Il guSto Della rIFleSSIone e Il Frutto Della PreghIera: CerCare e

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IL GUSTO DELLA
RIFLESSIONE E IL
FRUTTO DELLA PREGHIERA:
CERCARE E TROVARE DIO
IN OGNI COSA
L’esperienza mistica
Angela Tagliafico
L’
esperienza mistica consiste nella percezione della presenza del divino. In questo consiste la cosiddetta “presenzaassenza” della rivelazione di Dio, nel duplice senso del
Suo manifestarsi, ma anche del suo celarsi: a Lui, infatti, spetta
sempre l’iniziativa.
La preghiera comprende pienamente la manifestazione di
Dio, rivelato e nascosto. Quando prega l’uomo compie un’azione umanamente impossibile, poiché parla a Qualcuno che non
sarà mai oggetto di questo suo atto, in quanto è e rimarrà sempre
soggetto, agente e creante.
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In tal senso l’esperienza mistica evidenzia da un lato il
bisogno che l’uomo avverte in sé dell’esperienza di Dio, sempre
però riconosciuta come insufficiente, mai come piena; dall’altro
sottolinea anche la sua impotenza a sperimentare Dio, che rimane sempre al di là di ciò che può essere raggiunto dall’esperienza
e dalla conoscenza umane. E proprio questa incolmabilità prova
costantemente l’essere umano nella sua intenzione di recuperare
la presenza mancante di Dio.
Questo paradosso rivela l’importanza vitale di un rapporto
con Dio che si pone sempre sotto il segno del vissuto, di un’esperienza mancante, perché incapace di essere colmata dal procedimento intellettuale.
La categoria fondante dell’esperienza mistica, dunque,
è quella della privazione; il credente è sempre in privazione di
Dio, che non raggiungerà mai, se non in una presenza mancante. Tutto ciò che l’uomo può pensare di Dio o comprendere,
non è Dio. Perché se l’uomo potesse intenderlo e comprenderlo
pienamente, con i suoi sensi e i suoi pensieri, Dio sarebbe meno
dell’uomo. Ed è tale anelito del desiderio infinito che fa sorgere
l’esperienza mistica1.
Possiamo comprendere ormai, in quale direzione deve
orientarsi un pensiero filosofico rivolto all’esperienza mistica:
non tanto nel voler razionalizzare tale esperienza, ma piuttosto
nel volerla vedere come qualcosa d’altro, del pensare e del vivere
Dio.
Non è l’uomo che cerca Dio ma è Dio che cerca l’uomo
e lo invita a un destino dialogico e comunionale. Tale dialogo
comunionale costituisce la preghiera, comprendente l’essere
umano proveniente da Dio e posto innanzi a Lui, come a Colui
che dona la Sua parola e accetta e ascolta la parola umana. In tal
senso essa è vita con Dio, ricca di mistero.
1
P. Tillich, Il nuovo essere, Roma 1967.
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La notte
La mistica quale modalità eminente della preghiera è da
sempre attraversata dalla dialettica del velare e del disvelare
della rivelazione di Dio, dall’accettazione della lotta e dalla fatica dell’oltre, che segna l’impossibile linea di continuità tra Dio
e l’uomo.
Per questo pregare non vuole dire solamente dialogare
comunionalmente con Dio, ma ancor più partecipare al silenzio,
che appartiene esclusivamente all’essere sempre più di Dio, che
dona la nostalgia dell’infinito come una spinta, che è, insieme,
sofferenza, lotta e tensione che conducono l’uomo a muoversi.
La mistica è quindi un’esperienza diretta di Dio che nulla
ha a che fare con il vago sentimentalismo alieno dalla realtà.
Piuttosto è apertura permanente all’invisibile attraverso il visibile, a Dio attraverso l’umanità: un modo di essere con Lui che è il
Tutto in ogni uomo e il prendere coscienza del Dio uno e trino
Angela Tagliafico
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Proprio in questa reciprocità di ascolto si caratterizza il
carattere fondamentale della preghiera, la quale essendo dono
di Dio non è mai qualcosa che si ferma e rimane presso l’uomo,
ma costantemente lo supera, per andare al di là di Lui. Essa
infatti, deve essere trasmessa ad altri e in tal senso è sempre sia
individuale, che sociale.
