquadratura ha origini molto lontane, quando ancora nella settima arte doveva essere istituzionalizzato un linguaggio visuale preciso che consentisse la narrazione di storie lineari e finite57; tuttavia, il termine “soggettiva”, nel cinema delle origini, risulta ancora improprio, in quanto manca ancora un’identificazione precisa nella soggettività di un personaggio diegetico vero e proprio, e queste vedute vengono spesso ricondotte alla visione che si avrebbe adoperando lo stesso strumento ottico, come la lente d’ingrandimento nel caso di Grandma’s reading glass, usato da uno dei personaggi rappresentato nella vicenda; non esiste immersione psicologica, un calarsi nei meandri di una visione filtrata dalla personalità di un individuo a tutti gli effetti, ma, tutt’al più, esiste un’immedesimazione profonda nell’occhio della macchina da presa, fino a farne scomparire ogni traccia sensibile e concettuale, per creare quell’illusione di presenza nella rappresentazione o di continuità spaziale con l’immagine, che tante pellicole e dispositivi appositi puntavano a creare simulando esperienze di movimento o di viaggio, come nel caso dell’Hale’s Tour, e altre simulazioni più anomale e stravaganti, come How It Feels To Be Run Over di Cecil M. Hepworth, che, invece, sfruttavano il cosiddetto effetto allucinatorio. Solo più tardi verrà istituzionalizzata questa inquadratura, quando l’immagine diverrà lo sguardo di un personaggio “in carne ed ossa”, con i propri pensieri, le proprie fissazioni e spesso anche con proprie condizioni fisiche alterate che ne condizionano la visione. Nonostante tutti gli esperimenti compiuti per impadronirsi e dominare l’uso della soggettiva, essa rimane pur sempre una figura limite nel panorama dei possibili elementi di linguaggio che il regista dispone per costruire la vicenda, poiché la sua adozione comporta tutta una serie di profonde contraddizioni con i tipici tratti stilistici della narrazione per immagini, come se questa inquadratura costituisse un luogo franco ove i normali divieti non hanno valore e sono invece possibili perciò alcune significative alterazioni linguistiche, a partire dallo sguardo in macchina fino a tutta una serie di tentennamenti e sfocature della ripresa, giustificabili solo in quanto simulazione dell’irregolarità della vista umana ed intollerabili invece in qualsiasi altra inquadratura. 57 Si veda Dagrada Elena, op. cit. 77 4.1: Lo sguardo in macchina come lotta contro la cultura “Throw down your umbilical noose so I can climb right back” Nirvana, Heart-Shaped Box Lo sguardo in macchina ha una storia lunga che risale ai primi successi nella storia delle pellicole, a partire dal noto Le coucher de la mariée di A. Kirchner del 1899 (fig. 13), considerato il primo esempio di sguardo in macchina diretto intenzionalmente a cercare l’attenzione dello spettatore in sala, uno sguardo eroticizzato di una giovane donna appena sposata pronta a consumare la prima notte di nozze. È singolare notare come il primo caso di una comunicazione visuale e virtuale tra rappresentazione e pubblico abbia proprio come tematica l’erotismo, in particolare quello concernente la prima notte di nozze di una giovane sposa, simbolo, oramai perduto nel tempo, della liberazione da tutti quei vincoli prematrimoniali imposti dalla religione cristiana, che tanto devono avere, da un lato, frustrato le relazioni di coppia e, dall’altro, stimolato la fantasia popolare, come ogni proibizione sa fare; sicuramente, l’eccitazione sessuale è stato il mezzo migliore per far dimenticare al grande pubblico di essere di fronte ad una rappresentazione luminosa e piatta, e far sparire così la presenza della macchina da presa e di tutta quella barriera tecnologia e linguistica che impedisce la credenza nell’immagine, rendendo trasparente la superficie dello schermo e verosimile lo spazio racchiuso in esso. Quello sguardo sfonda lo schermo per andare a colpire ed abbattere direttamente tutta una serie di tabù relativi alla vista, a partire dalla proibizione di vedere la toeletta della sposa prima della prima notte di nozze, ma non solo: sebbene non vi sia alcun treno che rischi di travolgere gli spettatori, anche in questo caso, la funzione di questo elemento linguistico è tramutare la rappresentazione in una vera e propria simulazione della vista, tramite l’illusorio incrocio di sguardi tra la donna e lo spettatore, facendo “sparire” la macchina da presa e sopprimendo, allo stesso tempo, la funzione divisoria del quadro tra realtà e rappresentazione, rendendolo una semplice, quanto ininfluente a livello percettivo, cornice all’immagine. In questa configurazione simulatoria ed illusoria viene a 78 mancare quella dialettica tra dentro e fuori necessaria allo sdoppiamento concettuale dello spettatore in un’entità vedente reale ed una diegetica al bordo della raffigurazione, utile ad impersonare la presenza invisibile dell’occhio della macchina da presa: l’interpellazione di Le coucher de la mariée non si rivolge all’eventuale marito della donna o ad un qualsivoglia personaggio diegetico, e neppure alla macchina da presa intesa come dispositivo tecnologico presente al momento della ripresa, ma si limita alla funzione di collegare due mondi totalmente distinti per farne illusoriamente uno solo, evitando così ogni forma di comunicazione linguistica tra il medium e l’individuo, ma configurandosi invece come presentazione di sé fine a sé stessa, come oggetto percepito ma assente, come un’allucinazione d’altronde, fondendo il mondo rappresentato visto dallo spettatore con quello reale. Lo sguardo della donna non punta solo ad eccitare la fantasia sessuale del pubblico, ma fa qualcosa di più: fa retrocedere la coscienza della realtà dello spettatore in una condizione per cui non esiste né linguaggio né comunicazione alcuna apparente, la stessa condizione tipica del bambino nella fase primaria definita da Freud, in cui non vi è distinzione fra il sé e l’altro, fra realtà ed immaginazione, ma tutto è fuso in un’unica realtà allucinata e l’unica forma di coscienza del sé è costituita dallo sguardo della madre in cui il bambino si rispecchia: Per Freud il soggetto umano, nei primissimi tempi della sua esistenza, nella fase che procede il complesso di Edipo, si ritroverebbe in uno stato relativamente indifferenziato, in cui l’oggetto ed il soggetto, il sé e l’altro non potrebbero essere ancora interposti come dipendenti. L’identificazione primaria, segnata dal processo di incorporazione orale, sarebbe la forma più originaria di legame affettivo ad un oggetto, e tale prima relazione all’oggetto, in questo caso la madre, sarebbe caratterizzata da una certa qual confusione, una certa qual indifferenza tra l’Io e l’altro. […] Ogni qual volta che Freud è portato a descrivere questa trasformazione della scelta dell’oggetto (dell’ordine dell’avere) in identificazione all’oggetto (dell’ordine dell’essere), egli ne sottolinea il carattere regressivo: questo passaggio all’identificazione esprime, per un soggetto già costituito, una regressione ad uno stadio anteriore della relazione all’oggetto, uno stato più primitivo, più indifferenziato dell’attaccamento libidico all’oggetto. […] Per Freud l’identificazione “si comporta come un prodotto della prima fase, della fase orale dell’organizzazione della libido, della fase durante la quale si incorporava l’oggetto desiderato e amato mangiandolo, vale a dire sopprimendolo”. […] Questa struttura orale dell’identificazione, secondo 79 l’analisi di Jean-Louis Baudry largamente determinata dal dispositivo cinematografico stesso, si caratterizza essenzialmente per l’ambivalenza, per l’indistinzione esterno/interno, attivo/passivo, agire/subire, mangiare/essere mangiati. Si ritroverebbe in tale indistinzione il modello del rapporto che il lattante intrattiene col seno o colui che sogna con “lo schermo del sogno”. In questa incorporazione orale che caratterizzerebbe il rapporto dello spettatore col film, “l’orifizio visivo ha rimpiazzato l’orifizio buccale, l’assorbimento delle immagine è al tempo stesso assorbimento del soggetto nell’immagine preparato, predigerito dalla sua entrata nella sala buia.58 Lo spettatore che assiste ad una proiezione rinuncia alla socialità, si rinchiude in sé stesso nel rapporto con lo schermo, più semplice ed appetibile dell’imprevidibilità della vita, rinunciando così ad instaurare un rapporto con l’oggetto desiderato di tipo possessivo, ma preferendo identificarsi con l’immagine, regredendo allo stadio dell’evoluzione della psiche umana in cui non vi è distinzione tra il soggetto (vedente) e l’oggetto (visto), ma vi è invece una fusione che impedisce di riconoscere l’oggetto visto come altro da sé, come nel mito di Narciso59. Nel caso dello sguardo in macchina, ed in particolare quello di Le coucher de la mariée, l’individuo supplisce alla mancanza di una donna da concupire con l’immagine di essa rimandata dallo schermo, in un rapporto immaginario con l’immagine, senza riconoscere che l’impressione di essere visti dalla giovane sposa è frutto solamente della propria immaginazione, e che non vi è alcuna donna al di là dello schermo, ma che essa è solo uno stimolo luminoso catturato in precedenza: nel momento di visione, la relazione che si instaura tra spettatore e schermo è di tipo fantasmatico, per la quale si ha la percezione dell’oggetto sebbene esso non sia effettivamente presente fisicamente. Le tensioni libidiche dello spettatore vengono automaticamente riconvogliate verso la rappresentazione che, come un seno materno, provvede a fornire la gratificazione, la sicurezza ed il senso di protezione dagli agenti esterni che solo il rapporto con la madre ha fornito: l’illusorio scambio di sguardi permette dunque allo spettatore di sopprimere le eventuali forme di nevrosi causate dalla variabilità del rapporto con l’altro, e contemporaneamente fa regredire la sua coscienza in uno stadio originario in cui l’identificazione avviene proprio tramite la vista, abbattendo la consueta divisione che esiste tra realtà ed immaginazione, tra ciò che sta dentro e ciò 58 Aumont Jacques, Bergala Alain, Marie Michel, Vernet Marc, Esthétique du film, Paris, Nathan, 1994 (tr. it. di Dario Buzzolan, Estetica del film, Torino, Lindau, 1998), p. 186. 59 Si veda cap. 3.1: Il cyborg ed il torpore dei sensi. 80 che sta fuori lo schermo, fondendo il tutto in un’unica realtà percepita in cui il soggetto perde la coscienza del proprio corpo e della propria presenza fisica, magari accanto a quella di altri spettatori, riducendo l’interazione col mondo esterno e concentrandola invece nella percezione visiva dell’immagine, chiudendo le porte della coscienza in un continuo rimando con lo schermo. L’individuo, tramite questa forma primigenia di identificazione, non si illude di essere la donna inquadrata, ma non riconosce invece la natura rappresentiva dell’immagine, la sua origine umana, proprio come nelle simulazioni di viaggio proposte dall’Hale’s Tour, e come in Doom d’altronde, i quali forniscono un’illusoria continuità spaziale con l’immagine; lo sguardo in macchina punta perciò a far scomparire la mediazione tecnologica trasportando il mondo rappresentato nello spazio fisico della sala di proiezione, e contemporaneamente spostando l’autocoscienza del soggetto all’interno del quadro, come se non vi fosse rappresentazione alcuna, proprio come nella prospettiva centrale insita nella ripresa da un unico obbiettivo, che rende il quadro come una superficie trasparente che pone in contatto il reale con l’immaginario; così l’immaginazione del soggetto si sovrappone all’elaborazione dello stimolo percettivo facendogli credere reale la presenza della donna che lo sta illusoriamente guardando. Sparito il quadro, la distinzione fra ciò che è dentro e ciò che è fuori, viene meno anche quella dialettica indispensabile per comprendere e comunicare simbolicamente con la rappresentazione tramite elementi di linguaggio propri del dispositivo, come le figure di montaggio, riportando l’individuo ad una fase pre-linguistica in cui vi è la totale indistinzione fra l’Io e l’altro, indispensabile anche per una corretta interazione col mondo sociale esterno: chi sceglie di assistere a tali proiezioni rinuncia insitamente al rapporto con gli altri preferendo invece rinchiudersi nella propria interiorità credendola reale, anestetizzando il proprio corpo nel comodo giaciglio della poltrona, ed evitando distrazioni esterne per godere al meglio dell’immagine. Il buio, l’inibizione motoria e il rapporto visuale rafforzano artificialmente questa impressione di regressione, proprio come succede anche a chi decide di giocare un partita ad un videogioco qualsiasi. Essere oggetto dello sguardo altrui, ed in questo caso di quello rivolto verso lo spettatore, pone il soggetto in una posizione per cui non vi è separazione tra l’immagine e la realtà, rendendolo illusoriamente partecipe della rappresentazione: in Doom, la visuale in soggettiva permette ai nemici presenti nell’ambiente di gioco di rivolgersi direttamente verso il giocatore e non verso l’avatar, facendo in qualche modo sparire la presenza di costui e dando così l’impressione che essi intendano colpire il giocatore oltre la barriera 81 fisica dello schermo (fig. 14); le varie entità mostruose sono dotate infatti di occhi ben visualizzati che vengono immediatamente diretti verso il punto di osservazione del giocatore, proprio come la sposa di Le coucher de la mariée, nel momento in cui egli compie un’azione che manifesti la sua presenza nell’ambiente di gioco, come l’utilizzo di un’arma da fuoco, con la sola differenza che lo sguardo questa volta non è estatico ed ammiccante, ma assume un carattere violento di distruzione oggettuale: il giocatore stesso diventa un oggetto da parte dello sguardo maligno dei nemici ed è costretto ad interagire pena il termine della partita causato dalla morte di Doomguy: In Doom ci danno la caccia. Non possiamo esplorare l’ambiente senza dover affrontare la minaccia dei mostri. Il gioco non ci assegna un “dover fare” specifico, ci lascia liberi di agire come crediamo. Non ci dà un punteggio ad ogni nemico ucciso. Ci lascia liberi di fare quello che vogliamo, tuttavia, non possiamo fare nulla senza prima liberarci di coloro che ci danno la caccia. In Doom, prima di salvare il mondo, dobbiamo salvare noi stessi (e la possibilità di continuare a giocare); il dover fare coincide con il voler fare: noi vogliamo sopravvivere, e questa è esattamente la cosa che dobbiamo fare. […] Il giocatore non dà la caccia, ma è preda.60 Tutta la logica del gameplay di Doom si basa sull’esigenza di sopravvivere in un ambiente ostile in cui è il giocatore ad essere preda delle creature maligne che popolano il mondo di gioco: l’istinto di mangiare, tipico del rapporto tra lattante e seno materno, non solo risulta pressoché identico sia nel giocatore che nei nemici raffigurati, ma configura tutta il gameplay caratterizzando il modo di interazione che Doomguy ha con l’ambiente circostante; non si può scegliere se sopravvivere o meno, se uccidere oppure no, ma, come i nostri nemici, dobbiamo mangiare e soprattutto non dobbiamo essere mangiati per sopravvivere, e ciò si avvera nell’uccisione dei nostri predatori. Lo sguardo che essi volgono verso il giocatore è uno sguardo ostile che rivela l’intenzione di farne il proprio pranzo, come ben raffigurato in Doom 3, in cui spesso assistiamo a scene di cannibalismo tra mostri ed umani, richiamando la tematica dello zombie, dell’umano morto e resuscitato che si nutre del corpo altrui, tipico dell’intero filone cinematografico splatterhorror, come La notte dei morti viventi di George A. Romero del 1968. 60 M. Maietti, op. cit., in Morris Sue e Bittanti Matteo, op. cit. , p. 29. 82 Il desiderio oggettuale, tramite la logica del nutrimento, si sposta dall’ordine dell’avere all’ordine dell’essere proprio grazie allo scambio di sguardi tra personaggi finzionali e soggetto vedente, per cui osservare l’oggetto dei nostri desideri vuol dire possederlo tramite l’identificazione con esso che rielabora la percezione secondo la propria soggettività. Se durante la proiezione di Le coucher de la mariée il soggetto guarda ardentemente la donna come per possederla, ed è innegabile che quello sguardo malizioso e desideroso della sposina abbia proprio lo scopo di stimolare le fantasie erotiche maschili fornendo gratificazione da questa disponibilità immaginaria, così in Doom lo sguardo dei nemici si rivolge verso il giocatore al fine di possederlo, di inglobarlo in sé e farlo proprio, spingendolo a ricambiare lo stesso tipo di sguardo ed interagire con essi tramite l’uso del proprio fucile, la cui forma, stretta ed allungata, e la posizione rispetto al quadro, in basso al centro, rivela la propria origine fallica, grazie al quale è possibile ricambiare le attenzioni ricevute direttamente nella raffigurazione, rendendo l’istinto di sopravvivenza, sotteso al rapporto sessuale, un istinto di morte insito nell’uso delle armi. Sotto questa nuova luce, anche il noto The Big Swallow, pellicola del 1901 di J. Williamson, si rivela come un tentativo di costruire un ponte di comunicazione tra la soggettività dello spettatore e la rappresentazione, proprio facendo leva sull’istinto alla sopravvivenza visualizzato nell’atto di ingoiare la macchina da presa e l’operatore stesso da parte del personaggio inquadrato. È singolare notare come, inizialmente, durante la discussione in cui l’uomo spiega di non voler essere inquadrato, il suo sguardo e la sua attenzione non sia rivolta verso l’obbiettivo, ma un poco più a lato verso l’operatore e, solo dopo non essere giunti ad un accordo, l’uomo decida di inglobare la macchina da presa, guardando poi soddisfatto in camera appena digerito il tutto: se nella prima parte ha luogo una discussione da cui lo spettatore è escluso, nella seconda il personaggio diventa egli stesso, tramite l’ingoio dell’operatore e della macchina da presa, l’autore di questa pantomima, tanto che, nella terza parte, egli può finalmente guardare in macchina ad identificarsi con lo spettatore, avendo anch’egli ora accettato e capito l’utilità della macchina da presa e dell’operatore. Il burbero rappresenta indirettamente lo spettatore delle origini, poco acculturato e dai modi di fare non propriamente civili, ed in quanto tale non sembra capire l’utilità ed il divertimento derivante dal mezzo cinematografico, ma è proprio tramite l’identificazione, conseguente l’introiezione del punto di vista, che egli diventa come lo spettatore in sala, ossia il soggetto del punto di vista, capace di godere e capire l’utilità della macchina da presa e di un operatore che la sappia utilizzare, 83 i quali, nell’inquadratura successiva, cadono in un vuoto indefinito, ossia l’interiorità del personaggio che li ha mangiati rendendoli parte di sé. L’istinto a cercare nutrimento per garantire la propria sopravvivenza si rivela essere la chiave tematica e psicologica su cui è basato l’intero gameplay di Doom, richiamando a livello incoscio, assieme all’inquadratura soggettiva e alla modalità di fruizione che narcotizza la sensibilità corporea, il primigenio istinto di succhiare il latte materno, atto