Mercenario Gheddafi

Transcript

Mercenario Gheddafi
I CORIMBI
72
© Copyright 2012
by Avagliano Editore Srl
Viale dell’Esperanto 71 • 00144 Roma
www.avaglianoeditore.it
ISBN 978-88-8309-366-1
Prima edizione: novembre 2012
Hanno collaborato alla realizzazione
di questo libro:
Gianni Bonfiglio
(Direttore)
Daniela D’Angelo
(Editing)
Michela Boccalini
(Copertina e impaginazione)
Global Print S.r.l. - Gorgonzola (MI)
(Stampa)
Questa storia è opera di fantasia.
Ogni riferimento a fatti e a persone è da ritenersi
puramente casuale.
In copertina: l’Editore si rende disponibile agli aventi diritto.
Serena Frediani
Memorie
dall’innocenza
A Federico e Riccardo,
con amore
e a coloro che hanno perso
qualcosa di importante
Se l’oblio mi avesse purificato
se avessi avuto un sasso nel petto
se fosse stato l’acciaio a palpitare nel mio cuore
avrei dimenticato
e strappato le pagine nere.
M. al-Faytūrī
PRIMA PARTE
Il giorno in cui la mia vita cambiò era il 17 ottobre
2006.
La metro affollata tagliava la mattina, portandosi
dietro i grandi spostamenti umani di uffici e affari.
Quella mattina avevo allungato il tragitto per vedere un fornitore e dopo l’incontro tornavo indietro,
ad aprire il mio negozio.
Seduta in treno, Song to the siren nelle cuffie e lo
sguardo distrattamente deposto sulla mia mano, abbandonata sul ginocchio.
Ad un tratto una scossa violenta. Visualizzavo ancora la mano vibrare assieme alle mie gambe, dopo
una frazione di secondo scrosciò un rumore metallico,
infernale. Sollevai lo sguardo: i passeggeri in piedi
precipitavano gli uni sugli altri, alle note di Tim Buckley si erano sovrapposte grida e, immediatamente
dopo, cadevo a terra anche io.
Il treno successivo, alla fermata di piazza Vittorio,
si era schiantato contro il convoglio sul quale mi trovavo. In quell’incidente una donna morì, io e altre centinaia di persone fummo ferite.
Tra loro c’era il mio destino, era lì, di fianco a me,
riverso sul pavimento di una corsa sfortunata.
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“Se non mi dici che mi sposi giuro che mi butto!”
Questo è Tommy. In piedi sopra tre metri di vuoto,
sguardo che si impone intimidatorio su un visetto propiziante, ciondola, in attesa della risposta di Daria.
In questo momento ha nove anni ed è più grande di
lei di tre mesi: abitano nello stesso palazzo, da sempre,
e ogni giorno, da sempre, giocano nel cortile alla ricerca di tesori e segreti.
A volte Tommaso vuole impressionarla portandole
qualche lucertola, ma lei urla e scappa, lui la insegue
mentre sghignazza e giura che non lo farà più.
Da un po’ di tempo le dice di volerle bene e che
vuole fidanzarsi con lei, ma Daria, figuriamoci, non ci
pensa proprio. È testardo e non si arrende. Prima ha
provato a convincerla con bigliettini, disegni e fiori
colti in giardino, ha persino comprato un peluche con
i risparmi del salvadanaio. Non ottenendo nessun cambiamento con le buone, è passato alle cattive. Ha iniziato coi dispetti, e questa fase è durata per qualche
giorno. Le parla con toni sgradevoli, le tira i capelli, le
scaglia addosso il brecciolino con la cerbottana. Col risultato di averla soltanto infastidita. Allora ha cambiato
tattica: ha smesso di farsi trovare in giardino e, dopo
una settimana di assenza, quel giorno è ricomparso
così, con l’espressione accentata da un sorriso di sfida,
a guardarla dall’alto - troppo alto - in piedi, con le braccia dondolanti e le gambe perennemente sbucciate,
sulla costruzione che ospita la caldaia condominiale.
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“Se non mi dici che mi sposi giuro che mi butto!”
“Smettila e scendi!” lo implora, e dalla paura le si
mozza il fiato.
“Non stai promettendo quello che ti chiedo! E allora… - interrompe la frase e cambia posizione, accenna una genuflessione e fa roteare le braccia, poi
prosegue - …mi butto!”
“No! - grida la ragazzina, mentre vede che sta per
staccare un piede dal cornicione - E va bene, ti sposo,
ti sposo!” gli urla disperata.
Si immobilizza, e a quel punto sgancia un sorriso
vincente.
“Lo giuri?”
“Sì, sì!”
“Bene, allora siamo intesi!”
“Ora scendi!”
E, mentre tutto contento fa per prendere la scaletta,
si calpesta i lacci della scarpa, inciampa, e, nonostante
abbia estorto la promessa di matrimonio, vola, atterrando due metri e mezzo più in basso.
Eccolo lì, Tommy, rimboccato nel materasso 5, ha
la caviglia sinistra ingessata, una fasciatura dal collo
fino al braccio sinistro, e una benda sulla fronte. Tutti
e due non sanno nulla di ospedali, e quella è la prima
volta che ci entrano. Daria ha voluto subito andare a
trovarlo, e mentre attraversa il corridoio fino al reparto
di traumatologia, le sembra una costruzione enorme,
serissima e impregnata di uno strano odore.
Quando Tommy la vede entrare tira fuori uno
sguardo da campione.
Lei gli si avvicina, vergognandosi come fosse colpevole, nota su di lui qualche abrasione ancora vermiglia e la sua fronte si corruga per la pena.
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“Come stai, Tommy? Ti fa male?” chiede, e gli fa
una carezza alla mano.
Tommy solleva la spalla destra e storce i lati della
bocca per dire di no.
Poi le dice, tutto soddisfatto:
“Ti ho visto che piangevi prima, allora vedi che mi
vuoi bene anche tu?”
Lei lo guarda ancora con gli occhi sgranati, senza
aggiungere altro.
“E guarda che ormai hai promesso che mi sposi!”
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Era trascorso un mese dall’incidente alla metro.
Stavo bene: ne ero uscita con la sola distorsione del
braccio destro, ora in via di totale guarigione.
Non avevo subìto traumi cranici. Tuttavia sotto
terra quel giorno mi era accaduto qualcosa. Una spaccatura d’insieme che non aveva radice fisica, ma che
da quell’episodio aveva trovato la scusa per saltar
fuori dal suo starsene lì, acquattata e silenziosa, a brucare zone dell’anima che avevo reso fino ad allora insensibili. Uscii da quell’incidente con un braccio
ingessato e la genesi di un’ineluttabile ribellione cerebrale, dichiarata da un quid, che, per cambiare la mia
vita, iniziava sottraendomene un pezzo.
Me ne andavo dall’ospedale ricordando solo il momento dell’impatto e gli istanti seguenti, ma nulla del
resto, eccetto frammenti sfocati.
Non mi ero resa conto immediatamente di questa
amnesia.
Era come se quella frattura, una volta prodotta la
crepa, si fosse addormentata un’ultima volta. Per le
prime settimane avevo avuto qualche episodio di panico notturno, e provavo una grande ansia ogni volta
che scendevo in metropolitana. Tolto questo, il lato lucido dell’esperienza non ospitava altro che la pena per
coloro che erano con me quella mattina ed erano stati
meno fortunati.
L’altro lato, fratturato e invisibile, si stava svegliando.
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Il giorno del risveglio ero in negozio, avevo appena
ritirato le stampe e le conteggiavo, e dovevo esporre
in vetrina gli accessori appena arrivati tra le forniture.
La mia situazione finanziaria era in discesa da mesi
e non accennava recuperi. Stavo pensando seriamente
di lasciare l’attività perché le spese erano maggiori del
guadagno. Erano sorti altri due negozi di fotografia e
ottica in linea d’aria vicino alla mia attività, lungo la
via Appia Nuova, ed erano quindi più visibili rispetto
al mio, che si trovava in una strada secondaria. Erano,
inoltre, di impronta molto più commerciale mentre il
mio manteneva un taglio più elitario, per appassionati
e affezionati. A conti fatti e rifatti, la dura verità era da
accettare e ingoiare amaramente. Mi mancava tuttavia
il distacco, o forse il coraggio di avviare le procedure
per cedere o vendere il negozio.
L’attività mi era stata lasciata da mio nonno Antonio.
Pensavo sempre a lui, era stato con me per venticinque anni e quello era il suo laboratorio fotografico;
l’unica cosa che mi rimaneva di lui.
Nonno era un genio, credeva fermamente nel potere delle immagini, nell’interezza della realtà che esiste in un solo scatto di visione parziale, al punto di
essere un rivoluzionario in questo. Una sua fotografia
della guerra fu pubblicata su un numero del Life, e da
quello scatto la sua passione ebbe consistenti gratificazioni e conferme.
Le mostruosità vanno documentate e non nascoste,
diceva. Nonno aveva iniziato subito a collaborare con
l’Ansa e con alcuni quotidiani che usavano la sua professionalità per accompagnare con immagini gli articoli di denuncia. Dopo qualche anno trascorso a
lavorare per giornali e riviste, e quindi spesso in giro
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per il mondo, si era innamorato, e in breve tempo
aveva deciso di mettere nuove radici alla sua vita. Si
sposò con mia nonna e avviò il laboratorio fotografico,
decidendo che avrebbe reso servizio anche alla bellezza e alla dignità del quotidiano.
Tra gli anni ’50 e ’70 aveva raccolto centinaia di
foto meravigliose, da lui personalmente scattate e sviluppate. Affermava che dopo aver visto quello che si
vede in guerra, tutto il bello che c’è al mondo andasse
espresso e immortalato, come per riscattare certe bestialità umane e scolpire un monito imperituro: la capacità di poter fare anche il bene.
Mia nonna custodiva tutti i suoi lavori, lui si adoperava totalmente negli scatti ma non aveva alcuna dedizione nel conservarli, e grazie a lei ora erano tutti
ben archiviati in due grandi faldoni riposti nell’armadio. Li ho trovati una volta, la prima volta, che avevo
tredici anni: alcuni ritagli provenivano da millenni fa,
pagine ingiallite, così diverse dalla rappresentazione
attuale della realtà, pagine macchiate, dall’odore acre
ma accogliente come un vecchio e dolcissimo ricordo.
Sfogliarlo e rimanere attratta e incantata, appassionatamente rivolta alla comprensione, alla conoscenza del
meccanismo dell’immagine, mi mise immediatamente
in contatto con un ardore che non conoscevo, e chiedendogli di insegnarmi a usare la sua Canon A-1 compresi che avevo ereditato quella passione da lui.
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La porta si aprì.
“Salve.”
“Buongiorno!”
Lo avevo riconosciuto. L’uomo ferito accanto a me
il giorno dell’incidente ora era in piedi nel mio negozio.
Ero stupita di aver messo di colpo a fuoco: avevo cancellato tutto dell’incidente, pensavo che per qualche ragione quel file fosse stato espulso in modo permanente
dalla mia memoria, invece, alla sola vista di quella persona riuscii a collocarla perfettamente al suo posto negli
eventi. Fui sorpresa di rivederlo, e non intuivo se fosse
capitato per caso nel mio negozio o se fosse venuto a
cercarmi intenzionalmente. Me lo disse un attimo dopo.
“Ho pensato spesso di venirti a trovare. Volevo ridarti questo.”
Si avvicinò alla mia mano e la riempì con il mio
lettore mp3.
“Ah! Grazie! Credevo di averlo perso…”
“Invece l’ho trovato tra i miei oggetti all’uscita
dell’ospedale.”
“Ti eri ferito allora?!”
“Sì - mi guarda esitante - non ricordi?”
“No, mi dispiace, non ricordo nulla.”
“Ma di me ti ricordi!”
“Sì, è strano. Ho rimosso qualunque volto, qualsiasi
immagine. Soltanto di te mi sono ricordata.”
Mi guarda, e sembra pensieroso.
“Ricordo solo il tuo viso: so che eravamo vicini durante l’incidente e in ospedale. Non ricordo nulla di più.”
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Sembra deluso, dispiaciuto.
“Come hai fatto a rintracciarmi? - gli chiedo - Non
conosci nemmeno il mio nome, voglio dire…”
Si avvicina di nuovo alla mia mano e indica l’adesivo pubblicitario del negozio, incollato nel retro
dell’iPod.
“Ah!” esclamo.
Fa un simpatico cenno con il capo.
“Be’, come stai?” gli chiedo allora.
“Bene. Tu, sei guarita?”
“Sì, grazie. Sto bene anche io.”
Rimaniamo qualche istante senza dirci nulla, senza
per questo provare imbarazzo.
Da subito si è distratto per via delle foto attaccate
alla parete, e ora le guarda attentamente. Le guarda
con un’accuratezza più che professionale.
“Sono molto belle.”
“Grazie, è mio nonno che le ha scattate.”
Si sofferma su un ingrandimento, sviluppato sia a
colori che in bianco e nero, posto al lato della cassa.
È uno scatto meraviglioso sulla vetrina di un fornaio,
nel 1959.
“Si intitola Pane” gli dico.
E mentre lo dico penso a quante volte nonno mi ha
ripetuto quella frase… “Sai qual era il mio sogno in
guerra, durante la prigionia? Di fare abbuffate di
pane…”
Mi viene spontaneo sorridere, perché mi riappare
negli occhi l’immagine di quante volte l’Alzheimer lo
trascinasse a ripetere le cose, a rivivere i ricordi più
antichi come fossero freschi, e come certe epoche continuassero a essere presenti nelle nostre vite grazie alla
sua crudelissima malattia, che dolcemente accudiva
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fotografie in bianco e nero selezionate nella sua memoria, eliminandone molte altre a colori.
Io mi sono persa in questo ricordo, ma lui lascia
proseguire lo sguardo dalle foto direttamente ai miei
occhi e mi riprende nella realtà.
Sembra che voglia continuare a cercare, a guardare.
Mi dice:
“Io sapevo dove trovarti.”
Rimango invischiata tra quelle parole e il suo
sguardo, la mia naturale durezza non sa opporre resistenza al calmo magnetismo che da lui nasce, spontaneamente mi attraversa e che mi sembra di aver già
ospitato in un’altra era, come un déjà vu.
“Io conosco il tuo nome - continua - e tu conosci il mio.”
Chiudo gli occhi, davanti a lui. Mi porto indietro…
Mano sinistra sul ginocchio, mano sinistra che
trema, rumore infernale, cado a terra, lui è accanto a
me sul pavimento. Poi più niente…
Buio, non riesco a rintracciare il momento successivo.
Il mio sforzo mnemonico viene interrotto dalla
porta, che si apre per due volte di seguito, portando di
fronte a me due clienti.
Lui fa spazio e si avvicina all’uscita, gli dico non
preoccuparti, puoi rimanere, e lui no, sta’ tranquilla,
torno domani, e mi saluta con il suo movimento lunato
del capo.
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Indietro.
Mano sinistra sul ginocchio, mano sinistra che
trema, rumore infernale, cado a terra, accanto a me
c’è lui, supino, sul pavimento.
Buio.
“Ti puoi muovere?” mi chiede.
“Penso di sì. Tu puoi muoverti?”
“Non lo so, credo di avere qualcosa alla gamba.”
Abbasso lo sguardo verso le sue gambe, e mi rendo
conto che la destra è rimasta incastrata sotto una fila
di sedili.
Non si vede quasi nulla, le luci sono intermittenti,
si solleva un fascio di urla e non si capisce cosa stia
succedendo.
Alla mia sinistra ci sono due ragazzi che si danno
una mano per rialzarsi, sento qualcuno piangere non
lontano da me, ma non vedo… Non capisco da dove
provenga il lamento, che si confonde con altre grida,
altri suoni ferrosi. Lui però lo vedo bene in viso. Ha
folti capelli, scuri come gli occhi, la sua bocca sottile
si sbilancia verso destra.
“Come ti chiami?”
“Jean.”
Le urla, i pianti e il disordine metallico sono tutti
intorno a noi. Non sappiamo se quello che è appena
accaduto sia finito o se ci inghiottirà di nuovo. Non
mi importa. La mia reazione ha risucchiato via qualsiasi altro dato, mi concentro sulla realtà, umana e vicina a me.
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“Che bel nome. Sei francese?”
“A metà! Mio padre era francese, mia madre
italiana.”
“Piacere Jean - stringo la sua mano - io sono
Daria, e ora ti aiuto.”
Altro rumore, tremore del pavimento. Grida.
Di nuovo buio.
Buio.
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“Jean!” lo accolgo appena entra e immediatamente
vengo travolta da un lascito emotivo intenso.
“Ciao Daria” la sua espressione di sorpresa rimarca
i nostri nomi, spuntati da una memoria riaffiorata prodigiosamente.
“Vieni, accomodati. Oggi è una mattina molto
fiacca.”
Gli preparo una sedia a fianco alla mia, dal mio lato
del banco. Non capisco il motivo, ma sono scossa e la
tachicardia ne è la dimostrazione.
