cover 2-2008 ele:Layout 1

Transcript

cover 2-2008 ele:Layout 1
5-06-2008
10:39
Pagina 1
2/2008
cover 2-2008 ele:Layout 1
SaTuRa
2P TRIMESTRE 2008
ARTE LETTERATURA SPETTACOLO
Franco Croce
legge Eugenio
Montale
Le lingue di
Beckett
Ritorno
Fornara
U.S.A.
orientamenti di
poesia
Speciale
American ART
Festival
€ 5,00
contemporanea
SaTuRa ARTE LETTERATURA SPETTACOLO
di Carlo
N2
cover 2-2008 ele:Layout 1
5-06-2008
10:39
Pagina 2
sommario
3
8
SaTuRa
Trimestrale
di arte letteratura e spettacolo
Redazione
Sandra Arosio, Milena Buzzoni,
Vico Faggi, Luigi Fenga,
Gianluigi Gentile, Mario Napoli,
Mario Pepe, Veronica Pesce,
Giuliana Rovetta, Stefano Verdino,
Guido Zavanone
Redazione milanese
Simona De Giorgio
Via Farneti,3
20129 Milano
Tel.: 02 74 23 10 30
e-mail: [email protected]
Direttore responsabile
Gianfranco De Ferrari
Segreteria di Redazione
Rita di Matteo
18
27
40
44
49
51
53
54
Collaboratori di Redazione
Milena Antonucci, Erika Bailo,
Barbara Cella, Maura Ghiselli,
Chiara Lagomarsino
55
Editore
SATURA associazione culturale
57
Amministrazione
SATURA Piazza Stella 5, 16123 Genova
Tel.: 0102468284
cellulare 338-2916243
e-mail: [email protected]
sito web: www.satura.it
Progetto grafico
Elena Menichini
Stampa
Sorriso Francescano
Via Riboli 20, 16145 Genova
67
Quota di abbonamento 2008
un numero: euro 5,00
annuale: euro 20,00
sostenitore: euro 50,00
73
C/C Banca Intesa Cod. IBAN:
IT37 G030 6901 4950 5963 0260 158
Anno 1 n° 2
Secondo trimestre
Autorizzazione del tribunale
di Genova n° 8/2008
In copertina
Milly Coda Status aquario
84
91
91
Da Satura per Satura
Franco Croce legge Eugenio Montale
(a cura di Caterina Bardi)
Tre scritti di Vico Faggi
1. Taccuini di senectute
2. Inferiae di ottobre
3. Inferiae di novembre
Le lingue di Beckett
Giuliana Rovetta
L’evoluzione del personaggio
nella drammaturgia di Samuel Beckett
Andrea Scarel
Incontri con Beckett
Vico Faggi
Ritorno di Carlo Fornara
Luigi Fenga
Quattro poesie di Gino Brughera
Altri incontri (poesia)
Guido Zavanone
La Poesia
di Davide Puccini
Dans la serenite du froid
(traduzione di Guido Zavanone)
Jean-Max Tixier
Il pesto e la scoperta dell’America
Andrea Crivelli
U.S.A.
orientamenti di poesia contemporanea
(a cura di Milena Buzzoni)
Cinque poeti:
Lucille Clifton
Robert Pinsky
Elisabeth Alexander
Jonathan Galassi
Eliza Griswold
Prospezioni
Vico Faggi, Luigi Fenga,
Giuliana Rovetta, Andrea Scarel
Dedicato a Milly Coda
Qualche pensiero e una poesia
Vico Faggi
Un’America, tante Americhe
Gianluigi Gentile
American Art Festival
Mario Pepe
Notiziario
Mario Napoli
Satura
2/2008
Note sui collaboratori del n. 2:
CATERINA BARDI: laureata in Filosofia. Ha avuto come docente di Letteratura Italiana all’Università
di Genova il Prof. Franco Croce.
MILENA BUZZONI: vive e lavora a Genova, dove è nata nel 1949. Laureata in lettere moderne, si è
dedicata all’insegnamento. Collabora a Resine con recensioni, saggi e racconti. Ha pubblicato la raccolta
di racconti «La differenza» (Genova, ERGA, 1996) che ha vinto il premio Santa Margherita Ligure - Franco Del Pino del 1997.
ANDREA CRIVELLI: nato a Genova nel 1949, scrive da quando era giovanissimo. Da 30 anni lavora
nel campo delle Risorse Umane in Italia e all’estero ed è attualmente Direttore del personale in un grande centro di ricerche a Trieste.
VICO FAGGI: nato a Pavullo nel 1922, ha scritto opere teatrali (tra cui Il processo di Savona, 1965), poesie, saggi e ha tradotto classici greci e latini per gli editori Garzanti, Einaudi e Mondadori.
LUIGI FENGA: nato a Verona, ha vissuto a Firenze e aTrieste, e da molti anni vive a Genova. Ha collaborato ai quotidiani “Il Lavoro nuovo”, “Trieste Oggi”, “La Cronaca” e “Il Piccolo” di Trieste. È autore
di numerosi saggi, di libri di poesia, di tre romanzi e di un libro di racconti. È condirettore della rivista
savonese Resine.
MARIO NAPOLI: vive e lavora a Genova. Ha frequentato il liceo scientifico e la facoltà di medicina e
chirurgia, opera nel campo dell’arte dal 1975. Dal 1986 si dedica ad una ricca ed intensa attività culturale che lo porta a spaziare tra filosofia - poesia - musica e arti figurative. In campo artistico dalle prime esperienze informali arriva oggi a realizzare opere multimediali rinnovando la tecnica del collage
con risultati molto apprezzati dalla critica. Nel 1994 fonda a Genova l’Associazione Culturale Satura,
centro per la promozione e la diffusione delle arti, della quale è Presidente.
MARIO PEPE: vive e lavora a Genova dove si occupa di ricerca sulla percezione visiva presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Genova. Ha frequentato l’Accademia Ligustica di Belle Arti, la scuola di
fotografia di Maria Grazia Federico a Genova e la scuola dell’immagine e della comunicazione “Famous
Photographers” diretta da Giac Casale a Milano. Dal 1994 é socio fondatore di Satura, Associazione culturale per la promozione delle arti con sede a Genova, dove cura mostre di arte visiva, incontri letterari e presentazione di libri.
DAVIDE PUCCINI: nasce a Piombino, dove tuttora risiede, il 12 gennaio 1948. Laureato in Letteratura italiana moderna e contemporanea con una tesi su Camillo Sbarbaro, poi pubblicata con
il titolo Lettura di Sbarbaro. È stato uno dei curatori dell’antologia Poesia italiana del Novecento
(Garzanti, 1980), Ha curato Il peccato. Plausi e botte. Frantumi. Altri scritti di Giovanni Boine
(1983), il Morgante di Luigi Pulci (1989) e la poesia italiana del Poliziano (1992). Ha collaborato e
collabora a Studi novecenteschi, Studi e problemi di critica testuale, L’Albero, Lingua nostra, Giornale storico della Letteratura italiana, Resine, Vernice. Suoi versi e alcuni racconti sono apparsi in
Resine, Lunarionuovo, Nuovo Contrappunto, Astolfo.
GIULIANA ROVETTA: nata sul Lago Maggiore, vive e lavora tra Genova, dove si è laureata in scienze politiche, e Parigi. Da molti anni redattrice di Resine, si interessa di letteratura francese e in particolare ha scritto su Emmanuel Bove, Philippe Sollers, Drieu La Rochelle e sulla Nouvelle Revue Française.
ANDREA SCAREL: (Genova, 1981) laureato in Teatro e arti della scena all’Università degli Studi di
Torino. Allievo e (dal 2005) insegnante presso la scuola di recitazione La quinta praticabile. Autore e regista di “Chiusura mentale” (2001), di “#256/9” (2002), e di “Mare in montagna” (2003). Fondatore, nel
2007, della compagnia “lo Scagno”.
JEAN-MAX TIXIER: poeta, romanziere e critico è nato a Marsiglia e vive a Hyères è membro della redazione delle riviste “Autre Sud”, “Encres Vives”, “Poésie 1”. Ha ricevuto molti prestigiosi premi di poesia tra cui Le Grand Prix Littéraire de Provence per l’insieme della sua opera.
GUIDO ZAVANONE: nato ad Asti, magistrato, vive e Lavora a Genova, è presidente regionale dell’UNICEF, e vicepresidente dell’UNESCO a Genova. Ha scritto numerosi volumi di versi con cui ha vinto
prestigiosi premi in Italia e all’estero. Fa parte del gruppo di «Resine» dalla fondazione. È condirettore
di «Nuovo contrappunto», trimestrale di poesia e arte dell’Associazione ligure di Poesia.
FRANCO CROCE LEGGE EUGENIO MONTALE
I poeti ci aiutano a vivere,
non ci insegnano a vivere
Franco Croce legge Eugenio Montale
a cura di Caterina Bardi1
Oggi leggerò la prima poesia del quarto libro montaliano, “Botta e risposta
1”, una poesia che ha avuto una storia abbastanza complicata: è apparsa nel ‘62
con la data ‘61 in una pubblicazione per nozze; poi è figurata come terza conclusione provvisoria nell’edizione francese di Gallimard della Bufera e altro; infine è
diventata la poesia iniziale del quarto libro. Anche per questa vicenda “Botta e
risposta 1” si presenta in qualche modo come un ponte tra il primo Montale, quello di Ossi e della stagione della Bufera, e il Montale diverso, discorsivo, sorridente,
che dopo un lungo periodo di silenzio comincia a poetare fitto fitto fitto con
Satura e poi con tutti i libri che succederanno.
È una poesia ponte, in qualche modo una correzione dell’ultima poesia
della Bufera, “Il sogno del prigioniero”, sia perché anche questa è dedicata alla prigionia - una prigionia simile e insieme profondamente diversa - sia perché la formula “Botta e risposta 1” ritornerà in altre fondamentali poesie del quarto libro
montaliano, Satura.
Che cosa significa “Botta e risposta”? È un modo con cui Montale sceneggia alcune sue liriche. Immagina un personaggio, qui è una donna, che si
trova ad Asolo, e che gli scrive. Montale le ha consigliato di togliersi dalla
mischia del mondo, ma la donna non ne può più di esserne lontana, e vuole,
vuole partecipare alla vita. Allora Montale le risponde, non spiegando perché
è meglio stare isolati, ma narrando la sua storia attraverso un mito.
Il poeta è stato cacciato all’inizio dell’adolescenza nelle stalle del re Augìa.
Ercole, tra le sue tante fatiche, dovette pulire le stalle di Augìa, dove vivevano tantissimi buoi, che le avevano colmate di sterco; e riuscì a pulirle, innestando al loro
interno due fiumi. La “fatica” in qualche modo esalta un mondo stercorario e
un’improvvisa liberazione da esso. Il mondo stercorario dove Montale è stato prigioniero è il fascismo, e la liberazione è l’insperata liberazione dal fascismo avvenuta al termine della seconda guerra mondiale. Ma se la vicenda della prigionia è
stata deludente, anche la liberazione lo è stata in qualche modo.
1
Testo tratto dalla conversazione “Eugenio Montale di Franco Croce”, tenuta nella trasmissione di Radio due ”Alle otto della sera” del 28 luglio 2002.
Caterina Bardi Da Satura per Satura
DA SATURA PER SATURA
3
Caterina Bardi Da Satura per Satura
4
FRANCO CROCE LEGGE EUGENIO MONTALE
Leggiamo i testi. Sentiamo anzitutto le parole della fanciulla che scrive
a Montale da Asolo, la botta che innesta la grande risposta del poeta:
BOTTA E RISPOSTA I
I
«Arsenio» (lei mi scrive), «io qui ‘asolante’
tra i miei tetri cipressi penso che
sia ora di sospendere la tanto
da te per me voluta sospensione
d’ogni inganno mondano; che sia tempo
di spiegare le vele e di sospendere
l’epoché.
Non dire che la stagione è nera ed anche le tortore
con le tremule ali sono volate al sud.
Vivere di memorie non posso più.
Meglio il morso del ghiaccio che il tuo torpore
di sonnambulo, o tardi risvegliato».
(lettera da Asolo)
Perché Asolo? Per il gioco tra asolante-asolo e la brezza, e certamente
perché Asolo è un posto bello e incantato, e ancora certamente perché Asolo
è stata cara alla Browning. La donna è là perché Montale ce l’ha sospinta, l’ha
in qualche modo indirizzata a vivere in una situazione di désengagement, che
però non viene indicata con questo termine, di moda negli anni ‘50, a cui risale l’incubazione della poesia, gli anni appunto in cui si discuteva sui letterati engagés e désengagés. Non di désengagement parla dunque Montale, ma di
una epoché, adopera cioè la parola usata dai filosofi greci per indicare la
presa di distanza dalla realtà. Certo il mondo è triste, la stagione è nera, persino le tortore con le “tremule ali” sono volate al sud, ma la donna non può
più vivere di memorie e preferisce “il morso del ghiaccio” alla situazione di
torpore, di non impegno del poeta, che è un “tardi risvegliato”, un uomo
giunto a prendere coscienza della realtà troppo tardi per incidervi. E allora
Montale risponde raccontando la sua storia.
II
Uscito appena dall’adolescenza
per metà della vita fui gettato
nelle stalle d’Augìa.
Non vi trovai duemila bovi, né
mai vi scorsi animali;
FRANCO CROCE LEGGE EUGENIO MONTALE
Lui non fu mai veduto.
La geldra però lo attendeva
per il presentat-arm: stracolmi imbuti,
forconi e spiedi, un’infilzata fetida
di saltimbocca. Eppure
non una volta Lui sporse
cocca di manto o punta di corona
oltre i bastioni d’ebano, fecali.
Poi d’anno in anno - e chi più contava
le stagioni in quel buio? - qualche mano
che tentava invisibili spiragli
insinuò il suo memento: un ricciolo
di Gerti, un grillo in gabbia, ultima traccia
del transito di Liuba, il microfilm
d’un sonetto eufuista scivolato
dalle dita di Clizia addormentata,
un ticchettio di zoccoli (la serva
zoppa di Monghidoro)
finché dai cretti
il ventaglio di un mitra ci ributtava,
badilanti infiacchiti colti in fallo
dai bargelli del brago.
È un’autobiografia alla luce di quella vena nuova, che avrà poi tanta
espansione nel libro di Satura, una vena anche sorridente. La prigionia non è
più quella degli iddii pestilenziali2, ma è la prigionia nelle stalle di questo
Augìa burlesco - “cocca di manto o punta di corona” - e invisibile. Augìa non
è certamente Mussolini, ma è il sovrano tirannico della storia, tanto è vero
che è invisibile, mentre Mussolini era visibile, e molto probabilmente Montale
ebbe modo di vederlo, se non altro nei giornali-luce del cinema. Tuttavia il
carcere dove Montale è stato gettato all’inizio della giovinezza è certamente
quello del fascismo, è certamente il mondo oppressivo dell’adolescenza. In
realtà il poeta non era propriamente un adolescente nel ‘22, quando iniziò
l’era fascista, ma forse ricordava certe sue poesie del primissimo dopoguerra, dove c’era l’immagine di una adolescente fanciulla, e forse pensava, non
tanto al fascismo trionfante, quanto all’arena prefascista delle agitazioni per
la prima guerra mondiale, oppure, chissà, forse voleva un po’ ringiovanirsi.
2
vedi nella Bufera “Il sogno del prigioniero”
Caterina Bardi Da Satura per Satura
pure nei corridoi, sempre più folti
di letame, si camminava male
e il respiro mancava; ma vi crescevano
di giorno in giorno i muggiti umani.
5
Caterina Bardi Da Satura per Satura
6
FRANCO CROCE LEGGE EUGENIO MONTALE
Uscito appena dall’adolescenza, Montale è prigioniero di una storia nemica, che non pare avere gli elementi solenni, grotteschi ma solenni, degli iddii
pestilenziali, ma pare avere invece elementi scatologici: i fetidi saltimbocca, le
mura d’ebano, fecali. È la prigionia nelle stalle di Augìa, la prigionia dentro lo
sterco, a cui non si contrappone il sogno, ma si contrappongono figure reali, le
figure delle Occasioni: Gerti, nel “Carnevale di Gerti”, “Liuba che parte”, in una
commovente piccola poesia, e la serva di Monghidoro di alcuni racconti della
Farfalla di Dinard. E poi la grande amata, che qui però è accostata alle figure
minori come Gerti e Liuba, e non ha più l’aspetto di un angelo, ma è vista, più
realisticamente, con i tratti della intellettuale americana Irma Brandeis, tanto è
vero che è addormentata e dalle mani le sfugge il microfilm di un sonetto eufuista, forse allusione alla lettura di Dante, di cui più avanti Montale parlerà. Certo,
se non è una figura angelica, è tuttavia una figura positiva e reale, come lo sono
le altre, Gerti, Liuba, la serva zoppa: figure positive e reali, che, come gli affetti
e gli incontri umani, possono per un attimo aprire uno spiraglio, un piccolo spiraglio nel feroce strapotere del negativo.
La sconfitta è una reale loro sconfitta, ma tutto il gioco del positivo, il sogno - e del negativo - la realtà - non si muove più, come nel “Sogno del
prigioniero”, al di fuori della realtà, bensì nella realtà stessa. E sempre sembra vincere il male: “finché dai cretti / il ventaglio di un mitra ci ributtava /
badilanti infiacchiti colti in fallo / dai bargelli del brago”.
Invece non succede quello che succedeva nel “Sogno del prigioniero”,
l’eternità del sogno e l’eternità della prigionia: qualcosa avviene nella storia,
avviene la liberazione. Anche la liberazione però è una delusione, e il tema della
liberazione come delusione, che in qualche modo era sotteso, ma non esplicito,
nelle ultime poesie della Bufera, diventerà invece il tema portante dell’ispirazione politica di Montale nel suo quarto libro. Satura sarà anche un amaro libro
contro le insufficienze, le meschinità di quella che noi adesso chiamiamo la
prima repubblica, insomma, dell’Italia post-resistenziale, e contro i difetti di una
democrazia imperfetta, di una democrazia spesso corrotta.
Ed infine fu il tonfo: l’incredibile.
A liberarci, a chiuder gli intricati
cunicoli in un lago, bastò un attimo
allo stravolto Alfeo. Chi l’attendeva
ormai? Che senso aveva quella nuova
palta? e il respirare altre ed eguali
zaffate? e il vorticare sopra zattere
di sterco? ed era sole quella sudicia
esca di scolaticcio sui fumaioli,
erano uomini forse,
veri uomini vivi
i formiconi degli approdi?
……………………………………
FRANCO CROCE LEGGE EUGENIO MONTALE
(Penso
che forse non mi leggi più. Ma ora
tu sai tutto di me,
della mia prigionia e del mio dopo;
ora sai che non può nascere l’aquila
dal topo).
Amara conclusione. L’uomo segnato dalla prigionia nello sterco del fascismo è irrimediabilmente un topo, e la liberazione è una specie di sterco pallido
che succede allo sterco nero del carcere della tirannide, è il navigare su zattere
di sterco, è lo spargersi dello sterco in tutto il mondo; meno greve, meno pesante, con un po’ di luce, ma è una luce che sembra un’ “esca di scolaticcio sui fumaioli”. E gli uomini sembrano formiconi, non “veri uomini vivi”.
Non è necessario condividere il giudizio di Montale, anzi forse ora, a tanta
distanza di tempo, gli anni della pur corrotta democrazia post-resistenziale ci
sembrano più vivi e più morali degli anni di adesso. Ma i poeti ci aiutano a vivere, non ci insegnano a vivere. Noi allarghiamo la nostra esperienza cogliendo i
giudizi del poeta e riconoscendoli come tali, noi sentiamo l’amaro di una profonda coscienza morale che non ritrova nella libertà raggiunta i veri valori in cui
sperava, e troviamo un radicale spostamento d’accento.
L’accento, nella Bufera, anche negli ultimi testi, batteva soprattutto
sulle grandi tragedie del mondo novecentesco: la tragedia della seconda guerra mondiale, quella della persecuzione del fascismo, o magari, l’attesa di una
guerra atomica, se una guerra atomica è nell’incubo del Lucifero che compare nel “Piccolo testamento”. Qui ora l’accento batte piuttosto sulle delusioni:
e d’ora in poi Montale sarà soprattutto un Montale politico, a denunciare le
insufficienze del mondo che lo circonda, le piccole meschine insufficienze,
non i tragici orrori del passato. Ma questo mutamento di polemica politica
non muta però di un nulla il terribile giudizio sul passato.
Montale è severo verso l’antifascismo, ma non è affatto un indulgente
revisionista verso il fascismo. L’immagine del fascismo come prigionia nello
sterco, proprio nel suo grottesco, è ancora più severa, in fondo, dei giudizi di
Montale sul fascismo negli anni del suo antifascismo. Là c’era in qualche
modo una nobilitazione, se non degli scherani che gridavano alalà, per lo
meno del messo infernale, Hitler in visita a Firenze. Hitler era satanico, in
qualche modo apparteneva cioè a un registro alto, anche se dell’orrore; qui
invece il registro alto è finito, e la tirannide è sterco, sterco, fecalità.
La severità di giudizio verso il fascismo accompagnerà sempre il
Montale di Satura, pur nella polemica contro le insufficienze, i disastri di una
liberazione non perfetta, di una democrazia corrotta.
Caterina Bardi Da Satura per Satura
C’è, dopo quest’ultimo interrogativo, come una pausa, una specie di
pausa musicale, una fila riempita di puntini, e le battute dopo questa pausa
musicale sono messe tra parentesi, come a suggerirci un abbassamento di voce.
Dice dunque Montale, “ed era sole quella sudicia / esca di scolaticcio sui fumaioli, erano uomini forse,/ veri uomini vivi / i formiconi degli approdi?”
7
Vico Faggi Taccuini di senectute
8
TRE SCRITTI DI VICO FAGGI
TRE SCRITTI DI VICO FAGGI
1. Taccuini di senectute
di Vico Faggi
1
Perfetto esempio di sintesi di pathos e di sapienza tecnico-formale, i
Mottetti di Montale discretamente segnalano, o celano, la presenza delle figure femminili che stanno all’origine della loro genesi. Una donna, due, tre. La
più importante, per la durata e l’intensità della sua influenza, è certo Irma
Brandeis, Clizia, la donna angelicata dalla missione salvifica. Critici, filologi,
storici della letteratura si sono impegnati nella ricerca delle altre ispiratrici,
superando il riserbo e i depistaggi del poeta.
Dobbiamo a Franco Contorbia, in questo settore, contributi essenziali,
e si veda, ora, un’opera come Lucia Rodocanachi, le carte, la vita, di cui egli
è stato curatore e, per una sezione, autore esemplare. E veniamo al merito del
suo contributo, che si rivolge soprattutto ai tre Mottetti che seguono Il Balcone, i quali si aprono con incipit folgoranti: “Lo sai, debbo riperderti e non
posso”, “Molti anni e uno più duro sopra il lago”, “Brina sui vetri; uniti”. È
emerso lentamente, a fatica, il nome della loro ispiratrice, sinché è giunto il
contributo decisivo di Contorbia, che ci ha rivelato il nome di Maria Grazia
Solari, di lei restituendoci anagrafe e vicende e tre fotografie, testimoni inequivocabili del fascino della giovane donna.
Dimostrano, i tre Mottetti, che Montale non fu insensibile al richiamo
della donna bellissima. Il suo ricordo, e il suo rimpianto, si sublimano nella
purezza del verso, nella sua voce intensa e perentoria. Il breve incontro ha lasciato tracce non brevi.
***
Finita la guerra attraversai un periodo molto euforico, e giustamente,
dato che ero sopravvissuto. Avendo conosciuto una ragazza simpatica e graziosa che di cognome faceva Vincoli, pensai di inviarle una lettera che fosse
insieme galante e raffinata. Per maggior belluria nella conclusione ricorsi al
latino e scrissi un distico molto distillato:
Vale, Vincoli, vale.
Valde in vinculis Vicus.
Tutto perfetto: il latino, il gioco di parole, la allitterazione lunga e ben
articolata. Ma la ragazza non conosceva il latino e pensò che volessi umiliarla. Così il nostro rapporto finì prima ancora di cominciare.
TRE SCRITTI DI VICO FAGGI
Vico Faggi Taccuini di senectute
***
La lunghezza dei processi civili, l’interminabile sequenza delle udienze, l’impossibilità di ottenere una sentenza, ecco seri motivi di doglianza per
teorici e pratici del diritto.
Ma a me, a Brescia, quand’ero giudice di quel tribunale, capitò di scoprire una tipologia di cause per la quale la lungaggine del processo era ben
accolta da tutti, avvocati e parti, una volta tanto d’accordo.
Si trattava - mi spiegò un vecchio avvocato che abitava in provincia - delle
cause tra agricoltori di alto reddito, proprietari terrieri ed affittuario. A questi signori era cosa gradita recarsi, una volta o due al mese, nel capoluogo di provincia per
conferire con gli avvocati, accompagnarli al palazzo di giustizia, accedere alla stanza del giudice, scambiare deferenti saluti. Il processo veniva sempre rinviato per un
ragionevole e indubitabile motivo: pendevano serie trattative tra le parti per la composizione amichevole di una controversia che si presentava ardua e complessa.
Dopo di che i litiganti approdavano al miglior ristorante cittadino per
ulteriori conforti. I più giovani e sconsiderati in città trovavano altre simpatiche ancorché non commendevoli occupazioni. Infine, dopo queste importanti attività, soddisfatti per il tempo ben impegnato, i signori facevano ritorno alle loro abitazioni, nei loro poderi.
***
Finimmo il liceo, a Brescia, nel 1941. I miei compagni fecero grandi feste salutando la vecchia scuola e sentendosi finalmente liberi dalle sue costrizioni. Io, invece, ero molto triste, sapevo di lasciare una scuola che mi era cara, le materie che amavo, e i libri, e l’ambiente, i compagni, persino i professori. Certo non ero stato uno studente modello, tanto meno disciplinato, ma
di questo poco mi preoccupavo.
Passano due anni, arriviamo al terribile 1943. Eravamo in diciotto, nella mia
classe: due cadono in guerra: l’uno, Cabrini, sul fronte russo, l’altro, Pozzoli, sul
fronte aereo della Sicilia. Un terzo, Zabbeni, finisce prigioniero in Germania. Degli
altri non so dire perché anch’io venni trascinato dalla guerra lontano da Brescia.
Malgrado tutto, ritornando a distanza di più di mezzo secolo, a quegli
anni, ritengo che per me sia stata un’epoca felice. Così la Vecchiaia guarda al
tempo della Gioventù. E certo è uno sguardo deformante.
***
Il preside del nostro liceo (1’Arnaldo, a Brescia) si chiamava Zorzut, bel
nome che in friulano vuol dire, se non mi sbaglio, Giorgio. Era un uomo molto alto, grigio, dall’aspetto severo (e forse lugubre). Con dure ramanzine puniva le mie intemperanze e la mia insolenza, ed io ero convintissimo che ce
l’avesse, chissà come, con me.
Il liceo finisce, frequento l’università, il preside va in pensione. Una
mattina ci incontriamo in tram. Ci guardammo, ci fu un attimo di sorpresa,
poi mi riconobbe e spontaneamente mi abbracciò.
E allora, finalmente, compresi: non ce l’aveva con me, voleva soltanto
correggermi e migliorarmi, da buon padre di famiglia. E allora riconobbi il
mio errore, e gli fui grato.
9
Vico Faggi Taccuini di senectute
10
TRE SCRITTI DI VICO FAGGI
Ma sì, lo ammetto: ti ricordo con simpatia, mio vecchio Zorzut, anche
nella tua veste più lugubre e tirannica.
***
Tra gli studenti del liceo di Brescia, tra i miei compagni, primeggiava
Silvia Ferretti. Ci superava tutti, in tutte le materie, negli scritti come negli
orali. Senza alcuna albagia, con semplicità e naturalezza, si mostrava verso
tutti cortese, ma un poco riservata. Certo vi era, tra noi e lei, un certo distacco. Forse era giusto parlare di un nostro senso di rispetto.
Finimmo il liceo nel 1941. Silvia lasciò Brescia, si sposò, morì di parto, come
venni casualmente a sapere.