che non si esaurisce nel semplice appagamento della sensazione di fame ma comporta, per l’appunto, tutta una serie di sensazioni fisiche e psicologiche che garantiscono al lattante un senso di unione e completezza fornite dal corpo materno. Nella cosiddetta fase primaria il bambino non possiede la madre come un oggetto altro da sé ma vi si identifica come parte del proprio essere fisico e psicologico, credendo questa relazione duale come la totale realtà esperibile, proprio come avviene durante una partita in Doom, in cui il giocatore fonde la propria presenza fisica con quella simulata tramite la presenza virtuale della propria entità all’interno del mondo finzionale di gioco, garantita dalla mobilità dello sguardo e raffigurata nell’arma che egli impugna. Vivere all’interno del mondo di gioco, ossia esperire appieno della simulazione elettronica, significa già di per sé riportare alla ribalta quel sentimento totalizzante caratteristico della fase primaria definita da Freud, in quanto la mancanza di rapporti sociali, unita all’assenza di un linguaggio specifico fornita dall’esperienza simulatoria che abolisce ogni rapporto simbolico con l’immagine presentandosi come sufficiente a sé stessa e priva di rimandi semantici, è già segno della regressione psicologica dell’individuo. Dal canto suo, Le coucher de la mariée, nonostante la distanza temporale da Doom, presenta la stessa identica modalità di interazione con il dispositivo, lo stesso tipo di fusione duale con l’immagine che, come una simulazione, permette l’incontro dello sguardo dello spettatore in sala e quello della donna, in un’unica realtà segnata dal dissolvimento della cornice e della distinzione tra realtà ed immaginazione che essa, indirettamente, suggerisce, impedendo la costituzione di una comunicazione simbolica tra il medium e l’individuo. Lo sguardo della sposa non si limita a soddisfare nell’immaginazione le fantasie sessuali degli spettatori, e nemmeno potrebbe farlo, ma, come lo sguardo della madre nei primi mesi di vita, fornisce una sorta di appagamento a livello psicologico ed illusoriamente anche a livello fisico, derivante dalla liberazione dai divieti imposti dalla legge morale della società all’individuo, tra i quali il tabù dell’incesto costituisce quello fondante e paradigmatico per tutti gli altri: 84 Nelle fasi pre-edipiche, sia il bambino che la bambina sono in relazione diadica con la madre e condividono in egual misura impulsi maschili e femminili. Con il momento edipico questa relazione si allarga a comprenderne un terzo, e si viene a formare un triangolo sessualmente caratterizzato, tra bambino e genitori. Il genitore dello stesso sesso diventa un rivale nel desiderio che il bambino sente per il genitore di sesso opposto. Il bambino rinuncia al suo desiderio incestuoso per la madre a causa della minaccia che egli percepisce provenire dal padre, di essere punito con la castrazione; così facendo egli si identifica con il padre (diventa simbolicamente il padre) e si accinge ad assumere un ruolo maschile nella società. Il desiderio proibito viene trasferito nell’inconscio ed il ragazzo accetterà dei sostituti della madre/oggetto di desiderio nel suo futuro di uomo adulto.61 Il giocatore di Doom e lo spettatore che guarda Le coucher de la mariée, e, più in generale, chi usufruisce di una simulazione visuale, rinuncia al proprio ruolo nella società determinato sia dalla capacità di comunicare linguisticamente che dall’identità sessuale, per estromettere la figura del padre come rappresentante del tabù dell’incesto, cardine della società, e gettarsi idealmente nelle braccia della madre per ricevere nutrimento ed affetto dal suo capezzolo: in un certo qual modo, egli acconsente alla castrazione del proprio organo sessuale pur di ottenere tale senso di sicurezza e totalità. La mancanza di una presenza sessualmente attiva caratterizza infatti entrambe le simulazioni in quanto sia il giocatore che lo spettatore assistono fisicamente impotenti alla propria vita trasfigurata sullo schermo, e se il buon Doomguy non presenta in alcun modo caratteristiche che lo possano effettivamente accostare ad una figura maschile quanto piuttosto ad una macchina senza sesso, lo spettatore delle origini assiste, impotente come un voyeur, allo sguardo seducente di una donna con cui mai potrà unirsi fisicamente. Partecipare a questo tipo di simulazioni è già di per sé rinunciare ad esperire effettivamente la polimorficità della vita, abbandonandosi ad una realtà predigerita come lo è il latte materno, in cui le scelte, i rischi e gli imprevisti sono calcolati e decisi in precedenza da qualcun altro, narcotizzando le sensazioni derivanti dagli organi corporei fino ad eliminare il concetto di piacere e dolore in un nirvana estatico ed estetico. 61 Stam Robert, Burgoyne Robert, Flitterman-Lewis Sandy, New Vocabularies in Film Semiotics, London, Routledge, 1992 (tr. it. Alessandra Raengo, Semiologia del cinema e dell’audiovisivo. Parole chiave nell’analisi del film, Milano, Bompiani, 1999), p. 174. 85 In questa configurazione affettuale, il soggetto tende a restaurare la relazione duale perduta con la madre caratterizzata dal principio del piacere, cercando di estromettere la figura del padre che ne impedisce la realizzazione tramite la castrazione del soggetto e tramite la propria stessa presenza costitutiva all’interno del triangolo edipico, caratterizzato dal principio di realtà; il padre assume il ruolo di nemico, di ostacolo interposto tra la madre ed il soggetto, cercando di porre fine in qualsiasi maniera all’esistenza di un tale rapporto tramite l’evirazione del soggetto, proprio come i mostri di Doom che impediscono al giocatore di prolungare la propria esistenza all’interno della simulazione: la famosa unione duale è quindi rappresentata dalla possibilità del giocatore di vagare piacevolmente all’interno dell’ambientazione elettronica fondendo la propria percezione, e la propria unità corporea e psicologica, con l’apparato tecnologico, il cui utilizzo consente di accedere, e ritornare, a questa dimensione immaginaria, mentre i nemici rappresentano il padre nel tentativo di evirare il soggetto, ossia di separare il giocatore dall’arma virtuale, unica traccia visibile della presenza del proprio avatar all’interno dell’ambiente di gioco. Il fallo non è simbolo di qualcosa, piuttosto rappresenta il fatto stesso della simbolizzazione. Ciò significa che entrambi i sessi si definiscono in relazione al fallo in quanto significante di una mancanza: esso è una rappresentazione dell’assenza che simbolizza tutte le separazioni antecedenti. […] Questo avviene perché, nella teoria lacaniana, si ipotizza che gli individui di entrambi e sessi siano il fallo durante la fase pre-edipica. Il bambino immagina di essere ciò che la madre/altro desidera, l’oggetto che soddisferà il suo desiderio di completezza derivante dal senso di mancanza. […] Come conseguenza del riconoscimento della castrazione, il fallo viene a significare la Legge del Padre e l’ingresso nel simbolico.62 La battaglia proposta dalla struttura di gameplay di Doom, è la battaglia dell’individuo nella sua ricerca di regredire dal regime simbolico a quello immaginario, ossia dalla realtà al piacere immaginario, ed è anche la battaglia per la sopravvivenza all’interno del mondo di gioco contro la legge del padre e contro tutti i principi del vivere sociale da essa derivanti, del senso di empatia costruito dal linguaggio e della sostituzione 62 Stam Robert, Burgoyne Robert, Flitterman-Lewis Sandy, op. cit., p. 176. 86 dell’oggetto delle proprie pulsioni sessuale dalla madre ad altre donne: la regressione ad uno stadio pre-linguistico fornita dall’esperienza simulatoria comporta non solo un’impossibilità di comunicazione con le altre creature presenti all’interno dell’ambiente di gioco, ma traforma il contatto con l’altro in azione pura sotto il segno della sopraffazione e del’annullamento, in un’affermazione totaliritaristica della sessualità dominante del soggetto, il quale non ha il fucile/fallo, ma è il fucile/fallo, come risposta al desiderio del mondo/madre di essere liberata dalla Legge del Padre e di sostituire a questa la legge del soggetto come nuovo padre-padrone, padre di sé stesso e padrone della realtà: infatti, l’assunzione del fucile come identità finzionale del soggetto non comporta solamente la distruzione di ogni simbolo/nemico in favore del regime immaginario, rappresentato dalla libera esistenza immortale nel mondo di gioco, ma tende specularmente ad affermare un nuovo regime simbolico catalizzato dall’immaginario, in cui l’impossibile fertilità del fallo e del suo sperma viene trasfigurato nei proiettili con cui l’arma/soggetto feconda di morte le entità nemiche, simbolo del tabù dell’incesto, che egli incontra lungo il suo cammino, realizzando una rinnovata Legge del Padre, in cui l’abituale rapporto padre-figlio viene invertito specularmente, rendendo quei tanti odiati mostri, soliti a guardare dritto negli occhi il giocatore, simbolo della stessa identica volontà del figlio di possedere la madre, tanto che, nella loro volontà di affermazione individualistica, essi non sono alleati gli uni agli altri come un gruppo sociale contro il giocatore, ma spesso finiscono per combattersi gli uni contro gli altri in un’insensata battaglia tutti-contro-tutti che palesa la mancanza di un fine utilitaristico al combattimento, ossia la distruzione dell’avatar, e dunque anche l’assenza di una proprietà di linguaggio che permetta loro di comunicare. In Doom il giocatore che guarda il nemico è un nemico egli stesso e questo passaggio di consegne reciproco è possibile proprio grazie all’identificazione che avviene tramite il loro incrocio di sguardi, come con sposa di Le coucher de la mariée, con la differenza che, se nella pellicola delle orgini la vista della figura femminile bastava a sé per restaurare il rapporto duale con la madre in un’unione idilliaca e spensierata, aprofittando dell’assenza di una figura paterna, ossia della raffigurazione dello sposo nell’inquadratura, nel gioco questa restaurazione è continuamente ostacolata dallo sguardo ostile delle creature mostruose, vere e proprie raffigurazioni della Legge del Padre, che, come un branco di animali acefali, lottano per la supremazia individuale, branco in cui il giocatore inconsciamente si identifica ed allo stesso tempo disprezza a livello conscio, non riconoscendo in essi la propria figura riflessa, come Narciso, che in 87 balia della propria narcosi percettiva e del proprio immaginario, stimolato dalla sovrainvestitura del senso della vista, non riconosce sé stesso nell’immagine che la superficie dell’acqua gli rimanda. 88 4.2: L’a parte del dispositivo di controllo Gli sguardi in macchina e le inquadrature a carattere soggettivo, nati con la cinepresa stessa, hanno subito una sorta di deriva culturale tale che, da elementi spettacolari ed innovativi, sono stati condotti diligentemente ad uno stadio di costrizione e stretta regolamentazione, ai margini del “buon” linguaggio cinematografico, per essere relegati, come un animale dal difficile ammaestramento, a fare l’attrazione da circo dentro parchi di divertimento, come i simulatori di viaggio presenti a Disneyland, e a limitati esperimenti di qualche ingegnoso inventore, come il Sensorama di Morton Heilig, o di qualche regista classificato come sperimentale, come Stan Brakhage ed il suo Anticipation of the night. L’istituzione di un linguaggio cinematografico codificato in parallelo con l’evoluzione delle tecnologie ha trasformato l’originaria attrazione fieristica nel cinema di oggi, limitando l’aspetto puramente presentazionale del medium alle inquadrature iniziali e finali delle pellicole, come cappello e chiusura alle vicende che le figure di linguaggio hanno saputo sempre meglio narrare, privilegiando l’aspetto puramente rappresentazionale dell’immagine animata. Man mano che il cinema istituzionale ha preso corpo, anche la posizione psicologica dello spettatore rispetto al quadro è andata via via modificandosi, abbandonando, da un lato, l’estrema distanza dal mondo finzionale, e, dall’altro, l’estrema immersività delle esperienze simulatorie, per posizionarsi a metà di questi due estremi, ossia al posto della superficie dello schermo, acquisendone il carattere di invisibilità e di immaterialità per una visione di tipo voyeuristica, in cui lo spettatore osserva silenziosamente lo svolgersi delle vicende dal loro interno, diventando una sorta di presenza fantasmatica all’interno della diegesi, invisibile agli occhi dei protagonisti, libero da qualsiasi vincolo spazio-temporale che gli impedisca di muovere il proprio occhio meccanico in lungo ed in largo nell’ambiente finzionale, ma, allo stesso tempo, incapace di interagire attivamente con la rappresentazione: la fisicità dello spettatore all’interno della sala di proiezione diventa un necessario surplus nel cinema istituzionale, come un peso morto da scaricare a terra, tramite le sequenze introduttive, per consentire la buona riuscita del viaggio, e da riprendere al termine della proiezione. E, con l’illusoria sparizione della fisicità del corpo dello spettatore di fronte allo schermo, vengono meno anche tutti quei riferimenti ad esso che il cinema era solito fare, direttamente tramite lo sguardo in macchina ed indirettamente tramite le simulazioni. 89 A partire dagli anni Dieci, in cui l’interpellazione del pubblico verrà definitivamente proibita ad opera delle major americane, il destino che l’evoluzione del cinema riserverà alla soggettiva sarà alquanto controverso ed in bilico tra l’esigenza di rappresentare una storia da un punto di vista oggettivo e quello di immergere fisicamente lo spettatore in essa, cercando di adattarla al linguaggio dei piani, senza mai però risolvere tale conflitto di interessi: se, da un lato, le inquadrature a carattere soggettivo delle origini vengono quasi totalmente rimosse per riapparire solo nelle sequenze più spettacolari, come il celebre inseguimento sotto la sopraelevata ripreso dal paraurti dell’automobile del detective Jimmy “Popeye” Doyle, alias Gene Hackman, in Il braccio violento della legge di W. Friedkin del 1971, dall’altro lo sguardo in macchina viene quasi indissolubilmente legato e relegato alla soggettiva vera e propria, inquadratura che rappresenta la visione di un personaggio diegetico e che necessita perciò di un’altra inquadratura che mostri il personaggio vedente. L’inquadratura soggettiva, adattata al sistema rappresentativo, ossia dotando il soggetto della visione di un corpo fisico finzionale, giustifica la presenza dello sguardo in macchina e si allinea al linguaggio simbolico narrativo, senza, tuttavia, risolvere appieno il problema della presenza fisica dello spettatore che queste figure pongono in virtù della propria natura simulatoria: Di fronte ad un enunciatore che funge da mossiere assoluto, l’enunciatario non può illudersi della propria capacità di manovra; la sensazione di essere là, preso nei confini della scena (diciamo: l’impressione di agire dentro il mondo che gli è stato destinato, quale narratario) si scontra con il sospetto che ogni presenza sia già stata decisa. […] Nell’interpellazione l’enunciatore, che pure sembra muovere il gioco, confessa uno sguardo tendenzialmente senza effetto; nella soggettiva l’enunciatario, che pure sembra direttamente impegnato nella partita, confessa uno sguardo tendenzialmente senza intenzione. […] Ciò significa che anche nel testo filmico l’emergere di una soggettività si intreccia con il rischio dell’assoggettamento: nei bordi del quadro e nel suo fuori campo, tra il trovarsi ed il perdersi c’è solo un battito di ciglia.63 63 Casetti Francesco, op. cit., pp. 65-66. 90 L’abbandono del regime voyeuristico, che comporta l’uso dell’interpellazione e della soggettiva, svela di colpo allo spettatore il suo assoggettamento alle volontà della macchina da presa nell’ambiente diegetico, poiché in entrambi i casi l’immagine pretende non solo di mettere lo spettatore nei panni di entità diegetica, visibile ai personaggi e libera di agire secondo la propria volontà, ma anche di continuare a relegare la sua presenza a puro spettatore passivo ed impotente; non si tratta più di vedere cosa vede il personaggio tramite uno strumento ottico che permetta il passaggio di consegne da egli allo spettatore, come in As Seen Through a Telescope di George Albert Smith del 1900, né di filmati panoramici che riproducano una visione oggettiva, e neppure di sguardi espliciti verso la platea, ma di mettere, psicologicamente e fisicamente, lo spettatore “dentro” il corpo e la mente di un personaggio di finzione, palesando l’impossibilità di usare il proprio libero arbitrio nell’interagire attivamente nella vicenda, poiché, se l’interpellazione, da un lato, svela la barriera che separa la sala dalla realtà dell’immagine in quanto possiamo guardare sì negli occhi il personaggio ma non comunicare ed interagire liberamente con lui, dall’altro la soggettiva non offre possibilità di controllo ottenendo l’effetto opposto di ricordare allo spettatore la sua immobilità, procurandogli, in entrambi i casi, un senso di impotenza comunicativa e motoria che ne impedisce l’identificazione, caso ben esemplificato dal fallimento commerciale di Lady in the lake di R. Montgomery del 1947. Il confronto fra l’approccio alle visioni a carattere soggettivo del cinema degli albori e quello alla soggettiva in quello istituzionale ci rivela come, nel primo caso, la mancanza di una figurativizzazione di un simulacro del soggetto della visione comporti un pieno e diretto coinvolgimento della sua fisicità, la cui presenza non viene mai ignorata ma considerata invece come continua all’immagine, mentre, nel secondo caso, è proprio il rimando di questa fisicità ad un personaggio interno alla cornice, e la conseguente spartizione severa fra entità fittizia ed entità reale, che svela l’artificio tecnologico estromettendo bruscamente lo spettatore da ogni forma di immedesimazione. A prima vista, Doom, offrendo la possibilità di controllo dell’inquadratura soggettiva, sembra risolvere apparentemente la spaccatura che l’uso di tale figura causa nel cinema istituzionale, portando lo spettatore reale al di là dello specchio magico tramite l’interfaccia di controllo, donando alla settima arte l’implementazione tecnologica di cui essa era carente e a cui aspirava; tuttavia, a ben vedere, il rimando al corpo dello spettatore coincide invece con quello tipico delle pellicole delle origini, per le quali la natura simulatoria sottende ad una continuità fra spazio immaginario e spazio reale, per 91 cui non vi è alcun simulacro dello spettatore ed il rapporto fra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori la cornice non conosce forme di mediazioni, se non per l’arma che, al pari del mascherino rotondo, simbolo di visione meravigliosa implementata dalla tecnologia, segna la fusione dell’uomo con la propria protesi meccanica nella creazione di un nuovo soggetto ibrido a cavallo fra imaginazione e realtà, accostabile alla figura del cyborg.64 L’inquadratura soggettiva di Doom non riprende le caratteristiche proprie della classica figura della soggettiva che il cinema istituzionale utilizza per calare lo spettatore nell’interiorità psicologica del personaggio, come nel caso di Essere John Malkovich, film di Spike Jonze del 1999, ma, al contrario, riprende la figura dell’a parte di derivazione teatrale, in cui uno dei personaggi ha proprio il compito di comunicare direttamente col pubblico al fine di guidarlo ed istruirlo nella fruizione della vicenda, ossia ponendosi a cavallo fra il piano immaginario della rappresentazione e il piano della realtà, proprio come il giocatore di Doom, il quale somiglia sempre più a quella folla di saltimbanchi, acrobati e illusionisti che nel cinema delle origini erano soliti chiamare in causa lo spettatore con lo sguardo al fine di ottenere la sua attenzione ed invitarli alla immedesimazione65. Il ruolo di ponte comunicativo tra realtà e immagine instaurato dall’a parte permette, da parte dello spettattore, un’immedesimazione di tipo duale con l’immagine, la quale fonde la propria verosimiglianza percettiva con la percezione reale della sala di proiezione, richiamando la condizione tipica di con-fusione del bambino nella fase primaria, in cui il contatto visivo e tattile con lo sguardo ed il corpo della madre costituiscono la base della realtà soggettiva del bambino, mentre, al contrario, l’impostazione voyeuristica della fruizione cinematografica, la quale si basa sul processo di simbolizzazione tipico del complesso edipico della fase secondaria in cui il bambino osserva distaccato il padre e la madre rinunciando, per il tabù dell’incesto, all’unione fisica con essa e identificandosi di conseguenza con il padre, presuppone l’esistenza di una sorta di barriera che tiene a distanza lo spettatore dalla rappresentazione e di cui egli non deve a qualuque costo accorgersi, come accade invece con l’uso della soggettiva. Se nel voyeur, tramite la delegazione psicologica al personaggio raffigurato, l’istinto sessuale passa in secondo piano ponendo nella stessa condizione anche il corpo stesso, nella relazione duale questo istinto trova il proprio sfogo nella fisicità che l’a parte ricorda in continuazione allo spettatore di possedere, e non è un caso, quindi, che lo sguardo in macchina di Le coucher de la mariée, considerato il primo esempio di 64 65 Si veda cap. 3.1: Il cyborg ed il torpore dei sensi. Dagrada Elena, op. cit., p. 29. 