Gerusalemme, città dai mille volti (Maria Savigni)

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Gerusalemme, città dai mille volti (Maria Savigni)
Gerusalemme, città dai mille volti
Maria Savigni
Gerusalemme è una città strana.
Divora i suoi incauti visitatori, lentamente, li leviga fino a farli diventare una delle
sue docili pietre.
Di giorno o di notte, con la luce della luna che accarezza i suoi tetti, Gerusalemme
è bellissima. Di una bellezza orientale, speziata, dorata come le sue mura secolari.
Ma c’è un grande prezzo da pagare per poter vivere qui, sotto i suoi palazzi, a cercare di risolvere il suo enigma.
Gli abitanti lo conoscono bene, e anch’io l’ho scoperto dopo pochi giorni: il prezzo
è quello della presenza costante e silenziosa di soldati, armati fino ai denti, sopra
ogni autobus, ogni tram, annidati in ogni luogo pubblico. Per questo Gerusalemme
è una città che divora: giorno dopo giorno, la vista di ragazzi ventenni che trascinano a fatica fucili enormi, mi ha spento qualcosa dentro. Impossibile non chiedersi
se, dopo tre anni ad imbracciare armi simili, quei ragazzi potranno restare gli stessi.
La realtà del conflitto armato diventa quotidiana: studiando all’università di Gerusalemme, ti ritrovi a vagare nelle aule dove ha insegnato Einstein, ma non solo: sei
costretto a fare i conti con la sua storia. Costruita nell’area Est, quando Gerusalemme era spaccata in due, tra l’area giordana e quella israeliana, gli studenti si
sono all’improvviso ritrovati costretti a fare lezione qua e là in aule improvvisate,
in edifici sparsi un po’ ovunque per la città.
Poche settimane, e la consapevolezza che il conflitto armato non è il peggiore possibile ha attraversato la mia mente. Ovunque ti giri, la presenza del Muro che separa la zona palestinese da quella di Israele ti segue. Non è una presenza sempre
fisica, ma ovunque visibile. Per questo Gerusalemme ti divora: il Muro è ovunque,
separa i suoi abitanti. È un muro cresciuto nelle teste dei suoi figli, dopo anni ed
anni di scontri e divisioni.
Ne ho avvertito il peso, così forte da quasi restarne schiacciata, camminando sulla
Spianata delle Moschee, quando una folla di donne ha iniziato a gridare “Allahu
Akbar”, Allah è grande, con violenza, di fronte ai giovani soldati innervositi, che si
scambiavano occhiate interrogative. Ma l’ho avvertito camminando nel quartiere
ebraico ultraortodosso, che si chiude su se stesso, circondato da piccole muraglia.
Un piccolo universo a parte, che riproduce fedelmente un ghetto dell’Europa
dell’Est di secoli fa, dove donne, coperte fino ai piedi, vivono senza internet, trascinando con sé uno sciame di bimbi urlanti. Spesso 10 o 12 figli. Oppure quando nel
quartiere moderno la visione delle sue alte torri in vetro e metallo, contrapposta al
villaggio arabo vicino casa, ti stride l’anima. O ancora quando, nella visita guidata
della Corte Suprema, impari che tra i suoi componenti vi è un solo giudice arabo. E
che non esiste, qui, matrimonio civile. Solo religioso, solo di cristiani tra cristiani,
musulmani tra musulmani, ebrei tra ebrei.
La tensione a volte è palpabile, quasi potresti tagliarla con un coltello da tanto è
presente nell’aria. Per questo studiare a Gerusalemme non è semplice. Il prezzo da
pagare di cui ho già parlato è noto a tutti: tra i compagni di studio, i più frequenti –
o almeno i più “casinisti”, che balzano all’occhio - sono ferventi protestanti americani un po’ integralisti. Ma, indagando a fondo, ecco che tra i tuoi compagni di
banco trovi persone di enorme cultura, conoscenze linguistiche, ed una passione
sconfinata per la storia di questi luoghi: “Voglio assolutamente visitare tutti i Paesi
arabi che questo maledetto visto israeliano mi permetterà!”. Compagni perfetti di
vagabondaggio per mercati o per i ristorantini tradizionali di Gerusalemme Est,
quei ristorantini in cui servono soltanto una pietanza, pita con hummus (una salsa
fatta con ceci e tahina, salsa di semi di sesamo), declinata in milleuno gusti diversi.
