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EÈerge!¤a! xãrin
pp. 293-336
Jakub Urbanik
D. 24.2.4: “… PATREM TAMEN
EIUS NUNTIUM MITTERE POSSE”
L’INFLUSSO DELLA VOLONTÀ DEL PADRE
SUL DIVORZIO DEI SOTTOPOSTI*
I. INTRODUZIONE
in questo articolo1 suscitò
l’interesse dei più eminenti scienziati, tra i quali basta nominare: Siro Solazzi, Giannetto Longo, Edoardo Volterra ed ultimamente Alvaro e
Xavier d’Ors.2 E non senza ragione: i “grandi” lo dovevano trattare nella dis-
IL
PROBLEMA DI CUI VOGLIO OCCUPARMI
* Vorrei esprimere gratitudine ad Uri YIFTACH che ha letto la prima versione di questo
scritto per la stimolante discussione e i tanti interessanti suggerimenti, nonché per avermi
messo a disposizione la sua tesi di dottorato (in corso di pubblicazione) sul matrimonio
nell’Egitto greco-romano. Ho approfittato anche delle correzioni e dei consigli di Cosimo
CASCIONE. Ringrazio lui, Francesco PANZETTI e Paolo SANTINI per aver coretto il mio italiano. Ovviamente tutta la responsabilità per le opinioni qui espresse, è mia.
1 Esso fa parte della mia tesi di dottorato Il divorzio nel diritto romano e nei papiri dell’Egitto
romano preparata sotto la direzione di MARIA ZABŁOCKA. Per la bibliografia più recente sul
divorzio vedi O. ROBLEDA, “Il divorzio a Roma prima di Costantino”, ANRW 14.2 (1982),
pp. 347-390. Le considerazioni dell’autore dell’unica monografia sul divorzio romano, G.
BRINI (Matrimonio e divorzio nel diritto romano, III: Il diritto romano del divorzio, Bologna 1889),
sono molto influenzate delle idee esistenti allora sul matrimonio romano.
2 S. S OLAZZI, “In tema di divorzio: I. Il divorzio della filia familias”, Bulletino dell’Istituto di diritto romano 34 (1925), pp. 1-28 (= Scritti di diritto romano, III), Napoli 1960, pp. 1-21; G. LONGO,
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cussione sulla natura del matrimonio romano. L’assunzione dell’uno o dell’altro punto di vista (cioè che l’avente potestà potesse o meno dissolvere il
matrimonio dei propri sottoposti) fu determinata dalla posizione presa nella diatriba tra “consenso continuo” e “consenso iniziale”. Secondo Volterra,3 l’ammissione della possibilità della rottura del matrimonio effettuata
dal pater escluderebbe di conseguenza la necessità del consenso continuo
degli sposi per l’esistenza del matrimonio. Negherebbe, dunque, l’affectio
maritalis come il requisito più importante del matrimonio romano. Volterra, quindi, più volte cercò di spiegare il concetto del permesso paterno al
“Sullo scioglimento del matrimonio per volontà di pater familias”, Bulletino dell’Istituto di diritto romano 40 (1932), pp. 201-224 (ripetuto senza molti cambiamenti nel IDEM, Diritto romano –
diritto di famiglia, Roma 1953, pp. 79-85). Per la rimanente letteratura antevolterriana basta rivolgersi alle numerose opere dedicate a questo tema dal grande studioso tra cui La conception
du mariage d’après les juristes romains, Padova 1940 (= Scritti giuridici, II, Napoli 1991), pp. 1-68;
“Quelques observations sur le mariage des filiifamilias”, Revue internationale des droits de
l’antiquité 1 (1948), pp. 213-242 (= Scritti giuridici, II, pp. 97-126); Lezioni di diritto romano. La
famiglia, Roma 1961-1962, in part. pp. 206-224; “Precisazioni in tema di matrimonio classico”, Bulletino dell’Istituto di diritto romano 78 (1975), pp. 245-270 (= Scritti giuridici, III, Napoli
1991), pp. 509-606; “Ancora sulla struttura del matrimonio classico”, [in:] De iustitia et iure.
Festgabe Urlich von Lübtow, Berlin-München 1980, pp. 147-153 (= Scritti giuridici, V ), Napoli
1993, pp. 599-605; “Ancora sulla legislazione imperiale in tema di divorzio” [in:] Studi A.
Biscardi, V, Milano 1984, pp. 199-206 (= Scritti giuridici, VI, Napoli 1994, pp. 521-528 (visto
che la ristampa delle opere di Edoardo VOLTERRA, Scritti giuridici, I-VIII, Napoli 1990-2003,
conserva la ripaginazione originale, i riferimenti bibliografici alla nuova edizione saranno fatti solamente in questa nota). Dopo E. Volterra del problema esposto in questo articolo si sono occupati: A. D’ORS & X. D’ORS , “Socer nuntium mittens”, [in:] Mélanges offerts à Jean
Dauvillier, Toulouse 1979, pp. 605-615; nonché O. R OBLEDA e J. HUBER (vedi n. 6) e G.
MATRINGE, “La puissance paternelle et le mariage des fils et filles de famille en droit romain
(sous l’Empire et en Occident)”, [in:] Studi Volterra, V, Milano 1971, pp. 191-237 (l’autore descrive l’evoluzione [o anzi: l’involuzione] del concetto della potestà paterna; per la soluzione
del matrimonio di figli in potestate vedi pp. 224-236 – MATRINGE , però, soprattutto pone
delle domande e spesso, accontentandosi di accettare interpolazioni nei testi, non propone
alcuna soluzione). Sulla storia del concetto della patria potestas s. v. P. VOCI, “Storia della patria potestas da Costantino a Giustiniano”, Studia et documenta historiae et iuris 51 (1985), pp. 1-72,
alle pp. 1-19 sul matrimonio dei figli in protestate patris. Vedi per la descrizione del diritto
postclassico imperiale (e specialmente per paragoni con la tradizione giuridica dei Basilici):
J. BEAUCAMP, Le statut de la femme à Byzannce (4e-7e siècle), I: Le droit impérial, Paris, 1990, pp.
256-261. Nel tomo secondo della stessa opera, Le pratiques sociales, Paris 1992, l’autrice esamina le testimonianze papirologiche (vedi soprattutto: § 36: “La conclusion du divorce”).
3 Cf. per es. E. VOLTERRA Lezioni di diritto romano. La famiglia, Roma 1960-61, pp. 198-204;
IDEM, s.v. “Matrimonio (diritto romano)”, [in:] Enciclopedia del diritto (= Scritti giuridici, III,
Napoli 1991, p. 243).
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matrimonio dei sottoposti come un elemento diverso dal consenso dei nubendi. Il permesso paterno sarebbe da intendere come auctoritas, che una
volta concessa non può essere ritirata.4 Al contrario, gli studiosi che accettarono il consenso iniziale come base del matrimonio romano videro la prova della loro teoria proprio nelle fonti di cui mi occuperò in questa sede.
Comunque, pare che le la visione del matrimonio romano accettata dagli
studiosi che studiarono le fonti concernenti il problema del divorzio effettuato dal pater familias, abbia influenzato proprio la loro interpretazione di
questi e che ci manchi un’esegesi autonoma, senza una tesi presupposta.
II. L’INTERPRETAZIONE
DI D. 24.2.4 E LE PRESUNTE INTERPOLAZIONI
Grazie a Volterra, sappiamo tutti che il requisito più importante del matrimonio romano era l’affectio maritalis, ovvero la volontà di ambedue i nubendi di essere (o anzi di rimanere) sposati. Naturalmente, nel caso di persone
sottoposte a potestà, per contrarre matrimonio occorreva ancora il consenso dei loro “superiori” familiari, dunque dei loro patres familias. La volontà
paterna, però, non avrebbe avuto nessun influsso sul matrimonio già posto
in essere.5 E con ciò entriamo in un’ampia discussione provocata dalle fonti
in cui si parla del divorzio, a quanto pare, effettuato dal pater. Una parte
degli studiosi, che accettò la teoria del consenso iniziale (Solazzi, e in tempi
4 Questa prerogativa paterna venne caratterizzata come auctoritas da diversi autori, cf. per
es. VOLTERRA, s.v. “Matrimonio” (cit. n. 3), § 3.2 (= pp. 229-230); IDEM, Lezioni (cit. n. 3), p.
198-202. Di recente R. DOMINGO, Auctoritas, Barcelona 1999, pp. 32-34, e n. 108 si oppose a
tale parere, preferendo chiamarla potestas. In questa sede non intendo entrare nel merito
della discussione, vorrei solamente segnalare alcuni testi provenienti dalle opera dei giuristi
classici, che definiscono il permesso del pater familias per il matrimonio dei sottoposti proprio come auctoritas. Si potrebbe dire, dunque, che i Romani non abbiano creato una chiara
terminologia in questo ambito. Cf. D. 23.2.9 pr. (Ulpianus, 26 ad Sab.): Si nepos uxorem velit
ducere avo furente, omnimodo patris auctoritas erit necessaria: sed si pater furit, avus sapiat, sufficit avi
voluntas. D. 23.2.16.1: Nepote uxorem ducente et filius consentire debet: neptis vero si nubat, voluntas
et auctoritas avi sufficit. D. 50.12.2.1 (Ulpianus, 1 disp.) Voto autem patres familiarum obligantur puberes sui iuris: filius enim familias vel servus sine patris dominive auctoritate voto non obligantur. (v.
anche, D. 23.2.3: … me solo auctore contrahi posse; nonché G. 2.122, per l’auctoritas tutoris/patroni).
5 Cf. il celebre brano delle PSent. 2.19.2: Eorum qui in potestate patris sunt sine voluntate eius iure matrimonia non contrahuntur, sed contracta non solvuntur: contemplatio enim publicae utilitatis privatorum commodis praefertur.
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più recenti, quasi soltanto Robleda con suo allievo Huber),6 non solo ammette tale possibilità, ma anche interpreta i suddetti testi come prove
dell’esigenza solo del consenso iniziale per il matrimonio. Volterra, Longo
ed altri, invece, ritengono che le fonti siano state manipolate dai compilatori giustinianei, o dai loro antecedenti, e come tali riflettano le regole giuridiche vigenti, anche se non ai tempi di Giustiniano, almeno nel periodo postclassico del diritto romano. Vorrei proporre un riesame dei testi, che
forse potrà cambiare un po’ la teoria volterriana, pur non respingendo la
dottrina del consenso continuo.
Cominciamo allora dal testo che dà il titolo a questo articolo:
D. 24.2.4 (Ulpianus, 26 ad Sab.): Iulianus libro octavo decimo digestorum
quaerit, an furiosa repudium mittere vel repudiari possit. et scribit furiosam repudiari posse, quia ignorantis7 loco habetur: repudiare autem non posse neque ipsam propter dementiam neque curatorem eius, patrem tamen eius nuntium mittereposse. aquod non tractaret de repudio, nisi constaret retineri matrimonium:a quae
sententia mihi videtur vera.
a-a Corpus Iuris Civilis prudentium responsa Caesarumque rescripta complectens, adiectae sunt praeter Accursij
glossas, clarissimum Iurisconsultorum: Govrani, Gonani, Duareni, Cuiacii et Hottomani, Lugduni 1600, col.
1850: qui ~ non tractaret de repudio, nisi constaret posse ~ et cum furiosa retineri matrimonium.
Bas. 28.7.11 (Heimb. III, p. 232): OÈlp. T∞w mainom°nhw ı gãmow m°nei
§=rvm°now, ka‹ kal«w aÈtª st°lletai diazÊgion: ¶oike går t“ ég-
6 O.
ROBLEDA, El matrimonio en derecho romano, Roma 1970, passim, ma in particolare il cap.
3: “¿Consentimento continuo o inicial?” nonché, il cap. 6: “Disolución del matrimonio” con
il § 5: “Disolución por voluntad del paterfamilias” (pp. 252-254); IDEM, “Il divorzio a Roma”
(cit. n. 1), pp. 367-373; J. HUBER, Der Ehekonsens im römischen Recht – Studien zu seinem Begriffsgehalt in der Klassik und zur Frage seines Wandels in der Nachklassik, Rom 1977, in part.: § 4: “Das
divortium des furiosus”. A tal proposito si deve ricordare che l’opinione più radicale in questo
tema, cioè quella di SOLAZZI (cf.: “In tema di divorzio” [cit. n. 2], pp. 1, 8-9 [= pp. 1, 6]) – secondo la quale il padre poteva non solo sciogliere il matrimonio contro la volontà della figlia,
ma anche contrarlo fu totalmente abbandonata. Dopo la critica di L. CAES, “A proposito del
Fr. Vat. 116”, Studia et documenta historiae et iuris 5 (1939), pp. 125-126 e la nota 4: lo studio
belga trovò un circolo vizioso nel ragionamento di Solazzi)
7 E. LEVY, Der Hergang der römischen Ehescheidung, Weimar 1925, p. 85, sospetteva ignorantis
di esser interpolazione per un’originale absentis. Per il mio commento vedi la mia tesi (cit. n.
1), cap. “Requisiti formali del divorzio”.
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noËti. aÈtØ d¢ oÈ st°llei, oÎte ı kourãtvr aÈt∞w: ı d¢ patØr dÊnatai st°llein diazÊgion.
scholion 3: ı d¢ patØr dÊnatai st°llein diazÊgion: toË énvnÊmou. efi
d¢ ı patØr ma¤netai, a·th st°llei tÚ =epoÊdion, ka‹ ≤ pro‹j sunainoÊshw aÈt∞w kal«w t“ kourãtvri toË patrÚw katabãlletai. µ toÈnant¤on, …w bib. mwÄ tit. gÄ dig. jeÄ Pompvn¤ou. énãgnvyi toÊtou toË
bib. tit. aÄ dig. lbÄ §n ⁄ fhsi, sunainoÊntvn t«n sunoikoÊntvn mØ
lÊesyai tÚn gãmon, toË patrÚw y°lontow =epoÊdion. énãgnvyi ka‹
bib. eÄ toË k≈dikow, tit. izÄ diat. eÄ ka‹ Íst°ran.8
Ulpiano tramanda un’opinione di Giuliano,9 il quale, essendosi chiesto se
una donna furiosa potesse ripudiare suo marito e se essa stessa potesse esserne ripudiata, rispose che questa può essere ripudiata così come si può
divorziare da uno sposo assente, e purché inconsapevole dell’atto dell’altro
sposo.10 Naturalmente, neppure il curatore può divorziare a nome della fu8 Traduzione di G. E. H EIMBACH: “pater autem repudium mittere potest: innominati. si
autem pater furiosus sit, ipsa repudium mittit, et dos ea consentiente recte solvitur curatori
patris, aut contra, ut lib. 46 tit. 3 dig. 65 Pomponii. Lege huius libri tit. 1 dig. 32 in quo dicit,
consentientibus coniugibus non solvi matrimonium, patre volente repudium. Lege et lib. 5
codicis, tit. 17 const. 5 et ultimam.” Vale notare che nello scholion 1 di Dorotheos a Bas.
28.7.10 (corrispondente a D. 24.2.3) viene citato lo stesso parere di Giuliano ma con una differenza sostanziale: anche pater è escluso ai pari di curatore e pazza stessa: BS 1 ad 28.7.10:
ka‹ ¶gracen ÉIoulianÒw: (…) mÆte d¢ aÈtØn (sc. mainom°nhn J.U.) dÊnasyai p°mpein =epoÊ-
dion diå tØn êgnoian aÈt∞w, mÆte tÚn kourãtvra aÈt∞w, mÆte tÚn pat°ra aÈt∞w kal«w
p°mpein =epoÊdion.
9 Tratta, secondo O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, Leipzig 1889 (rist. Graz 1960), col.
1109, dal libro de patria potestate, e collocata dallo studioso tedesco tra D. 23.3.5.13 e D.
24.3.22.3. Questi testi si occupano del problema dell’agire del padre a favore della dote di sua
figlia, e forse anche la questione posta nel passo esaminato riguardava questo caso.
10 Una regola simile è tramandata da CI. 5.17.6 (Diocletianus et Maximianus AA. et CC.
Phoebo; XVIII kal. Ian., Nicomediae, CC. Conss. [15 XII 294]): licet repudii libellus non fuerit
traditus vel cognitus marito dissolvitur matrimonium. Non si può pensare che in questo passo gli
imperatori abbiano introdotto una regola nuova – licet sembra, infatti, dimostrare che si tratti della riaffermazione di un principio antico. Pare che le obiezioni avanzate dalla dottrina
meno recente (cf. per esempio: U. RATTI, Rec. a E. LEVY: Der Hergang..., pubblicata in Bulletino dell’Istituto di diritto romano 35 [1927], pp. 211-212) non abbiano più valore alla luce delle
ricerche di VOLTERRA). Non voglio entrare ora nel merito della discussione sull’interpretazione del passo proposta da LEVY, Der Hergang (cit. n. 7), p. 15 (“Zu der Trennung muß, um
die Ehe zu lösen, eine Erklärung des sich scheidenden Gatten an den anderen hinzutreten”),
pp. 53-66 e in part. 84-5, che lo portò allo sviluppo della teoria dell’Emfangsbedürfigkeit. A tale
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riosa. Questo non ci sorprende affatto: sappiamo bene, che un curatore non
può esercitare la potestà personale sulla persona curata.11 Sono le frasi finali
che suscitarono sospetti d’interpolazione. Cominciamo dall’ultima parte del
passo, invero di difficilissima comprensione: essa con tutta probabilità fu
corrotta durante la trasmissione del testo, l’alterazione forse è dovuta ad un
errore del copista. La chiusa manca nella parafrasi dei Basilici. Cuiacio12 ed
altri editori rinascimentali del Digesto ne proposero una versione diversa.
Però il suo contenuto dovrebbe poter essere interpretato più o meno così:
non si può trattare di un ripudio a meno che non si ammetta che un matrimonio perduri nonostante l’insorgenza della pazzia in uno degli sposi.13
Procediamo allora alla penultima frase. In questa parte del testo il senso è
chiaro: il padre della sposa furiosa (badiamo bene che non si dice se questo
sia il caso della figlia sottoposta alla potestà paterna o meno) avrebbe diritto di sciogliere il suo matrimonio agendo come rappresentante della figlia.
Secondo Volterra questo luogo rispecchierebbe la dottrina giustinianea:
proposito basta ricordare il parere di Reuven Yaron. Questo studioso rilevò che la regola
congetturata da Levy avrebbe seriamente limitato il principio di “libera matrimonia” (cf. R.