Sono sicura che se Jean è ora davanti a me ed è tornato a cercarmi per due volte non è per cortesia, ma
deve esserci una ragione, che per lui, che chiaramente
vede tutti gli elementi, deve essere trasparente. La nitidezza dell’insieme per me invece è invisibile, ancora
mi sfugge. Una raffica di domande sta per tuffarsi
dalla punta della gola. Le trattengo tutte, non sapendo
quale sia quella giusta tra tante che si accodano al
trampolino.
Chiedo solo:
“Come va la tua gamba?”
“Ehi, quante cose ti sei ricordata!”
“Sì, è incredibile! Avevo provato tante volte, dopo
l’incidente, a ricostruire i passaggi. Sono stata in terapia
per questo motivo, ma senza nessun risultato. Invece
ieri mentre te ne andavi ho rivissuto qualcosa, all’improvviso. Non vedo ancora tutto, ma solo una parte
molto piccola, i primi momenti successivi allo scontro.”
“Poco per volta ricorderai.”
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“Tu ricordi tutto?”
“Io sì.”
Mi guarda dritto negli occhi, sembra voler travasare
dentro di me il ricordo di ciò che abbiamo vissuto.
“Hai voglia di un caffè?”
Glielo preparo con la macchinetta dell’espresso. Lo
prende amaro.
È un uomo di buone maniere, ecco la sua prima
qualità. Salta all’occhio perché la sua non è soltanto
educazione, possiede piuttosto una gentilezza sincera,
un garbo pulito e aperto che emerge più palesemente
per quanto questo tipo di compostezza sia raro.
“Fumi?” gli domando.
“No, non sono mai stato capace.”
“Uh! Che fortuna che hai - gli dico, strizzando un
occhio e tiro fuori il mio pacchetto dalla borsa - Mi fai
compagnia per il tempo di una sigaretta?”
Usciamo e ci sediamo sulla panchina, sul marciapiedi di fronte al negozio. Non fa troppo freddo e la
luce è quella giusta.
“Lo so che lavoro fai?”
Risponde subito di sì, e dal suo sorriso intuisco che
la mia domanda deve essergli sembrata molto buffa.
“Dimmelo ancora” chiedo, mentre accendo e
mando giù il primo tiro.
“Sono giornalista.”
“Per quale giornale lavori?”
“Scrivo per L’Express.”
Lo guardo con profonda perplessità.
“Ma… non è un giornale francese?”
“Sì. Ho abitato a Parigi per dodici anni, sono tornato da pochi giorni a Roma. Fino alla fine di novembre sono ancora dipendente di quel giornale.”
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Cerco di sforzare il ricordo, ma nulla.
“Quel giorno avevo un colloquio per un lavoro qui.”
“E lo hai perso…”
“Sì, ma ho avuto occasione di rimandarlo. È andato
bene.”
“E di cosa scrivi? Economia? Politica?”
“Mi occupo di politica estera. Sono inviato di guerra.”
“Complimenti, che lavoro coraggioso ti sei scelto.”
Lo guardo con profonda ammirazione.
“Sono tornato dal Sudan da poco.”
“Sei stato nel Darfur?”
“Sì, sia lì sia a sud del Paese. Diverse volte negli anni.”
“E… com’è?” gli domando, presa da troppe volontà
di conoscere, ma pentendomi immediatamente di una
domanda così ridicola.
“È sempre peggio…”
Il suo sguardo sbiadisce dietro un’avaria di frammenti acuminati.
Prende il portafogli dalla tasca, lo apre ed estrae
due fotografie.
“Guarda” mi dice, mostrandomene una.
Ossa ferocemente esposte di una bambina dalla bellezza struggente, con addosso un abito giallo e uno
sguardo ferito, tuttavia fiducioso.
“Lei si chiama Lubna, è una ragazzina dinka. I genitori sono spariti dopo una delle tante sanguinose rivolte. Qualcuno dice che il padre sia entrato nell’esercito popolare per la liberazione del Sudan, altri
pensano che siano morti entrambi, per altri ancora
sono diventati schiavi. Forse hanno cercato rifugio ai
confini. Chissà. Lei, intanto, da più di due anni è rimasta sola con suo fratello.”
Non mi sforzo neppure di trovare parole da aggiungere.
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“Lui… non so come si chiama” mi dice, mostrandomi l’altra foto: un ragazzino, non maggiore di dieci
anni, che tiene in spalla un kalashnikov, o un’arma simile. Mi guarda, e cogliendo la mia pena, mette subito
fine all’argomento.
“Ora basta però, sono stanco di vedere tutto quello
che si vede.”
“Vedere quello che si vede - ripeto - È quello che
diceva mio nonno quando parlava delle tragedie e
della guerra.”
Mi chiede di mio nonno e gliene parlo. Gli mostro
una foto, sorride alla vista dei suoi baffi: aveva un gran
bel paio di baffi! Gli dico che aveva anche un carattere
spigoloso eppure io e lui eravamo uniti dalle stesse
corde, mi leggeva l’anima.
Era nato povero, da una famiglia di contadini, era
l’ultimo di undici figli. Aveva lavorato sempre, anche
quando andava a scuola, aveva solo diciassette anni
quando era scoppiata la guerra, aveva vissuto quattro
anni in prigionia dapprima in Africa, dove aveva lavorato al porto di Tripoli, poi in Francia, a Marsiglia.
Era sopravvissuto alla fame, al peso infinito della tragedia armata.
Dopo la guerra, aveva costruito solo con le sue
forze il piccolo palazzo di tre appartamenti nel quartiere Trionfale, dove con mia nonna e la nostra famiglia abbiamo vissuto insieme, e dove ora, da quando i
miei nonni sono morti, vivono i miei genitori e mia
sorella con la sua famiglia.
Aveva scelto di mettere in piedi un’attività per dedicarsi alla passione della fotografia, comprando da
un caro amico il piccolo negozio a San Giovanni, e
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trasformandolo in laboratorio fotografico. Ha lasciato
a me quell’eredità assieme alla piccola casa dove ora
abito, a Largo dei Colli Albani, che era appartenuta a
Maria, una delle ultime sorelle rimaste in vita.
Jean mi ascolta. Mi dice che abitiamo nella stessa
zona.
Getto la cicca e mi alzo in piedi. Lui rimane seduto
e mi guarda. Affonda gli artigli del suo sguardo sul
mio volto. Poi lo sguardo scende, per un attimo fruga
sotto il mio cardigan. Mi ha guardato di nuovo in viso,
e infine ha abbassato gli occhi.
Non ho provato alcun imbarazzo, ma lui evidentemente sì.
“Devo tornare dentro, ora, a far finta di avere
un’azienda con dei clienti.”
Sorrido.
Entra con me, prende la sua giacca.
“Ora me ne devo andare.”
Rovista in una tasca ed estrae il suo biglietto.
Lo lascia sul banco.
“Ecco - dice - così mi puoi rintracciare… se ti viene
in mente il resto, se hai bisogno di un supporto.”
“E se non mi ricordassi più niente?”
È già arrivato alla porta, ha già afferrato la maniglia, si volta verso di me.
“Mi ricorderò io.”
La sera, tra la rivista di fotografia digitale e la tisana, tra le mie dita correva il suo biglietto. E il suo
nome. Jean Arcand.
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Tommaso ha 11 anni.
È in prima media, è in classe con Daria. Non siedono allo stesso banco perché le ragazze, si sa, vogliono stare vicine tra loro. Ma lui è appagato: può
guardarla e parlarle quando vuole.
Un giorno arriva a casa e gli dicono:
“Tommy, è nato tuo fratello Gabriele.”
Il ragazzino sale a casa di Daria prima di andare in
ospedale. Un fratello è l’evento più grande che gli sia
capitato e lui senza Daria non sa viverlo.
“Vieni con me, in ospedale? Non voglio vederlo da
solo.”
“Ma che dici, è tuo fratello!”
“La fai facile! Quando tu sei nata, Giorgia c’era già
da un bel pezzo e mica hai dovuto vedere pannolini e
sentire urla e puzza di latte tutto il giorno!”
“Ma certo che sei strano forte! - gli risponde infilandosi il cappottino - Nemmeno tu sai che vuol dire
avere un fratello, ancora, e già sai tutto!”
Mentre arrivano al reparto, Tommy si volta verso
Daria, che nasconde un imbarazzo dolce, per la timidezza di trovarsi protagonista in una circostanza non
famigliare, e lui invece sorride, con il suo sguardo da
campione.
La prima volta che vedrà una vita appena esposta
al mondo sarà quella, e al suo fianco ci sarà la sua
amica, che ama più di tutto ciò che conosce.
“È lui, lì, al letto 16.”
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Il padre di Tommaso, in preda a una commovente
euforia, indica, in mezzo alla nursery, proprio quel
bambino che strepita più di tutti.
Daria rimane a bocca aperta.
“Com’è carino!”
Tommy le prende una mano e avvicinandosi al suo
orecchio le dice:
“Cominciamo bene!”
E mentre lei inizia a ridere, lui resta in contemplazione, un po’ di suo fratello, e un po’ della ragazzina
che gli è accanto.
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“Come ti chiami?”
“Jean.”
“Che bel nome. Sei francese?”
“A metà! Mio padre era francese, mia madre è italiana.”
“Piacere Jean - stringo la sua mano - Io sono
Daria, e ora ti aiuto.”
Altro rumore, tremore del pavimento. Grida.
“Ti fa male?”
“No, non sento quasi dolore.”
“Ce la fai ad alzarti?”
“Ci provo.”
Lo aiuto a tirarsi in piedi. Le grida si diradano, le
mie orecchie sono concentrate solo sulle sue parole.
Intravedo, mentre si solleva, la sua smorfia di
sforzo e dolore.
Poi più voci mi giungono da una pluralità di sorgenti: È un attacco! Sono terroristi? Che succede?
Io assurdamente non mi sono posta nessuna domanda, ho creduto che fosse arrivata la fine, forse,
o forse nemmeno quello. Non provo nulla, ecco, se
non la convinzione di concentrarmi sull’oggetto:
credo in quello che ho davanti agli occhi, Jean in difficoltà, devo aiutare lui, il resto è fuori fuoco, non mi
interessa.
Quella mattina indosso gli stivali con un cenno di
tacco. Lui è appena più alto di me, lo lascio appoggiare alle mie spalle, lo sostengo con un braccio. L’altro è penzoloni, intorpidito. Non provo alcun dolore
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ma mi sembra di patire il suo corpo. Sensazioni fallaci
e beffarde.
Tira fuori dal taschino la pochette, e l’accosta al
mio naso.
“Stai iniziando a sanguinare” mi dice con un filo
di voce. Ha una voce tagliente e rauca.
“Ah, non è niente.”
Lo guardo dal buio innaturale di un giorno sotto
terra.
“Ti stai sforzando a stare in piedi. Guarda, lì c’é
un posto a sedere!”
“Non preoccuparti, ecco, appoggiamoci qui!” mi
dice, spostando il suo peso sulla parete e tirando
un lungo sospiro. Mi trascina vicino a sé. Sento dolore alla spalla, ma non mi concentro su di esso e
mi porto il fazzoletto al naso. Mi accorgo che l’altro
braccio lo sta cingendo ancora. Con quella mano
lo sfioro sul fianco, le dita sono l’unico insieme sensibile in quell’attimo, e vogliono toccare l’oggetto
della realtà.
C’è un frastuono che proviene dall’esterno e finalmente delle luci.
Ecco, stanno aprendo le porte, ci portano fuori, al
sicuro. Tutti si spostano verso l’uscita. Lui si muove a
fatica.
“Jean, non ti lascio.”
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Mi sveglio di soprassalto. È domenica.
Ho dormito sul divano. Sono stanca, ma è già mattino inoltrato. Il pranzo della domenica ha sempre l’invito valido in famiglia. Mentre mi infilo sotto la doccia
calda decido di andare, e poco dopo mi immetto sulla
tangenziale.
Solo di domenica riesco a guidare fino a casa dei
miei, la mia vecchia casa, perché non c’è traffico e la
distanza non si amplifica assurdamente.
Fa freddo, tremo quando mi fermo a prendere una
crostata in pasticceria.
Sono felice di stare a casa, ne ho bisogno puro; ma
quando arrivo di fronte al portone, scorgo il giardino,
gli spiazzi e l’ingresso di mattonato, il sangue si ritira
e se non mi concentro mi vengono le convulsioni.
Nessuno lo sa, e io ho dimenticato ormai che è un’agghiacciante anomalia, tanto lontano è il tempo in cui
è iniziata questa reazione di fronte a un carissimo numero civico.
Entro in apnea e ne esco quando mio padre apre la
porta, con già in mano una bottiglia di Cannellino, mi
stringe con forza e mi versa un dolce complimento
nell’orecchio. Il cane e il gatto mi travolgono con feste
e fusa, e al seguito Emma, la figlia di mia sorella Giorgia, che ha appena imparato a camminare e già nessuno sa più fermarla.
Da quando ho avuto l’incidente mi abbracciano più
forte di prima, mi circondano di attenzioni.
“Come stai?” mi chiedono in coro Giorgia e suo
marito.
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“Bene, grazie!”
Giorgia mi viene più vicina. Le leggo addosso lo
sguardo da sorella maggiore, che si preoccupa.
Non sa nascondere il bisogno di contatto. Mi deve
abbracciare altrimenti soffre, io lo so, e le offro il
collo. Mi abbraccia, mi accarezza i capelli. Poi ritorna
di fronte a me e mi chiede:
“Al braccio non hai avuto più fastidi?”
“No, ho fatto anche un po’ di fisioterapia. Totalmente guarita.”
“Perfetto! E la memoria?”
“Meglio - mento, sedendomi a tavola - ho ricordato
quasi tutto.”
“Ah, vedi, lo avevano detto i dottori, infatti. Questione di tempo e pazienza” esclama mia madre, e sollevata, si china verso di me e mi bacia sulla fronte.
“Sto bene, e ho fame!” sbraito, affilando un sorriso
dei miei, mentre inizio ad arrotolare gli spaghetti intorno alla forchetta.
A tavola, allacciata da tanto calore, mi trovo immersa in una vasca vaporosa di aromi benefici, mi
perdo fino a non sapere dove sono andata a finire. Mio
padre e mio cognato sono in soggiorno a scambiarsi i
quotidiani, mia madre prepara il caffè. Giorgia mi riporta indietro.
“Se vuoi posso darti una mano col negozio. Certo, capisci che se continua proprio in caduta libera forse…”
La interrompo:
“Grazie sorella, magari ne parliamo con calma, ora
non ne ho voglia e non saprei neanche cosa proporti.”
Mi alzo e taglio la crostata a fette. La mia porzione
la mangio in piedi, davanti alla finestra, guardando la
panchina fuori, attraverso i vetri.
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Freddo o caldo che sia il cielo, quel muretto di tufo
in cortile è la loro panchina.
Prima di entrare in casa si siedono sempre a chiacchierare lì fuori, a volte per qualche minuto, altre volte
per ore.
“Sei troppo buona Daria, grazie.”
“Non sono buona, è che mi piace prenderlo in braccio!”
“Ah, ecco: quindi mi aiuti con l’algebra perché almeno puoi giocare con Gabriele?”
“Un po’ sì.”
Le risponde con una linguaccia.
“Sei lento a fare gli esercizi! Almeno mentre tu risolvi
l’equazione io mi rendo utile e faccio la baby sitter, no?”
“Sempre a pensare a quello strillone di mio fratello,
che noia che sei.”
“Ehi!” lo rimprovera.
“Ma non sarà che per caso ti piacciono quelli più
giovani?”
“Stupido!” raccoglie il suo zaino e si solleva in un
attimo.
“E dai, scherzavo! Non te ne andare!” ha lo sguardo
da cucciolo furbo, e cattura la sua mano.
“Vado a pranzo che mia madre mi aspetta, poi
scendo da te per l’algebra.”
E quando arriva in ingresso, prima di sparire dalla
sua vista si volta e urla sorridendo:
“E per tuo fratello!”
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L’incidente in sé per sé era superato, il trauma e la
paura erano in gestione da un mio metabolismo emotivo che li aveva riassorbiti bene.
Ma il mio assillo consisteva nel rintracciare il ricordo di quei passaggi a vuoto che Jean testimoniava
e che, ero certa, dovevano essere ricordati.
C’era solo un flash che appariva nei miei occhi: un
bagliore infinitesimale che imprimeva la mia figura
nel consegnare qualcosa nelle mani di Jean.
Ero sicura che fossero le sue mani, anche se in quel
lampo non arrivavo a distinguere il volto di nessuno.
Qual era però l’oggetto della consegna? E potevo
dire con certezza che si trattava di un ricordo e non
magari di un sogno?
In ogni modo, erano già tre giorni che il flusso di
memorie si era interrotto in un corto circuito che produceva a intermittenza quell’unica immagine fulminea.
Sono in negozio e quella scena continua a piombarmi nella mente scaricando sempre lo stesso fotogramma, quando due clienti entrano per dei rullini e
uno per farsi fare una fototessera, e io non riesco a
concentrarmi su nessuna di queste due semplici operazioni. Devo chiedere aiuto.
Manca poco all’ora di pranzo, e lo chiamo.
“Jean?”
“Buongiorno, Daria.”