La mistica rappresenta la modalità eminente della preghiera, attraverso cui l’uomo rinnova il suo rapporto comunionale
con Dio.
L’esperienza mistica si compone quindi dell’intreccio di
due mondi: quello dell’uomo e quello di Dio, mossi dalla dialettica tra misura e dismisura, nel senso che le misure finite del dire
umano necessitano di essere raccolte nella dismisura dell’Infinito
e, nel contempo, che la dismisura di Dio ha bisogno delle misure
umane, dal momento che Lui entra nel mondo dell’uomo, così
come quest’ultimo aderisce all’invasione della Sua luce.
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presente in ogni essere umano, ai confini della conoscenza e del
mistero, del relativo e dell’assoluto, dell’azione e della contemplazione.
Se la mistica è la modalità eminente della preghiera, i suoi
tratti caratteristici sembrano essere da sempre quelli terribili
della notte, del silenzio, della lotta e della sofferenza, poiché ad
essa, tanto non può essere estranea la croce quanto, nel contempo, deve ripercorrere la storia di un abisso che è eco del silenzio
che si è avuto un giorno tra due abbandoni: «Dio mio, Dio mio,
perché mi hai abbandonato» (Mt 27,46) e «Padre, nelle tue mani
consegno il mio spirito» (Lc 23,46).
Tali abbandoni arrestano ogni tipo di riflessione e di conoscenza, che pure in alcune fasi accompagnano la mistica quale
modalità eminente della preghiera e questo per permettere
all’uomo di sperimentare uno stacco totale con qualsiasi pretesa di comprendere e condurre all’obbedienza perfetta, che nella
sua forma attiva comprende la riconsegna, volta a restituire a
Dio ciò che gli appartiene, a consegnargli direttamente il risultato di un compito.
Esplicativa a tale proposito è la preghiera formulata da
Ignazio di Loyola e posta nella quarta settimana degli Esercizi spirituali: «Prendi Signore e ricevi tutta la mia libertà, la mia
memoria, la mia intelligenza e tutta la mia volontà. Tutto ciò che
ho e possiedo: Tu me lo hai dato e a Te lo ridono. Tutto è tuo, di
tutto disponi secondo la Tua volontà. Dammi solo il Tuo amore
e la Tua grazia e questo mi basta»2.
Costitutivo della preghiera è, infatti, non tanto l’essere
esaudita, ma piuttosto l’essere ascoltata in un abbandono a Dio
che trascina l’intero contesto del mondo dell’uomo che in esso
ritrova la presenza di Dio.
2
Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 234, Roma 2004, 153.
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Il mistero e il silenzio
Il mistero non vuole dire verità in cui non c’è niente che si
possa capire, ma al contrario verità in cui c’è sempre troppo da
capire, troppo da comprendere con i soli strumenti del pensiero,
essendo il luogo che è colmato da una Presenza che è oltre la
sua possibile comprensibilità razionale, che è illuminato da una
luce ineffabile, capace di chiarificare i tratti del percorso, più che
l’oggetto in sé4.
Come possiamo esprimere il mistero se da un lato esso
sfugge a ogni presa razionale, intuitiva o immaginativa e dall’altro preme perché sia comunicato?
Inadeguatezza e dinamismo, ferita e benedizione sembrano accompagnare questo percorso, alimentato dall’alterna
esigenza dell’interiorizzazione, senza la quale il mistero si perde
in formule astratte e dall’esteriorizzazione, senza cui rischia di
diventare un viaggio dentro la propria interiorità, meramente
soggettivo.
La mistica condivide questa difficile condizione con la
teologia, visto che è chiamata a rivelare il mistero di Dio. L’au-
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Giovanni
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C.A. Bernard, Il Dio dei mistici, Cinisello Balsamo 1996.