YARON, “Divortium inter absentes”, Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis 31 [1963], pp. 54-68, a 5960). Per un trattamento più profondo vedi il cap. “Requisiti formali del divorzio”, § V “Le
prime disposizioni imperiali e la “Emfangsbedürfigkeit” di Ernst Levy” della mia tesi.
Tra gli altri testi che parlano del divorzio in caso di pazzia di uno degli sposi, vedi per es.
D. 24.3.22.7 (Ulpianus, 33 ad ed.).
11 Un papiro, però, mette in evidenza che forse il consenso del curatore fosse necessario
affinché la pupilla potesse divorziare: cf. P. Lips. 41 = MChr. 300 (Hermopolis, datato paleograficamente alla fine del quarto sec.). L. MITTEIS, P. Lips. 41, pp. 139-140, si espresse a favore di questa ipotesi evidenziando un’analogia con la prerogativa del curatore di concedere il
matrimonio alla pupilla (in matrimonium collocare da parte del curatore appare in tre testi molto tardivi: CI. 5.6.7 [Diocletianus], CI. 5.6.8 [Leo] e CTh. 3.5.11.3 [Gratianus, Valentinianus,
Theodosius]). Va rilevato che il contesto e l’unicità del documento non permettono una sua
precisa e sicura spiegazione.
12 Questa sembra una correzione fatta dal grande umanista: non l’ho potuta trovare nella
Littera Florentina, p. 344v (Cf. l’edizione fotografica del codice fiorentino: A. CORBINO & B.
SANTALUCIA (ed.), Iustiniani Augusti Pandectrarum Codex Florentinus, Firenze 1988, I).
13 In tal senso (senza tener presente la lectio Cuiaciana) pure VOLTERRA, “Precisazioni in
tema” (cit. n. 2), p. 255. Troviamo, infatti, la stessa interpretazione anche nella glossa, ripetuta
da Accursio (cf. Corpus Glossatorum Iuris Civilis, I, ristampa anastatica Torino 1969) ad h. l.:
Ulpianus: retineri contractum ante furorem. Ringrazio Paul du PLESSIS per aver controllato questa fonte.
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esso probabilmente sarebbe stato modificato dai compilatori.14 Una conclusione del genere appare naturale al grande romanista: risulta benissimo
dalla sua continua lotta contro la concezione del consenso iniziale15 e contro l’idea che nella formazione del matrimonio la volontà del padre sarebbe
stata prevalente. Mi pare, però, che in questo caso i sospetti del Volterra
non siano abbastanza ben fondati.
III. ALTRE FONTI SUL DIVORZIO EFFETUATO DAL PATER
Il primo argomento che potrebbe appoggiare la mia tesi è offerto da altri
testi che parlano di ripudio di una furiosa effettuato (a suo nome?) dal pater,
come per esempio D. 24.3.22.9.
D. 24.3.22.9 (Ulpianus, 33 ad ed.): Item pater furiosae utiliter intendere sibi filiaeve suae reddi dotem potest: quamvis enim furiosa nuntium mittere non possit,
patrem tamen eius posse certum est.
Parlando della legittimazione, da parte del padre, ad agire con actio rei uxoriae16 contro il marito della propria figlia pazza, Ulpiano ne dà una giustifi14 Cf. VOLTERRA, “Ancora sulla struttura” (cit. n. 2), p. 151: “l’affermazione del passo che il
ripudio del padre della donna scioglie il matrimonio sembra rispecchiare la dottrina postclassica del consenso iniziale…”; E. LEVY, Der Hergang (cit. n. 7), pp. 85-87. Contra: RATTI,
Rec. a E. L EVY (cit. n. 10), p. 211. Questi lavori, però, sembrano influenzati dalla distinzione
fatta da E. LEVY tra “freie Ehe” e “Manusehe” (cf. pp. 18, 39 del suo libro). Intanto, i sospetti
delle interpolazioni avanzate dall’autore tedesco sono non solo poco convincenti, ma anche
poco significativi per il problema discusso in questo articolo.
15 Non voglio ripetere in questa sede tutti gli argomenti d’ambedue le parti: basta rinviare
al libro di ROBLEDA, El matrimonio (cit. n. 6), passim, ma in particolare le pp. 134-136 nonché
allo scritto di J. HUBNER , Ehekonsens (cit. n. 6), pp. 39-41. Contra le recensioni a Robleda e
Hubner: VOLTERRA, “Precisazioni in tema” (cit. n. 2) ma anche quella di S. DI SALVO, Index 2
(1971), pp. 376-389, sulla follia dello sposo; contro l’argomento secondo il quale il perdurare
del matrimonio in tal caso proverebbe l’esclusività del consenso iniziale, si vedano in part. le
pp. 383-384. I testi sempre richiamati nella discussione su cosa significhi la permanenza del
matrimonio nonostante l’insorgenza dell’insania mentale sono (oltre il sopraccitato D.
24.2.4): D. 23.2.16.2 (Paulus, 35 ad ed.); PSent. 2.19.7; D. 1.6.8 (Ulpianus, 26 ad Sab.): per un
commento dettagliato a questo passo si veda VOLTERRA, “Precisazioni in tema” (cit. n. 2),
pp. 255-256, contra, naturalmente, HUBER (cit. n. 2), pp. 42-43.
16 E non con una actio utilis rei uxoriae, secondo D. DAUBE , “Utiliter agere”, Iura 11 (1960),
pp. 69-148 (= Collected Studies in Roman Law, II, Frankfurt a/M. 1991, pp. 923-993, alle pp.
980-981). Utiliter è da tradurre come “to a good purpose”, utiliter intendere, dunque, come
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cazione: anche se la figlia non può divorziare dal proprio marito, lo può fare
suo padre.17 Un problema simile, con particolare riguardo al significato di
“consenso della figlia” è discusso nel D. 24.3.2.2.
D. 24.3.2.2 (Ulpianus, 35 ad Sab.): Voluntatem autem filiae, cum pater agit de
dote, utrum sic accipimus, ut consentiat an vero ne contradicat filia? Et est ab imperatore Antonino rescriptum filiam, nisi evidenter contradicat, videri consentire
patri. Et Iulianus libro quadragesimo octavo digestorum scripsit quasi ex voluntate filiae videri experiri patrem, si furiosam filiam habeat: nam ubi non potest
per dementiam contradicere, consentire quis eam merito credet. Sed si absens filia
sit, dicendum erit non ex voluntate eius id factum cavendumque ratam rem filiam
habituram a patre: ubi enim sapit, scire eam exigimus, ut videatur non contradicere.
Ulpiano allora si chiede come si possa capire se la figlia concede al padre di
agire contro il proprio ex-marito per riavere la dote.18 La volontà deve essere manifestamente espressa oppure basta che la figlia non contraddica l’azione del proprio genitore? Come risposta, il giurista cita la regola interpretativa ripetuta oppure (ma meno probabilmente) introdotta da Antonino
Pio, principio che può essere ricapitolato come segue: se tace, acconsente.
Viene poi aggiunta, cosa per noi molto interessante, un’opinione di Giuliano (nota bene: ci troviamo davanti ad una costruzione del testo uguale a D.
24.2.4). Cosa significa, in pratica, agire con l’actio rei uxoriae? Certamente il
processo non si poteva iniziare senza un precedente scioglimento del matrimonio, nel nostro caso quasi certamente per mezzo un divorzio (non si par-
“agire con efficacia”; il pater familias era co-attore con la figlia, e tale, probabilmente, appariva nella condemnatio della formula processuale.
17 Tale conclusione è ancora affermata in contrasto con la soluzione del paragrafo precedente (D. 24.3.22.8). Quando il marito maltratta la moglie ammalata, non vuole dissolvere il
matrimonio e abusa della dote, il curatore della donna, o i suoi cognati, non possono far altro
che rivolgersi al giudice affinché questi ordini al marito di prendersi cura della moglie, o, al
limite, affinché la dote sia sequestrata in modo da provvedere ai mezzi di sostentamento della stessa. Il § 9 sembra contrastare la situazione in cui si trova il padre della furiosa: lui, e solo
lui, può richiedere la dote e dissolvere il matrimonio (la regola che sembra esser contenuta
qui viene espressa con la seconda frase di D. 24.2.4).
18 La regola secondo la quale la figlia deve acconsentire all’azione pro dote del padre viene
espressa in D. 23.3.2 (Paulus, 7 ad Sab.): Post nuptias pater non potest deteriorem causam filiae facere, quia nec reddi ei dos invita filia potest.
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la infatti della morte del marito).19 Giuliano afferma, nel libro quarantottesimo dei suoi Digesta, che il padre di una donna furiosa agisce come se secondo la volontà della figlia. Siccome ella non può dissentire a causa della
propria pazzia, si suppone un tacito consenso. Tale regola è confermata in
più dall’opposizione rispetto alla situazione in cui si agisce contro il genero,
quando la figlia è assente. In questo caso il padre deve prestare una cautio in
virtù della quale le proprie azioni saranno accettate dalla figlia (per mezzo
d’una ratihabitio) quando ella sarà tornata. Perché, dice il giurista, quando la
figlia è sana, deve essere cosciente del procedimento, affinché si possa sapere che non lo contraddica.
Naturalmente questi possono essere solamente casi specifici che delimitano l’occorrenza della follia, applicando, per così dire, l’utilitatis ratio. Chi
potrebbe agire contro il marito della figlia, soprattutto nel caso in cui, possiamo immaginare, avvenga qualcosa di malizioso contro di lei? Solamente il
padre. L’altra obiezione che si può avanzare è che i testi menzionati trattano solamente della filia familias (ciò indusse Solazzi a credere che la situazione del figlio sposato fosse diversa rispetto a quella della figlia sposata
alieni iuris).20 Troviamo, però, anche altri testi che trattano in generale del
ripudio dei figli effettuato dal padre.
Esaminiamo per primo un testo proveniente dall’opera di Giuliano:
D. 23.2.11 (Iulianus, 62 dig.): Si filius eius qui apud hostes est vel absit ante triennium captivitatis vel absentiae patris uxorem duxit vel si filia nupserit, puto
recte matrimonium vel nuptias contrahi, dummodo eam filius ducat uxorem vel
filia tali nubat, cuius condicionem certum sit patrem non repudiaturum.
Emerge che un filius o una filia familias, il padre dei quali sia prigioniero di
guerra, può sposarsi anche prima del triennio previsto per questo caso, se si
potrà accertare che il futuro sposo non verrà ripudiato dal padre quando egli
sarà tornato in patria e quindi riottenerà i diritti promananti dalla potestà
19 Sulla
actio rei uxoriae: A. SÖLLNER , Zur Vorgeschichte und Funktion der actio rei uxoriae,
Köln 1969, passim, in particolare pp. 136-137; cf. pure O. LENEL, Das Edictum Perpetuum,
Leipzig 1927 (3ed., rist. Aalen 1985), p. 303 che dà il seguente titolo, preso dai titoli D. 24.3 e
CI. 5.18, alla rubrica dell’Editto: soluto matrimonio dos quemadmodum petatur.
20 SOLAZZI, “In tema di divorzio” (cit. n. 2), passim.
302
JAKUB URBANIK
paterna.21 Ciò può essere interpretato nel senso che al padre veniva concesso il diritto di rompere il matrimonio dei propri figli, almeno di quelli sottoposti. Devo ammettere, però, che questo testo può avere anche un altro
significato: “non ripudierebbe” è da intendersi nel senso che il padre avrebbe dato consenso al matrimonio con questo particolare candidato per marito/moglie, se avesse avuto pieni poteri. Vi è un’altra possibilità interpretativa: il repudium menzionato dal giurista riguarda la rottura non del matrimonio ma degli sponsali del figlio/figlia, cosa sempre concessa al pater familias.
3.1. Interdictum de liberis ducendis
Non possiamo allora trarre un argomento conclusivo dal testo appena citato. Un altro brano però sembra offrirci maggiori informazioni. Si tratta del
passo tratto dal titolo trenta del libro quarantatreesimo dei digesta (de liberis
exhibendis, item ducendis):
D. 43.30.1.5 (Ulpianus, 71 ad ed.): Si quis filiam suam, quae mihi nupta sit, velit abducere vel exhiberi sibi desideret, an adversus interdictum exceptio danda
sit, si forte pater concordans matrimonium, forte et liberis subnixum, velit dissolvere? Et certo iure utimur, ne bene concordantia matrimonia iure patriae potestatis turbentur. Quod tamen sic erit adhibendum, ut patri persuadeatur, ne acerbe
patriam potestatem exerceat.
Tutto il titolo è dedicato ai rimedi spettanti al pater familias nel caso in cui
qualsiasi persona ritenga contro la sua volontà la figlia o il figlio sottoposto.
Il pretore, come c’insegna il paragrafo secondo, non prende in considera-
21 Cf.
D. 23.2.9.1 (Ulpianus, 26 ad Sab.): Is cuius pater ab hostibus captus est, si non intra triennium revertatur, uxorem ducere potest. Si tratta probabilmente di una regola di natura utilitaristica. La captivitas dell’avente potestà provocava uno stato di sospensione. Anche se le persone sottoposte ottenevano in quel momento una piena capacità d’agire, c’era sempre la possibilità che essa sarebbe stata tolta loro appena il padre fosse stato liberato (e tornato nel
territorio romano); le azioni svolte nel frattempo sarebbero state invalidate. Il principio
presentato da Ulpiano forniva una ricetta equitativa per smussare l’essenza di temporaneità
alle loro azioni. La descrizione d’un caso pratico si trova in: Seneca Rhetor, Controversia 5.2
(vedi più avanti, note 98-99). Su D. 23.2.9.1 v. M. K ASER, “Ius publicum und ius privatum”,
Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, Romanstische Abteilung 116 (1986), pp. 1-110,
sulla p. 41 con la lett. cit. nella nota 162.
L’INFLUSSO DELLA VOLONTÀ DEL PADRE SUL DIVORZIO DEI SOTTOPOSTI
303
zione la causa per la quale la persona che deve essere esposta si trova presso
il convenuto. Però, in qualche caso speciale, sempre sulla base di una lex specialis emanata dall’imperatore, viene concessa al convenuto un’eccezione.
Tal caso è descritto nel § 3: secondo il decreto di Antonino Pio, nonché i
rescritti di Marco Aurelio e Alessandro Severo l’interdetto dato al padre
contro la madre che trattiene con sé i propri figli non avrà successo se ciò
avverrà iustissima scilicet causa.22 Continuando questo discorso Ulpiano
(quasi sicuramente, come rilevò Volterra,23 rispondendo alla domanda postagli da un marito che si era trovato in una situazione simile) dubita che
l’interdetto invocato dal padre contro il marito avrà successo, soprattutto
nel caso del concordans matrimonium, forte et liberis subnixum, matrimonio concorde, rafforzato dai figli nati da questa unione. Nelle due ultime frasi il
giurista spiega che si usa un diritto certo, ben stabilito, in virtù del quale i
matrimoni ben armonizzati non devono esser turbati dall’esercizio della
potestà paterna; il che dovrebbe essere compreso così: si dovrebbe persuadere il padre a non esercitare i propri diritti acerbe. Il testo discusso provocò tormentate discussioni.24 Tutti gli autori lo ritengono interpolato (Solazzi lo chiamò “rimaneggiato più volte da diverse mani”). La cosa per noi
più interessante è comprendere come nella pratica funzionasse il principio
indicato con l’espressione “ne turbentur”:
22 D. 43.30.1.3: Si vero mater sit, quae retinet, apud quam interdum magis quam apud patrem morari filium debere (ex iustissima scilicet causa) et divus Pius decrevit et a Marco et a Severo rescriptum
est, aeque subveniendum ei erit per exceptionem.
23 VOLTERRA, “Quelques remarques” (cit. n. 2), pp. 235-240.
24 Cf. SOLAZZI , “In tema di divorzio” (cit. n. 2), pp. 17-19 (= pp. 12-14); G. LONGO, “Sullo
scioglimento” (cit. n. 2), pp. 214-220; VOLTERRA, “Quelques remarques” (cit. n. 2), pp. 235240. In questi scritti si può trovare la completa discussione sulle possibili interpolazioni nel
testo; ne riporto solamente alcuni tratti per noi qui più interessanti. Pare che comunque i
dubbi sia di Solazzi, soprattutto per quando riguarda possibili cambiamenti nella struttura
dell’opinione ulpianea (la presunta aggiunta dell’uno [abducere] o l’altro interdetto [exhibere]
da parte di compilatori nel testo originale rendendolo anacronistico), che di G. Longo (che
pensava all’avvenuta fusione di testi riguardanti due interdetti), siano abbastanza ben respinti da Volterra (p. 239). Egli ritenne che la frase iniziale del testo non facesse parte del responsum dato dal giurista ma della domanda del marito privato della moglie. Questa osservazione
è soprattutto importante per tutta la critica testuale di Solazzi, il quale su questo argomento
fondava la sua totale sfiducia rispetto al testo esaminato; MATRINGE gli dedicò le pagine
226-231 del proprio articolo (cit. n. 2), ma non pare che egli abbia preso in considerazione
l’argomentazione volterriana. Vedi anche BEAUCAMP, Le statut (cit. n. 2), I: pp. 258 e n. 103.
304
(i.)
(ii.)
(iii.)