“Ti disturbo? Ti sento in movimento.”
“Sono in macchina, ma non disturbi. Come stai?”
“Eh… Bene, più o meno.”
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“È successo qualcosa?”
“Sì. No. Scusami sono confusa. Non capisco… Mi
torna continuamente in testa una scena in cui ti metto
qualcosa nelle mani. Però non capisco di cosa si tratti,
e soprattutto, non riesco a vedere se sia un ricordo o
un’allucinazione.”
“È un ricordo” risponde, con bianchezza immediata.
Rimango di ghiaccio: ho paura di quello che non
vedo, e soprattutto se si tratta di una mia ombra, ancora di più se qualcun altro l’ha vista e la può guardare
chiaramente prima di me. Io, invece, di quell’ombra
non riesco a intuire neanche la forma e la misura.
“Daria, ascolta. Non sono molto lontano. Ho un
paio d’ore libere e stavo andando a pranzo. Se vuoi
vengo da te e mangiamo insieme, così ne parliamo.”
Venti minuti dopo siamo seduti alla tavola calda vicino al negozio.
Prendiamo la quattro formaggi, ma io non riesco
neanche a simulare un boccone.
“Sta’ tranquilla, ti prego” mi dice, perché percepisce la mia agitazione.
Sorrido fievolmente, sforzandomi di controllare il
disagio. Non ci riesco, e butto fuori:
“Non me lo ricordo bene, ma so che in ospedale
siamo rimasti per ore. C’erano tanti feriti da soccorrere, e abbiamo atteso a lungo il nostro turno. Tu eri
con me, tutto il tempo?”
“Sì, a parte durante le visite, sono stato con te praticamente sempre.”
“Io non ricordo nulla di quel lasso di tempo però lo
so che nascosta in quelle ore c’è una cosa da ricordare!”
Jean cerca di trovare i miei occhi inabissati in un
fondale sgomento, cerca di afferrarli, di placcarli con
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un movimento mite dei suoi per riportarli a riva, ma
non glielo lascio fare, tanto convulsamente le mie pupille si dimenano e continuano ad andare a fondo, alla
ricerca di un frammento. Esterrefatta, non sto lasciando più spazio a nulla, se non a questa rabbia impotente ma divoratrice.
“Ho con me quello che ricordi di avermi dato” dice
allora, facendosi poi scorrere il tovagliolo sulla bocca.
Riemergo per un attimo, di nuovo agghiacciata,
sperando e al contempo temendo che lui possa aiutarmi in modo diretto.
“Ora tu sei agitata e lo capisco. Sei seduta di fronte
a un perfetto sconosciuto che ti dice di sapere qualcosa
sul tuo conto, che tu hai rimosso. Il buio fa paura, lo so.”
“Abbastanza” dico, e mi scappa da ridere per la
tensione.
Lui non ci fa volutamente caso.
“Oddio Jean… ma cosa mi è successo…”
“Non è niente di grave.”
“E allora perché sono ossessionata? E poi, tu… tu
cosa c’entri?”
Abbassa lo sguardo che finisce nel piatto.
“No, scusami, non volevo essere scortese, non intendevo dire che sei un intruso.”
Inizio a mangiare per il nervosismo, forzo lo stomaco serrato per non parlare più, finalmente.
Non ci diciamo infatti quasi niente, lui tace, chiuso
nel cenno ammorbidito di una bocca curva, orientata
al sorriso. Il suo non è un silenzio offeso ma scelto per
discrezione, credo. Sto cercando di frenare l’assurdità
di tante domande venute a galla.
“Non ti ho raccontato nulla perché non ti farebbe
bene, così. Sei tu che devi ritrovare il ricordo, e forse
capire come mai lo hai abbandonato.”
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“Ma è lui che ha abbandonato me!”
“Sì - sorride - ma poi ha sguinzagliato un giornalista, francese a metà, per aiutarti a trovarlo.”
Mi sfugge una mezza luna tra le labbra, e lo guardo
con una riconoscenza sterminata e vera, che trova logica in logiche che fanno a meno di me.
Lui è attraversato da un’onda scarlatta, indietreggia
con le spalle a toccare lo schienale della sedia, e solo allora rilascia i muscoli del volto a sdebitarsi di un sorriso.
“Quanti anni hai, Jean?”
“Quarantadue. Ma perché?”
“Io ventisette. Ti sembravo più grande?”
“No, e davanti a me sembri ancora più piccola.”
Fa fatica a guardarmi, infatti lo vedo arrossire di
nuovo, appena.
Dopo aver attraversato in pochi minuti la gamma intera delle emozioni di panico sono tornata in me, calma,
poi, di fronte ai suoi occhi ho iniziato di nuovo a esitare,
ho evitato di torturarmi le unghie, e l’ho subissato di
domande per riempire un tempo in corsa che si strozza
su un inevitabile strapiombo.
“Scusami. Non so se mi farà bene sapere, non so
se poi è tanto importante andare avanti.”
“Perché hai tanta paura, adesso?”
“Perché sento che da me stessa posso aspettarmi di
tutto.”
Ancora quel movimento con la testa, mi guarda
aguzzando lo sguardo e poi si morde un labbro.
“Tu sai che con questa risposta sei diventata in assoluto la persona più complessa che abbia conosciuto
negli ultimi dieci anni?”
“Ah sì? - mordo di nuovo l’unghia - e prima di me,
chi era?”
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“Bah - abbozza un sospiro per far mente locale sai che devo pensarci troppo per ricordarmelo?”
Fa segno alla cameriera di portarci due caffè. Arrivano in un tempo minimo, che occupa guardandomi
con un misto di apprensione e premura.
“Vieni, coraggio” mi dice, alzandosi e lasciando i
soldi del conto sul tavolo.
Lo seguo fuori. Fa freddo. Mi dice che la cosa è in
macchina.
Mi dice che ha parcheggiato poco più avanti.
Prima che apra la portiera gli chiedo di poter fumare una sigaretta, temporeggio, e per la prima volta
avverto che siamo a disagio. Entriamo nell’auto.
Per galanteria mi fa accomodare sul sedile anteriore, al posto di guida. Ma io sento che posso e che
voglio fidarmi di lui, fosse solo perché sono aggrappata al senso della sua presenza. So che non mi farà
precipitare.
Respiro profondamente, lui non si muove, è girato
verso di me, ogni sua futura azione sembra collegata
alle mie.
Chiudo gli occhi e sprofondo nel sedile.
“Pensi che vedere mi scioccherà? Forse non sono
pronta…”
“Sei vicina alla verità ed è normale che tu abbia
un po’ di paura, ma è solo per questo che ora sei recalcitrante.”
“Che belle parole che usi, sai? Anche nei momenti
di panico…”
“Be’, per fortuna! Io lavoro con le parole, e anche
col panico.”
“Forza! - butto fuori con un sospiro - Vediamo il
malloppo.”
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Apre il cruscotto. Prima di estrarre il contenuto mi
guarda con intensità, e mi tranquillizza, mi dice:
“Con calma. Sta’ tranquilla.”
Ho il cuore in gola perché so da un bel pezzo che
qualcosa non va. Ora ci siamo.
Tira fuori un fascicolo di fotografie.
Inizio a masticarmi un polpastrello e con esso mastico dubbi, cercando di ritrovare il gusto chiaro della
mia sagoma integra.
“Non posso averti dato questo. Da quella scheggia
che mi balena nella testa ricordo che si trattava di qualcosa di piccolo. Era una cosa che entrava nel tuo
pugno e tu potevi richiuderlo.”
“È così, infatti: tu mi hai consegnato due rullini. Io
ne ho sviluppato uno, questo.”
“Ma…” chiudo gli occhi e mi precipita addosso
una valanga di torpore e fuoco.
“Una cosa alla volta, va bene?” mi dice, mettendomi una mano su una spalla e spingendomi ad agganciarmi alla realtà del suo tocco, del suo sguardo,
per non farmi perdere di nuovo nel mio vuoto irregolare di bagliori e di oscurità.
“Tu le hai guardate? Sai cosa sono e perché te le ho
consegnate?”
“Le ho viste - dice abbassando lo sguardo - e so
perché in quel momento hai ritenuto opportuno farmene custode.”
Mi chiedo, nonostante la concitazione del momento,
come faccia a mantenere l’eleganza di uno stile verbale
perfetto. Ma quell’interrogativo dura un attimo e si trasforma nello strappo con cui tiro via il fascicolo dalle
sue mani in un impeto di frenetica impazienza. Lui lo
avverte e si ritrae, eppure senza irrigidirsi. Tengo tra le
mani il raccoglitore, e non mi decido ad aprirlo.
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“Vuoi rimanere da sola?” chiede, e non rispondo.
“Vuoi guardarle dopo?” insiste.
“Vorrei essere sola, giuro - dico, non curante del
tono sostenuto che mi è venuto fuori - ma ho paura di
avere bisogno di una spiegazione che da sola non saprei trovare.”
“Allora prenditi il tempo che ti serve.”
Senza respirare né pensare più a come cambierà la
mia vita, a cosa accadrà da un momento più in là in
poi, a che cosa mi sto nascondendo…
Guardo soltanto.
Foto in bianco e nero. Sequenza in strada. In obbiettivo c’è una folla qualunque di persone, e sempre la
stessa folla. Poi un vicolo che non conosco ma a colpo
d’occhio mi ricorda la zona San Pietro, piazza Risorgimento forse… e un portone che non mi sembra affatto
familiare. Foto da lontano. Poi, cambio di genere.
Altre foto. Autoscatti in luogo chiuso. Casa mia…
Molti scatti. Di me stessa, senza vestiti. Io truccata, pettinata e aggeggiata come la più maliziosa e serpentina
delle donne, rivolta dritta in camera, e paga. Io il lupo,
e l’obbiettivo la preda tra le prede.
Credo di aver soltanto balbettato grugniti di ribrezzo.
Sono annichilita. Mi sto ispezionando; trasecolata,
sono davanti ai miei occhi senza trovarmi: mi guardo
attraverso una fantasmagoria di specchi, supplicando
la mia mente di ritrovare il punto oltre il quale mi
sono persa.
“Penso seriamente di stare impazzendo” dico nervosa e concitata, cercando le sigarette in tasca.
“Posso?” chiedo mentre sto già per accenderne una
nell’auto.
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Mi accorda il permesso con il suo cenno ormai noto.
“Ho fatto io queste foto?”
“Mi hai detto così, mentre mi davi i rullini.”
Mi viene da piangere e sento che a quel punto Jean
vorrebbe abbracciarmi e concedermi di essere confortata dal suo aiuto, ma resta immobile, lasciandomi seguire il mio flusso senza interromperlo.
“Ma… - continuo - io non mi ricordo di averle
scattate!”
Sputo fuori il fumo e gli chiedo:
“Quando ti ho dato questi rullini? Dimmi il momento esatto.”
“In ospedale. Un attimo prima che ti dimettessero.”
“E l’altro rullino? Perché non lo hai sviluppato?”
“Dopo questo non me la sono sentita, ho capito che
aveva un senso vedere insieme. Dovevi guardare
anche tu.”
Mi brandisce di colpo un senso atroce di vergogna,
unito alla consapevolezza della lontananza della mia
persona da quella che credevo di essere, conoscere e
controllare.
“Ma… - mi passo il palmo di una mano sulle palpebre - che cosa ti ho detto mentre ti infilavo queste
due bombe nelle mani?”
Sorride.
“Mi hai detto: svegliami! Io non ho capito cosa volessi dire, tu hai aggiunto: voglio che mi guardi bene” e
a quel punto ancora viene colto dal rossore sulle guance.
Ho mille domande, più verso me stessa che verso
di lui. A lui chiedo solamente:
“E aveva un senso farti una richiesta del genere?”
“Sì, lo aveva, temo.”
Vorrei chiedergli la ragione, mi scorre dentro un
fiume furioso di rifiuto, che esonda e non contiene la
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piena. Allora “Basta!” mi irrigidisco, nervosamente
raccolgo le foto e scendo dalla sua auto tirandomi dietro la portiera.
“Grazie Jean, ma basta così!”
Lui scende assieme a me, mi guarda farneticare e
non fa nulla, nulla. Mi guarda, mi tiene con gli occhi,
sempre con quella partecipazione che è tutta sua. Mi disorienta, ma di più sono io stessa a spiazzarmi, da sola.
“Basta così! - frano - Non so cosa sia successo, mi
aspetto il peggio. Non voglio saperlo!”
Sono stata offensiva, ma non mi importa di dispiacermene; perché, soprattutto, la cosa va ben oltre l’incidente e non riguarda lui. Ora sono cosciente e
consapevole, e dico a me stessa che tutto questo non
lo può includere. Ora, in questa dimensione, Jean non
ha alcun senso.
Senza voltarmi me ne vado, mi chiama senza gridare, ma io corro, senza capire perché mi ritrovo a
scappare, corro, col viso inondato di lacrime, corro,
fino al riparo del mio negozio.
43
Tommaso e Daria, 12 anni.
“Ma tu che vuoi fare al liceo?”
“Lo scientifico, è naturale.”
“Io non lo so ancora. Secondo te in cosa sono più
bravo?”
“In ginnastica!”
“Uhm!”
“Tommy, manca quasi un anno intero. Hai il tempo
per pensarci con calma, non credi?”
“Be’, io di sicuro lo scientifico non lo posso fare.
La matematica mi uccide.”
“E tu non farlo, scegli una scuola diversa!”
“Allora decidiamone una che faccia per tutti e due,
per rimanere in classe insieme.”
Mentre lui lo dice sorride, ma Daria sa che Tommy
vorrebbe davvero che andasse così.
“Intanto studia e cerca di passare gli esami di licenza media!”
“Sei una maestrina antipatica.”
Lei storce la bocca e abbassa la testa sul libro di
storia.
Sua madre entra in quel momento con due mousse
di cioccolata e biscotti, Tommaso sorride e ringrazia,
non perdendo un attimo per gettarsi sulla merenda.
“Facciamo ricreazione, maestra?” le dice, accomodandosi sulla poltroncina della camera di lei.
“Smettila di dire così!”
“Le tue amiche non ti dicono che studi troppo e che
sei noiosa?”
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“No!” risponde seccata e offesa.
“Allora non ti conoscono bene come me.”
Lei chiude il libro e afferra la sua coppetta.
“Se sono tanto noiosa - dice, con il cucchiaino appoggiato sulla bocca - perché ci tieni tanto a venire a
studiare da me e addirittura a fare il mio stesso liceo?”
“Facile. Per copiare i compiti da te!”
45
Non pensavo ad altro, e questo mi impediva di ragionare, di vedere in un modo sereno, di capire. Non
ero in me, sia per le cose passate che per quelle presenti. Quella sera ebbi un fortissimo attacco d’ansia
poco prima di chiudere il negozio.
Come era possibile?
Non si trattava soltanto di aver perso le tracce di
qualche ora di un giorno, non dovevo risolvere solo un
trauma a causa di un incidente. Dietro a quell’amnesia
c’era un vuoto inatteso ed enorme, tanto da nascondere
un’altra persona. E quella ero io. Una persona sconosciuta, che scattava foto ricorrenti a posti di cui ignorava
geografia e senso, e che, ancora peggio, immortalava
se stessa, un’intimità artificiosa del suo corpo e poi, dimenticandosene, di tutto ciò aveva dato libero accesso
a un estraneo.
Al buio, quella sera cercavo disperatamente il
sonno. Avevo bisogno di dormire, di staccare gli occhi
da un’ombra inammissibile ed entrare in uno stato
privo di ragionamento.
Qualche ora prima avrei pagato oro per avere delle
immagini che mi aiutassero a ricostruire i passaggi
mancanti.
Adesso, invece, considerato ciò che avevo visto,
avrei voluto dimenticare per sempre e vivere ignorando l’abissale opacità che mi lasciava sfuggire duramente la mia stessa memoria.
Genera terrore puro realizzare di essere fuori controllo, comprendere che ti difettino pezzi interi e affatto trascurabili della tua vita.
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Avevo inghiottito un blando calmante e per fortuna
iniziava a fare effetto. La mente si raffreddava e poi
lentamente la sentivo spegnersi.
Ecco perché prima avevo avuto tanta premura di
sapere, pensavo addormentandomi. Era un impulso a
ordinarmi di andare a cercare, eppure mi scherniva,
nascondendomi gli indizi e ponendo sulla mia strada
qualche irrisorio inganno e sgradevoli sorprese.
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Tommaso ha deciso che quel giorno è quello giusto.
Ormai è impossibile rimandare l’evento atteso da
una vita, le medie stanno per concludersi, ci saranno
presto gli esami; tra qualche settimana Daria partirà
per le vacanze con la sua famiglia e al ritorno, come
era previsto, ognuno prenderà la sua strada nelle
scuole superiori.
Sale a casa sua, nel pomeriggio, con due cremini
in mano.
Le dice di andare a mangiarli giù, al “posticino”.
Qualche anno fa hanno scoperto un pezzetto di
cortile, sul lato interno del loro palazzo. Uno spazio
di tre metri per due, chiuso e privo di un visibile accesso. Era lì, confinante con la proprietà dei vicini,
come se fosse stato prima una specie di piccolo magazzino e poi se ne fosse persa la chiave e la memoria.