112.
della
Angela Tagliafico
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In tal senso la mistica, quale modalità eminente della
preghiera, implica l’aprirsi dell’uomo al mondo di Dio, accogliendo il Suo sguardo dentro tutte le cose che compongono il
mondo umano. Per giungere a questo è necessario il passaggio
attraverso la notte, ben descritta da Giovanni della Croce nel suo
testo Salita al Monte Carmelo, I, 13: «Per giungere a gustare il tutto
non cercare gusto in niente. Per giungere alla conoscenza del
tutto non cercare di sapere qualche cosa in niente»3.
Croce, Salita al monte Carmelo, I,13, Roma 1991,
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tentico discernimento per verificare la serietà dell’approccio al
mistero è dato dall’impianto cristologico: il mistero è Cristo. Egli
è la rivelazione di Dio che ama, e tutta la rivelazione si compie
in Lui.
La mistica, quale modalità eminente della preghiera,
racchiude in sé tutte le scelte, tutti i valori che vengono compresi
e assunti nel mistero. Senza questa immersione in Cristo, essa
svanisce, rischia di perdersi in vuote astrazioni, in sogni di perfezionismo spirituale e in atteggiamenti soggettivistici che sconfinano in atteggiamenti narcisistici.
Fecondata invece dal mistero, la mistica scopre l’inadeguatezza del suo relazionarsi alla “tenebra luminosa” che è Dio,
secondo una significativa espressione di Giovanni della Croce. Il
mistero sovrasta sempre la mistica e ne costituisce la sua norma
assoluta.
Il mistero aiuta non tanto a familiarizzare con la lingua di
Dio, in modo da farne la base per un discorso rivolto a Lui, ma
piuttosto aiuta a disporsi con tutto il proprio essere a un ascolto
orante, che presuppone certo una comprensione e una risposta,
ma anzitutto esige accettazione e riconoscimento.
Se il rapporto tra Dio e l’uomo è dato dal reciproco intreccio di domanda, di riflessione e di risposta, anche il silenzio costituisce una forma e una espressione piena della Parola di Dio:
modalità di una presenza, di un legame organico tra la creatura
e il Creatore.
Il tacere delle parole umane è la necessaria preparazione
alla percezione del mistero di Dio e nel contempo costituisce lo
spazio necessario entro il quale lasciar parlare la profondità della
Parola divina che nessuna parola umana può esaurire.
Nella mistica, dunque, il silenzio è l’ossigeno che riempie i
polmoni, il respiro che rende sano il ritmo della comunicazione.
Nel silenzio l’anima raggiunge il centro del mistero e tale silenzio
è il presupposto di ogni dialogo e di ogni sua continuazione tra
Dio e l’uomo sua creatura.
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Il linguaggio della poesia si situa tra l’io e il Tu, frapposti
da una distanza che induce i mistici a cantare, soprattutto, l’assenza di Dio, che dice il desiderio di cui l’uomo vive, nel quale
l’assenza di Dio non dimostra il nulla del Suo essere, ma il mistero di un essere prossimo in modo inafferrabile.
La poesia si dirige a qualcuno, vuole raggiungere un altro
e di questo ha bisogno; ricerca il faccia a faccia attraverso cui
chiamare e invocare l’incontro, percependo con dolore il luogo
dell’assenza.
Essa costituisce un dialogo che impone l’ordine della
comunicazione anche verso il mistero che appare assente, avvolto dalle tenebre e immerso nella fatica di un difficile incontro.
L’essenza della poesia è custodire il mistero dell’assenza
di Dio, che l’uomo sperimenta in modo tragico, sopportandola e captandola come qualità essenziale del divino. Egli vive la
presenza-assenza di Dio, dove l’esperienza del divino è come un
lampo che buca le tenebre.
La mistica quale modalità eminente della preghiera
comporta non tanto il parlare di Dio, ma parlare a Dio. Lui è il
tu, verbo e sostanza di ogni parola.
La coscienza di ciò fa esplodere la poesia di Edith Stein
che diviene preghiera, nel testo La mistica della croce: «Tu più vicino a me di me stessa, a me più intimo dell’anima mia, eppure
intangibile e che di ogni nome infrangi le catene».
La fiducia di sentirsi al sicuro in Dio non annulla in Edith
il senso della distanza che si insinua dentro la preghiera e che si
esprime in domande radicali, a cui nessuna risposta umana può
conferire senso.