JAKUB URBANIK
Solazzi credeva che le frasi finali et certo iure – turbentur e quod – exerceat
fossero state introdotte dagli interpolatori: la prima dal compilatore
giustinianeo che con ciò esponeva il principio dei suoi tempi; l’altra
da “un platonico glossatore [antegiustinianeo, J.U.], il quale leggendo
che il padre poteva rompere il matrimonio della filia familias, gli raccomandava di usare del suo diritto senza asprezza”. Questa opinione
è naturalmente dovuta alla presunzione che per tutto il periodo classico il pater abbia potuto sciogliere il matrimonio della figlia.25 Questo parere è anche dimostrato dal modo in cui lo studioso considerava
la legge 5 di CI. 5.17 (vedi infra, pp. 309-310);
Longo, invece, pensava26 che si trattasse di un’exceptio consentita alla
figlia o al marito, “ma che questa concessione pretoria di una exceptio
non annulla il principio che il paterfamilias potesse, in esplicazione ed
emanazione del suo potere, intervenire a sciogliere il matrimonio dei
soggetti, obbligandoli a rompere la convivenza (...) l’esclusione dell’arbitrio paterno non va dunque concepita in modo assoluto, ma soltanto nella forma limitata anzidetta”;
in fine Volterra propose un’altra soluzione, che per me sembra la più
convincente: non vi era concessione della eccezione. Il pretore, operando nell’ambito del proprio potere, semplicemente rifiutava al padre il conferimento dell’interdetto: “le préteur aurait refusé de délivrer
les interdits de liberis exhibendis et ducendis au paterfamilias si celui-ci les
avait demandés, dans le but de faire cesser l’affectio des conjoints en
les séparant et, par conséquent, de dissoudre leur mariage.”27
Che cosa significava far convenire il marito della propria figlia con interdictum de liberis ducendis? Si poteva mediante quest’azione rompere il suo matrimonio, come sosteneva Solazzi, almeno prima dell’epoca postclassica?28
Commentando il passo seguente al testo appena esaminato questo studioso
25 E solo della figlia, SOLAZZI, “In tema di divorzio” (cit. n. 2), pp. 1-4 e 18, distinse tra posizione di figlio e figlia, certamente a torto come avrebbe dimostrato VOLTERRA “Quelques
remarques” (cit. n. 2), p. 228.
26 G. LONGO , “Sullo scioglimento” (cit. n. 2), p. 214. Vedi anche IDEM , Diritto di famiglia
(cit. n. 2), pp. 80-85; dello stesso parere sono A. D’ORS & X. D’ORS, “Socer nuntium mittens”
(cit. n. 2), pp. 606-607 e le note 9-10 alle pp. 612-613, però senza ulteriori spiegazioni.
27 VOLTERRA, “Quelques remarques” (cit. n. 2), pp. 236-237.
28 Tale è anche parere di E. LEVY, Der Hergang (cit. n. 7), pp. 17-18.
L’INFLUSSO DELLA VOLONTÀ DEL PADRE SUL DIVORZIO DEI SOTTOPOSTI
305
fece la seguente osservazione: “Il divorzio e la ductio della filia fam. non stavano dunque in un rapporto necessario di dipendenza.”29 Questa affermazione è dovuta all’esegesi del FVat. 116 (su di cui mi soffermerò più avanti –
vedi n. 35), esegesi basata sul tentativo, del tutto ipotetico, di ricostruire
detto frammento. Solazzi immaginava che il padre potesse imporre la rottura del matrimonio della figlia e nello stesso tempo che la figlia potesse rimanere dall’ex-marito (perché il padre non la poteva costringere di tornare con
sé). Questo assunto pare poco credibile: con quale qualifica restava la figlia
alieni iuris presso l’ex-marito? In qualità di sua concubina, come pensava Solazzi? Se supponiamo che il padre avesse diritto d’impedirle di rimanere
sposata, a maggior ragione le avrebbe potuto impedire di diventare concubina dell’ex-marito. Possiamo chiederci, però, se sia possibile capovolgere il
ragionamento di Solazzi; ammettere, cioè, che sia possibile la ductio senza
un anteriore divorzio. Dal punto di vista teoretico, non penso che questo
sia impossibile: la presente communis opinio, dovuta naturalmente alle ricerche di Volterra, sottolinea che se l’affectio maritalis persiste, nonostante che
non perduri la convivenza, il matrimonio non viene sciolto. Si deve anche
ricordare che il procedimento per mezzo d’interdetti era di tipo preparatorio, spesso temporaneo.
Alla fine dobbiamo tornare alla frase finale del passo: quod – exerceat.
Volterra diceva: “nous trouvons du reste le même principe chrétien dans la
phrase nam patria potestas in pietate debet, non in atrocitate consisitere, ajoutée par
les compilateurs dans D. 48.9.2, et qui est, elle aussi, en contraste avec le texte du Digeste”. Questa affermazione proviene dalla convinzione che Giustiniano desse al padre il diritto di sciogliere il matrimonio dei propri figli. Si
tratta dunque, di un’argomentazione uguale a quella riferita al D. 24.2.4.
Però, conviene a questo punto chiederci come mai nel passo corrispondente dei Basilici troviamo una regola del tutto opposta:
Bas. 31.2.12 (Heim. III, p. 517): oÈ dÊnatai ı patØr épaite›n tÚn gam-
brÚn parast∞sai tØn aÈtoË yugat°ra.30
29 Cf. SOLAZZI,
“In tema di divorzio” (cit. n. 2), p. 23 (= p. 16) a D. 43.30.2 (Hermogenianus,
6 iur. epit.): Immo magis de uxore exhibenda ac ducenda pater, etiam qui filiam in potestate habet, a
marito recte convenitur.
30 Traduzione di G. E. HEIMBACH: “non potest pater a genero postulare ut filiam suam
exhibeat.”
306
JAKUB URBANIK
Si vede allora che nel diritto giustinianeo al padre non spettava la prerogativa di procedere con interdictum liberis exhibendis et ducendis contro il genero.
Nel passo esaminato, quindi, non vi è la ratio interpolandi.
Non penso neanche che si debba necessariamente cercare l’ispirizione
cristiana per la chiusa. In verità, la nuova religione non cambiò molto le
tradizionali opinioni romane sulla famiglia.31
3.2. Il significato della locuzione “bene concordantia matrimonia”
Nel brano D. 45.30.1.5 ci lascia perplessi anche un altro elemento: la locuzione bene concordantia matrimonia (la troveremo pure in un testo analizzato
più avanti, cioè PSent. 5.6.15, vedi n. 39). Volterra voleva identificare matrimonium bene concordans con ogni matrimonio, quasi come l’avverbio “bene”
caratterizzasse normalmente ogni unione matrimoniale. Se davvero fosse
così, lo troveremmo, credo, molte volte in più nelle fonti riguardanti il matrimonio. In realtà quest’epiteto con riguardo al matrimonium appare assai
raramente, e pare che svolga sempre una funzione specifica nel testo in cui
si trova.32 D’altro canto nel Digesto sono menzionate tantissime unioni coniugali niente affatto “armonizzate”. Basta ricordare della famosa storia di
Terenzia e Mecenate (D. 24.1.69)33 e gli altri casi in si parla dei litigi tra i
coniugi, nonostante i quali il loro matrimonio viene conservato.34 Tale e31 Cf.
anche cap. “I cambiamenti postclassici” della mia tesi.
matrimonium bene concordans/concordatum appare solo tre volte nelle fonti.
Oltre ai due passi citati nel presente scritto (D. 45.30.1.5 e PSent. 5.6.15) vi è D. 48.5.12.11 (Papinianus, l. s. de adult.): Licet ei mulier, qui in suspicionem adulterii incidit, nupsisse dicatur, non ante
accusari poterit, quam adulter fuerit convictus: alioquin ad hoc vel maxime viri confugient volentes
bene concordatum sequens matrimonium dirimere, ut dicant cum adultero mulierem nuptias contraxisse.
Papiniano afferma che anche se una donna sposa un uomo sospettato d’aver commesso un
adulterio non può essere accusata prima che il marito risulti colpevole. Altrimenti gli exmariti di tali donne le avrebbero accusate per rompere il loro secondo matrimonio ben armonizato. Sembra che il giurista abbia usato la locuzione bene concordatum per motivi retorici: sottolineando il nonsenso della soluzione opposta rispetto a questo caso.
33 Queste vicende si vedono soprattutto nell’articolo di A. GUARINO, “Mecenate e Terenzia”, Labeo 38 (1992), pp. 137-146. La fonte è dettagliatamente descritta nella mia tesi, nel
capitolo “Requisiti formali del divorzio”, § II.II.1. Le fonti principali a favore della libertà
del divorzio. Per la vicenda vedi anche la bibliografia su Mecenate raccolta da W. EVENEPOEL, “Maecenas: A Survey of Recent Literature”, Ancient Society 21 (1990), pp. 99-117.
34 Tra cui abbiamo per esempio: D. 23.2.33 ove Marcello (1 ad legem Iuliam et Papiam) ripete
l’opinione di “tanti”, ovvero che quando la donna torna al marito dopo averlo lasciato, si
32 L’espressione
L’INFLUSSO DELLA VOLONTÀ DEL PADRE SUL DIVORZIO DEI SOTTOPOSTI
307
segesi di questa locuzione, potrebbe ben accordarsi con il sopraccitato
modo di esercitare il principio “ne turbentur”. Il pretore negava l’interdetto
al padre solo nei casi in cui era sicuro, causa cognita, che la figlia volesse rimanere unita in matrimonio con il marito. Più avanti esamineremo sull’esempio di due papiri come la situazione descritta nel D. 43.30.1.5 si svolgesse nella pratica giuridica.
3.3. Le decisioni imperiali
Passiamo ora ai testi che riportano le decisioni imperiali prese in materia.35
Ce ne sono tre di epoca classica. Da questi testi, a contrario si deduceva che
tratta sempre dello stesso matrimonio, purché nel frattempo non sia passato un periodo
troppo lungo, nessuno dei coniugi discordi si sia risposato e/o il marito non abbia restituito
la dote; nonché D. 23.3.31, dove Papiniano (4 respon.) dice che la dote rimane nello stesso
matrimonio quando incorre solo un litigio (iurgium) e non un divorzio tra gli sposi.
35 Escludo consapevolmente dalla mia ricerca il famoso passo FVat. 116. Su questa fonte
vedi soprattutto (ivi si trovano diverse lectiones avanzate dagli studiosi che se ne erano occupati): L. CAES, “A proposito” (cit. n. 6), pp. 123-132, nonché un commento assai cauto di V.
A RANGIO -R UIZ , Persone e famiglia nel diritto dei papiri, Milano 1930, pp. 78-79. Dall’analisi
dello studioso belga risulta chiaramente come nessuna ricostruzione di detto frammento
possa servire a alimentare né l’una né l’altra argomentazione (la possibilità o meno d’imporre
divorzio dal pater a figlio/figlia sottoposto/a). Quindi ogni ricostruzione (neanche Edoardo
VOLTERRA, pur avendo confermato questo fatto [“Quelques observations” {cit. n. 2}, pp. 240241] si astenne dal considerare il testo esaminato come prova della sua teoria) è plasmata sui
bisogni dello studioso che l’aveva fatta. Si deve notare che quasi nessuno ha cercato di esaminare se le integrazioni da ciascuno proposte entrassero nelle lacune del palinsesto vaticano – nelle edizioni critiche non sono neanche segnalate le abbreviazioni. Questo fatto ingenerò in alcuni scritti una totale confusione, si veda ad esempio MATRINGE, “Le puissance”
(cit. n. 2), pp. 226-228, che neanche trae una conclusione dal fatto che il testo di FVat. 116 da
lui citato ed esaminato è in grande parte integrato!.
Il testo leggibile, come l’ho potuto identificare sulla foto, purtroppo di cattiva qualità,
fornita da Lucien CAES, sembra il seguente:
]TA FILIA REPUDIUM GENER . . ISIT QU[
]NIS DOTEM PETERE POSIT P R MMNIUM QD RE[
]VIDERI SE[ . . ] PATRI FILIAM INVITAM A MARITO [
]DOTEM REPETERE POSSE NISI FILIA COSENTIENTE
Ho riprodotto la fonte solamente exempli gratia, senza alcuna intenzione di proporre una
nuova ricostruzione, per la quale occorrerebbe un attento riesame del codice originale.
Si può in questa sede segnalare il bisogno di una nuova edizione critica dei Frammenti Vaticani; su questo problema è stato pubblicato un libro che non sono stato purtroppo in grado
di rintracciare: F. BETANCOURT, El libro anónimo De interdictis, Codex Vaticanus Latinus Nr.
5766, Sevilla 1997, cf. anche rec. critica di W. K AISER , Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
308
JAKUB URBANIK
prima dell’emanazione delle costituzioni in questione, al padre fosse stata
concessa la facoltà di rompere il matrimonio dei propri figli. Volterra sosteneva che le fonti fossero state interpolate per riflettere le regole vigenti sotto Giustiniano.36 Cominciamo da un testo che ci fornisce solo qualche notizia sul ripudio effettuato dal pater: Ulpiano ricorda un rescritto dell’“imperatore suo e suo padre”, cioè probabilmente Caracalla e Settimio Severo:37
D. 24.1.32.19 (Ulpianus, 33 ad Sab.): Si socer nurui nuntium miserit, donatio
erit irrita, quamvis matrimonium concordantibus viro et uxore secundum rescriptum imperatoris nostri cum patre comprobatum est: sed quod ad ipsos, inter
quos donatio facta est, finitum est matrimonium.
Se il suocero ha mandato il ripudio alla nuora, la donatio, avvenuta tra di
loro, sarà invalida. La ragione è data dagli imperatori: il matrimonio, nonostante l’azione del suocero, rimane valido perché basta che gli sposi continuino il loro consenso per matrimonio.38 È notevole che questo frammento
Rechtsgeschichte, Romanstische Abteilung 116 (1999), pp. 352-363; da ultimo anche: M. DE FILIPPI, Fragmenta Vaticana. Storia di un testo normativo, Bari 1998, ma l’autrice non sembra rendersi conto delle discrepanze tra il testo del palinsesto e le moderne edizioni, riporta perfino
passi dalle Fragmenta non notando ricostruzioni proposte dagli editori!
36 Vedi per esempio: VOLTERRA, “Quelques observations” (cit. n. 2), pp. 233-234.
37 Cf. SOLAZZI, “In tema di divorzio” (cit. n. 2), p. 15 (= 11-12); G. LONGO, “Lo scioglimento” (cit. n. 2), pp. 221-223; VOLTERRA, “Quelques observations” (cit. n. 2), pp. 234-235; A.
D’ORS & X. D’ORS, “Socer nuntium mittens” (cit. n. 2), pp. 608-609 e le note 27-28 alla p. 615.
Per la datazione della notizia ulpianea: ROBLEDA, El matrimonio (cit. n. 6), p. 253 n. 34. Siro
SOLAZZI (i cui argomenti furono ripetuti dagli altri studiosi) spiegava che l’invalidità della donatio occorreva a causa del pentimento del donatore (il suocero, mandando il ripudio, si pentiva della donazione precedentemente fatta). Ma forse non c’è bisogno di una spiegazione
così complicata: visto che il matrimonio rimane valido, non ci può essere donatio tra le persone fra le quali essa è proibita. La spiegazione offertaci dagli D’ORS, cioè che il testo riporta
un intervento degli imperatori escludente, a divorzio avvenuto, la convalidazione della donatio, pare poco probabile. È difficile trovare una legis ratio in questo caso: perché Caracalla e
Severo volevano introdurvi un’eccezione?
38 Non si comprende molto bene quale significato abbia l’ultima frase del testo. Come mai
il matrimonio può nello stesso tempo sussistere all’intero della coppia sposata e non esistere
per le persone esterne? Sicuramente è avvenuta qualche alterazione nel testo (cf. pure la versione greca del passo che è di molto abbreviata rispetto a quella originale: Bas. 30.1.30 § 19
(Heimb. III, p. 507): Ka‹ per‹ toË, §ån penyerÚw dvrhsãmenow tª nÊmf˙ ste¤l˙ diazÊgion, énatr°petai ≤ dvreã. – tradotto di Heimbach come: “si socer, qui donavit, nurui repudium miserit, donatio infirmatur”). Pertanto sembra che la donazione sia stata invalidata
L’INFLUSSO DELLA VOLONTÀ DEL PADRE SUL DIVORZIO DEI SOTTOPOSTI
309
parla del divorzio effettuato dal pater nei confronti del proprio filius e non
come la maggioranza delle nostre fonti della figlia. Questa notizia insieme
al brano delle Sententiae Pauli, analizzato nel paragrafo succedente, ci consente di respingere i dubbi di Solazzi, che pensava che il padre poteva sciogliere il matrimonio solo nel caso delle figlie sottoposte.
Gli altri due testi sono molto più interessanti. Si tratta d’un frammento
delle Sententiae di Paolo ed d’una costituzione di Diocleziano e Massimiano,
che però riporta disposizioni precedenti.
PSent. 5.6.15: Bene concordans matrimonium separari a patre divus Pius prohibuit, itemque a patrono libertum, a parentibus filium filiamque: nisi forte quaeratur, ubi utilius morari debeat.
CI. 5.17.5 (Diocletianus et Maximianus AA. et CC. Scyrioni, d. V k. Sept. Nicomediae CC. conss.: 28 VIII 294): Dissentientis patris, qui initio consensit matrimonio, cum marito concordante uxore filia familias ratam non haberi voluntatem
divus Marcus pater noster religiosissimus imperator constituit, nisi magna et
iusta causa interveniente hoc pater fecerit. 1. Invitam autem ad maritum redire
nulla iuris praecepit constitutio. 2. Emancipatae vero filiae pater divortium in
arbitrio suo non habet.
Mentre il primo testo39 ricorda una disposizione di Antonio Pio che “aveva
proibito” al padre di sciogliere il matrimonio del figlio o della figlia in potes-
proprio dal fatto che era stato inviato un ripudio e non che sia invalida sin dall’inizio, cosa
naturalmente alquanto strana.
39 Cf. VOLTERRA, “Quelques observations” (cit. n. 2), p. 232: “L’empereur n’introduit pas
ici une nouvelle règle: il ne fait que suivre le principes du droit classique. L’auctoritas du
paterfamilias (cf. supra, n. 4, J.U.) est requise pour que l’affectio des conjoints filiifamilias puisse avoir l’effet juridique de constituer le mariage, mais, une fois que le mariage est formé, le
paterfamilias ne peut dissoudre le mariage qui existe et persiste tant que continue la volonté
effective et réciproque des conjoints. C’est bien ce principe qu’a voulu affirmer l’empereur
en défendant de dissoudre un bene concordans matrimonium (…) Il nous semble qu’il n’y a
besoin d’aucun effort d’interprétation, mais qu’il suffit de suivre la signification littérale des
mots qui composent cette phrase pour se convaincre que la décision qu’elle renferme répond
parfaitement à la conception du mariage d’après le juristes classiques, à savoir que la mariage
existe tant qu’il est bene concordans, c’est à dire aussi longtemps que les conjoints s’accordent
dans la volonté d’être unis en mariage”. Per il commento all’interpretazione di VOLTERRA
della locuzione bene concordans, vedi sopra p. 306. Per la critica delle teorie interpolazionistiche di Siro SOLAZZI vedi anche ARANGIO-RUIZ, Persone (cit. n. 35), pp. 78-79. Per ROBLEDA,
310
JAKUB URBANIK
tate, nel secondo Diocleziano, rievocando una costituzione di Marco Aurelio, nega la ratifica dell’atto di ripudio effettuato dal padre nei confronti
della figlia. Come nel primo, così nel secondo testo si pone una riserva:
sembra che il padre potesse far divorziare i propri figli in casi speciali.40 L’unica eccezione sarebbe il caso della figlia emancipata. Nel § 2 del passo del
Codice leggiamo che il pater non può scioglere il matrimonio di tale figlia. E
lo scholion 4 alla parafrasi greca del brano espressamente esclude tale possibilità anche nel caso di “magna et iusta causa”.41
Naturalmente, come ho già detto, anche i testi sopraccitati sono stati
sospettati d’interpolazioni.42 Secondo questa tesi, avremmo così una serie
“Il divorzio” (cit. n. 1), pp. 369-372, questo passo costituisce la prova per riaffermare che il
pater familias poteva sciogliere il matrimonio della figlia fino all’età degli Antonini.
