di essere diverso dai tuoi fratelli
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di essere diverso dai tuoi fratelli
E li chiamano disabili Le madri coraggio e la società ostile Ovvero, servono genitori tenaci per dei figli straordinari (o anche solo straordinariamente normali). La diversità è spesso ciò con cui tutti quanti guardiamo a una persona che ha avuto la sfortuna di avere alla nascita qualcosa in meno rispetto agli altri. A lui cominciano a guardare in diverso modo innanzitutto i genitori. Lo amano sì, come ogni genitore ama un figlio, a volte anche di più, ma spesso hanno nei suoi confronti un atteggiamento rinunciatario e protettivo, pensano che lui non ce la possa fare e perciò lo accudiscono in tutto e per tutto. A volte si sostituiscono a lui, addirittura. E questo fa sì che quel figlio non possa sviluppare il proprio potenziale umano e sociale e, perciò, rimanga per sempre un “povero disabile”. Il libro di Cannavò mette invece in evidenza come dietro le persone formidabili come Simona Atzori, ballerina e pittrice senza braccia, Felice Tagliaferro, scultore cieco, Paolo Anibaldi, chirurgo paraplegico, Fulvio Frisone, affetto da tetraparesi spastica distonica e scienziato di fama mondiale, e tutte le altre capaci di superare la menomazione e di realizzarsi nella vita, vi sono spesso genitori tenaci che hanno fatto di tutto affinché il figlio fosse “come gli altri”, incominciando essi stessi col trattarlo come gli altri, anche a costo di iniziali forti disagi e sofferenze, anche a costo spesso di sopprimere il proprio senso genitoriale e protettivo. Mi viene in mente a proposito la madre di Luca Pancalli, vice presidente del CONI e l’uomo che come commissario della FGCI tiene ora nelle proprie mani le sorti del calcio italiano. Quando il giovane figlio ritornò a casa, dopo l’incidente che gli causò rottura di tre vertebre e un futuro sulla sedie a rotelle, la madre lo fermò sulla porta di casa e gli disse: “Non pensare ora di essere diverso dai tuoi fratelli”. Questo atteggiamento lo aiutò più L’Acciuga - n. 13, ottobre - novembre 2006 di ogni altra cosa ad acquistare forza ed autonomia esistenziale. Di questo ha bisogno il disabile, del coraggio di chi gli sta intorno innanzitutto, perché la diversità è nel modo in cui lo trattano gli altri più che nella sua condizione di menomazione. Egli ha quindi innanzitutto bisogno di potersi confrontare con gli altri, alla pari, senza sterili pietismi o inopportune celebrazioni. Posto con gli altri alla pari, ognuno può esprimere veramente le sue potenzialità, e la società ha il dovere di metterlo nelle condizioni di farlo. Ma siamo ancora ben lontani dall’aver raggiunto quel gradino di civiltà che ci permetta di dare ad ognuno, e quindi anche a coloro a cui la vita ha dato una menomazione fisica o psichica, le giuste opportunità. Certo discutiamo molto sui nomi, ci forziamo a non apparire nel pregiudizio, li chiamiamo “diversamente abili” o “diversabili”, non più “disabili”, giammai più “handicappati”, ma non riusciamo ad abbattere preclusioni, tabù e barriere. Ecco allora il ruolo fondamentale dei genitori e dei familiari. Essi devono spingere l’handicappato alla normalità, ma anche cercare in tutti i modi di creargli intorno una situazione ambientale favorevole. Il che ancora è assolutamente difficile: è gravoso e penoso dentro le mura di casa, è arduo e ostico fuori. La società non è ancora affatto pronta a questo passaggio di civiltà. Contro di essa, i suoi meccanismi, le sue ritrosie, occorre combattere per affermare i diritti di chi non ha avuto dalla vita in sorte una rassicurante “normalità”. Ed ecco dietro molte delle storie difficili e bellissime raccolte da Candido Cannavò il ruolo fondamentale di altrettanti genitori. Spiccano E li chiamano disabili soprattutto certe figure eccezionali di “madri coraggio” che hanno combattuto finanche con i denti per l’avvenire del figlio, spesso ingoiando rifiuti e mortificazioni. Fra queste l’incredibile madre di Fulvio