92 interpellazione voluta, abbia una così profonda valenza sessuale. Se, da un lato, l’interpellazione verifica la fisicità dello spettatore, dall’altro essa fa la stessa cosa anche con la fisicità dell’immagine, invitando la platea ad approfittare di questa identità spaziotemporale tra sala e schermo: raffigurando la protesi tecnologica che lo spettatore applica al proprio corpo per godere della nuova realtà espansa, il mascherino circolare, che caratterizza le visioni meravigliose del cinema degli albori, è anche un’a parte vero e proprio, ossia il ponte di comunicazione che ricorda allo spettatore sia della propria entità fisica che di quella immaginaria, e della continuità fra le due, ponendo sullo stesso piano di esistenza l’esperienza di fruizione del dispositivo cinematografico e quella dello strumento ottico utilizzato nell’immagine, in un’unità allucinata in cui lo spettatore vede sovrapporsi l’immagine ottenuta dallo strumento ottico all’immagine dello schermo fino a coincidere in una cosa sola. La figura dell’interpellazione si pone a cavallo fra due dimensioni opposte, comportando un’identificazione dello spettatore nel personaggio con cui ha scambiato lo sguardo; tuttavia, nel momento in cui questo personaggio ritorna, per così dire, ad “ignorare” lo spettatore, la visione perde il carattere duale e ritorna alla configurazione edipica, causando una sensazione di costrizione poiché l’immedesimazione immaginaria ottenuto con lo sguardo diventa simbolica, rivelando che quella coincidenza di sguardi non comporta anche una coincidenza di intenzioni, rendendo la soggettività immaginaria assoggettata alle volontà autonome e predestinate del personaggio: da ciò il divieto istituzionalizzato dell’interpellazione dello spettatore. Tuttavia, la figura dell’a parte non si limita al reciproco scambio di sguardi con una figura umana al di là dello schermo, bensì, per fare da ponte tra le due dimensioni, può materializzarsi in un oggetto qualsiasi, come succede d'altronde col mascherino circolare; infatti, analizzando il dispositivo di visione messo in piedi con l’Hale’s Tour, si nota la mancanza effettiva nell’immagine di qualsiasi figura umana con cui immedesimarsi, e sembrerebbe, a prima vista, che non vi siano elementi riconducibili all’a parte, ma bensì solo un panorama ambientale in movimento come tanti; in realtà, è proprio tutta la costruzione architettonica attorno allo schermo a distinguere la fruizione dell’immagine da quella normale in sala, in quanto la ricostruzione della cabina del treno, con poltrone, maniglie e portapacchi, assieme a tutta l’effettistica relativa del mezzo, come sbuffi della locomotiva, vibrazioni ed aria in movimento grazie ad appositi ventilatori, creando così i presupposti affinchè lo spettatore con-fonda la fisicità della sala con quella dell’immagine: la presenza costante nel quadro di binari e cavi del telegrafo fanno da vero e proprio a parte alla ricostruzione della 93 cabina ove giace lo spettatore, per cui l’immagine mostrata trova la sua naturale continuità tematica nell’arredamento della sala, negli effetti speciali ed anche nello spazio vero e proprio, dato che lo schermo dell’Hale’s Tour occupa, con la sua visione prospettica, tutta la parete verso cui sono rivolti gli spettatori, come se non vi fosse una cornice, tanto che anche queste riproposizioni dell’ambiente ferroviario si potrebbero definire dei veri e propri a parte materializzati che concorrono a creare quella continuità immaginaria con la proiezione. Probabilmente questo è il motivo per cui il divieto di sguardo in macchina ha coinciso con l’avvento di sale di proiezione sempre più buie, ossia per evitare qualsiasi forma di collegamento immaginario fra le due realtà, qualsiasi fisicità riconducibile al rapporto duale, ma, al contrario, opponendo all’immagine dello schermo, perfettamente visibile ed enorme nelle dimensioni, una realtà fisica buia e sempre più immateriale, fantasmatizzando la sala e lo spettatore che vi si siede dentro, rendendo i riferimenti all’apparato di visione ed allo spettatore gli unici a parte possibili in questo tipo di fruizione, mentre, paradossalmente, l’a parte più convincente dovrebbe essere costituito dal buio dell’immagine stessa. In Doom non serve che attorno allo schermo venga riscostruita l’ambientazione tecnologico-infernale del gioco per garantire l’immedesimazione, il che risulterebbe estremamente grottesco, ma basta che l’uso dell’arma posta in basso al centro dell’immagine sia controllabile tramite il controller di gioco: sebbene per giocare a Doom non vi sia un’arma collegata al dispositivo analoga a quella visulizzata, come la Nes Zapper rilasciata dalla Nintendo nel corso degli anni ’80 per cui era possibile colpire gli oggetti dello schermo puntando la pistola verso di essi, il joypad o la tastiera bastano a costituire dei veri propri a parte materiali dell’a parte virtuale onnipresente nell’immagine, in quanto essi forniscono la possibilità di interagire attivamente nell’ambiente di gioco, controllando sia il grilletto che il movimento dell’avatar. La mancanza di analogità fisica non impedisce al giocatore di fondere le due realtà contrapposte in un’unità immaginaria, come quella delle esperienze simulatorie del cinema delle origini, in quanto questo nuovo a parte fornito dalla tecnologia ha in sé delle qualità che rendono superfluo tutto quel bagaglio di effetti sonori e motori, oggettistica d’arredamento, e anche gli stessi riferimenti al ruolo dello spettatore di fronte all’immagine animata: se l’a parte cinematografico ha sempre funzionato come ponte unidirezionale dell’informazione dall’immagine alla platea a cavallo fra il mondo finzionale e quello reale, per cui allo spettatore veniva data l’impressione di comunicare direttamente con il personaggio diegetico, ma senza avere al contempo la possibilità di 94 ricambiare l’informazione ricevuta rendendo effettive le proprie volontà sull’immagine, in Doom il nostro ponte di comunicazione permette di delegare la volontà del giocatore anche all’interno del quadro proprio tramite il dispositivo di controllo che, da buon servo, ascolta i nostri ordini e li rende effettivi nel mondo di gioco: molto probabilmente, non esiste giocatore di Doom che, alla prima partita, non abbia provato l’interazione con lo schermo sparando dei colpi a vuoto e muovendosi casualmente nello spazio, oltrepassando in quel momento la superficie dello schermo e diventando un tutt’uno con esso, proprio perché la presenza virtuale, e, di conseguenza, il fondamento del gioco stesso, sta tutta in quell’a parte costituito dal binomio arma/immagine-controller, tanto da rendere queste azioni iniziali di “prova” come l’atto fondativo della nuova soggettività espansa del giocatore; tuttavia, se questi test sono sufficenti a garantire l’efficacia della simulazione, presto risulterebbe alquanto noiso vagare a vuoto nello spazio facendo esplodere di tanto in tanto qualche bidone di liquido infiammabile o attivando qualche meccanismo, tanto da compromettere la potente immersività e la longevità di gioco, in quanto Doom non si preoccupa di fornire un’ambientazione esteticamente apprezzabile come una visione panoramica delle origini, e neppure ci offre una molteplicità di oggetti con cui interagire, ma, al contrario, riduce al massimo la presenza di entrambi gli aspetti per far risaltare invece la presenza dei nemici, veri e propri fattori di immersività: sotto questa luce, la loro ostilità nei confronti del giocatore-avatar diventa il tentativo continuo di porre fine a questa esistenza duale, di respingerlo al di fuori della superficie dello schermo, impedendogli di continuare a interagire liberamente con l’immagine, e questo essere a propria volta sempre al centro delle attenzioni nemiche non fa altro che rafforzare l’impressione di presenza nel giocatore, al quale è semplicemente chiesto di reagire, portando così a compimento la bidirezionalità del ponte di comunicazione tra le due realtà: è proprio la reazione necessaria richiesta al giocatore a motivare l’immersività nel gioco e a rendere questo a parte moderno così efficace da non aver bisogno di altre analogicità fisiche tra le due realtà, utili a rafforzare la simulazione di presenza, come nell’Hale’s Tour, poiché il costante pericolo del nemico che potrebbe apparire da qualsiasi direzione, fa sì che il giocatore non possa letteralmente staccare gli occhi dallo schermo e viva in una costante apprensione adrenalinica, come se il danno fisico subito dal proprio avatar avesse realmente delle conseguenze effettive sul suo corpo. L’analogicità tra il dispositivo di controllo e la sua raffigurazione nello schermo è la chiave che permette il prolungamento fisico del giocatore nella realtà raffigurata, scatenando molteplici reazioni fisiologiche, come ansia, panico, batticuore e sudore, che 95 vanno ad unirsi sapientemente con la riemersione degli istinti più primordiali dell’individuo sepolti nel suo inconscio, nel periodo di vita precedente alla sua costituzione come entità distinta dal mondo esterno: la semplice messa in funzione di un dispositivo tecnologico, ossia la pressione di un tasto, corrisponde alla messa in funzione di un dispositivo tecnologico figurato, ossia la pressione del grilletto, rendendo immediata l’interazione con esso e la continuità con la presenza virtuale, un po’ come nel cinema delle origini, in cui la rappresentazione del dispositivo di visione meravigliosa fa da controparte al proiettore cinematografico in sala, mentre l’identificazione tramite lo sguardo rende il personaggio di finzione analogo allo spettatore, e il mascherino, a sua volta, rende la visione ottenuta col dispositivo meraviglioso analoga alla visione dell’immagine sullo schermo, a patto di accettare l’impossibilità di rendere analoga anche la propria volontà di azione nel mondo raffigurato, cosa che Doom, e più in generale, il videogame in sé, puntualmente rende possibile con la pistola e con il dispositivo di controllo. 96 4.3: Il finale punitivo “And when you kill a man, you’re a murderer Kill many, and you’re a conqueror Kill them all… Ooh… Oh you’re a god!” Megadeth, Captive Honour La lotta continua che caratterizza il gameplay di Doom viene a presentarsi come un tentativo, da parte della volontà individuale, di affermazione del regime immaginario su quello simbolico tramite l’estromissione del padre dal triangolo edipico, in un ritorno allo stadio dell’infanzia in cui il bambino concepiva il corpo della madre come fonte di nutrimento, affetto e protezione: il senso della vista, senso della distanza per eccellenza, diventa paradossalmente il senso della vicinanza e del contatto garantendo da un lato l’immersione del giocatore nell’ambiente di gioco e dall’altro la restaurazione di quel rapporto duale tra madre e figlio il giocatore ha dovuto progressivamente imparare a rinunciare nel suo inserimento nella società, spostando altrove l’oggetto dei propri desideri. Tuttavia, l’atto di guardare una simulazione non è propriamente un gesto paragonabile all’esplorazione visuale tipica dell’occhio vivo in cerca di comprendere, tramite l’assimilazione di una gamma di dettagli, il senso complessivo della visione, ma, bensì, è un occhio fisso, immobilizzato, la cui percezione è sovradeterminata da strutture mentali, idee ritenute come assolute, che ne deformano il senso complessivo a propria immagine e somiglianza, attribuendogli significati e proprietà che essa di per sé non possiede, facendo credere al soggetto di avere la capacità di comprendere nella propria mente l’infinita complessità della realtà e, contemporaneamente, di non riconoscere, in questa visione allucinata, la matrice della propria soggettività, come Dio che crea l’uomo a propria immagine e somiglianza ma allo stesso tempo è detentore del senso della creazione, cosa che lo rende completamente differente dall’uomo stesso. Lo spazio prospettico, lo scambio di sguardi tra rappresentazione e realtà e la presenza nella raffigurazione sono tutti concetti mentali che l’individuo crede reali nel momento di interazione con l’apparato cinematografico come col videogame, rigettando indirettamente l’esperienza sensibile che la vita fornisce in cambio di un comodo quanto 97 immaginario appagamento delle proprie frustrazioni nei confronti della struttura sociale e della natura, intesa come realtà esperibile. Tuttavia, per quanto efficaci possano essere le simulazioni visive che l’evoluzione della tecnologia ha saputo regalare al genere umano, la rincorsa verso l’innocenza perduta ha sempre coinciso, nell’immaginario collettivo occidentale, con un evento tragico che, come una spada di Damocle posta sulla testa di ogni essere cosciente, si abbatte su chi si spinge troppo oltre i limiti impostigli dalla cultura e dalla natura. Gli eroi del mondo moderno non sono più dei fini intellettuali alla Ulisse che sanno come vivere in maniera equilibrata tra la gestione delle proprie conoscenze e il benvolere degli dei, bensì sono individui in cerca del limite da superare, oltre l’opinione comune ed al di là dell’impresa impossibile, fino a quando qualcosa, o qualcuno, pone fine bruscamente a questo sogno di grandezza, quasi sempre con la morte della persona, ed è a quel punto che essi vengono elevati nell’olimpo delle divinità che hanno accarezzato per qualche attimo la terra su cui gli uomini camminano: i vari Jimi Hendrix, Martin Luther King e Patrick de Gayardon hanno dimostrato quanto in là si possano spingere le facoltà umane ampliando lo spettro del possibile comunemente riconosciuto, ma solo quando questi hanno incontrato la falce della morte sono stati eletti a simbolo collettivo, diventando miti senza tempo. Il senso di avventura e ricerca vive un continuo braccio di ferro tra chi è disposto a credere nell’impresa ed una serie di detrattori, chi a parole e chi con i fatti, che invece si preoccupa di mantenere sempre identica la concezione delle cose, che non vada troppo oltre i limiti della morale condivisa, del buongusto comune, ed anche, certe volte, degli interessi di pochissimi, come se questa società avesse il bisogno di permanere identica in quanto perfetta, anche se il cammino intrapreso dall’uomo capace di costruire ed adoperare tecnologie, dallo strumento musicale al linguaggio stesso, sembra aver preso una corsa senza fine verso una non ben identificata meta chiamata progresso, per poi accorgersi tutti quanti che il mondo è sempre quello, nonostante tutte le facce che esso possa assumere, che il progresso è una mera illusione preconfezionata da chi ti vuole vendere l’ultimo modello di automobile, che i bisogni reali si riducono a pochissimi ed elementari, che nessuno mai inventa niente, ma riprende invece sempre da qualcun altro in precedenza, e che, infine, la morte arriva per tutti. La lotta contro la morte per un’immortalità immaginaria sembra essere un elemento che accomuna Doom e chi si batte costantemente verso un obiettivo da conseguire ed un limite da superare, vivendo la propria vita in funzione di tale tensione 98 immaginaria senza soluzione di continuità, in quanto è la lotta stessa a rendere vivibile la vita, mentre la mancanza di ostacoli, posti lungo il cammino verso la propria meta, comporta necessariamente la mancanza di un senso per cui vivere. In Doom si lotta incessantemente gli uni contro gli altri per sopravvivere, fino a quando rimane un solo vincitore, il re del silenzio circostante e del vuoto esistenziale, ed il giocatore è chiamato a far parte attiva di questo vero e proprio massacro collettivo, cercando di sopravvivere in mezzo alle minacce delle sostanze tossiche e a quelle di spietati nemici, approssimandosi sempre più verso una malignità crescente che trasfigura le tecnologie del laboratorio marziano in ambientazioni sinistre e deformi, fino a mettere piede nel vero e proprio Inferno, ove risiede il male assoluto da sconfiggere, per poter sopravvivere e riuscire a tornare finalmente sulla Terra. Sebbene vi sia una serie di mostri finali da sconfiggere prima di aver terminato il gioco, Doom non presenta uno scopo effettivo da raggiungere, quanto, piuttosto, quello di garantire la continua sopravvivenza nel mondo finzionale, terminando un livello dopo l’altro fino al loro termine, come in un’eterna ripetitività interrotta dai limiti fisici e tecnologici del software, come se il gioco, privo di essi, potesse continuare all’infinito: la narrazione, fornita ogni tanto di qualche schermata di testo, provvede sì costruire le basi minime della storia del protagonista, marine spaziale perso sulle lune di Marte, ma tuttavia non fornisce alcun tipo di informazione particolareggiata inerente ai singoli mostri, alle ambientazioni fantascientifiche o alla logica che scandisce la successione dei livelli, né tantomeno utile ad inoltrarsi nella psicologia dell’eroe e neppure nella sua controparte nemica, di cui non vi è alcun dato se non informazioni di carattere generale: essa costituisce semplicemente il Male Assoluto a cui fa da contrapposizione il marine spaziale armato della sua tecnologia. Tuttavia, è proprio nella natura generale di queste poche informazione sparpagliate qua e là nelle schermate intrapposte ai livelli che si riescono ad intravvedere le idee di fondo che hanno spinto il team della iD a creare il mondo di Doom. A questo proposito si rivelano particolarmente interessanti i finali visualizzati al termine dei primi due episodi della saga ed i relativi testi annessi, con l’aggiunta dello speciale capitolo Thy Flesh Consumed come espansione degli altri tre del gioco originario, vale a dire Knee-Deep in the Dead, The Shores of Hell e Inferno. Il primo capitolo costituiva inizialmente la versione gratuita di Doom, come promozione all’acquisto degli altri due, ed il suo termine può essere già a tutti gli effetti considerato come il primo e provvisorio finale del gioco, in cui il giocatore viene teletrasportato in 99 una stanza dislocata del livello, priva di luce e popolata da numerosi mostri in cui l’energia vitale è programmata per calare inesorabilmente fino ad uccidere l’eroe, come se egli non fosse in grado umanamente di sopportare questo primo assaggio del mondo infernale; una volta terminata la partita, appare la seguente schermata di testo: “Once you beat the big badasses and clean out the moon base you’re supposed to win, aren’t you? Aren’t you? Where’s your fat reward and ticket home? What the hell is this? It’s not supposed to end this way! It stinks like rotten meat, but looks like the lost Deimos base. Looks like you’re stuck on The Shores of Hell. The only way out is through. To continue the DOOM experience, play The Shores of Hell and its amazing sequel, Inferno!” Escludendo l’ultimo periodo, che ha scopi esclusivamente commerciali, il testo ci toglie ogni convinzione di aver concluso il gioco, ogni illusione di grandezza, ogni speranza di abbandonare la base lunare per ritornare a casa, rivelandoci invece che l’unica strada possibile verso l’uscita passa direttamente dalle spiagge dell’inferno, in uno sconvolgente e sempre più mortale (“rotten meat”) cammino verso l’Inferno, scritto nell’italiano di Dante al posto dell’inglese “hell”, come se il percorso dell’eroe avesse qualche attinenza con la vicenda del poeta fiorentino; infatti, a ben vedere, le analogie con la Divina Commedia sono numerose ed indicative sulla condizione psicologica del giocatore-protagonista di Doom: “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! 