40 Anche BEAUCAMP, Le statut (cit. n. 2), I: p. 259 n. 108, seguendo le opinioni interpolazionistiche pensa che questa sia stata un’innovazione giustinianea. Pare che l’osservazione della
stessa autrice (I: p. 257 e n. 100) sulla mancanza nel Nov. 22.19 dell’eccezione del motivo grave che poteva giustificare la rottura del matrimonio da parte del padre, possa essere spiegata
dal carattere retorico della citazione di norme precedenti; per una discussione più ampia
vedi infra (p. 313).
41 Bas. 28.7.19 (Heimb. III, p. 236-237): ÉEån d¢ aÈtejous¤a §st‹n ≤ yugãthr, oÈden‹ lÒgƒ
dÊnatai ı patØr dialÊein tÚn aÈt∞w gãmon (Heimbach: “quodasi filia sui iuris sit, nulla ratione pater matrimonium eius potest dissolvere”); scholion 4 äVde oÎte metå megãlhw ka‹
eÈlÒgou afit¤aw p°mpei =epoÊdion ı patÆr (“hoc casu nec cum magna et iusta causa pater
repudium mittit”). VOLTERRA (“Quelques observations” [cit. n. 2], p. 234) spiegò che forse la
fine della costituzione menziona la figlia emancipata per eliminare tutti i dubbi anche in
questo caso. Con tale opinione il romanista citato si oppose al pensiero di SOLAZZI (“In
tema di divorzio” [cit. n. 2], p. 14 [= p. 10]) che, basandosi su questo passo, per la figlia alieni
iuris postulò una “decisione antitetica”. Penso che un totale rifiuto dell’interpretazione solazziana non sia giusto. Contro l’esegesi di Volterra si potrebbe avanzare la domanda seguente: perché i dubbi ci sarebbero stati proprio nel caso della figlia emancipata e non di quella alieni iuris? Pare, invece, che le cose siano andate in modo esattamente opposto (sembrerebbe
naturale che il padre non potesse far nulla, o quasi, rispetto alla vita dei figli emancipati!). Intanto il § 2 non può essere dovuto all’intervento compilatorio: Giustiniano non distinse la situazione dei figli alieni e sui iuris nel caso di divorzio (ed VOLTERRA stesso lo sottolineò nella
sua interpretazione di questi passi): sia i primi che i secondi dovevano ottenere il consenso
paterno per il divorzio: cf. CI. 5.17.12 e la Nov. 22.19, testi esaminati più avanti.
42 Per il brano di Pauli Sententiae vedi la nota precedente. Intanto sembra totalmente assurda l’idea di attribuire la presunta interpolazione all’influsso cristiano come fecero A. D’ORS
& X. D’ORS, “Socer nutium mittens” (cit. n. 2), p. 609. Gli studiosi spagnoli vollero vedere in
questa frase il cosiddetto privilegio pauliano. Prima di tutto, non vi è nessuna notizia che
giustifichi la ricerca di influssi cristiani né nel passo citato, né nelle Sententiae Pauli in toto. Si
deve anche ricordare che i diritti delle chiese di allora non riconoscevano la non-cristianità
di uno degli sposi come ragione giustificante lo scioglimento del matrimonio da parte dello
L’INFLUSSO DELLA VOLONTÀ DEL PADRE SUL DIVORZIO DEI SOTTOPOSTI
311
complessiva di cambiamenti dipendenti l’uno dall’altro (salvo il caso del
passo tratto dalle Pauli Sententiae, dove la modifica sarebbe dovuta a qualche
aggiunta dei tempi postclassici ma pregiustinianei).
IV. LA PRESUNTA RATIO INTERPOLANDI
E L’INTERPRETAZIONE DI CI. 5.17.12
L’opinione interpolazionista potrebbe essere ribadita dall’esistenza, secondo Volterra, d’una ratio interpolandi. Questa sarebbe, come si è già detto,
la tendenza ad aggiornare le fonti esaminate con la norma CI. 5.17.12, che
dava, come scrisse Volterra, “la facoltà al padre di sciogliere il matrimonio
dei figli”.43 Questo brano purtroppo si è mal conservato in un solo manoscritto del Codice, il Veronese. Moltissime sono le lacune nel testo, le cui
disposizioni vengono parzialmente ricostruite sulla base del contenuto del
capitolo 19 della Novella 22 nonché del testo dei Basilici che ripeterebbero
entrambi l’originale tenore della norma giustinianea. Vediamo allora qual
era l’ipotesi della norma:44
CI. 5.17.12: ÑO aÈtÚw basileÁw (Iustinianus) ÉIvãnnh Ípãrxƒ praitv-
r¤on. ZhtÆsevw efiw ≤mçw §lyoÊshw toiaÊthw tinÚw §k t∞w Kvnstantin¤svn pÒlevw, ¥per m¤a t«n §p‹ t∞w ÉOsrohn∞w pÒle≈n esti, ¶gnvmen, …w pa›d°w tinew ponhro‹ to›w •aut«n §pibouleÊontew patrãsin
parå tØn t«n pat°rvn gn≈mhn di°lusan tå prÚw tåw gametåw sunoik°sia ta›w gameta›w sunergasãmenoi . . . . . . . || aÈta›w thn . . . . .
. t∞w prÚ gãmou dvreçw [e]‡spra[j]i[n] *|| §nteËyen i . . . . . . ||
*ontaw pro›kaw µ prÚ gãm[o]u dvreåw µ ka‹ Ípoeja[m°nouw Íposposo credente! Per la costituzione di Diocleziano e Massimiano, si v. soprattutto VOLTERRA, “Quelques observations” (cit. n. 2), pp. 233-234; IDEM, Lezioni (cit. n. 2), p. 207, il quale riteneva che l’ultima parte del testo (nisi – fecerit) fosse stata interpolata. Anche il brano dei
Basilici (Bas. 28.7.19 nonché lo scholion 1 al passo, Heimb. III, pp. 236-237), che fedelmente
riporta il passo del codice, vieta espressamente al padre di divorziare i propri figli,
conservando l’eccezione relativa ad una “magna et iusta causa”.
43 VOLERRA, Lezioni di diritto romano (cit. n. 2), p. 210.
44 P. KRÜGER, Codex Iustinianus, p. 213 n. 7: “c. 12 in solo V extant, in quo parte Bluhmio
mihique apparuerunt, examplum eiusdem libri a me editum p. 9.10 accurate repraesemtat.
Supplementa probabiliora intra uncinos quadratos supra proponuntur: versus libri Veronensis, qui nisi ex parte legi non potuerunt, lineis || distincti sunt: litterae evanidae, quorum de
numero constat, stellulis numeranturm reliquos hiatus punctis explevimus.”
312
JAKUB URBANIK
bãl]||lontew toiaÊtaiw épaitÆsesin tou||*** épÒrouw teleutçn pan . .
. || ***h*a*******di’ afisxÊnhn kat . . || . . . . afl gameta‹ . . . . ||
êporoi . . . . . . || . . . . . . . . || . . . . . . . . . || . . . . y[esp]¤zomen .
. || . . . . . . . . . || . . . . . . . . . || . . . . . e‡te êrrenew e[‡te] || yÆleiai, dial[Êe]in tå prÚw toÁw [ı||mozÊg]ouw kata[stãnta]
su[noi]||k°[sia] efiw blãbhn ka‹ zem¤an t«n || [tåw pro›]k[a]w [µ tåw]
pr[Ú] gãmou dvreåw §pidedvkÒtvn µ Ípodejam°nvn gon°vn érr°nvn
te ka‹ yhlei«n:ka‹ Àsper ı gãmow oÈk ín **||***** efi mØ sunain°sei
t«n §xÒntvn [toÁw] pa›daw Ípe[j]ous¤ouw, [oÏ||tvw oÈd¢ lÊein toÁw
gãmouw parå gn≈mhn] t«n gon°vn . . || . . . . kín e‡ ti toioËto parå
t«n pa¤dvn [me]lethye¤h, mhdem¤an e‰nai katå t«n gon°vn e‡sprajin
proikÚw µ progamia¤aw dvreçw (...)
Questo mio tentativo di parafrasi italiana si basa anche sui testi greco e latino della Nov. 22.19:45
Lo stesso imperatore (cioè Giustiniano) a Giovanni, prefetto del pretorio. Essendoci pervenuta notizia dalla città dei Costantini (che si trova
in Osroênê) abbiamo saputo che vi erano questi ragazzi scostumati che
complottando contro i propri genitori sciolsero contro la volontà paterna matrimoni ordendo intrighi con le (proprie) mogli affinché esse possano agire più facilmente [per dote] e donazioni date in occasione del matrimonio. E qua […] (questi ragazzi) facilitano e persuadono [i parenti che
avevano dato beni matrimoniali] a riavere le doti e la donazione data in occasione del matrimonio [… non possono né i figli sottoposti alla potestà paterna
né quelli emancipati], né maschi né femmine, sciogliere matrimonio con i
(loro) sposi in danno e frode di quei genitori dei maschi o femmine che
avevano costituito o accettato le doti nonché le donazioni in occasione
45 Ecco
la versione latina della constitutio: Ideoque legem scripsimus volentem neque sub potestate
constitutos neque emancipatos filios, neque masculos neque feminas, posse disrahere matrimonia in suorum laesionem patrum aut matrum, qui dotes aut ante nuptias donationes obtulerunt aut susceperunt
soli aut etiam cum filiis. Sed sicut in contractu nuptiarum expectamus patrum consensum, ita neque transigere matrimonia sinimus, in parentum laesionem citra illorum voluntatem. Sed etsi mittatur repudium,
competere contra eos exactionem poenarum non sinimus, sive ipsi dederunt haec vel susceperunt, sive
etiam cum aliis susceperunt. Non enim habet rationem, parentem quidam citra voluntatem filii non
posse transigere matrimonium, filiis autem permittere forsan et in minore aetate constitutis et neque
quod utile sit scientibus citra patrum voluntatem solvere matrimonium et ex hoc parentes laedere. Hoc
autem bene quidem incohans philosophissimus sancivit Marcus, Diocletianus autem hunc secutus est, nos
autem similiter approvabimus. Sitque terminus nobis hic disiunctionem quae superstitibus contrahentibus fiunt.
L’INFLUSSO DELLA VOLONTÀ DEL PADRE SUL DIVORZIO DEI SOTTOPOSTI
313
del matrimonio. E siccome il matrimonio [non si contrae] se coloro che
hanno figli in potestà non acconsentono, [così anche non concediamo di
sciogliere matrimonio contro la volontà] dei genitori. […] E se ciò sarà stato
tentato da parte dei figli, non sarà concessa loro alcuna azione contro i
genitori riguardo la dote e la donazione in occasione del matrimonio (…).
Passiamo ora alla fine del passo discusso: a mio avviso questa frase dovrebbe
essere letta più o meno così:
ka‹ går énoÆtvn [o‡]omeya katãjion to›w m¢n patrãsin éphgoreËsyai, kayãper Mãrkƒ t“ filosofvtãtƒ t«n aÈtokratÒrvn §dÒkei,
d¤xa t∞w t«n pa¤dvn sunain°sevw dialÊein tÚn gãmon megãlhw §ktÚw
ka‹ éparaitÆtou profãsevw, to›w d¢ pais‹n ‡svw ka‹ n°oiw oÔsin ka‹
oÈd¢ tÚ sumf°ron §pistam°noiw µ ka‹ §jep¤thdew, kayãper efipÒntew
¶fyhmen, kakourgoËsin doy∞nai parrhs¤an •autoÁw m¢n afisxÊnein,
zhmioËn d¢ toÁw gegennhkÒtaw. (d. III id. Aug. Constantinopoli dn. Iustiniano pp. A. IIII et Paulino vc. conss. [11 VIII 534])
Sarebbe senza ragione, stupido (letteralmente: crediamo che sia degno
di stupidità), com’è già sembrato a Marco, il massimo filosofo tra gli imperatori, non concedere ai padri di rompere i matrimoni dei propri figli,
contro la loro volontà salvo il caso più importante e intollerabile, (ma) di
dare (tale) facoltà, licenza, ai figli, minori d’età ed esperienza (letteralmente: che non sanno cosa sia utile per loro) cosicché possano deliberatamente, come abbiamo detto sopra, far male disonorandosi e provocando frode a coloro che li hanno generati.
Secondo me, in questo passo non si parla di una facoltà assoluta, cioè di
dare al padre il diritto di sciogliere il matrimonio dei propri figli in ogni caso. L’imperatore si limita a ricordare che al padre fu concesso, con la disposizione del “più filosofico” imperatore Marco Aurelio, ripetuta poi da Diocleziano, il diritto di rompere il matrimonio dei figli solamente per i motivi
più gravi. E vediamo ora quale sia la posizione di questa “concessione” giustinianea nel contesto della costituzione. Tale ricordo delle antiche leggi imperiali è usato solo come giustificazione della decisione imperiale, decisione
che vietava ai figli di divorziare contro la volontà paterna. Come Marco Aurelio aveva proibito ai padri di rompere il matrimonio dei figli contro la loro
volontà, così l’imperatore Giustiniano proibì ai figli di rompere il proprio
314
JAKUB URBANIK
matrimonio contro la volontà dei genitori.46 Ecco la decisione di cui, essendone molto lieto ed orgoglioso, l’imperatore dice così: “pia, grata e da noi
inventata” – vediamo lin. 1-2 nella Novella 22: Est quoque quoddam et aliud a
nobis pium simul et gratum adinventum, ubi etiam repudiis missis nuptiae consistunt
adhuc! Inoltre, come vediamo nella penultima frase del cap. 19 della Novella
22, Giustiniano ripete la proibizione di rompere il matrimonio del proprio
figlio e non la oblitera!
La mia convinzione sull’interpretazione di questo passo mi sembra ancora ribadita dal modo in cui esso venne interpretato dai commentatori antichi. Nello scholion ad Bas. 39.1.46 di Theodoros Scholasticos detto Hermopolitanos, un giureconsulto vissuto ai tempi di Giustiniano o poco dopo,47
possiamo leggere la ripetizione del divieto di divorzio effettuato dai genitori, il che è sostenuto proprio dalla citazione della legge 12 del libro quinto,
titolo diciassettesimo del Codice giustinianeo (Heimb. IV, p. 35): ˜ti går ofl
gone›w oÈ lÊousi tÚn gãmon t«n t°knvn mØ yelÒntvn, dhlo› ≤ dÄ ka‹ eÄ
ka‹ ibÄ diãtajiw toË izÄ t¤tlou toË eÄ bib.!48 Lo stesso Theodoros nel suo
Breviarium Novellarum Iustiniani dal capitolo 17 della Nov. 17 trae solamente
la seguente conclusione: MÆte ÍpejoÊsiow mÆte emancipatow lu°tvsan tå
aÈt«n sunoik°sia §p‹ blãb˙ t«n fid¤vn gon°vn §ktÚw t∞w §ke¤nvn boulÆse≈w te ka‹ sunain°sevw. énãgnvyi bi. eÄ toË k≈d. t¤. izÄ diãt. ibÄ.49
46 Anche lo scholiasta del BS 1 ad 28.7.18 testimonia che tale era la disposizione delle costituzioni di Giustiniano, CI. 5.17.12 e Nov. 22.
D’altro canto sembra interessante sottolineare che la sanzione in questo caso non prevede
la nullità del divorzio ma solo le pene pecuniarie: impossibilità di agire pro dote e donazioni
antenuziali. Cf. Bas. 28.7.20 che ripete la quintessenza della costituzione CI. 5.17.12, anche
BEAUCAMP, Le statut (cit. n. 2), I: p. 259 n. 108. Una delle rationes legis è espressa apertamente
nell’introduzione, che poi non riporta nessun nuovo caso. Come apprendiamo da D. 24.2.5
(Ulpianus, 34 ad ed.) già nei tempi classici vi furono figlie che divorziavano dai propri mariti
per far ottenere le loro doti. Il giurista conclude che nel caso di tale macchinazione il pretore deve aiutare il padre a vendicare la dote, come se la figlia fosse morta durante il matrimonio.
47 Cf. G. E. HEIMBACH, ANEKDOTA I, Lipsiae 1838, p. 202; K. E. ZACHARIÄ VON LINGENTHAL, Theodori Scholastici Breviarium Novellarum, Lipsiae 1843, pp. XXII-XXIV.
48 Traduzione di Heimbach: “Parentes enim non disolvere matrimonium liberis invitis, significat etiam cons. 4. et 5. et 12. tit. 17. lib. 5.”. Il passo riportato commenta il frammento
CI. 3.28.28: tornerò a questo punto più avanti (alla pagina 330).
49 Traduzione di Zachariä von Lingenthal: “Neque is, qui sub potestate est, neque emancipatus matrimonia sua solvant in damnum parentum suorum absque illorum voluntate et consensu. Lege lib. V Cod. tit. 17 const. 12.” (ediz. cit. n. 47), p. 35.