Se ne stava silenzioso e invisibile, delimitato da una
porta dello stesso colore della ringhiera di contorno,
chiusa da un lucchetto arrugginito. Un pomeriggio
per sbaglio vi avevano lanciato la palla, solo allora si
erano accorti cosa ci fosse dietro alla ringhiera.
Hanno aperto la porta e dentro c’era uno spiazzo, circondato da un muretto, blocchetti di tufo e mattoni
accantonati da una parte, una vecchia bicicletta e un
rastrello dall’altra. Non hanno mai visto nessuno entrarvi, e a quel punto hanno deciso che quello sarebbe
stato il loro posticino; sì, un piccolo rifugio per
quando la panchina in giardino fosse troppo esposta
al mondo. A dire il vero, vi avevano trascorso più
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tempo da piccoli, quando avevano tutta la voglia di
scoprire avventure e di avere dei segreti. D’inverno lo
frequentavano poco, spesso la pioggia sporcava il muretto e il terriccio diventava fango.
Mentre giocavano lì dentro, Tommy voleva che
fossero in una nave pirata, Daria dentro un’astronave.
Alla fine il posticino fu entrambe le cose, per tutto il
periodo che dura una novità. Come accade, venne lentamente dimenticato e tornò allo stato di abbandono.
Ora, dopo lunga assenza vi tornano in quell’occasione, a mangiare il gelato. Se ne stanno là, Tommy è
inquieto e Daria se ne accorge. Ha divorato il suo gelato, invece lei lo gusta con calma, seduta sull’abituale
angolo di muretto.
“Ma che hai?” gli chiede.
“Perché?” le risponde lui, con il suo solito sguardo
trionfante, anche se adesso un po’ intimorito.
“Be’, guarda come sei agitato!” e indica il movimento nervoso che sta ripetendo da quando gli ha
aperto la porta.
“No, è solo che devo fare una cosa e finché non la
faccio…”
“E che devi fare?”
A quel punto si dice: fallo e basta. Lei ha ancora
mezzo cremino in mano, e prima che si porti un altro
morso alla bocca le ferma le labbra con le sue.
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Non so se sia un pregio o un difetto, di certo è un
fatto: sono una persona pratica. Dunque, al mio risveglio avevo davanti agli occhi le immagini acquisite, delineate e appese come la pellicola lasciata a tirare
l’immagine: ora rimanevano da chiarire tutti i passaggi
saltati fuori dal mio tempo. Non ricordavo più, ma le
prime carte erano in tavola e il mio jolly era Jean.
Mi vergognavo profondamente di cercarlo per
come lo avevo trattato nell’ultima fatale occasione, rivelatrice di bieche scomodità tuttora incomprese, ma
ero soprattutto in imbarazzo per quello che aveva già
visto, e per i segreti che lui, forse, custodiva ancora e
che non ero ancora andata a guardare.
Perché avevo coinvolto proprio lui?
E perché lo avevo fatto in un modo così intimamente scorretto anche verso me stessa?
Era solo mercoledì, avevo davanti a me più di metà
settimana lavorativa da affrontare e avrei voluto invece essere molto lontana.
La mattina trascorse come le altre, ma ero mortalmente stanca e disperata.
Arrancai fino a pranzo, tra qualche visita di fornitori
e una manciata di clienti. Presi un panino qualunque, e
lo consumai automaticamente senza assaporarlo, così
che mi facesse compagnia mentre attraversavo il traffico di via Appia Nuova.
Svoltai alla traversa vicina alla fermata della metro,
e terminai la passeggiata poco più avanti, seduta su una
panchina di marmo che spesso per la pausa andavo a
50
cercare. Mi concessi la mia sigaretta. Mi sentii per
poco al sicuro, proprio lì, in mezzo a tanti passanti, tra
clacson ed esalazioni, protetta da una coltre nebbiosa
di rumore.
Mi accucciai su me stessa, sporgendo il busto in
avanti, e sorreggendomi la testa con la mano. Dondolando in un riparo rassicurante, chiusi gli occhi e per
un momento scesi in uno stato vicino al sonno. Ed
ebbi il tempo di sognare, o ricordare.
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Dopo la visita di accoglienza, rimaniamo ad aspettare il nostro turno in sala d’attesa. Quando arrivo,
Jean è seduto a fianco ad alcune sedie libere.
Mi saluta con un sorriso aperto, e mi siedo vicino
a lui.
“Ti fa male?” chiedo, sfiorandogli con delicatezza
il ginocchio.
“Un po’. E a te?”
“Sì, sento un torpore dalle spalle fino alla mano sinistra.”
“Se ci fosse qualcosa di rotto ci farebbe molto più
male. Poi a questo punto i dottori ci avrebbero già
detto qualcosa.”
“Non lo so, non mi sono mai rotta niente. Anzi, a
dire il vero non sono mai stata in ospedale!”
“Ah! Io nemmeno. Siamo stati fortunati, fino a oggi.”
“Eh, pare di sì. E in effetti anche oggi lo siamo stati.”
Intorno a noi il pronto soccorso del San Giovanni
Addolorata contiene un viavai perpetuo.
Sentiamo scambi continui di esclamazioni:
“Com’è potuto succedere?”
Qualcuno impreca, costanti sono le espressioni di
incredulità per l’accaduto. Un signore sta raccontando
di quando da giovane guidava gli autobus, dice:
“Io non ho mai fatto un incidente nella mia vita e
ora proprio questo disastro mi è capitato!”
Un ragazzo gli risponde, con rabbia:
“Infatti è impensabile!”
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Una signora dice:
“Grazie a Dio siamo ancora qui!”
E molti sostengono quel senso di gratitudine.
Si aprono e chiudono dibattiti, più o meno accorati,
in continuazione, ma io e lui non partecipiamo.
“Io pensavo che fosse una bomba, un attentato!”
dice una ragazza e un uomo la sostiene.
“Anche io, ho pensato che saremmo saltati in aria!”
Jean, a voce bassissima mi dice:
“Sai, mi è capitato spesso di trovarmi in mezzo a
bombe, attentati e cose del genere. Per lavoro.”
Tiro fuori la massima sorpresa.
“Dai! Che lavoro fai?”
Me lo racconta in poche parole, mi dice che aveva
sempre sognato di fare il reporter, di farlo dove c’era
più bisogno di informazione. Di aver trovato in Francia, subito dopo un master, le condizioni più auspicabili
per poterlo fare, andando nel mondo, a documentare
realtà estreme.
Mi dice che proprio oggi era diretto verso la redazione di una rivista, aveva un colloquio per un lavoro,
presso un marchio editoriale dove avrebbe dovuto curare delle rubriche sulle notizie dal mondo.
“Più volte mi è capitato, da cronista, di entrare
negli ospedali dei luoghi più lontani, più abbandonati;
in campi d’emergenza, dove si allestivano ricoveri e
soccorsi per i feriti di guerra. Che strano essere qui
adesso, in un ospedale con tutti i crismi, da ferito.”
Sono ammirata e piena di stima verso di lui. Vorrei
chiedergli altro, vorrei dirgli qualcosa, è così calmo,
così pacato in quella situazione.
“Ecco perché non hai avuto paura, oggi.”
Provo a spostare il braccio, articolo piccoli movimenti. I muscoli delle spalle tirano, così ritorno alla
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posizione malagevole di prima. Lui mi guarda e si accorge che sto soffrendo.
“C’è molto da aspettare, temo. Se vuoi stare più
comoda puoi sdraiarti lì davanti, ci sono tre sedie libere.”
“No, Jean. Te l’ho detto, non mi muovo.”
Deve sembrargli certamente un atteggiamento inusitato il mio, col mio voler partecipare in un modo
quasi accanito al corso della sua degenza.
“Allora puoi appoggiarti, non mi fai male. Almeno
distendi il braccio e il collo.”
Tutti i rumori, i suoni, le voci di un ospedale in
emergenza sono lì.
Chiudo gli occhi e cerco il modo di abbassare il volume di ciò che ho intorno. Non vorrei farlo, non vorrei avvicinarmi troppo e dargli fastidio, ma cedo, la
testa si appoggia spontaneamente alla sua spalla. Respiro a fondo e non sento più quasi niente.
E con mia sorpresa immensa inizio a piangere.
54
Il marmo è freddo, adesso. E mi sveglio, tormentata
da un’acredine pungente.
Cosa ho, adesso, in più? Adesso so di aver pianto
con Jean.
Io non riesco a piangere nemmeno da sola e la maggior parte delle volte mi impedisco di farlo, ed è questo a sorprendermi di quel ricordo.
È ancora presto, prendo un caffè, fumo di nuovo.
Rientro in negozio, ma senza aprire al pubblico.
Guardo le foto appese, quelle di mio nonno.
Foto di una Fiat 8 V, scattata al porto di Genova nel
’59.
Foto di casa, prima che venisse terminata la costruzione. È un prodigio di comunicazione visiva derivante dai dettagli: la polvere in aria, i muratori in
movimento, gli strumenti da lavoro, l’idea del caldo.
Poi Giorgia e io, una foto a colori, in giardino,
quando non avevo ancora compiuto cinque anni.
Mi guardo lì. Nella foto indosso una camicetta
bianca. Guardo dritto in camera con timidezza e un
sorriso imbarazzato. Ho tra due dita una margherita, e
faccio il gesto di offrirla all’obbiettivo. Mia sorella mi
guarda e mi tiene per mano.
Mi avvicino per osservare meglio. Quel sorriso innocente, tanto lontano da non sembrare affatto mio.
Non sto guardando me stessa da piccola, ma un’altra bambina. Mi soffermo sul rossore che ho in viso,
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comparso di certo perché in soggezione dal centrare
il grandangolo.
Apro il cassetto. Ho di nuovo il coraggio di guardare quegli scatti, quelli che avevo consegnato a Jean
assieme alla mia memoria.
56
Daria ignorava cosa significassero sentimenti densi
di trepidazione, furore e tormento fino a che non aveva
provato la gelosia.
Pur essendo generosa e attenta alla cura dei suoi affetti, si manteneva molto distaccata dalle persone. Per
sfondo genetico era domatrice delle sue emozioni, più
precisamente ne governava il manifestarsi e ciò accadeva in modo del tutto naturale e inconsapevole.
La sua era una forma di misura, di discreta compostezza.
Così, dopo il bacio di Tommy, il suo senso di ritegno la valicò spingendola a riprendere la sua dimensione di accortezza e contegno.
Quell’estate, inaspettatamente, porre delle distanze
tra lei e Tommaso, amico e certezza di sempre, le
causò uno sforzo di non poco conto.
Pensò a lui tutti i giorni, ricordandosi di quel bacio
e di quel ragazzino che dalle elementari le chiedeva di
sposarlo.
Quando Daria lo rivide era una sera della fine di
agosto.
Era ritornata proprio quel giorno dalla vacanza in
montagna con i nonni, l’ultima di quella estate.
Stava sul dondolo in terrazzo, mentre Giorgia dalla
stanza le raccontava della sua settimana a casa di
un’amica al mare.
Poi sentì una voce dalla strada, riconobbe la risata
e si levò in piedi per accertarsi, col cuore in gola, che
fosse proprio lui. Prima di quell’ultimo incontro al
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posticino, nella stessa situazione si sarebbe affacciata
e lo avrebbe chiamato, salutato e sarebbe scesa in cortile. Ora invece il riserbo e la prudenza la incatenavano
trattenendola immobile, a guardarlo, nascosta in un angolino di terrazzo, ripiegata sulle sue ginocchia, senza
farsi vedere.
Era in compagnia di una ragazzina, stavano scherzando. Avevano entrambi in spalla la sacca sportiva.
Rimasero qualche minuto davanti al cancello. Lei
aveva i capelli chiari e una risata squillante.
Daria aveva una morsa allo stomaco mentre li osservava, fino a che li vide salutarsi, Tommaso chiuse
il portone e attraversò il vialetto del cortile. Allora,
spontaneamente, si sollevò dalla posizione da trincea
e si affacciò.
Tommy, lei lo sapeva, per abitudine guardava sempre in alto prima di sparire dietro l’ingresso interno:
era un movimento incondizionato per cercarla,
un’azione naturale che piaceva a tutti e due. Quella
volta lui non lo fece, tirò dritto ed entrò.
Daria strozzò un sospiro che sembrò tagliarle la
gola, e si sentì di nuovo attraversare lo stomaco da
quella stretta violenta.
Abbassò allora la testa, rilasciandola libera sul
collo e abbandonandola in avanti, e proprio in
quell’istante un punteruolo le affondò in mezzo al
petto. Giorgia continuava a parlarle della sua vacanza, ma lei non ascoltava più.
Allora lo vide. A passo di gambero era tornato indietro, e si era fermato proprio sotto il terrazzo, col
suo solito sorriso da campione.
Per la sorpresa Daria di nuovo soffocò un gemito,
ma poi, senza potersi controllare, sfoderò un sorriso
abbagliante.
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“Scendi?” le disse lui, col suo fare irresistibile.
“Mah, non so se posso. Tra poco è ora di cena” rispose, cercando di riappropriarsi di quel distacco così
confortevole e suo.
“Uhm. Va bene, sempre la solita, eh? Allora ciao!”
Rispose con un cenno stizzito della mano, e subito
dopo, quando lo vide di nuovo sparire, si morse la
lingua.
Subito dopo sentì bussare alla porta di casa. Come
un cavallo da corsa si precipitò ad aprire, sperava che
fosse lui, non lo sapeva ma avrebbe voluto avere la
certezza di non sbagliarsi.
Non sbagliò.
“Ti devi fare sempre pregare?”
“Io?” rispose, cercando di mantenere quel fare indifferente, smentito dal tremore della sua voce.
“Lo sai che siamo al liceo insieme?” le dice, come
se avesse calato le carte vincenti.
“No… non lo sapevo!”
Era sorpresa sul serio, si sentiva sollevata da quella
notizia, gli chiese:
“In che sezione sei?”
“In F, la sperimentale.”
“Ah, io in E.”
“Be’, Daria, quante ne devo fare? Ho scelto il tuo
liceo, almeno dal latino e da un po’ di matematica mi
dovevo pur salvare!”
“Ma sì, ma sì, non fare il lagnoso, hai fatto bene!”
Lui alzò gli occhi al cielo, e lei si mise a ridere,
dandogli un colpetto affettuoso sulla spalla.
La madre la chiamò dall’interno, era pronta la
cena.
“Devo entrare…”
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Tommy le sorrise e le si avvicinò, lasciandole un
bacio sulle labbra.
“Ben tornata” disse, e scappò giù per le scale.
E di nuovo Daria sospirò, questa volta senza sentire
dolori e pungiglioni dentro.
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“Che succede?”
Si è accorto che il mio respiro è più affannoso, e
che furtivamente mi asciugo il viso con la manica
della maglia.
Non riesco a rispondere. Le lacrime mi ovattano la
gola.
“Perché stai piangendo?”
“Scusami… è… l’ospedale che…” non riesco a
formulare la frase per intero. Lui mi soccorre, togliendomi dall’impaccio.
“Non devi scusarti nel modo più assoluto.”
Mi lascia piangere, in pace.
Le infermiere si muovono intorno a noi, nel grande
trambusto dove si compone una sequenza di immagini
continue nelle quali l’emergenza è visibile. C’è una ragazza su una barella che ha iniziato un lamento dirotto,
ha chiazze di sangue sui pantaloni, e trema convulsamente. Un signore anziano, ferito a un polso, è seduto
vicino a lei, e chiama un’infermiera perché la possano
visitare al più presto. La portano via dopo poco, e il
suo grido lascia un’eco. Esce un infermiere e chiama.
Si alza una signora e lo segue, fino alla porta di
Radiologia.
Decine di persone si muovono intorno a me.
Ma io sono ferma, immobile, staccata da ogni realtà. Sono planata su una superficie impalpabile dove
l’unica dimensione è il tempo, e lo spazio coincide con
la massa occupata dal mio corpo e da quello di Jean,
che lo delimita.
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Ecco.
Rappresento nella mente questi concetti teorici di
tempo e spazio, e mi domando cosa sarebbe ora di me
se avessi continuato il sentiero della fisica, laureandomi, e proseguendo in quel senso. Cosa starei facendo ora? E cosa dovrei fare? Il fatto è che il mio
cuore l’ho messo nel negozio, l’ho messo dov’era mio
nonno, l’ho messo nella passione per la fotografia.
Chiedo a Jean:
“Perché stai cercando un lavoro nuovo? Non vuoi
più fare il reporter?”
“È una storia lunga.”
“Il tempo qui non manca.”
Sembra che abbia voglia di parlarmi ma esita e
penso sia così perché teme che ascoltarlo mi procuri
un ulteriore disagio.
Allora lo invito di nuovo:
“Non hai idea di quanto mi manchi parlare con
mio nonno, ascoltare i racconti e le testimonianze
dalla crudezza della cronaca. Mi interessa sul serio il
tuo lavoro. Se ti va di parlarne, certo.”
Le sue labbra slacciano un sorriso, che scioglie
l’involto dubbioso che prima le stringeva.