100 […]Io non so ben ridir com' i' v'intrai, tant' era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai.”66 Come Dante all’inizio della sua avventura, il giocatore-Doomguy si ritrova in un ambiente labirintico in cui saltano le normali leggi del buon vivere e non sa come uscirne, vaga con difficoltà all’interno di esso terrorizzato da nemici agguerriti, e s’è calato nel mondo finzionale abbandonando la percezione della realtà, senza una sequenza introduttiva che spieghi l’origine diegetica del gioco. Il percorso compiuto dall’autore fiorentino nella prima cantica è una lunga discesa attraverso gironi di peccatori che compongono la fossa dell’inferno, fino a giungere al centro della terra, il punto più distante da Dio e dalle sue leggi nell’universo tolemaico-cristiano, ove risiede congelato il Demonio, l’esponente più illustre del peccato più imperdonabile mai concepito, il tradimento verso Dio. Dante, come illustrato dai primi versi della sua opera, non è un visitatore che casualmente si ritrova a passeggiare nelle viscere infernali, ma è un peccatore egli stesso, il quale, intontito dal torpore, si ritrova distante dalla vita e dalle leggi che Dio ha imposto ad essa, ed è questa la causa necessaria e scatenante che gli ha permesso di entrare in una dimensione normalmente vietata a chi è ancora in vita: infatti, l’abbandono della percezione è solo l’inizio di un lungo e progressivo allontanamento dalla vita che il poeta prova su di sé man mano che la visita delle folle di peccatori continua verso peccati sempre più gravi, poiché la vista di questi dannati, e l’immedesimazione conseguente, costringe Dante a caricare sulle proprie spalle il peso del peccato da essi commesso, ed in questo modo di continuare a “sprofondare” verso un ulteriore girone, fino a quando, di fronte a Lucifero, autore del peggior peccato mai commesso, egli si descrive come “gelato e fioco”, per poi descrivere questa sensazione con “Io non morì e non rimasi vivo” 67, proprio come il demonio postogli di fronte, e proprio come quello rappresentato nel finale di Doom II (fig. 15), una testa caprina scheletrica incastonata in un dispositivo tecnologico, un essere in bilico tra la vita e la morte, dotato di una ferita nella fronte da cui vengono partoriti i mostri che popolano il gioco, dietro alla quale, in una stanza segreta, giace impalata la testa di John Romero (fig. 16), vero creatore di Doom, proprio come l’entità di Doomguy, vivo come un essere umano e freddo come macchina, legato indissolubilmente alla propria tecnologia di 66 67 Dante Alighieri, Divina Commedia: Inferno, Canto I°, versi 1-6, 10-12. Dante Alighieri, op. cit., Canto XXXIV°, versi 22, 25. 101 guerra, dalla cui mente viene partorita la propria presenza nell’ambiente di gioco, e dietro alla quale risiede un giocatore in carne ed ossa. Il percorso di Doomguy ricalca la via già tracciata dal poeta italiano, poiché è proprio tramite l’immedesimazione della vista che il giocatore si addentra sempre più nell’universo finzionale, livello dopo livello, affrontando mostri sempre più paurosi e ambientazioni sempre più malsane, create all’insegna del tradimento: porte a scomparsa, meccanismi che si azionano a sorpresa e mostri nascosti dietro l’angolo tradiscono di continuo il giocatore, il quale si ritrova costretto a non potersi fidare mai dell’apparente innocuità dell’ambiente mostratogli, e a giocare perciò in un costante stato di eccitazione adrenalinica che ben si sposa, d’altronde, con l’uso delle armi virtuali. Lo scambio di sguardo con i nemici consente l’immedesimazione in essi certificando la presenza virtuale del giocatore nello spazio di gioco, fino al massimo dell’immedesimazione immaginaria con il Lucifero tecnologico, vero e proprio specchio della condizione del giocatore. Non esiste finalità in Doom, se non quella di sprofondare sempre più nei meandri che lo schermo propone, in un continuo ed insistito allontanamento dalla distinzione tra immaginazione e realtà, fino a quando il giocatore si trova di fronte al proprio doppio virtuale, rappresentato dal diavolo, senza tuttavia riconoscere in esso la propria condizione psicologica; ancora una volta è il gioco stesso a ribadire che Doomguy non differisce dalle creature mostruose che egli affronta, e lo fa nella schermata successiva alla distruzione del Lucifero tecnologico, proponendo una carrellata di tutti i nemici presenti nel gioco, uno dopo l’altro, lasciando al giocatore la possibilità di uccidere il mostro visualizzato premendo un tasto qualsiasi, e scalando così alla visualizzazione del mostro successivo; l’ultimo di questa serie non è il demonio, che permane immobile sullo sfondo, ma è Doomguy stesso, definito “our hero”, il quale non si sottrae alla logica mortale della pressione del tasto morendo in una pozza di sangue (fig. 17). Doom, letteralmente “rovina, morte, destino (tragico, funesto)”, non è solamente il titolo formale del gioco, ma è anche il senso di esso ed il destino di chi ci gioca, un destino che non porterà a nulla di concreto, nessuna vittoria, nessuna consacrazione, nessuna vita eterna, ma solo una morte tragica, il termine delle avventure simulate e la rivincita del mondo simbolico sull’immaginario in cui il giocatore si è rifugiato durante il gioco. Il tema dell’innocenza perduta che mai potrà essere più raggiunta è la vera epifania che si mostra agli occhi di chi ha faticato così tanto per terminare tutti i livelli, come se tutta la tensione ad evadere dalla realtà dominata dalle regole della socialità venisse 102 spazzata via in un sol colpo, riportando il giocatore alla condizione iniziale prima della prima partita, come in un percorso circolare che non porta a nulla ma decreta la definitiva perdita dell’individuo; la sequenza finale del primo episodio della serie videoludica esplicita chiaramente questo concetto, mostrando la natura incontaminata con cui l’eroe si ricongiunge dopo le fatiche infernali: l’inquadratura ritrae inizialmente un coniglio vagare libero in mezzo all’erba (fig. 18), per poi carrellare verso sinistra e mostrare la testa dello stesso coniglio impalata da una specie di enorme spina con lo sguardo fisso verso il giocatore (fig. 19). Il coniglio nell’erba rappresenta chiaramente l’infanzia innocente del giocatore in cui egli era libero di vivere spensieratamente la propria unione duale con la natura, vale a dire la madre, per poi invece mostrare la fine di questa innocenza con la testa e gli occhi del coniglio rivolta verso il giocatore ad indicare l’indifferenza fra egli e l’animale nella figura tipica dell’a parte che domina tutto il gioco, mentre la spina, in primo piano proveniente dal lato inferiore della cornice, altro non è che un analogo dell’arma di Doomguy, ossia il nostro a parte visualizzato che decreta la morte dell’avatar-giocatore, come nel finale di Doom II in cui è il giocatore stesso ad uccidere il proprio personaggio. È nel suo atto di “estendersi” nella realtà simulata per compiere massacri che egli decreta la fine stessa di quella innocenza, che si condanna ad una esistenza infernale continuando immaturamente a desiderare l’oggetto perduto invece che spostare altrove questa tensione, e, in un certo senso, è proprio il gioco stesso a fare la morale al giocatore, a confessare la propria natura illusoria nell’atto del suicidio suggerito dal finale: scaricare la propria arma virtuale contro tutte le entità presenti in Doom significa di riflesso puntare l’arma contro di sé, poiché non c’è differenza fra il giocatore ed esse, in quanto entrambi hanno lo stesso scopo, sopraffare l’Altro con la violenza, il che rende mostruoso anche l’avatar-giocatore stesso e meritevole, quindi, di morire come il proprio nemico. Il finale dell’episodio aggiuntivo Thy Flesh Consumed non fa che confermare questa ipotesi, mostrando l’avatar che rabbioso tiene in mano la testa sanguinante del coniglio (fig. 20), con il testo “someone was gonna pay for what happened to Daisy, your pet rabbit.”, che ci svela il motivo della nostra battaglia in questo episodio della serie, ossia vendicare la morte del coniglio Daisy, l’animale domestico di Doomguy, ribadendoci che tutte le uccisioni compiute hanno lo scopo di vendicare la perdita di quel coniglio, simbolo dell’innocenza, che mai più potra tornare ad esistere, senza accorgersi, e qui sta l’ironia, che è il giocatore stesso nel suo rapporto duale col proprio immaginario, e quindi con il mondo simulato, ad uccidere la propria innocenza, confermando così la 103 propria dannazione. Inoltre, il gioco non si si risparmia neanche di deridere apertamente la presunta mascolinità dell’eroe-giocatore nel suo continuo uso della forza, ponendo grossi dubbi sulla sua sessualità, in bilico tra il gesto violento di controllo, il lato maschile, e la sdolcinatezza del sentimento verso una creatura vivente, il lato femminile, confermando la teoria lacaniana, secondo la quale nell’unione duale con la madre non esisterebbe una differenziazione sessuale tra bambino e bambina in base al possesso o meno del fallo ma entrambi sarebbero il fallo68, ossia l’oggetto immobile in primo piano che spunta dal basso dell’inquadratura, spina o arma che sia, che il giocatore e il mondo infernale sembrano richiedere per unirsi in un unico e totale piano di esistenza. Il continuo riferimento alla simbologia satanista, di cui tutte le ambientazioni di Doom sono tappezzate, a partire dalle croci rovesciate, dai pentacoli e dai caproni in essi inscritti, va perciò letto non solo come un elemento suggestivo dell’ambientazione, ma anche come una continua indicazione sul comportamento da tenere all’interno del gioco, e più indirettamente, il destino avverso a cui il giocatore sta andando incontro nel corso della partita. Secondo Aleister Crowley, il principale codificatore del satanismo moderno69, il primo ed unico comandamento del “buon” praticante è infatti “Do what thou wilt”, ossia “fa ciò che vuoi”, in barba alla legge di Dio che limita la libertà individuale70, il che, letto nel mondo di Doom, si sposa appieno con l’etica di gioco, suggerendo di “sbarazzarsi di chi si mette sulla propria strada”, ossia chi entrerà nel campo della visuale, “per diventare libero come Dio”, vale a dire il Lucifero dell’ultimo livello di Doom II, che, al contrario, è imprigionato dalla tecnologia, ma in cui il giocatore non si riconosce e cerca di distruggere, realizzando così il proprio suicidio, ossia la fine del gioco e della propria esistenza virtuale. Il destino del giocatore di Doom è proprio avverso come il titolo stesso suggerisce, poiché non può che concludersi con il suicidio dell’eroe ed il conseguente annullamento del desiderio provocato dall’espulsione del giocatore dalla relazione immaginaria con l’immagine, in favore di una rappresentazione simbolica, in cui egli non può far altro che togliersi la vita, auto-escludersi dall’immagine ritornando alla propria realtà, auto-punirsi uccidendo il proprio sé simulato con le armi virtuali che il gioco ci propone, come la spina col coniglio e la sequenza di Doom II, proprio perché risulta impossibile recuperare l’innocenza perduta, ritornare indietro nel tempo all’infanzia nella fase primaria, e neppure diventare come Dio, puri ed immortali, liberi da qualsiasi dovere 68 Stam Robert, Burgoyne Robert, Flitterman-Lewis Sandy, op. cit., p. 176. Si veda Aleister Crowley in www.wikipedia.org; ultima visita al 30/10/08. 70 Crowley Aleister, The Book of the Law, , Il Cairo, Weiser Books, 1904. 69 104 senza essere al tempo stesso prigionieri del dover essere liberi, andare al di là di ogni legge e di ogni morale, di ogni limite, anche al di là delle leggi della civiltà stessa, della socialità e del linguaggio, ed infine oltre la Legge del Padre ed il suo divieto di incesto. Non esiste apoteosi, ma solo punizione autoinflitta. Doom propone sì una storia lineare, ma al tempo stesso non fornisce i dettagli necessari a capirne tutti gli elementi semantici presenti nel gioco, a spiegarne le logiche, rendendo la vicenda raccontata da quelle scarne schermate di testo solo come un pallido sfondo all’eterna ciclicità del gesto violento, che, come una spirale verso il basso, trascina il giocatore nell’abisso della sua interiorità, portando a galla le pulsioni primordiali del proprio inconscio e trasfigurandole visivamente nel senso più negativo possibile, ossia all’insegna della logica che caratterizza la massa acefala di mostri ostili che il giocatore è chiamato ad eliminare senza pietà e senza ragione, senza accorgersi, tuttavia, di coincidere con quella stessa folla di nemici, uccidendo così anche la propria estensione virtuale. Il suicidio dell’avatar riporta il gioco ed il giocatore sul piano della realtà dominata dal regime simbolico, dal linguaggio e dalla socialità, espellendo il giocatore dal suo stesso immaginario; alla potente immersività che il gioco è capace di suscitare fa da giusto e necessario contrappeso un’altrettanto potente espulsione da questa illusione, contrapponendo un suicidio simulato alla vita simulata, come una sorta di punizione che il gioco dà a chi ha creduto fino in fondo alla logica di Doom, quella dello sguardo che eccita, dal nemico al giocatore, e quella dello sguardo che uccide, dal giocatore al nemico, senza rendersi conto che queste tensioni sono perfettamente invertibili. La punizione che il giocatore-avatar di Doom subisce da parte del gioco non può non richiamare alla memoria le punizioni che i finali delle pellicole del cinema delle origini riservano ad alcuni dei loro personaggi, a chi si diverte a predendersi dell’ingenuità altrui, come nel celebre caso de L'arroseur arrosè dei fratelli Lumière, o anche a chi semplicemente vede qualcosa che non dovrebbe vedere, come in As Seen Through a Telescope (fig. 7): Il finale punitivo appartiene di diritto a tutto il cinema delle origini; si tratta infatti di un vero e proprio topos, di un’autentica convenzione dell’universo spettacolare del tempo. La punizione del voyeur […] compare spessissimo, come rituale corollario nei film a strumento ottico, dove appunto il voyeur viene punito ogni volta che il suo sguardo si spinge oltre il lecito. […] Inoltre, questo finale non è solo molto diffuso nei film in cui ricorre la nostra figura, ma sempre in 105 questi film risulta essere uno dei più violenti. […] E soprattutto uno dei più inquitanti. Perché immotivato, almeno apparentemente, se non da un implicito ed imperscrutabile divieto di guardare che da Edipo in poi attraversa la cultura occidentale. Anche perché la colpa, qui, non è guardare e basta, ma di guardare a mezzo di una macchina.71 Anche nel cinema delle origini esiste perciò un finale punitivo che ricorre costantemente quando un personaggio raffigurato adopera uno strumento che permetta di espandere le proprie facoltà visive, e la punizione del voyeur è spesso molto violenta, e può spingersi fino alla morte dell’individuo guardante: esattamente ciò che succede al giocatore di Doom, il quale, colpevole di aver esperito della realtà simulata raffigurata sullo schermo, finisce per essere punito dal finale del gioco che uccide la sua estensione virtuale, mostrando il suicidio dell’avatar, o, peggio ancora, lasciando alla facoltà del giocatore-avatar il compito di auto-terminarsi in modo violento, prima di spegnere il gioco. Il peccato della vista proibita non risiede nell’oggetto della visione, ma nella volontà di trovare appagamento tramite lo sguardo, e merita di essere punito, poiché la visione meravigliosa delle origini e quella infernale di Doom non vengono mediate da un personaggio diegetico, il quale garantirebbe quel necessario distacco tra rappresentazione e realtà tipica della fruizione voyeuristica, tale da mantenere ben separato le due dimensioni di esistenza e rendendo la visione una soggettiva vera e propria, ma tirano in ballo direttamente l’entità dello spettatore nella sua totalità sensoriale e fisica tramite la configurazione fruitoria presupposta dall’a parte, offrendo una continuità esistenziale tra schermo e realtà che sia capace di eccitare il fruitore in uno spettro di possibilità che trova i propri due estremi ideali nell’eccitamento sessuale tipico dei film delle origini, da Le coucher de la mariée a As Seen Through a Telescope, oltre a tutti i film a “buco di serratura”, mentre al polo opposto troviamo l’eccitamento adrenalinico di Doom, e di tutte quelle pellicole capaci di “minacciare” la vita degli spettatori dell’epoca, come How It Feels To Be Run Over e Arrivée d'un train à La Ciotat. Questa proibizione della vista licenziosa ha origini molto lontane e attraversa tutta la storia della cultura occidentale, accogliendo dentro di sé anche il cinema delle origini ed un videgioco dell’ultima decade del XX° secolo, senza escludere il cinema istituzionale, nel quale la punizione del voyeur è insita nella stessa modalità di visione che rende impossibile allo spettatore intervenire o, in qualche modo, partecipare 71 Dagrada Elena, op. cit., pp. 66, 67. 