L’INFLUSSO DELLA VOLONTÀ DEL PADRE SUL DIVORZIO DEI SOTTOPOSTI
315
Un’ulteriore prova per la mia tesi: è poco probabile che gli interpolatori
abbiano modificato così tanti passi nel Corpus, ed anche se ciò fosse avvenuto sarebbe stato irragionevole: perché cercare di creare una falsa tradizione
per sostenere una norma che da Giustiniano viene con orgoglio proclamata
come sua propria?50 Sarebbe poi assurdo imputare a Giustiniano, imperatore il quale proibì i divorzi, l’introduzione della norma che dava diritto di ripudio al padre! Se questa fosse stata la vera norma giustinianea, non troveremmo nello scholion dei Basilici adeguato a D. 24.2.4, un frammento (citato
sulla pagina 297) che ricorda espressamente come al padre fosse vietato di
rompere il matrimonio dei propri figli se costoro avessero voluto rimanere
sposati. Uguale disposizione ci è pervenuta anche in Bas. 31.2.12, che dovrebbe riassumere D. 43.30.1.5 (vedi sopra, pag. 305)
V. LE PRIME CONSIDERAZIONI
Ho cercato di dimostrare che Giustiniano non introdusse la facoltà del padre
di sciogliere il matrimonio dei propri figli. Se Giustiniano non lo fece, non
c’è la ratio interpolandi nei casi discussi. Come spiegare allora il loro contenuto, come conciliarlo con la teoria volterriana? Penso che tanto Antonio Pio,
quanto Marco Aurelio e Diocleziano, siano stati indotti ad emanare le norme discusse dalla pratica sociale,51 che sicuramente permetteva al padre di
portar via la figlia dalla casa del marito. Si può anche pensare che tale prassi
fosse ben radicata. Per provare questa tesi mi farò aiutare da un paio di esempi fornitici soprattutto dai papiri, ma anche dalla tradizione letteraria.
50 Sembra
che dello stesso parere sia anche ROBLEDA, “Il divorzio” (cit. n. 1), p. 373.
che tale pratica sia potuta essere radicata nei diritti e costumi locali: cf., molto
laconico, R. TAUBENSCHLAG (“Das römische Privatrecht zur Zeit Diokletians”, Bulletin de l’académie polonaise des sciences et des lettres, Cracovie 1919-1920, 234 n. 8 [= Opera minora, Warszawa
1959, I, p. 119 n. 902]; IDEM, “Die patria potestas im Recht der Papyri”, Zeitschrift der SavignyStiftung für Rechtsgeschichte, Romanstische Abteilung 37 (1916), pp. 187-189 [= Opera minora, II,
pp. 273-275]).
51 Sembra
316
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6. IL DIVORZIO DEI FIGLI NELLA PRATICA SOCIO-GIURIDICA
6.1. Documentazione papirologica
6.1.1. I funzionari romani nei confronti delle pretese per l’épÒspasiw
Il più famoso e discusso52 esempio della pratica giuridica, è la celebre petizione di Dionysia, P. Oxy. II 237 dall’anno 186p. Dionysia chiede al prefetto
d’Egitto, Pomponius Faustinus, di non concedere a suo padre Chairemôn,
di procedere con épÒspasiw,53 la quale potrebbe essere un adeguamento
all’interdetto de liberis ducendis (vedi n. 68).54 A tale proposito la donna sostiene che vi erano numerose decisioni fatte dai diversi ufficiali in casi simili
(VII 14-15), cercando di convincere il funzionario che il potere paterno era
stato esercitato illegalmente da parte di suo padre. Si tratta di quattro casi
decisi negli anni 87p-138p. Occorre soffermarsi per un attimo sulle sentenze
pronunciate dai funzionari nei casi rievocati dalla donna (non cercherò, in
52 N. LEWIS , “On Paternal Authority in Roman Egypt”, Revue internationale des droits de
l’antiquité 17 (1970), pp. 252-258, con un racconto dei precedenti rievocati da Dionysia; R.
K ATZOFF , “Precedents in the Courts of Roman Egypt”, Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte, Romanstische Abteilung 89 (1972), pp. 257-268, descrisse dettagliatamente il
contenuto dell’inchiesta con particolare riguardo al problema della citazione dei precedenti
nelle corti romane. Cf. J. M ÉLÈZE -M ORZEJEWSKI , Studia et documenta historiae et iuris 41
(1975), p. 596. Si v. anche B. ANAGNOSTOU-CAÑAS, “Le femme devant la justice provinciale
dans l’Égypte romaine”, Revue historique de droit français et étranger 62 (1984), pp. 337-360; D’ultimo, con uno studio molto preciso e dettagliato: U. YIFTACH, Marriage and Marital Arrangements, a History of the Greek marriage document in Egypt 4th century BCE – 4th century CE (tesi
di dottorato, in corso di pubblicazione), capitoli III: “The Formation of marriage” e V “Agraphos Gamos in the Papyrological Source Material from Roman Egypt” (in part. § 4.2.1: “The
Terms ÖAgrafow Gãmow and ÖEggrafow Gãmow in CPR I 18 and P. Oxy. II 237”; vedi anche,
IDEM, “Kontinuität und Zäsuren im ägyptischen Eherecht – Die Ekdosis als Eheschließungsmodalität in der Ptolemäer- und Kaiserzeit”, [in:] Akten der zweiten Tagung der jungen europäischen Rechtshistoriker – München, Juli 1998.
53 Nei papiri si trova l’espressione tÚn pa›da épospçn épÚ soË (cf. per es. P. Oxy. II 237
col. VII 5), ma per i motivi di comodità userò in questo articolo il sostantivo apospasis, approvato nella letteratura.
54 P . Oxy. II 237, VII , 12-14: nËn d¢ profãsei nÒmou oÈd¢n aÈt“ prosÆkontow: oÈde‹w
går nÒmow ékoÊsaw guna›kaw ép' éndr«n épospçn §fe¤hsin, efi d¢ ka‹ ¶stin tiw, éll' oÈ
prÚw tåw §j §ngrãfvn gãmvn gegenhm°naw ka‹ §ngrãfvw gegenhm°naw (l. gegamhm°naw).
˜ti d¢ taË(ta) oÏtvw ¶xei, ·na ka‹ taÊthw aÈtÚn t∞w profãsevw épallãjv, Íp°tajã
soi épÚ pleiÒnv[n] per‹ toÊtou kriy°ntvn Ùl¤gaw ≤gemÒnvn ka‹ §pitrÒpvn ka‹ érxidikast«n kr¤seiw (…).
L’INFLUSSO DELLA VOLONTÀ DEL PADRE SUL DIVORZIO DEI SOTTOPOSTI
317
questa sede, di risolvere il caso di Dionysia,55 poiché nella mia ricerca sarà
interessante vedere l’atteggiamento dei giudici romani nei confronti delle
pretese dei padri riguardo la loro exousia sulle figlie).
(i.)
Il caso più antico è datato per l’anno 87p (la citazione è contenuta tra
col. VII, 39 e il mutilato inizio della col. VIII) e concerne probabilmente solo le pretese di Chairemôn riguardo i beni di Dionysia (come lo
si fa in coll. VIII, 7-43).56 Si racconta di un processo svoltosi davanti
allo iuridicus Umbrius; Il convenuto padre voleva, come supponiamo
dal contesto, impadronirsi dei beni della propria figlia e della dote che
aveva costituito per lei. L’avvocato del convenuto richiese che fossero
interrogati testimoni egizi affinché confermassero che al suo cliente
spettava veramente tale diritto. Nonostante ciò il funzionario dichiarò che la dote una volta data non poteva più essere tolta.57
(ii.)
Il secondo caso citato nel verbale del processo deciso dal prefetto
d’Egitto Titio Flavio Titiano nel 128p (VII, 19-29 = Sel. Pap. I 258) apriva forse una serie di precedenti. Questa sentenza venne riferita anche
nel processo davanti a Paconius Felix (vedi più avanti, il punto no iii).
Antonios supplicò il prefetto affinché fosse eseguita la pronuncia
dell’epistratego Bassanus. Antonios si rivolse all’epistratego quando
suo suocero venne a riprendersi la figlia. Bassanus, mosso dalla simpa-
55 Vedi a tale proposito soprattutto, YIFTACH, loc. cit.; N. L EWIS, “Aphairesis in Athenian
Law and Custom”, Symposion 1979, Köln 1982, pp. 161-82.
56 V. KATZOFF, “Precedents” (cit. n. 52), pp. 260-261. A meno che non si ammetta che apospasis sia connessa con il richiamo della dote: vedi per le ragioni pro et contra vedi IDEM ,
nota 12. Un’altra possibilità interpretativa proposta da Katzoff sarebbe trattare la frase finale
come una specie di obiter dicta usando un po’ l’anacronologica ma la non del tutto malfatta analogia con common law: “È ancora peggio togliere dal marito [la moglie (?) che la dote dalla
figlia(?)]”: cf. P. Oxy. II, p. 172).
57 P. Oxy. II 237, VII, 39-43: §j Ípomnhmatism«n OÈmbr¤[ou] dikaiodÒtou. (¶touw) w Do-
meitianoË, Famen[∆y .]. DidÊmh ∏w ¶kdikow ı énØr ÉApoll≈niow prÚw Sabe›non tÚn ka‹
Kãsion, §k t«n =ey°[ntv]n (l. =hy°ntvn): Sarap¤vn: met' êlla tå prÒsvpa Afig[Ê]ptia ˆ`n`t`a` par' oÂw êkratÒw §stin ≤ t«n n[Ò]mvn épotom`[¤]a: diorizÒmenow gãr soi
l°gv [˜]ti A`fi`g`[Ê]p`t`i`oi oÈ mÒnon toË éfel°syai tåw [yugat]°r[aw œ]n ¶dvkan §jous¤an,
¶xousin d¢ ka‹ œn §ån k`a`‹` ‡dia ktÆsvntai mey' ßtera: O[Î]mbri[o]w S`a`be¤nƒ: efi ¶fyakaw ëpaj pro›ka d[oÁw tª yug]atr¤ sou, épokatãsthson. Sabe›no[w: t]oËtonma`..... a`‡`toËmai. OÎmbriow: tª yugatr[‹] d`Æ`. Sabe›now: toÊtƒ t“ éndr‹ oÈy¢n [pros]Æ`2k`[ei] sun›nai. OÎmbriow: xe›rÒn §sti éndrÚw éfai[re›syai].
318
JAKUB URBANIK
tia per questa coppia, ordinò che i coniugi non dovessero essere separati se veramente desideravano continuare a vivere insieme. Il suocero Sempronios non ubbidì alla sentenza e per di più citò in giudizio
Antonios che forse aveva anche tentato di riprendersi la moglie. L’avvocato di Sempronios dichiarò che il suo cliente aveva agito avvalendosi dell’apospasis secondo le leggi (native). Il rappresentante del convenuto s’oppose dicendo che se la coppia non era divorziata il padre
della ragazza, che l’aveva data in sposa, non aveva nessun potere su di
lei. Con questa dichiarazione il retore esprime la regola secondo cui il
padre, eseguendo l’atto di ekdosis della figlia, perdeva il diritto di toglierla al marito.58 Infine il prefetto pronunciò che la questione “si decida secondo quello che vuole la donna sposata”.59 Secondo Uri Yiftach la legge non venne abrogata da Titianus. Questi, mosso a compassione a causa della particolare inumanità della legge, voleva
“ignore it in this particular case.”60 Forse è meglio dire che il funzionario sfruttò nella vicenda i principi di equità. Sulla base dell’analogia
con il diritto nativo romano possiamo ricordare che il vecchio diritto
civile non veniva apertamente abrogato dal diritto onorario: l’attività
58 YIFTACH osserva che anche se nel testo si parla generalmente d’ekdosis della donna, l’analisi della risposta d’Ulpius Dionysodorus, dimostra che la differenza si fa tra ekdosis effettuata dal padre e l’atto eseguito da qualcun altro (fratello, madre, o donna stessa).
59 P. Oxy. II 237, VII, 19-29: §j Ípomnhmatism«n Flaou¤ou TeitianoË toË ≤gemoneÊsan-
tow. (¶touw) ib yeoË ÑAdrianoË, PaËni *h, §p‹ toË §n tª égorò bÆmatow. ÉAntvn¤ou toË
ÉApollvn¤ou proselyÒntow l°gontÒw te diå ÉIsid≈rou nevt°rou =Ætorow Sempr≈nion
penyerÚn •auto[Ë] §k mh[t]rÚw éform∞w efiw diamãxhn §ly[Òn]t`a` êkousan tØn yugat°ra
épespak°nai, noshsãshw d¢ §ke¤nhw. Ípolo¤phw (l. ÍpÚ lÊphw) tÚn §pistrãthgon B`ãsson meta`pay«w énastr`a`f[°n]ta épofa¤netai ˜ti oÈ de› aÈtÚn kvlÊesyai efi sunoike›n
éllÆloiw y°loien, éllå mhd¢n ±nuk°nai: tÚn går Sempr≈nion éposi`[v]p`Æsanta toËto
ka‹ t“ ≤gemÒni per‹ b¤aw §ntuxÒnta §pistolØn parakekomik°nai ·na ofl ént¤dikoi §kpemfy«si: afite`›sya`i` o`Ô`n` §ån dokª mØ épozeuxy∞nai gunaikÚw ofike¤vw prÚw aÈtÚn §xoÊshw. D¤dumow =Ætvr épekre¤nato mØ xvr‹w lÒgou tÚn Sempr≈nion kekein∞syai: toË
går ÉAntvn[¤]ou prosenegkam°nou yugatromeij¤aw §g3kale›n, mØ §n°gkantow (l. §n°gkanta) tØn Ïbrin tª katå toÁw nÒmouw sunkexvrhm°n˙ §jous¤& kexr∞syai, ºtiçsyai d' aÈtÚn ka‹ per‹ [c. 7]p`e`w` §`[nk]l`hmãtvn. ProbatianÚw Íp¢r ÉAntvn¤ou pros°yhken, §ån éper¤lutow ∑n ı gãmow, tÚn pat°ra mÆte t∞w proikÚw mhd¢ t∞w paidÚw t∞w §kdedom°nhw
§jous¤aw ¶xein. TeitianÒw: diaf°rei parå t¤ni boÊletai e‰nai ≤ gegamhm°nh. én°gnvn.
seshm(e¤vmai).
60 Cf. YIFTACH, Marriage (cit. 52), § 3.2 “The Possibility of Alternative Acts of Marriage”
e la nota 50.
L’INFLUSSO DELLA VOLONTÀ DEL PADRE SUL DIVORZIO DEI SOTTOPOSTI
319
iuris civilis corrigendis gratia consisteva nella non-applicazione della
norma civile, non solo in un caso particolare ma in tutti quelli simili.
Comunque sembra convincente l’opinione di Yiftach, il quale sostiene che Dionysia non fosse affatto certa che i successori di Titianus avrebbero seguito il suo parere. Perciò la querelante cercava di introdurre qualche regola ausiliare. Sostenne, quindi, che l’atto di ekdosis da parte del padre gli toglieva il diritto di influenzare la vita nubile
della figlia (vedi infra).
(iii.)
Il terzo caso, un’udienza dall’epistratego Paconius Felix nell’anno 134p
(VII, 29-38), assomiglia al caso secondo. Il padre Phlauesis voleva agire
avvalendosi dell’apospasis, ma non riuscendoci, citò in giudizio il genero e la figlia davanti al funzionario romano. La sessione venne aggiornata affinché si conosca il diritto degli Egizi su cui l’attore basava la
propria pretesa. Gli avvocati del convenuto si opposero dicendo che
in uguale circostanza – anche con i litiganti egizi61 – il prefetto scelse
la volontà della ragazza piuttosto che la crudeltà della legge (venne riferito il caso no ii). Allora Paconius Felix, avendo udito sia la legge
che il verbale del precedente processo, concordò con la decisione del
suo predecessore lasciando la decisione alla moglie. Tramite l’aiuto di
un interprete chiese cosa volesse fare la donna e avendo udito che lei
desiderava restare con il marito approvò la decisione.62
61 Secondo
KATZOFF, “Precendents” (cit. n. 52), p. 260: “thus forestalling any attempt on
the part of the father’s lawyer to ‘distinguish’ the earlier case”.
62 P. Oxy. II 237, VII , 29-39: §j Ípom[nhmatis]m«n Pakvn¤ou FÆlikow §pistratÆgou.
(¶touw) ih yeoË ÑAdrianoË, Fa«fi i*z, §`n` tª parå ênv SebennÊtou, §p‹ t«n katå Fla2u2Æ2s2i1o2w ÉAmmoÊniow §p‹ paroÊs˙ Tae`i`xÆkei yugatr‹ aÈtoË prÚw ÜHrvna PetaÆsiow. ÉIs¤dvrow =Ætvr Íp¢r FlauÆsiow e‰pen, t`Ú`n oÔn a`fi`t`i`≈`menon épospãsai boulÒmenon t[Ø]n
yugat°ra aÈtoË sunoikoËsan t“ éntid¤kƒ dedikãsyai ÍpogÊvw prÚw aÈtÚn §p‹ toË
§`[pi]s`t`r2a`t`Æ`gou ka‹ Íperteye›syai tØn d¤khn Í`m`e`›`n` ·na énagnvsyª ı t«n Afigupt¤v[n
nÒ]mow. SeouÆrou ka‹ ÑHliod≈rou =htÒrvn épokreinam°nvn TeitianÚn tÚn ≤gemoneÊsanta ımo¤aw Ípoy°sevw ékoÊsanta [§j] Afiguptiak«n pros≈pvn mØ ±kolouyhk°nai
tª toË nÒmou épanyrvp¤& éllå t[ª] §pi[no¤]& t∞w paidÒw, efi boÊletai parå t[“ éndr‹]
m°nein, Pak≈niow F∞lij: énagnvsyÆtv ı n[Ò]m[ow. é]nagnvsy°ntow Pak≈niow
[F∞]lij: énãgnvtai (l. énãgnvte) ka‹ tÚn TeitianoË Ípom[n]hmatismÒn. SeouÆrou =Ætorow énagn[Òntow], §p‹ toË i`b` (¶touw) ÑA[dria]noË Ka¤sarow toË kur¤ou, PaËn[i] *h2,
Pak≈niow F∞lij: kay∆w ı krãtistow T[eit]ianÚ[w] ¶`k`r2e`i1n`en, peÊsontai t∞w gunaikÒw:
k`a`‹1 §k°leu[se]n di1' [•r]m`h`n°vw aÈtØn §nexy∞n`[a]i (l. §legxy∞nai), t`¤1 boÊletai: efipoÊshw,
parå t“ éndr‹ m°nein, P[a]k≈niow F∞lij §k°leusen Ípomnhmati[s]y∞nai.
320
(iv.)