2
Qualcuno mi chiamò commediografo e la parola mi suonò bene. Commediografo, certo: non avevo forse scritto commedie? Non erano state rappresentate?
Cerco di ricostruire il percorso che mi ha portato a questo risultato.
Debbo partire da lontano, dai pomeriggi a Brescia, quando adolescente frequentavo il teatro degli avanspettacoli. Proprio lì, senza saperlo, inconsciamente, ho appreso come si tagli e si cucisca un dialogo che voglia suonare
spontaneo e naturale. In una parola, parlato e con i tempi giusti.
Poi, sempre ragazzo, imparai che c’erano Pirandello e Ruggero Ruggeri, il commediografo e il suo interprete. Mi accorsi che il teatro era il luogo
dove potevano esser trattati problemi inquietanti, di vita, di coscienza. E dopo Pirandello scopersi, non a teatro ma sui libri, Ibsen.
La svolta decisiva mi fu imposta dal benevolo caso e dal suo arbitrio.
Una forte allergia da polline mi costrinse, a 36 anni di età, a lasciare Brescia
per Genova. Arrivai - lo ricordo perfettamente - il 10 dicembre 1958, in una
giornata di perfetta visibilità. Sfogliai il giornale locale e appresi che in un
teatro si dava una commedia di Ionesco, Vittime del dovere. Mirta ed io ci precipitammo in teatro, che era piccolissimo e si chiamava Borsa di Arlecchino.
Sorpresa: in teatro c’eravamo noi due soli ma lo spettacolo andò ugualmente in scena e riuscì perfettamente.
Per qualche mese mi nutrii di Ionesco e di Beckett, cui poi si aggiunse, in diversa prospettiva, un commediografo ironico e cartesiano come Girodoux. Ma io
non avevo ancora fatto la mia scelta. Dovette intervenire, anche questa volta, la signoria del caso, nelle vesti di un noto regista, Luigi Squarzina, il quale mi chiese
se fossi in grado di scrivere una commedia su un processo politico svoltosi a Savona nel 1927. Accettai subito, con il mio solito ottimismo. E così mi avviai nella
direzione del teatro storico-dialettico, un teatro che, partendo da un fatto storico,
lo analizzasse nelle sue antitesi e nei suoi problemi, trasformando queste antitesi
e questi problemi in azione e personaggi.
***
Avevo trovato posto nelle ultime file ed ero costretto a tender
l’orecchio per cogliere le parole dell’attore, che parlava sottovoce e a volte recitava volgendo le spalle al pubblico. Ero molto attento, teso, consapevole
TRE SCRITTI DI VICO FAGGI
Vico Faggi Taccuini di senectute
della serietà del momento. Stavo ascoltando Ruggero Ruggeri che stava interpretando il Piacere dell’onestà di Pirandello. Sapevo che le parole, che l’attore
stava pronunciando, veicolavano significati che era essenziale cogliere, capire, interiorizzare.
Il teatro era qualcosa di nobile, di sacrale, cui bisognava avvicinarsi con
rispetto. Per i miei sedici anni, insomma, il teatro era un luogo di altissimo
valore, cui si doveva una forma di deferenza. Era un atteggiamento che ancor
oggi condivido, anche se qualcosa dell’antico fervore è andato perduto.
(Non era facile, allora, Pirandello, e del resto non lo è nemmeno oggi, a
malgrado di tanti apporti culturali, a partire da quelli di Adriano Tilgher, filosofo e critico che presto ebbi occasione di scoprire, non senza profitto).
***
Lo spettacolo era finito. Il pubblico aveva applaudito, gli attori si erano inchinati ringraziando. Ma subito dopo il sipario si era riaperto ed era ricomparsa
lei, la primadonna, Maria Melato, la celebre attrice che si spegnerà nel 1950.
La Melato, attrice squisitamente dannunziana, naturalmente recitava
una poesia del Vate, nella voce e nel gesto e nell’atteggiamento mostrandosi
all’altezza del suo ruolo e del suo modello ideale. Il pubblico, per
l’ammirazione, cadeva in deliquio.
C’ero anch’io, tra il pubblico, e non facevo eccezione. Non stupitevi:
non avevo ancora raggiunto i vent’anni, per me c’era da imparare nella sfera
dell’arte e soprattutto della vita.
(Chi se la ricorda, oggi, la Melato?)
***
Molte volte, quante non so dire, ho osservato, o meglio ho spiato e studiato, le interpretazioni di Alberto Lionello, in teatro e in televisione, ogni volta sorprendendomi per la facilità con cui si trasformava passando da un ruolo all’altro,
e non importa di quale ruolo si trattasse. Gli bastava un cappello di paglia per divenire lo scanzonato animatore di un varietà televisivo; poi, a teatro, assurgeva a
tragica dignità o a drammatica tensione, con sovrana facilità.
Forse il suo successo più grande (per lui il più facile) fu nel Goldoni dei
Due gemelli veneziani, il furbo e lo sciocco, dove riusciva perfetto nell’uno e
nell’altro ruolo. La commedia divenne il biglietto da visita del Teatro di Genova, la sua carta di accesso ai palcoscenici di tutto il mondo. Regista era Luigi Squarzina, il quale lealmente ammetteva che il merito del successo era soprattutto dell’attore.
Non so quanti siano, oggi, gli spettatori che si ricordano di Alberto Lionello. Certo sono molti, ma il tempo fatalmente falcerà le loro file. Verrà giorno che il grande attore sarà dimenticato perché questa è la legge della società dei consumi, la quale divora i suoi figli e indifferente passa oltre, verso le
nuovissime prede che la sua voracità non cessa di reclamare.
***
Mirta mi disse che aveva telefonato Tino Buazzelli.
- Ti ha detto cosa voleva?
- No, ha detto che richiamerà.
11
Vico Faggi Taccuini di senectute
12
TRE SCRITTI DI VICO FAGGI
E invece non mi ha richiamato, se ne è andato per sempre. Non ho saputo che cosa volesse da me, ma posso fare una supposizione, sulla base di
qualche voce che ho intercettato. Buazzelli pensava di riunire in uno spettacolo unitario due tragedie di Sofocle, Edipo re e Edipo a Colono.
Non ricordo se a quell’epoca io avessi già tradotto le due opere. So che sono state pubblicate solo anni dopo, le mie traduzioni, per una serie di equivoci e
dimenticanze. E sono apparse, nel 2007, nella bellissima edizione Einaudi.
Mi dispiace di non aver potuto ascoltare la voce di Buazzelli. Era un attore di grande temperamento, una persona esuberante, gradevole e simpatica. Anche mia moglie lo vedeva così, e così sempre lo abbiamo ricordato.
3
Gli schermi dei televisori sono invasi da cortei di presidenti, ministri e
ambasciatori, tutti rigorosamente in nero, che si avviano verso il Teatro alla
Scala. Si apre la grande stagione lirica scaligera.
Credo che proprio da queste immagini, più volte replicate, si sia originato il sogno che mi è sopravvenuto nella notte, perché il sogno toccava la
mia antica passione per il teatro, la mia remota attività di commediografo.
Pensavo nel sogno al teatro di prosa all’aperto. Per il quale, pensavo,
sarebbe bello scrivere una commedia. E andai cercando nella memoria il nome di un gestore teatrale. Non lo trovai e mi arresi. Mi rivolsi a certi abbozzi
di commedia che anni prima avevo abbandonato, sperando di ritrovarli e
completarli. Niente da fare, erano irraggiungibili.
È stato un sogno velleitario, rassegnato, nascente dal desiderio di
un’attività che era stata mia, ma ormai era sepolta nel passato.
***
Subito mi colpirono, nel Diario postumo di Montale, due poesie. E mi si
impressero nella memoria: Nel giardino (“Discendi dal gran viale / e ti sovrasta un cielo / azzurro estivo...”) e Come madre (“La luce che diffonde il Monte Amiata... “). Sono poesie di intonazione diversa, lieve e sognante la prima,
riflessiva e assertiva la seconda.
Nel giardino si respira la brezza che solleva e trascina il poeta e l’amica
lungo il litorale, si avverte il declinare del sole, si sente l’incanto degli attimi
che sono stati vissuti. Sono, per uno spazio di tempo, anche nostre, queste
sensazioni.
Come madre si apre nel nome del Monte che ispirò al poeta uno dei
momenti più alti delle Occasioni. Il sole declinava, una folata di vento trascorre, è il tempo giusto per la meditazione. Caduto il peso della routine quotidiana il poeta si rifà al dono che gli è toccato in sorte. Sarà maestro di vita e
di poesia, e creatore, genitore, madre.
***
I miei genitori erano nati nel 1800: mio padre Marino a Taggia, mia madre Maria Pia a Pavullo nel Frignano. Dal loro tempo, dall’educazione ricevuta conservavano i principi, e di ciò avendo quotidiana testimonianza anch’io
seguivo le stesse regole.
TRE SCRITTI DI VICO FAGGI
Attendevo con ansia la risposta, ma i miei genitori non mi delusero.
Vincendo la loro commozione chinarono il capo e restarono silenziosi. Il loro senso del dovere li aveva ispirati.
Ammirai, e sempre mi fu caro, e mai scorderò il loro silenzio. Fu una
lezione di vita.
***
Sentimenti IV, chi se lo ricorda? Era, diciamo subito, un calciatore famoso, un mattatore, una star. Giocava in porta ma, se occorreva, si trasformava in centravanti, e questo lo rendeva eccezionale. Ed era un implacabile
rigorista.
Talvolta, d’estate, dalla sua Modena saliva a Pavullo e non disdegnava
di tirare qualche calcio sul campetto locale. Era, inutile dirlo, un evento.
Ma chi altri, tra gli spettatori e fra i miei amici, era presente? E con chi
potrei parlarne? Con chi consultarmi? Forse, di tanti tifosi, rimango io solo.
Così vuole, così dispone, così opera l’implacabile Crono.
***
Come fu che scopersi, dove e quando, il piacere della lettura? Posso
dirlo, credo, con qualche esattezza. Frequentavo, a Fiume, la quinta elementare. Essendo giunto, all’esame, primo in italiano, ricevetti come premio un
libro, ma già prima mi ero accostato alla lettura. Avevo scoperto due pubblicazioni periodiche, l’una dedicata a Nick Carter, il grande poliziotto che agiva nelle tenebre della città, l’altra a Buffalo Bill, il grande cacciatore che galoppava nella luce della prateria. Due mondi opposti (il buio e le luci; la grande città e lo spazio sconfinato del West.) Ad unirli, questi mondi, c’erano lo
spirito dell’avventura ed il coraggio. Ed era affascinante.
Avevo undici anni, eravamo nel 1933. La città sul Carnaro rappresentava per me una sede difficile perché ero abituato a vivere in paesi piccoli e
ospitali. Mi aiutavano due fattori: il gioco del calcio e la lettura. Prima quello, poi questa, ma poi li misi sul medesimo piano. Erano i miei amici, che mi
aiutavano a vivere, nei teneri ed acerbi giorni.
Al ginnasio scopersi l’antologia, fonte preziosa di lettura. Jerome K. Jerome mi procurava una irresistibile ilarità. Leggevo in silenzio e ogni tanto
scoppiavo in grandi risate. Mia madre mi guardava un po’ preoccupata...
***
Tizio copre Caio di insulti stercorari, grondanti volgarità. Caio protesta. Tizio replica che è soltanto satira. E qualcuno gli dà ragione.
Vico Faggi Taccuini di senectute
Nel 1943 avevo frequentato il corso allievi ufficiali del regio esercito. Dopo
1’8 settembre mi ero barcamenato per sottrarmi alle chiamate della Repubblica
sociale italiana finché, nella primavera del 1944, riuscii a scoprire come raggiungere i partigiani sui monti del Frignano a me cari, dove si combatteva duramente.
C’era una difficoltà da superare. Ero figlio unico ed amatissimo e i miei genitori non erano più giovani. Non potevo sottrarmi all’obbligo di informarli ma mi
riusciva difficile. Una sera mi decisi. Mentre cenavamo nella nostra casa di Brescia
dissi loro poche parole: “Papà, mamma, domani raggiungerò i partigiani”.
13
Vico Faggi Inferiae di ottobre
14
TRE SCRITTI DI VICO FAGGI
È un sintomo grave. Sta perdendo, il paese, ogni forma di stile, sta rifiutando ogni senso di civiltà.
Accetta con indifferenza tutto ciò che è grave, volgare, perfino ripugnante.
È altra cosa, la satira. È stile, eleganza, ironia. Anche quando è distruttiva la satira non rinuncia al rispetto del buon gusto, delle buone lettere, della buona creanza.
Leibniz scrisse che questo mondo è il migliore dei mondi possibili. Voltaire lo attaccò magistralmente con il suo Candido, che è un capolavoro. Mordace, corrosivo ma nel segno dell’intelligenza e della misura.
Dicevano i Romani “Satura tota nostra est”. Il maestro era Orazio. Oggi si chiama Luttazzi.
2. Inferiae di ottobre
di Vico Faggi
Genova, 2007
5 ottobre. L’estetica di Hegel e l’Antigone di Sofocle. Due passi essenziali del filosofo: “L’opposizione principale è quella dello Stato, della vita etica nella sua universalità spirituale, con la famiglia come eticità naturale.
Antigone onora il legame di sangue, gli dèi sotterranei, Creonte onora
solo Zeus, la potenza che governa la vita e il benessere pubblici”. E poco più
avanti: “Gli individui in conflitto si presentano ognuno in se stesso come totalità, cosicché in se stessi si ritrovano in potere di ciò che combattono, violando quindi ciò che, conformemente alla loro esistenza, dovrebbero onorare. Così per esempio Antigone vive sotto il potere statale di Creonte, sicché
dovrebbe ubbidienza al comando del principe. Ma anche Creonte, che è dal
canto suo padre e sposo, dovrebbe rispettare la santità del vincolo di sangue.
Così in entrambi è immanente ciò contro cui si ergono”.
Sofocle però sta dalla parte di Antigone, e non a torto, perché essa non
ha scelta e non può sottrarsi al dovere che, per la forza delle leggi non scritte, la lega a Polinice. Invece nel potere sovrano di Creonte è implicita la facoltà di temperare, con pietà ed equità, il rigore del suo decreto, che pure è
esplicazione della sua potestà di capo dello Stato. E lo stesso Creonte dovrà
riconoscerlo: “Ahimé, questa morte non su altro mortale ricadrà, ma su di
me, mia colpa”. In lui si è fatto chiaro il pensiero della sua hybris.
16 ottobre. Hegel ha messo in luce la radicalità dello scontro tra Antigone
e Creonte. La figlia di un re si pone contro il decreto del sovrano e contro la sua
stessa posizione familiare, e dunque è eroica nella sua solitudine e nella sua in-
TRE SCRITTI DI VICO FAGGI
Vico Faggi Inferiae di ottobre
transigenza. Creonte dimentica che, oltre ad essere il capo dello Stato, è altresì padre e marito, con i doveri che ne conseguono. E dal suo errore nasce il suo naufragio, come egli stesso non potrà non riconoscere, con disperazione.
Hegel afferma che l’Antigone è, tra le tragedie, l’opera più eccellente e
soddisfacente. L’esame dell’architettura del testo convalida questo giudizio,
perché la struttura dell’opera è impostata sulla base di una perfetta simmetria, per cui ogni parte si combina perfettamente con le altre potenziando
l’armonia dell’insieme. E vediamo come.
C’è, in principio, fondamentalmente, l’antitesi di Antigone e Creonte,
ma ci sono anche, da una parte e dall’altra, delle antitesi secondarie e simmetriche. E così Antigone, da un lato, si urta con la sorella Ismene, dall’altro Creonte si scontra con il figlio Emone. Queste antitesi minori - ma non minime hanno la funzione di rafforzare, e di evidenziare, la determinazione di ciascuno dei due antagonisti che - malgrado il dissenso che, ammonitore, si leva dalla loro stessa parte - insistono sulla strada che hanno scelto.
E infine c’è, elemento di grande impatto emotivo, l’amore che Emone
porta ad Antigone, la sua sposa promessa. A questo amore il giovane sacrifica la sua vita, per fedeltà al suo sentimento e alla sua scelta di vita, che pur
contrasta col suo rango di erede al trono. E così tutto si lega nella superiore
armonia di una struttura tragica insuperabile.
22 ottobre. Si ripete un sogno che ho vissuto pochi mesi fa. Mi trovavo
in un paese della provincia di Brescia, non so per quale motivo. Sono in un
caffé, ascolto le chiacchiere insulse che corrono tra un cliente e il padrone del
locale. A mezzanotte penso che sia ora di tornare a Brescia, esco, mi guardo
intorno. Non vedo né la fermata degli autobus né la stazione dei pullman. È
notte inoltrata, c’è buio e silenzio. Le case sono serrate, le imposte chiuse,
nessuna luce trapela. Mi guardo intorno. A me si aggiungono due persone che
si trovano nella mia stessa situazione: come ritornare a Brescia. Parliamo e
non decidiamo. Avanzo un’idea che sembra plausibile: cercare un taxi, svegliare il taxista, farci portare al capoluogo.
L’idea si rivela irrealizzabile. Nessuno di noi sa dove abiti un taxista e
neppure sappiamo a chi chiedere informazioni. Il paese è murato nel suo silenzio. E io ho totalmente dimenticato il caffè dal quale sono appena uscito.
Avanzo un’altra idea: raggiungere a piedi il paese vicino e lì cercare,
con più fortuna, un conducente di taxi. I miei compagni non trovano attuabile la proposta, che viene abbandonata. Attendiamo e il tempo scorre, senza
che avvenga nulla. Senso sottile di disagio.
29 ottobre. Ricordo di un ricordo. Da alcuni decenni abito a Genova con
mia moglie e i miei figli, lavoro in Pretura, scrivo. Mi raggiunge, un giorno, al
telefono, una voce gentile ed educata, un poco burocratica: “Camillo D. è
morto”, mi dice, e aggiunge: “Si è suicidato”.
I pensieri si affollano, si scontrano, sull’onda della sorpresa e del dolore. E un ricordo si affaccia, il ricordo di qualcosa che fu premonitorio. Sono
ad O., in provincia di Brescia, mi trovo in casa, è un giorno di sole. Con me
c’è Camillo il quale annuncia, con voce amara ma decisa, che vuole farla finita. Non sopporta più, perché troppo penosa, la sua esistenza. E io reagisco
con veemenza, grido, lo insulto, non ha il diritto di farlo, lui che ha moglie e
15
Vico Faggi Inferiae di novembre
16
TRE SCRITTI DI VICO FAGGI
figli e un avvenire dinanzi a sé. Ci affrontiamo con ira, con pietà, ciascuno deciso a non recedere. Ad un tratto un pensiero mi illumina: se Camillo è venuto da me vuoI dire che nel suo inconscio c’è il segreto desiderio di essere fermato. Questo pensiero rafforza la mia volontà di distogliere l’amico dalla sua
risoluzione. Trovo nuove parole, nuovi accenti, e collera e sdegno, e alla fine
ho la meglio. Camillo rinuncia al suo proposito. Respiro e lo abbraccio.
Ritorno al primo incontro, ritorno alla voce che mi sta dicendo che il
mio vecchio amico si è suicidato, e dunque ha dato attuazione, anni dopo il
nostro incontro, alla vocazione di morte che lo assediava. Se fossi stato con
lui, penso, anche stavolta gli avrei parlato, l’avrei assalito, insultato, l’avrei
convinto a continuare la fatica di vivere. Ma troppi anni sono trascorsi, e
troppi chilometri ci hanno diviso, troppi eventi si sono interposti tra di noi.
E così stava scritto.
3. Inferiae di novembre
di Vico Faggi
(Genova, 2007)
7 novembre - Ho acquistato una grammatica del sanscrito, non certo
per studiare tale lingua (sono troppo vecchio), ma per cercare di cogliere
qualche elemento di corrispondenza col latino e col greco, a conferma della
comune origine indoeuropea.
La prima impressione è che, nel patrimonio lessicale, vi siano forti differenze tra il sanscrito e le due lingue in questione. Ma ci sono, a un livello
più profondo, elementi di concordanza e vicinanza molto significativi. Al pari del latino e del greco, il sanscrito ha, quali generi, il maschile, il femminile, il neutro. E sostantivi e aggettivi si declinano. Troviamo, nei verbi, il perfetto col raddoppiamento, in accordo col greco (mentre il latino ha, del raddoppiamento, solo qualche traccia residua, come in pello pepuli, tango tetigi,
pendeo pependi, et similia, ma sorprendente è la quasi identità di tundo tutudi con il sanscrito tud tutude, in greco tumpte tetummai).
13 novembre - Riapro, di Heidegger, “Ormai solo un Dio ci può salvare” (traduzione di Alfredo Marini, Guanda, 1976). Il pensiero di fondo, che
percorre l’opera, è altamente pessimistico. Perché l’intervento di un Dio è
l’unica via di salvezza? La risposta di Heidegger è: “la tecnica nella sua essenza è qualcosa che l’uomo di per sé non è in grado di dominare”. E ancora: “la
tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra”.
Il tempo trascorso nulla ha tolto di attualità a questo pensiero. L’ha
forse rafforzato perché la tecnica, nel frattempo, ha ampliato i suoi strumenti e la sfera della sua azione, ha rafforzato il suo impulso ad espandere il suo
TRE SCRITTI DI VICO FAGGI
Vico Faggi Inferiae di novembre
dominio. La vita dell’uomo è sempre lontana dalle sue antiche radici. E quando Heidegger afferma che solo un Dio ci può salvare rende palese la carenza
di ogni umano contrappeso, di ogni umana via di salvezza. Ma Nietzsche ha
annunciato, sin dal Zaratustra, che Dio è morto.
14 novembre - Il sanscrito ha il prefisso negativo a - an. Così apada vuol dire senza piedi, apraia senza prole, acaksus cieco. Interessante avidvat, sciocco,
composto dall’a privativo e dalla radice vid, che troviamo anche in greco (vedere,
sapere). Nella stessa direzione il prefisso peggiorativo o negativo dus, che corrisponde esattamente a quello greco, mentre in latino abbiamo dis.
Tra le congiunzioni troviamo ca, che è posposta come il latino que (populusque) e il greco te.
Forti vicinanze nei numeri cardinali: dvi (duo), tri (tres, treis), panta
(pente), sapta (septem, eptà).
23 novembre - Ho casualmente, fortunatamente ritrovato, tra le pagine di
un vecchio libro, una lettera di Angelo Barile datata Albisola Capo, 14 maggio
1967. Sono passati quaranta e più anni ma ricordo con precisione tutti i particolari che concernono la vicenda cui la lettera si riferisce. Eccone il testo:
“Caro Faggi, ti ringrazio del libretto dedicato al povero Nobile e alla sua
arte: vi ho letto, tra gli altri, i tuoi scritti nei quali ne fai rivivere la fervida e
animosa figura. La tua fedeltà alla sua memoria è una commovente testimonianza di amicizia, che onora la sua memoria, e il tuo affetto, il tuo cuore.
“Una devozione come la tua al ricordo dell’ amico scomparso è cosa rara, che umanamente conforta. Grazie, caro Faggi”.
Era mancato, all’età di quarantatre anni, il pittore Alberto Nobile, amico
mio, di mia moglie, dei miei figli, ed io volli ricordarlo con una piccola pubblicazione di omaggio. Mi rivolsi perciò a Sbarbaro, Barile ed altri letterati chiedendo
loro il contributo di una pagina. Tutti cortesemente e sollecitamente aderirono
all’iniziativa. Il volumetto uscì e ad esso si riferisce la lettera di Basile.
Ma il libro, entro cui ho ritrovato la lettera, era a sua volta dedicato alla memoria di un amico e questa volta l’amico era proprio il poeta gentiluomo di Albisola, che era mancato poco dopo avermi scritto la lettera citata.
Ritorna il ricordo di due amici, Nobile e Barile, e li unisce nel mio rimpianto. Tutto si lega.
29 novembre - Del materiale lessicale sanscrito abbiamo detto sopra. E
tuttavia non mancano concordanze e vicinanze con il latino e il greco. Qualche esempio semplice: agni (ignis), deva (deus), danta (dens, odores), dinara
(denarius, denarion). E ancora: naman (nomen), masa (mens, men, mese), vuvan (iuvenis, neos), vae (vox), vira (vir), matìr (mater, meter), pitìr (pater, pater), brater (frater; germanico bruder). Alla radice lit (ungere) corrispondono,
con lieve spostamento semantico, il greco lipos, grasso, e il nostro lipoma.
Altri riferimenti al germanico: atman (anima), Asem (respiro), Han (uccidere), Hanger (boia), bhu (essere) hin bin (io sono).
Molto stretto il rapporto tra nau e navis, naus.
17
Giuliana Rovetta Dall’inglese al francese e ritorno
18
LE LINGUE DI BECKETT
LE LINGUE DI BECKETT
Dall’inglese al francese e ritorno
di Giuliana Rovetta
«L’art a toujours été ceci: interrogation pure,
question rhétorique moins la rhétorique»
S.B.
Beckett ha raramente e malvolentieri concesso interviste, guadagnandosi così la fama di personaggio elusivo, misterioso, introverso. Può sembrare inconsueto, anche assurdo, che uno scrittore, e per di più uno scrittore di
teatro, eviti -fra i diversi modi di comunicare- proprio il più immediato che
consiste nell’utilizzo della parola (“una inutile macchia sul silenzio e il
nulla”), identificando il dialogo come una “ulteriore forma di agitazione”.
L’escludere la vita personale, sotto forma di memorie o progetti, dagli argomenti ammessi nel corso dei non molti colloqui con i suoi aspiranti biografi,
se si spiega con una scelta di riservatezza comune a molti artisti, e particolarmente a quelli coinvolti nella scrittura, non dà ragione dell’atteggiamento
evasivo nel momento in cui l’indagine abbia per oggetto non già la vita privata, ma le opere ormai messe sulla pagina se non addirittura già rappresentate sulla scena. O forse proprio la natura di primo acchito “inspiegabile” di
molti suoi passi, di molti suoi dialoghi, di molte sue pause e assenze, perderebbe parte del suo potere d’incanto se l’autore si prestasse in prima persona, e quindi senza le incertezze e l’opinabilità del critico, ad aprire davanti
all’investigatore di turno la scatola segreta in cui il meccanismo regolatore
del testo è custodito. “Je ne lui posais jamais de grande question” - ricorda
Knowlson, amico e biografo - spiegando che Beckett non amava le domande
troppo serie, così come “il détestait parler de son oeuvre”. Anche se accadeva
che discutessero davanti a un boccale di birra sull’opportunità di tradurre
cette fois con that time o sulla prova interpretativa di un attore, tutto restava
nei limiti della conversazione amichevole e in ogni caso mai Beckett nel corso
di uno di quegli incontri (era il 1989, il suo ultimo anno di vita) si sarebbe
spinto fino a spiegare ciò che aveva scritto.
Nel 1956 Israel Shenker, avendo l’occasione di incontrare Beckett a
Parigi e di scambiare con lui alcune battute (pubblicate sul New York Times
nel maggio 1956) notava un che di originale, forse di leggermente trasandato, nella sua persona, ma anche dichiarava di essere rimasto colpito dall’az-
LE LINGUE DI BECKETT
La vicenda tutta particolare e quasi anomala del bilinguismo anglofrancese dell’irlandese Beckett, nato in una terra in cui esisteva storicamente la tradizione del gaelico accanto alla realtà della lingua inglese, si radica
già nei primi anni della sua preparazione scolastica, grazie alla frequenza
presso un istituto privato in cui il francese, elemento importante del bagaglio
culturale nelle classi medio-alte, era insegnato come seconda lingua. Nato in
una famiglia protestante sufficientemente agiata, il giovane Sam frequenta
poi il liceo Portora Royal (lo stesso di Oscar Wilde) nella contea di Fermanagh,
cioè in un territorio dell’Ulster che, dopo la divisione del 1921, si trova a far
parte dell’Irlanda del Nord. Ma è soprattutto al Trinity College di Dublino che
Giuliana Rovetta Dall’inglese al francese e ritorno
zurro sguardo enigmatico, dal volto di “ardente apostolo”. Attorno a questa
figura già di per sé carica di una intensità non comune, Shenker non sfugge
alla tentazione di immaginare un alone di segretezza tenacemente difesa:
dove abita Beckett? Con chi trascorre le sue giornate? E infine, au juste, quali
sono i pensieri nascosti dietro quel viso dai lineamenti nobili, così netti da
sembrare intagliati nel legno? Nulla, o pochissimo, è dato sapere dal diretto
interessato che, interpretando l’opera di Proust in un suo famoso saggio giovanile, parla dell’arte come “apoteosi della solitudine” e dell’artista come di
un uomo che può comunicare soltanto, se e quando può, mediante un lavoro di approfondimento e di scavo.