106 direttamente alla vicenda rappresentata, ponendolo nella posizione di osservatore distante ed immateriale, come una fantasma, ossia già idealmente morto; tuttavia, non esiste una spiegazione univoca che sia capace di dare una motivazione univoca all’imponenza di questo divieto: se la Dagrada sostiene che essa derivi dalla concezione cristiana dell’uso peccaminoso di macchine che illusoriamente ci avvicinano a Dio, peccando così di superbia72, il fatto che già i greci avessero creato il mito di Edipo e quello di Narciso, assolve la Chiesa da questa responsabilità, rendendola semplice esponente, nel bene e nel male, di qualcosa che precede la religiosità e che va più in là della nascita della cultura occidentale, tanto che l’uso di finali punitivi ancor’oggi ha un effetto esilarante sul pubblico, basti pensare a certi spettacoli di cabaret contemporanei, come se questo divieto sia insito e costitutivo della cultura umana e da essa non possa prescindere: ancora una volta, sembra che la regressione, descritta da Freud, dal regime simbolico a quello immaginario, e tutto ciò che essa comporta, sia la spiegazione più convincente di questo fenomeno culturale, tanto che, i continui tentativi, sperimentazioni ed improvvisazioni nel lanciarsi col paracadute di Patrick de Gayardon, possono essere considerati come continui rinvii di un suicidio che prima o poi sarebbe avvenuto, decretando il limite umano ed innalzando Patrick allo stato di leggenda, cercando invanamente di afferrare e portare nella realtà un pezzetto di immaginario sempre sfuggevole, contro le leggi di natura che hanno impedito all’uomo di volare, così come i discorsi pubblici di Martin Luther King, capaci di unire pacificamente la popolazione nera americana in cerca di un’affermazione di diritti negati per secoli, possono essere considerati come un altro tentativo di cercare ed evitare una morte quasi certa, vista la scomodità di certi argomenti per certi livelli di potere, capaci di cose ben peggiori che uccidere un solo uomo. L’immaginario sembra il motore di questa società, della lotta senza tregua di Doom, dell’immedesimazione nello sguardo del voyeur che guarda col cannocchiale la bella ragazza; tuttavia, ad esso viene sempre accompagnata una dose di senso della realtà che permette di ridere nei confronti del voyeur punito e di restare distaccati psicologicamente dalla fine terrificante di Doom, ma anche di elevare certi personaggi “maledetti” allo status di eroi, senza frenare tuttavia i nostri entusiasmi e la nostra motivazione nella ricerca, poiché, d’altronde, in tutti questi tentativi di andare al di là dei confini della realtà, la speranza di farcela è sempre l’ultima a morire. 72 Dagrada Elena, op. cit., p. 68. 107 4.4: Lo specchio in Lady in The Lake e Doom III “My eyes never forget, you see behind me” Smashing Pumpkins, Quiet L’impostazione visuale di Doom, lungi dall’assomigliare ad una soggettiva del cinema istituzionale, richiama alla memoria le esperienze d’interpellazione diretta del pubblico tipiche del cinema delle origini, riconducibili alla figura dell’a parte teatrale ottocentesco, il quale aveva il compito di creare un ponte di comunicazione tra la realtà vera e quella finzionale, garantendo una sorta di continuità tra le due dimensioni; nonostante l’originale caratterizzazione umana di questo ruolo, il cinema primitivo ha saputo adattarne la funzionalità alle nuove possibilità espressive offerte dalla macchina da presa, affidando il ruolo dell’a parte anche a tutte quelle riprese che simulano un’esperienza di vita vissuta, dal viaggio in treno dell’Hale’s Tour alla sensazione di essere investiti di How It Feels To Be Run Over. Contrariamente alla modalità di fruizione presupposta dal cinema che andrà affermandosi dagli anni ‘10 in poi, per cui lo spettatore diventa una sorta di entità fantasmatica voyeuristica, capace sì di muoversi libero nello spazio e nel tempo diegetico, ma privo al contempo della capacità di poter interagire attivamente nella vicenda mostrata, il cinema delle origini fa continuamente riferimento, direttamente e indirettamente, alla fisicità dello spettatore, alla sua presenza effettiva in sala di proiezione, come se l’immagine simulata e la sala di proiezione coesistessero in una medesima dimensione spazio-temporale. La distinzione fra il regime di fruizione dello spettatore nel cinema delle origini, per il quale esiste una continuità spaziale e temporale soggettiva tra l’immagine rappresentata e la realtà, e quello del cinema istituzionale, per il quale lo spettatore, impotente fisicamente, assiste dall’esterno allo svolgersi della diegesi, ricorda la distinzione tra fase primaria e fase secondaria che Freud individua nella formazione del sé nel bambino, processo caratterizzato dal meccanismo di identificazione73: secondo questa suddivisione, nella prima fase il bambino si identifica in un rapporto duale con la figura materna e non sa distinguere la propria identità da quella della sua fonte di 73 Si veda la nota 58. 108 nutrimento, mentre nella seconda fase, l’intervento della figura del padre nel rapporto duale sancisce il divieto di incesto verso la madre, creando così un rapporto a tre in cui il bambino fa da spettatore passivo al rapporto dei genitori, spigendolo ad identificarsi col genitore dello stesso sesso, suo avversario nel desiderio verso la madre ma anche unico a poterla possedere e quindi fonte di immedesimazione; il rapporto duale è caratterizzato dal regime immaginario, per cui l’immaginazione dell’individuo si sovrappone al dato reale percepito, mentre la fase secondaria è dominata dal regime simbolico, ossia dalla presenza di un linguaggio che permetta la comunicazione sociale. Doom, il cinema delle origini e, più in generale, tutte le pellicole che ricorrono all’interpellazione diretta dello spettatore tramite la figura dell’a parte, richiamano lo stato di confusione sensoriale che caratterizza il rapporto duale con la madre della fase primaria, in cui la dimensione fisica fittizia dello schermo finisce per confondersi e sovrapporsi a quella reale dello spettatore, coinvolgendolo direttamente nella rappresentazione simulatoria; al contrario, il cinema istituzionale, mostrando lo svolgersi di una diegesi secondo un linguaggio filmico e da un punto di vista fisicamente distaccato e passivo, richiama inevitabilmente la condizione “triangolare” della fase secondaria, in cui il bambino partecipa all’unione dei propri genitori da un punto di vista esclusivamente psicologico. Questa distinzione tra modalità di visione a regime simbolico o immaginario si limita, tuttavia, ad essere una codificazione a posteriori che generalizza le modalità di visione di due epoche storiche sovrapponibili cronologicamente, dato che nessuno dei due regimi di visione ha mai interamente “sopraffatto” l’altro: basti pensare che storie narrate secondo il regime simbolico esistevano già prima del superamento del quadro autarchico74, come Le voyage dans la Lune di Méliès del 1902, mentre “ritorni” al regime immaginario li troviamo sparsi un po’ ovunque in tutta la storia del cinema, dalle visioni allucinate di 2001: Odissea nella spazio, capolavoro di S. Kubrick del 1968, oppure alle stravaganti interpellazioni di Monty Python - Il senso della vita, pellicola del 1983 ad opera di Terry Gilliam e Terry Jones. Tuttavia, con l’evoluzione del mezzo cinematografico nel periodo compreso tra gli anni ’10 e gli anni ‘30, il linguaggio codificato dal cinema istituzionale ha preso piede andando a costituire il “piatto principale” di ogni rappresentazione narrativa, relegando il regime immaginario a fare da “contorno”, spesso e volentieri, in tutte quelle situazioni in cui è richiesta l’attenzione dello spettatore, come in apertura o in chiusura della proiezione, quando è il momento di richiamare la fantasia dello spettatore ed astrarre la sua coscienza dalla realtà, 74 Noël Burch, op. cit. 109 generalmente tramite inquadrature che possono essere paragonabili alle formule linguistiche di “C’era una volta” e “…e vissero felici e contenti”, che si rifanno per l’appunto al tempo mitico dell’immaginario. Il linguaggio simbolico del cinema istituzionale è come un “campo di gioco” in cui far muovere il nostro occhio invisibile costituito dalla macchina da presa, la quale ci permette di assistere allo svolgersi della diegesi secondo le volontà del regista: carrellate, variazione dei piani e sfocature sono solo alcune delle soluzioni stilistiche possibili per delineare visivamente e ricreare mnemonicamente nello spettatore il mondo finzionale; tutte le evoluzioni della macchina da presa sono possibili, a patto di non uscire mai dal campo di gioco del simbolico, a patto, cioè, di mantenere lo spettatore incollato psicologicamente alla vicenda e contemporaneamente escluso fisicamente da essa, ossia di garantire la sua condizione fantasmatica di spettatore, per cui egli superinveste nel senso della vista l’assenza di stimoli percettivi determinata dalla sua immobilità fisica, permettendogli così di non realizzare la propria effettiva costrizione ma di godere invece della libertà di movimento, nello spazio e nel tempo diegetico, offerta dalla vista cinematografica. Nella narrazione per immagini, ogni inquadratura è possibile a patto di non cadere al di fuori del “campo di gioco”, ossia di non far notare allo spettatore che l’inquadratura mostrata non ha contingenza e non si forma spontaneamente al momento della visione, ma è frutto di un volontà predeterminata, e che essa è figlia della mediazione di uno strumento tecnologico, la macchina da presa, la quale costituisce il vero soggetto guardante: nessuna immagine deve rendere possibile allo spettatore una riflessione sulla sua entità fisica separata dalla rappresentazione, deve distaccarlo al punto tale da permettergli di riconoscere il prodotto tecnologico nell’oggetto della sua vista, e sancire così la differente condizione fisica tra l’infinitamente variegata e libera mobilità del punto di vista dell’immagine e la propria immobilità nella poltrona, annullando così la vicinanza psicologica necessaria al regime di visione simbolico. Ogni inquadratura che spinge lo spettatore a riflettere sulla natura dell’immagine è una inquadratura al limite di quel “campo da gioco” del simbolico, in grado di svelare il “grande segreto” del cinema istituzionale, ossia la presenza dello spettatore, e di portare così il regime di comunicazione sul piano dell’immaginario, forzando lo spettatore ad una regressione alla fase primaria75 che rischia di diventare insopportabile, tanto quanto lo sarebbe la castrazione del fallo ad opera della Legge del Padre che sottende a questo 75 Si veda la nota 58. 110 passaggio76, poiché, in questo modo, il soggetto osservante realizza la propria impotenza di spettatore passivo di fronte ad un’immagine che tutt’ad un tratto assume i caratteri dell’imposizione: se le pellicole delle origini, e Doom d’altronde, riescono a gestire tali inquadrature senza creare quel fastidio castratorio, è proprio perché esse non comportano alcuna regressione al regime immaginario che non sia già stata autorizzata implicitamente dall’individuo al momento stesso d’entrata nella sala di proiezione per assistere alla visione meravigliosa; al contrario, in queste pellicole primitive, e nei finali di Doom e Doom II, si può assistere al processo inverso, ossia al passaggio dal regime immaginario a quello simbolico, curiosamente quando il soggetto-macchina77 va incontro alla morte, che ovviamente non può che essere simbolica, come la morte figurata del coniglio in Doom78 o la morte a cui va incontro lo spettatore di How It Feels To Be Run Over, la cui pellicola, invece di concludersi come logico con l’interruzione della proiezione, vista la ”uccisione” della macchina da presa e quindi l’esaurirsi di fotogrammi impressi, termina invece con le “stelline” su sfondo nero, simbolo del trauma fisico subito dal personaggio, ora improvvisamente diegetico e non più invisibile né a cavallo fra due realtà. Sotto questa luce, anche la più nota tra le pellicole “ad effetto allucinatorio”, Arrivée d'un train à La Ciotat dei fratelli Lumière, si rivela essere il primo film a “raffigurare” la morte dello spettatore, il quale si ritrova faccia a faccia col treno come se entrambi coesistessero nel medesimo piano dimensionale, elemento, questo, tipico del rapporto duale della fase primaria, per poi morire simbolicamente al momento di massima prossimità del mezzo, quando esso sta per sfrecciare veloce sulla sinistra del riquadro, ed assistere successivamente all’imbarco dei passeggeri, in qualità di spettatore esterno e fantasmatico, tipico invece del regime simbolico. La morte figurata del soggettomacchina rappresenta un modo per trasportare il regime di comunicazione dal registro immaginario a quello simbolico, funzionando esattamente come le credenze popolari riguardo l’esistenza di uno spirito che abita il corpo materiale e che permane in caso di decesso dell’individuo sotto forma di fantasma, proprio come succede nella dimensione spazio-temporale del mondo rappresentato, opponendo alla “vita” del regime immaginario, dimensione continua alla “vita” dello spettatore, la “non-vita” del regime simbolico, la quale si oppone, come dimensione d’esistenza alternativa, alla “vita” dell’osservatore. 76 Si veda la nota 61. Si veda cap. 2: La costruzione del soggetto-macchina. 78 Si veda cap. 4.3: Il finale punitivo. 77 111 Il passaggio da un regime all’altro non può non avvenire senza avere delle conseguenze sulla figura dello spettatore a cui viene sempre sottratto qualcosa, che sia la vita, nel passaggio dall’immaginario al simbolico, e quindi la sottrazione della sua presenza virtuale con la conseguente riduzione del soggetto-macchina a spettatore passivo, o che sia il fallo, nel passaggio dal simbolico all’immaginario, e quindi un ritorno al rapporto duale con la realtà privo di effettività (cosa a cui Doom porrà rimedio instaurando un a parte interattivo, simbolo in negativo del fallo, poiché dà la morte invece che la vita, e destinato comunque ad essere perduto nel finale del gioco nel segno di una simbolizzazione connessa alla morte del soggetto-macchina79); tuttavia, analizzando, da un lato, un videogame come Doom III e, dall’altro, un film come Lady in The Lake di R. Montgomery del 1947, non può non venire il sospetto che sia possibile passare dal regime simbolico a quello immaginario, e viceversa, evitando le spiacevoli conseguenze necessarie a questa trasformazione, proprio grazie all’uso degli specchi, presenti sia nella pellicola hollywoodiana che nella produzione della iD, che compaiono nei due prodotti a turbare le rispettive modalità d’interazione con l’immagine, da un lato l’a parte di Doom III, e dall’altro la soggettiva di Lady in The Lake. Quando, nel corso del 2004, il terzo episodio della saga di Doomguy apparve sugli scaffali dei negozi di videogame, presto fu chiaro come John Romero e soci si preoccuparono semplicemente di aggiornare la veste grafica del gioco capostipite, aggiungendoci un marea di dettagli realistici e conformandolo al livello dei first-person shooters allora disponibili sul mercato, senza tuttavia andare ad aggiornare minimamente il gameplay del 1993, tanto da rendersi bersaglio della critica videoludica del tempo per l’eccessivo semplicismo e per la carente innovatività80. La presenza dello specchio, ritrovabile all’interno dei bagni nel secondo livello di gioco, sembra segnare il limite di questa produzione, di cui evidentemente era consapevole anche lo stesso team dell iD, specchio che compare come una sorta di oasi illusoria nel deserto dell’innovazione che tanto manca a questo gioco: infatti, l’incontro con esso segna sì, da un lato, un’apertura eventuale verso nuove configurazioni di visione, ma, dall’altra, palesa in maniera vistosa al giocatore tutti i limiti tecnologici impliciti dell’a parte interattivo, poiché il soggettomacchina, vedendosi oggettivizzato allo specchio (fig. 21), perde la propria capacità di stare a cavallo tra due le dimensioni d’esistenza che ne costituiscono l’entità, scindendosi in due entità separate: una diegetizzata dentro il quadro e l’altra esterna al quadro, ossia il giocatore che si ritrova improvvisamente espulso dal rapporto duale con l’immagine, 79 80 Si veda cap. 4.3: Il finale punitivo. Doom 3 review di Greg Kasavin del 04/08/2004, in www.gamespot.com; ultima visita al 26/09/08. 112 trasponendo inevitabilmente il regime di rappresentazione dal registro dell’immaginario a quello del simbolico. Lo specchio svela l’artificiosità dell’a parte, entrando in profonda contraddizione con tutte le caratteristiche fisionomiche dell’avatar che l’immagine indirettamente ci suggerisce: dall’assenza di un corpo fisico, o comunque invisibile, che invece si materializza nello specchio, alla coincidenza della visione del mirino con quella dell’avatar, che risultano invece separati, agli organi di movimento che si rivelano essere gambe normali nonostante il movimento lineare come un treno e sussultorio come una giostra, senza contare numerosi errori grafici più grossolani, additabili invece al team della iD, come il fatto che al movimento separato di testa/visione e gambe/movimento non corrisponda una simile articolazione nel corpo dell’avatar riflesso, il quale mantiene la testa incassata nel busto come lo avrebbe potuto fare il Doomguy del 1993, ottenendo così l’irrealistico effetto di poter vedere i proprio occhi riflessi guardare in una direzione differente dal proprio punto di vista, rendendo possibile guardare l’avatar di lato, da sopra e da sotto, sovvertendo tutte le leggi della riflessione; ultimo errore, ma non meno importante, è dato dalla mancata possibilità di dare una spiegazione, più o meno fantasiosa, all’enorme bagaglio di armi e munizioni che Doomguy si porta regolarmente dietro ormai da tre episodi: quando questi cambia l’arma, l’avatar riflesso si limita estrarre da dietro la schiena l’arma selezionata, senza tuttavia mostrare mai il presunto “contenitore” che, a questo punto, non si distingue più dalla borsa di Mary Poppins, visto le dimensioni di alcune armi, come il bazooka o la pistola al plasma, senza dimenticare che, per rispecchiare la velocità del cambio d’arma tipica del gioco, il Doomguy riflesso impiega inumanamente meno di mezzo secondo per ripoggiare l’arma usata dietro la schiena, prendere quella desiderata e puntarla, il che non fa che aggravare la nonveridicità dell’azione. Nonostante tutti gli errori presenti in questa visione riflessa, dall’errata angolazione di riflessione all’entità corporea Doomguy che altro non è che un’arma che galleggia in aria, lo specchio si rivela capace di un effetto, per così dire, diegetizzante, ossia si rivela capace di trasformare l’a parte di Doom in una soggettiva vera e propria, materializzando la presenza fisica dello spettatore all’interno dell’immagine, ben diversamente dalla pistola che costituisce invece la materializzazione del dispositivo di controllo81, e fantasmatizzando così la presenza dello spettatore nell’immagine da cui ora è escluso. In questo passaggio sicuramente il gameplay di Doom perde il suo fascino in quanto viene meno la partecipazione fisica del giocatore sottesa all’a parte, e quindi 81 Si veda cap. 4.2: L’a parte del dispositivo di controllo. 