JAKUB URBANIK
L’ultimo precedente citato da Dionysia è l’opinione legale richiesta
dal praefectus classis Salvitius Africanus al nomikos Ulpius Dionysodorus nell’anno 138p (VIII, 2-7). Il giurista rispose che il semplice fatto
che la ragazza fosse stata data dal padre in matrimonio (ekdosis), toglieva a quest’ultimo il potere su di lei. Questa regola si verificava anche nei casi in cui la figlia nasceva da una coppia che viveva agraphôs,
poiché “quando è stata data dal padre nel matrimonio, non è più una
(ragazza) nata dal agraphos gamos”. Il padre, quindi, non avrebbe avuto
una potestà così ampia nei confronti dei figli nati nell’engraphos gamos.63 Non sappiamo purtroppo perché il contratto matrimoniale dei
genitori limitava la potestà paterna nei confronti dei futuri figli. Nei
contratti matrimoniali greci non si trova nessun cenno che alluda a
questa eventualità.64 Tuttavia la regola formulata dal giurista si potrebbe spiegare nel seguente modo: il padre, dando la figlia in matrimonio, lo accettava e perciò, secondo il parere dei funzionari romani,
non aveva più la forza per scioglierlo.65
Naturalmente il più grande problema, come si era già rilevato in diversi
studi sul tema, è l’unilateralità di questa testimonianza.66 Dionysia, ovvia63 P.
Oxy. II 237, VIII, 2-7: ént¤grafon prosfv`n`[Æsevw nom]ikoË. OÎlpiow D[i]onusÒd[vrow] t«n ±goranomhkÒtvn nomikÚw Salouist[¤ƒ ÉAf]rikan“ §pãrxƒ stÒlou ka‹ [§p‹
t«]n kekrim°nvn t“ teimivtãtƒ xa¤rein. D[ion]us¤a ÍpÚ toË patrÚw §kdoye›sa [pr]Úw
gãmon §n tª toË p[a]trÚw §jous[¤& oÈ]k°ti ge¤netai. ka‹ går e`fi` ≤ mÆthr` a`È`t`∞`w t“
patr‹ égrãfvw sun–khse` [k]a‹ diå toËto aÈtØ doke› §j égrãfvn gãmvn gegen∞syai,
t“ ÍpÚ toË patrÚw aÈtØn §kdÒsyai prÚw gãm`o`n oÈk°ti §j égrãfvn gãmvn §st¤n. prÚw
toËto ‡svw grãfeiw, teimi≈ta[te]: ka‹ di' Ípomnhmatism«n ±sfãl[i]stai per‹ t∞w
pr[oi]kÚw ≤ pa›w ÍpÚ toË patrÒw, ka‹ toËto aÈtª bohye›n dÊnatai. (¶touw) kb yeoË Ñ
AdrianoË, Mexe‹r k,/
64 Cf.
YIFTACH, Marriage (cit. 52), cap. V: “Agraphos Gamos in the Papyrological Source
Material from Roman Egypt”.
65 Cf. YIFTACH, Marriage (cit. 52), cap. III “The Formation of Marriage”. Non mi pare
convincente l’opinione espressa da questo studioso nella nota 47 in cui si cercano di spiegare
i motivi d’Ulpius Dionysiodorus con la possibile analogia che il giurista avesse fatto con la
conventio in manu mariti romana. In primo luogo dobbiamo ricordare che nei tempi dell’iuridicus questo era oramai un concetto quasi totalmente desueto (v. F. DE ZULUETA, The Institutes of Gaius, II, Oxford 1953, pp. 36-37); in secondo luogo, la patria potestas, a quanto pare, non
autorizzava il pater a sciogliere il matrimonio della figlia tranne che in casi eccezionali (vedi
sopra §§ I-V).
66 Cf. K ATZOFF, “Precendents” (cit. n. 52), pp. 258-9 nonché YIFTACH, Marriage (cit. 52),
cap. V.
L’INFLUSSO DELLA VOLONTÀ DEL PADRE SUL DIVORZIO DEI SOTTOPOSTI
321
mente non voleva mettere in evidenza al prefetto i precedenti che avrebbero contrastato con la sua posizione. Questi esistevano poiché anche
Chairemôn li aveva citati, solamente che la figlia non li voleva naturalmente
riferire: cfr. VI, 16-17.
Pare comunque – si veda soprattutto l’affermazione di Chairemôn pervenuta nella sua inchiesta (VI, 12-20) – che il diritto nativo greco-egizio, permetteva al padre di poter togliere la figlia dalla casa del marito.67 I Romani
però, caratterizzando questo costume con épanyrvp¤a (inumanità) (VII,
35), preferivano usare un principio diverso. La causa veniva decisa secondo
la volontà della donna. Probabilmente il padre di Dionysia seppe di tale
tendenza nella giudicatura (fu sicuramente aiutato dagli esperti legali nello
scrivere la sua inchiesta). Chairemôn, dunque in primo luogo, rilevava nella
sua petizione per l’apospasis che gli spettava il diritto di togliere la figlia dalla
casa del marito secondo i diritti del paese.68 Sapendo, però, che tale argo67 Anche P. Mil. Vogl. IV 229 (Tebtunis, c. 140p) mette in evidenza pretese del potere paterno sulla figlia già sposata. Un certo Diogênês si lamenta che sua figlia Ptolema non voglia
ridargli i beni che aveva depositato da lei. Inoltre Ptolema vuole divorziare dal proprio marito “affinché possa portarsi via le mie cose ed abusarle” (ll. 15-17: afitoum°nhw d¢ t∞w Pto-
l°maw periluy∞nai aÈt∞w tÚn gãmon Íp¢r toË épen°gk[as]yai tå §må ka‹ diaspay∞sai).
Ptolema, che forse era sposata con il proprio fratello, da cui ebbe due figli (cf. J. REA, P. Mil.
Vogl. IV, pp. 91-92), venne anche accusata di cospirare con la propria madre, moglie-sorella
di Diogênês, con cui il querelante aveva anche litigato. Diogênês era già andato alla corte
dello stratego dell’Arsinoitês, dove si era fatto qualche accordo e l’exousia su Ptolema venne
riconosciuta. Nella presente inchiesta Diogênês chiede all’epistratego di istruire lo stratego
affinché finisse la causa ed investigasse sulle questioni proprietarie della famiglia prima che il
divorzio fosse stato fatto. V. ll. 17-23 (...) ∑lyon §p‹ A‡lion NoumisianÚn strathgÚn toË
ÉArsinoe¤tou, §f' o ¶nia …mologÆyh ˜yen §jous¤an ¶xvn t∞w yugatrÚw katå toÁw n`Ò`m`[ouw] èji«`[s]e`, kÊrie, §ãn soi dÒj˙, grãcai t“ aÈ[t]“ strathg“ [Afil]¤ƒ Noumisian“ prÚ t∞w toË gãmou per[i]lÊsevw tØn §j°tasin t«n loip«n poiÆsasyai).
LEWIS, “On Paternal Authority” (cit. n. 52), passim, spec. pp. 257-258, conclude sulla testimonianza di questo documento, che quando la donna vuole divorziare dal marito, l’exousia
paterna ricompare con tutta la sua forza. A mio avviso il papiro non basta per tale conclusione. Prima di tutto dobbiamo ricordarci che stiamo di fronte ad una notizia unilaterale, lo
stato delle cose è presentato a seconda dei bisogni del querelante. In secondo luogo si deve
osservare che Diogênês non vuole prevenire il divorzio della figlia, egli solamente desidera
che questa (o forse il genero) siano convenuti davanti allo stratego per finire la controversia,
cercando dunque di prevenire gli eventuali danni finanziari che il divorzio della figlia potrebbe provocargli.
68 P. Oxy. II 237, VI, 17-19: éji« toË nÒmou didÒntow moi §jous¤an o tÚ m°row Íp°taja
·n' efidªw épãgonti aÈtØn êkousan §k t∞w toË éndrÚw ofik¤aw mhdem¤an moi b¤an ge¤nesyai,
“richiedo, perché me ne dà potere (per questo) il diritto – di cui ho allegato la parte, affinché
322
JAKUB URBANIK
mentazione potesse esser rifutata dal giudice romano, si avvalse del fatto
che la figlia e il genero fossero stati particolarmente cattivi, come se volesse
“rientrare” nella categoria di “magna et iusta causa”.69 Una categoria, dunque,
che il riesame delle fonti svolto nei §§ 1-5 di questo articolo permette, come pare, di individuare nel diritto romano classico.
L’altro esempio, posteriore di più che cent’anni, della pratica è fornito
dal P. Sakaon 38 (= P. Flor. I 36 = M.Chr. 64) (anno 312p, Theadelphia), prezioso perché mostra una situazione accaduta in epoca postclassica, e perciò
governata dal diritto molto più unificato (cittadinanza romana concessa a
tutti con la Constitutio Antoniniana).70 Aurêlios Melas dopo la morte di una
sua zia aveva preso con sé la sua figlia destinandola come moglie futura del
proprio figlio Zoilos. Tempo dopo, e a quanto pare a nozze avvenute, il padre della ragazza, Aurêlios Sakaôn, sostenne che il matrimonio non era valido, visto che egli non aveva ottenuto le ßdna e quindi tolse la ragazzina
dalla casa di Zoilos (ll. 10-12). Questi ci racconta d’aver cercato qualche compromesso (ll. 18-23): si sottomise all’arbitrato di due uomini del villaggio, e
seguendo il loro giudizio pagò una certa somma (a quanto pare abbastanza
grande – l’aveva dovuta prendere in prestito dal tribuno). Secondo l’accordo, almeno come lo presenta Melas, Sakaôn, una volta ottenuti soldi, avrebbe dovuto restituire la ragazza al proprio marito; però non lo fece e così
Melas fu costretto a cercare aiuto presso le autorità. Egli, allora, nella sua
petizione, accusò Sakaôn d’aver illecitamente (ll. 2-3: paranÒmvw ka‹ =ico[kindÊnvw]) rotto l’unione coniugale di suo figlio. Forse, come scrisse Solazzi,71 Melas con la sua petizione chiedeva al prefetto l’interdictum de uxore extu (sc. il prefetto) (lo) sappia – affinché non ci sia nessuna forza [che possa fermare] me dal
toglierla (sc. la figlia) dalla casa del marito”. Si può sottolineare che probabilmente abbiamo
qua una richiesta per l’interdictum de liberis ducendis; cf. testo latino ricostruito da D. MAN o
TOVANI , Le formule del processo privato romano, Padova 1999 (2ed.), pp. 95 e 95 n. 470, n 152:
[Qui quaeve] in potestate L. Titii est, quo minus eum [eamve] Lucio Titio ducere liceat vim fieri veto.
69 In una delle prime frasi della petizione di Chairêmon si può leggere la seguente giustificazione della sua azione (P. Oxy. II 237, VI , 12-13): t∞w yugatrÚw mou Dionis¤aw, ≤gem∆n
kÊrie, pollå efiw §m¢ éseb«w ka‹ paranÒmvw prajãshw katå gn≈mhn ÑVr¤vnow
ÉAp¤vnow éndrÚw aÈt∞w, “siccome mia figlia Dionysia, signor prefetto, istigata dal proprio
marito, Horion figlio di Apion, fece (tante cose) contro di me in modo empio e illegale (…)”.
70 Cf. YIFTACH, Marriage (cit. 52), cap. III.
71 SOLAZZI, “In tema di divorzio” (cit. n. 2), pp. 23-27 in part. 26 [= pp. 17-20, 19]; a tale opinione si è opposta BEAUCAMP, Le statut (cit. n. 2), II: p. 157 n. 87. La studiosa francese ha
scritto che SOLAZZI a torto aveva imputato a Melas un modo di pensare che seguiva i con-
L’INFLUSSO DELLA VOLONTÀ DEL PADRE SUL DIVORZIO DEI SOTTOPOSTI
323
hibenda, menzionato da Ermogeniano in D. 43.30.2 (anche se sembra un po’
strano il fatto che il figlio non l’avesse fatto da solo).72 Il prefetto decise comunque che la causa sarebbe dovuta esser presentata al logistês,73 il che, come possiamo con qualche certezza presumere, avrebbe chiesto alla ragazza
con chi volesse restare e a seconda della risposta avrebbe deciso la causa. E
così ci troviamo nuovamente davanti ad un meccanismo simile a quello descritto da D. 43.30.1.5: ecco come si prevedeva che i matrimoni ben armonizzati (cioè, in pratica, tali da poter accertare che la moglie avesse il
desiderio di restare con il marito) non fossero turbati dal potere paterno.
Per la ricerca qui presentata risulta assai importante decidere se Melas
avesse accusato giustamente Sakaôn di aver proceduto in modo illegale.74 I
nostri sospetti, a tale proposito, possono essere provocati, come ha notato
Joëlle Beaucamp, dal fatto che il suocero di Taeïs non si accontenta solo di
dire che Sakaôn aveva oltrepassato i limiti della legalità togliendo la ragazza al
marito; egli racconta dettagliatamente le ragioni che avevano spinto Sakaôn
a comportarsi in tal modo. A questo punto occorre ricordare i dubbi (già espressi in altri luoghi)75 suscitati dall’avvenuta transazione tra Melas e Sakaôn. Perché Melas s’era rimesso ad un arbitrato pagando una somma di danaro a Sakaôn, anche se pensava che questi non aveva ragione? La soluzione
del presente problema dipende dall’interpretazione della subscriptio del prefetto. Questa, secondo la studiosa francese, può essere letta in due modi:
cetti del diritto romano; certamente, come credeva BEAUCAMP (l’autrice, purtroppo, non ne
dà una spiegazione più ampia) gli abitanti dell’Egitto in generale, e Melas in particolare, non
si dovevano render conto dei concetti giuridici, come anche fanno i non-giuristi odierni. Si
può presumere che la persona a cui s’era rivolto Melas chiedendole di preparare la petizione,
l’ignoto scrittore del documento, aveva una certa conoscenza della materia giuridica. Non
sarebbe quindi da escludere allora un’ipotesi di questo tipo.
72 Tutto questo secondo il procedimento previsto dal CI. 5.4.11: Diocletianus et Maximianus Impp. AA. Alexandro: Si invita detinetur uxor tua a parentibus suis, interpellatus rector provinciae amicus noster exhibita muliere voluntatem eius secutus desiderio tuo medebitur.
73 P. Sakaon 38.32-33: [efi ér°sketai] tª prÚw tÚn índra sumbi«sei ≤ pa›w, aÈtÚ toËto
fanerÚn gen°syv parå t“ lo[gistª ékoloÊy]v`w` to›w nÒm2oiw, “se alla ragazza piace convivere con il marito, che questo fatto sia chiarito dinanzi al logistês, secondo le leggi”.
74 Come giustamente osserva Joëlle B EAUCAMP non possiamo accontentarci con la argomentazione presentata nella petizione: essa ci presenta solamente il punto di vista di Melas,
Le statut (cit. n. 2) II: pp. 153-154, in particolare p. 154.
75 L. MITTEIS, “Miszellen”, Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, Romanstische
Abteilung 27 (1906), pp. 342-344; BEAUCAMP, loc. cit. e p. 154 n. 85.
324
JAKUB URBANIK
(i.)
vi si trova un valore assoluto, ovvero se Taeïs vuole restare con il marito, il matrimonio non sarà rotto;
(ii.)
il logistês deve solamente scoprire se Taeïs abbia voglia di restare con il
marito, ovvero se la sua volontà “est nécessaire pour que l’union se
poursuive, mais elle ne suffit peut-être pas à cela; les raisons graves
pourraient éventuellement permettre à son père de la séparer de son
mari”.76
Le ipotesi appena presentate convinsero Beaucamp che il padre potesse
rompere il matrimonio dei sottoposti in certi specifici casi. Possiamo forse
vedere di nuovo in questa interpretazione “magna et iusta causa” che sembra
giustificare, secondo le fonti romane, l’intervento paterno nella vita coniugale della figlia.
Si potrebbe tentare una diversa ricostruzione degli avvenimenti, mettendo in evidenza la pretesa invalidità dell’unione. Quando Sakaôn riprese
la ragazza non volle divorziare ma semplicemente mostrare il fatto che il matrimonio non ebbe mai luogo. Ed, infatti, questa era probabilmente la sua argomentazione. Si deve notare, però, che il prefetto riconobbe la convivenza
della coppia come matrimonio (cf. [efi ér°sketai] tª prÚw tÚn êndra sumbi«sei ≤ pa›w).
6.1.2. Ripudi inviati da suocero a genero
Approfitto ora dalle notizie forniteci da un atto di divorzio in cui appare
come agente il padre della sposa inviando il ripudio a suo genero. Il documento fu pubblicato nel primo volume dei papiri d’Ossirinco ed è datato al
sesto secolo dopo Cristo. Gli editori lo interpretarono come “repudiation
of a betrothal”. Il primo a leggerlo come atto di divorzio fu il Mitteis.77 Iô76 Le
statut (cit. n. 2), II: p. 154; della prima opinione è M. HUMBERT, “La jurisdiction du Préfet d’Égypte d’Auguste à Dioclétien”, [in:] F. BURDEAU, N. CHARBONNEL & M. HUMBERT,
Aspects de l’Empire romain, Paris 1964, pp. 111-112; ARANGIO-RUIZ, Le persone (cit. n. 35), p. 80.
77 L. MITTEIS, “Papyri aus Oxyrynchos”, Hermes 34 (1899), p. 105; Dello stesso parere furono i posteriori editori del P. Oxy. I 129 [= MChr. 296], A. S. HUNT & C. C. EDGAR, Sel.
Pap. I 9; questa assunzione venne generalmente accolta dagli studiosi, con l’unica eccezione
di E. VOLTERRA, “Il Pap. Oxyrhinchus 129 e la L. 5 C. De spons. 5,1”, Studia et documenta historiae et iuris 3 (1937), pp. 135-139 (= Scritti giuridici, I, Napoli 1991, pp. 537-542). Lo studioso italiano sembra però non aver preso in considerazione la suggestione interpretativa di Mitteis;
L’INFLUSSO DELLA VOLONTÀ DEL PADRE SUL DIVORZIO DEI SOTTOPOSTI
325
annês, padre d’Euphemia, invia tramite Anastasios, secondo qualche interpretazione78 un defensor civitatis, il libellum ripudii a suo genero Phoibammôn.