Proprio l’hummus è stato per me il simbolo delle tre fasi dello shock culturale: si
dice che inizialmente, arrivato in un luogo così lontano culturalmente, adori tutto
ciò che ti circonda, ami la realtà completamente diversa che ti trovi di fronte. E arrivi a mangiare salsa di ceci perfino a colazione. Poi, a subentrare è un senso quasi
di disgusto, delusione: è tutto qui?! All’improvviso la nostalgia di casa si fa lacerante. E non ne puoi più di hummus. Alla fine, arriva finalmente l’equilibrio, la riconciliazione con la nostalgia. E l’hummus.
E’ una città che nelle contraddizioni vive. Per questo dico sempre che Gerusalemme
è donna: non va capita, ma amata.
Quando rinunci a capirla, è allora che Gerusalemme ti restituisce ciò che ti ha strappato.
La sete di serenità, di tranquillità, è nei suoi stessi abitanti, forse, che ogni giorno
scontano il prezzo. Che sono capaci, alla tua richiesta di indicazioni, di accompagnarti per tutto il tragitto (nonostante stessero camminando verso la direzione opposta) per farti arrivare sana e salva a destinazione. Oppure quando trascorri un
pomeriggio intero, di fronte ad una tazza di tè alla menta, a chiacchierare con i
commercianti arabi chiacchieroni e sonnacchiosi della Città Vecchia. Che, prima di
ridurre il prezzo di un terzo, devono prima raccontare tutta la loro vita, le speranze
per i figli andati in Europa, i loro piccoli problemi quotidiani. È qui che ho imparato
davvero cosa sia l’ospitalità.
Oppure il tempo trascorso a girovagare nel quartiere ebraico nel periodo del Capodanno ebraico: negozi, uffici, supermercati chiusi per tre giorni, mezzi pubblici
fermi. Al senso di frustrazione, segue quello del fascino suscitato dal girovagare
per una città quasi deserta ed in festa, tirata a lucido. Dello scoprire angoli nuovi, e
assaporare la bellezza di ritmi più lenti, cadenzati, ma che al tempo stesso scorrono
rapidi come solo il tempo trascorso con gli amici riesce a fare. Oppure quello di una
cena festiva tradizionale in una famiglia ebraica religiosa, contattata attraverso
l’università, perché “non puoi mica passare le feste da sola!”. Un appartamento
minuscolo, semplice, dove ho incontrato una donna, rigorosamente coperta fino
alle caviglie, sempre sorridente, che mostrando una grandezza d’animo infinita, mi
ha rivelato, come fosse un segreto prezioso: “Ad essere sinceri, non siamo ricchi,
per niente. Infatti molti mi chiedono perché ospito sconosciuti alla mia tavola… Ma
la verità è che a donare non si perde niente.”
Sì, perché Gerusalemme non divora soltanto. Restituisce dieci, cento o mille volte
più di ciò che ti ha rubato. Forse perché in lei vive ancora un numero innumerevole
di anime, di tutti quelli che l’hanno attraversata da turisti, pellegrini, di coloro che
hanno scelto di viverci, incatenati dal suo mistero.
O forse perché, quando cala il tramonto sulla Città Vecchia e gli ultimi raggi di sole
accendono la Cupola d’oro, rischiarando anche il Muro e il Santo Sepolcro, tutto
appare possibile. Perfino la pace tra questo milione di anime. In questo crogiulo di
religioni, razze e lingue. Sì, persino la pace.