A metà strada tra realtà e leggenda non era poi così inconsueto, negli
anni Sessanta, incrociare la figura alta ed austera di Beckett (un vero sportivo, gran giocatore di golf e appassionato di rugby) mentre risaliva lentamente il boulevard Saint-Jacques verso piazza Denfert-Rocherau, dove il venditore di giornali gli rivolgeva un generico “Eh alors, ça va?” come se neppure
sapesse chi aveva di fronte. Ma in quel quartiere che ospitava la prigione
della Santé, sul cui cortile le finestre dello studio dello scrittore consentivano una vista parziale (non è leggenda che con i detenuti, durante l’ora d’aria,
Beckett comunicasse a volte usando l’alfabeto morse) non era una presenza
sconosciuta, bensì ammirata - rispettosamente a distanza - per quello che si
sapeva di lui, vale a dire il comportamento coraggioso durante la guerra, trascorsa in Francia anziché nella neutrale Irlanda, l’adesione alla Resistenza e
la militanza nella Croix-Rouge, prima ancora che per il valore della sua arte,
consacrata nel 1969 dal premio Nobel, ritirato per lui (volutamente assente)
dall’editore Jerôme Lindon. Del resto anche questo avvenimento era stato
l’occasione per un atto di generosità, essendo il premio in denaro
dell’Accademia di Stoccolma da lui elargito in beneficenza.
Quella sagoma inconfondibile col capo lievemente piegato in avanti che
avanzava sul marciapiedi in leggera salita bordato da marroniers d’alto fusto,
sembrava davvero - come è stato osservato - una scultura di Giacometti, dalla
allure gravemente ascetica e dai contorni aguzzi: ma lo sguardo vivissimo e
solo apparentemente distante, al cenno di silenzioso saluto, non mancava
mai di rispondere con un bagliore di autoironico compiacimento.
19
Giuliana Rovetta Dall’inglese al francese e ritorno
20
LE LINGUE DI BECKETT
il brillante e irrequieto studente porterà avanti lo studio sistematico degli
autori francesi classici (Racine in primo luogo) e moderni (Proust, Gide,
Larbaud) i quali, insieme alla passione per Dante, segneranno non solo gli
anni di formazione ma l’intera sua vita: una copia della Divina Commedia,
oggetto di continue riletture, lo accompagnerà per sempre, dai tempi degli
studi universitari fino agli ultimi anni trascorsi in una casa di riposo del XIV
arrondissement parigino.
A Parigi era arrivato nel 1928, dopo aver ottenuto la licenza al Trinity
College con una dissertazione su Déscartes, per assumere l’incarico di lettore d’inglese presso l’ENS (École normale supérieure) e insieme per svolgere
una tesi su di un autore a scelta: incerto fra Jules Romains e Jouve, sceglierà
poi il secondo, ma il saggio, da lui stesso definito “improvisé” sarà soppiantato nei suoi interessi prima dallo studio su Proust e - dopo la conoscenza
con Joyce - dall’impegnativo lavoro su Dante...Bruno.Vico..Joyce (ogni puntino a marcare un secolo) in cui confluisce il frutto delle sue ricerche relative
ad una prefazione al Finnegans Wake. Nel nuovo ambiente, lontano dall’atmosfera asfittica della società irlandese, particolarmente oppressiva per uno
spirito votato alla libertà e al non conformismo, Beckett allaccia rapporti con
figure del mondo letterario dell’epoca. Il distacco per tornare ad assumere le
funzioni d’insegnante al Trinity College, seguendo il percorso classico della
carriera accademica che pare aver scelto o comunque accettato, rappresenta
un momento piuttosto traumatico: “Come si può scrivere qui, mentre ogni
giorno che passa rende volgare l’animosità che si sente e trasforma la collera in irritazione e in irascibilità?”. La terra d’Irlanda, col mitico cielo azzurro,
i tramonti infuocati su sfondo naturalmente verdeggiante, con la sua storia
tormentata e divisa, può ispirare altri, i cantori di “vastes rêveries pastorales”
o di “puissants mythes nationalistes” ma non lui. E quindi partire, fra gli sconcertati interrogativi di quelli che lo circondano, non è scelta ma obbligo:
abbandonare quel quadro d’insieme, per allontanare da sé il pericolo di una
vita (l’insegnamento, la famiglia) che sembra capace di distruggere il sogno
della scrittura, strozzando in gola la voce non ancora pronta per articolare
un linguaggio autonomo. Lasciare la terra, ovviamente amatissima, lasciare la
famiglia, e soprattutto la madre, anch’essa amatissima, ma, anch’essa come
la terra, capace di intrappolare in una morsa il giovane talento, condizionato
e inibito (anche da adulto) di fronte alla autorevolezza, al piglio deciso, alle
aspettative non dissimulate della perentoria May dallo sguardo implacabile e
dall’amore insieme soffocante e irrisolto. L’“expulsé”, titolo di un racconto
della raccolta Nouvelles et Textes pour rien (1955), che ha per tema uno sfratto e il successivo vagabondare del protagonista, è anche il figlio prodotto,
quasi “emesso” da una madre poco affettiva, subito sollevata e pronta a giudicare il frutto di questa fisiologica separazione col suo occhio di ghiaccio,
dolcemente impenetrabile. Non per nulla l’unica parola che rappresenterà
una difficile impasse nella lunga esperienza traduttiva di Beckett è “nascita”:
il francese naissance regge la sua articolazione su nasali e sibilanti, non
implica alcun utilizzo del suono labiale né il particolare atteggiarsi della
LE LINGUE DI BECKETT
Giuliana Rovetta Dall’inglese al francese e ritorno
bocca in affettuosa offerta nel proferire birth, insomma i due vocaboli non
sembrano intercambiabili e neppure riferibili a concetti simili. Al di là dell’oggettiva differenza di suono, un blocco psicologico sembra fermare lo scrittore sulla soglia di questo avvenimento primordiale e imperdonabile, se si
trova a dire che “le plus grand des pêchés est d’être né”. Al dramma della
nascita accenna anche Hamm, in Fin de partie: “Essere al mondo, è senza
rimedio!” e Pozzo, in Godot: “..un giorno siamo nati, un giorno moriremo, lo
stesso giorno, lo stesso istante, non vi basta?”.
D’accordo, la terra natìa dal richiamo troppo forte per essere eluso (e
infatti tornerà in richiami e sottintesi anche malinconici lungo tutta la sua
opera), la madre-madre con i segni impressi nell’infanzia e mai del tutto cicatrizzati, ma perché il bisogno di staccarsi anche dalla lingua? Come sempre,
nel paradosso delle sue (non) risposte sta il senso profondo della verità di
Beckett: ad una inchiesta giornalistica che indagava presso gli autori del
momento sulle ragioni della loro attività di scrittori, aveva inviato la sintetica e per lui unica risposta possibile: “Bon qu’à ça”, intendendo dire “Solo questo so fare”. E dunque ecco la sua spiegazione: “Alla Liberazione, avevo potuto conservare il mio appartamento, vi tornai e mi rimisi a scrivere - in francese - ne avevo voglia; era cosa diversa che scrivere in inglese, mi sembrava
un’esperienza più eccitante. Scrissi rapidissimamente tutta la mia opera tra
il 1946 e il 1950. In seguito non ebbi più nulla da scrivere che mi sembrasse
valido. La mia opera francese mi portò al punto in cui sentivo che stavo ripetendo sempre la stessa cosa. Per alcuni scrivere diventa sempre più facile; per
me l’estensione delle possibilità si riduce sempre di più...”. Bisogna dunque
partire da quel ne avevo voglia come stimolo irresistibile (a partire, a cambiare) contro cui non giova resistere, per poi comporre attraverso altri brevi
lampi d’illuminazione le “ragioni” proprie e improprie di una scelta linguistica dalla radicalità sconcertante. Innanzitutto la scelta dichiarata di una scrittura “senza stile” non già quale egli considerava essere il francese, ma quale
sarebbe stato, secondo le intenzioni, il suo francese: una lingua (forzatamente) ridotta nel vocabolario, nella possibilità di evocazioni semantiche e culturali, negli echi di riferimento, resa essenziale proprio dal suo spaesamento;
e, oltre a ciò, stretta in uno schema di vincoli grammaticali e lessicali ineludibili, in misura ben più rigida dell’inglese. Della lingua materna temeva le
lusinghe, l’eccessiva gamma di opportunità, la tentazione di lasciarsi andare
“en absence de freins” e di finire travolto dalla facilità di un uso spontaneo,
non imparato intenzionalmente in età adulta, ma introiettato acriticamente.
La riduzione, l’impoverimento che Beckett cerca, e che sarà la sua cifra
espressiva “epurée”, non è nient’altro che la sostanza della sua poetica ed ha
a che fare con l’impotenza: lungi dal volersi manifestare come artista per
quanto di valido e di personale può avere da comunicare, egli vuole esplorare il margine del non sapere, del non fare, del non essere. E lo farà in francese, a partire dalla stesura di Mercier et Camier, primo romanzo, Eleutheria,
prima pièce, per poi dedicarsi alla trilogia composta, in un crescendo di
desertificazione e rassegnata paralisi, dai romanzi Molloy, Malone meurt e
21
Giuliana Rovetta Dall’inglese al francese e ritorno
22
LE LINGUE DI BECKETT
L’Innomable, inframmezzati dai celebri lavori teatrali En attendant Godot e
Fin de partie. Il fatto che poi ognuna di queste opere a rotazione veda la luce
anche in inglese, quasi sempre nelle edizioni di John Calder o Faber and
Faber, non stupirebbe se a procedere alla traduzione non fosse Beckett stesso, troppo accurato e pignolo, geloso della sua opera per assistere senza soffrire al lavoro di traduttori anche assolutamente accreditati. Così come scrivendo direttamente in francese Beckett non ha mai voluto sembrare francofono d’origine, anche quando traduce in inglese non tiene a nascondere le
tracce sottostanti della versione (originale) francese. Non si evidenzia in lui
la ricerca di una trasposizione assoluta nell’altra lingua, come se l’autore
(doppiamente tale) non sentendosi debitore né verso la lingua d’origine né
verso quella d’arrivo, giunto ad una conoscenza quasi equivalente dei due
contesti culturali e di bastanti diavolerie tecnico-linguistiche in entrambi i
campi, si compiacesse di sfoggiare la sua singolare capacità di far rinascere
l’opera come se fosse un’altra, cioè di ri-crearla. Per questo, anche senza
voler parlare come fanno alcuni studiosi di un particolare statuto che indicherebbe in ognuna delle due versioni un “linguistic twin”, secondo la definizione della Beer, o di un rapporto di complementarità che legherebbe in un
unicum le traduzioni dello stesso testo (quasi una terza opera da leggersi a
parte), chiunque ami Beckett sa benissimo che leggerlo in tutte e due le lingue significa godere doppiamente di una scrittura che si fa tanto più ricca,
originale e divertente nel passaggio da una versione all’altra.
Le tappe attraverso cui si è realizzato l’insolito percorso del Beckett
bilingue prendono le mosse dalla decisione di applicarsi alla traduzione di
Murphy. Iniziato nell’estate del 1935, questo testo in inglese (che dà il via alla
lunga serie dei personaggi in “M”) viene completato nel giugno 1936 e poi
inviato senza successo a diversi editori. Prima che Routledge accetti infine di
pubblicarlo (Londra, 1938), accade un episodio traumatico per lo scrittore: è
vittima dell’aggressione di uno sconosciuto passante in boulevard du
Montparnasse, con conseguenze abbastanza gravi. Ricoverato e poi dimesso,
stenta ad archiviare il fatto e va in cerca del malfattore per capire le motivazioni del suo gesto. La risposta che ottiene (quanto mai beckettiana) è: “Je ne
sais pas, Monsieur”, frase che agirà come un rovello nella sua mente producendo con ogni probabilità una serie di concatenazioni e deduzioni legate
all’assurdità della dichiarazione ma anche alla sobrietà e asciuttezza della
sua formulazione. Intanto la fredda accoglienza a Murphy sorprende l'autore,
come spiega nei soliti toni estremamente sobri in una lettera indirizzata
all’amico Axel Kaun. Nasce da questa frustrazione il bisogno di cambiare lingua? In effetti già nell’ideazione di Watt, l’ultimo testo inglese di questa
prima sua fase, alla cui stesura aveva lavorato in condizioni critiche durante
la guerra, affiorano tracce di un progressivo avvicinamento al francese (come
dimostrano gli appunti da lui presi a margine del manoscritto) e insieme si
evidenzia l’obbiettivo sempre più tenacemente perseguito di affrancarsi da
LE LINGUE DI BECKETT
Giuliana Rovetta Dall’inglese al francese e ritorno
Joyce. Il fatto poi che subito Beckett si affretti al lavoro di traduzione di
Murphy può dipendere da un ragionamento di tipo commerciale, come sembra suggerire nella sua biografia Deidre Bair, ma certo anche dal desiderio di
constatare quale sia la resa del suo testo in una lingua che ormai l’autore
sente di padroneggiare abbastanza bene (ma non del tutto, tanto è vero che
per questa versione richiede l’aiuto e la consulenza dell’amico Alfred Péron).
Essendo le perplessità su Murphy rivolte anche all’eccesso di risonanze joyciane, è da ritenersi elemento motivante l’intenzione di sfuggire a questo
imprinting cambiando completamente strumento (lingua) per riuscire a produrre effetti diversi e più personali. La prima opera scritta in francese, precedente alla trilogia dei romanzi più noti, iniziata nell’estate del 1946, in un
momento in cui Beckett ha quarant’anni, ha vissuto il difficile periodo della
guerra e non ha ancora avuto validi riscontri al suo lavoro di scrittore, mette
in evidenza i due personaggi del titolo, Mercier et Camier, a formare una bizzarra coppia in movimento e destinata a separarsi nel finale, così contraddicendo quelle che saranno poi le caratteristiche dei duetti a cui Beckett ci ha
abituato. Del risultato di questo suo primo lavoro in una lingua non sua
l’autore pare piuttosto incerto ma spedisce comunque il manoscritto all’editore Bordas che, dopo avergli inviato un anticipo, torna sui suoi passi decidendo di non pubblicare il romanzo che resterà così inedito fino al 1970.
Decisamente poco fortunata anche la sorte del successivo lavoro in francese,
questa volta teatrale, intitolato Eleutheria: la complessa costruzione scenica
(tre atti, diciassette attori, palcoscenico adattabile a più livelli) scoraggia la
realizzazione di un testo considerato, per i tempi, troppo poco comprensibile ma che, se rappresentato, avrebbe avuto un ruolo decisamente innovatore
per la sua carica di ironia e per la evidente presa in giro del teatro borghese.
Il ritorno alla narrativa è segnato da Molloy, pubblicato dalle Éditions de
Minuit, editore di riferimento per il mercato francese, nel 1951. “Ho concepito Molloy e ciò che ne è seguito il giorno in cui presi coscienza della mia stupidità. Da allora cominciai a scrivere le cose che sentivo dentro”. Con questa
frase, citata dalla Bair, la svolta intrapresa da Beckett assume connotati precisi sui quali vale la pena soffermarsi. Intanto una data precisa, il 1945, e una
improvvisa “illuminazione” riguardo alla possibilità di liberarsi definitivamente dall’influsso joyciano, oltre che non utilizzando più la sua lingua, anche
rivolgendosi ad un mondo scabro e interiore anziché al ricco foisonnement di
esperienza e cultura che Joyce veicolava nella sua scrittura. E l’espressione
“ciò che ne è seguito” tiene in qualche modo conto della definizione (introdotta dai critici, ma da lui mai usata) di trilogia riferita anche ai due successivi
romanzi: Malone meurt e L’Innomable. Un ciclo narrativo sconcertante e pregevole che se in Molloy presenta una formulazione ancora abbastanza tradizionale grazie a un abbozzo di trama e a personaggi che interagiscono pur
non comunicando fra loro nel modo classico, con Malone meurt si cristallizza
nella figura inerte e preagonica di un malato chiuso in una stanza: meno di un
personaggio, quasi un automa (un braccio che s’insinua nel varco della porta)
garantisce la precaria sopravvivenza di questo derelitto che scrive alla cieca
23
Giuliana Rovetta Dall’inglese al francese e ritorno
24
LE LINGUE DI BECKETT
su un taccuino le sue storie strampalate. In questo testo il bilinguismo (nel
senso di doppia poetica, doppio retroterra culturale) s’insinua fra le pagine
creando un regime diviso fra l’attività narrativa accelerata e inconsulta del
personaggio Malone che racconta vicende ingolfate da descrizioni e ossessivi
dettagli (il coté irlandese), e la sua personale vicenda di avvicinamento alla
morte che viene esposta nello stile “appauvri” che costituisce la cifra del
nuovo Beckett francese. La terza parte della trilogia non segue direttamente il
secondo romanzo, in quanto Beckett si dedica prima alla stesura di En attendant Godot: a causa della diffidenza degli impresari teatrali questa pièce sarà
conosciuta dal pubblico solo nel 1953. Su L’Innomable è stato detto e scritto
di tutto, anche che era l’illisible e in effetti non è facile penetrare nella dimensione del personaggio parlante, immobile e piangente, che si identifica con i
modesti eroi di cui narra le storie. L’unico gesto, l’unica azione è il fluire del
discorso da questo io narrante, ma non appena la sua parola viene pronunciata, subito si altera e svanisce. Eppure il destino è quello di non tacere, di continuare a parlare, per sopravvivere.
La scelta del francese operata da Beckett resta comunque ferma anche
col cambiamento di genere, da narrativo a teatrale, fino al 1950 (anno della
morte di sua madre); seguirà una fase intermedia di traduzioni verso
l’inglese, a rinnovare la dangereuse intimité con le sue origini linguistiche, e
infine un ritorno più deciso alla lingua materna negli anni Ottanta. Fra le
tante risposte, alcune già ricordate, che ruotano attorno alle motivazioni di
questo passaggio da un versante linguistico all’altro, una non secondaria
suona così: ”Pour faire remarquer moi” che in una bizzarra formulazione
pone l’accento su quell’incongruo moi acceso come un segnale sulla propria
originalità di pensiero e di stile. Il linguaggio e il mondo dell’indeterminatezza e dell’assurdo, nei quali regna il néant - da dire ma anche da vivere - si gioverà di una lingua estranea in cui i nessi fra parola ed oggetto appaiono più
convenzionali e quindi pervasi da una intrinseca ambiguità. Le parole straniere sembrano senza passato e senza storia e rendono meno cogente il rispetto della verità. Ecco dunque l’emissione di suoni assimilabili ad un balbettio,
o ronzio, con andatura frammentata e claudicante alla pari di certe assurde
posture assunte dai personaggi sulla scena, spesso costretti ad una totale o
parziale immobilità in cui la parola diventa l’unico “gesto” possibile. Così è
in En attendant Godot, finalmente rappresentato a Parigi il 5 gennaio 1953 al
Teatro di Babylone, e così è in Fin de partie (tradotto in inglese con il titolo
di Endgame, termine tecnicamente più appropriato al contesto scacchistico
che non End of game), l’altra pièce scritta negli anni in cui Beckett si dedicò
all’uso esclusivo della lingua francese. “Bisogna scegliere fra le cose che non
meritano d’essere menzionate e quelle che lo meritano ancora meno”,
potrebbe essere il motto tanto dei suoi romanzi che della sua produzione
teatrale: passando dal paradosso all’assurdo, le pièces si avvantaggiano della
scomparsa del Je narrante e meglio rappresentano un tempo colto nella sua
immobilità. Assicura Alfred Simon, per molti anni critico teatrale della rivista
Esprit, che Beckett attribuiva gran parte del successo di Fin de partie proprio
LE LINGUE DI BECKETT
Giuliana Rovetta Dall’inglese al francese e ritorno
all’uso della lingua francese a cui la commedia era debitrice per la forza e il
ritmo. Temendo come risultato un effetto riduttivo della versione inglese,
alla quale stava lavorando intensamente, pur non trovando nessun impresario francese disposto a mettere in scena la sua pièce, l’autore si rifiutò di concedere l’approvazione per un allestimento da parte del Royal Court Theatre.
La commedia sarà rappresentata, in francese, a Londra nell’aprile 1957, e tre
settimane dopo al Teatro dei Champs Elysées.
Non è dato immaginare una “trilogia teatrale” in lingua francese parallela a quella narrativa, visto che successivamente Beckett si dedicherà alla
stesura di Happy days in inglese (solo nel 1963 ne concluderà
l’autotraduzione col titolo Oh les beaux jours), mentre una sorta di continuazione di L’Innomable è rappresentata da Comment c’est (1961) testo in prosa
che affronta ancora il tema della relazione fra parola e senso tentandone una
ultimativa impossibile definizione per illuminare il non detto, il mal dit. E
appunto in Mal vu, mal dit (1981), testo francese come pochi che si rifà a
Racine e Mallarmé, si può leggere: “Nommer, non, rien n’est nommable, dire,
non, rien n’est dicible, alors quoi, je ne sais pas, il ne fallait pas commencer”:
ma una volta che l’azione di commencer (in assonanza perfetta con Comment
c’est) è stata iniziata, è impossibile smettere di parlare, sia pure per continuare a mostrarne la difficoltà e inattuabilità.
Se sembra logico che il lettore bilingue si trovi coinvolto in prima persona nel continuo passaggio, dinamico per non dire acrobatico, da una lingua
all’altra, può il lettore che pratica una sola lingua avere l’impressione di essere un fruitore a metà dell’opera beckettiana? Sembra proprio di no. Con la
sua arte Beckett oltrepassa le barriere, e può essere considerato un vero
irlandese, erede diretto (e qualche volta sofferente) di Joyce, o figlio di Yeats,
così come indubbiamente ha il suo posto di scrittore interamente francese,
contemporaneo di Barthes e Foucault, non lontano dalla poetica dei nouveaux romanciers, in particolare Robbe-Grillet e Sarraute. Negli ultimi anni
dopo tanti faticosi ma riuscitissimi lavori di autotraduzione confiderà infine
al suo editore inglese Calder che Worstward Ho, commedia in quattro atti
dalla sintassi frantumata e dai giochi di parole intraducibili (a partire dal titolo stesso, mutuato dal linguaggio marinaro ma sostituendo west con worst
per ottenere una esclamazione che in italiano suonerebbe come “avanti tutta,
al peggio”) resterà “inglese”. Con quest’opera non tradotta, che l’autore
ormai provato dalla cattiva salute definirà “il mio estremo rantolo”, si chiude il flirt con la lingua francese e insieme cala lentamente il sipario sulla doppia voce di Beckett.
25
Giuliana Rovetta Dall’inglese al francese e ritorno
26
LE LINGUE DI BECKETT
BIBLIOGRAFIA
Deidre Bair, Samuel Beckett, Fayard, 1990; originale inglese Samuel Beckett. A
Biography, Harcourt Brace Jovanovich, 1978.
John Pilling (edited by), The Cambridge Companion to Beckett, Cambridge University
Press, 1994; in particolare Ann Beer, Beckett’s bilingualism.
Michael Edwards, Beckett ou le don des langues, Espaces, 1998.
James Knowlson, Beckett, un illustre inconnu, Actes Sud, 1999 ; originale inglese
Damned to fame. The life of Samuel Beckett, Simon and Schuster, 1996.
AA.VV., Beckett raconté par les siens, in Magazine Littéraire, n.372, gennaio 1999.
Michel Oustinoff, Bilinguisme d’ecriture et auto-traduction: J.Green, S.Beckett,
V.Nabokov, L’Harmattan, 2001.
Nathalie Léger, Les vies silencieuses de Samuel Beckett, Allia, 2006.
AA.VV., (a cura di Chiara Montini e Andrea Inglese), Per il centenario di Samuel Beckett,
in Testo a fronte, n. 35, dicembre 2006; in particolare gli interventi di C. Montini, Breve panorama critico intorno al bilinguismo di Samuel Beckett, p.181 e ss.; Erika Ostrovsky, Il silenzio di
Babele, p. 207 e ss.; Raymond Federman, Lo scrittore come auto-traduttore, p. 236 e ss.
Brigitte Le Juez, Beckett avant la lettre, Grasset, 2007.
Mel Gussov, conversazioni con (e su) Beckett, 1998, Ubulibri.
LA DRAMMATURGIA DI SAMUEL BECKETT
di Andrea Scarel
Nel Novecento è raro incontrare un drammaturgo che sia riuscito, solo
con la sua scrittura, a rivoluzionare la scena teatrale, dato che la nascita e
l’affermazione della regia hanno di fatto allargato il solco tra pagina scritta
e palcoscenico. Nei secoli precedenti i drammaturghi spesso erano anche
uomini di teatro e supervisionavano, quando non dirigevano direttamente, gli
allestimenti delle loro opere. Sino all’avvento della regia inoltre non esisteva
una figura (quale sarà poi quella del regista appunto) che si occupasse di
coordinare ed armonizzare i singoli linguaggi dell’evento teatrale quali la
recitazione, le scenografie ed i costumi1. Solo per fare un esempio, se
nell’Ottocento in Italia erano gli attori stessi a doversi occupare dei propri
costumi di scena, oggi ogni singolo capo viene pensato, ed eventualmente
fabbricato appositamente, in funzione di una visione globale della rappresentazione. I drammaturghi che costituiscono altrettanti punti fermi nella storia
del teatro occidentale per la maggior parte erano in prima persona capocomici di una compagnia per la quale scrivevano le loro commedie. Molière,
Goldoni e lo stesso Shakespeare crearono alcuni dei loro personaggi più belli
e complessi basandosi sulle caratteristiche degli attori a disposizione. In
Italia Goldoni operò dall’interno la sua riforma, riuscendo lentamente a scardinare la pratica della recitazione all’improvviso in favore di quella premeditata. Nel Novecento la figura del regista, raccogliendo nelle proprie mani le
redini dello spettacolo, ha sempre più relegato l’autore nel suo studio a scrivere testi che spesso vengono pubblicati prima di essere rappresentati.
Dunque nel secolo appena concluso sono stati i registi, e non i drammaturghi, ad imporre i più radicali mutamenti teatrali. Personalità come Jacques
Copeau, Peter Brook, o intere compagnie come il Living Theatre, hanno imposto nuovi e variegati linguaggi teatrali.
Prima di proseguire però è doverosa una precisazione in riferimento particolare all’esperienza italiana. Difatti se i primi registi europei rivendicavano la
loro libertà artistica rispetto al testo, in Italia tale istituzione si fece per cinquant’anni garante della più piatta e semplice aderenza al copione da rappresentare.
Si noti inoltre che l’attuale utilizzo in senso espressivo di luci e musiche è figlio delle sperimentazioni operate nei primi decenni del secolo scorso dalle avanguardie storiche. Per un maggior
approfondimento cfr. R. Tessari, Teatro e avanguardie storiche. Traiettorie dell’eresia, Laterza,
Bari - Roma, 2005.
1
Andrea Scarel L’evoluzione del personaggio in Beckett
L’EVOLUZIONE DEL PERSONAGGIO
NELLA DRAMMATURGIA DI SAMUEL BECKETT
27
Andrea Scarel L’evoluzione del personaggio in Beckett
28
LA DRAMMATURGIA DI SAMUEL BECKETT
Esaustive in questo senso sono queste poche righe di Silvio D’Amico: “Io considero l’Autore di una razza assai più elevata dell’Attore. Anche se l’attore è
Zacconi e l’autore XY. Per me, gli architetti valgono più dei calzolai. Ci fu un
Ronchetti, milanese, calzolaio di Napoleone che pare avesse un’abilità da sbalordire; gli hanno dedicata una piccola piazza. E ci sono degli architetti i quali tiran
su delle case in stile floreale che, quando non rovinano, danno il mal di pancia.