La preghiera non è mai pacifica relazione al mistero di Dio
che chiama, ma domanda incessante, non solo sul destino eterno
del mondo, ma anche sul senso di un amore infinito, intravisto
e mai interamente posseduto. Scrive in maniera mirabile Edith,
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La poesia, linguaggio della mistica
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nell’opera già citata: «Tu vieni e vai, ma in me lasci un seme che
è un pegno di futura gioia, seme nascosto nella carne mortale»5.
Pur essendo segnata dal peso e dal limite dell’umana natura, la preghiera si scioglie in canto quando intuisce che in Dio si
raccoglie il puro suono di tutte le cose e riesce a dilatarsi verso
quell’oltre che segna la grandezza del dono ricevuto.
La fonte della mistica quale modalità eminente della preghiera
La fonte della mistica è Dio, essa è un regalo Suo, e non
solo dona ciò che si desidera, ma fa desiderare ciò che dona,
rende capace di amplificare lo sguardo verso il cielo, inserendosi
nel sempre più, il magis ignaziano, di Dio6.
La mistica modalità eminente della preghiera si può definire come un dialogo in cui continuamente si progetta e si esegue.
La fonte originaria della mistica è Dio e Lui nella sua vita trinitaria. Essa sarebbe oscura per noi e anche inaccessibile, se non
fosse riflessa nell’incarnazione del Figlio. Solo osservando come
il Figlio, incarnatosi, vive il suo rapporto con Dio, impariamo a
conoscere la vita intradivina.
L’atto del pregare è quindi immersione nella rivelazione
incarnata del Figlio e insieme è invito a una conversione, a un
passaggio verso l’essenzialità, verso la radicalità, verso la semplicità dell’incontro: verso il proprio centro.
Tale centro esiste già ed è l’intimità dell’uomo, che necessita di essere sempre preparata e disposta nuovamente. Più l’uomo
si avvicina a questo centro e più percepisce il fatto che è sempre
Dio che ha l’iniziativa, in tal modo la preghiera è sempre all’inizio, giustificata da un carattere di originarietà che vuole un
consenso e una obbedienza totali.
5
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E. Stein, La mistica della croce, Città del Vaticano 1982, 73.
A. von Speyr, La preghiera è mondo, Città del Vaticano 2002.
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La mistica modalità eminente della preghiera vuole l’obbedienza, come necessario adeguarsi a una legge interna, data
dall’imitazione all’amore di Dio uno e trino. Amore che vuole
creatività ma esige l’adesione a un ordine e il rigore di una disciplina, l’obbedienza appunto, capace di rispondere pienamente a
tale amore integrale.
La vita di Cristo è stata un susseguirsi di obbedienze al
Padre e le stesse parole di Gesù in croce sono nuove fondazioni
di obbedienza per gli uomini e totale dono di sé. E proprio qui
Dio si rivela, mentre lascia un vuoto e in questo vuoto giunge la
professione di fede del centurione: «Veramente quest’uomo era
Figlio di Dio» (Mc 15,39).
Figura della preghiera obbediente è sicuramente Giovanni
della Croce, che percorre il cammino dell’obbedienza nel rigore
di una notte assoluta. Senza via di uscita e senza speranza, come
un cieco che procede a tastoni con le mani che non incontrano
nulla a cui potersi appigliare e con cui orientarsi.
Obbedienza nella persecuzione, nella calunnia, nel dolore,
molto vicini alla croce, nella piena accettazione delle tenebre. In
questo Giovanni della Croce rimane saldo con la sua fede, nella
quale l’obbedienza si cela. La notte della fede è totale e non è
possibile scorgere alcun frutto del suo lavoro e della sua sofferenza. Dio necessita proprio di tale obbedienza notturna per fecondare il mondo e la Chiesa.
Sorge un parallelo con la notte attraversata dal teologo
luterano Dietrich Bonhoeffer e che egli ha ben descritta nella sua
Preghiera del mattino: «In me c’è buio, ma in Te c’è la luce; io non
capisco le Tue vie, ma so che Tu la mia via la conosci. Qualunque cosa rechi questo giorno, Signore, il Tuo nome sia lodato»7.