Lo scioglimento dell’unione è motivato dalle notizie pervenute a Iôannês
che il suo genero s’era dedicato alle mostruose (o: illegali) azioni che è
meglio non nominare per iscritto (P. Oxy. I 129.4-6). Anche in questo caso
l’interpretazione rimane ambivalente: possiamo presumere che la ragazza
abbia, o meno, acconsentito alle azioni del padre. Entrambe le ipotesi sono
ugualmente giustificate: da un lato anche se Euphemia non era d’accordo
con suo padre, egli certamente non ne diede alcuna notizia in un atto redatto per suo ordine; d’altro lato non c’era bisogno che la concessione fosse
fatta expressis verbis: questa è la disposizione della norma sopraccitata ed esaminata (D. 24.3.2.2 – cfr. p. 300): se figlia tace, acconsente.79 Si può anche
pensare che Iôannês, come Chairemôn (supra, n. 69), raccontando delle cattive azioni di Phoibammôn e dicendo che aveva iniziato l’attività che conduce al divorzio per difendere la sicurezza (prÚw oÔn ésfãleian) della figlia,
cercava di sottolineare che “hoc magna et iusta causa fecerit”.
L’altro papiro che venne interpretato80 come un atto di divorzio ed in
cui agiva il padre della sposa è P. Nessana III 33 (VIp). Questo però non aggiunge alcuna notizia al problema del potere paterno nel confronto di divorzio. Il papiro, infatti, purtroppo molto mutilato, conserva una ricevuta
con la cui l’ex-genero, Stephanos, dichiara all’ex-suocero, Sergios, d’aver riavuto tutte le donazioni da lui fatte a Sara all’occasione di loro matrimonio
nonché altri oggetti. Per quanto ci permette lo stato di conservazione non
si deve, tuttavia, ammettere che l’argomentazione di Volterra pare molto persuasiva. In questa sede voglio solamente notare che in tanto sembra strano che nel documento non ci siano
provvedimenti che si normalmente trovano in atti di divorzio: non vengono menzionate né
la dote né le consuete promesse di non agire contro l’ex-sposo nel futuro (ma questa fatto
può esser stato risultato dal carattere unilaterale dell’atto).
78 Vedi VOLTERRA, “Il Pap. Oxyrhinchus 129” (cit. n. 77), p. 136. I limiti cronologici del lavoro più recente sul defensor, R. M. FRAKES, Contra potentium iniurias: the defensor civitatis and
late Roman justice (= Münchener Beiträge zur Papyrusforschung und Antiken Rechtsgeschichte 90),
München 2001, non hanno permesso all’autore di prendere in considerazione questo papiro.
79 Sembra allora che BEAUCAMP, Le statut (cit. n. 2), II: p. 146, a torto interpreti questo silenzio della donna come segno che l’espressione della volontà della figlia era del tutto inutile:
“ce silence fait penser que, si elle s’y était opposé, le résultat aurait été le même; l’affirmation
selon laquelle Iôannês [et lui seul] a jugé bon que leur union soit rompue plaide en ce sens”.
80 Vedi A. MERKLEIN , Das Ehescheidungsrecht nach den Papyri der byzantinischen Zeit (Diss.
Erlangen), Nürenberg 1967, pp. 41-42, 48-48a.
326
JAKUB URBANIK
possiamo tracciare nessuna congiunzione tra il divorzio avvenuto e l’esecuzione del potere paterno. Ammettendo che Sergios agiva come rappresentante della figlia non ci sorprenderà il fatto che ella non partecipi al negozio.
Possiamo pensare che questa ricevuta fosse stata redatta dopo che il divorzio aveva avuto luogo, per la definizione dei rapporti patrimoniali tra le parti.
6.1.3. L’interpretazione e la genesi
dell’exousia paterna nell’Egitto greco-romano
Dobbiamo renderci conto81 che la possibilità di sciogliere il matrimonio
della figlia da parte del padre non deve esser considerata come una repressione nei riguardi della figlia. Ricordiamoci che le ragazze nell’antichità si
sposavano molto presto.82 Su questo punto è molto istruttivo P. Lips. 27
(Tebtunis, 123p) dove la divorziante ha solo sedici anni, e la rottura avviene
già due anni dopo formazione del matrimonio. La ragazza dichiara il divorzio essendo accompagnata dal proprio padre come kyrios. Anche il padre dichiara la ricevuta della dote (ll. 20-25). Dunque la possibilità di riprendersi
la figlia a casa, e con ciò sciogliere il suo matrimonio, può esser vista a questo proposito come un mezzo protettivo a vantaggio della figlia nei confronti del marito e della sua famiglia, che sono le parti, supponiamo, più forti
nell’unione coniugale.83
Una così grande ampiezza del potere paterno sulle figlie potrebbe esser
spiegata dalla presunta genesi di questo costume. Naphtali Lewis84 avendo
confrontato le fonti letterarie greche (Demosthenes, 41.3-4; Menander, Epitrepontes, P. Dido 1 [= Sel. Pap. III, 180-189]) e romane (che secondo la dottri81 Sono
grato a Uri YIFTACH per avermi suggerito questa importante possibilità interpretativa. Vedi LEWIS, “Aphairesis” (cit. n. 55), pp. 161-82.
82 Secondo calcoli statistici basati sulle schede di censimento fatti da R. S. BAGNALL & B.
W. FRIER, The Demography of Roman Egypt, Cambridge 1994, pp. 112-113, le donne egizie cominciarono a sposarsi all’età di dodoci anni o subito dopo. Spesso accaddeva che l’età dei
mariti era superiore (anche di una decina di anni) a quella delle mogli, tutto ciò può naturalmente indicare la supremazia dei mariti. Vedi anche U. YIFTACH, “Was there ‘Divorce Procedure’ among Greeks in early Roman Egypt?”, [in:] Atti del XXII Congresso internazionale di
papirologia, Firenze 2001, II, pp. 1331-1339, nota 35.
83 Cf. Anche YIFTACH, Marriage (cit. n. 52), cap. 8 “The Divorce Provision”. Proprio tale
proposito ci può spiegare anche perché la maggioranza delle fonti parli del caso della figlia e
non del figlio.
84 LEWIS, “Aphairesis” (cit. n. 55), pp. 161-82.
L’INFLUSSO DELLA VOLONTÀ DEL PADRE SUL DIVORZIO DEI SOTTOPOSTI
327
na presentano la realtà giuridica greca: Plautus, Stichus; Rhet. ad Heren.
2.34.38),85 stabilì che le leggi “degli Egizi” (“i.e. law of the non-Romans”)
menzionate più volte nella petizione di Dionysia provengano direttamente
dall’ordinamento giuridico di Atene del quinto secolo avanti Cristo. A questo s’aggiunge l’osservazione di Joseph Mélèze-Modrzejewski86 secondo cui
è poco probabile che Chairemon, un Elleno, ex-gimnasiarcha, si fosse servito del diritto egizio nativo, “demotico”. Modrzejewski conclude, dunque,
che la legge rievocata dal padre di Dionysia risponde ai costumi greci, non
egizi. L’unica incertezza notata da Yiftach,87 che si può avanzare, è la presenza nel caso III dei litiganti con nomi egizi nonché dell’interprete. Questo fatto mostra che l’apospasis esisteva anche nel costume egizio, almeno ai
tempi dell’alto Impero Romano. Tuttavia ciò non basta per poter rinunciare all’ipotesi che i limiti ampi dell’exousia siano un risultato d’influsso dei
diritti cittadini greci sugli ordinamenti giuridici d’Egitto. Possiamo allora
servirci dagli esempi d’Atene del quinto secolo avanti Cristo per cercare
qualche spiegazione del fenomeno.88 In questa polis si riconosceva ai padri
la facoltà, la cosiddetta éfa¤resiw, di togliere la figlia dalla casa del genero e
così facendo di sciogliere il suo matrimonio. La prerogativa sarebbe stata,
quindi, paragonabile all’apospasis conosciuta attraverso i papiri d’Egitto. Gli
autori, che avevano svolto la ricerca sui testi letterari (avendo anche osservato che la realtà presentata in quei brani, in specie presi dalle commedie,
non necessariamente rispecchiava la realtà legale della polis), mostrarono,
che il diritto d’aphairesis emergeva come cura paterna sulle figlie. Quando
queste si opponevano i padri cercavano di dimostrare che stavano ese-
85 Rhet.
ad Heren. (che riporta passo della tragedia Cresphontes di Ennius) 2.24.38: Iniuria abste afficior indigna pate; nam si improbum Cresphontem existimaveras, cur me huic locabas nuptiis? Sin
est probus, cur talem invitam invitum cogis linquere? Per motivi esposti nel testo non è da ritnere
il parere di F. PICINELLI, “La evoluzione storico-giuridica del divorzio in Roma da Romolo
ad Augusto”, Archivio Giuridico 34 (1885), p. 459, secondo il cui questo passo testimoni la prerogativa del pater familias di mandare ripudio al genero senza consenso della figlia.
86 J. MÉLÈZE-MODRZEJEWSKI, “La règle de droit dans l’Égypte romaine”, [in:] Proceedings
of the Twelfth Congress of Papyrologists. Ann Arbor 1968, Toronto 1970, pp. 317-375, alla p. 332.
In questo senso, vedi IDEM, loc. cit., p. 333, sulla nozione dei nÒmoi t«n Afigupt¤vn.
87 YIFTACH, Marriage (cit. n. 52), cap. V, nota 40.
88 V. L. COHN -H AFT, “Divorce in Classical Athens”, The Journal of Hellenic Studies 115
(1995), pp. 1-14, in part. le pp. 5-8; V. J. ROSIVACH, “Aphairesis and apoleipsis: a study of the
sources”, Revue internationale des droits de l’antiquité 31 (1984), pp. 193-230.
328
JAKUB URBANIK
guendo l’aphairesis nel loro interesse. Tuttavia il fatto che lo scioglimento
dell’unione non ha luogo in tutti i casi raccontati dalla Nuova Commedia e
commedia romana di divorzi voluti dai padri contro la volontà delle figlie,
dimostra che l’assoluto diritto paterno89 già in questa epoca, fu limitato,
per motivi di carattere sociale. Forse il divorzio riesce solo nei casi in cui i
padri riuscivano a provare che l’esecuzione d’aphairesis avesse lo scopo di
pervenire l’abuso delle proprie figlie da parte dei loro mariti.90
6.2. “Il potere sociale” e le fonti letterarie
Infine vorrei porre a confronto due passi tratti dalle costituzioni dioclezianee, di cui una è stata già citata:
C. 5.17.5.2 (Diocl. et Maxim. AA. et CC. Scyrioni d. V k. Sept. Nicomediae CC.
conss., 28 VIII 294): Emancipatae vero filiae pater divortium in arbitrio suo
non habet.
C. 5.17.4 (Diocl. et Maxim. AA. et CC. Pisoni. d. III k. Ian. Sirmi CC. conss.,
30 XII 294): Filiae divortium in potestate matris non est.
Mai fu concessa alla madre facoltà di far divorziare la figlia. Però certamente questo accadeva nella prassi,91 tanto da far sentire a Diocleziano la ne89 Cosi LEWIS, “Aphairesis” (cit. n. 55), p. 178. Ma anche lui ammette che i padri si trovassero “under strong emotional and social pressure to seek an accommodation”. A favore di
condizionamento del diritto d’aphairesis vedi. J. MÉLÈZE-MODRZEJEWSKI, “La structure juridique de mariage grec”, [in:] Scritti in onore di Orsolina Montevecchi, Bologna 1981, pp. 258-260.
Questo studioso sostiene che la nascita della prole dall’unione invalidava il diritto d’aphairesis
paterna.
90 Cf. L. COHN-HAFT, “Divorce” (cit. n. 88), p. 7.
91 Ed infatti abbiamo di tale pratica un esempio assai noto: P. Cairo Preis. 2 (e P. Cairo
Preis. 3: un’altra copia dello stesso documento – cf. correzioni della Berichtigungsliste III 36.
Questo papiro dall’anno 362, proveniente da Hermoupolis, contiene una petizione indirizzata ai riparii. Aurêlios Serênos denuncia che, quando era mancato da casa per tre anni per
“affari propri”, la madre della sua moglie non solo l’ha tolta da casa di Serênos, ma anche l’ha
data ad un altro uomo per un nuovo matrimonio. Serênos racconta che quando, sei anni prima, s’era sposato con Tamounis, le ha dato ßdna, ovvero la donazione all’occasione di matrimonio. Il papiro è rotto – non sappiamo, purtroppo, non solo quale fine abbia avuto questa
storia, ma anche che cosa richiedesse il povero marito (restituzione della moglie o solo dei
beni?). A mio avviso l’affermazione di R. TAUBENSCHLAG, “Materna potestas im gräko-ägypti-
L’INFLUSSO DELLA VOLONTÀ DEL PADRE SUL DIVORZIO DEI SOTTOPOSTI
329
cessità di riaffermare quel principio. Ed ugualmente nel caso di divorzio di
una figlia emancipata sulla quale il padre non aveva alcuna potestà. Se posso
tentare un’ipotesi più vaga: a cavallo dei periodi preclassico e classico del
diritto romano si sarebbe stabilita la regola secondo cui il pater familias non
aveva nessun influsso sul matrimonio già posto in essere dei suoi figli sottoposti. Forse questo principio venne “legalizzato” da Augusto in una delle sue
leggi matrimoniali;92 più probabilmente fu il costume che tolse al padre la
possibilità di rompere il matrimonio dei figli. Tuttavia questo principio non
ebbe un successo universale (come è dimostrato dalle fonti papirologiche):
anche se il padre non aveva il diritto d’imporre la propria volontà ai figli,
nondimeno lo faceva, avendo un potere molto più importante del potere
legale: cioè quello sociale.93
schen Recht”, Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, Romanstische Abteilung 49
(1929), pp. 115-128 (= Opera minora, II, pp. 323-337 alla p. 330 e n. 37), basata sul suddetto papiro (e solo su questo!), che alla madre apparteneva il diritto di sciogliere il matrimonio della
figlia, è un po’ affrettata. Meglio forse concludere (cf. anche A. MERKLEIN, Das Ehescheidungsrecht [cit. n. 56], p. 48a) che la suocera di Serênos avesse usurpato tale potere. In questo caso
allora non doveva necessariamente avvenire un divorzio (a meno che non presumiamo che
Tamounis acconsentisse alle azioni della madre, cioè la madre fece divorziare Tamounis) –
forse vale la pena aggiungere questa piccola obiezione all’importante ricerca di R. S. BAGNALL, “Church, State and Divorce in Late Roman Egypt”, [in:] K.-L. SELING & R. SOMER VILLE [ed.], Florilegium Columbianum: Essays in honor of Paul Oskar Kristeller, New York 1987,
pp. 41-61 alla p. 57. Pro tale interpretazione parla la ricostruzione di ll. 3-4 della petizione fatta da BEAUCAMP (cit. n. 2), p. 122 n. 117, che propone: •t°rƒ éndr‹ xvr[‹]w [gn≈mhw aÈt∞w]
§`[j°]d`v`k`e`[n] tØn aÈtØn sÊn[b]ion, “(la suocera) ha datto questa (mia) moglie altro marito
senza [consentimento della donna”. Cf. anche cap. I cambiamenti postclassici della mia tesi.
92 Se si potesse dedurre dalla notizia fornita da Terezio Clemente, D. 23.2.21 (come lo fa
per es. G. MATRINGE, “La puissance” [cit. n. 2], p. 199 e nn. 33-34) che Augusto proibì al
padre di costringere il figlio a sposarsi contro la sua volontà, si potrebbe anche pensare a maiore ad minus che il princeps negò la capacità del pater di rompere matrimonio dei sottoposti.
Questa è però solamente un tentativo di proposta.
93 Come analogia abbiamo il famoso passo di Celso, D. 23.2.22 (15 dig.): Si patre cogente ducit
uxorem, quam non duceret, si sui arbitrii esset, contraxit tamen matrimonium, quod inter invitos non
contrahitur: maluisse hoc videtur. Il padre costrinse il figlio a sposarsi, nonostante ciò il matrimonio fu ritenuto valido perché quando il figlio decise di sposarsi, consentì al matrimonio),
del quale l’esegesi di VOLTERRA (v. per es. “Quelques observations” [cit. n. 2], pp. 229-230;
IDEM, Lezioni [cit. n. 2], pp. 204-206) è universalmente accettata. In questo senso vedi anche,
S. TREGGIARI, “Consent to Roman Marriage: Some Aspects of Law and Reality”, Échos du
Monde Classique/Classical Views 26 N.S. 1 (1982), pp. 34-45.
Non è difficile immaginarsi che in realtà, il padre (o la madre) non doveva “costringere” la
figlia o il figlio a porre in essere la propria volontà. Spesso bastava una semplice persuasione
330
JAKUB URBANIK
Occorre soffermarsi per un attimo proprio sugli esempi di questo potere
sociale. A tale proposito si possono ricordare, solamente exempli gratia, i
modi in cui i genitori (e non solo il padre, per il che si potrebbe anche assumere qualche potere legale) non solo cercassero di influire le sorti dei propri figli ma anche riuscissero a farlo con una certa facilità. Si possono ricordare problemi provocati dalle istituzioni testamentarie dei figli da parte dei
propri genitori condizionate dall’avvenire o meno dello scioglimento di propri matrimoni.94 Un esempio di tale tipo ci è pervenuto nel CI. 3.28.18
(Impp. Diocletianus et Maximianus AA. Faustinae):95 gli imperatori concessero
a Faustina quaerella inofficiosi contro testamento del suo padre. La donna,
non essendosi divorziata dal marito – come l’avrebbe voluto suo padre – era
stata da lui disereditata (vedi sopra, p. 314). Invece in CI. 6.25.5 (Impp. Valerianus et Galienus AA. Maximae)96 abbiamo un esempio di figlia ubbidiente
alla volontà materna (sic! – cf. il sopraccitato CI. 5.17.4), che avendo divorziato il proprio marito secondo condizione nel testamento della madre,
ovvero era solamente richiesta, la pietas che i figli avevano verso i propri genitori che alla fine
realizzava il volere paterno. Sono noti esempi dei legami molto stretti che vincolavano i genitori con i propri figli (ricordiamoci dell’esempio di Tullia e del suo legame con il padre).
Cf. J. P. HALLETT Fathers and Daughters in Roman Society. Women and the Elite Family, Princeton 1984, passim.