Non importa. Gli architetti sono di una razza più elevata dei calzolai. Chi crea è
di una razza superiore a chi eseguisce”.2
Esistono poi, tornando ad una prospettiva più ampia, alcune eccezioni
di drammaturghi che in maniera diversa e più o meno frequentemente prendevano parte alle messe in scena delle loro opere. Ci si vuole qui riferire principalmente a Pirandello, Brecht e Beckett; tre drammaturghi che hanno profondamente modificato la sensibilità teatrale novecentesca.
Brecht, attraverso la tecnica dello straniamento, voleva impedire
l’immedesimazione dell’attore nel personaggio e di conseguenza quella del
pubblico nella vicenda, in modo tale che questi mantenesse lucido l’intelletto
e la sua capacità di prendere decisioni di carattere morale, politico. Lo spettatore da passivo diviene attivo, invitato a distaccarsi dalla storia narrata ed
a formulare un giudizio critico. Diversamente Pirandello “forza al massimo,
sia la lingua che la struttura del dramma ottenendo come tutti ben sanno
risultati eccezionali; ma anch’egli deve fermarsi al limite estremo dei confini
del genere: il teatro nel teatro”3. Beckett supera tale limite estremo con testi
che nulla hanno a che vedere col passato. Sia nel teatro di Pirandello che in
quello di Brecht qualcosa comunque accade, nei Sei personaggi in cerca
d’autore o in Madre Courage e i suoi figli c’è uno svolgimento, un’azione, una
trama in qualche modo definita. Craig riteneva che l’azione4 fosse alla base
di qualunque rappresentazione teatrale e da questo punto di vista Pirandello
e Brecht non fanno eccezione. Con Beckett tutto ciò cambia. Sino a quel
momento ogni personaggio era espressione di una certa psicologia più o
meno complicata o di un carattere fisso (ad es. nel caso della Commedia
dell’Arte), in Beckett i personaggi diventano progressivamente una sorta di
canale verbale (ad esempio Bocca in Non Io), o marionette capaci solo di
rispondere agli stimoli esterni, come nei due mimi Atto senza parole I e Atto
senza parole II.
Beckett non fu solo un drammaturgo, ma anche un autore di romanzi,
novelle e poesie, oltre che di un saggio giovanile su Proust e di qualche altro
lavoro critico come Dante...Bruno.Vico..Joyce del 1929. Tali produzioni procedono parallelamente a quella drammaturgica ed occorrerà quindi riferirvisi,
benché in questa sede sia in esame il personaggio prettamente teatrale. La
M. Praga, Carteggio Marco Praga-Sabatino Lopez, in “Il dramma”, dicembre 1958. Per un maggiore approfondimento delle vicende della regia in Italia cfr. G. Livio, La scena italiana. Materiali per
una storia dello spettacolo dell’Otto e Novecento, Milano, Mursia, 1989.
3
. Livio, La scena italiana: materiali per una storia dello spettacolo dell’Otto Novecento, cit., p. 219.
4
Cfr. E.G. Craig, L’Arte del teatro. In E.G. Craig, Il mio teatro. L’arte del teatro – Per un nuovo teatro - Scena, a cura di F. Marotti, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 83-103.
2
LA DRAMMATURGIA DI SAMUEL BECKETT
Comunemente si sostiene che il teatro di Beckett faccia parte del filone
tutto novecentesco del Teatro dell’assurdo, del quale Ionesco fu probabilmente
il fondatore. Questo accostamento con Ionesco viene operato principalmente
per la comune usanza di scrivere pièces nelle quali manca un senso logico
immediatamente rintracciabile in virtù di situazioni e personaggi giocati sul
cosiddetto “non sense”. Ad esempio ne La cantatrice calva il signor Martin e la
signora Martin si accorgono di essere sposati solo quando tutte le coincidenze,
dal luogo dove si sono incontrati per la prima volta all’appartamento dove abitano, passando per la medesima figlia con gli occhi di due colori differenti, non
li portano alla conclusione di essere marito e moglie e ad abbracciarsi “senza
espressione”6. Ma Ionesco mina immediatamente questa vaga certezza con una
battuta di Mary: “La bambina di cui parla Donald non è la figlia di Elisabetta, non
si tratta della stessa persona. La figlia di Donald ha un occhio bianco e uno
rosso, precisamente come la figlia di Elisabetta. Tuttavia, mentre la figlia di
Donald ha l’occhio bianco a destra e l’occhio rosso a sinistra, la figlia di
Elisabetta ha l’occhio rosso a destra e l’occhio bianco a sinistra. […] Ha un bel
credere lui, di essere Donald; ha un bel credere lei, di essere Elisabetta. […] Il mio
vero nome è Sherlok Holmes”7. Ne La lezione l’Allieva non è in grado di risolvere calcoli elementari, mentre conosce a memoria tutte le possibili radici quadrate. Ma questo tipo di “assurdo” non si trova in nessun modo in Beckett e la questione è dunque molto più complessa di quello che potrebbe sembrare. Per
prima cosa Ionesco e Beckett sono agli antipodi, non solo nella poetica e nei
temi, ma anche nel lavoro di costruzione e stesura del testo. Beckett impiegava
mesi di lavoro, scrivendo e riscrivendo il testo, limando ogni frase non strettamente necessaria e, specialmente nella seconda parte della carriera, dando un
grandissimo valore al suono delle parole, che arrivava a volte ad essere più
importante del significato. Il testo teatrale diviene, in un processo che parte da
Aspettando Godot e prosegue sino all’ultima opera, Cosa dove, “una partitura ritmica sempre più scarna e essenziale, disposta all’esecuzione della scena, centrata sul segno del corpo, della voce, del suono, del ritmo, della luce, del buio”8.
Al contrario La cantatrice calva9, prima e più famosa opera di Ionesco, era
nata dalla caricatura di un corso di lingua inglese a cui l’autore stava partecipando; egli, con innegabile acume, aveva preso e collegato i dialoghi privi di significato (come il classico The apple is on the tabble) del suo libro di inglese, dando
Ad esempio Così è (se vi pare) è tratto dalla novella La signora Frola e il signor Ponza, suo genero.
E. Ionesco, La cantatrice calva, Torino, Einaudi, 1961, p. 16.
7
Idem, pp. 16-17.
8
A. Cascetta, Il tragico e l’umorismo. Studio sulla drammaturgia di Samuel Beckett, Firenze, Le
Lettere, 2000, p. 14.
9
La cantatrice calva andò in scena a Parigi nel 1950, quindi tre anni prima di Aspettando Godot.
5
6
Andrea Scarel L’evoluzione del personaggio in Beckett
corrispondenza tra le due parti dell’opera di Beckett non sta nelle situazioni
o nei personaggi (se così si possono chiamare), ma nei temi di fondo e nelle
suggestioni. Non c’è, per essere chiari, nulla di lontanamente simile alle trasposizioni tra novelle e teatro che Pirandello operava spesso5.
29
Andrea Scarel L’evoluzione del personaggio in Beckett
30
LA DRAMMATURGIA DI SAMUEL BECKETT
poi al tutto un titolo che non aveva nulla a che fare con personaggi e trama.
Utilizzando così il classico stereotipo del salotto borghese, e facendo dire “banali insulsaggini”10 a personaggi incapaci di una pur minima autocritica, Ionesco
inventò il Teatro dell’assurdo nel senso più letterale del termine. I personaggi di
queste commedie sono scevri da ogni spessore psicologico e il mondo è privo
di qualunque razionalità; è oltre la razionalità. In questo mondo risulta perfettamente normale che le persone comincino a trasformarsi in rinoceronti o che,
in Che inenarrabile casino!, il mobilio entri da solo nella stanza. Vale a dire esattamente il contrario rispetto al mondo meticoloso e razionale di Beckett, nel
quale vige “un’autoconsapevolezza così acuta che i personaggi creati spezzano
continuamente l’illusione dell’arte”11.
Sempre nel parallelismo tra i due autori, si è voluto vedere un assurdo
più allegro e divertente in Ionesco, uno più cupo in Beckett. In realtà in
Beckett l’assurdo è solo una delle componenti messe in gioco e nel corso
degli anni perderà progressivamente importanza e lascerà spazio al ritmo e
al suono più puri.
Come si diceva prima la scrittura drammaturgica di Beckett ebbe
un’evoluzione significativa. I primi personaggi di Aspettando Godot, Finale di
partita e Giorni felici risentono sicuramente dei testi teatrali già esistenti e
della maggiore concretezza che il teatro sembra imporre rispetto al romanzo. Nei romanzi della Trilogia12 Beckett aveva già portato avanti quel processo di dissoluzione dell’io e del personaggio ottocentesco-naturalista che sarà
poi cifra della produzione teatrale successiva. Bisogna subito precisare però
che quella di Beckett non fu un’evoluzione lineare, basti pensare al fatto che
nel penultimo dramma, Catastrofe, compaiono dei personaggi reali in una
situazione concreta. Un Regista manipola a suo piacimento un Protagonista
“ritto su un cubo nero alto 50 cm. Cappello nero a tesa larga. vestaglia nera
lunga sino alle caviglie. A piedi nudi. Testa china. Mani in tasca”13. Si potrebbe ipotizzare che la maggiore concretezza di Catastrofe sia dovuta all’occasione della stesura. Nel 1982 l’Aida, l’Associazione internazionale per la difesa degli artisti vittime di persecuzioni politiche, organizzò una serata di solidarietà al Festival di Avignone per Vaclav Havel, drammaturgo praghese
incarcerato in Cecoslovacchia perché dissidente. Catastrofe fu il contributo
di Beckett alla serata. In realtà però tale spiegazione risulta piuttosto labile,
in quanto Improvviso dell’Ohio (testo certamente non concreto) fu scritto in
occasione di un convegno internazionale su Beckett alla Ohio State University
nel 1981.
10
A. Alvarez, L’assurdo nell’assurdo, Glasgow, Fontana/Collins, 1981. Ora in S. Beckett, Teatro
completo, a cura di P. Bertinetti, Torino, Einaudi-Gallimard, 1994, p. 708.
11
Ibidem.
12
La Trilogia, composta in francese tra il 1946 ed il 1950, comprende Molloy, Malone muore e
l’Innominabile.
13
S. Beckett, Catastrofe. In S. Beckett, Teatro completo, cit., p. 517.
LA DRAMMATURGIA DI SAMUEL BECKETT
May
Voce
May
Quanti anni ho adesso?
Una quarantina.
Così pochi?15
O le prime parole di Un pezzo di monologo: “Nascere fu la sua morte”16.
Massimo Marino Memola suddivide in tre momenti il dematerializzarsi del
corpo in Beckett. “Prima fase: è quella dei romanzi in cui il corpo assume sempre più un aspetto magmatico, inconsistente, fino ad arrivare alla voce monologante de l’Innominabile, in cui l’io è ancora “forte” ma non ha né forma né corpo
definiti. Seconda fase: è quella delle prime pièces teatrali in cui le difficoltà tecniche di rappresentare su un palcoscenico corpi sfatti o evanescenti, come fantasmi di un sogno – propri della Trilogia – ci danno un Aspettando Godot, in cui
il corpo dei protagonisti non subisce radicali alterazioni. Ma è nella terza fase
che Beckett visualizza con trovate sceniche anche il disfacimento del corpo e la
sua riduzione ad un magma informe che lancia segnali disperati – come e ancor
più che nei romanzi. […] Va però sottolineato, a scanso di equivoci, che questa
dematerializzazione non è dettata dal voler privilegiare la forma sul contenuto,
il pensiero sul corpo, anzi dal voler sottolineare la scissione che nell’uomo
moderno si è formata tra “res cogitans” e “res extensa” non come risultato astorico di uno scacco ontologico, ma come risultato di una società in cui l’uomo è
fatto estraneo a se stesso”17.
J.J. Mayoux, Parodia d’azione, parodia di teatro, “Études Anglaises”, anno X numero 4, ottobredicembre 1957. In S. Colomba, Le ceneri della commedia. Il teatro di Samuel Beckett, Milano,
Bulzoni, 1997, p. 61
15
S. Beckett, Passi. In S. Beckett, Teatro completo, cit., p. 455.
16
S. Beckett, Un pezzo di monologo. In S. Beckett, Teatro completo, cit., p. 483.
17
M.M. Memola, Crisi e frantumazione del soggetto nell’opera di Samuel Beckett, in “Quaderni di
teatro”, anno V, numero 17, 1982, p. 154.
14
Andrea Scarel L’evoluzione del personaggio in Beckett
Punto focale nei personaggi di Beckett è il corpo; un corpo in progressivo
ed inarrestabile decadimento. Nel secondo atto di Aspettando Godot Pozzo è
diventato cieco e quindi dipendente dal servo Lucky; in Finale di partita Hamm
è cieco su una sedia a rotelle, mentre Clov ci vede benissimo ma non può sedersi, mentre Nagg e Nell vivono senza gambe in due bidoni della spazzatura; in
Giorni felici Winnie è interrata sino al busto (nel secondo atto sino alla testa)
mentre Willie ha una non ben precisata ferita al capo; in Commedia D1, D2 e U
sono imprigionati in giare alte circa un metro dalle quali esce solo la testa; in
Non Io ci è concesso di vedere solo Bocca, mentre il resto del corpo è coperto,
come se non esistesse; e così di seguito. Il corpo di questi personaggi rappresenta “una radiografia crudele ed umiliante”14 dell’uomo.
Ciascun personaggio è verso la fine della propria vita, quando non già
morto (come i protagonisti di Commedia); inoltre mai nelle opere di Beckett
compaiono in scena dei bambini. Uno, solo nominato, viene avvistato da Clov
il quale, fomentato da Hamm, sente subito il bisogno di eliminarlo, dato che
da lì l’umanità potrebbe ricostituirsi. Interessantissime sono a questo proposito tre brevissime battute di Passi:
31
Andrea Scarel L’evoluzione del personaggio in Beckett
32
LA DRAMMATURGIA DI SAMUEL BECKETT
Ancora Memola: “Beckett cerca di ridurre la presenza del corpo alle sue
funzioni pensanti, al punto che la coscienza ne sembri prigioniera, ma in
realtà essa è solo prigioniera di se stessa”18.
Oltre ad un corpo sano, a questi personaggi viene anche negata una
memoria integra e funzionante. Vladimiro ed Estragone non ricordano da
quanto tempo siano ad aspettare Godot o che cosa abbiano fatto il giorno
prima.
Estragone
Vladimiro
Estragone
Vladimiro
[…]
Estragone
Vladimiro
[…]
Estragone
[…]
Vladimiro
Estragone
Siamo già venuti ieri.
Ah no! Qui ti sbagli.
Cosa abbiamo fatto ieri?
Cosa abbiamo fatto ieri?
Io dico che eravamo qui.
(Occhiata circolare) Forse il posto ti sembra familiare?
Ma quale sabato? E poi, è sabato oggi?
Non sarà piuttosto domenica? (Pausa) O lunedì? (Pausa)
O venerdì?
Ma tu dici che noi siamo venuti, ieri sera.
Potrei sbagliarmi. (Pausa) Stiamo un po’ zitti. Va bene?19
La memoria non sembra appartenere a questi personaggi. In
Aspettando Godot Vladimiro tenta, senza riuscirci, il recupero di quella che
Alessandro Serpieri definisce una “fabula cristiana collettiva”20, vale a dire la
vicenda del ladrone salvato da Cristo sulla croce, episodio raccontato da solo
uno dei quattro evangelisti. In Lucky il processo è diverso; la sua è una
memoria filosofica stravolta dal ragionamento tipicamente occidentale logico-deduttivo che impedisce l’approdo a qualunque punto fermo. Krapp,
ormai vecchio, riascolta con un registratore se stesso più giovane narrare di
quando era ancora più giovane. “La consapevolezza viene rimossa da Krapp
che non vuole sapere, anche se sa perché salta proprio dove si nasconde quel
sapere e ferma il nastro, lo manda avanti per saltare l’indicibile”21. Il registratore permette a Krapp di scegliere cosa ascoltare e dove fermare le bobine,
un potere decisionale che non sembra ripetersi più nelle opere successive.
Infatti forse solo in Improvviso dell’Ohio l’Ascoltatore ha un certo controllo
sul Lettore, mentre in Commedia è una luce inquisitrice che estorce i ricordi
di un classico triangolo amoroso; in Di’ Joe (opera per la televisione) è una
voce di donna che ricorda gli avvenimenti. Significativa della costrizione a cui
Joe è sottoposto è la didascalia in merito al viso: “Impassibile salvo nella
18
19
20
21
Idem, p. 157.
S. Beckett, Aspettando Godot. In S. Beckett, Teatro completo, cit., p. 9.
A. Serpieri, Condannati a parlare, in “Sipario”, anno LI numero 575, aprile 1997, p. 36.
Idem, p. 38.
LA DRAMMATURGIA DI SAMUEL BECKETT
S. Beckett, Di’ Joe. In S. Beckett, Teatro completo, cit., p. 418.
S. Beckett, Dondolo. In S. Beckett, Teatro completo, cit., p. 493.
24
Idem, p.498.
25
A. Serpieri, Condannati a parlare, cit., p. 40.
26
Idem, p. 40.
27
Cfr. J.J. Mayoux, Parodia d’azione, parodia di teatro. In S. Colomba, Le ceneri della commedia. Il
teatro di Samuel Beckett, cit. pp. 57-81.
28
S. Beckett Aspettando Godot. In S. Beckett Teatro completo, cit., p. 42.
22
23
Andrea Scarel L’evoluzione del personaggio in Beckett
misura in cui riflette la crescente tensione dell’ascolto. Brevi distensioni tra i
paragrafi, in cui, la voce avendo forse desistito fino all’indomani, la tensione
può allentarsi in diversi modi finché non sia ristabilita dalla voce che riprende”22. Ad aumentare la tensione poi contribuisce il lento movimento della
telecamera in avanti. In Non Io Bocca afferma di aver passato anni in un ostinato mutismo, sino ad esplodere improvvisamente in un incontrollabile
fiume di parole che non riesce in nessun modo ad arrestare. Bocca parla di
se stessa alla terza persona singolare: è probabilmente l’ultimo stadio della
frantumazione dell’io e della fuga dall’autopercezione. In Quella volta è la
voce stessa dell’Ascoltatore che racconta tre avvenimenti passati, giungendo
da tre punti diversi del palco e con tre intonazioni dovute alle differenti età.
Infine in Dondolo la storia narrata dalla Voce non è quella della Donna, ma
quella della madre che si è lasciata morire andando “avanti e indietro”23 sullo
stesso dondolo dove ora è seduta la figlia “senza espressione”24. Tutti questi
personaggi non vogliono ricordare, ma vi sono costretti. In qualche modo
rifiutano il passato, desiderando solo dimenticare e morire. Ma qualcosa glielo impedisce. In Film Og (Oggetto) si sente braccato e tenta disperatamente
la fuga. Riesce a scappare ai passanti, al pappagallo, al pesce che copre col
soprabito, alle sue stesse foto (in età diverse) che strappa, allo specchio, e
così via. Ma non può fuggire da se stesso, dalla percezione di se stesso. “Esse
est percipi”, scrisse Berkeley. Per Berkeley ogni cosa, uomo compreso, è solo
in quanto viene percepito da un altro essere e “il mondo stesso è solo nella
percezione trascendente di Dio”25. Per Beckett l’uomo “non può evadere
l’autopercezione cui […] è condannato”26. Film è la traduzione cinematografica dell’inevitabilità dell’autopercezione.
Renato Oliva collega la mancanza di memoria alla mancanza di identità. Non è possibile infatti un io senza memoria e se quest’ultima manca,
anche il primo non può esistere. Altro componente che manca a questi personaggi è l’orgoglio che, come nota giustamente Jan-Jaques Mayoux27, è uno
dei segni distintivi dell’io. Io che viene da Beckett appunto progressivamente
dissolto a partire da Aspettando Godot sino ad arrivare ad un testo dal titolo
esemplificativo Non Io.
Nella prima delle due pièces citate l’io comincia a perdere consistenza,
diventando sempre più indefinito e non identificabile con assoluta certezza. Alla
fine del primo atto il Ragazzo venuto ad annunciare che Godot non arriverà quella sera, chiama Alberto Vladimiro, il quale puntualmente risponde: “Sono io”28. Ma
Vladimiro non si era mai fatto chiamare Alberto, né lo farà in seguito. I personaggi iniziano a perdere la concezione del nome, cioè dell’identificazione personale.
33
Andrea Scarel L’evoluzione del personaggio in Beckett
34
LA DRAMMATURGIA DI SAMUEL BECKETT
Vladimiro
Estragone
Pazzo
Esragone
Vladimiro
Estragone
Ti dico che si chiama Pozzo.
È quel che vedremo. Proviamo un po’. (Concentrandosi) Abele!
Aiuto!
Hai visto?
Comincio ad averne abbastanza di questa musica.
E magari l’altro si chiama Caino. (Chiamando) Caino! Caino!29
Qui inoltre la perdita del nome proprio come elemento di unicità si unisce al sostrato biblico, assai presente in Aspettando Godot e Finale di partita.
In Non Io Bocca ha perduto a tal punto il contatto col proprio essere,
col proprio corpo, che non è in grado di parlare di se stessa se non alla terza
persona; in Film Og sogna di sfuggire alla propria stessa percezione. In Com’è
Bon usa a volte «noi» invece di «io»”30.
Secondo Oliva l’io del mondo di Beckett è un io psicotico, che non si
percepisce in comunicazione col proprio corpo, il quale viene ridotto ad un
corpo-cosa; ultimo stadio della disgregazione è arrivare ad identificarsi con
un “io incorporeo”31. La decostruzione dell’io era iniziata nei romanzi, prima
ancora che in teatro, come nel breve brano di Molloy citato sempre da Oliva
nel suo saggio: “E quando mi guardo le mani sul lenzuolo […] non mi appartengono, meno che mai mi appartengono, non ho braccia, esse sono una coppia, giocano col lenzuolo, forse è un gioco amoroso, forse stanno per montare l’una sull’altra”32.
Nella trattazione della disgregazione dell’io Massimo Memola33 riporta alcune nozioni psicoanalitiche che è bene citare anche in questa sede. Secondo Lacan34,
citato appunto da Memola, nel bambino la scoperta dell’egli è anteriore rispetto a
quella dell’io. Il primo è infatti colto immediatamente, senza la necessità di mediazione da parte del linguaggio e il soggetto “si immedesima nell’oggetto”35. L’io
infatti non è propriamente il soggetto, ma un suo sostituto che nasce grazie al linguaggio ed il linguaggio stesso è una castrazione della realtà, data la sua funzione simbolica di rinvio. “La parola coprendo l’oggetto vero del desiderio sotto
oggetti-surrogato, determina il costituirsi dell’inconscio; l’oggetto desiderato viene
spostato, diviene significato ed un altro oggetto prende il suo posto, il significante, che diverrà a sua volta significato in quanto spostato da un altro significante”36.
Questo processo determina una “catena di significanti”37, nella quale l’oggetto primario del desiderio risulta sempre meno accessibile alla parte conscia della mente.
L’io si viene in tal modo a costituire sul vero soggetto represso nell’inconscio dal
Idem, p. 72-73. L’altro cui si riferisce Estragone è Lucky.
R. Oliva, Appunti per una lettura dell’ultimo Beckett. In S. Beckett, L’immagine, Senza, Lo spopolatore, Torino, Einaudi, 1989, p. 109.
31
Ibidem.
32
Idem, p. 110.
33
M.M. Memola, Crisi e frantumazione del soggetto nell’opera di Samuel Beckett, cit., pp. 158-163.
34
Cfr. J. Lacan, Scritti, Torino, Einaudi, 1974.
35
M.M. Memola, Crisi e frantumazione del soggetto nell’opera di Samuel Beckett, cit., p. 159.
36
Idem, p. 159.
37
Ibidem.
29
30
LA DRAMMATURGIA DI SAMUEL BECKETT
Altro elemento che gioca un ruolo fondamentale è la percezione del
tempo, che sembra essere un indistinto percorso verso la morte nel quale le
distinzioni tra un giorno e l’altro non hanno più senso. E ciò, ovviamente,
influisce non poco sulla memoria già assai labile dei personaggi. Nel secondo atto di Aspettando Godot Pozzo è cieco e Lucky muto mentre nel primo
(ambientato apparentemente il giorno prima) l’uno ci vedeva benissimo e
l’altro addirittura cantava.
Vladimiro
Pozzo
38
39
40
41
42
43
Ci siamo visti ieri. (Silenzio) Non se ne ricorda?
Non ricordo di aver incontrato nessuno, ieri.
Ma domani non ricorderò di aver incontrato nessuno oggi.
[…]
Ibidem.
Ibidem.
Idem, p. 162.
Cfr. R.D. Laing, L’io diviso, Torino, Einaudi, 1969, p. 35.
M.M. Memola, Crisi e frantumazione del soggetto nell’opera di Samuel Beckett, cit. p. 162.
G. Restivo, Le soglie del postmoderno: “Finale di partita”, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 25.
Andrea Scarel L’evoluzione del personaggio in Beckett
quale si esprime attraverso un linguaggio fatto di “metafore e metonimie”38.
Questa analisi, rigorosa sul piano psichico, ha, secondo Memola, il proprio limite
sul piano linguistico, in quanto ignora il linguaggio come prodotto di una società:
“Il linguaggio non è il risultato delle solitarie castrazioni di un soggetto robinsoniano”39.
La lingua non è infatti un prodotto specificatamente individuale, ma sociale. L’io, dunque, è il risultato di specifiche esperienze personali e sociali che si sono
andate sedimentando col tempo: non un’entità astratta e immutabile, ma un
determinato processo evolutivo umano. Ora, se l’io è un prodotto sociale, lo è
anche la schizofrenia di questi personaggi, che va interrogata ed analizzata in tale
prospettiva. È qui, secondo Memola, l’aspetto rivoluzionario di Beckett: “Il suo teatro è un luogo di una testimonianza passiva che, in quanto attiva denuncia di uno
stato di disgregazione, si fa eversiva”40. Occorre dunque correlare al mondo esterno fratture interne al soggetto-personaggio come ad esempio vaneggiamenti psicotici indecifrabili se non collocate nel loro contesto esistenziale41. Beckett dunque
presenta il prodotto della società al pubblico che, a sua volta, dovrebbe “assumersi il compito di ricercare nella prassi che cosa e perché”42 non funzioni.
Bisogna ricordare che certamente Beckett possedeva nozioni di psicoanalisi. Difatti, oltre ad essere stato per circa un anno e mezzo in cura da W.R. Bion (a
causa di crisi depressive e disturbi psicosomatici), egli aveva anche frequentato
l’ambiente surrealista parigino e collaborato con la rivista Transition sulla quale
venne pubblicata la traduzione inglese del saggio di Jung Psicologia e poesia. In
esso si afferma che il poeta esprime “l’uomo collettivo inteso come inconscio collettivo”43. Nel 1935 Beckett visitò addirittura il Betlehem Royal Hospital di
Bekenam, dove osservò pazienti psicotici dai quali apprese gesti e comportamenti che utilizzò in Murphy.
35
Andrea Scarel L’evoluzione del personaggio in Beckett
36
LA DRAMMATURGIA DI SAMUEL BECKETT
Vladimiro
Pozzo
Muto! E da quando?
Ma la volete finire con le vostre storie del tempo? È grottesco!
Quando! Quando! Un giorno, non vi basta, un giorno come
tutti gli altri, è diventato muto, un giorno io sono diventato cieco, un giorno diventeremo sordi, un giorno siamo
nati, un giorno moriremo, lo stesso giorno, lo stesso istante, non vi basta? 44
I personaggi avvertono il passaggio del tempo solo nella misura in cui
invecchiano ed a menomazioni si aggiungono menomazioni. Quello che
manca loro in realtà è il senso della “continuità”45 del tempo, dato che ogni
giorno è identico al precedente. Del resto nemmeno il tempo atmosferico è
definibile con certezza.
Pozzo
Estragone
Vladimiro
Estragone
Pozzo
Estragone
Vladimiro
Estragone
Che ora è?