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Tommaso e Daria, 15 anni.
Tommy e Daria sono una coppia piuttosto celebre
tra gli studenti. Lui è un idolo assoluto: bello come
una giornata di sole, tra le ragazze è il più gettonato.
Ha un grande talento sportivo, gioca da campione a
pallavolo, a calcio, ed è eccezionale come nuotatore.
Si è classificato primo in diverse competizioni sportive locali, in più sa fare squadra e quindi risulta simpatico a tutti, e in tanti lo considerano un amico.
Lei è tra le più carine della scuola, e questo si nota
con maggiore sorpresa perché rientra anche tra le studentesse modello.
Le sue amiche, che combattono coi primi tormenti
del cuore, la invidiano perché per lei è già tutto semplice e non deve stare sul filo di lana che oscilla
nell’incertezza tra le possibilità di un rifiuto e i batticuori infiniti.
Lei, dal canto suo, si metteva costantemente in dubbio per via delle ragazze che ruotavano attorno a Tommaso. Ognuna di loro era in possesso di qualità innegabili e stimabili in gradevolezza estetica e simpatia e,
soprattutto, molte tra loro possedevano il punto in comune con Tommy costituito dalla passione per lo sport.
Daria spesso si faceva brandire lo stesso dalle insicurezze dell’età e dal suo modo di essere molto riflessivo e cerebrale, e a volte si risentiva per nulla.
Provava quella sensazione di schiavitù, non riusciva a
liberarsi della sua personalità contenuta e priva di
scioltezza, che sembrava invece appartenere a molte
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altre coetanee. Loro avevano grande facilità e risoluzione nella voglia di apparire ed emergere dalla massa,
lei invece cercava di eccellere più come esemplare che
come leader.
Tommy l’aveva dentro per come era, e le altre,
tanto diverse da lei, non erano altro che accessori piacevoli alle sue amicizie, alle sue attività. Non lasciava
mai trapelare alcun dubbio sul fatto che la sua unica
storia possibile fosse quella che aveva, da sempre, con
Daria Sebastiani.
“Gabriele, lo vedi lì?” disse lei, rivolgendosi al fratello di Tommaso. Indicava il tetto della piccola costruzione dentro la quale c’era la caldaia, in giardino.
“Sì!” rispose il bambino, che era sempre curiosissimo dei racconti e delle indicazioni degli adulti.
“Ecco, lì tuo fratello mi ha fatto capire per prima
cosa che era pazzo e poi mi ha chiesto se volevo sposarlo! Ah ah ah!”
“Veramente? E perché era pazzo? E vi siete sposati?”
Il giorno di San Valentino lui le fece una sorpresa.
Le disse di tenersi pronta per quel pomeriggio, passò
a chiamarla e le legò una benda rossa intorno agli
occhi. La portò in motorino per un breve tratto, impedendole di liberarsi dal bendaggio fino a quando lui
non decise che era arrivato il momento.
L’aveva portata alla Pineta Sacchetti, dove aveva
preparato un murales, i loro nomi erano lì, su un
enorme pezzo di muro del parco.
“Ma… tu sei matto!” gli aveva detto, sgranando gli
occhi e rimanendo a bocca aperta. Lo abbracciò, lo
baciò a lungo.
“Avevo paura, questi giorni, che altri lo coprissero
con le loro scritte!”
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“Io ti amo” disse lei, con timidezza; ma era troppa
la felicità per soffocare e governare quelle parole così
coraggiose. Poi tirò fuori dal suo zaino una confezione
di cioccolatini. Lui le diede un pacchetto piccolo. Ancora commossa, con le mani tremanti, lo aprì. C’era
una catenina d’oro, con un ciondolo a forma di cuore.
“Ti amo anche io” le disse lui, mentre lei indossava
il monile che rimase ogni giorno al suo collo, per anni.
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Alla metro quel mattino mi piomba di nuovo addosso un’angoscia tagliente. La sento precisamente, e
non è paura di rivivere un tragico scontro tra treni.
È il terrore dell’ignoto che invischia questa storia.
Ho paura di affrontare le poche fermate che compongono il mio viaggio in metropolitana solo perché
è stata quella l’occasione in cui si è snodata da me una
parte buia, contro ogni mia volontà.
Questo spasmo d’ansia cresce insieme al fremito
della necessità di sapere e, mentre il terrore si attenua
dopo essere scesa a San Giovanni, quella smania non
mi abbandona più.
Neanche quarantotto ore dopo aver visto le fotografie decido di sviluppare da sola l’altro rullino.
In negozio ho tutto ciò che mi serve.
In tanti anni non ho mai modificato gli spazi che
nonno aveva destinato allo sviluppo delle foto, allestisco la camera oscura, le vaschette, la tank, l’ingranditore e i prodotti per la stampa. Amo sviluppare i
negativi, è una cosa che faccio spesso per i miei scatti.
Durante l’orario di chiusura, a pranzo, non esco, rimango a sviluppare il secondo rullino.
Resto lì, nel buio della camera, sola, e in questa
oscurità finalmente mi trovo a essere sgombra di ogni
emozione ostile, e sono rimasta sola con l’unico sentimento dell’attesa, senza altro pensiero o immagine.
Nessuna congettura, nessuna preoccupazione.
Sono alla solidificazione, glaciale, come se le
forme che stanno per mostrarsi in pellicola non mi
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appartenessero. Non resta che aspettare di vederle,
senza dover annettere altre emozioni.
E così, il tempo, scorrendo, imprime quello che non
ricordo.
Respiro a fondo e guardo.
Tutto sembra ripetersi.
Ancora autoscatti con me, ammiccante, nuda e corrotta, davanti all’obbiettivo. Sono solo tre foto così, e
ne sono disgustata.
E poi, le ultime. Foto esterne, di nuovo, come le
precedenti. La folla sembra più piccola, adesso, si concentra su un gruppo minore. Solo questo: immagini
che sembrano scattate in momenti diversi, in posti diversi sicuramente.
Mi soffermo su una, cerco di capire dove posso
averla fatta. Cerco un collegamento, una traccia. Un
indizio.
Poi ne guardo un’altra. Inizio a sfogliarle insieme
come fossero pagine di un libro.
Poi un dettaglio - non è possibile - Sgrano gli occhi non può essere - Confronto di nuovo.
“Oh mio dio!”
E le foto mi cadono dalle mani.
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SECONDA PARTE
La memoria è quello che siamo e ciò che di più
caro abbiamo per noi stessi. Eppure, nel momento in
cui agiamo, non pensiamo che quel gesto di oggi sarà
un ricordo per domani.
Anche io, pur leggendo la vita in questa chiave, una
volta di troppo ho trasformato un’azione in errore incancellabile e ho desiderato di voler tornare indietro.
O dimenticare tutto.
Non potendo tornare indietro, ho dimenticato.
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Dopo tante domeniche di gelati, nascondino,
scherzi sul muretto e baci rubati al posticino segreto,
arrivò una domenica pomeriggio del tutto nuova.
Arrivò con una gara di pattinaggio di Giorgia, fuori
città. La famiglia intera l’accompagnò e rimase a farle
da spettatrice, e in quell’occasione fortuita Daria restò
in casa da sola perché doveva studiare.
Allora è questo che vuol dire fare l’amore! Pensava
sorridendo, sfuggendo, sotto le lenzuola, alla contemplazione di Tommaso ancora nudo nel suo letto.
Daria aveva capito che per lei fosse complicato
esprimersi, trovarsi a scoprire la sua persona, lasciare
che le sue misure di contegno si esponessero al rischio
della troppa vicinanza ad altri.
Lei stessa temeva che, facendosi troppo vicina,
avrebbe potuto non saper parlare lo stesso linguaggio
di un altro, né capirlo. Non venire decifrata era un rischio troppo forte per lei, per la sua volontà di emozioni lineari e non turbolente. Non voleva poi risultare
indiscreta e spontaneamente evitava parole e gesti che
fossero troppo affettuosi.
Tommaso era tutto diverso. Lui era rosso, pieno di
istinto e calore: era la capacità di mantenere un fuoco
alto, di trasformarlo, ma non in pericoloso incendio o
in misero fuoco di paglia. No. Semmai era la certezza
di un camino sempre acceso, di un riparo caldo tra le
mura care.
Fu Tommy che sconfisse le paure di Daria, e non
lei stessa, smantellando roccaforti e lasciando che a
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guidarla fosse quella sensazione di agio e volontà, di
desiderio e necessità di unione che iniziò a provare fin
dal loro primo bacio.
Così, dopo i primi giochi sulla loro pelle nuda,
senza trucchi a frapporsi tra i loro corpi, lei si scopriva
d’un tratto totalmente leggera a galleggiare senza
sforzi, senza alcuna fatica, nelle acque fervidamente
ondeggianti dei primi desideri.
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“Sono stato per tre volte nel sud del Sudan. Lavoravo a un reportage sulla ricostruzione della seconda
guerra civile. Quella volta, due anni fa, sono partito
da Parigi, insieme a un mio caro amico italiano, volontario con una ONG di soccorso umanitario. Abbiamo fatto base insieme, lui aveva dei contatti con
medici e volontari che operavano nella regione meridionale, a Juba, Pibor e Malakal. Quella volta sono
stato più a fianco delle persone che della notizia.
Ne ho viste tante di tragedie, tante guerre, disastri.
Tutte sono atrocemente uguali, e ognuna è diversa.
Malakal mi ha lasciato una ferita più grande.”
Mi affascina. Parla in modo caldo, avvolgente ma
essenziale, la sua voce è l’invito a oltrepassare l’ingresso della sua casa come ospite gradito, come persona di famiglia, e a fermarmi, a prendere la sedia più
comoda e rimanere.
“Eravamo spesso ospiti a casa di una famiglia
originaria di Malakal. Joshua, di sette anni, era
scomparso come altri bambini della città; era possibile che fosse stato rapito e probabilmente sottoposto all’arruolamento forzato, anche lui, tra i bambini soldato. I genitori, Marwa e Kuol, si erano resi
attivi nelle associazioni internazionali di soccorso
per le emergenze, insieme alla figlia Samah, sperando che i punti di raccolta fossero anche volti ad
azioni di ricongiungimento dei famigliari ai bambini
soldato. Avevano sentito dire che alcune squadre di
soccorso operavano per riportare a casa i bambini
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dispersi, finiti orfani ai confini oppure reclutati e obbligati alla guerra. Il capofamiglia, Kuol, nel febbraio
del 2002 era andato ad Akuem, presso un centro umanitario per la distribuzione degli aiuti alimentari. Cercava disperatamente di ritrovare suo figlio, ma morì
lì, in seguito a un bombardamento aereo.”
“E il figlio, poi, è stato ritrovato?”
Fa cenno di no.
“Samah era una ragazzina bellissima, la prima
volta che l’ho incontrata aveva dieci anni. Vivevano
insieme a suo zio, fratello della madre, e io ero sempre
a contatto con loro. Erano diventati un riferimento importante per tutta la comunità di soccorso. Lo erano,
in realtà, fin da prima che nascesse Joshua. Marwa
aveva frequentato i gruppi missionari, quando erano
arrivati nel villaggio vicino, insieme a Kuol aveva collaborato all’aiuto di tante famiglie con le forze internazionali, prima con le associazioni cattoliche e poi
con le ONG. Io e Francesco, che era nei soccorsi
umanitari e conosceva bene e da tempo i riferimenti,
e quindi anche la famiglia di Marwa, eravamo spesso
invitati a cena da loro. Samah sapeva cucinare delle
buonissime walwal, polpette di farina fritta, e portava
al campo caraffe di tabrihana. Ci aveva conquistati
tutti con la sua dolcezza. Samah… Si è messa subito
in mezzo al mio cuore. Lei era il simulacro dell’innocenza, e insieme anche la forza di una famiglia,
l’estratto più forte, più profondo della fiducia che un
essere umano ripone in un altro nonostante gli uomini
abbiano tanto ferito e tanto tradito. Nel tempo aveva
imparato a parlare un po’ di francese, di inglese e di
italiano, mi aveva accompagnato da Emmanuel, un
giovanissimo ragazzo di etnia Nuer, rimasto orfano e
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vissuto in una comunità sorta a opera cattolica qualche anno prima. Emmanuel mi faceva da guida
quando dovevo spostarmi negli ospedali, nei centri
dove fluiva il flusso informativo, andammo insieme a
Juba, a Khartoum, a Rumbek. Ogni volta che rientravo, Samah mi aspettava, in un angolo, nascosta, discreta come un’ombra, mi guardava finché non mi
accorgevo di avere i suoi occhi puntati addosso, poi
ritraeva lo sguardo e mi veniva timidamente incontro.
Sapevo perché il suo volto contenesse tutto il suo
cuore: era in attesa di una mia notizia, in attesa che
un giorno di quelli potessi tornare da lei dicendole di
aver trovato suo fratello. E questo non accadde mai.
Nel tempo di bambini soldato ne ho visti troppi,
specie passando per il Darfur. Ho cercato notizie di
Joshua fino alla disperazione, ho smosso qualunque
ente o istituzione che ritenessi in grado di fornirmi
una pista da poter seguire. Riuscii a conoscere i punti
meno battuti dalle ricerche, sono stato nelle aree di
azione degli eserciti armati. Ma nulla. Non ho mai più
saputo nulla di lui. Mai.”
“Oh, Jean! Un’esperienza incredibile… Legarsi a
vite così lontane, in condizioni talmente ostili alla
vita!”
“L’ultima volta che sono stato a Malakal, sono tornato da Samah con una speranza. Ero prima stato in
Uganda, in un villaggio di emergenza umanitaria. Ho
visto lì un bambino che sembrava proprio Joshua! Gli
ho scattato una foto. Quando sono tornato a Malakal,
Samah mi è corsa incontro piena di speranze, le ho
mostrato la foto. Lei ha guardato, con le lacrime agli
occhi mi ha detto di no, non era Joshua.”
“Mi stanno venendo i brividi…”
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Lui mi sorride dolcemente. Gli prendo una mano.
“…È che non ho potuto fare nulla, nemmeno per
un bambino solo, neanche per una sola famiglia. Se
una persona, in qualche modo, ti mette in mano la sua
vita, tu ne sei responsabile. E io mi sento responsabile.
Anzi: ti confido che mi sento colpevole.”
“Signor Arcand” lo chiamano in visita.
Lo aiuto ad alzarsi, ma sono in difficoltà, vacillo
perché vorrei trattenerlo e trasferirgli di getto il carico
di sostegno che si è accresciuto nel mio cuore a ogni
sua parola, e vorrei dargli io la certezza di comprensione; io so bene che posso assolverlo, e so che potrò
essergli presente. Eppure non so parlare. So solo dire,
con la voce rotta:
“Ma tu non sei colpevole, Jean!”
Mi guarda amorevolmente e si allontana, claudicante.
“Io ti aspetto qui, Jean” gli dico, alzando un po’ il
mio volume e di corsa, finché è ancora vicino.
“Sei un tesoro.”
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Daria ha 18 anni.
Lo guarda uscire dal portone insieme alla sua famiglia, lo vede lì, allontanarsi verso la macchina, lo
guarda impilare nel portabagagli borse, scatole e valigie, in pochi minuti riporre in un piccolo spazio tutta
una vita senza lasciare nemmeno uno spiraglio attraverso il quale poterla riguardare.
La famiglia di Tommaso era stata affittuaria dell’appartamento al primo piano fin da prima che Daria nascesse. Ora se ne vanno.
Il giorno prima aveva visto arrivare il camion dei
traslochi, parcheggiarsi davanti al loro cancello fino a
che era stato caricato di tutta la loro roba.
Uno a uno avevano stipato i mobili e gli elementi
d’arredo di quella casa che lei conosceva bene. Poi lo
aveva visto andare via. A Daria era mancato il respiro.
Quel giorno non erano solo i mobili e i bagagli a
seguire un nuovo destino, Daria pianse a dirotto.
Pianse, rimase nascosta dietro la ringhiera del suo
terrazzo, accovacciata tra le lacrime e le ginocchia, rimase a guardare Tommy sparire dalla sua vita, col
gesto di chi sale in una macchina senza voltarsi, neppure per un attimo, senza lasciare nemmeno per l’errore di un istante che lo sguardo si posasse sulla
finestra di lei, come era sempre stato per tutta la loro
vita, a ogni arrivo e a ogni partenza.
Pianse e restò a guardarlo andare via.
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Da quando Jean mi ha riconsegnato il lettore mp3,
non l’ho più utilizzato fino a oggi.
Esco dal negozio, stanchissima, ma voglio fare
qualche passo in più prima di rientrare in casa. Ascolto
le mie canzoni, ad un tratto mi fermo a piazza Santa
Croce in Gerusalemme.
Intorno a me il traffico, e io mi fermo. A quel punto
della play list trovo l’inserimento di Bach, le Variazioni Goldberg BWV 988. Le gambe si sono fermate,
una profonda commozione nasce dentro me, all’improvviso ascolto la pace, la bellezza e la profondità assoluta di questa verità a cui anela il mio animo, che
vuole smettere di farsi la guerra e liberarsi.