94 Cf. anche BEAUCAMP, Le statut (cit. n. 2) I: le note 105-107 sulla p. 258, nonché molto interessante (per la sua prospettiva anche odierna) contributo di J. P. MEINICKE, “Die Scheidungsklausel im Testament – ein Vergleich”, [in:] D. MEDICUS & H. H. SEILER (ed.) Festschrift für Max Kaser zum 70. Geburtstag, München 1979, pp. 437-463.
95 CI. 3.28.18: Cum te pietatis religionem non violasse, sed mariti coniugium quod fueras sortita distrahere noluisse ac propterea offensum atque iratum patrem ad exheredationis notam prolapsum esse dicas, inofficiosi testamenti querellam inferre non vetaberis. (Nicomediae XVI k. Mart. Maximo II et Aquilino conss. [14 II 286]).
96 CI. 6.25.5.1: Tu porro voluntatem eius divortio comprobasti: oportuerat autem, etsi condicio huiusmodi admitteretur, praeferre lucro concordiam maritalem. Enim vero cum boni mores haec observari
vetent, sine ullo damno coniunctionem retinere potuisti (XII k. Dec. Valeriano IV et Galieno III AA.
conss. [20 XI 257]). Sullo stesso principio è basata la risposta di Settimio Severo e Caracalla
inviata ad un certo Gallicanus in C.6.46.2: Cum patrem familias [siccome il testo entra nella
fila dei brani qui presentati che parlano dei rapporti ereditari tra parenti e figli sembra
convincente la correzione di P. K RÜGER , filiam familias ⇒ patrem familias] fideicommissi
nomine, quod in diem certam reliquit, ita cavere praecepisse proponas, si a marito non divertisset,
iurisdictionis originem perinde servari aequum est, ac si nihil super ea re scriptum fuisset. 1. Nec exemplum legati vel hereditatis, in quibus condicio divortii nonnumquam remitti solet, huic rei comparandum
est, cum absurdum sit ideoperpetui edicti neglegi formam, quia patris sui voluntati nonobtemperatur.
(Antiochiae XI k. Aug. Antonino A. II et Geta II conss. [22 VII 205]).
L’INFLUSSO DELLA VOLONTÀ DEL PADRE SUL DIVORZIO DEI SOTTOPOSTI
331
viene rimproverata dagli imperatori. Gli autori della costituzione consigliano a Massima di tornare dal marito, riassicurandola che potrà ritenere l’eredità materna perché la condizione, essendo contra bonos mores, era nulla.97
Anche nella tradizione oratoria/retorica si trovano casi dell’esecuzione
del potere paterno per sciogliere dei matrimonia dei figli. Tutti i casi, con
qualche piccolo variante, s’assomigliano uno all’altro.98 Il filius, padre incosciente, si sposa con la figlia del nemico del padre allo scopo di liberare padre (Decl. 257) o se stesso (Contr. 1.7) dalla prigionia dai pirati.99 Tornato in
patria viene rimproverato dal padre, che gli ordina di divorziare dalla moglie. In ogni caso non lo vuole fare e cerca di persuadere i giudici che in questa particolare situazione non deve osservare l’ordine paterno. Sembra comunque che i dubbi del figlio circa validità dell’ordine paterno siano in ogni
caso abbastanza ben basati per non seguirlo. Il disegno che emerge da queste dispute retoriche sembra essere il seguente: al tempo in cui furono
scritte vi erano ancora dubbi circa la possibilità dello scioglimento del matrimonio dei figli da parte del padre. Se non ci fossero stati, non sarebbero
state composte le diatribe appena presentate. Anzi: allora si ammetteva ancora tale possibilità, e nonostante ciò si cominciava a pensare che questo
diritto paterno sarebbe potuto esser limitato in qualche caso. La fonte di
97 Un
altro esempio della pressione testamentaria sul divorzio è pervenuto in D. 7.8.8.1. La
fonte è importante perché testimonia che già i giuristi dell’epoca classica (Pomponio) consideravano non valida la condizione testamentaria che ordinava al legatario o erede di divorziare, probabilmente tale condizione era considerata contra bonos mores (Ulpianus, 17 ad Sab.):
Sed si usus aedium mulieri legatus sit ea condicione “si a viro divortisset”, remittendam ei condicionem
et cum viro habitaturam, quodet Pomponius libro quinto probat. Nelle opere di Papiniano si può
trovare anche un caso contrario: D. 35.1.101.3 (Papinianus, 8 resp.): Socrus nurui fideicommissum
ita reliquerat: “Si cum filio meo in matrimonio perseveraverit”: divortio sine culpa viri post mortem
socrus facto defecisse condicionem respondi. Nec ante diem fideicommissi cedere, quam mori coeperit
nupta vel maritus, et ideo nec Mucianam cautionem locum habere, Quia morte viri condicio possit exsistere. La nuora meglio avrebbe fatto se si fosse astenuta dal divorzio, se voleva, infatti, diventare padrona dei beni della suocera (alla fine i soldi della suocera non la fermarono dal lasciare il marito). Probabilmente la differenza nella decisione è dovuta alla natura del fedecommesso (negli altri casi si parla della successione normale).
98 Cf. Senaca Rhetor, Controversiae 1.6; 5.2 nonché [Quintilianus], Declamatio minor 257.
99 Secondo lo Pseudo-Quintiliano il figlio avrebbe pagato il riscatto con i soldi dalla dote,
Seneca presentò una versione più avventurosa: il prezzo per la liberazione dalla prigionia era
il matrimonio del figlio catturato con la figlia dell’“archipirata”. Nel caso di Contr. 5.2 vi è presunzione della morte del padre (la soluzione teoretica per tale storia si può trovare in D.
23.2.9.1, vedi sopra, n. 21).
332
JAKUB URBANIK
questa prerogativa paterna però non doveva necessariamente essere il diritto positivo. Più che altro questa sembra esser radicata e giustificata dai costumi, e dagli obblighi e doveri sociali che vi erano nella famiglia romana.
Un esempio di far divorziare è contenuto anche nelle due lettere di Gregorio Nazianzeno, ni 144 e 145, entrambe dall’anno 382.100 Le epistole, la
prima indirizzata al governatore d’allora di Cappadocia, Olympios, l’altra ad
un certo Veranios, narrano del caso del matrimonio della figlia di Veranios.
Questi voleva che la ragazza lasciasse il proprio marito. Si può presumere
che Olympios, a cui era pervenuto il caso, l’affidò al vescovo di Cappadocia
per un’indagine.101 Gregorio naturalmente non poté che essere contro il divorzio e cercò in entrambi gli scritti di persuadere sia il padre sia il praeses di
non procedere per lo scioglimento dell’unione matrimoniale. Non sappiamo, purtroppo, quale fosse la fine di questa vicenda. Nonostante ciò, un argomento usato dal padre della Chiesa è per noi molto significativo. Il vescovo ripete in entrambe le lettere che la figlia non dimostra con le proprie parole le vere intenzioni, anzi: divide le parole per genitori e le lacrime e sentimenti per il marito.102
I casi dimostrati ci danno una notizia preziosa: si conferma allora la comune presunzione che il padre (ed anche la madre) non aveva bisogno di nessun diritto per costringere i propri figli a ciò che voleva, ed anche a divorziare dallo sposo. Bastava rievocare la religio che doveva caratterizzare i rapporti tra i figli e i genitori. Pare che fino ad una certa epoca l’avente potestà
si poteva aiutare a “far divorziare” i figli con l’interdetto de liberis ducendis;
ecco perché abbiamo una certa raccomandazione per moderare questa realizzazione del potere paterno (D. 43.30.1.5 in fine). Contro la pratica descritta furono emanate costituzioni imperiali, sempre indirizzate agli indi100 Si
veda il commentario di BEAUCAMP, Le statut (cit. n. 2), II: pp. 305-306.
Naz., Epist. 144.1: (…) §j œn ≤m›n tØn peËsin di°trecaw, oÓw oÈ taxe›w ædeiw
oÈd¢ éperisk°ptouw prÚw tå toiaËta. Similmente nella lettera indirizzata a Veranios
(145.3). Pare divertente che Gregorio scrivendo al padre della ragazza sottolinea (alla fine di
145.3) che egli ha istruito la causa non come logistÆw (un ufficiale che doveva anche istruire
la causa di Taeïs conosciuta da P. Sakaon 38) ma come vescovo.
102 Greg. Naz., Epist. 144.3: Dipl∞ tiw ≤ pa›w e‰nai moi fa¤netai, merizom°nh afido› te
101 Greg.
gon°vn ka‹ éndrÚw sunhyh¤&. Ka‹ tå m¢n =Æmata met’ §ke¤nvn §st‹n, ≤ d¢ diãnoia oÈk
o‰da efi mÆ ti ka‹ metå toÊtou, …w paradhlo› tÚ dãkruon; Epist. 145.6 fin.: (…) mer¤zei
går Ím›n m¢n tå =Æmata, t“ d¢ éndr‹ tÚ dãkruon.
L’INFLUSSO DELLA VOLONTÀ DEL PADRE SUL DIVORZIO DEI SOTTOPOSTI
333
vidui (anche così sì può interpretare la prohibitio di Antonio Pio):103 il princeps interveniva in casi speciali, 104 non vi era bisogno di produrre una norma
di carattere generale, perché essa già esisteva. Ciò non significa che il padre
non poté mai legalmente sciogliere il matrimonio dei figli. Nell’epoca preclassica però nessuno dubitava che i figli potessero avere un opinione diversa dai loro superiori famigliari. Con l’andar del tempo, con la trasformazione della struttura sociale dell’antica famiglia romana, in fine con l’indebolimento dei legami familiari, la patria potestas comincò ad esser limitata. In
modo colloquiale si potrebbe dire che i figli scoprirono la possibilità di opporsi al volere paterno il che provocò tante difficoltà. Il frutto delle diatribe
giuridiche di allora sono le regole, i modi di procedimento presenti nelle
fonti esaminate in questo articolo.105
CONCLUSIONI FINALI
Cercavo di dimostrare che la facoltà per il padre di sciogliere il matrimonio
dei propri figli non fu introdotta da non introdusse. Troviamo tale disposizione nel corpus di lex romana solo in Lex Romana Burgundorum 21.1 (consensu
partis utriusque repudium dare et matrimonium posse dissolvi), però la legge barbarica non ha niente a che fare con il diritto giustinianeo. Nelle fonti del
periodo classico, invece, si parla del divorzio dei figli effettuato dal pater,
come pare, solo sotto circostanze speciali. Se le mie ipotesi sulla classicità
dei testi giuridici qui esaminati sono giuste, se correttamente, come credo,
ho respinto i dubbi di Volterra, si potrebbe azzardare la seguente conclusione che risulta ravvisata anche dall’esame delle fonti papirologiche. Almeno nel periodo classico, ma anche dopo, il pater non poteva sciogliere i matrimoni dei propri sottoposti, a meno che non vi fosse qualche ragione straordinaria. Infatti, verificatosi un motivo importante, i padri avevano il potere di far divorziare i loro sottoposti. Il che sembra valere sia per le figlie
103 Così
anche ROBLEDA, “Il divorzio” (cit. n. 1), p. 373.
5.4.11 Alexandro; CI. 5.17.5 Scyrio.
105 Sempre nell’ambito del diritto matrimoniale possiamo trovare l’esempio di una certa
limitazione del potere paterno. Con una costituzione che modificò la lex Iulia gli imperatori
Severus ed Antonius decisero che nel caso in cui il pater familias non avesse dato il proprio
consenso alle nozze dei figli alieni iuris e nemmeno costituito la dote, il praeses della provincia
sarebbe potuto intervenire costringendo il pater familias a fare ciò (D. 23.2.19).
104 CI.
334
JAKUB URBANIK
che per i figli (almeno due fonti [D. 24.1.32.19 e PSent. 5.6.17] confermano
questa ipotesi).106
Sull’esempio delle fonti papirologiche e letterarie abbiamo visto che la
possibilità di sciogliere il matrimonio dei figli da parte del padre non deve
essere sempre considerata come una repressione, ma potrebbe anche verificarsi come un’azione a favore dei sottoposti (vedi soprattutto P. Oxy. I 129).
Torniamo dunque alla fonte con cui ho cominciato il discorso, D. 24.2.4:
sembra che la pazzia della figlia costituisse “magna et iusta causa”, dunque un
avvenimento straordinario,107 che consentiva al padre di inviare un libellum
repudii al genero; probabilemente in questo caso fu usato il principio di utilitas.
Nella prassi si può osservare il cambiamento avvenuto nei costumi locali
sotto l’influsso delle regole romane, tali nuovi principi furono introdotti nel
diritto romano solo nel periodo classico. Questo cambiamento rispecchia, a
quanto pare, anche la trasformazione avvenuta nel concetto giuridico romano di patria potestas. La volontà dei figli e la loro autonomia privata venivano
più e più rispettate, mentre l’antico ius vitae necisque fu praticamente abolito.
Per quanto riguarda i figli sui iuris:108 dalle fonti non risulta che il pater
potesse esercitare nei loro confronti un potere legittimo sciogliendo i loro
matrimoni. Nonostante ciò, i patres (ma come abbiamo visto anche le madri) cercavano di influenzare la vita matrimoniale dei figli emancipati sfruttando il rapporto sociale di dipendenza che restava sempre benché il legame legale venisse sciolto. Questo fatto ci può forse consentire una spiegazione della contraddizione presunta da Volterra tra il principio dell’affectio
maritalis e la prerogativa paterna di sciogliere il matrimonio dei figli. Infatti,
106 Vedi
in genere su questa tendenza nel diritto classico, F. LONGCHAMPS DE BÉRIER,
“Zakaz nadużywania własnego prawa: Male nostro iure uti non debemus” (= “Il divieto dell’abuso
del diritto proprio: Male nostro iure uti non debemus”, in polacco), [in:] J. KRZYNÓWEK & W.
WOŁODKIEWICZ (ed.), Łacińskie paremie w europejskiej kulturze prawnej i orzecznictwie sądów polskich [= I broccardi latini nella cultura giurdica europea e nella giudicatura polacca], Warszawa
2001, pp. 127-151.
107 In tal senso anche J. GAUDAMET, “Le statut de la femme dans l’Empire romain”, [in:]
« Le femme ». Recueils de la Société Jean Bodin XI, Bruxelles 1959, p. 209 (= Études de droit romain
III, Napoli 1979, p. 245).
108 Ed anche, sul fondo dei diritti greco-egizi: i casi dei matrimoni dei figlio attestati con
documento scritto.
L’INFLUSSO DELLA VOLONTÀ DEL PADRE SUL DIVORZIO DEI SOTTOPOSTI
335
non penso che le mie considerazioni costituiscano argomenti contro la teoria volterriana. Il fatto che il pater familias potesse o meno sciogliere le unioni coniugali dei figli non significa per se che i matrimoni romani non fossero fondati sull’affectio maritalis (come riteneva Volterra) e quindi non ci
costringono ad accettare la teoria del consenso iniziale. Per lungo tempo
nessuno immaginava che la volontà del figlio e della figlia si differenziassero
dal desiderio paterno. In verità, se teniamo presente che le ragazze si sposavano molto presto (più presto dei ragazzi comunque, questo forse spiega
anche il perché del fatto che ci sia un più grande numero di testi che si riferiscono alle figlie rispetto alle fonti riferentisi ai figli) vediamo che nella pratica chiedere il parere ad una fanciulla di dodici-quattordici anni era quasi
impossibile. Ancora più difficile è pensare che al parere della ragazza si
ascrivesse un peso reale. Ed, infatti, come abbiamo visto nel passo scritto
da Celso (D. 23.2.22), nel momento in cui il figlio accetta l’ordine paterna fa
sua la volontà del pater. Solo con l’andare del tempo, con l’erosione degli antichi costumi socio-religiosi della famiglia romana, si scoprì che il pater familias e il sottoposto potevano avere pareri discordanti. Il legislatore, dunque, decise di chiarire la situazione formulando le regole di cui sopra è stato
scritto.
Un’altra circostanza che si potrebbe qui rilevare, e che forse potrebbe
contribuire ad eliminare la presunta contradizione, è un fatto del carattere
più generale. In verità ci troviamo davanti a due realtà distinte, con qualche
esagerazione: la concezione giuridica romana del matrimonio non ha niente
a che fare con la prerogativa paterna che permette di sciogliere il matrimonio dei figli. Questo potere fa parte della realtà sociale, non giuridica. Il divorzio romano, come anche il matrimonio, è principalmente un fatto sociale e solo dopo un fatto legale. Solo qualche vicenda successiva, dipendente dallo scioglimento del matrimonio – come per esempio la questione
della legittimità dei figli, la successione, le donazioni, la resitutituzione della
dote –, rende il divorzio giurdicamente importante. Ed, infatti, questo è
l’aspetto caratterizzante delle nostre fonti. Il divorzio quasi mai è il tema unico dei testi giuridici, quasi sempre, infatti, il vero problema risolto dai
giuristi non è la cessazione della vita matrimoniale ma una di queste circostanze (vedi ad es. D. 25.2.11 pr., 24.1.64; 23.2.33; FVat. 106-107). Basta anche
confrontare numerosi testi consacrati alla restituzione della dote con una
336
JAKUB URBANIK
mera decina dal titolo D. 24.2: de repudis et divortis. Il divorzio come tale
non era interessante per i giuristi romani. Importanti erano soltanto le consequenze di cui era gravido.
Invece nella prospettiva della vita sociale di famiglia i matrimoni dei
figli erano una cosa importantissima. Si comprende allora bene perché il
costume per lungo tempo permetteva ai padri l’influsso sulla vita familiare
dei figli. Questa prerogativa non ebbe bisogno di appoggio legale.
Come a Roma, così anche oggi, i genitori hanno sempre i mezzi affinché
i figli agiscano secondo la loro volontà (per menzionare perlomeno quelli
sentimentali e finanziari). I testi giuridici che si opponevano allo sfruttamento di tale potere mettono in evidenza che l’esercizio della prerogativa
era una cosa molto comune. Così abbiamo da un lato il principio dell’affectio maritalis, ed dall’altro lato la realtà della vita in una famiglia patriarcale,
dove la volontà del padre è la volontà dei sottoposti.
Jakub Urbanik
Cattedra di Diritto Romano ed Antico
Facoltà di Giurisprudenza
Università di Varsavia
Krakowskie Przedmieście 26/28
00-927 Varsavia 64
POLONIA
e-mail: [email protected]