113 vengono meno anche tutte le sensazioni corporee ad esso connesso, in cambio di una presenza fantasmatica che tuttavia non si realizza mai in quanto il gioco prosegue secondo la modalità di rappresentazione immaginaria, ma che tuttavia rivela una celata propensione del team della iD ad una rappresentazione simbolica del proprio prodotto, cosa che, d’altronde, si realizzerà di lì ad un anno con l’uscita nelle sale di Doom di Andrzej Bartkowiak, film che riproduce fedelmente, perfezionandone la qualità visiva, tutte le innovazioni tematiche e grafiche di Doom III82: difficile pensare che non sia una coincidenza. Lady in The Lake è uno di quei film che non può passare indifferente: può affascinare o essere considerato come l’esponente dell’errore formale più grossolano della storia del cinema; tuttavia, fin dal momento della sua comparsa, nel 1947, e del suo fallimento commerciale, la critica cinematografica non ha mai smesso di citarlo come esempio paradigmatico dei rischi connessi all’uso della soggettiva, soprattutto se in modo prolungato, come nel film di R. Montgomery; un successo in negativo, quindi, che trova la sua rivincita nei videogames in prima persona che esso ha saputo così abilmente anticipare, il cui successo ha decretato il definitivo sorpasso negli incassi dell’industria del videogame sul cinema, rivelando a tutti i denigratori di Lady in The Lake, dai cineasti, ai critici ed al pubblico stesso, che la “maledizione” insita in questa pellicola, ossia la mancanza di controllo della visione e la conseguente sensazione di costrizione, è anche la maledizione di tutto il cinema, il suo limite strutturale più invalicabile a cui l’evoluzione della macchine di calcolo aveva già iniziato a porre rimedio proprio negli stessi anni in cui usciva la tanto criticata pellicola, quando, nel 1951, il Massachusetts Institute of Technology creò Whirlwind, il primo computer in grado di reagire in tempo reale alle informazioni fornitegli dall’utente, allo scopo di simulare il volo aereo83. Lady in The Lake presenta una struttura linguistica sorprendentemente analoga e speculare a quella di Doom, in quanto entrambi i prodotti propongono una continua alternanza tra il regime simbolico e quello immaginario, man mano che il percorso dell’eroe procede nell’avventura: se, da un lato, Doom costella la visione immaginaria dell’a parte con qualche schermata di testo narrativa, il film di Montgomery interpone alla visione soggettiva, e quindi simbolica, dei brevi spezzoni in cui è il protagonista stesso a parlare direttamente col pubblico, ritornando bruscamente al regime immaginario 82 Il film di Andrzej Bartkowiak si limita a trasporre su grande schermo il tema del marine spaziale nella base militare infestata da esseri mostruosi, senza riflettere minimamente sul potere immersivo della visione in prima persona, riprodotta in un sola scena. 83 Si veda Storia del computer in www.wikipedia.org; ultima visita al 30/10/08. 114 dell’interpellazione. All’interno delle sequenze puramente soggettive ritroviamo più volte la presenza di specchi in cui il protagonista si riflette spesso e volentieri, talvolta per osservare le ferite procuratesi durante l’investigazione, altre volte, invece, senza alcun motivo apparente, se non per via di un certo narcisismo: in realtà, sembra proprio che questo continuo ricorso all’uso degli specchi risieda in una precisa volontà registica di ricordare allo spettatore che la visione a cui si assiste nel corso della proiezione, e la voce proveniente da un apparente fuori campo, appartengono entrambe al protagonista che è un’entità diegetica, nonché il soggetto della visione, come se il regista temesse che il prolungato uso della soggettiva, accompagnato da movimenti nello spazio fluidi e lineari, analoghi a quelli di Doom d’altronde, finisca inevitabilmente per far diventare l’inquadratura un a parte a tutti gli effetti, dato che tutti i personaggi che parlano col protagonista guardano in macchina, e quindi anche lo spettatore, tendendo così a far scomparire il soggetto diegetico della visione. In questa direzione, vanno visti anche i continui, e molto spesso superflui, particolari del corpo di Marlowe che il regista ci propone di continuo: dai piedi, nudi e con scarpe, alle mani che impugnano oggetti di varia natura, tra cui è interessante notare una pistola che invece di spuntare dal basso, come in Doom, molto innaturalmente entra dal lato destro del quadro, probabilmente per non intralciare la macchina da presa; al contrario, il pugno che il protagonista riceve ad un certo punto ed il bacio di Adrienne hanno un forte effetto straniante che non rafforza né la soggettiva né un eventuale a parte, poiché, come abbiamo visto con le armi a corto raggio di Doom, la veridicità della prospettiva monoculare risente della vicinanza con gli oggetti inquadrati84. In un così ampio dispiego di dettagli atti a garantire la presenza fisica del protagonista della visione, lo specchio sembrerebbe a prima vista il mezzo più efficace, data la sua capacità di fornire informazioni visive dettagliate sul viso di Marlowe e quindi di materializzare i suoi connotati principali; tuttavia, ad un’analisi più attenta, l’utilizzo di questo strumento si rivela come un’arma a doppio taglio che, contrariamente alle intenzioni del regista, decostruisce non solo la soggettiva, ma anche tutto il sistema simbolico di rappresentazione che il suo impiego intendeva supportare, poiché, tramite la riflessione, il corpo del protagonista della visione non solo si materializza, ma arriva a distaccarsi completamente dal punto di vista immergendosi nello spazio e nel tempo diegetico, a cui la sua visione in prima persona faceva da soglia, rendendo l’inquadratura a tutti gli effetti un’interpellazione dello spettatore e spingendo così il livello 84 Si veda cap. 2.1: Le tracce del dispositivo: dal cannocchiale al fucile digitale. 115 comunicativo della rappresentazione nel regime dell’immaginario. A ben vedere, lo specchio non rappresenta che la punta di un iceberg sottostante a tutti gli sguardi in macchina che la pellicola propone, i quali, lungi dall’essere giustificabili come conseguenza necessaria dell’utilizzo della soggettiva, si sprecano in quantità e si dilungano sempre oltre più del necessario, come se l’obbiettivo avesse una sorta di magnetismo irresisitibile che rende profondamente innnaturale le azioni dei personaggi “guardati”, i quali, una volta stabilito il contatto visivo con Marlowe, non staccano più gli occhi di dosso dalla macchina da presa, almeno fino a quando qualcosa di esterno non interviene a porre fine a questa “fissazione”, come un evento improvviso, un’uscita di scena o un cambio d’inquadratura, come se per i personaggi fosse impossibile voltare autonomamente lo sguardo altrove. Specchi e sguardi in macchina, invece che certificare la presenza del personaggio diegetico soggetto della visione, finiscono per sovvertire il sistema linguistico abolendo la mediazione dell’immagine da parte dell’entità vedente, sia personaggio che macchina da presa, rivelando il vero limite di questo film, ossia l’incapacità di creare e mantenere una soggettiva vera e propria, di continuare ad alimentare il suo aspetto diegetico, compensando, in questo modo, la tendenza verso l’immaginario provocata dalla mancanza di un montaggio e di una dialettica delle lunghezze focali e del punto di fuoco, dalle continue interpellazioni e dalla mancanza di un’inquadratura precedente o successiva che mostri il soggetto vedente vedere. Il cinema istituzionale è incapace di calare fisicamente lo spettatore dentro il corpo di un soggetto diegetico proprio perché la sua fruizione prevede la smaterializzazione sia della macchina da presa, in qualità di punto di vista, che del corpo dello spettatore: solo da osservatore esterno lo spettatore può provare, tramite la mediazione simbolica della vista, le altre sensazioni corporeee che l’immagine suggerisce, come d’altronde lo è il bacio tra Marlowe e Adrienne alla fine del film, che trasforma l’a parte di quell’inquadratura in una vera e propria comunicazione linguistica. Quest’ultima immagine non rappresenta tuttavia il semplice bacio dell’eroe con l’eroina che termina la proiezione, ma va a completare un meccanismo identificativo suggerito da tutte quelle inquadrature in cui il protagonista si specchia assieme alla propria compagna, ed indirettamente anche quelle in cui l’eroe si specchia da solo: infatti, la particolarità del finale di Lady in The Lake sta proprio nell’evocare la genesi della fase secondaria della costruzione dell’identità nel bambino, in cui egli inizia a osservare i propri genitori da un punto di vista esterno, quindi al di fuori della relazione duale con il proprio immaginario, immedesimandosi nel genitore dello stesso sesso e desiderando 116 quello di sesso opposto; in questa scena, l’interpellazione intenzionale, che caratterizza gli intermezzi alla vicenda e in cui è Marlowe stesso a materializzarsi nell’inquadratura per parlare direttamente allo spettatore, lascia il posto ad una visione voyeuristica, tagliando quel cordone ombelicale che provvedeva a mantenere la continuità dimensionale tra rappresentazione e realtà, ponendo tra di esse una rigida barriera, visibile e naturale come l’apparato cinematografico, ma anche invisibile e culturale come il divieto d’incesto. Le precedenti inquadrature, in cui i due protagonisti si riflettono, sottendono a questa liberazione finale come il percorso di un eroe che impara a presenziare nella società come individuo comunicante, e non più vittima della distorsione percettiva causata dall’immaginario: il percorso di Lady in The Lake non è solamente un racconto poliziesco nel quale un detective scopre i colpevoli di un omicidio, ma è anche un sottile, e forse involontario, “romanzo di formazione” dello spettatore, il quale impara ad osservare l’immagine cinematografica con il giusto approccio, passando attraverso numerose prove, gli intermezzi con l’a parte, riflessioni sulla propria esistenza diegetica, i particolari del corpo di Marlowe, e prove di distacco dal proprio immaginario tramite le visioni allo specchio. L’equilibrio iniziale, in cui l’interpellazione della prima inquadratura viene data come atto fondativo dell’intera pellicola, viene turbato dall’uso della soggettiva, prima e non ancora matura esperienza di simbolizzazione; sebbene fornisca l’impulso iniziale, la soggettiva ben presto rivela i propri limiti, in quanto, nonostante il proprio ruolo diegetico, non garantisce un distacco totale tra entità vedente ed entità vista, dato che le continue auto-osservazioni del corpo del protagonista si limitano a pochi particolari. L’uso dello specchio fornisce una prima identificazione, in una soprendente analogia con la fase dello specchio descritta da Lacan: È nel corso della fase dello specchio che si realizza la possibilità di una relazione duale tra il soggetto e l’oggetto, tra l’Io e l’altro. […] è tramite lo sguardo, scoprendo nell’immagine allo specchio la propria immagine e l’immagine del simile, che egli costituisce in modo immaginario la propria identità corporea. […] questo primo abbozzo dell’Io, questa prima differenziazione del soggetto, si costituisce sulla base dell’idenficazione a un’immagine, in una relazione duale, 117 immediata, propria dell’immaginario, e che questo primo ingresso 85 nell’immaginario precede l’accesso al simbolico. Nell’immagine riflessa di sé lo spettatore vede anche l’immagine di Marlowe, in una unità immaginaria in cui la figura dello spettatore e quella del protagonista della visione sono ancora fuse assieme. La soggettiva dell’intero film sembra, quindi, la conseguenza dell’interpellazione intenzionale dello spettatore che Marlowe fa negli intermezzi, come se il reciproco scambio di sguardi di queste scene permettesse, per l’appunto, di identificarsi nella persona del detective e del suo racconto, dando vita così alla soggettiva, presenza ibrida destinata a ritrovare l’originaria scissione nel finale del racconto. Nonostante questo sicuro appoggio figurativo, l’identità del soggetto vedente non riesce a trovare una propria definizione stabile nella figura del detective, nonostante tuti gli accorgimenti in questa direzione; infatti, andando ad analizzando le scene in cui Marlowe compare nell’immagine riflessa assieme ad Adrienne, ci accorgeremo che, nella doppia interpellazione dello spettatore ad opera di entrambi, l’unico a distogliere ogni tanto lo sguardo tra i due è stranamente Marlowe e non la donna che invece mantiene sempre lo sguardo fisso in macchina (fig. 22), non tanto per un apparente errore di riflessione, visto che l’inquadratura dovrebbe rispecchiare il movimento degli occhi di Marlowe, quanto perché, in quegli istanti, l’identificazione duale avviene invece con la figura di Adrienne, dimostrando che lo sguardo della soggettiva manca ancora di una identificazione stabile e sessualmente caratterizzata, un po’ come il protagonista di Doom, a metà tra l’essere vivente e la macchina e tra l’uomo e la donna86, proprio perché, sia la visione ludica che quella proposta da Lady in The Lake, sono ancora dominate dalla confusione duale del regime immaginario. Per tutta la durata del film, lo spettatore vaga in balia della volontà predeterminata del regista, senza riuscire tuttavia a trovare una figura sicura in cui identificarsi: i continui sguardi in macchina dei personaggi distruggono i brandelli di identità diegetica che il film cerca di fornire al protagonista durante tutta la proiezione, in una continua lotta tra il regime simbolico e quello immaginario: sarà proprio tramite la via indicata dalla riflessione allo specchio a porre la parola fine a questo contrasto, separando lo spettatore dal protagonista della vicenda nella scena finale, in cui, per la prima volta, sia Marlowe che Adrienne smettono contemporaneamente di guardare in macchina, permettendo 85 86 Aumont Jacques, Bergala Alain, Marie Michel, Vernet Marc, op. cit., p. 187. Si veda cap. 2: La costruzione del soggetto-macchina e cap. 4.2: L’a parte del dispositivo di controllo. 118 finalmente allo spettatore di identificarsi psicologicamente appieno con l’eroe, e di possedere così, tramite questo passaggio di consegne, la donna, spostando la comunicazione col film sul piano del simbolico e risolvendo in tal modo l’ambiguità della soggettiva proposta all’inizio della proiezione. Lo spettatore, dall’iniziale immaturità della visione immaginaria dell’a parte, è maturato nel corso del film, dimostrando nel finale di aver imparato a dialogare linguisticamente con l’immagine, dopo aver superato la prova della soggettiva: lo spettatore è ora a prova di soggettiva. Come nella vita, anche nell’arte rappresentativa, la riflessione, simboleggiata dalla figura dello specchio, comporta sempre delle conseguenze che possono cambiare profondamente il modo di approcciarsi alla realtà, ma se la riflessione è fine a sé stessa e si limita ad un auto-compiacimento narcisitico, come lo specchio di Doom III, finisce per essere nociva e fuorviante, liberando lo spirito dalla percezione sensisibile e riempiendolo, invece, col vuoto del concetto astratto; quando invece la riflessione comporta una presa di coscienza della propria esistenza, come in Lady in The Lake, essa può aprire nuove strade e nuovi modi per esperire del sensibile, aumentando così l’esperienza personale e liberandoci dal pensiero qualunquista, qualunquista come l’identità instabile della soggettiva. 119 Conclusioni 120 La ricerca è iniziata facendo una breve panoramica sull’impatto sociale di Doom, constatando come l’avvento di questo prodotto videoludico non passò di certo inosservato, ma creò invece una legione di fans, che fece dannare le associazioni parentali di quel tempo per via della violenza esplicita insita nel gioco: tuttavia, le tematiche di Doom, se da un lato hanno influenzato numerose pellicole di quel tempo, dall’altro trovano la propria origine proprio nei filoni cinematografici dello splatter, dell’horror e di quello fantascientifico, dimostrando come la tematica violenta del videogioco avesse trovato il terreno spianato da una tradizione culturale affermata già da molti anni presso le nuove generazioni di adolescenti occidentali. Successivamente, è stato notato come neppure la visuale in prima persona apportata da Doom compaia dal nulla sulla scena videoludica, ma vanti invece alcuni fondamentali predecessori nella storia, a partire da Maze War, il quale, oltre ad essere uno dei primi videogiochi della storia, anticipa di trent’anni quasi tutte le innovazioni che il gioco della iD svilupperà appieno negli anni novanta, compresa la visione in prima persona, l’utilizzo della prospettiva e l’ambiente labirintico; successivamente, a parte qualche comparsa saltuaria durante gli anni settanta, la visione in prima persona dovrà attendere le simulazioni di guida di fine anni ottanta per ritornare in auge e svilupparsi, poi, nelle prime produzione della iD, che porteranno alla creazione di Doom, di cui Wolfenstein 3D può considerarsi il prototipo più affine, tanto da essere considerato il primo vero first-person shooter della storia. Il secondo capitolo ha visto il confronto tra il cinema delle origini e Doom, allo scopo di dare un volto al giocatore-spettatore presupposto da questo genere di rappresentazioni, tramite l’osservazione diretta delle indicazioni presenti nell’immagine. Inizialmente, è stata analizzata l’arma di Doomguy, posta in primo piano e praticamente incollata al bordo del quadro, la quale costituisce l’unico riferimento visivo esplicito all’avatar; la posizione nel riquadro in basso al centro e l’assenza di un personaggio diegetico esplicito che ne faccia uso suggeriscono che sia il giocatore stesso a utilizzare l’arma, relegando qualsiasi forma di mediazione simbolica tra lo schermo e la realtà al solo utilizzo del dispositivo di controllo. Successivamente, la visione dell’avatar coincide con quella del dispositivo di puntamento dell’arma, di cui possiede anche lo stesso ristretto spettro di visione, rendendo il concetto di “vedere” imprescindibile da quello di “colpire”. Infine, è stato rilevato come in Doom funzionino meglio le armi capaci di colpire il nemico vettorialmente, ossia quelle per il combattimento a distanza, come fucili e pistole, al contrario di quelle per cui diventa necessario un calcolo della 121 prossimità con il nemico, ossia quelle da combattimento ravvicinato, come mani nude e motosega. L’arma-vista di Doom trova un primo punto di contatto con le visioni a carattere soggettivo delle