(scrutando il cielo) Vediamo...
Le sette? Le otto?...
Dipende dalla stagione.
È sera?
Silenzio. Vladimiro ed Estragone guardano il sole che tramonta.
Si direbbe che stia risalendo.
Impossibile.
E se fosse l’aurora?46
Se in questo brano è comunque presente un tentativo da parte di
Vladimiro ed Estragone di decifrare i segni della natura, già in Finale di partita
Clov, ad una domanda analoga di Hamm, è molto più laconico al riguardo.
Hamm
Clov
Che tampo fa?
Lo stesso di sempre.47
Raramente si parla di un giorno preciso e comunque esso non viene
mai collocato in maniera univoca nella vita del personaggio. È il caso di
Quella volta, testo nel quale vengono ricordati tre episodi precisi della vita
dell’Ascoltatore, ma senza precisazioni su età o date.
La concezione del tempo occidentale è di tipo lineare, sancita come un
“a priori categoriale”48 da Kant. In realtà culture primitive avevano una concezione circolare del tempo, il passato si confonde col presente, il quale a sua
volta è legato al futuro, in una sorta di “eterno ritorno”49. Anche la Grecia preS. Beckett, Aspettando Godot. In S. Beckett, Teatro completo, cit., pp. 77-78.
M. Worton, Il teatro come testo. In S. Colomba, Le ceneri della commedia. Il teatro di Samuel
Beckett, cit., p. 177.
46
Idem, pp. 74-75.
47
S. Beckett, Finale di partita. In S. Beckett, Teatro completo, cit., p. 101.
48
M.M. Memola, Crisi e frantumazione del soggetto nell’opera di Samuel Beckett, cit., p. 172.
49
Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Milano, Mondadori, 2001
44
45
LA DRAMMATURGIA DI SAMUEL BECKETT
Si diceva prima di come la drammaturgia di Beckett proceda lungo una
lenta evoluzione, della quale Alessandro Serpieri traccia le linee fondamentali.
“Beckett parte dalla focalizzazione di coppia, un legame ossessivo, metacomunicativo, filo e catena con l’altro, dei primi due drammi relativamente lunghi;
passa poi a una sorta di focalizzazione interna, volta in dimensione temporale,
con sdoppiamento del soggetto a partire dall’Ultimo nastro di Krapp e Ceneri;
ritrova quindi la coppia, ma con una relazione più che altro prospettica, di supporto alla enunciazione del protagonista (della protagonista Winne rispetto a
Willie in Giorni felici, di Bocca rispetto all’Auditore in Non io); passa poi a sperimentare lo sdoppiamento del soggetto in voce e musica (Parole e musica, Radio
I, Cascando, etc.) con focalizzazione multimediale; si immerge nei principi di
focalizzazione forniti da vari mezzi (il riflettore teatrale in Commedia, la macchina da presa in Film, la telecamera in Di’ Joe) per mettere in evidenza la tortura della focalizzazione come metafora della lancinante autopercezione di un
soggetto altrimenti infranto a qualsiasi livello semantico e narrativo; esplora i
territori della focalizzazione marionettistica (Atto senza parole) e puramente
geometrica dell’incrocio delle prospettive (da Va e vieni a Quad); ritorna infine
alle voci focalizzate su un soggetto alla deriva (Quella volta), secondo un teatro
sempre più mentale, abitato da fantasmi (Passi, …Nuvole…, Un pezzo di monologo, Dondolo, Nacht Und Traume), per finire allo sdoppiamento della rappresentazione (Improvviso dell’Ohio)”52.
Importante infine per la comprensione delle opere di Beckett è il concetto di “riso dianoetico”53. In Watt Arsène definisce le varie tipologie delle
risate, utilizzando a questo proposito la categoria aristotelica della dianoia
50
51
52
53
Cfr. M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno (Archetipi e ripetizione), Torino, Borla, 1968.
Cfr. M.M. Memola, Crisi e frantumazione del soggetto nell’opera di Samuel Beckett, cit., p. 175.
A. Serpieri, Condannati a parlare, cit., p. 41.
Cfr. M. Esslin, Il riso dianoetico di Dioniso. In S. Beckett, Teatro completo, cit., pp. 736-743.
Andrea Scarel L’evoluzione del personaggio in Beckett
socratica aveva una concezione circolare del tempo, come le più antiche
società indiane50. Il tempo, e con esso lo spazio, è dunque una categoria
determinata storicamente e non presente in maniera aprioristica nell’intelletto umano. Il teatro borghese ottocentesco si limitava ad immettere i propri
personaggi in uno spazio ed in un tempo considerati oggettivi e separati.
Nelle opere di Beckett invece il presente è costantemente minacciato da un
passato che tenta, senza successo, di assorbirlo. Nel teatro borghese gli stacchi nel tempo della narrazione erano una garanzia sulla diversità tra la rappresentazione e la realtà interiore dello spettatore; in Beckett invece il tempo
della narrazione viene a coincidere col tempo dello spettatore. Il tempo rappresentato tende a sovrapporsi perfettamente col tempo reale. Lo spazio, da
parte sua, è circolare, senza limiti apparenti, spoglio sino all’astrazione51. In
questo mondo si cammina per non andare in nessun posto e il tempo si è fermato. È questo dunque un tempo soggettivo, nel quale passato, presente e
futuro si mescolano in un magma indifferenziato ed immutabile.
37
Andrea Scarel L’evoluzione del personaggio in Beckett
38
LA DRAMMATURGIA DI SAMUEL BECKETT
(dal greco δια′νοια, il riflettere, la facoltà intellettiva54). “Ma il riso cupo è il riso
dianoetico, giù per il grugno... Ah!... così. È il riso dei risi, il risus purus, il riso
che ride del riso, colui che contempla che saluta lo scherzo più nobile, in una
parola il riso che ride – silenzio prego – di ciò che è infelice”55. Esiste però una
differenza fondamentale dal mondo della tragedia greca e quello nel quale
vivono i personaggi di Beckett. La tragedia antica descriveva un mondo composto da miti, dei ed eroi esemplari, ai quali guardare timorosi e colmi
d’emozione. Il mondo di Beckett è al contrario abitato da personaggi sul limite estremo della vita (quando non già morti), storpi e calati in situazioni
estreme (basti pensare a Winnie di Giorni felici). Il riso suscitato da questi
personaggi è dianoetico, in quanto ride dell’infelicità dell’uomo e della completa gratuità dell’esistenza. Dio, ammesso che esista, è assente, descritto da
Lucky come “fuori del tempo e dello spazio il quale dall’alto della sua divina
apatia sua divina atambia sua divina afasia...”56. Ma non sono i personaggi a
ridere ed è proprio tale mancanza di dianoia a renderli ridicoli: essi “sono per
lo più inconsapevoli del loro destino”57. Al contrario gli eroi classici erano
perfettamente consci della loro situazione, del trovarsi davanti innanzi allo
scontro del Fato con le leggi morali, ed accettavano consapevolmente ogni
conseguenza senza autocommiserazione. In questo senso il destino di
Antigone risulta esemplare. In Aspettando Godot il ragazzo che promette
l’arrivo di Godot il giorno seguente impedisce a Vladimiro ed Estragone di
comprendere la vanità dell’attesa; in Giorni felici Winnie fa di tutto (anche
pregare) per ignorare la sua situazione; Krapp infine ascolta i continui fallimenti della sua vita. Né Bocca di Non io né Emy di Passi risultano in grado di
delimitare le loro identità, mentre i personaggi di Commedia non comprendono il loro disagio, seppure siano rinchiusi in botti e costretti da una luce
inquisitrice a raccontare, forse per sempre, la storia in fondo squallida del
loro triangolo amoroso. È proprio la mancanza di consapevolezza di questi
personaggi a renderli ridicoli agli occhi del pubblico, che attraverso di loro
ride della condizione umana. Martin Esslin58 coglie delle affinità tra il riso dianoetico di Beckett e la catarsi aristotelica, la quale esercita nell’anima dello
spettatore una purificazione dalle violente passioni rappresentate sulla
scena ed è determinata dai sentimenti di terrore e pietà scatenati dagli accadimenti rappresentati. Secondo Esslin infatti esiste una corrispondenza tra il
mondo creato dalla tragedia classica e quello creato da Beckett; entrambi
infatti sono dominati da una forza assurda e crudele (per Greci Moira, alla
quale anche gli dèi devono sottostare) che controlla tutte le vicende umane.
Molti poeti greci del resto espressero un pensiero molto vicino all’idea della
nascita come peggiore sventura per l’uomo. Entrambe le esperienze catarti54
La traduzione è tratta da L. Rocci, Vocabolario greco-italiano, Società editrice Dante Alighieri,
trentottesima edizione 1995.
55
S. Beckett, Watt, Sugarco edizioni, 1978, p. 48. Citato in M. Esslin, Il riso dianoetico di Dioniso. In
S. Beckett, Teatro completo, cit., p. 737.
56
S. Beckett, Aspettando Godot. In S. Beckett, Teatro completo, cit., p. 36.
57
M. Esslin, Il riso dianoetico di Dioniso. In S. Beckett, Teatro completo, cit., pag. 739.
58
Cfr. idem pp. 736-743.
LA DRAMMATURGIA DI SAMUEL BECKETT
S. Beckett, Disiecta, Egea, 1991, p. 197. Citato in M. Esslin, Il riso dianoetico di Dioniso. In S.
Beckett, Teatro completo, cit., p. 741.
Aristotele, Poetica, libro II, tomo 96, 49b. Citato in D. Del Corno, Letteratura greca, Milano,
Principato, 1995, p. 175.
61
M. Gussow, Conversazioni con (e su) Beckett, Milano, Ubulibri, 1998, p. 106.
59
60
Andrea Scarel L’evoluzione del personaggio in Beckett
che hanno dunque molti aspetti in comune e, se quella greca rimanda all’eroismo dei protagonisti, quella di Beckett rimanda all’eroismo dell’autore stesso, capace di affrontare lucidamente ed apertamente il vuoto dell’esistenza e
l’assenza di qualunque desiderio o di pensiero da esprimere assieme però
all’“obbligo di esprimere”59. Vi è però una differenza fondamentale tra la
catarsi aristotelica ed il riso dianoetico di Beckett. Nella sua definizione della
tragedia Aristotele scrisse che la tragedia “mediante pietà e terrore, produce
la purificazione di siffatte passioni”60. Nel riso dianoetico di Beckett invece
non s’instaura un processo di purificazione, ma conoscitivo, attraverso il
quale pubblico e autore accrescono la loro consapevolezza sull’esistenza
umana, senza per questo esserne purificati. Edward Beckett, alla domanda se
creare rendesse felice suo zio rispose: “Da quanto posso dedurne io, no!”61.
39
Vico Faggi Incontri con Beckett
40
INCONTRI CON BECKETT
INCONTRI CON BECKETT
di Vico Faggi
Nella stagione 1963-1964 il Teatro Stabile di Genova mise in scena Aspettando Godot di Samuel Beckett, affidandone la realizzazione ad un gruppo di
giovani e validissimi teatranti, artisti che si faranno un nome nell’avanguardia
del decennio successivo. Il regista (e scenografo e costumista) era Carlo Quartucci, gli interpreti erano Rino Sudano (Estragone), Leo de Berardinis (Vladimiro), Maria Grazia Grassini (Lucky), Mario Rodriguez (Ragazzo).
La prima ebbe luogo il 31 marzo 1963. E ancor prima venne risolto il
problema del saggio critico da inserire nel dépliant dello spettacolo. Poiché,
a quanto pare, ero il solo conoscitore di Beckett sulla piazza, toccò a me
l’onore di scrivere il testo. E qui di seguito lo riporto. È un documento non
insignificante, credo, sullo stato della cultura teatrale di quegli anni.
Di Beckett e di Godot
Rien ne se passe, personne ne vient,
personne s’en va, c’est terrible.
Perché Beckett, perché «Godot»? La domanda è retorica. Bisognerebbe chiedersi, semmai, perché la commedia (testo chiave della «drammaturgia dell’assurdo», sia come dichiarazione, implicita, di poetica, sia come realizzazione, inequivoca, di poesia) non sia giunta prima al pubblico genovese. Nel frattempo la pièce
ha fatto il giro del mondo e, strada facendo, ha raccolto una messe di definizioni:
«I pensieri di Pascal messi in scena dai Fratellini» (Anouilh), «Farce metaphysique»
(Rosette Lamont), «L’humour et le neant» (Maurice Nadeau), «Una lucida testimonianza sul nulla» (Alfonso Sastre). «En attendant Godot» è, secondo una prima approssimazione, il dramma dell’attesa. Due vagabondi aspettano Godot, che non
appare, e la loro attesa, intrisa di noia e disperazione, è eterna. Ricordiamo che in
un racconto di Kafka, anteriore al 1919, si narra di un campagnolo che attende,
per giorni e settimane e anni, pazientemente attende di «entrare nella legge»; sinché, nel momento della morte, il guardiano gli comunica che l’ingresso destinato
a lui viene chiuso per sempre. Il racconto è indubbiamente (per non parlare del
«Castello») una delle fonti della commedia di Beckett. L’attesa di Vladimiro ed
Estragone è dunque attesa della morte? Godot è la morte?
Nessuno può rispondere con certezza. «Avessi saputo chi è Godot - ha
detto Beckett - l’avrei detto nella commedia». Possiamo fare delle ipotesi, nell’ordine del verisimile. Vladimiro ed Estragone attendono non soltanto la li-
INCONTRI CON BECKETT
Vico Faggi Incontri con Beckett
berazione dalla vita, ma anche la rivelazione di un significato della vita, e
dunque Godot è qualcosa di più della morte. Godot è la legge, la salvezza, la
speranza cui l’uomo non può rinunciare. È Dio? Forse, ma un Dio lontano e
irraggiungibile, sordo e indifferente.
L’opera di Beckett è aperta a molteplici prospettive. Vladimiro ed Estragone aspettano Godot; ma se Godot fosse già venuto? senza che gli uomini, per loro colpa, se ne accorgessero? Ecco i lineamenti di una interpretazione cristiana,
che è stata proposta da Charles Mc Coy. Ma l’esegesi del testo consente anche
di rovesciare la conclusione: la funzione di Godot - scrive Eva Metman, seguace
di Jung - è quella di mantenere nell’incoscienza gli uomini che dipendono da lui;
e la speranza in Godot è l’ultima illusione che impedisce a Vladimiro ed Estragone di affrontare la condizione umana e se stessi, nella luce della coscienza.
Non è questo, probabilmente, che Beckett voleva dirci, e non è questo che ci ha
detto: ma l’interpretazione della Metman mette il dito sulla piaga, voglio dire
sulla Weltanschaung dello scrittore irlandese.
Al centro della scena sorge un albero. Ancora un simbolo ambiguo. È
l’albero della vita, è la croce, o un patibolo? In un paesaggio vuoto, presso
l’albero, si svolge la vicenda (o non-vicenda) della commedia. Vladimiro ed
Estragone, gli uomini che attendono Godot, che discutono del nulla, che ingannano con le parole l’angoscia e l’assurdità dell’esistenza, non sono che
due clochards, due clowns irresistibili: con la loro bombetta, le scarpe sfondate, la mimica e i capitomboli, i calambours e le ripetizioni, e tutte le risorse del circo e del music-hall. Quest’incontro di farsa e filosofia ha, di per sè,
un significato: l’uomo è caduto tanto in basso, i suoi gesti sono così inetti e
futili, che la reazione più appropriata è il riso.
I due clochard si sono detti tutto, ognuno conosce tutto, sino i pensieri dell’altro; e la noia, il fastidio di vedersi, il desiderio di cambiare inducono
all’idea della separazione. Ma separarsi non possono, perché sono uniti da
una solidarietà profonda, toccante, cioè dal riconoscimento del comune destino. Nec tecum nec sine te, secondo il paradossale rapporto che congiunge,
più indietro, i coniugi strindberghiani di Danza di morte.
Alla solidarietà che unisce Vladimiro ed Estragone si contrappone il
rapporto tra Pozzo e Lucky, che costituisce un altro dei motivi (forse il più
arduo) di ambiguità della commedia. Pozzo è il padrone, Lucky lo schiavo.
Quello lo sfruttatore, questo lo sfruttato. Nel primo atto forte e trionfante,
Pozzo nel secondo è cieco e debole, indifeso, Ma Lucky è sempre con lui, sempre schiavo. Chi è, veramente, Lucky? Par certo che Beckett abbia voluto contrapporre la solidarietà di Vladimiro ed Estragone al legame sado-masochistico che unisce Lucky a Pozzo. L’avvilente rapporto da padrone a schiavo - ha
scritto Leonard C. Pronko - riduce sia Pozzo sia Lucky alla animalità e all’impotenza. Ma perché Vladimiro ed Estragone, che sono più consapevoli e umani, non aiutano Lucky a liberarsi? Perchè aiutano, invece, Pozzo? Forse perché sono, come qualcuno ha proposto, l’immagine della piccola borghesia
che non sa prendere posizione nella lotta di classe? Ma altri hanno voluto indentificare in Lucky l’uomo crocefisso di fronte a testimoni indifferenti. E al-
41
Vico Faggi Incontri con Beckett
42
INCONTRI CON BECKETT
tri hano visto in Pozzo e Lucky il simbolo del corpo e dell’anima e della loro
inscindibile unione. Altri ancora hanno supposto in Lucky e Pozzo la raffigurazione di un cieco attivismo, che li oppone alla passiva attesa di Vladimiro
ed Estragone: due modi, insomma, di concepire e affrontare la vita, diversi
ma ugualmente insensati, posto che la vita per Beckett non ha senso.
Ancora Beckett
Non soddisfatto di quanto avevo scritto nella mia presentazione, ritornai sulla materia, cercando di raggiungere qualche più sicuro risultato. Riporto qui le note che mi capitò di scrivere e che sono rimaste inedite. Contribuiscono anch’esse, credo, a gettar luce sulla temperie culturale di quel tempo,
che mi sembra remoto.
***
Che cosa ha voluto dirci Beckett? Che cosa significa la sua commedia?
Ho cercato di rispondere nel programma, ma nel mio scritto abbondano i
punti di domanda. Più che dare delle spiegazioni ho formulato delle ipotesi,
affacciato dei dubbi.
Ciò non avvenuto a caso, anzi corrisponde al carattere proprio della commedia. Ma cerchiamo ora di fare qualche passo avanti, cominciando dal titolo.
Il verbo “Aspettando” allude al motivo dell’attesa, che è al centro della commedia e sul quale ritorneremo tra poco. Il nome proprio, Godot, è probabilmente
derivato da una parola inglese, God, e da un suffisso francese, ot. Questa etimologia ci offre lumi sul significato della commedia. È un indizio importante. Godot sta
a God (Dio) come Pierrot sta a Pierre, come Charlot a Charles.
Godot è dunque una parola composita e plurivalente. Significa Dio e insieme la sua riduzione ironica. La ambiguità della parola corrisponde alla ambiguità della commedia, la quale è aperta a molteplici interpretazioni.
Ricordo, incidentalmente, che Beckett è stato amico e ammiratore di
Joyce: da lui ha derivato il gusto e il metodo di creazione delle parole, come
nel caso di “Godot”.
Ma, fatto il nome di Joyce, è necessario passare ad altre fonti, più pertinenti, della commedia. Al riguardo è stato ricordato che, in una commedia
di Balzac (Le faiseur, in italiano “Mercadet l’affarista”), figura il personaggio
di Godeau, il quale è atteso, annunciato, invocato, ma non arriva se non all’ultimo quadro. È verisimile che Beckett, nel costruire la sua commedia, abbia avuto nell’orecchio il precedente di Balzac. Ma questo è solo uno spunto,
un suggerimento, per di più estrinseco.
Più importante e calzante è il racconto di Kafka che ho ricordato nel
programma: “Entrare nella legge”. Il testo di Kafka è capitale perché introduce, nella letteratura contemporanea, il motivo dell’attesa - un’attesa illimitata, piena di dubbi, in definitiva inutile e vana. Quello dell’attesa è un motivo
fondamentale della cultura moderna perché è emblematico di una crisi.
L’uomo che attende e non sa cosa attende, ma non può far altro che attendere, è un uomo che non ha certezze, non ha un ubi consistam, si sente circondato da una realtà ambigua e priva di un significato preciso, sicuro, rassicu-
INCONTRI CON BECKETT
Alla stessa radice corrisponde il carattere tipico, che già abbiamo segnalato, della commedia: la sua plurivalenza, la sua ricchezza di prospettive
offerte all’interprete.
Nel programma ho cercato di tratteggiare qualcuna di tali prospettive
di lettura. Altre possono essere suggerite. Ma il punto è che questa apertura,
questa ambiguità dell’opera è di per sé dotata di significato. Essa è segno di
qualcosa, e questo qualcosa è la condizione umana. L’ambiguità dell’opera,
per l’interprete, è l’equivalente dell’ambiguità del mondo per l’uomo.
La molteplicità dei significati possibili, nessuno dei quali sicuro e definitivo, equivale in certo modo alla mancanza di ogni significato.
Siamo ancora di fronte, quindi, alla crisi dell’uomo, alla sua mancanza
di certezze, di un rifugio accogliente e rassicurante.
Ho voluto così sottolineare la coerenza dell’opera, la convergenza, verso un punto centrale, delle sue componenti. Lo stesso elemento comico converge verso questo punto.
Non è una comicità che si aggiunge dall’esterno all’opera, un elemento
estraneo che viene aggiunto a quelli sostanziali, ma è qualcosa di indissolubile dal resto, che fa corpo con il significato globale della commedia. Siamo
sempre al tema della condizione umana: l’uomo è caduto così in basso, è talmente smarrito e impotente, che i suoi gesti si rivelano, pur nella stessa angoscia che li pervade, come inetti, futili, goffi e, in definitiva, risibili.
Nell’esporre alcuni punti di vista sull’opera mi è capitato, in questo
modo, di sottolineare la convergenza dei suoi elementi, cioè la sua coerenza
e compattezza. In ciò è implicito un giudizio di valore, che per me è sostanzialmente positivo.
Vico Faggi Incontri con Beckett
rante.
43
Luigi Fenga Le mostre estive di Acqui Terme
44
RITORNO DI CARLO FORNARA
RITORNO DI CARLO FORNARA
Le mostre estive di Acqui Terme
di Luigi Fenga
Pittore non conosciuto, non nel senso di pittore sconosciuto o che non
è stato preso in considerazione dalla critica, Carlo Fornara ha limitato volontariamente, per ragioni profondamente sue, la diffusione della propria opera, con le conseguenze ben immaginabili per un’arte totalmente e assolutamente affidata all’ostensione visiva. Meglio è però precisare che l’ha tenuta
nascosta, senza però abbandonarla, a partire da un certo momento della sua
vita, ritirandosi non solo dalla competizione, ma anche esiliandosi nel piccolo paese in cui era nato. Esiste quindi, come si dirà in seguito, un legame profondo tra la sua arte e la sua vita, quasi, si licet, una sorta di identità non
identica.
La mostra “Carlo Fornara - Il colore della valle”, offerta dalla città di Acqui
Terme (30 giugno - 2 settembre 2007), luogo benemerito di annuali riproposizioni, reviviscenze, disseppellimenti di artisti del secolo scorso, ripara quindi a una
deficienza che fu dell’autore, ma che è giusto non sia di chi intende esplorare il
‘900, spogliandosi di pregiudizi estetici e/o ideologici.
Un’opera che a mio parere rappresenta Fornara nei due aspetti vita-arte, e
da cui mi sembra giusto partire per parlare sia dell’uomo sia del pittore, è
L’Aquilone, un olio del 1891, dove la perizia formale (colori fortemente consonanti e unità di toni) e il riferimento, non naturalistico ma fantastico, alla realtà, si fondono ad esprimere un sentimento di tragica irreparabilità della vita.
Tre piani si delineano sulla tela: l’inferiore, in cui, spostata sul lato sinistro,
schiacciata sotto un carico di fascine, ma ancora solida, una vecchia donna procede in modo quasi inesorabile sopra una neve un poco ondulata, di color malva; il
medio, costituito da monti ridotti a forme di massi, una protezione più che una
muraglia minacciosa; il superiore, dominio di un grande cielo a striature grigio-azzurre e oro, incombenza rasserenante rispetto agli altri due; ma un’altra presenza, perpendicolare ai tre piani e che su di essi si profila a dividerli, sono cinque
tronchi di albero, con rami convoluti trascinati dal vento, che soffia nella direzione opposta alla marcia della vecchia.
Questa opera può apparire allegorica della vita di Fornara, che ha un procedere stento di movimenti, ora illuminati e ora sognanti, è oppressa da avvenimenti tristi, e si pone con l’arte e per mezzo dell’arte contro corrente verso il secolo
ventesimo (il vento della modernità).
RITORNO DI CARLO FORNARA
Luigi Fenga Le mostre estive di Acqui Terme
La storia di Fornara fa piena luce: figlio di un ramaio e di una contadina, nasce nel 1871 a Prestinone, un paesino della val Vigezzo, che per l’insolita caratteristica di aver dato i natali a numerosi artisti, pittori e affrescatori di chiese ed oratori, ha meritato il nome di “valle dei pittori”.
Si forma negli anni ‘80 a una scuola di Belle Arti di un paese vicino, Santa
Maria Maggiore, allievo di Enrico Cavalli, figlio a sua volta del pittore Carlo Giuseppe Cavalli, reduce da una lunga emigrazione a Grenoble. Ambedue di formazione
francese, avendo operato soprattutto a Lione, sono portatori nella valle di una tendenza in prevalenza paesaggistica e realistica. Carlo Cavalli resterà per sempre
dietro la figura di Fornara come un maestro e, di più, in qualche modo, come un
suggeritore.
Nella sua prima mostra, che si svolge alla Triennale di Brera, Fornara presenta La bottega del calderaio, opera dal contenuto collegabile al lavoro del padre,
e da molto tempo irreperibile. L’anno 1882, a Torino, egli ammira la retrospettiva
del grande paesaggista Antonio Fontanesi. Con Enrico Cavalli nel 1894 è a Lione,
sempre attento ai paesaggisti e ai realisti, e attivo a “far ritratti”, anche per pagarsi la vita. Vi ritorna di nuovo nel 1896, lavorando sempre a “far ritratti”. Questo è
poi l’anno che ha i colori dei Nabis (Profeti, in ebraico), i cui occhi non esplorano
solo gli interni della vita borghese, ma anche l’interno dell’uomo, proponendosi di
entrare nel suo fondo mistico o addirittura creandolo. I Nabis hanno quindi il merito di una nuova apertura intellettuale.
Da Lione Fornara parte poi per Parigi, la città dove fermenta continuamente il nuovo. Nel 1897 una sua opera, En plein air (oggi perduta), rifiutata alla III
Biennale di Brera per un eccesso di “barbarismi cromatici”, apre un discorso critico sul suo modo, favorendo l’incontro, forse più importante della sua vita, con
Giovanni Segantini, da una decina d’anni accostatosi al divisionismo, e suo forte
interprete. Ne diviene felicemente collaboratore.
Il 1898, periodo di ampi interessi culturali, che vanno da Tolstoj a Taine e
a Huysmans, segna l’inizio della parte centrale fiorente e più aperta della vita di
Fornara, che tuttavia non abbandonerà mai la sua chiusa-radice di Prestinone, il
piccolo luogo del suo essere uomo totale. Con la comparsa sulla scena del mercante artista Alberto Grubicy, il diffusore e sostenitore del divisionismo, a cui si
legherà di una lunga amicizia costruttiva, la sua opera ha finalmente un pubblico
assicurato e le mostre infittiscono in Italia e in Francia. Nel 1899 En plein air è a
San Pietroburgo e a San Francisco, e Pascolo d’ottobre è alla Biennale di Venezia,
dove sarà sfregiato da un folle antidivisionista. Piacere e dolori si alternano molto
rapidamente nella vita di Fornara. In questo stesso anno muore all’improvviso Giovanni Segantini. Fornara ne è afflitto come un figlio per la morte del padre.