D. Bonhoeffer, Scritti scelti, Brescia 2008, 56.
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Il frutto della preghiera
La preghiera, secondo la celebre definizione di Teresa
d’Avila, riportata nel suo libro della Vita al capitolo 8 è: «Un
rapporto intimo di amicizia, un frequente intrattenersi da solo
a solo con Colui che sappiamo ci ama»8. A lei pare collegarsi
anche Ignazio di Loyola, laddove nella prima settimana degli
Esercizi spirituali afferma che la preghiera è «il colloquio che si fa
propriamente parlando, così come un amico parla ad un altro
amico»9.
Dunque, la preghiera è proprio il mezzo specifico per
collegare l’uomo verso l’alto, per superare la distanza tra due
mondi, per ristabilire quella relazione fruttuosa che il peccato ha
rotto ma che la missione salvifica del Figlio ha restaurato.
La mistica vive certo la lacerazione tra cielo e terra e avverte la tensione della distanza tra Dio e l’uomo. Essa si muove sia
dalla terra al cielo, sia dal cielo alla terra e questo perché Cristo,
il Figlio di Dio, ha per sempre riunito i due mondi che ormai non
possono più vivere distinti.
Il frutto della preghiera, allora, non è dato solo dal suo
cammino ascensionale, che da questo mondo sale verso Dio, ma
anche dal percorso inverso, che prevede il cammino dal cielo alla
terra. Significativa al riguardo è la figura di Teresa di Lisieux,
che non ha tanto aspirato a portare la terra nel cielo, quanto
il cielo sulla terra, a fare cioè, del cielo, il luogo dell’azione e
dell’impegno per la terra10.
Questa caratteristica della preghiera della quale la mistica
è modalità eminente, è quella maggiormente volta a evidenziare
Teresa d’Avila, Opere, Roma 1996, 48.
Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 54, Roma 2004, 69.
10
Teresa di Lisieux, Storia di un’anima, Roma 1996, 309.
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il carattere dinamico che punta all’azione e alla missione, quali
forme dell’esistenza cristiana.
Sosteneva Teresa di Lisieux nella sua Storia di un’anima al
numero 310: «Conto di non stare inattiva in cielo»11. Il frutto
della preghiera, allora, risiede dove si incontrano due esigenze,
creando un dinamismo di vita alimentato dalla doppia azione
dei beati dal cielo sulla terra e dei non ancora beati dalla terra
al cielo.
Si configura, quindi, una nuova forma di santità, come
bisogno del mondo, come modo originale di adesione alla
missione del Figlio di Dio. Ecco la concezione dinamica della
comunione dei santi che lega cielo e terra, già trasfigurata in
Cristo redentore e non ancora pienamente realizzata nella storia
della Chiesa pellegrinante.
La ragion d’essere dei santi risiede proprio in questo loro
“essere maggiormente di Dio”, nella permanenza del divenire
sempre di più; in questa molla dinamica che li spinge a porsi
fuori di sé, sempre in avanti.
I santi non sono i migliori, o coloro che raggiungono da
soli la perfezione attraverso pratiche ascetiche complicate e
percorsi individualistici, ma sono uno schiudersi del mondo di
Dio, una forma del soffio dello Spirito Santo e la prova della
complementarietà di due piani, quello soprannaturale e quello
naturale, nella cui orbita ogni uomo è chiamato a vivere.
Il frutto della mistica quale modalità eminente della
preghiera, quindi, è cogliere la vita stessa del credente, come
una intima correlazione tra il soffio di Dio e il respiro dell’uomo.
Non è chiesto, infatti, all’uomo, di ascendere a Dio attraverso
particolari esercizi, ma di aprire a Lui lo spazio nel quale il Suo
mondo può abitare.
Ibid., 310.
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Tale preghiera quindi, altro non è che lo schiudersi dell’uomo al mondo di Dio, accogliendo il Suo sguardo dentro le cose
che compongono il mondo, cercandolo veramente e trovandolo
in tutto quello che lo circonda e conseguentemente, amandolo
e servendolo in tutto, concretamente più nelle opere che nelle
parole.
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