origini nel fucile fotografico di Marey: considerato il precursore della macchina da presa, esso presenta la stessa coincidenza di obbiettivo, canna e dispositivo di puntamento, rivelando la natura violenta della visione cinematografica; il secondo punto di contatto è costituito dal cannocchiale utilizzato dai protagonisti di queste pellicole, la cui visione meravigliosa viene condivisa col pubblico tramite l’apposizione di un mascherino circolare all’immagine: in queste inquadrature, infatti, non vi è alcuna mediazione operata dalla psiologia del personaggio diegetico guardante, poiché l’uso del mascherino circolare pone sullo stesso piano d’esistenza la visione dello spettatore con quella ottenuta dallo strumento ottico, facendo diventare l’apparato cinematografico un enorme cannocchiale fruito direttamente dalla sala di proiezione; inoltre, la figura del mascherino e dell’arma condividono la stessa fissità nell’inquadratura e la stessa indissolubilità da essa, ricordando allo spettatore che la visione è frutto di un apparecchio tecnologico da cui risulta imprescindibile. Sia l’arma che il cannocchiale oggettivizzano e mortificano il soggetto inquadrato ingabbiandolo in un’immagine concettuale delimitata dalla cornice e delineata spazialmente dall’astrazione della prospettiva centrale, il cui punto di fuga coincide sia con il punto in cui avviene la massima magnificazione del cannocchiale che con quello in cui verrà diretto il proiettile: all’insegna della volontà di affermazione e dominio sull’altro dall’alto della propria conoscenza tecnologica, tipico della visione rinascimentale, di cui il cannocchiale e la prospettiva sono emanazioni dirette, il punto di fuga della visione di Doom rappresenta il punto di massima mortificazione concettuale dell’oggetto inquadrato, che si realizza nel momento dello sparo diretto verso il nemico. Infine, se la figura dell’arma e quella del mascherino palesano la propria operazione di mediazione tecnologica fra la dimensione spaziotemporale della rappresentazione e quella dello spettatore, allo stesso tempo evitano ogni mediazione operata dalla psicologia del personaggio diegetico guardante, offrendo così la possibilità di entrare in contatto oggettivo e diretto con la realtà dell’immagine, passivamente nel cinema delle origini ed interattivamente in Doom. In seguito, sono state messe in parallelo le caratteristiche di movimento dell’avatar all’interno del mondo di Doom e le qualità dinamiche dell’immagine espresse nel genere cinematografico delle origini delle vedute panoramiche da un mezzo di trasporto in corsa, a partire dalle cosiddette phantom rides, in cui la macchina da presa 122 veniva messa a riprendere il paesaggio dal cacciapietre di un treno in corsa, fino alla sua espansione scenografica realizzata nello Hale’s Tour, in cui veniva simulato un viaggio in ferrovia tramite la ricostruzione scenografica ed effettistica dell’esperienza di viaggio all’interno di un vagone per passeggeri, il cui lato anteriore era occupato dalla proiezione della corsa fantasma. In Doom ogni forma d’interazione corporale dell’avatar con l’ambiente virtuale viene rappresentata tramite una gamma di effetti visivi e acustici non diegetici, mentre gli organi deputati al movimento non vengono mai visualizzati sullo schermo, ma solo attraverso riferimenti indiretti, conferendo all’avatar una sorta di identità fantasmatica, capace di galleggiare nello spazio sobbalzando meccanicamente come una giostra. Anche nelle pellicole delle origini non viene mai raffigurato né il soggetto della visione né il mezzo di trasporto, se non tramite riferimenti visivi indiretti, privando la rappresentazione di qualsiasi possibilità di comunicazione linguistica, a favore, invece, di un fruizione dell’ambiente finzionale analoga a quella di Doom, la cui im-mediatezza con-fonde la dimensione spazio-temporale rappresentata con quella dello spettatore, al quale vengono conferiti gli stessi limiti cognitivi di Doomguy sul suolo marziano, ossia quelli dell’esploratore in terra straniera; inoltre, l’utilizzo del treno, sul quale venivano effettuate queste riprese, conferisce al movimento del punto di vista la stessa fluidità meccanica dell’incedere dell’avatar di Doom. A questo punto della ricerca, le sembianze umane dell’avatar di Doom, presupposte dall’identità narrativa del marine spaziale e da alcuni riferimenti diretti ed indiretti, lasciano il posto a quelle più tecnologiche dell’occhio invisibile riscontrabile nelle phantom rides, capace di galleggiare meccanicamente nello spazio prospettico, con l’aggiunta di un movimento sussultorio del punto di vista, simile a quello che si otterrebbe andando a cavallo, e di un’arma il cui dispositivo di puntamento sfrutta il punto di fuga dell’immagine. Utili ad interagire con l’ambiente di gioco, il mezzo di trasporto e l’arma si presentano come protesi finzionali della vista che vanno perdute nel momento di decesso di Doomguy: prigioniero della propria immobilità e della propria impotenza, esso cala lentamente verso il suolo conservando la propria funzionalità visiva, come se la propria morte non corrispondesse che ad una discesa dalla “giostra immaginaria” fornita dalla tecnologia di Doom. Inoltre, la mancata raffigurazione di un soggetto diegetico della visione e l’assenza di qualsiasi articolazione linguistica-narrativa sopprimono ogni possibile forma di temporalizzazione autonoma interna al quadro, in una configurazione simulatoria in cui la realtà finzionale possiede la stessa dimensione temporale del soggetto percipiente, rendendo oggettivi, e dotati di una sempre nuova 123 istantaneità, gli eventi dell’immagine, con i quali il soggetto percipiente interagisce immediatamente. Questa configurazione temporale di contemporaneità alla rappresentazione limita l’impianto cognitivo dello spettatore a pochissime nozioni sul contenuto dell’immagine, rinnovando il mito del viaggio immobile, a cui viene aggiunta sia la possibilità di scegliere la qualità e la quantità dello spostamento, al di là della predeterminazione del percorso ferroviario e della pellicola, che il dovere di usare l’arma per salvare la propria vita dagli attacchi nemici, dirottando l’esperienza dell’eploratore in terra straniera dal piacere estetico della visita nel terrore dell’ignoto. Nel terzo capitolo sono stato analizzate le condizioni di fruizione dell’immagine presupposte dall’impianto visivo di eredità rinascimentale, di cui sia il cinema che il videogame sono eredi, costituito dall’interazione tra immagine prospettica, racchiusa nella cornice, e spettatore immobile. In un primo momento, è stata analizzata l’interazione percettiva dello spettatore con l’ambiente esterno prevista dalle caratteristiche peculiari delle sale cinematografiche, scoprendo che l’istituzionalizzazione del cinema ha cambiato volto alle abitudini degli spettatori di fronte alla proiezione, affermando un modello riscontrabile in ogni rappresentazione a schermo dinamico inventata successivamente, pur tuttavia sviluppando caratteristiche peculiari presenti già prima dell’invenzione stessa del cinematografo, e portandole, con l’evoluzione tecnica, alla massima espressione: da un lato, la carenza di socialità, a favore di un’alienazione mentale e di un isolamento ambientale che ostacola la comunicazione, mentre dall’altro, la predominanza luminosa dello schermo, favorita dall’aumento della grandezza degli schermi e dal buio sempre maggiore, unita alla fissità dello spettatore nella poltrona, spingono lo spettatore ad una sovrainvestitura del senso della vista che mutua, tramite l’immagine, la carenza percettiva insita nell’uso di un solo senso e nella narcosi del corpo, favorendo l’emersione dell’interiorità dell’individuo fino a sovrapporla al dato reale percepito, in una condizione estatica che sospende il giudizio e l’incredulità nei confronti dell’immagine, e che confonde la percezione del sé con la percezione ricreata dal dispositivo tecnologico, creando un’entità ibrida, a cavallo fra immaginazione e realtà, fra tecnologia e corpo, che richiama la figura del cyborg, essere fuso con la propria protesi sensibile. In questa narcosi generale, ogni organo che permane attivo, seppur alterato nella funzione dall’interiorità dell’individuo percipiente, trova la propria figurazione in un organo diegetico: come la vista dello spettatore ha il proprio corrispettivo nell’obbiettivo della 124 macchina da presa, così le mani, che impugnano il joypad in Doom, trovano il proprio corrispettivo nell’arma raffigurata in primo piano. In un secondo momento, l’interesse della ricerca si è spostato verso la prospettiva centrale, presente sia nelle immagini cinematografiche che nel videogame della iD, analizzando la portata concettuale dell’assegnare ad un punto della superficie della rappresentazione il valore di punto di fuga, segno dell’infinita profondità spaziale. La struttura geometrica si antepone al valore delle singole figure, le quali si con-fondono con lo spazio raffigurato in un tutt’uno omogeneo, in cui il valore di ogni singolo punto diventa relativo alla propria posizione rispetto al punto di fuga; basandosi sull’assoluta veridicità della matematica, lo sguardo perde i propri connotati umani per diventare divino e dominare lo spazio circostante dalla propria posizione, intrappolando le figure in una gabbia concettuale geometrica, nella quale esse perdono il proprio valore di esseri viventi per essere equiparati ad oggetti senza vita, mentre il punto di fuga, che coincide con il centro del mirino in Doom, e verso cui tende tutta la rappresentazione, va ad unirsi funzionalmente con l’uso dell’arma posta in primo piano, piegando l’intera visione alla logica della violenza e trovando la propria realizzazione nell’uccisione della figura inquadrata. In seguito, è stata analizzata l’immagine prospettica in relazione al cosiddetto “fenomeno allucinatorio”, che accomuna l’esperienza di fruizione degli spettatori delle origini e dei giocatori di Doom, i quali confondono e sovrappongono lo spazio prospettico percepito dall’immagine luminosa, capace di aggettare illusoriamente dalla superficie dello schermo e di estendersi idealmente all’infinito sia in profondità che in larghezza, alla carenza di informazioni spaziali, fornita dal buio della sala cinematografica, in un’unica dimensione spaziale allucinata in cui lo spettatore percepisce la presenza fisica delle figure rappresentate senza che questa abbia effettivamente luogo. La condizione di fruizione imposta dall’impianto visivo, unita alla struttura spaziale prospettica dell’immagine, cambia l’equilibrio percettivo dello spettatore, spingendolo ad abolire idealmente i confini concettuali e fisici tra il proprio corpo e il dispositivo, tra percezione reale ed immaginaria, in una condizione estatica sovradeterminata dal senso della vista. L’ibridazione tra il soggetto percipiente ed il dispositivo tecnologico creano un’entità ibrida accostabile alla figura del cyborg guerriero, il quale trova la perfetta controparte figurativa nelle caratteristiche del soggetto-macchina presupposte dal gameplay di Doom ed individuate nel capitolo 125 precedente: nel carattere meccanico dell’ondulazione della pistola e del sussulto della vista in movimento, nella netta scissione dell’avatar tra vista e le proprie estensioni tecnologiche utili ad interagire nell’ambiente finzionale, ossia arma e organo di movimento, nell’unione di vista e arma in un unico organo finalizzato alla dominazione e all’uccisione violenta, nell’im-mediata interazione con il giocatore presupposta sia dalla visione in prima persona che dalla mancanza di un soggetto diegetico della visione e, infine, nella mediazione visiva di ogni interazione fisica dell’avatar con l’ambiente di gioco. Se la mancanza di qualsiasi riferimento ad una forma di narratività dell’immagine fonde la temporalità dell’immagine con quella reale del giocatore-spettatore, ora la dilagazione dello spazio prospettico fa altrettanto con le due rispettive e opposte dimensioni spaziali, realizzando a tutti gli effetti un’esperienza simulatoria che, a distanza di quasi cento anni, accomuna il videogioco della iD con le pellicole a carattere soggettivo delle origini, la cui visione statica e passiva sembra quella a cui ritorna il soggetto-macchina in caso di decesso, in una sorta di regressione tecnologica dalla quale l’interazione videoludica sembra provenire. Nel quarto ed ultimo capitolo la ricerca si è occupata dei meccanismi psicologici che ineressano il giocatore-spettatore di fronte a Doom ed alle pellicole delle origini a carattere soggettivo, cercando di delineare le implicazioni conseguenti alla fruizione dell’inquadratura in prima persona. Inizialmente, l’analisi si è occupata della figura dell’interpellazione, la quale pone lo spettatore in una condizione psicologica analoga a quella della fase primaria infantile della costruzione dell’identità, a partire dallo stato di con-fusione percettiva: infatti, lo scambio illusorio di sguardi tra rappresentazione e realtà, spinge lo spettatore ad abolire immaginariamente i confini materiali, sia tra le due opposte dimensioni spazio-temporali, che tra i propri organi percettivi e quelli tecnologici del dispositivo interni alla rappresentazione, fino a sovrapporre la propria immaginazione al dato percepito in una lettura soggettiva dell’immagine, caratterizzata dall’identificazione nella raffigurazione e dalla soppressione di qualsiasi relazione oggettuale con essa, proprio come il bambino nella fase primaria che con-fonde la propria entità corporea con quella della madre, con la quale instaura una relazione identificatoria che si fonda proprio sul reciproco scambio di sguardi e che, nella fase secondaria, verrà rimpiazzata da una di tipo oggettualepossessivo. Questa regressione della scelta oggettuale verso cui riporre le proprie pulsioni libidiche, dal regime dell’avere a quello dell’essere, riemerge nel rapporto del lattante col seno materno, rendendo lo scambio di sguardi con i nemici di Doom come un tentativo 126 d’identificazione reciproco che coincide con l’istinto alla sopravvivenza e alla nutrizione tramite l’inglobamento dell’altro, ossia con la sua sopressione. Il personaggio delle origini, che invitava lo spettatore a partecipare alla proprie visione fantastiche e proibite tramite lo sguardo in macchina, è diventato il nemico di Doom che cerca di respingere il giocatore al di fuori del proprio rapporto immaginario con l’immagine, tramite la separazione del punto di vista del giocatore dalle estensioni che gli consentono l’interazione e la presenza nell’ambiente virtuale, ossia l’organo per la mobilità e l’arma, la cui posizione e forma richiama il fallo: la morte nel gioco è infatti analoga alla castrazione operata dalla Legge del Padre, principio fondativo della simbolizzazione, del linguaggio e della società, nei confronti dell’individuo che tenta di scavalcare il divieto d’incesto, restaurando l’unione duale con la madre. Come nella fase primaria l’individuo non ha il fallo, il cui possesso differenzia il maschio dalla femmina, ma è il fallo, immaginando che esso sia ciò che la madre desidera, così in Doom l’avatar non ha l’arma, essendo una macchina asessuata, ma è l’arma, la quale rappresenta l’unico segno tangibile della sua presenza nel mondo di gioco: la con-fusione con l’immagine è perciò di per sé una castrazione alla quale il giocatore acconsente nel momento di fruizione, come lo spettatore-voyeur che assiste impotente alle visioni licenziose delle origini. Il giocatore, tramite lo sguardo, si identifica con i nemici diventando un nemico egli stesso, con i quali condivide la stessa mancanza di linguaggio e socialità della fase primaria, segnalata dalla reciproca ostilità che impedisce loro di allearsi per l’eliminazione dell’avatar: la battaglia di Doom è quella del giocatore contro la propria Legge del Padre raffigurata nei nemici, per la riaffermazione del regime immaginario in cui l’impossibile unione incestuosa con la madre è rappresentata dall’infertilità dell’arma/fallo che, con i propri proiettili/sperma, feconda di morte l’ambiente virtuale. In seconda battuta, è stato trattata la figura dell’a parte come ponte di comunicazione diretta tra l’immagine e lo spettatore, dintinguendola, innanzitutto, dalla soggettiva del cinema istituzionale nel differente coinvolgimento della presenza fisica dello spettatore: quest’ultima, infatti, proponendo la visione predeterminata di un personaggio dotato di una fisicità e di una psicologia diegetica, mantiene fantasmatica la presenza fisica dello spettatore palesando la sua impossibilità di esprimere qualsiasi forma di intenzionaliltà e di effettività all’interno dell’immagine; al contrario, la figura dell’a parte non prevede mediazioni diegetiche della visione, ma punta a coinvolgere direttamente l’entità fisica e psicologica dello spettatore, la cui dimensione spaziotemporale viene considerata continua a quella dell’immagine, confermando la con127 fusione corporea e percettiva della fase primaria infantile prevista dallo sguardo in macchina di Doom e delle pellicole a carattere soggettivo delle origini: lo scambio di sguardi tra personaggi e soggetto vedente si rivela portatore di una profonda valenza sessuale che punta ad eccitare lo spettatore, richiamando il suo bagaglio di sensazioni percepite nel contatto col seno materno durante l’allattamento, trasferendole, tramite l’identificazione immaginaria, nel personaggio guardante, il quale assume il ruolo di a parte dello spettatore. La figura dell’a parte non si esaurisce nello scambio di sguardi con un personaggio diegetico, ma investe ogni forma di collegamento tra rappresentazione e realtà, come dimostrato nell’impianto dell’Hale’s Tour, in cui i binari ed i pali del telegrafo fanno da contro-parte figurativa all’impianto scenografico ed effettistico della sala di proiezione, a simulare l’esperienza di viaggio all’interno di un vagone ferroviario, permettendo l’immaginaria continuità tematica con la rappresentazione, oppure nel caso delle visioni meravigliose fruite da un personaggio tramite uno strumento, che diventano l’a parte dello spettatore con il dispositivo cinematografico, il che spiegherebbe anche l’evoluzione delle sale di proiezione verso una fruizione di tipo istituzionale, con un’oscurità crescente allo scopo di smaterializzare il più possibile la dimensione fisica dello spettatore per impedire ogni forma di a parte con l’immagine. In Doom, l’arma digitale non solo costituisce l’a parte del dispositivo di controllo in mano al giocatore, vista l’analogicità dell’attivazione dello strumento tecnologico tramite la pressione del dito, ma segna anche l’evoluzione dell’a parte cinematografico grazie alla tecnologia informatica, tramite la quale diventa possibile trasmettere l’intenzionalità dal giocatore all’immagine e non più solamente dall’immagine al giocatore, creando una comunicazione bidirezionale che sembra realizzare le aspirazione delle visioni a carattere soggettivo delle origini. La mancanza del piacere estetico della visione dell’ambiente virtuale e la carenza di oggetti, con cui interagire in favore dell’interazione costretta