Dal 1902 al 1909 Fornara frequenta più volte Parigi e si apre con cautela alla nuova corrente simbolista. A Monaco, nel 1905, una sua opera, La parabola della natura, conquista la medaglia d’oro. Il 1909 lo vede in Olanda e in Belgio. In questo stesso anno si iscrive alla Massoneria, spinto anche da certi suoi interessi esoterici e spiritualistici.
Dedica sette mesi del 1911 all’America del Sud, dove continua a comporre
olii e disegni. Tornato in Europa, mette in mostra le sue opere a Londra, e, in Ita-
45
Luigi Fenga Le mostre estive di Acqui Terme
46
RITORNO DI CARLO FORNARA
lia, a Milano e alla XI Biennale di Venezia. Nel 1917 perde l'amatissimo padre. La
sua sparizione e la guerra scoppiata da non molto, ridanno fuoco ai suoi interessi esoterici e spiritualistici, che lo portano ad abbracciare una sorta di culto dei
morti.
Altra perdita dolorosa è nel 1919 quella dell’amico Enrico Cavalli. Il mondo
sta veramente cambiando. Senza aver dato il suo consenso, nel 1921 tre sue opere sono visibili alla famosa Galleria Pesaro di Milano. Nel 1922 la morte del suo
scopritore Grubicy, lo getta nella prostrazione. Insieme con lui sembra disfarsi la
stagione divisionista, insieme con lui si disfa in un certo senso la vita artistica di
Fornara che prende una decisione drammatica: non esporrà più le sue opere in
rassegne ufficiali. Fedele a questa autoimposizione, si occuperanno di esporle solo i suoi collezionisti.
Nel 1925 tocca di nuovo Lione. È l’ultimo suo viaggio importante, un ritorno alle origini della sua pittura, ma anche un ripensamento oscillante tra nostalgia e distacco. Tornando in Italia si ferma a Torino per rivedere al Museo civico gli
amati Fontanesi, che però non gli danno più il fremito tanto amato.
Quantunque assediato dalla vita, Fornara si sente un uomo “forte”, capace di cambiamenti. Abbandonato il divisionismo, aderisce, ma in parte ritorna, a un linguaggio realistico, con i colori brucianti degli impressionisti. È
il 1931. Chiuso, come in un eremo, nella vecchia casa in cui è nato, dove non
ha altra compagnia che quella di due vecchie donne, la madre e una zia, si
sente profondamente solo.
Ma è un uomo forte, capace di cambiare il corso della sua esistenza, e
nel 1932 decide di sposarsi ormai sessantenne con una donna molto più giovane (di 37 anni) insieme con la quale vivrà, negli otto anni che durerà la vita di lei, una stagione serena e di intensa attività. Il 1940, con questo grave
lutto, segna l’inizio di un ripensamento totale del significato dell’esistenza.
Dipingerà solo per se stesso.
È deciso: si guarda attorno, legge, conversa a faccia a faccia o per corrispondenza, vede, e capisce di non aver nulla a che fare con il futurismo, già però in declino, e con il trionfante novecentismo. Si chiude al mondo. Ma non da tutto il
mondo è dimenticato. Nel 1949 esce una monografia di Raffaele Calzini: non gli
piace. Nel 1952 è invitato a una retrospettiva sul divisionismo: rifiuta. Nel 1966 un
saggio di Waldemar George lo lascia insoddisfatto. Muore 2 anni dopo, il 15 settembre del 1968, e viene seppellito nel cimitero di Prestinone.
Ci si può chiedere se c’è stato qualche rapporto tra la rinuncia di Fornara
alla vita pubblica e la sua dedizione alla profondità di un sentimento, fortemente
e assolutamente personale: la donna che sposa. E, se è lecito chiederselo, è possibile pensare che per lui, sino a un certo punto della sua vita, l’arte sia stata tutto,
abbia incluso tutto, non abbia escluso nulla, e che, per la delusione che gli ha procurato, la nasconda a se stesso, opponendole un altro tutto, l’amore? Sono domande però che sorgono solo con l’intento di lasciarle senza risposta, come siano tali
che in realtà non la chiedano.
Ma occorre fondere i movimenti fisici della vita di Fornara con quelli artistici, occorre che i suoi tempi si popolino di figure create e di figure creanti. La mo-
RITORNO DI CARLO FORNARA
Luigi Fenga Le mostre estive di Acqui Terme
stra, accurata e rappresentativa delle diverse fasi dell’opera di Fornara, e il bel catalogo della Mazzotta dal titolo Il colore della valle, ambedue dovuti alla acuta analisi di Annie-Paule Quinsac, ci offrono un’immagine esauriente dell’opera viva dell’artista.
Perché innanzi tutto il titolo, Fornara Il colore della Valle? La risposta della
curatrice è che i vigezzini “hanno preferito il mondo delle loro radici alla seduzione della città... non sono dovuti uscire dalla valle per darsi una formazione artistica.” La quale però è solo in parte innata, perché cresce insieme con l’insegnamento
attinto dai due Cavalli e dalla Scuola di belle arti di Santa Maria Maggiore
Un interesse tuttavia molto diverso più che lontano dal mondo della valle,
cioè dal mondo che lo circonda e che sarà sempre il suo, dà carattere all’opera di
Carlo Fornara come ritrattista di un sé che è nel mondo. E si scopre nei momenti
storici della sua vita in autoritratti non destinati ad aprirsi al pubblico, ma riservati al suo proprio sguardo, per il suo proprio riconoscimento e ritrovamento. La
mostra ce ne offre nove. Nel primo composto nel 1888 ad appena 17 anni (olio su
cartone, 43x30 cm), Fornara - come farà in tutti i successivi, eccetto uno - non si
prende di profilo, i due occhi indagano in modo complementare, e del corpo compare solo il busto. La parte più luminosa che pretende l’interesse dell’osservatore
sono la fronte e la guancia sinistra, tra le quali, da un leggero avvallamento, si eleva l’occhio che guarda quasi in tralice, mentre quello destro è associato all’oscurità dello sfondo.
Nove sono gli autoritratti in mostra, in mezzo ai quali spiccano uno strano
Autoritratto macabro (1898-1900), permeato, secondo una bella definizione della
Quinsac, da “un profondo senso di misticismo”, e l’Autoritratto a novant’anni, noto al pubblico solo a partire dall’esposizione di Trento del 1998-99, in cui
“l’economia di mezzi”, come rileva ancora la Quinsac, vale a far risaltare
l’intenzione autoanalitica di un volto, in cui acutezza e disperazione si acquietano soltanto nello svettamento del capo sopra un piccolo mare di rughe.
Molti sono i ritratti della gente della val Vigezzo, bambini, vecchi, ragazze, composti nell’arco della lunga vita, ma il periodo veramente importante e di successo del pittore inizia dalla conoscenza di Segantini e dall’amicizia con il Grubicy. Siamo in pieno periodo divisionista. Opere come Il Seminatore (1895), A giornata finita (1898), Le lavandaie (1898), La processione in
Val Vigezzo (1896) permettono di incuriosirci del gioco del pennello, del suo
farsi filiforme e vario colore. Il divisionismo si fa leggero e immaginoso, non
immune da influenze della Secession tedesca in Da una leggenda alpina
(1902), che resta però un’opera isolata. La valle vale e prevale: Primo sole
(1891), La casetta bianca (1902), Ottobre in valle Maggia (1908) sono colori e
spazi in un dialogo dell’occhio con i sentimenti. Spazi profondi si alternano
a spazi segmentati, come i colori quasi tonali alla molteplicità dei contrasti,
in Crepuscolo mistico (1901) e nell’opposto Ciliegi in fiore (1898-1899). Ma c’è,
in Studio per la Conquista della terra (1915-1916), un trionfo di luce solare,
quasi un’esplosione, che la tecnica divisionista carica di miracoloso, e cui fa
contrasto in primo piano la fatica contadina di incidere sulla vita con il più
elementare strumento di dominazione: l’aratro.
47
Luigi Fenga Le mostre estive di Acqui Terme
48
RITORNO DI CARLO FORNARA
“Opera di grande respiro” che offre uno “spazio pittorico sublime di
trasparenze e riverberi” è definita dalla curatrice Fontanalba (1904-1906). Un
certo simbolismo è indubbiamente presente in un’altra opera significativa
Mattinata sulle Alpi (1904-1908), tre piani di terra, d’acqua e di montagne,
con la presenza in primo piano, dominante o dominata dalla natura, di una
vacca dal dorso contornato di luce.
Testimonianza del ritiro di Fornara dall’agone dell’arte nella società è
Pomeriggio di marzo (1930), colori chiari, pennello che prolunga la distesa,
sfuma, si confonde.
Ma Fornara, che rifiuta il nuovo mondo che sta nascendo, il futurismo
primo tra tutti, sorprende per una certa avventura, leggibile in un’opera quasi sironiana come La boscaiola (1922-1924), o per indubitabili appuntamenti
con l’espressionismo in Primavera (1991-1995), Estate (1993-1996), Quiete lunare (1901).
Chi è alla fine Carlo Fornara? Un artista che nasce in modo che si potrebbe definire naturale dalla terra della sua valle, che si sposta nei suoi viaggi in Francia, nel nord Europa, in Argentina, portando sempre con sé la valle,
che ritorna sempre nella valle, che al progredire o al mutare del mondo preferisce la mutabilità naturale della sua valle. Non è in questo senso un rinunciatario, ma un sostenitore di una fedeltà che è insita in lui, che non può uscire da lui, perché è lui. Fornara è appunto il colore della valle.
GINO BRUGHERA
Quattro Poesie
Gino BRUGHERA è nato a Genova dove vive e lavora. Laureato in medicina e chirurgia, specialista in otorinolaringoiatria e chirurgia cervico-facciale, ha lavorato a Los Angeles, Londra, Losanna e Barcellona. È stato in missione umanitaria in Nepal dove ha effettuato numerosi interventi chirurgici.
Attualmente lavora all’ospedale Galliera di Genova. Da sempre appassionato
di letteratura, si interessa in particolare della poesia e della narrativa del ‘900
(Milena Buzzoni).
COLORI
Voltando le spalle al vento
sotto la luna sbagliata
ringhiando a circostanze oblique
abbiamo spiato il divenire dei colori,
ricreato il blu del molle oceano navigato,
distrutto il cerchio rosso fatto quadrare:
quel che rimane del viola e del grigio
(la rabbia e gli occhi)
forza e manifesto di nostri bellissimi segreti, noi,
dal vento alle spalle non strappati, non sbiaditi
tra rivoluzioni remote e Dorian adoratori di specchi.
TEMPO DI ESISTERE
Mio è il tempo che deve essere:
ma ho le labbra bagnate di pioggia
e anche questi minuti sono attesa:
un altro autunno statico
si è replicato solo per me e si è fermato:
nei porticcioli incavati nelle rocce che il mare scolpisce
appena sfiorati dalle dita nervose delle tempeste
ci sono vele polverose riposte nelle stive
delle barche dei miei sogni.
Non so che sarà del mio tempo,
ora immobile.
Gino Brughera Quattro Poesie
GINO BRUGHERA
49
Gino Brughera Quattro Poesie
50
GINO BRUGHERA
BRYAN
Invidiosa piccola dolcezza
la mia giovinezza che sfiorisce
la tua bellezza che si dilata, si determina….
tra noi la grande spartizione:
a me lo spazio a te il tempo…..
per un attimo del tuo stupore
mille conquistate certezze…..
NOI DUE
Noi due,
non più in pieno sole
ad inseguire volute di buio:
non coinvolti tra gente gelosa di nostri segreti spavaldi,
impalpabili ombre protette da inafferrabili sorrisi,
corriamo ad amarci in una vorticosa stanza piena di sole,
dove enigmi e nostalgie pendono polverosi dai muri.
ALTRI INCONTRI
di Guido Zavanone
XVIII
Ma dolcemente il mio buon consigliere:
“Non puoi negarti all’ombre che s’affollano
per ascoltare ed essere ascoltate”
e con gesto risoluto mi porse
ancora il cannocchiale e vidi ancora
l’inquieta gente che veniva incontro
alla mia ansia, a rapide folate.
Udivo un coro greco, tutt’intorno
cantavano e piangevano la sorte
dei vinti, degli oppressi, degli esclusi
durante e dopo il fugace soggiorno:
“Giustizia non esiste se i destini
di Caino e di Abele sono eguali,
se gli ebrei qui si mischiano derisi
ai loro miserabili aguzzini e
va tuttora aggirandosi implacato
il ricordo di noi, larve vaganti
dietro il filo spinato.”
Tentavo confortare quegli afflitti
quando vidi un’onda di stendardi
d’antica e venerata religione;
e dietro a loro canuti vegliardi,
il passo stanco, il volto assonnato,
si muovevano come in processione.
“Voi dei stendardi - dissi a voce alta che andate come esercito sconfitto
vorrei che mi diceste se il sentiero
che porta all’inesauribile Sorgente
è aperto ancora o per sempre ostruito.”
Più che risposte giungeva un brusio
di voci a un tempo discordi e uniformi;
ed ecco un’ombra mi si fece incontro
Guido Zavanone Altri incontri
ALTRI INCONTRI
51
Guido Zavanone Altri incontri
52
ALTRI INCONTRI
che veniva da opposta direzione,
aveva piaghe sul dorso delle mani
un umile sorriso
come un’aureola illuminava il volto.
“Sono Francesco - disse – testimone
della fede che dona e non divide
vissi in Terra l’amore che non chiede
per me non prego altro paradiso.
Quando fui posto nudo sulla terra
fasciato solo da un raggio di luce
io non chiesi se Dio esistesse,
lo sentii fiamma che nel cuore brucia.
E la Chiesa alla quale fui fedele
può vivere nei secoli se è fonte
d’amore e non di prediche severe.”
“Ora vedrai la carità in persona”,
mi sussurrò la compagna di viaggio.
Una donna da nulla muoveva
tra cenciosi dai volti corrosi
ne curava le piaghe e col lume
di speranza gli dava coraggio.
Se n’andò senza dire parola
offrendo a Dio le sofferenze sue e
di tutti gli afflitti della Terra;
era con loro e appariva sola.
Poi vidi alcuni
che restavano distanti,
timorosi guardandosi alle spalle;
esitavano a venirci davanti.
“Sono coloro - mi spiegò la guida che anticipando la comune sorte
disperando scambiarono la vita,
peplo avvelenato, con la morte.
“Tra questi scorsi Welby liberato
infine da una vana sofferenza
lungamente inflittagli nel nome
della sacralità dell’esistenza.
Welby parlò per tutti: “Vigiliamo
che anche qui non ci seguano molesti
quelli che sulla Terra hanno preteso
di prolungarci un atroce patire.
Registi arditi dell’altrui morire
fin sulla soglia seguono i morenti
per controllarne gli ultimi respiri.”
(Estratto da “Il viaggio stellare” di prossima pubblicazione)
LA POESIA
di Davide Puccini
Non è bottino che si tenga in pugno,
la poesia: viene quando vuole,
quando vuole va via con la sua grazia
come con grazia il cormorano appare
a pescare sott’acqua nella baia
e poi scompare nel sole di giugno.
Il poeta distilla
un senso sorprendente da ordinari
significati, svela il retroscena
della parola a tutti conosciuta:
la fa parlare pur se resta muta,
ne accende una favilla,
un canto di sirena.
Se l’esile poesia
abbia valore sociale è questione
posta male: perché la vuoi rinchiudere
mentre vuole volare?
Ci sono dei poeti
che scrivono di notte
quando il tempo si ferma
e tace ogni rumore:
non io, a me giova il giorno in pieno sole, possibilmente al mare,
il mio suggeritore.
Che il poeta si mascheri o si scopra
mettendo a nudo il cuore
non fa nessuna differenza in quanto
lo sanno tutti che è un simulatore.
Se parla di dolore,
non ti fidare: non mostra ferita.
Dice che ama la vita:
se l’amasse davvero, anziché scrivere
gli basterebbe vivere.
Però è un produttore:
come ape laboriosa,
altri si nutre del suo miele amaro
e lui in silenzio chiede in cambio amore.
Davide Puccini La Poesia
LA POESIA
53
Jean-Max Tixier Dans la serenite du froid
54
ALTRI INCONTRI
DANS LA SERENITE DU FROID1
- JEAN-MAX TIXIER
A Pierre Dhainaut
I
Que s’offre une parole d’accueil dans la sérénité du froid. Me voici parvenu à
l’extrémité de la lande. A l’abrupt du vertige. Plus rien ne me retient des images antérieures. Les sites traversés ont glissé dans l’oubli. Le visage des femmes aimées. Et leur
sourire de brume.
II
J’ai rêvé d’un nord factice. A ma mesure. D’un ciel pesant le poids du ciel. La plaine
s’effaçait sous des nuages bas où tournaient de vagues tourments. L’air sentait les
lointains et le désir d’ailleurs. J’avais sous les yeux la forme même du songe.
III
Cette rumeur au pied de la falaise ne s’élève pas de la mer. Elle se brise au vif des
mots. Je hume les embruns de ce qui n’est pas dit. Je tremble. Dans le gel d’un langage inconnu. La lumière me vient parfois d’un phare. Imaginaire.
IV
Tu me parlais du chanvre. Des bruyères. Des brisées sous le givre où les ombres se
perdent. Tu montrais la terre noire et dure. Ses gerçures profondes. Les ornières creusées par le charroi du temps. Je répondais force du vent dans la fraternité des choses
humbles. Mais précieuses. Infiniment.
V
L’océan bute à la même parole depuis les origines. Sa langue prend couleur du jour.
Nul ne l’écoute qui ne pense à son sang. Au battement du sang. Je vais le long du rivage. Sans but. Un cri de pétrel planté dans le coeur.
VI
Si je me sens porté d’une vague intérieure, quel sens donner à ma patience? Si la neige
décline dans ma tête sa charge de renoncements, pourquoi risquer? Mes yeux perçoivent au-delà des digues du silence. Une ferveur océane non tarie. Je ramasse des questiona sur la grève. Des bois flottés rebaptisés fortune.
VII
Les légendes ne pendent par aux branches des arbres de mon pays. Elles sont trop
nues. Trop économes de paroles. Trop, ajustées. Elles frissonnent d’énigmes sous le
souffle des dieux. Il suffit de s’asseoir auprès. Dans le soleil. D’épouser l’immobilité.
Pour changer d’avenir.
(extrait de Les Silences du passeur, édition Le Taillis Pré, 2006)
1
JEAN MAX TIXIER. NELLA SERENITA' DEL FREDDO A Pierre Dhaìnaut (trad. di GUIDO ZAVANONE). Che si offra una parola accogliente nella serenità del freddo. Eccomi giunto all'estremità della landa. Allo scosceso della vertigine. Più nulla mi
trattiene delle immagini anteriori. I luoghi attraversati sono scivolati nell'oblio. Il viso delle donne amate. E il loro sorriso
di bruma. //II Ho sognato di un nord fittizio. A mia misura. D'un cielo che sopporta il peso del cielo. La pianura spariva
sotto le nuvole base dove s'aggiravano vaghi tormenti. L'aria aveva odore di lontananze e di desiderio d'altrove. Sotto i
miei occhi era la forma stessa del sogno. // II Questo rumore ai piedi della scogliera non sale dal mare. Si rompe al vivo
delle parole. Aspiro gli effluvi di ciò che non è detto. E tremo. Nel gelo d'un linguaggio sconosciuto. La luce mi viene talvolta da un faro. Immaginario. // IV Tu mi parlavi della canapa. Delle brughiere. Delle impronte sotto la brina dove si perdono le ombre. Mostravi la terra nera e dura. Le sue crepe profonde. Le carreggiate scavate dal passaggio del carro del
tempo. Io rispondevo forza del vento nella fraternità delle cose umili. Ma preziose. Infinitamente. // V L'oceano s'ostina
sulla medesima parola dalle origini. La sua lingua prende colore dal giorno. Nessuno l'ascolta che non pensi al proprio
sangue. Al pulsare del sangue. Vado lungo il fiume. Senza scopo. Un grido di procellaria piantato nel cuore. // VI Se mi
sento portato da un'onda interiore, quale senso dare alla mia pazienza? Se la neve declina nella mia testa il suo carico di
rinunce, perché rischiare? I miei occhi vedono oltre le dighe del silenzio. Un fervore oceanico inesauribile. Io raccatto delle
questioni sulla spiaggia. Dei legni gettati dai flutti, ribattezzati fortuna del mare. // VII Le leggende non pendono dai rami
degli alberi del mio paese. Sono troppo nude. Troppo avare di parole. Troppo aggiustate. Esse fremono d'enigmi sotto il
soffio degli dei. E sufficiente sedersi accanto. Nel sole. Sposare l'immobilità. Per cambiare avvenire. Tratto da "Les,Silences
du passeur", ed. Le Taillis Pré, 2006.
IL PESTO E BILLY, L’AMERICANO
Il pesto e la scoperta dell’America
di Andrea Crivelli
“…..Noi ci vantiamo della scoperta dell’America; ma quella è niente a paragone dell’invenzione del pesto. L’America la poteva scoprire un altro; ma se non c’era il pesto, non
c’era la Liguria. Non il pesto fatto per le bocche morbide dei milanesi; ma il nostro pesto integerrimo, vivace come uno sparo, che mette sotto i cieli il profumo ardimentoso dell’aglio
virile e quello augusto del sacro basilico…..”
Vittorio G. ROSSI
Da “Cucina e vini di Liguria” di G.Gavotti,
Sabatelli editore, Savona 1973
Non sapevo che cosa avrebbe preparato per pranzo Erminia, la sorella di
Antonio, e neppure chi avrei trovato come compagno di desco; a questo pensavo,
scendendo nella pineta lungo le rive del Corvo dopo un’escursione alla baita oltre
le Case Traverse, dove ero stato a trovare Bauducco Ampelio, detto “il Diavolo” per
portargli medicine, pile per la radio, una rivista di fucili. L’appetito cresceva passo dopo passo: immaginavo i piatti che Erminia stava cucinando e allo stesso tempo mi tornava in mente la colazione che mi aveva rinfrancato arrivando alla baita
di primo mattino: Il Diavolo mi aspettava sulla porta; dentro, nell’antro nero della cucina tappezzata di fuliggine i suoi due aiutanti erano al lavoro: Mohamed, il
più giovane, rimestava dentro un paiolo di rame l’impasto giallo brillante, il secondo, un marocchino di cui ignoravo il nome e che non parlava mai, era davanti al
tavolo e tagliava a pezzi del formaggio.
Ero arrivato al momento giusto. Il Diavolo prese con un grosso cucchiaio di
legno due bei pezzi di polenta, senza complimenti li fece scivolare dentro a delle
ciotole di dubbia pulizia conservate sopra il camino e le riempì di latte appena
munto: un latte denso cremoso e spumeggiante che, scaldato dalla polenta, rilasciò profumi materni e primordiali. Così, in piedi, in silenzio, gustammo quel cibo semplice e ricco: la polenta era spessa e ruvida tra il palato e la lingua, sapeva
della pianura lontana, di fumo e di legna resinosa; il latte dolce e cremoso carezzava la bocca, la riempiva dei sapori della montagna, era tiepido e rassicurante,
come gli occhi delle mucche che aspettavano di essere accompagnate a nutrirsi di
erba tenera e profumata.
Andrea Crivelli Il pesto e la scoperta dell’America
IL PESTO E BILLY, L’AMERICANO
55
Andrea Crivelli Il pesto e la scoperta dell’America
56
IL PESTO E BILLY, L’AMERICANO
I due marocchini, invece, erano seduti al tavolo e intingevano i cucchiai nella polenta che avevano arricchito, ancora nel paiolo, di burro e tocchi di toma, rendendola una crema giallo chiaro, morbida e collosa, quasi viva sulla tavola, dove
la prendevano a larghe falde, per metterla nelle scodelle. Avevano sorriso e me ne
avevano offerto ed io avevo goduto di quella delicata mistura cui il formaggio, in
fondo, donava un profumo di stalla e di vacca.
Erano passate tante ore di luce e di cammino ed ora, ricordata la colazione,
disegnavo nella mente cosa mi avrebbe ristorato di lì a poco: Antonio era un eccellente cercatore di funghi e il suo orto un gioiello di verdure multicolori e saporose. Allora sarebbe stato un piatto di tagliolini impastati dalle mani svelte ed accorte di Erminia che avrebbe tirato una sfoglia dorata e sottile come seta per ricavarne striscioline minute. Una volta cotte sarebbero diventate quasi trasparenti
eppure capaci di assorbire, come acqua nella sabbia, un sugo dagli aromi profondi e terragni, con un cromatismo che andava dai rossi caldi del pomodoro, ben cotto e impregnato della cipolla sfatta ad arte, alle diverse tonalità di bruno dei porcini; tutto era picchiettato dal bianco dei pinoli e segnato dai piccoli segmenti verde cupo del rosmarino. In fondo, appena percettibile avrei sentito una sottolineatura lieve: il salso delle acciughe.
Oppure avrei trovato in pentola un risotto alle verdure dell’orto: anche qui
le cipolle si sarebbero sfatte, anello dopo anello, nella dolcezza delle carote piccole e aranciate, nel verde delle zucchine fresche come la terra appena rivoltata.
Ero arrivato alla casa dal retro e, saltata la bassa staccionata, ero passato
proprio dall’orto per entrare direttamente in cucina e cogliere Erminia affaccendata. Sorpresa: aperta la porta fui avvolto dal profumo verde e penetrante del basilico raccolto nel momento del massimo rigoglio delle essenze, dal soffio del sardo secco, dall’aglio pungente ma imbrigliato dal lungo e sapiente lavoro di pestello e mortaio; messo quindi sotto un velo d’olio aveva sopportato il trasporto in un
luogo lontano e diverso. Ora si stendeva in tutte le sue sfumature, avvolgendo
gnocchi fatti con le patate della montagna e segnati uno per uno dai rebbi della
forchetta per raccogliere il pesto e amalgamarlo. Mentre completava veloce e attenta il suo lavoro, Erminia mi raccontava come con suo figlio e con un amico che
saliva da Pornassio, ci fosse Billy, un ragazzo americano arrivato da poco, un giovanotto che pareva uscito da un telefilm: grande grosso fasciato in una felpa con
grandi numeri rossi, cresciuto ad hamburger patate fritte e galloni di latte. Quando Erminia varcò la porta, Antonio riempiendo i bicchieri di vino, spiegava al ragazzo come quello che stava per essere servito e che aveva già riempito la sala del
suo profumo di terra marina e della sua barbarica baldanza, fosse a peculiar italian food. Billy annuiva come fa chi sa ormai tutto di un paese lontano e delle sue
curiose abitudini, sperimentate da “Gennaro o musicante’s restaurant”, davanti a
casa sua nel Michigan, nipote di un salernitano che in America aveva fatto modesta fortuna cuocendo spaghetti.
Si sedette sicuro di sé, ma quando Erminia gli riempì la fondina, i suoi occhioni azzurri si allargarono, anche la bocca restò aperta per qualche istante prima di articolare, con una certa fatica: “ Oh, my God, it’s green!”.
USA ORIENTAMENTI DI POESIA CONTEMPORANEA
di Milena Buzzoni
Nel 1943 Emilio Cecchi nella prefazione all’”Americana” di Elio Vittorini così esordisce:
“L’inizio della guerra 1914-1918 trovò i lettori di tutto il mondo a testa
china sui romanzi russi. E l’inizio della nuova guerra, nel 1939, li ha ritrovati a
testa china sulle novelle e sui romanzi americani “ e ravvisa le ragioni di tale interesse in quel “disorientamento delle coscienze”, in quell’incertezza nel futuro,
in quel disordine di sentimenti confusi che caratterizzavano quel momento storico. Nello stesso anno in cui esce l’”Americana”, Fernanda Pivano riconosce
“l’immagine tragica”1 della civiltà d’oltreoceano sia nell’alienazione delle grandi
città che emarginano l’individuo, sia nella “pettegola democrazia” dei piccoli
centri di provincia, anch’essi destinati a isolare il singolo che reagisce con quel
desiderio d’evasione tipico di tanta letteratura americana. E ipotizza che il lettore italiano ricerchi in questa letteratura una sorta di “confessione nazionale”
di un popolo propugnatore di libertà e indipendenza ma, nello stesso tempo,
consapevole della difficoltà a realizzare davvero questi ideali.