La grazia che ascolto nelle orecchie è ciò che vorrei
avere in cuore, e Jean me lo ha concesso, inserendo
quell’aria magnifica nel mio lettore. Davanti agli occhi
ho l’Ospedale San Giovanni; dietro di me, come
un’ombra benevola, c’è lui. In tutta questa storia.
Jean. Non lo vedo né lo cerco da giorni.
Mi ha lasciato un messaggio. L’ho mandato a memoria, dice così: Daria, come stai? Scusami, non voglio essere inopportuno, veramente, vorrei soltanto
sapere se è tutto a posto.
Ascolto di nuovo l’Aria da capo, ora lasciandomi
alle spalle la città, sparendo, tornando inghiottita dal
sottosuolo della metropolitana, ho voglia di liberarmi
da tutte le catene della mia vita, della mia anima, del
mio passato.
Ho telefonato alla mia amica Valentina, e abbiamo
deciso di passare la serata in un locale, a prenderci un
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bicchiere di Malvasia. È venerdì, c’è tanta gente in
giro, pronta a divertirsi. Tutti sembrano così a loro
agio, avvezzi a questo genere di rotazione quotidiana.
Tutti lo sono sempre, anche questa sera. Quando lo
guardo indossato dagli altri, ogni presente, ogni circostanza sembra splendente, sensatissima così come è.
Le cose, in mano alle persone sembrano meccanicamente messe a punto da un ingegno supremo che
guida e illumina ogni motivazione. Forse è così che
mi sono illusa di poter vivere anche io, cercando di
farmi luce attraverso una facciata singola, di volta in
volta, vivere di compartimenti stagni, senza vedere un
legame tra i miei fotogrammi e senza voler sapere
dove e quando arriva la fine del film.
Ecco, di fronte a un mondo che ti prova l’esistenza
di tutte le gamme di gioia possibile, quanto possiamo
sentirci soli, vuoti! Come un guscio disabitato.
Il tempo non passa mai, anche se le intenzioni
erano tutt’altre: sono uscita quella sera per evitare di
macerarmi, di restare appesa ai miei mille strumenti
di tortura. Ma non riesco a sentirmi diversa da una sfumatura inconsistente.
Mi ritrovo in un pensiero. È il suo pensiero. Penso a
lui che ha in sé qualcosa di entrambi, lui e una nostra
congiunzione indeclinabile, lui che mi cerca, che mi
concede tempo e spazio, lui che mi porta a dismettere la
mia evanescenza inquieta e mi riveste di una volontà
nuova. Il pensiero di Jean.
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Daria, 21 anni.
Come accade nelle grandi città, due persone possono non trovarsi mai, né imbattersi per due volte una
nell’altra; oppure possono incrociarsi nei modi e nei
momenti più inattesi.
Daria non si trovò mai più a guardarlo negli occhi,
né a parlarci, nemmeno un minuto, mai più. Eppure
conosceva ogni cosa di Tommaso, si teneva informata
su di lui dal confine minato della distanza. Sapeva che
era studente di Giurisprudenza, e che intanto era un
atleta a livello agonistico nel nuoto. E sapeva anche
che era rimasto il bellissimo ragazzo di sempre pur
avendo perso quella luce negli occhi, quella forma di
guerriglia briosa che dichiarava a chiunque avesse davanti, per riuscire a conquistarlo.
Da quel giorno lui aveva chiuso con certi lussi, aveva
chiuso con la fiducia verso la vita, verso gli altri, aveva
chiuso con l’allegria e soprattutto aveva chiuso con Daria.
Da quel giorno, non aveva più voluto vederla, né parlarle mai più, dopo quel fatto non aveva più voglia, né
cura, né amore per lei, e neanche una parola da dirle.
Poi era stato più facile voltare le spalle a tutto
quello che avesse un senso e un significato, a lei, al
mondo intero, era stato semplice andar via da quella
strada, da quel piccolo condominio, da quei ricordi di
scuola, di infanzia, di quartiere.
Viveva in zona Prati, adesso.
Queste sole telegrafiche informazioni erano ciò che
rimaneva a Daria di Tommaso.
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Avere dei dati di una persona, averne solo dei riferimenti asettici, è come possedere un mucchio d’ossa,
come portare con sé le ceneri di chi prima, un tempo, è
stato nostro, ed era tutto fuorché un indirizzo, un’informazione o il resoconto di una riga.
Tutti quelli che hanno avuto e poi hanno perso il
loro amore vorrebbero trattenere quello che è possibile, non arrendersi a vederlo sfiorire, o sparire, andarsene bruscamente.
Daria preferì a lungo vivere con quel surrogato,
come accade a molti, piuttosto che perdere la certezza
del presente si tenne stretto un riflesso di passato.
Abbrancare il suo amore per Tommy voleva dire
anche tenersi stretto l’imprescindibile dolore di non
averlo più, di sapere che nel cuore di Tommy verso di
lei ci fosse solo rancore.
Daria finì per spaccarsi in due parti, e per cadere in
guerra con se stessa.
Consapevolezza e colpevolezza.
Come accade qualche volta, un giorno qualunque,
dopo tanto tempo, Daria lo rivide. Lui passava, inaspettatamente, davanti all’ingresso dell’Università.
Camminava col suo passo sicuro, si lasciava alle
spalle Piazzale Aldo Moro e arrivava in Facoltà, parlottando con un gruppo di studenti. Passava davanti a
lei, senza vederla, con lo sguardo rivolto verso il
basso, mantenendo un sorriso che, anche se sbiadito,
ricordava quello di un tempo, fulgido e aperto.
Lei in un colpo morì e tornò in vita.
Quando si accertò che Tommaso fosse abbastanza
lontano per poterla vedere, ritornò lucida. Senza deciderlo, lo seguì fino all’aula dove c’era una lezione di
Diritto Costituzionale.
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Aspettò, girando nella città universitaria come
un’anima del purgatorio, rivivendo sotto la pelle un ricordo mai cancellato e ancora più vivido. Dopo due
ore la lezione era finita. Si nascose, spalle contro il
muro di fronte, facendo capolino, aspettando di vederlo uscire.
Segnò l’orario della lezione, e controllò nei programmi il calendario dei giorni previsti per le successive.
E così, senza deciderlo, iniziò a pedinarlo con regolarità.
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Quando Jean tornò in sala d’aspetto, io ero appena
entrata in Traumatologia.
Ci trovammo dopo poco più di una ventina di minuti, ragguagliandoci su quanto avessimo potuto intuire dai tecnici di laboratorio che ci avevano
sottoposto alle radiografie.
Dovevamo ancora attendere i risultati, e fare,
forse, altre indagini.
“Jean - gli dissi - riguardo a quello che mi hai confidato, ecco, tu non hai nessuna colpa per quello che
è successo a Joshua.”
“Grazie. Sei gentile a dirmelo.”
“Non è gentilezza, è davvero così: tu hai fatto tutto
il possibile. Ma anche se non lo avessi fatto, la colpa
non sarebbe stata tua. Non è a causa tua se in tanti
paesi ci sono le guerre e i bambini soldato.”
Lui mi sorride e mi dice:
“Certo, ma non è semplice convincersi di non aver
avuto responsabilità nei confronti di Samah e di
Marwa.”
“Tu hai preso un impegno e lo hai mantenuto… hai
fatto il possibile per loro…”
“Non lo so Daria, visto il risultato!”
Resto in silenzio. Nella gola si rincorrono precipitosamente le corde vocali pronte a esprimergli piena
comprensione. Eppure la lingua è bloccata.
“Io lo so che vuol dire” dico soltanto.
“Cosa?”
“Che vuol dire vivere con la colpa nel cuore.
Avere davvero una colpa dentro. Una macchia di
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reale responsabilità… Ma tu non hai motivo di flagellarti così, non hai nessuna colpa, Jean, anzi… sappi
che da oggi sei un eroe per me!”
Lui mi sorride, scuote la testa e gli viene spontaneo muovere una traccia di carezza sul dorso della
mia mano sinistra, che ho fiaccamente dimenticato
sul ginocchio.
La ritraggo dopo pochi istanti, quando lui mi
chiede:
“Anche tu senti di vivere da colpevole?”
“Io? No… io no…” balbetto.
“Ah! - esclama - Be’… perdonami allora, ho frainteso il significato delle tue parole…”
Gli si disegna sul viso un’increspatura di costernazione perché crede di essere stato poco discreto.
“Non ti preoccupare… È colpa mia se sono così
difficile da capire, è perché sono distante da tutto.
Sono in guerra con me e contro me stessa.”
Lo guardo dritto negli occhi, non sa che significato dare alle mie parole ma vedo che cerca il loro
senso, cerca il senso che hanno per me. Raccoglie i
pensieri per un attimo, mentre io mi chiedo chissà
quanto deve credermi bambina, vedendomi arroccata come sono a un’apparenza di riguardoso assetto, nel tentare discorsi di condivisione autentica,
partendo dal basso pulpito di una esiguità che gli
tengo ben nascosta.
“E perché non ti arrendi?” mi chiede, invece.
“Se lo fai anche tu, prometto che ci provo. Alzo la
bandiera bianca.”
Un’infermiera si avvicina e chiama il mio nome,
mi alzo in piedi, e lei mi comunica che possono fasciarmi il braccio.
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Mentre la seguo, sento pronunciare il nome di
Jean, mi volto e anche lui sta per essere medicato, mi
fa cenno che ci troviamo dopo.
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Daria, 23 anni.
Tutto in bianco e nero.
Tommaso, che attraversa Viale Regina Margherita
e scende alla metropolitana.
Tommaso, che taglia il traffico, in motorino.
Tommaso, che vince una gara di nuoto.
Tommaso, che mangia un gelato da Old Bridge con
una ragazza.
Quante foto si possono scattare a distanza, senza
essere scoperti dall’oggetto in obbiettivo.
E quanti tumulti dietro a ogni scatto.
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Mi ricordo, sì, l’indirizzo è via Botero.
Sono già sulla porta di casa mia e controllo, dal biglietto, che la mia reminiscenza sia corretta.
La sua strada è a meno di un chilometro da casa
mia, ma ho aspettato troppo a prendere quella direzione al punto che ora ogni passo è di insofferenza.
Eccomi, ed ecco lui, che mi apre la porta con tutta
la sorpresa di vedermi.
“Ciao! Vieni!” mi dice, e mi lascia entrare accompagnando con le braccia un segno di invito.
“Caspita! - dico, vedendo che ha in mano delle
scartoffie, e indossa gli occhiali da vista - Solo ora mi
viene il dubbio di poterti disturbare.”
“Ma che dici Daria… hai fatto bene a passare.”
“Ho pensato che di domenica non si dovrebbe lavorare, ma se per i giornalisti non vale ritorno un’altra
volta!”
Sono al mio posto, con il mio tono di voce di sbandierata inespressività, le mie braccia conserte, la mia
schiena posta indietro rispetto all’asse, il mio sorriso
plastico, sono al mio posto; ecco sono composta, niente
può scompormi, nulla della sua intensità mi può scalfire… Ma ora che il ricordo è chiaro, ora che conosco
la tenerezza e la cura che quest’uomo, totalmente estraneo, si è caricato sulle spalle per me, io vorrei lasciarlo
entrare di nuovo nella profondità dell’abisso che mi
abita. Vorrei abbracciarlo, in silenzio.
Ma mi proteggo da tanta condivisione, ancora tengo
stretto a me quel distacco rassicurante. So da cosa mi
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potrà salvare, quella distanza. Non da lui, ma da quel
ricordo che ora non posso più fingere fantasma.
Mi chiede se mi piaccia il tè, rispondo di sì, e mi fa
accomodare in cucina.
Mi muoiono in bocca le parole: Caro Jean.
Ripeterei a lungo così: Caro Jean. Caro al mio
cuore sei tu, caro al mio cuore il tuo nome.
La casa è piccola ma ha i suoi giusti spazi, perfettamente curati per adoperarsi all’occorrenza anche a
studio. Ha tuttavia un suo calore, nonostante si veda
che sia la buccia di un uomo e non di una famiglia.
Questa casa, penso, è il suo negativo: lo riflette, e
inoltre parla di lui, contiene il suo odore, oltre che i
suoi fotogrammi. Riluce la sua persona.
Dalla mia sedia guardo il salotto, proprio davanti a
me si stende una grande libreria, con ai piedi un paio
di scatoloni. Si accorge che sto guardando proprio
quell’angolo e mi dice:
“Vedo che mi hai scoperto subito! Sono rimasti lì
solo quei due mucchietti di libri da sistemare, il resto
del trasloco è fatto.”
Versa il tè in due mug.
“Non sai quanto fossi in pensiero per te” dice facendosi improvvisamente serio, spostando il tono
dalla lancetta del convenevole a quella dell’intimità.
“Non devi Jean, è tutto a posto. Stavolta non è per
me che sono venuta qui, davanti a te.”
Forse preoccupato, aspetta che io concluda.
“Non ho il coraggio nemmeno di chiedertelo, ma
qualche giorno fa ho letto tra le notizie estere di una
serie di scontri a Malakal! Parlavano di trecento vittime… e… volevo sapere se… Marwa e Samah…”
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Spalanca un sorriso dolcissimo.
“Se mi fai questa domanda, allora ti sei ricordata
tutto!”
Devo rispondere, e quindi, sì, annuisco. E in un attimo il mio schermo cade, immergo il viso nella tazza
fumante. Lui sa adesso che ha davanti una persona
completamente cosciente, ma non sa quanto quella
persona sia vulnerabile per il fatto di condividere ora
consapevolmente con lui le sue ombre.
“Stanno bene, Daria. Ho contattato il mio amico
Francesco, non era in Sudan nei giorni scorsi, ma mi
ha saputo informare su tutto. Mi ha rassicurato sul
fatto che il campo di soccorso era stato evacuato, e
anche Marwa e Samah si sono spostate e sono al sicuro, nei pressi di Juba.”
“Ah, che sollievo…”
“Mi dispiace che tu ti sia preoccupata. Ti ringrazio.”
Si alza e prende una bottiglia d’acqua.
Ho timore che adesso voglia affrontare l’altro discorso. Sarebbe giusto e legittimo da parte sua, e nonostante questo passo mi spaventi, anche io ho bisogno
di farlo con lucidità. Mi devo ricollegare alla realtà,
mi voglio ricostruire.
Ma questo è un altro momento, è una forza incoercibile che mi spinge a sollevarmi di colpo dalla sedia,
stendere le braccia e richiuderle con lui dentro.
Oh Jean, non dire nulla, ti prego. Fatti solo dire,
in silenzio, con questo abbraccio: grazie Jean, per la
dedizione che adesso vedo bene.
Lo stringo di più.
Per la fiducia che tu hai riposto in me, per la tenerezza con cui hai intravisto e custodito i miei segreti
senza inorridire.
90
Lui mi accarezza le spalle, i capelli.
E scusami, perdona il mio tormentoso modo di
essere.
“Grazie Jean.”
Rimani distante ancora un momento, ti prego. Non
guardarmi, ancora.
Non ho provato mai più, in tutta la mia vita, un desiderio così forte verso un uomo come in quel momento.
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Daria, 26 anni.
All’ombra di una stanza di una vita al buio.
Seduta all’angolo del suo letto, vagamente assente,
nitidamente amareggiata, è appena rincasata dall’appuntamento con un ragazzo che frequenta da qualche
settimana.
Lui, Stefano, è più giovane di Daria di qualche
anno, studia legge, lo ha conosciuto alla festa di compleanno della sua amica Valeria.
Si sono stati simpatici da subito, lui è molto attraente e spensierato. Al secondo incontro, dopo la birra
a Campo de’ Fiori la riaccompagna a casa in macchina.
Daria non gli ha detto che da più di un anno vive
da sola al terzo piano di quell’edificio. Non glielo dirà
mai per evitare di farlo entrare nel suo spazio. Difende
la sua casa, la sua vita, come un predatore territoriale.
È la fine di luglio, quella sera l’aria così mite rende
amabile anche uno slargo qualsiasi di un quartiere qualunque. Così Stefano ha posteggiato l’auto alla fine
della strada, sono scesi per fumare una sigaretta, e lui
l’ha baciata. L’ha invitata a rientrare, ha posizionato i
sedili in orizzontale e si è fatto accordare il permesso
di toccarla. Le ha detto, in una ostentata eccitazione,
di volerla moltissimo, e lei gli ha risposto sbottonandogli i pantaloni.
Lui le ha preso un lembo della sua maglietta e ha
provato a sfilarla, ma Daria ha trattenuto la sua mano
bloccandolo.
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Non vuole essere guardata. A lui dispiace, ma senza
neanche troppo rammarico: può fare a meno di guardare, può evitare la totalità del contorno purché si arrivi
al piatto forte, ed è così che si consumano. Si muove
convulsamente su di lei, qualche volta geme un sì, è
soddisfatto, e lei finge altrettanta soddisfazione.
Allo stesso modo seguono altre volte, sempre lo
stesso scenario, la macchina, il buio, il caldo sempre
più intenso, il silenzio surreale della città in vacanza.
Sempre poca calma, la fretta di una consumazione
senza grande appetito. E molta, moltissima distanza tra
due corpi vicini. Mai uno sguardo alle loro figure.