nei confronti degli attacchi dei nemici, rendono la reazione il vero fattore di immersività di Doom, che costringe il giocatore ad immergersi nel gioco, pena il termine della partita. Risvegliando dall’inconscio le sensazioni fisiche e psicologiche di contatto con il corpo materno, questo a parte informatico è in grado di eccitare e coinvolgere il giocatore provocandogli una serie di sensazioni fisiologiche, come stati di ansia e di batticuore. Come terzo aspetto della visione in prima persona, la ricerca si è occupata di analizzare il finale punitivo presente sia nelle visioni meravigliose del cinema delle origini che nei finali di Doom: al termine del primo capitolo dell’avventura videoludica, 128 infatti, l’avatar viene teletrasportato in una stanza segreta, in cui la sua energia vitale è inevitabilmente programmata per esaurirsi fino alla morte; successivamente compare una schermata di testo che toglie al giocatore ogni illusione e ogni speranza di aver concluso il gioco e di essere scappato dalla luna marziana infestata dai mostri, invitandolo a continuare l’avventura che si prospetta sempre più violenta e sinistra. Successivamente, nel finale del terzo capitolo una schermata di testo ci informa che l’avatar è finalmente ritornato sulla terra, simboleggiata da un’inquadratura che ritrae un coniglio vagare in un prato, per poi carrellare di lato fino a mostrare in primo piano il suo capo mozzo e sanguinante guardare verso il giocatore, infilzato da una sorta di spina proveniente dall’estremità inferiore della cornice, mentre, nel finale del quarto capitolo viene svelato che l’animale era di proprietà dell’avatar e che egli promette di vendicarsi per l’uccisione. Infine, nel finale del secondo episodio della serie, dopo aver sconfitto il demonio in persona, rappresentato da una testa caprina incastonata in un dispositivo tecnologico e dotata di una ferita sulla fronte, da cui vengono partoriti senza soluzione di continuità i nemici che popolano l’ambiente virtuale, il gioco propone una carrellata, in ordine crescente di pericolosità e violenza, dei mostri che il giocatore ha dovuto affrontare, lasciandogli la possibilità di ucciderli uno per uno con la sola pressione di un tasto, compreso l’ultimo della serie, che non è il demonio, immobile sullo sfondo, ma l’avatar stesso. La mancanza di una vittoria formale in Doom, come indicato dal significato del titolo stesso, ossia “rovina, morte, destino (tragico, funesto)”, si allinea alla logica del gameplay che, privato degli elementi formali necessari ad una linearizzazione narrativa, diventa necessariamente ripetitivo e privo di un vero e proprio scopo, rendendo puramente convenzionale la conclusione dell’avventura, che si presenta come una spirale verso il basso, in un crescendo di violenza e atrocità richieste al giocatore, fino a quando queste non si ritorgono verso il giocatore che le ha compiute, in una sorta di punizione autoinflitta. La battaglia di Doom si configura perciò come una battaglia persa fin dall’inizio, nella lotta contro il tabù dell’incesto rappresentato dalla Legge del Padre che, tramite le entità ostili del gioco, cerca di impedire al giocatore di prolungare la propria esperienza di con-fusione percettiva con l’ambiente di gioco, simbolo della madre, tramite l’avatar, ossia il fallo; il giocatore combatte contro i nemici con cui si identifica tramite lo scambio di sguardi, ma in cui non si riconosce, non accorgendosi che il tentativo di regressione definitiva al regime immaginario comporta l’eliminazione della Legge del Padre che egli ha introiettato dentro di sé da bambino nel passaggio alla fase 129 edipica, rendendo la lotta del gioco come un attentato alla propria identità, la cui realizzazione non può che coincidere con il suicidio; infatti, l’uccisione di sé segna trasversalmente tutti i finali di Doom, sia in modo esplicito, come il finale del primo capitolo, in cui è il meccanismo tecnologico stesso a dare la morte all’avatar, e in quello di Doom II, nel quale è lasciato al giocatore la facoltà di auto-eliminarsi, che simbolicamente, come nel finale del terzo capitolo del primo episodio, in cui il coniglio, vagando liberamente nell’ambiente digitale, simboleggia l’innocente con-fusione del giocatore con il corpo materno, per poi essere trafitto nel capo, ove giace l’immaginario, dalla “spina” che, provenendo dallo stesso punto del quadro da cui sbuca l’arma dell’avatar, altro non è che l’estensione digitale del giocatore stesso. La lotta contro la Legge del Padre si riflette nel richiamo tematico di Doom al satanismo ed alla sua simbologia, il cui fondamento teorico prevede, infatti, l’affermazione della libertà individuale contro i limiti imposti all’uomo da Dio: se l’avatar-giocatore è colui che libera le lune marziane e l’inferno dal male, la sua condizione è anche paradossalmente simile al quella del diavolo rappresentato nel finale di Doom II, ossia una testa caprina legata indissolubilmente alla tecnologia che ne garantisce la potenza digitale, la cui animalità simboleggia la mancanza di cultura derivante dalla proprietà di linguaggio simbolico, e dalla cui fronte, luogo delle mente e dell’immaginario, vengono partoriti i mostri che popolano il gioco, con cui il giocatore si identifica tramite il reciproco scambio di sguardi; inoltre, il tradimento del satanismo verso Dio si rispecchia nell’intero mondo di Doom, sia nelle strutture architettoniche, i cui meccanismi tradiscono le aspettative del giocatore, sia negli agguati improvvisi dei nemici, costringendo il giocatore a non fidarsi mai delle proprie impressioni visive, ma anche a non poter staccare mai gli occhi dallo schermo durante il corso della partita. Infine, non è casuale neanche il richiamo del titolo del terzo capitolo del primo episodio di Doom all’inferno di Dante, il cui intorpidimento iniziale, paragonabile alla con-fusione percettiva del giocatore, lo fa allontanare dalla vita e dalla legge divina, come la regressione al regime immaginario ed il rifiuto della Legge del Padre, fino a farlo entrare nell’inferno, la con-fusione con l’avatar e la conseguenta immersività nell’ambiente di gioco, sprofondando di girone in girone, analogo al vagare di livello in livello in Doom, tramite la vista dei dannati che carica sul poeta il peso del peccato da loro commesso, come il giocatore che si immedesima, tramite lo scambio di sguardi, con mostri sempre più terribili che richiedono una sempre maggiore partecipazione al gioco, fino a giungere di fronte al demonio e andare oltre, tramite un varco, fino a rivedere le stelle, come il 130 giocatore che, nell’ultimo livello di Doom II, sconfigge il diavolo per poi, tramite un varco, ritornare sulla terra. Nel quarto ed ultimo paragrafo sulla visione in prima persona, sono state analizzate le modalità di transizione dal regime immaginario a quello simbolico e viceversa, conseguenti alla riflessione del soggetto della visione nella figura dello specchio, presente sia in Doom III che in Lady in The Lake, pellicola del 1947 di W. Montgomery. In prima battuta, è stato osservato che il cinema istituzionale presuppone una comunicazione basata principalmente sull’utilizzo di un linguaggio simbolico acquisito dal soggetto percipiente durante la fase secondaria infantile della costruzione dell’identità, il quale prevede la fantasmatizzazione dello spettatore all’interno della diegesi e la netta distinzione tra finzione e realtà, a differenza delle pellicole a carattere soggettivo delle origini e di Doom, che si basano sul regime di comunicazione immaginario tipico della fase primaria, comportando la presenza fisica dello spettatore all’interno di una realtà spazio-temporale risultante dalla con-fusione di rappresentazione e realtà; nel cinema istituzionale, il passaggio dal regime simbolico a quello immaginario comporta, nello spettatore, una regressione psicologica forzata ad uno stadio anteriore della personalità, che provoca un senso di disagio e costrizione immaginaria, analogo alla sensazione di castrazione operata dalla Legge del Padre nei confronti del tragressore del tabù dell’incesto, mentre, nelle pellicole a carattere soggettivo delle origini e in Doom, il passaggio dal regime immaginario a quello simbolico comporta necessariamente la morte simbolica del soggetto con-fuso con la rappresentazione. Le configurazioni visuali di Lady in The Lake e della saga di Doom presentano un continuo passaggio dal regime simbolico a quello immaginario e viceversa, che si realizza, nel film, nell’alternanza tra inquadrature soggettive e interpellazioni, mentre, nel gioco, tra interpellazioni e schermate di testo; questa netta distinzione tra i due regimi di comunicazione viene turbata dall’apparizione dello specchio, che permette il passaggio da un regime all’altro al di là della struttura di fruizione prevista da ciscuna rappresentazione. Di fronte allo specchio in Doom III, infatti, il giocatore ha l’occasione di vedere raffigurato il proprio avatar, provocando la scissione del soggetto con-fuso previsto dall’interpellazione in due entità, una prettamente reale, ossia il giocatore, e una prettamente diegetica, l’avatar, riportando così l’inquadratura al regime simbolico della soggettiva; inoltre, l’immagine riflessa dell’avatar presenta numerose errori tecnici e grafici, oltre alle incongruenze con le caratteristiche fisiche suggerite dalla modalità di movimento e di utilizzo delle armi, finendo per straniare ancora di più lo spettatore dalla 131 rappresentazione. In Lady in The Lake l’uso dello specchio entra a far parte di una strategia comunicativa atta a diegetizzare il più possibile il protagonista della visione soggettiva, che comprende la visualizzazione di numerosi dettagli del corpo, mentre l’interazione con gli altri personaggi tramite il contatto ravvicinato finisce erroneamente per avere un effetto straniante, come per le armi a corto raggio di Doom; tuttavia, proprio l’uso dello specchio, che permette al protagonista di guardare lo spettatore, unito ai continui sguardi in macchina degli altri personaggi, tradiscono la natura diegetica della soggettiva, riportando l’inquadratura al regime immaginario dell’interpellazione e del meccanismo identificatorio tramite lo sguardo: infatti, quando a specchiarsi sono sia il protagonista che l’eroina, l’unico a voltare ogni tanto lo sguardo dalla macchina da presa è proprio il primo, dirottando così l’identificazione dello spettatore verso la seconda, e confermando come l’identificazione della fase primaria non preveda alcuna distinzione di carattere sessuale. Lady in The Lake si presenta come un romanzo di formazione delle modalità di fruizione dello spettatore, il cui equilibrio iniziale, dato dalla con-fusione percettiva del regime immaginario dell’interpellazione, viene turbato dalla simbolicità della soggettiva, la quale cercherà per tutto il film, soprattutto tramite lo specchio, di riportare il soggetto spettatore con-fuso all’originaria distinzione tra sé e la rappresentazione, per poi risolversi nell’ultima inquadratura, in cui, per la prima volta, sia il protagonista che l’eroina non guardano contemporaneamente in camera, ma, al contrario, si baciano, tramutando l’identificazione tramite lo scambio di sguardi della fase primaria nell’identificazione simbolica della fase secondaria. La ricerca ha cercato di delineare i meccanismi sottostanti al processo di fruizione di un soggetto nei confronti dell’immagine in movimento, ponendo a confronto le pellicole a carattere soggettivo del cinema delle origini e Doom, videogioco capostipite del genere degli sparatutto in prima persona; il processo di fruizione è stato così scomposto nelle sue parti principali, analizzando distintamente il contenuto dell’immagine, l’interazione col dispositivo tecnologico e i meccanismi psicologici attivati dall’individuo, al fine di osservare l’evoluzione trasversale e l’impatto del processo di comunicazione in ognuno dei suoi tre termini necessari, ossia l’emittente, il mezzo e il ricevente, tenendo presente la distinzione tra l’unidirezionalità dello scambio informativo del cinema e la bidirezionalità di quello del videogame. Doom si è rivelato come un videogame che ha saputo ereditare appieno la tradizione delle visioni soggettive del cinema delle origini, elevandole, grazie all’interattività fornita dall’informatica, al massimo grado di coinvolgimento del 132 soggetto, fino al punto di stravolgerne la percezione in una visione allucinata, in cui le sue energie primitive riemergono dall’incoscio per essere espresse in tutta la loro potenza emotiva nella violenza dell’immagine digitale. Doom non sembra aver solamente ereditato la tradizione visiva simulatoria del cinema delle origini, ma anche aver sintetizzato, in un unico prodotto, molte delle meraviglie e delle attrazioni fieristiche e circensi che facevano da contorno alle prime apparizioni del cinema, a partire dalle giostre di simulazione, come gli autoscontri, il cavallo meccanico e il fucile ad aria compressa, ma anche quelle meccaniche, come ottovolanti a barche dei pirati, in grado di provocare la stessa vertigine sensoriale che stravolge l’equilibrio emozionale e percettivo del videogiocatore: l’unione di simulazione e vertigine, proposta da Doom, risulta perfettamente analoga al binomio maschera-vertigine, individuato da Roger Caillois nel suo “Les jeux et les hommes: la masque et le vertige”87, che contraddistingue, nelle società superstiziose, la condizione psicofisica dello sciamano durante i riti di possessione, in cui egli pone sul proprio volto una maschera allo scopo di sopprimere la propria identità e rendersi disponibile ad assumere il potere degli animali e delle divinità che egli incontra e con cui lotta durante il suo viaggio psicotropo, diventando egli stesso una divinità, terrificante o fecondatrice; in quest’unione, la mimesi, e perciò l’uso della maschera, caratterizzata dalla libertà d’azione, dalla sospensione del reale, dei limiti spaziali e temporali e dalla simulazione di un realtà altra, trova la propria massima espressione nella smoderatezza che caratterizza la vertigine, sia quella sensoriale provocata da sostanze psicotrope, sia quella psicologica provocata dalla tendenza al disordine, alla distruzione e all’affermazione della personalità, sia quella connessa alla capacità di diffondere il terrore. Nel momento in cui il giocatore inizia una partita a Doom, egli indossa una maschera, che sopprime la propria identità sociale, liberando i propri istinti primari dal peso della cultura, diventando una moderna divinità, il cyborg creato dall’interazione col dispositivo che si identifica nei mostri inumani che sconfigge, trovando, nella propria visione tecnologicamente allucinata e nella propria potere di controllo e di distruzione del mondo immaginario, la vertigine necessaria al distacco totale dalla realtà, all’espressione completa e smodata delle proprie pulsioni primitive, alla completa metamorfosi della 87 Pubblicato in Italia nel 1981 dalla Bompiani, I giochi e gli uomini rappresenta uno dei testi fondativi della ludologia, in cui Caillois distingue quattro categorie principali di gioco, ossia agon/competizione, alea/caso, mimicry/mimesi e ilynx/vertigine, e due abbinamenti fondamentali che costitutiscono le basi di due possibili società, una burocratica e moderna, basata sul binomio agon-alea e quindi sull’eredità ricevuta e sulle capacità individuali, l’altra superstiziosa e antica, basata sul binomio mimicry-ilynx, e perciò sulla credenza nella possessione dello sciamano. 133 realtà e del proprio sé in un nuovo regime di coscienza in cui egli non riconosce la matrice soggettiva della propria visione alterata. La maschera, nella forma del mascherino circolare delle origini e dell’arma di Doom, ha la capacità di abolire l’identità dell’osservatore e fonderla con quella protagonista della visione, soggettivizzando il contenuto dell’immagine, la quale garantisce sia una vertigine morale nello sguardo eroticizzato delle origini e nello sguardo omicida di Doom, che una vertigine sensoriale ottenuta grazie alla struttura prospettica, la quale crea una spirale gravitazionale, una tensione figurativa che, come un vortice, risucchia, entro il punto di fuga, la rappresentazione e tutto ciò che ne fa parte, compreso il soggetto-avatar stesso, il quale prova una sensazione di eterna caduta, di eterno risucchio verso il centro dell’immagine. Come sottolinea Caillois, il binomio maschera-vertigine sfocia in qualcosa che abolisce il gioco stesso, la cultura e l’identità, in un furore disumano che letteralmente accieca il soggetto posseduto tanto che queste pratiche sciamaniche spesso venivano utilizzate dai popoli antichi per prepare i guerrieri alla battaglia; Doom è una possessione mimetica che trova la propria massima espressione nella modalità berserk, per cui l’avatar, dopo aver assunto un particolare power-up, inizia a combattere a mani nude con una forza strepitosa, emettendo un verso isterico mentre la visione si tinge di una patina rossa: i Berserkir erano, infatti, una popolazione vichinga che, prima di ogni battaglia, entravano in uno stato mentale di furia, definito berserksgangr, che li rendeva particolarmente feroci e insensibili al dolore. Doom non è un gioco, ma una riscoperta di quell’antica furia, la mimesi del guerriero nomade che domina il mondo con le sua tecnologie: il cavallo, primo mezzo di trasporto, riscontrabile nell’andamento lineare e sussultorio del punto di vista, e l’arco, arma a distanza per eccellenza, la quale necessita la chiusura di un occhio, rendendosi analoga alla visione monoculare della prospettiva, per prendere la mira88. 88 A questo proposito si rivelano molto interessanti gli studi dell’antropologa Marija Gimbutas in The Goddesses and Gods of Old Europe, The Language of the Goddess, e The Civilization of the Goddess, sull’origine delle popolazioni indoeuropee, le quali risulterebbero dalla sovrapposizione della popolazione Kurgan, civiltà patriarcale capace di costruire cavalcature e poderosi archi, alle popolazioni matriarcali pacifiche che popolarono l’Europa fino al 3500 a.C., epoca dell’invasione calcolitica. Si veda Marija Gimbutas, Kurgan (antropologia) e Indoeuropei in www.wikipedia.org, ultima visita al 30/10/08. 134 Bibliografia Aumont Jacques, Bergala Alain, Marie Michel, Vernet Marc, Esthétique du film, Paris, Nathan, 1994 (tr. it. di Dario Buzzolan, Estetica del film, Torino, Lindau, 1998) Barthes Roland, La chambre claire. Note sur la photographie, Seuil, Cahieres du Cinéma - Gallimard, 1980 (tr. it. di Renzo Guidieri, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi, 2003) Bettetini Gianfranco, La conversazione audiovisiva: problemi dell’enunciazione filmica e televisiva, Milano, Bompiani, 1984 Bittanti Matteo, Gli strumenti del videogiocare. Logiche, estetiche e (v)ideologie, Milano, Costlan, 2005 Bittanti Matteo, Per una cultura dei videogames: teorie e prassi del videogiocare, Milano, Unicopli, 2004 Bolter Jay David, Grusin Richard, Remediation. Understanding New Media, Cambridge, The MIT Press, 1999 (tr. it. di Benedetta Gennaro, Remediation. 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