È ancora Emilio Cecchi a denunciare “un’arte di disillusione”2 fermentata su un postulato di benessere e felicità materiale, dove sembra che alle
mortificazioni del puritanesimo non si sia sostituita un’effettiva equilibrata
e consapevole libertà, ma una sorta di paganesimo sterile e infelice. E così la
poesia del coraggio e della conquista, il mito della frontiera, l’epopea del pionierismo si sono trasferiti nella cronaca nera come l’avventura da romantica
e idealista è diventata poliziesca. Ed è attraverso la disperazione che inquina
l’orgoglio un po’ euforico della società statunitense sempre alla ricerca del
proprio benessere, che passa la ricerca di un’unità etnica ed etica ancora lontana da venire. Anzi, uno dei numerosi problemi che hanno afflitto la civiltà
americana, quello razziale, si è oggi complicato con la presenza di molteplici etnie (portoricani, cinesi, indiani ecc.) che, se negli anni più lontani perseguivano un’integrazione culturale e linguistica, a partire dagli anni ’70 tendono al recupero delle proprie radici e all’orgoglio del proprio passato, crean-
1
2
F. Pivano - Pagine americane- Narrativa e Poesia 1943-2005, Frassinelli, Mi, 2005, pag.3
E.Vittorini - Americana - Einaudi, TO 1943, pagg. I - XVIII- XIX
Milena Buzzoni Usa orientamenti di poesia contemporanea
U.S.A.
ORIENTAMENTI DI POESIA CONTEMPORANEA
57
Milena Buzzoni Usa orientamenti di poesia contemporanea
58
USA ORIENTAMENTI DI POESIA CONTEMPORANEA
do un multiculturalismo che è da un lato fecondo e portatore di una nuova
vitalità spirituale e dall’altro fattore di disgregazione.
In linea generale indubbio elemento di stimolo all’approccio con il mondo
letterario americano è la prossimità di rapporti con un popolo la cui presenza diviene particolarmente significativa durante l’ultimo conflitto e prospetta a un’Italia in difficoltà un ambito orizzonte di benessere e di progresso. Il medesimo orizzonte verso il quale spingono i remi le navi di quegli italiani che nel secondo dopoguerra promuovono un nuovo flusso migratorio.
Ma se è interessante verificare le motivazioni dei lettori nostrani che in
quel periodo si rivolgono alla letteratura d’oltreoceano, altrettanto lo è capire la spinta che ha indotto tanti letterati americani a recarsi in Italia e, al di
là delle suggestioni artistiche vive da sempre, individuare una sorta di vantaggio esistenziale o, se non altro, una qualche consapevolezza da riportare
negli Stati Uniti custodita insieme al proprio bagaglio.
Come osservava Emerson dissuadendo i suoi fellow Americans dall’intraprendere qualunque forma di viaggio in quanto (cito a memoria) “ l’anima non
viaggia: l’uomo saggio sta a casa con l’anima…..viaggiare è il paradiso dello
sciocco…il mio gigante viaggia con me ovunque io vada….”, l’Italia è il luogo nel
quale l’artista americano percepisce un’incrinatura nella perfetta, granitica costruzione della propria self- reliance, termine che non è sbrigativamente traducibile con una un po’ generica “fiducia in se stessi” ma ingloba nel suo significato quel “contare su di sé” connaturato al carattere americano ma assente in
quella sorta di esistenzialismo mediterraneo che minaccia continuamente la solidità di una civiltà ormai in declino. E allora venire in Italia, il paese per eccellenza della trascorsa grandezza, significa anche domandarsi quale sia la durata
di questa civiltà da parte di una nazione avviata verso una simile gloria.
“ In un paese in cui chi vi è nato non è mai bastato a se stesso almeno
dai tempi di Machiavelli; in un paese dove il contare su se stessi (e non su una
chiesa, un protettore o un partito) è, esistenzialmente e intellettualmente, un
concetto sconosciuto, e chi per avventura lo pratica è considerato un pazzo
o un illuso; in un paese in cui l’artista non può dir sue né la propria ribellione né la propria acquiescenza allo stato corrente delle cose, perché gli vengono entrambe vanificate dalla curialità e dal bizantinismo di quelli che Pasternak chiamava “rapporti puerili con il potere”, il poeta americano ha ben
ragione di preoccuparsi.”3
Una preoccupazione che può sfociare in un esito rivelatore, come per
Henry James durante le sue quattordici visite in Italia dal 1869 al 1907, che
scrive esultante al fratello William di essere finalmente riuscito, per la prima
volta, qui nel nostro paese, a vivere. O può al contrario indurlo a voltare le
spalle e a mettere le distanze da una civiltà percepita come un’ossessione. È
il caso di Hawthorne che, scrivendo al suo editore, addirittura si rammarica
che Nerone non abbia distrutto Roma al di là di ogni possibile ricostruzione!
3
A.Carrera e T. Simpson, La luce migliore - Poeti americani in Italia, Medusa, Mi, 2006, pag. 17.
USA ORIENTAMENTI DI POESIA CONTEMPORANEA
4
Op. cit. pag. 1151.
Milena Buzzoni Usa orientamenti di poesia contemporanea
Restringendo il campo alla poesia, innumerevoli sono i poeti statunitensi che hanno trovato in Italia, nei suoi paesaggi, nella sua arte, nella sua
letteratura, una fonte di ispirazione. È allora possibile riconoscere nella produzione modernist di Eliot e Paund gli elementi più fervidi della cultura europea distillata attraverso l’attività di traduttori.
Attorno agli anni cinquanta si assiste al tentativo di fondere la tradizione romantica di Whitman e Emerson e del verso libero e ampio, con quella modernista: nasce così il Postmodernism attento alla produzione straniera, alla realtà contingente, alla tradizione popolare. Ma è a partire dagli anni sessanta che
si avverte più marcata la tendenza ad abbandonare l’ermetismo e l’uso del mito di Eliot e Pound per una poesia più vicina alle tematiche politiche e sociali
come in Levertov e Rurkeyser. Nella loro produzione la funzione comunicativa
diventa prioritaria e il linguaggio si fa più esplicito e diretto.
L’avvento della cosiddetta Confessional Poetry, secondo la definizione
data da Rosenthal nel 1967, che annovera autori come A. Sexton, R.Lowel e
S. Plath supera lo stadio conscio dell’esperienza e applica cifre emotive che
spesso rompono gli schemi della cultura puritana. In un certo senso torna ad
imporsi “l’io che contiene moltitudini” di Whitman, un io intimo e individuale per i Confessional e matrice della poesia stessa per i Deep Image che inseguono la verità nel sogno e nel misticismo.
Attorno al 1976, l’atteggiamento di due poeti e teorici della poesia è destinato ad influenzare significativamente molti americani contemporanei: Pinsky critica una poesia che meravigli e sorprenda per affermare la necessità di un ritorno
alla poesia che racconti, che tralasci l’ermetismo, la specificità e la falsa spontaneità dei Deep Image ormai divenuta una sterile forma di manierismo.
La Rich da parte sua, auspica uno sviluppo della Confessional Poetry
che giunga a inglobare temi politici, sociali, femminili con uno stile colloquiale e il ricorso al verso libero. Entrambe le direttive, come vedremo, hanno
orientato molti scrittori americani contemporanei.
L’esperienza dei Beat poi, quasi più diffusa in Italia che negli Stati Uniti, ma, come dice la Pivano, sempre da ricordare con “tenerezza e nostalgia”,
è stata importante per l’uso dell’improvvisazione e di elementi pop, di una
lingua senza sintassi nonché per l’influenza della spiritualità di Ginsberg sulle voci più recenti.
“…il modo di vestire e di comportarsi contemporaneo, l’unisex, le giacche sfoderate, i jeans, le scarpe da tennis con la loro camminata elastica, i
cantautori inventati da Bob Dylan, certi inesplicati silenzi, certe complicate
elucubrazioni, certi inafferrabili atteggiamenti, sono tutti segni lasciati dalla
rivoluzione Beat.”4
Altrettanto forti risultano gli influssi dei movimenti sorti sulle tensioni razziali degli anni ’30 e ’60 che hanno sancito l’uso dello slang (stigmatizzato da Cecchi nella suddetta prefazione all’“Americana”) e suggerito temi legati alla povertà, al razzismo e al degrado urbano espressi su ritmi cadenza-
59
Milena Buzzoni Usa orientamenti di poesia contemporanea
60
USA ORIENTAMENTI DI POESIA CONTEMPORANEA
ti sul jazz e sul blues, come nel caso della Alexander e della Clifton. Quest’ultima arricchisce la sua poesia con il tema religioso accanto a quello della sua
condizione di black woman, trattati entrambi con ironia.
Ruolo di non minore portata hanno avuto anche le scuole di Scrittura Creativa, a iniziare dalla famosa Iowa Writers Workshop e quelle di “poetry reading” organizzate dai Beat alla Six Gallery di San Francisco negli anni ’50 fino alle recenti
esperienze del Bowery Poetry Café e del più noto Nuyorican Poets Café a New York
e in genere alla Performance Poetry con il recupero della tradizione orale e della
funzione comunicativa della poesia. Poesia che, se da un lato esce dai cenacoli degli intellettuali per dar voce a chi fino a quel momento è rimasto in silenzio e promuove quella definitiva “democratizzazione” del linguaggio lirico già auspicata da
Whitman e da Emerson, dall’altro non può eludere il rischio di un abbassamento
del livello qualitativo imputabile all’uso di stereotipi, a cadute retoriche o consensi alla moda del momento.
Robert Pinsky, come vedremo, propone temi ricchi di riferimenti storici e personali che descrivono il complesso tessuto della realtà americana,
trattando di lavoro e ingiustizia, secondo la lezione di Williams e di Sandburg, ma senza indulgere alla nostalgia.
Jonathan Galassi, tradotto da Annalisa Cima per il Melangolo ed editore lui stesso, nei suoi North street dithyrambs celebra una natura salvifica destinata ad affrancare l’uomo “dall’impoverimento urbano” e riesce a coniugare “motivi classici e modernità: l’egloga, il confine del bosco, i segugi alla
fronte, i personaggi del mito si intrecciano con un pensiero drink di fine giornata, i rumori del traffico, il volo degli aerei, le voci intramontabili di un Sinatra o di Maria Callas”.5
Gli ultimi quindici anni di poesia nord-americana vedono la definitiva
emarginazione dell’ermetismo e la tendenza a una spiccata narratività con il
recupero ora della confessional poetry di Anne Sexton e di Sylvia Plath ora
della cifra ironica.
Lungi da un approccio intellettualistico, i poeti di ultima generazione
recuperano piuttosto una fisicità finora sconosciuta, utilizzando spesso il filtro corporeo e si aprono ai temi sociali ma anche, come si è accennato, a quelli religiosi modulati sul ritmo del jazz, dello slang, della open prosody di derivazione ginsberghiana.
Due poeti in particolare sembrano idonei a concludere questa necessariamente schematica panoramica della poesia americana più recente: Lawrence Ferlinghetti che, con una folgorante sequenza di fotogrammi, dà una sua
personalissima definizione della poesia:
“È fatta/ da sillabe di sogni” ... “È dialogo/ di statue nude”…. “È lampadina spoglia/ in un hotel di vagabondi/ che illumina nudità/ della mente e del cuore”6
5
6
G. Rovetta- Ditirambi d’amore in Resine - quaderni liguri di cultura- N.109 pagg. 109-110.
L.Ferlinghetti - Cos’è la poesia - Oscar Mondatori, Mi, 2002.
USA ORIENTAMENTI DI POESIA CONTEMPORANEA
“Qualsiasi cosa sia, deve avere/ uno stomaco che può digerire/ gomma, carbone, uranio, lune, poesie”.7
LUCILLE CLIFTON
Nata a New York nel 1936, è la voce lucida di quell’ American Dream che ha
fallito le sue aspettative e che ancora nega una totale parità agli afro-americani. Tutta la sua poesia passa attraverso il suo corpo e questa fisicità si
muove fra passato e presente e si fa espressione della storia della sua gente:
la sua famiglia con il suo passato di schiavitù è spesso protagonista dei suoi
componimenti. Ad arricchire la sua poesia interviene spesso il tema religioso: episodi del Vecchio Testamento o della vita di Cristo sono rivisitati alla
luce della propria esperienza e recuperati innanzi tutto come “storie”, come
narrazioni primordiali, e poi come materia di religione. La Clifton rompe con
la tradizione europea e americana scegliendo brevi versi liberi, spesso rimati, ripetizioni, giochi di parole e allusioni, rinunciando alla punteggiatura e alle “prepotenti maiuscole”. La lingua è frammentata, tagliente e diretta, ironica e ricca di termini slang, ma anche piena di gioia, un canto di ringraziamento alla vita in tutti i suoi aspetti (caratteristiche queste della poesia orale
americana, di difficile traduzione). Per lei poesia è fusione di intelletto e intuizione e la forma deve conformarsi al contenuto: “poetry is a matter of life,
not just a matter of language”.
adam thinking
she
stolen from my bone
is it any wonder
i hunger to tunnel back
inside desperate
to reconnect the rib and clay
and to be whole again
some need is in me
struggling to roar through my
mouth into a name
this creation is so fierce
I would rather have been born
7
E. Biagini -Nuovi poeti americani-
Milena Buzzoni Usa orientamenti di poesia contemporanea
E Louis Simpson che esige una poesia in grado di inglobare realtà diverse e
distillarne l’umanità:
61
Milena Buzzoni Usa orientamenti di poesia contemporanea
62
USA ORIENTAMENTI DI POESIA CONTEMPORANEA
adamo che pensa / / lei / rubata dal mio osso / c’è da meravigliarsi se / io
sono smanioso di scavare indietro / dentro disperato / di riunire la costola e
l’argilla / ed essere nuovamente intero / / un qualche bisogno è in me / che
lotta per ruggire attraverso la mia / bocca e farsi nome / questa creazione è
così violenta / che avrei preferito nascere. Da blessing the boats, new and selected poems, 1988-2000
ROBERT PINSKY
Nasce nel 1940 in New Jersey. È considerato uno dei più importanti poeti
americani contemporanei ed è stato Poeta Laureato dal 1997 al 1998. Critico
e traduttore dell’Inferno di Dante, è molto attento all’effetto ritmico e musicale dei suoi testi, nonché ai contenuti: riflessioni sul vivere, memorie
d’infanzia, commento sociale e storico. Come un musicista jazz, il poeta improvvisa continuamente senza dimenticare la tradizione, offrendo nuove immagini e suoni nella trascrizione di desideri e dolori del vivere quotidiano.
Come Poeta Laureato si è molto impegnato nella promozione della poesia
nelle scuole e, in genere, nella società.
SAMURAI SONG
When I had no roof I made
Audacity my roof. When I had
No supper my eyes dined.
When I had no eyes I listened.
When I had no ears I thought.
When I had no thought I waited.
When I had father I made
Care my father. When I had
No mother I embraced order.
When I had no friend I made
Quiet my friend. When I had no
Enemy I opposed my body.
When I had no temple I made
My voice my temple. I have
No priest, my tongue is my choir.
When I have no means fortune
Is my means. When I have
Nothing, death will be my fortune.
USA ORIENTAMENTI DI POESIA CONTEMPORANEA
CANTO SAMURAI / / Quando non ebbi tetto feci / dell’ardimento il mio tetto. Quando non / ebbi cibo i miei occhi pranzarono. / / Quando non ebbi occhi ascoltai. / Quando non ebbi orecchi pensai. / Quando non ebbi pensieri
attesi. / / Quando non ebbi padre feci / dell’attenzione mio padre. Quando
non / ebbi madre abbracciai l’ordine. / / Quando non ebbi amici feci / della
calma la mia amica. Quando non / ebbi nemici opposi il mio corpo. / Quando non ebbi tempio feci / della voce il mio tempio. Non ho / prete, la lingua
è il mio coro. / / Quando non ho mezzi la fortuna / È i miei mezzi. Quando
non / Ho niente, la morte sarà la mia fortuna. / / La necessità è la mia tattica, il distacco / è mia strategia. Quando non / ebbi amante corteggiai il mio
sonno. Da The Figured Wheel: new and collected poems, 1966-1996
ELISABETH ALEXANDER
Nata ad Harlem nel 1962, insegna al Whitney Humanities Center della Yale
University. Nella sua produzione, apprezzata dalla critica fino dalle prime
pubblicazioni, va affinando la propria voce usando la struttura dei sogni, nella loro ironia e surrealtà, per meditare sul tema dei conflitti razziali, della famiglia, della maternità e della cultura pop. L’indagine forse più interessante
è quella sul suo essere donna afro-americana, condotta non in chiave politica ma utilizzando appunto il sogno e l’ironia e affidandola al ritmo del jazz
e del blues. Tra le sue più marcate influenze, i padri della poesia afro-americana del ventesimo secolo: Hughes e Brooks, sia per quanto riguarda la forma sia per l’impegno civile.
BABY
The doctor handed me a parfait dish
of melting pink and coffee ice cream
and said, “Congratulations! A girl!”
This bewildered me; I had not been
pregnant, but I kissed the dish and put her
in the deep freeze to see if she’d take shape.
I knew there was a baby in there somewhere,
her tiny arms and legs in vaguest outline.
The doctor frowned and smiled again:
“Congratulations! A boy!” This one
had a mammoth head and a full set
of teeth. I named the babies Vincent and Louise.
Milena Buzzoni Usa orientamenti di poesia contemporanea
Need is my tactic, detachment
Is my strategy. When I had
No lover I courted my sleep.
63
Milena Buzzoni Usa orientamenti di poesia contemporanea
64
USA ORIENTAMENTI DI POESIA CONTEMPORANEA
Meanwhile, my father fluttered about
the room and discouraged visitors.
My mother-in-low said, “I made you turkey
breast and rice. You didn’t eat”. My husband
slept deeply on my brother’s bunk bed.
I talked about the dream and later thought
about something someone told me, that
giving birth is all about yourself.
I am formless and fanged, boy and girl both,
food and baby at the very same time.
NEONATO / / Il dottore mi ha passato un piatto di torta / gelato liquefatta,
color rosa e caffè / e ha detto: “Congratulazioni! È una bambina!” / Questo
mi ha sconcertato: non ero / incinta, ma ho baciato il piatto e l’ho messo /
nel freezer per vedere se avrebbe preso una forma. / Sapevo che c’era un neonato da qualche parte lì dentro, / le sue minuscole braccia e gambe appena
abbozzate. / Il dottore si è accigliato, poi ha sorriso di nuovo: / “Congratulazioni! È un maschio!” Questo qui / aveva una testa enorme e una serie completa / di denti. Ho chiamato i piccoli Vincent e Louise. / Nel frattempo mio
padre andava su e giù per / la stanza e scoraggiava i visitatori. / Mia suocera ha detto: “Ti avevo fatto i petti / di tacchino con il riso. Non li hai mangiati”. Mio marito / dormiva profondamente nel letto a castello di mio fratello.
/ Ho parlato del sogno e più tardi ho pensato / a qualcosa che qualcuno mi
ha detto, al fatto che / partorire ha a che fare con te stesso. / Sono senza forma e con le zanne, insieme bimbo e bimba, / cibo e neonato al tempo stesso.
Da Antebellum Dream Book (2001)
JONATHAN GALASSI
È ora possibile leggere questo poeta in italiano grazie alla pubblicazione, da
parte del Melangolo, di dieci componimenti tratti dalla sua seconda raccolta
di poesie “North street dithyrambs ” e tradotti da Annalisa Cima.
Jonathan Galassi, newyorkese, presidente di una delle più prestigiose case editrici americane, la “Farrar, Straus and Giroux” ha con l’Italia e la Liguria in particolare, uno stretto legame che lo ha portato ad approfondire lo studio di Montale e a
tradurne gli “Ossi di Seppia”, “Le Occasioni”, “La Bufera” e il “Diario postumo”. I
“North street dithyrambs” sono pervasi da un sentimento di ebbrezza che accompagna la vita vissuta nella pienezza dei suoi contrasti e dei suoi incontri. Nella sua
poesia raffinata e mutevole domina la trasposizione del paesaggio e della natura
nel sentimento e viceversa. Questi dieci componimenti non sono che le stazioni di
una storia scandita dalla comune ricerca di una profonda immersione nella natura e nella sua vita. Sono le tappe di un percorso in cui l’uomo moderno, affrancatosi progressivamente dai ceppi della vita urbana, ritrova l’amore in una sorta di
panica unione con il tutto.
USA ORIENTAMENTI DI POESIA CONTEMPORANEA
I want to get at the knot
the white heat at the heart
of you, want to undo it,
the clot, the lock, the hot
rock, knock it back
so it opens to flood and flow
for I know
great good will come of it.
Not that I get
all that high hitting home
(I can’t, I don’t and I won’t)
but up above where you sit
and the sun beats in your armpit,
I feel it and love it,
inhale and swoon
with the smell, and I fell.
I flee, I lie, I try to fly,
but I know it’s not,
no, it’s not on. What I’ve got
‘s not a lot of excitement,
not the loud shout
or tight shot,
but not nothing either,
my bright fuchsia lover;
together, whatever, I’m overspent, undersold,
blown, bent low
by your absolute predicate
weather, whether
you know it or not….
NODO / / Voglio arrivare al nodo / al bianco calore che hai / nel cuore, aprire / il grumo, la serratura, l’ardente / roccia, colpirla di ritorno / così che
s’apra per straripare e scorrere / perché so che / ne verrà un gran bene. / Non
ch’io tocchi / l’apice nell’andare al nucleo / (Non posso, non voglio e non lo
farò) / ma lassù dove tu siedi / e il sole ti colpisce l’ascella, / sento e amo, /
inalo e deliro / in quell’odore, e cado. / Fuggo, giaccio, tento di volare, / ma
so che non è, / non è così. Quello che sento / non è una grande eccitazione,
/ non è il forte urlo / o lo sparo secco / ma è qualcosa, / mia luminosa amante fucsia; / insieme, come vuoi, io sono / sfinito, sfibbrato, / stremato, accasciato / dal tuo assoluto predicato / tempo, sia che / tu lo sappia o no….
Milena Buzzoni Usa orientamenti di poesia contemporanea
KNOT
65
Milena Buzzoni Usa orientamenti di poesia contemporanea
66
USA ORIENTAMENTI DI POESIA CONTEMPORANEA
ELIZA GRISWOLD
Sembra opportuno concludere questa breve rassegna di poeti contemporanei
con una giovane voce accolta nelle pagine della Farrar, Straus and Giroux, la
casa editrice di Jonathan Galassi, e tradotta qui per la prima volta da Anna
Maria Saiano.
La Griswold, ricercatrice alla Harvard University, ha ricevuto il primo premio Robert I. Friedman per il giornalismo d’indagine e la sua attività in campo poetico
risente significativamente della sua professione: si avverte infatti la tendenza a
registrare “la notizia”, a segnalare l’evento che si impone all’attenzione del protagonista poetico nell’istante stesso in cui si verifica in un’immediatezza comunicativa e in un linguaggio piano e conciso. I suoi componimenti non sono che
variazioni sul tema della desolazione sull’onda di percezioni ora emotive ora
sensoriali e spesso sullo sfondo di luoghi familiari. Wideawake field è la sua prima raccolta di poesie e da qui sono tratti i versi che seguono nell’allegoria di un
paesaggio italiano, quello potente e “perfetto” delle Dolomiti, che diventa specchio di un amore supremo.
PRINCE OF THE DOLOMITES
In a gondola above the Dolomites,
I turned to you and said, “You are
my reason for being alive”. The high wire
shook.. The fog that had hung
all day between the two shale crags
lifted, more like shifted toward the peaks
or what might have been the peaks
as I never saw them that day
and not ever again.
PRINCIPE DELLE DOLOMITI / / Su una funivia sulle Dolomiti, / a te mi volsi
e dissi, “ Tu sei / la mia ragione di vita”. In alto il cavo / vibrò. La nebbia per
tutto il giorno / sospesa tra le due pareti di scisto / si levò, anzi si spostò verso le vette / o quelle che potevano essere vette / perché mai le vidi quel giorno / e mai più le vedrò.
PROSPEZIONI
Letture di Vico Faggi, Luigi Fenga, Giuliana Rovetta, Andrea Scarel
Spi ngendo l a notte pi ù i n l à
di Vico Faggi
Il 17 maggio 1972, mentre usciva di casa,
il commissario Luigi Calabresi venne ucciso con due colpi di pistola. E il figlio
Mario rievoca oggi quel che avvenne e
quel che ne seguì. E noi, leggendo le sue
pagine, siamo investiti da aspri sentimenti di dolore e di indignazione. E veniamo ai fatti.
a) L’assassinio venne preceduto, e preparato, da una assillante, feroce, demenziale campagna di accuse. Calabresi venne
accusato di aver ucciso l’anarchico Pinelli, e ciò contro ogni prova ed evidenza.
b) Gli assassini vennero difesi dalla stampa di sinistra prima, durante, dopo il processo e anche dopo la loro condanna. La
loro “innocenza” venne ribadita per anni
e quasi sino ad oggi e nel contempo venne rilanciata la calunnia contro Calabresi.
È inutile tentare di distinguere, tra i “difensori”, gli imbecilli dai mascalzoni.
Mario Calabresi ha rievocato i fatti con
ammirevole senso della misura. Ha saputo contenere il suo dolore e il suo sdegno
grazie ad un controllo del linguaggio che
corrisponde alla conquistata consapevolezza di una superiore spiritualità. Ed è
stato all’altezza di tutto ciò che si riferisce alla tragedia che colpì la sua infanzia
e la sua giovinezza, e ferì tutta la sua famiglia.
Mario Calabresi non si è limitato a parlare della sua esperienza e di quella dei
suoi cari. È andato alla ricerca dei parenti delle altre vittime del terrorismo e in
questi incontri ha trovato, ed offerto, momenti altissimi di solidarietà e di com-
prensione per l’esperienza comune, sofferta e mai cancellata. Tra tutti loro vi era
la coscienza di un evento che aveva sconvolto il destino di ciascuna famiglia, segnandola per sempre.
È un libro ammirevole, questo, e noi siamo lieti di rendergliene testimonianza.
Nobilmente ne emergono le figure di coloro che furono al fianco degli orfani, in
primo luogo la madre, che affrontò durissime prove e le superò per amore dei figli e senso del dovere. Eppure anche la
madre venne investita dall’ odio e dalle
calunnie dei fanatici, e questo non cessa
di ferirci e di indignarci.
MARIO CALABRESI, Spingendo la notte più
in là, Mondadori, Milano 2007, pagine 134.
Luci ni , verso l i bero
di Giuliana Rovetta
Opportunamente, nel centenario della
pubblicazione del Verso Libero di Gian
Pietro Lucini, una ristampa anastatica per
i tipi di Interlinea editore, curata da Pier
Luigi Ferro, viene a rimuovere una patina
di oblio dalla figura dell’autore: uomo ribelle, appassionato e imprudente, critico
e poeta colto e perentorio nel giudizio,
acuto testimone del suo tempo, per di
più dotato di un intuito fortemente anticipatore. Precocemente vicino alle posizioni simboliste, di cui dà indicazioni
programmatiche già nell’Epistola Apologetica del 1895, poi sviluppate con valore quasi di manifesto nei Prolegomena
che aprono il Libro delle Figurazioni Ideali, Lucini sperimenta -primo in Italia- il
Vico Faggi Spingendo la notte più in là
PROSPEZIONI
67
Giuliana Rovetta Lucini, verso libero
68
PROSPEZIONI
verso libero in opposizione con gli istituti tradizionali della cultura e della retorica. Rispetto ai grandi del suo tempo si
pone in posizione fieramente critica verso Pascoli e D’Annunzio, sfidando con atteggiamento da maudit un sistema per
lui inaccettabile sia sul piano letterario
che su quello della vita civile e della libera espressione: rifiuta infatti sdegnosamente “il già fatto per fare il novissimo”,
e si avvicina quasi naturalmente al socialismo, poi parzialmente abbandonato, e a
forme di anarchismo, riguardo alle quali
si dichiara sensibile alle suggestioni di
Paul Adam.