Quella era stata l’ultima occasione tra loro.
L’ultima di altre, con qualche altro ragazzo, che
quasi sempre era più giovane di lei, e sempre spensierato e un po’ simile a Tommaso.
Non voleva nulla, lei. Infatti non aveva mai nulla,
nessuna sorpresa, nessuna esultanza e, così, nemmeno
alcun biasimo.
Si intravide nello specchio, nel riflesso di un buio
insensatamente diafano, il livido dell’iride distratto da
un ombretto blu, e un ghigno di rossetto leggermente
sbaffato.
Si alzò dalla poltrona, accorciando le distanze tra
sé e lo specchio si avvicinò, ancora di più. Si guardò
attraverso il buio e riacquistò la sua presenza: comprese, sentendolo dalle sue viscere, che non voleva più
farsi toccare.
Senza deciderlo, ancora una volta si trovò a regolare l’esposimetro, preparò senza troppi artifici di prospettiva una sequenza di autoscatti. Vestita. Poi, tolse
la maglia. Poi i bermuda.
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E iniziò senza guardarsi, così, a imprimere immagini di se stessa.
A scendere in basso, voleva arrivare fino a dove potesse essere priva di innocenza.
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Siamo abbracciati ed è questa la mia più lunga e
concreta pace dopo anni di guerra.
Sento bene che mi vuole, il suo desiderio si ferma
a riva del mio guasto nell’anima, quello che lui ha
ormai avvistato.
Mi sussurra in un orecchio:
“Ho tenuto una cosa, tesoro.”
“Cosa?”
Scioglie l’abbraccio, sparisce un minuto nel salone
e rientra, portando in mano una foto.
“Questa…”
Una foto, una di quelle in cui sono poco vestita e
ho pochi pudori.
“Perché l’hai tenuta?” gli chiedo con una modulazione interiore che mi impone di ritornare alle mie
armi, appena dismesse.
“Volevo guardarla con te, bambina.”
“Perché diamine mi chiami bambina?” sprofondo
nella vergogna, lo devo assalire, e mi divincolo coi
miei toni piccati.
“Vieni e guardati. Dimmi cosa vedi. Dimmelo bene.”
“No. Scusami. È meglio che me ne vada!”
“Sta’ qui, ti prego. Scusami. Scusa… Allora ecco…
Ti dico cosa vedo io, vuoi?”
Sì che voglio, tesoro mio.
Annuisco, perché non c’è niente che voglia di più
che sapere se mi sta disprezzando per quello che vede.
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“Vedo la tua pelle chiara, la tinta nocciola dei tuoi
capelli. I tuoi colori sono calamita per altri occhi.
Guardo una bocca perfetta, leggermente socchiusa,
vedo una ragazza intimidita dalla sua stessa bellezza.
Vedo lo sguardo verde che è piovuto nei tuoi occhi, lo
sguardo di chi vuole piacere, di chi vorrebbe tanto godere, lo sguardo di chi si accorge di essere pericolosamente potente, e allora deve nascondersi, perché
troppa vergogna lo vince. E vedo una bambina, la più
piccola del mondo, la più fragile dell’universo, che
vorrebbe essere portata via da una camera oscura e
messa al centro dello spazio, sotto al sole. Una bambina che muore dalla voglia che qualcuno le dica: sei
piccola, sei ancora così innocente.”
Mi viene da piangere, afferro tremando il mignolo
e inizio a tirare via le pellicine con i denti.
“Tu non lo sai, Jean… - gli dico, dopo un pesante
sospiro - Non sai quanto mi sia buttata via!”
“Anche se pensi di avere motivo di trattarti da persona sbagliata, Daria, non è così.”
Piango.
“Mi hai detto che dovevo svegliarti. So che volevi
dire proprio questo, volevi chiedermi di aiutarti a vedere, a guardarti.”
Non dico nulla, non riesco a muovere la lingua, che
sembra essersi dissolta in bocca, scivolata giù lungo
la gola assieme alle lacrime che ho trattenuto.
“Tesoro… lo sai perché ti facevi quegli scatti vero?
Ora lo sai?”
Sospiro ancora, a fondo, amaramente.
E amaramente annuisco.
“Adesso, ti prego però, guardati. Guardati.”
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Mi supplica. Appoggio gli occhi su quella fotografia. Mi ero rivolta decine di scatti senza mai vedere
quello che aveva visto lui.
Mi abbraccia. Mi stringe, non mi lascia andare.
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Abbiamo avuto entrambi le nostre prognosi.
Jean ha una fascia intorno alla caviglia fin sotto
al ginocchio, io intorno al braccio.
Siamo in dimissioni. Lui chiama un taxi, io voglio
camminare. Giorgia mi è venuta incontro, mi aspetta
all’uscita dell’ospedale. La vedo fare un passo avanti,
poi tentennare un po’ e poi fermarsi. La riconosco,
anche se la sua figura è in lontananza. Poi anche lei
mi vede e finalmente la sua ansia si scioglie e diventa
sollievo, diventa sorriso per me. Le faccio cenno di
aspettarmi un momento, mentre Jean si avvicina.
“Ecco fatto, allora! Ci siamo…” mi dice, prima di
salutarmi.
“Jean… io…”
Intorno a noi restano in attesa decine di persone.
“Daria… quando staremo meglio ci potremo rivedere?”
Apro la borsa, frettolosamente. Prendo due rullini
integri.
“Tieni Jean, ecco. Prima guarda queste, e poi, se
ancora vorrai vedermi… vieni da me.”
Lo abbraccio serrando le palpebre per non precipitare nel suo sguardo intenso.
“Svegliami se puoi… - gli dico, mentre mi sistemo
il cappotto alla meglio sopra il braccio - Ho bisogno
che mi svegli.”
“A presto, Daria.”
Volto le spalle con malinconia, e una stanchezza
immane mi piomba addosso.
Poi, nihil. Tabula rasa.
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“Jean… Tu sei tornato da me prima di aver visto
tutto…”
“Sarei tornato anche senza aver visto nulla, Daria.”
Rimango in silenzio davanti ai suoi occhi. È infinitamente serio, è saldo, risoluto, sembra nato per accogliermi e rabberciarmi; sembra al mondo per essere
lì in quel momento, arrivato lì da ogni tempo e luogo,
lì, solamente per curare le mie fratture.
Abbiamo appena sciolto l’abbraccio, eppure il suo
sguardo mi tiene ancora. Nel naso ho la sua Eau Sauvage, riconosco bene quel profumo, e sulle guance è
rimasta la morbidezza del suo golf.
“Sei troppo giovane e forse per questo ti sorprendi… Io ti voglio guardare ogni giorno.”
Mi commuovo e abbasso lo sguardo.
Prendo dalla sedia la borsa, ci affondo una mano.
“Ecco - gli dico - questo è il rullino che non hai sviluppato.”
Si siede, aprendo l’album che gli ho appena consegnato tra le mani.
Io resto in piedi, davanti a lui, ma istintivamente
mi volto di spalle.
Ho le mani giunte e la fronte appoggiata sopra.
Ora sta sfogliando le foto.
Sento il rumore della carta politenata sfogliata, una
fotografia scorrere sull’altra, poi il silenzio, e un’altra
volta le sue dita sulle immagini.
Ecco. Ora si è soffermato con attenzione, ha appoggiato l’ultima immagine sul tavolo, e si è avvicinato
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di più, ripiegandosi su un bianco e nero mai più spietato di allora.
La confronta con la precedente e la successiva.
Non mi chiede nulla, sono io che, senza nemmeno
voltarmi, gli dico:
“Lui è Gabriele.”
So che sta guardando una serie di foto di un ragazzino sbattuto su un letto di ospedale, con lo sguardo
assente, il busto ingessato, che sparisce intorno a una
invadente cornice di tubi e macchinari.
“…È morto sei mesi fa, dopo anni vissuti in questo
stato. E sono io che l’ho ridotto così.”
100
Daria e Tommy, 17 anni.
Quel pomeriggio Gabriele avrebbe lezione di nuoto,
ma la piscina è chiusa. I genitori di Tommy sono stati,
quella volta, entrambi eccezionalmente trattenuti nei rispettivi uffici. Quando si verifica una situazione di questo tipo, è Tommaso a occuparsi di suo fratello.
Lui e Daria vanno a prenderlo a scuola e, tornando
a casa, mentre Gabriele saltella strattonandoli a destra
e sinistra, si lanciano sguardi complici in previsione
di un pomeriggio sgombro di ostacoli per ripetere
l’esperimento tra i loro corpi.
È una splendida giornata di maggio, e mangiano
tutti e tre i loro gelati in giardino.
“Io ora gioco con Matteo e Davide! - annuncia poi
Gabriele, che ha scorto i suoi due amichetti in arrivo, i
fratellini del palazzo accanto - Venite qui!” dice loro,
facendo il cenno di correr loro incontro.
“Va bene Gabry - gli dice Tommaso - Io e Daria saliamo, ti guardo dal balcone e tra un po’ vieni a casa
anche tu, va bene?”
“Tra un po’ quanto?” chiede Gabriele.
“Ti chiamo io, ora gioca.”
Tommaso guarda Daria negli occhi, e prendendole la
mano la trascina al lato opposto del cortile, senza che il
fratello li veda, fino a condurla al loro vecchio posticino.
“Ora, se hai il coraggio…” inizia Tommy, ma
prima che concluda la frase, lei gli salta al collo e inizia a baciarlo insistentemente.
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Lui corrisponde alle sue labbra, e si trascina con le
mani sotto la sua camicia, slacciando i bottoni, accarezzando i suoi timidissimi seni di donna eccitata dal
desiderio.
Daria sgancia il primo bottone dei suoi jeans, e
Tommaso la ferma:
“Dai, passiamo a controllare Gabry e poi saliamo…
continuiamo nel mio letto.”
“No, dai ti prego, un attimo solo…” sussurra lei,
trattenendolo a sé.
“Ma sei tremenda…”
“Non ti piace?” sussurra mentre lo bacia lungo il
collo e sbottona anche i suoi pantaloni.
“Andiamo…” le dice, con voce rotta dall’eccitazione, ma cercando di convincerla a seguirlo.
“Un attimo soltanto e poi andiamo.”
Solo due minuti, ma forse meno di due minuti
dopo, ecco l’urlo.
Da quel momento il tempo si è fratturato, letteralmente, se ne sono sentite le consistenze frantumarsi.
In quella spaccatura, la pellicola si è allungata. Scorrono i fotogrammi di Daria e Tommaso che escono di
corsa dal cortiletto, si precipitano verso le urla. Tutta
l’aria intorno è risalita a ritroso andando a incollarsi
ai tetti, al muro, agli alberi, al cielo, svuotandosi di
ogni rumore.
Davide e Matteo piangono a dirotto, immobilizzati
davanti all’imbocco del passaggio sulle scalette. Sono
scesi di corsa i loro genitori, hanno chiamato l’ambulanza. In fondo ai gradini dello scantinato c’è il corpo
silenzioso, storto e traverso di Gabriele, steso sul dorso,
tra la sua testa e il collo uno scalino e una macchia scarlatta. Tommaso urla, Daria è immobilizzata, risucchiata
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in quello squarcio dove tutto il tempo è assurdo, ovattato, surreale.
Dopo l’episodio di tanti anni prima, quando era
stato Tommy a cadere, quell’area intorno era stata
chiusa con una recinzione per evitare che si ripetessero
incidenti… ma Gabriele aveva scavalcato.
Tommaso scende le scalette in fretta e chiama il
nome del fratello, i vicini lo trattengono dal muoverlo
da quella posizione, cercano di tranquillizzarlo ma tutto
è vano, fino all’arrivo dell’ambulanza.
La corsa in ospedale. Tommaso lì, seduto in sala di
aspetto con la testa tra le mani. Si alza e poi si siede,
così, ripetutamente. Il suo corpo è nervosamente presente a fronte di un animo assente, perso nel vuoto.
I suoi genitori sono arrivati, stanno parlando con il
medico.
Va operato d’urgenza, è in coma. Ha un edema nel
cervello.
Cinque ore dopo, lo stesso chirurgo riferisce che se
si sveglierà avrà quasi certamente dei danni neurologici,
non si può definire di che entità né se saranno permanenti, ma la previsione è di danni gravi.
Non hanno potuto fare nulla per il danno alla spina
dorsale, in un punto innervato e inoperabile.
Tommaso non parla più. Daria gli ruota intorno da
ore. I genitori l’hanno costretta a tornare a casa per lasciare la famiglia più libera di gestire quelle ore tragiche, offrendo loro ogni disponibilità in caso di
qualsiasi bisogno.
Daria è tornata il mattino dopo. Tommaso non è voluto andar via, ha saputo la prognosi e non ha più alzato lo sguardo dal pavimento. I genitori la vedono e
le rivolgono un amorevole tentativo di sorriso. Sono
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due fantasmi, in attesa. Disperazione, macerazione.
Tommy è stato nella stanza di suo fratello, è uscito e
non si è più mosso dalla sedia.
Daria lo vede e gli si ferma il cuore. Gli si avvicina
con il volto rigato dal pianto e gli occhi gonfi di lacrime. Non trova nemmeno il fiato talmente è violento
lo scuotersi della sua anima dentro.
Quando è ferma davanti a lui Daria solleva una
mano, per avvicinarla al suo viso, ma lui la blocca con
violenza prendendola per il polso.
“È tutta colpa tua! - lo dice guardandola negli occhi
a voce bassa, e continua - Sei tu che gli hai raccontato
di quando mi sono buttato giù - Il tono è in crescente
afrore - Sei tu che ieri mi hai trattenuto. Mi hai fatto
distrarre, mi hai allontanato da mio fratello - quasi urlando - Se io avessi fatto come dicevo, se fossi tornato
indietro un attimo prima… Io… Io…”
Daria si lascia inghiottire dall’inferno. Vorrebbe dire
qualunque cosa ma non ha coraggio né sente di possedere ancora una voce. Pensa di non avere più nemmeno
un corpo, e men che meno, un’anima. Le esce un rilascio di singhiozzo, un gemito di tutti i dolori del mondo
aggrovigliati tra loro.
“Vattene! - continua Tommaso, ritornando a un
tono di voce sostenuto, ma fermo - Ti odio e non voglio vederti mai più.”
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“…Da allora non mi ha mai più rivolto la parola.
Nei periodi successivi sono stata a trovare Gabriele
in ospedale, e quando mi capitava di incrociarlo nella
sua stanza o in corridoio, Tommaso avrebbe voluto
mettermi le mani addosso. Non lo ha fatto per non
creare altri problemi e tensioni ai suoi genitori… Ma
era così rabbioso che stringeva i denti e i pugni, mi
guardava con disprezzo e odio. Alla fine, per andare
da lui dovevo sapere quando Tommaso non c’era…
Credo sia stata quella la prima volta che ho cominciato
a spiarlo.”
Jean è un lago di compassione: tutti i suoi nervi, i
muscoli e le ossa, appaiono sulla pelle creando un
composto trasparente e liquido fatto di presenza e cordoglio.
“Daria, lo sai, vero, che non è colpa tua?”
“Sì che è colpa mia” rispondo mordendomi un labbro e ghermendo con gli incisivi un polpastrello.
“Daria…”
Abbasso lo sguardo e la diga si rompe, bruscamente inizio a piangere.
“Nessuno sa tutta la verità, tranne Tommy. Nessuno
sa che sono io ad averlo trattenuto lì, per il mio egoismo di ragazzina alle prese coi primi ardori. È stata
solo colpa mia! Solo Tommy sa che ho ucciso l’esistenza di suo fratello e ha ragione a odiarmi. Mi odio
anche io…”
“Basta. Tu sei così piccola… Nessuno può portarsi
addosso un peso e un odio tanto gravi! In fondo lo sai
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anche tu, è per questo che hai cercato di mettere da
parte quel masso, estraniandotene, dimenticando.”
Mi lascia riprendere fiato.
“Volevo parlarne con mio nonno. Mi leggeva il
cuore e sapeva che ero incastrata in qualche angusto
angolo buio, ma io non ce la facevo a dirgli tutto, non
potevo. Non so esattamente quando ho iniziato ad
avere due vite. In una ero quella che vive nel rimorso,
che si butta via, e come un ratto si nasconde e cerca il
modo per avvicinarsi a chi ha tanto amato e tanto ferito. Nell’altra ero una ragazza normale, misurata, assennata, che ignorava l’altra persona. Sapevo dentro
di me di essere una doppia, ma non riuscivo, né volevo
dirmelo.”
Faccio fatica a parlare per via del singhiozzo, ma
non posso evitarlo, adesso, proprio adesso che finalmente è arrivato il momento della redenzione. Allora
prendo un po’ di fiato e continuo.
“Ho smesso di andare in analisi senza mai risolvere
niente. Forse arrivavo vicino alla verità del dolore e
mi fermavo. Anche dopo l’incidente.”
“Ora puoi ritentare… L’incidente alla metro è stata
la punta dell’iceberg, hai dovuto vivere quel trauma
per scoprire cosa c’era sepolto sotto. Può capitare di
smarrirsi e poi ritrovarsi, sai?”