Frisone, dal 1966 in guerra con il mondo. Da lei, in una fredda giornata di gennaio di quell’anno, medici disastrosi, restii ad effettuare un taglio cesareo che avrebbe risolto tutti i problemi di un parto difficoltoso, trassero nel peggiore dei modi un bambino che poteva essere sano e che invece fu destinato ad un avvenire terribile, tutto inscritto in poche e drammatiche parole: tetraparesi spastica e distonica. Un uomo affetto da una tale patologia non ha l’uso delle gambe, che nel tempo neppure crescono, non ha che rimasugli di braccia senza funzionalità, e non ha neppure il bene della voce al di là di faticosissimi suoni difficili da decifrare. Insomma un uomo ridotto a un tronco e a una testa. Tale l’avvenire, sempre che il bambino ce l’avesse fatta a superare i primi difficilissimi anni di vita, che si prospettava al piccolo Fulvio. Un avvenire senza speranza e prospettive. Ma mamma Lucia non poteva e non sapeva rassegnarsi. In nessun modo e di fronte a nessuno. Prese a girare ospedale e specialisti col suo bambino ma il verdetto fu unanime e definivo: spastico. Senza speranza. ‹‹L’indomani di quel terribile verdetto – racconta mamma Lucia a Cannavò –, sai cosa feci? Andai in una chiesa di Carbonia, carica di fede e di rabbia: ad affrontare Lui. Sì, Lui, Cristo in persona. Lo presi di petto, lo aggredii: “Siamo tu e io, faccia a faccia” gli dissi. “Ora, grandissimo cornuto, mi devi spiegare: perché a me, questa disgrazia? Se pensi che l’accetto paziente, devota e rassegnata ti sbagli”. Oh, quante gliene ho dette. “Tu sai bene, Cristo, che non mi rassegnerò mai. Tu mi hai sfottuto, tu adesso devi aprirmi la via per aiutare Fulvio. Io devo dare a lui una vita normale, capisci?, normale, uguale a quella degli altri.” Ti ho fatto una sintesi del mio sfogo. Gli ho lanciato minacce terribili, povero Cristo, ero disperata. Poi sono crollata in chiesa davanti a Lui. Non so per L’Acciuga - n. 13, ottobre - novembre 2006 quanto tempo ho dormito. Al risveglio sono andata via più serena.›› Commenta Cannavò: ‹‹Cara Lucia, a parte le minacce e le parolacce, visto quello che è diventato Fulvio, Cristo sembra averti ascoltato›› Certo mamma Lucia da qualche parte deve aver trovato la forza e il coraggio di combattere tutta una vita per dare quella “vita normale” al proprio figlio sfortunato. Ha combattuto contro istituzioni e burocrati insensibili, presidi e insegnanti incapaci o spaventati di fronte a quel “mezzo” bambino, si è battuta contro tutti quanti impedivano a suo figlio di avere una vita “uguale a quella degli altri”. Una guerra senza confini. Una lotta per la normalità che la porta a dichiarare guerra finanche a su figlio stesso. Così la racconta a Cannavò ‹‹la storia di quel figlio di buttana di mio figlio che rifiutava ogni tentativo di parlare, proprio non voleva saperne. E sai perché? Per colpa nostra. Lui guardava la credenza e noi gli davamo qualcosa da mangiare. Lui puntava gli occhi al bagno e capivamo subito che aveva bisogno di andarci. Servito e riverito, sempre: bastava un cenno. E Fulvio ne approfittava…ma di parlare niente: neanche una sillaba. Tentai con la logopedia: nulla. A quattro anni ebbi il timore che Fulvio, al di là delle sue carenze di natura, sarebbe rimasto anche muto, come capita a tanti nel suo stato. Fu durante una di quelle notti in cui non riuscivo a dormire che mi venne l’idea. E dichiarai guerra a mio figlio…›› Lucia decide: niente mangiare, niente bere, niente di niente per Fulvio ‹‹se non avesse smozzicato qualche sillaba per indicare bisogni e desideri…E totale indifferenza da parte nostra, anche se puoi immaginare il mio tormento interiore››. Viene coinvolta tutta la famiglia. Il ragazzo piangeva, si disperava, si faceva la pipì addosso, ‹‹ma io ero fermissima: bisognava snidare quel figlio di buttana. Fulvio era sicuro di piegarmi. Io gli ho opposto una intransigenza totale. Alle quattro del pomeriggio avvenne il prodigio. Sentii un suono che ho ancora nelle mie orecchie:…Fulvio mi chiamava”. (S)