“Ma io non voglio ritrovarmi. Voglio solamente
tornare indietro e rimediare! Non sai quante volte, per
quanto tempo mi sono portata indietro con la mente,
mi sono massacrata con se avessi fatto, se non avessi
fatto. Mi sono trascinata nel passato con la speranza
che fosse soltanto un brutto sogno destinato a svanire.
Oh, Jean! Perché non può funzionare così? Perché non
può tornare tutto a posto? Perché abbiamo solo una
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vita e la sbagliamo? Cambierei tutto, se avessi solo
un’altra possibilità…”
“Tesoro - mi dice, attingendo le parole direttamente
dall’anima - ti ricordi cosa mi hai detto in ospedale,
quando parlavamo di Joshua? Mi hai detto che non era
colpa mia, che le cose accadono, che la forza della vita
è molto più vigorosa di noi.”
Il silenzio si allunga come un elastico, mentre cerco
di prendere fiato.
“Non riusciamo nemmeno a perdonare noi stessi
né a perdonarci l’un l’altro, anche se siamo stati legati
da tanto amore e a lungo. Se sappiamo vivere in guerra
con noi stessi e con il nostro più caro vicino, si potrà
mai far cessare le bombe?”
Mi sorride con dolcezza.
“Sei tanto piccola in misura di quanto sai essere
grande - mi dice, moltiplicando tenerezza a ogni parola - Sai come faremo noi? Un passo per volta. Faremo un mondo nuovo a partire dal tuo e dal mio.”
“Ma come?” chiedo a lui, e a me chiedo, rendendomi conto dell’enorme consolazione che mi nasce in
cuore da quell’istante, se sia possibile che quell’uomo,
sconosciuto fino a pochi attimi prima, abbia potuto
confortare una vita in balia della colpa infinita.
“Be’… Incontrarti ha iniziato già a cambiarmi e ora
è il mio turno di fare lo stesso per te. Devi capire, e
capire davvero, che il tuo senso di colpa non modificherà il fatto che quello che è successo è stato un incidente. Sarebbe successo comunque. Tu mi hai detto
che non è colpa mia se non ho potuto fare di più per
una famiglia in un Paese che è sotto le armi da decenni. Io ora dico a te che non è colpa tua Daria, se un
bambino gioca e cade.”
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Piango di commozione, ora. Le sue parole hanno
iniziato a sciogliere le mie catene, sono visibilmente
toccata, totalmente grata. Lui si avvicina a me più di
quanto già lo sia e non sa se può prendersi la libertà
di abbracciarmi, per pudore, per rispetto di quel momento luttuosamente mio. Non sa se può scavalcare
la muraglia. E lo faccio io per lui, gli prendo il viso
tra le mani, ne accarezzo la ruvidità, lo contemplo, finché le sue labbra, adorabilmente sbilanciate, vengono
a cercare e trovano le mie.
Ho visto qualcosa di nuovo in lui, ed è stato in quel
punto che mi sono ritrovata. Perché in quel punto
c’ero anche io, ed era realmente, puramente incontaminato.
Benché fosse integro e solo suo, benché non lo
avessi mai notato né trovato prima, io mi ci sono riconosciuta, e c’ero.
C’era quella persona, quella ragazza che ero, quella
che precedeva le colpe, che credeva nella vita.
Fino ad allora ero uscita da molte porte, senza mai
essere entrata in una stanza. Ma adesso c’ero, iniziavo
a riconoscere l’odore, e le sue pareti volevano contenermi per fondere quell’odore al mio, era una stanza
tanto familiare da volermici fermare. Ho chiesto a
quell’uomo di varcare la soglia, di oltrepassare il
muro, ma senza che me ne rendessi conto la nostra
porta era spalancata, e noi eravamo già dentro.
Capirlo è stato naturale come vedere, perché era
chiaro e logico come i numeri, in mostra come le fotografie, ed era semplice, involontario come respirare:
io per lui, e lui per me.
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Daria e Jean, 31 dicembre 2009.
“Buon anno petit bourricot!” dice Daria, piroettando nel salotto di casa, alle prese con lenticchie e
vino.
Lui la guarda, impressionato, ammaliato.
Frizzante nel tubino rosso, che cela un grembo abitato da poche settimane, Daria prepara due bicchieri,
e riempiendoli dice: “Io non bevo, lo sai, ma propongo
un brindisi. A nostro figlio in arrivo! Maschio o femmina che sia, brindiamo al primo dei fratelli Arcand!”
Si commuove, lui.
Daria lo guarda negli occhi, fin dove la luce gioca
a far nascere le immagini. Rivive in pochi istanti tutta
quella storia, la loro e la sua.
Certe colpe non si sciolgono al sole, ma arriva una
notte che alla fine le perdona.
Hanno tanti progetti, adesso. Il negozio di Daria si
sta trasformando nella sede di una piccola redazione.
Lei non poteva tradire suo nonno, e disperdere tutto
quello che aveva costruito nella vita. Lavoreranno insieme, pubblicheranno reportage, collane fotografiche,
voci inascoltate, anche di Paesi lontani. Daria ha così
tanto materiale meraviglioso, opera di suo nonno, che
sarebbe un peccato non offrirlo al mondo. E poi ha la
sua passione, e quella di Jean, e insieme sono una squadra perfetta.
Brindano al futuro, e lui la bacia, su una mano
prima, e sul ventre poi. Entrambi sanno che la memoria resta, anche quando cerchiamo di liberarcene,
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anche quando si pensa di averne perse finalmente le
tracce. Ma sanno che si può trovare anche il modo di
celebrarla oltre che dissacrarla e sradicarla da noi
stessi. Ora lo sanno, ed è così che vogliono vivere.
“Sei sempre piccola per me.”
“Non credi che io sia troppo grande per rimanere
piccola?”
“Se possibile, vorrei che diventassi ancora più piccola.”
“E poi? Come faresti, ad esempio, a vedermi, se diventassi minuscola e poi invisibile?”
“Solo io potrei vederti lo stesso, e ti guarderei fino
a sempre.”
“E non puoi farlo anche ora, prima che in questa
casa saremo in troppi?”
“Infatti ho già iniziato da un pezzo.”
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INDICE
PRIMA PARTE
Il giorno in cui la mia vita cambiò
Se non mi dici che mi sposi
Era trascorso un mese dall’incidente
La porta si aprì
Indietro
Jean!
Tommaso ha 11 anni
Come ti chiami?
Mi sveglio di soprassalto
Freddo o caldo che sia il cielo
L’incidente in sé per sé era superato
Tommaso e Daria, 12 anni
Non pensavo ad altro
Tommaso ha deciso
Non so se sia un pregio o un difetto
Dopo la visita di accoglienza
Il marmo è freddo, adesso
Daria ignorava cosa significassero
Che succede?
Tommaso e Daria, 15 anni
Alla metro quel mattino
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SECONDA PARTE
La memoria è quello che siamo
Dopo tante domeniche di gelati
Sono stato per tre volte nel sud del Sudan
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Daria ha 18 anni
Da quando Jean mi ha riconsegnato
Daria, 21 anni
Quando Jean tornò in sala d’aspetto
Daria, 23 anni
Mi ricordo, sì, l’indirizzo è via Botero
Daria, 26 anni
Siamo abbracciati
Abbiamo avuto entrambi le nostre prognosi
Jean...
Daria e Tommy, 17 anni
...Da allora non mi ha mai più rivolto la parola
Daria e Jean, 31 dicembre 2009
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COLLANE AVAGLIANO
I CARDI
La Cina che arriva - Aa.Vv.
Acting - De Benedictis Maurizio
L’arte c’est moi - Mirolla Miriam
Un paese stanco - Capati Massimiliano
Trilogia della censura - Beha Oliviero
Complottario - Verrengia Enzo
La prima sigaretta del giorno - Santojanni Andrea
Una lucida passione - Bubbico Filippo
L’ultima volta che ho ucciso mia madre - Fernandez Moreno
Ines
I ballatroni - Paris Renzo
Renault 4 - Aa.Vv.
Dal fondo - Aa.Vv.
Il paziente italiano - Beha Oliviero
N-èmica - El Khayat Rita
L’Africa umiliata - Traoré Aminata
Senza zucchero - Aa.Vv.
Da Paisà a Salò e oltre - De Benedictis Maurizio
La pulsione culturale - Smerigli Mario
Terre senza promesse - Aa. Vv.
L’erezione della modernità - De Sessa Cesare
A poco a poco quello sguardo - De Benedictis Maurizio
Il cinema tra irrisione e riflessione - Mazzella Luigi
I CORIMBI
Marta non è Maria - Palazzolo Egle
Manguste metropolitane - Corbino Alberto
Il matto dei tarocchi - Ruffa Luciana
Il mare nel pozzo - Formisano Redenta
Passo d’ombre - De Rienzo Giuseppina
Peppermint - Micheletti Gustavo
Villa bell’aspetto - Ambrosi De Magistris Elena
Senza cuore - De Amicis Armando
Il posto giusto - Procaccini Elvira
L’isola di terracotta - Notari domenico
Recita napoletana - Mozzillo Giovanna
Cicatrici di pietra - Dannemark Francis
Il diavolo in villa - La Stella Enrico
La festa di Santa Elisabetta - Esposito Vincenzo
La bambina dietro la porta - Orsini Natale Maria
Manipolazioni - Sellitto Carolina
Il sangue del Vesuvio - Locatelli Goffredo
Il cielo capovolto - Cilento Antonella
Corpo estraneo - Van Cauwelaert Didier
Malussia - De Santis Sergio
Irene a mosaico - Lanza Consolata
Federico F. - Angelucci Gianfranco
La quinta stagione dell’anno - Esposito Vincenzo
Allium - Patroni Griffi Giuseppe
Diario di una donna che ha tradito - Izzo Simona
Cieli di carta - Orsini Natale Maria
Una donna sbagliata - Roat Francesco
La casa della palma - Angioni Giulio
Luccatmì - Borrelli Ilaria
Quando scriviamo da giovani - Franchini Antonio
Pausa per rincorsa - Santoro Anna
Allegri suicidi - Lambiase Sergio
Domani si gira - Borrelli Ilaria
Sfregi - Courtoisie Rafael
La visita notturna - De Sica Manuel
Nella terra di nessuno c’eran tutti - Alessandro Salas
L’ultima papessa - Del Giudice Antonella
Parco nemorense - Barone Massimo
Cronache dalla città dei crolli - De Santis Sergio
Viaggiatori a sangue caldo - Argentina Cosimo
Prendetevi cura delle bambine - Milone Rossella
Le detenute - Magni Stella
Gustavo - Bordini Carlo
Moremò - Morganti Davide
Amore a Cape Town - Garavelli Bianca
Notte abissina - Coscia Fabrizio
Quelli che c’erano - Morea Delia
I vecchi esultano la sera - Acitelli Fernando
Ladro di sogni - De Sessa Cesare
La strage di Natale - Quintini Roberto
All’altezza delle labbra - Cristofaro Antonella
Male e peggio - Selvetella Yari
Silenzi vietati - Ceccamea Francesco
Diciassette sillabe - Yamamoto Hisaye
Dalla pelle al cielo - Drago Ilaria
Fighting France - Wharton Edith
Il castello dei Carpazi - Verne Jules
Amedeo che non muore - Palazzolo Egle
Nella mia vita ci piove dentro - Formisano Salvio
Scene dal domani - Riccioni Pietro
Il figlio del figlio - Balzano Marco
La ballata della Mama Nera - Lepri Roberta
La bella addormentata nel parco - Fiori Giuseppe
Storie bastarde - Desario Davide
Il silenzio del colore nero - Frediani Serena
Il volto oscuro della perfezione - Lepri Roberta
Lo scandalo del quarto Re Magio - Idalberto Fei
Volevo essere Coco Chanel - Vanessa Valentinuzzi
Borderlife - Marco Innocenti
Il talento della malattia - Moscè Alessandro
Il mercenario di Gheddafi - Safier Mariù
Memorie dall’innocenza - Frediani Serena
I TORNESI
Francesca e Nunziata - Orsini Natale Maria
Il resto di niente - Striano Enzo
Il terrazzo della villa rosa - Orsini Natale Maria
Ritratto di Angelica - Weller Simona
L’ospite della vita - Bottone Vladimiro
Naso di cane - Veraldi Attilio
Una rosa nel cuore - Weller Simona
La mazzetta - Veraldi Attilio
La signorina e l’amore - Mozzillo Giovanna
Suzanne - Weller Simona
Rebis - Bottone Vladimiro
Uomo di conseguenza - Veraldi Attilio
Lavinia e l’angelo custode - Mozzillo Giovanna
Mozart in viaggio per Napoli - Bottone Vladimiro
Memorie di una pittrice perbene - Weller Simona
Quell’antico amore - Mozzillo Giovanna
Antonietta e i Borboni - Bernardini Emilia
Nero giubileo - Sacchettoni Dido
La principessa di Atlantide - Bottone Vladimiro
Un gioco malandrino di finestre e balconi - Mazzella Luigi
Gli ultimi figli - Bonucci Silvia
Olimpo - Piersanti Umberto
Quattro elementi - De Seta Cesare
La favola del cavallo - Orsini Natale Maria, Scia Sabatino
La vita come un gioco - Mozzillo Giovanna
Per diverse acque - Miranda Miranda
Le radici del tempo - Bonura Giuseppe
Il console Stendhal - Barone Massimo
Silvana - Vasile Turi
Saint-Ex - D’Anna Riccardo
Il chiodo nella sabbia - Mazzella Luigi
Furia di diavolo - Cardona Maria Clelia
L’uomo che guardava le donne - Benfante Marcello
La baia del dubbio - Mazzella Luigi
La verità dietro l’angolo - Mazzella Luigi
Figli di due mondi - Aa. Vv.
Gioco duro - Fiaschetti Michael
Quando eravamo povera gente - Marchi Cesare
L’estate di Camerina - Tomassoli Mauro
IL MELOGRANO
Ragazza caduta in città - Bartolini Luigi
Inventario della memoria - Prisco Michele
Horror vacui - Sinisgalli Leonardo
Il fiele ibleo - Bufalino Gesualdo
La stanza grande - Rimanelli Giose
Un bel viaggio - Chiara Piero
Al cinema non fa freddo - Marotta Giuseppe
La cugina - Patti Ercole
La vacanza delle donne - Compagnone Luigi
La virtù delle donne - Serao Matilde
Novelle inverosimili - Capuana Luigi
I ragazzi di Nofi - Rea Domenico
La maestrina degli operai - De Amicis Edmondo
Il cappello del prete - De Marchi Emilio
I parenti del sud - Montella Carlo
L’eredita Ferramonti - Chelli Gaetano Carlo
Serata D’onore - De Filippo Eduardo
Notizie degli scavi - Lucentini Franco
Città di mare con abitanti - Compagnone Luigi
Amore amaro ed altri amori - Bernari Carlo
Rosa Bellavita e altri racconti - Di Giacomo Salvatore
Amati enigmi - Marghieri Clotilde
Vita di Anna Stickler - Bartolini Luigi
Una lapide in via del Babuino - Pomilio Mario
I nottambuli - Fruttero&Lucentini
Lontano - Parise Goffredo
Un amore a Roma - Patti Ercole
Il ventre di Napoli - Serao Matilde
L’oro di Hollywood - Marotta Giuseppe
Cose viste - Ojetti Ugo
Redivivo - De Marchi Emilio
Una vampata di rossore - Rea Domenico
Napoli a occhio nudo - Fucini Renato
Graziella - Patti Ercole
Vita in villa - Marghieri Clotilde
La disdetta - De Roberto Federico
Le bellissime - Marotta Luigi
Cronache dell’al di qua - Ottieri Ottiero
Carnevale a Milano - Crovi Raffaele
Il ghebo - Bartolini Elio
Maestra - Tartufari Clarice
L’innamorata - Contessa Lara
Il cuore oscuro dell’Ottocento - Reim Riccardo
La vita militare - De Amicis Edmondo
Il paese di Cuccagna - Serao Matilde
La Giudia - De Feo Sandro
Sulle lagune - Verga Giovanni
La cieca di Sorrento - Mastriani Francesco
Campane a Sangiocondo - Prato Dolores
Sciogli la treccia, Maria Maddalena - Da Verona Guido
La danza della collana - Deledda Grazia
Tre storie d’amore - Tecchi Bonaventura
Piccole anime - Serao Matilde
Ravello - De Masi Domenico
San Gennaro non dice mai no - Marotta Giuseppe
Peccatrice moderna - Invernizio Carolina
LA STRANIERA
Casa de Pensão - Azevedo Aluisio
Madam Butterfly - Luther Long John
La scelta del fantasma e altri racconti - Doyle Arthur Conan
LE COCCINELLE
L’ultima intervista di Pasolini - Colombo Furio, Ferretti G. Carlo
Sandro Penna - Marcheschi Daniela
Il girasole della memoria - Orsini Natale Maria, Marinelli Gioconda
Il gioco dei padri - Sciascia Anna Maria
Herta Müller - Lepre Gabriella
Finito di stampare nel mese di novembre 2012
per conto della Avagliano Editore S.r.l.
presso Global Print S.r.l - Gorgonzola (MI)