La momentanea ma significativa vicinanza a Marinetti, del quale apprezza pubblicamente il volume di versi La Conquête
des Étoiles, consente a Lucini interventi
su Poesia, la rivista che lancia in quegli
anni dalle sue pagine la famosa inchiesta
internazionale sul verso libero. La riflessione avviata su questo tema sarà motivo
e spunto di una più ampia elaborazione e
rappresenterà il nucleo del Programma
del verso libero, pubblicato in volume nel
1908 dalle Edizioni di Poesia. Strano destino quello di un uomo che, mentre subisce a più riprese amputazioni dolorosissime nel corpo -toccato dalla malattia
fin dalla nascita-, vede intanto crescere a
dismisura il suo spirito battagliero, e travasa il frutto delle sue riflessioni, senza
riduzioni di sorta, in un’opera ipertrofica
e plurima: l’opera di un gigante che, a dispetto dell’inerzia fisica, si muove con
impeto, ambiziosamente proteso a costruire una poetica personale e controcorrente. Punti fondamentali sono per lui
la ricognizione della cultura europea fra
Otto e Novecento, in cui trova motivazioni ideali (“chi si rimira si ricompone”) e il
continuo aggiornamento, critico -e qualche volta autocritico-, del pensiero. Di
questo singolare sviluppo abnorme e inconsulto, quasi ingestibile, che assurge a
componente fondante del Verso Libero
sia in quanto approccio individuale dell’autore, sia come esperienza chiave nel
passaggio di secolo, viene dato puntualmente conto dal curatore nella sua premessa Un corpo collerico, isterico, disordinato: dell’opera viene messa in risalto la
matrice genetica e la abnorme crescita,
attraverso un percorso che dall’iniziale
progetto di un contributo sintetico alla
rivista Poesia, e poi alla progettata dimensione del “libercolo”, arriva per aggiunte e tappe successive alle oltre 600
pagine del risultato finale, giudicato da
Marinetti “veramente immortale”.
Nella complessa produzione di Lucini,
tutta caratterizzata da questa vocazione
all’incremento in itinere, specchio del
particolare suo modo di sviluppare il
pensiero secondo ragionamenti concatenati e riflessi, il Verso Libero rappresenta
una punta massima e non superata di lavoro critico e teorico ad ampio raggio,
che per sua sfortuna non trova spazio e
attenzione nel momento in cui prendono
piede le tecniche e le istanze assecondate dal gusto futurista. Inalberando in
esergo la condanna di Moréas alla critica
ufficiale (su cui il teorico del simbolismo
francese fa pendere le accuse di “courtevue, mauvaise foi e dédains gourmés”) e
non piegando il suo spirito polemico alle
smanie marinettiane successive al Manifesto, il poeta lariano con la sua spropositata opera si trova a rappresentare un
fenomeno isolato e non interamente
compreso: il vasto affresco delle lettere
italiane da lui delineato, l’insistenza sul
verso variamente e liberamente configurato “a seconda del pensiero”, la tentata
sintesi fra idealismo e naturalismo, ne
fanno una specie di eroe solitario, capace
di aprirsi ad una dimensione europea in
tempi di non diffuso internazionalismo,
con un occhio al futuro e solidi riferimenti nel passato. Considerato precursore assoluto della modernità da Viazzi e da
Sanguineti, che ne antologizza con un
certo rilievo i versi sul finire degli anni
Sessanta e ne caldeggia il recupero, a Lucini spetta oggi di diritto una rilettura attenta di quella che può ritenersi una au-
PROSPEZIONI
GIAN PIETRO LUCINI, Il Verso Libero, a
cura di Pier Luigi Ferro, Novara, Interlinea, 2008. Anastatica di Ragion poetica e
programma del verso libero, Edizione di
POESIA,1908.
Si zwe Banzi est mort
di Andrea Scarel
Regia perfetta ed attori straordinari. È forse
questo l’unico commento che sale alla mente quando le luci di sala si riaccendono e ci
si rende conto che lo spettacolo è finito, che
gli attori non torneranno più in scena a ringraziare e che ciascuno ritornerà alla propria vita quotidiana. Ed al teatro quotidiano.
Il fatto è questo, Sizwe Banzi est mort è uno
spettacolo di gran lunga superiore a tanto
teatro, a volte anche di buona qualità, che
quotidianamente alimenta le sale genovesi.
Si tratta di un lavoro essenziale in tutto, nelle scenografie, nella trama, nella regia e nella recitazione. Eppure è proprio questo suo
essere scarno a rendere Sizwe Banzi est
mort un lavoro straordinario. In primo luogo la trama: nel Sud Africa dell’Apartheid
Swize Banzi, con l’aiuto di un amico un poco più scaltro, ruba il Pass ad un cadavere
trovato casualmente per strada e ne assume
l’identità in modo da poter rimanere in città
in cerca di un lavoro e non essere ricacciato
nel povero paese d’origine. E questo avviene
in mezzo a pochi elementi scenici (qualche
cartone, uno sgabello, due piccoli pannelli
rotanti e poco altro) che divengono, di volta
in volta, porte, appendini, un telefono, ecc.
Ma non si pensi che, visto il tema affrontato, Sizwe Banzi est mort sia uno spettacolo dal forte peso emotivo. Il grande merito di Peter Brook (uno dei più importanti registi viventi ed autore di capitoli fondamentali della Storia del Teatro novecentesco) e dei suoi attori è proprio quel-
lo di aver affrontato un tema come
l’Apartheid col sorriso amaro di chi vuole ridere per non piangere. Sin dalle prime battute di Habib Dembélé, il quale
legge sul giornale notizie di varie catastrofi avvenute nei Paesi poveri, si intuisce la risata sarà protagonista. Del resto
questo straordinario attore subito dopo
racconterà per circa mezz’ora le tragicomiche vicende di quando era operaio alla
Ford e la successiva decisione di diventare fotografo. Esilaranti in questo senso
sono i preparativi (enormi) e la visita (tre
passi e poi via subito sulla limousine) di
Ford Jr. allo stabilimento sudafricano. E
avanti così per un’ora e mezza.
I pugni nello stomaco del pubblico però arrivano, pochi e proprio per questo ben assestati, ma arrivano in tutta la loro violenza.
Pitcho Womba Konga scatena tutta la rabbia
di un continente nelle sue parole ricalcate e
variate dal monologo di Iago ne Il mercante
di Venezia di Shakespeare. Commovente è
la ricerca di un lavoro da parte di Habib
Dembélé che, trasformatosi in un vecchio
con famiglia al seguito, vagabonda ricevendo solo porte in faccia. Pochi momenti si diceva, brevi ed interrotti quasi subito dalla risata. Una risata che però, man mano che lo
spettacolo avanza, diviene sempre più substrato del vero dramma africano.
Da parte loro Habib Dembélé e Pitcho Womba Konga sono due attori straordinari, naturali ma mai naturalistici. Habib Dembélé è
capace di esilaranti trasformismi da un personaggio all’altro, il capo bianco della filiale
Ford, il povero operaio, Ford Jr., lo scrivano,
se stesso che parla con se stesso, ecc. Ciascuno ha una sua mimica facciale, un suo
modo di camminare, una sua postura ed un
suo ritmo. Diverso il discorso per Pitcho
Womba Konga, il quale impersona un Sizwe
Banzi analfabeta, un poco bambinone e portatore di tutta quella rabbia che Habib Dembélé ha da tempo trasformato in tagliente
ironia.
ATHOL FUGARD, Sizwe Banzi est mort,
di Athol Fugard, John Kani e Winston
Andrea Scarel Sizwe Banzi est mort
tobiografia intellettuale particolarmente
ricca di umori, di concetti e di coraggiosa
esplicitazione.
69
Luigi Fenga Bacon
70
PROSPEZIONI
Ntshona. Con Habib Dembélé, Pitcho
Womba Konga. Scenografia Abdou Ouologuem. Regia Peter Brook. Produzione
CICT/théâtre des Bouffes du Nord. Teatro della Tosse, 1 e 2 aprile 2008.
Bacon
di Luigi Fenga
Due mostre d’arte nel Palazzo Reale di Milano, accostate per la loro personalità
esclusiva, non per qualche segno di competizione: Balla e Bacon (5 marzo – 29 giugno 2008; catalogo Skira di Bacon a cura di
Rudy Chiappini), due pittori, un italiano e
un irlandese; due epoche diverse, l’inizio
del secolo XX (Balla) e la sua maturità, il
dopoguerra (Bacon).
Balla e Bacon non hanno infatti nulla da
comunicarsi, tranne una totale estraneità. Della quale ben si stupisce il visitatore ignaro, mentre l’avveduto, o il conoscitore, travalicano il problema o al massimo si pongono la questione di come due
mondi dello spirito possano avere in comune soltanto l’esistenza.
Seguendo il percorso di Bacon senza alcuna prevenzione, il primo dato che colpisce
nelle sue tele è la rappresentazione quasi
ossessiva dell’immagine dell’uomo - un uomo spesso nudo - che, pur contraffatto da
molto di apposto, di imposto, di sottratto,
di sostituito, resta simile a un uomo o a
una sua maschera riconoscibile. Con il
quale artificio, Bacon, o vuole nascondere,
o vuole rivelare: nascondere il visibile per
quello che tale si rivela, rivelare l’invisibile
per quello che tale si nasconde. Il suo gioco potrebbe essere questo, ma naturalmente è una delle ipotesi che si possono
azzardare attorno a un artista che nel dare
chiede, nel rispondere tace. Dà chiedendo,
più che il consenso, una partecipazione, risponde tacendo, più che le intenzioni, la
sua vocazione.
Con Bacon siamo poi portati a domandarci
perché, nel ridefinire con la deformazione
l’aspetto dell’uomo, non si allontani da una
certa uniformità di mezzi, che tuttavia non
obbedisce a canoni di realismo. Ci si trova di
fronte a un complesso ingranaggio composto di distorsioni (forma+colore) orripilanti
– specie dei volti, ma molto spesso anche
dei corpi – e di normalità imprevedibili. È
probabile, come viene asserito da molti critici, che la deformazione deflagrante costituisca la parte spirituale, significativa, del
rappresentato, mentre la regolarità, p. e.
dell’elemento anatomico, costituirebbe il
dato più ovvio, e meno significativo. Si veda
come in Tre studi per figure alla base di una
Crocefissione (1944), le deformazioni delle
figure, portate all’estremo fantastico, conservino, di umanamente umano, solo il loro
trovarsi ai piedi del Crocefisso.
Certo, ci deve essere una storia molto complessa, una vita psicologica e una psicologia vitale, fortemente individuate in un artista come Bacon, sebbene, per ciò che si
conosce (l’omosessualità) la sua è alla fine
una storia tra le tante di sempre, anche se
è molto di oggi, nell’oggi, e per oggi.
E stiamo nell’oggi. Le tre grandi composizioni Studio per ritratto V, Studio per ritratto VII e Studio tratto dal ritratto di papa Innocenzo X di Velasquez, (tutti del
1953) hanno nel volto apparenze del morto e del vivo, un sorriso insensato e bocche spalancate per grido o per paralisi,
mentre il tronco inferiore è più chiaramente umano. Il Ritratto di Muriel Belcher
(1959) riesce a sbigottire; quello di Isabel
Rawsthorne (1966) muove a un sorriso
molto perplesso, e Tre studi di Georgie
Dyer (1969), non lasciano dubbi che il tormento delle fisionomie non corrisponda a
un tormento essenzialmente cerebrale.
Quasi tutte le opere in qualche modo si
ricalcano: in Autoritratto (1969), e in Tre
studi per un autoritratto (1972), tanto per
esemplificare, gli occhi sono spenti, le
guance sembrano ferite da un taglio, la
bocca è l’aborto di un ghigno; i colori, puri e forti, sono gettati lì, ma non casuali,
oppure la casualità cui l’artista accenna è
ingenerata.
PROSPEZIONI
sia frutto di sogno, di incubo, di visionarietà fantastica, di nevrosi, anche di patologia
mentale, resta però insistentemente e naturalisticamente umana. C’è soltanto
l’uomo nella pittura di Bacon.
A chiusura di questa rapida, e perciò insufficiente, escursione nella coloratissima
realtà pittorica di Bacon, un’ultima nota
riguarda una forma astratta di teatro non
astratto in cui sembrano immesse certe
prestazioni delle sue figure: i Due studi
per un ritratto di George Dyer (1968) mostrano, riflessi in uno specchio nero, due
uomini o uno solo, una verità che è inutile cercare, perché gli uomini di Bacon sono per definizione identici nello stravolgimento delle regolarità formali; Tre studi
di dorso maschile (1970) collegano tre scene di tre uomini che si radono la barba allo specchio, all’interno di un involucro lineare; Due figure con una scimmia (1973)
fanno intravedere due uomini, probabilmente in amore su un tavolo verde da gioco, e, sotto, una scimmia che forse ride.
Perché in Bacon c’è amore, molto amore,
l’amore che sente lui, e che ha un percorso
sempre anomalo: non a caso il catalogo
della mostra si chiude con Studio del corpo
umano e ritratto (1988): una testa, quella
di Bacon, all’interno di un quadro – o è una
foto? – posta sopra la parte inferiore di un
tronco – cosce divaricate, pene roseo, - il
tutto, nel rispecchiarsi su una superficie
lucida, con l’intento di ricostruire
l’interezza del corpo. La comunicazione è
diretta tra il sesso e il movimento, tra il
corpo senza mente e la mente senza il corpo. Il resto del mondo è accidentale ed
escluso.
Bacon (a cura di Rudy Chiappini), Palazzo reale, 5 marzo – 29 giugno 2008. Cata-
Luigi Fenga Bacon
I ritratti di Bacon sono una vera folla che
ossessiona lo spettatore, ma hanno tutti,
giova ripeterlo, molto di affine. Si è parlato di un’attribuzione scimmiesca alle fisionomie delle sue facce e certamente è
vero, pur con scarso rispetto per il muso
della scimmia, mentre per certi corpi,
Due figure (1961), Figura in rotazione
(1962), si può parlare di nude tortili colonne barocche. Pennellate larghe, spesso
sovrapposte, si legano a ditate, e a tratti
neri, filiformi, quali esito di disegno (Bacon è anche un buon disegnatore), in Figure in un paesaggio (1956-1957). E sono
sempre passioni, dolori, disperazioni; sono, secondo una bella definizione di Rudy Chiappini un “coacervo di fisicità e di
energia mentale”.
Ma gli esseri umani (maschi, si ricordi, in
prevalenza) si collocano anche in un rapporto molto originale con gli oggetti. E in
Studio per ritratto (1971), eccone uno, accasciato su una distorta ma riconoscibile
sedia direzionale, dalla faccia orrendamente cincischiata, forse quella di Bacon,
e dall’abito variamente ridotto a un intrico o a un incastro o a un incontro di superfici grigio-chiare, il tutto all’interno di
un complicato disegno geometrico rosa
verde e giallo; e in Isabel Rawsthorne a
Soho (circa 1965), una donna, faccia e
corpo scempiati, è condotta al martirio
della repellenza entro uno sfondo geometrico, dove, in secondo piano, brilla il
parafango bianco di una ruota d’auto.
Assenti gli animali eccetto la scimmia, rara
la natura, sempre presente invece l’uomo:
l’immagine umana non abbandona mai Bacon, e, per quanto maltrattata, presa a pugni, dilaniata con la mano o con oscuri
strumenti, non insinua mai il dubbio che
possa trattarsi di un essere diverso. Infine,
71
SCUOLA DI SCRITTURA
Docente: Renato Di Lorenzo
Primo incontro: mercoledì 17 settembre ore 18.00
Genova, SATURA Associazione Culturale
Nell’ambito delle sue molteplici attività l’Associazione Culturale SATURA, piazza Stella 5/1 Genova, organizza un corso di scrittura che si terrà a Palazzo Stella, sede dell’associazione. Il corso scaglionato in tre sessioni (base, avanzata e master), cui si può aderire separatamente, si terrà il mercoledì dalle ore 18.00 alle ore
19.30 a partire da mercoledì 17 settembre 2008. Le lezioni saranno tenute con la tecnica del workshop, quindi con commento diretto di testi, sia pubblicati, sia scritti dai partecipanti.
Per informazioni ed iscrizioni
telefonare ai numeri dell’associazione o comunicare attraverso e-mail: [email protected]
SCOPO: Non aspettare l’ispirazione: siediti e scrivi 2000 parole al giorno. È una frase di Stephen King, ma
non è applicabile solo alla letteratura commerciale. Anche nel mestiere di scrittore, come in qualunque altro
mestiere, nessuno nasce “imparato”. Hemingway ha riscritto 39 volte il finale di Addio alle Armi. Molti scrittori lamentano il rifiuto costante, da parte degli editori, dei loro manoscritti. Spesso, se non sempre, tale rifiuto però non è dettato da preconcetti, ma solo dal fatto che il manoscritto non è di già ad uno standard di
pubblicabilità, e quindi richiederebbe un lungo (e costoso) lavoro da parte dell’editor. Il manoscritto di carattere solo amatoriale si distingue già nelle prime cinque pagine. Lo scopo del corso è proprio questo: farvi
diventare dei professionisti pubblicabili.
GLI ARGOMENTI TRATTATI:
Elementi base (5 lezioni):
Less is more - Suspense - Conflitto - Show don’t tell - Plot
Corso Avanzato (8 lezioni):
Plot (II parte) - Lo Scopo - Tensione - Rischio - Personaggi - Il Cast - Dialogo - Luogo e Tempo
Livello Master (11 lezioni):
Premise - Tema - Riscrittura - Punto di vista - Similitudini e Metafore - Flashbacks - Dettagli - Sesso - Cliché Titolo - Il Finale
SONO PREVISTI SEMINARI AGGIUNTIVI DI SCRITTORI PROFESSIONISTI
IL MATERIALE DIDATTICO Verrà distribuita una dispensa al termine di ogni lezione. La raccolta delle
dispense sarà esaustiva e coprirà tutti gli argomenti necessari allo scrittore professionista.
IL COSTO La partecipazione al corso base è gratuita; sarà dovuta solo la quota di associazione a Satura.
IL RISULTATO Se nel corso delle lezioni un partecipante vorrà sottoporre il suo lavoro alla critica degli
altri partecipanti, facendogli quindi assumere uno spessore professionale, al termine delle tre sessioni tale
lavoro sarà proposto ad uno dei grandi agenti letterari internazionali, con sede in Germania, o altro di pari
livello, che ne potrà assumere la rappresentanza a suo giudizio insindacabile.
IL DOCENTE PRINCIPALE Renato Di Lorenzo ([email protected]), giornalista e scrittore, soprannominato
il padre del financial thriller italiano, ha pubblicato i romanzi L’Assalto (Mondadori Omnibus, 2003), Evidenze
(Foschi, 2004), Tara (Foschi, 2005), Katarina e il Pericolo della Neve (Foschi 2006), I Trafficanti (Hobby & Work,
2006), oltre una lunga serie di saggi di grande successo per Il Sole 24 ORE che hanno venduto oltre 150.000
copie. Ha prodotto anche un manuale di scrittura creativa: Smettetela di Piangervi Addosso e Scrivete un
Bestseller (Gribaudo 2006). Come narratore si inserisce nella corrente letteraria del new journalism di Tom
Wolfe. Dal 2005 è curatore per l’associazione culturale Satura della rassegna letteraria La Letteratura del
Crimine e della Scuola Satura di Scrittura Creativa.
INTERVISTA
“Frequenta, ragazza, lo studio di Collina e di Renata Cuneo, dipinge i suoi primi quadri con molta proprietà, nature morte gradevoli per colore e per struttura. Milly Coda dipinge anche paesaggi, colti sul vero e filtrati dalla sensibilità coloristica.
Ma poi la vita la prende per mano, con ferma seppure dolce determinazione e la allontana dal mondo della pittura come attività continuativa e concreta. È una parentesi, lungo un arco di tempo non breve, peraltro ben impiegato nell’ordine di una fedele
dedizione ai valori della famiglia.
Ma poi l’arte si ripresenta, bussa alla porta, fa valere le sue ragioni, reclamando l’impegno di Milly e stimolandone pensieri e sen-
Il Fantasvento. Storia di una bambina nel '44
2000 - pastello ad olio su carta, diametro cm 44
Vico Faggi Dedicato a Milly Coda
Dedicato a Milly Coda
Qualche pensiero ed una poesia
73
INTERVISTA
Vico Faggi Dedicato a Milly Coda
74
Götterdammerung
1991 - pastello ad olio su carta, 32x24 cm
sibilità. Si apre una nuova stagione
artistica. Ed è di questo lavoro, che
all’artista si è offerto, che l’artista ha
servito, che ci occuperemo in queste
righe, volgendoci ai quadri che essa è
andata dipingendo nel giro degli anni che partono dal 1991.
Diciamo subito che si è verificata una
felice sintesi di strumenti e attitudini.
Lo strumento principe è il pastello, il
pastello ad olio su carta, e l’attitudine
risiede nella fantasia che si indirizza ad
un mondo governato da leggi sue proprie, dove le forme sono più suggerite,
che delineate, dove lo sfumato surroga
le piene campiture e dove corpi e oggetti, disincarnandosi, assumono valenze simboliche.
Un velo delicatamente colorato si
frappone tra il nostro sguardo e la
superficie dipinta. I pastelli, posandosi sul foglio, lasciano lievi tracce
che la fantasia è chiamata ad integrare ad interpretare, sollecitata dal tono generale. Il colore si sfarina sui
granuli della carta oppure si distende in liquide trasparenze, propiziando il lavoro dello sguardo. La pittrice
ha scelto il suo strumento e ne mette a frutto le potenzialità traducendo
in valori pittorici le immagini (di fiaba, di sogno o dormiveglia) che affiorano dalla sua interiorità.
Pittura simbolista, dunque, che evoca
figure di bellezza inserendole in un
continuum che ad esse è congeniale,
INTERVISTA
75
Vico Faggi Dedicato a Milly Coda
I sogni dell'alba
1995 - pastello ad olio su carta 14x13,5 cm
posto che il tutto viene restituito per atmosfere e trasparenze, per
aure e barbagli, in un discorso pittorico che si giova di suggestioni
sottili e si nutre dell’aspirazione ad un universo musicale.
Questo dunque è il mondo di Milly Coda, quale si è figurato col suo
ritorno alla pittura. Lontana ormai dai temi e stilemi del suo esordio
savonese, essa respira ora in un clima che scaturisce da certe propaggini del tardo romanticismo e del simbolismo, che ben corrispondono alle sue aspirazioni e convinzioni. Qualche nome? Il primo che ci
viene in mente, è quello di Friedrich, segue quello di Turner, e, per
qualche aspetto, quello di Dante Gabriel Rossetti... Pensiamo anche,
per qualche sfumatura, ad un Redon e ad un Gustave Moreau (senza
perversità e teratologie).
Inoltriamoci dunque tra le opere di Milly Coda soffermandoci là
dove più sicuro è il salto dell’immaginario, dove meglio lo strumento ha assecondato l’intenzione. Non sarà il nostro, un discorso esaustivo, che segua passo passo la produzione di questi anni, sarà un accenno a certi quadri che più ci hanno colpito e interessato per qualità pittorica e complessità tematica. Un elenco?
INTERVISTA
Vico Faggi Dedicato a Milly Coda
76
Dulcinea nel cielo
2005 - pastello ad olio su carta 35x50 cm
“Götterdammerung”, “Les enfants du Paradis”, “Paul et Virginie”,
“I sogni dell’alba”, “L’approdo”...
Il wagneriano crepuscolo degli dei è una tessitura di paesaggio-figure, dominanti gli azzurri con alcune note gialle e, sullo sfondo, il rosseggiare di un monte che presenta l’aurora: il tutto in un’aura tra
l’incantato e lo stupito, gremita di aspirazioni e di presagi. Ne “Les
INTERVISTA
77
Vico Faggi Dedicato a Milly Coda
Capo Noli
2000 - pastello ad olio su carta 21x10 cm
enfants du Paradis” la visione si propone come se fosse percepita da
un occhio infantile, pieno di meraviglia per i bei colori che arieggiano certi impasti di Moreau, al riparo delle alte rocce che chiudono
l’orizzonte. Di fronte ad un ghiacciaio (“Inlandsis”) si apre un mondo
subacqueo di tinte fredde e raggelate, tra rocce ed acque la natura vive nella sua sacralità, un poco severa, allarmante forse, abitata da un
essere embrionale che si ritira in un angolo.
Nei quattro momenti di “Paul et Virginie” si articola una vicenda di
fiaba e avventura, illuminata dall’arcobaleno, entro la foresta tra vegetazione e rocce: e le figure tenere del bambino, della bambina...Ne
“I sogni dell’alba” confluiscono, senza sovrapporsi, i motivi dell’immaginario di Milly, e sono le acque, sorprendentemente, la cascata, i
fiori, gli animali misteriosi, i bei corpi ben modellati che si intravvedono; e c’è una natura che sembra destarsi dal suo stato primigenio
per accogliere l’uomo, la donna, i loro sentimenti. E proprio sul fondo delle acque sorprendentemente la luna sta tramontando. Il quadro è significativo per quel che rivela del rapporto tra il femminile e
il maschile: il timore e l’attrazione che la donna subisce, il suo fuggire, il desiderio di essere inseguita, la paura di essere delusa...
Abbiamo lasciato per ultimo “l’Approdo”, dove viene raffigurata
non la fuga ma il suo opposto, l’incontro, dove l’equorea creatura
cerca e trova amorevolmente rifugio.
Il delicato tono coloristico si concilia a perfezione con la psicologia del racconto. Ed è proprio questo valore che, concludendo,
vorremmo sottolineare, vale a dire il rapporto felice tra il tema
del quadro (di questo quadro come gli altri) e il tessuto coloristico che accoglie, sviluppa ed invera il tema medesimo, in funzione di una fantasia che reclama i diritti e lo status della poesia.
Vico Faggi
Vico Faggi Dedicato a Milly Coda
78
INTERVISTA
***
Questi sfumati queste velature
le luci submarine
le celestiali luci
i corpi che si celano, si svelano,
l’offrirsi e il ritrarsi delle cose:
io conosco, Milly, il tuo universo
onirico e carnale
tattile, spirituale.
È l’universo della fantasia
pullulante di mondi
che nel cuore nascondi,
e così sia.
*
Ces nuages estompés, ces glacis
les lumières sous marines
célestes lumières
les corps qui se cachent et puis qui se dévoilent,
ces choses qui s’offrent et puis qui se nient;
je le connais ton univers, Milly
onirique, charnel,
spirituel, tactile.
C’est l’univers de la rêverie
pullulant des mondes
que dans ton coeur tu caches,
et ainsi soit-t-il.
***
INTERVISTA
Vico Faggi
Vico Faggi Dedicato a Milly Coda
Questa è la poesia che ho dedicato a Milly Coda,
pubblicata su “Amici Pittori” nell’edizione del 2005,
dove lei è presente con il quadro “Miticamente ti ho
evocata”, ispirato ad alcune poesie del mio libro “La
Signora d’Albuison”.
La cura del libro e la traduzione in francese dei testi,
sono ancora opera meritoria di Milly Coda.
Essa è, quindi, pittrice, traduttrice e scrittrice. Poliedrica Milly. Così l’ho definita nella mia presentazione al suo quarto libro di poesie “La stessa luna”, dove si evidenzia l’immagine di una poesia che cresce
e resta fedele al suo forte, intimo legame con i momenti più alti dell’esistenza, rivissuti nella loro autenticità....Il passato, che non passa, che non deve
passare, è il patrimonio vitale di uno spirito che non
cessa di interrogarlo, di rivisitarlo, per farlo risuonare in interiore in tutta la sua umanissima ricchezza,
la sua struggente pregnanza.
Altri apporti alla poesia si sono concretati in libri come “I blu i verdi i rosa i latti”, “Dedicato alla luna”,
“Diario di Delfo Diario di Milly, “Mare-e” e “Salutate Delfo per me”.
In corso di stampa le poesie di “Dimore”, suggestiva
ricerca del tempo mitico dell’infanzia e dei luoghi e
delle figure che le furono compagne nel periodo del
suo affacciarsi alla scoperta della vita.
79
INTERVISTA
Vico Faggi Dedicato a Milly Coda
80
(sopra) Habitat Pinoculi
2002 - pastello ad olio su carta 50x70 cm
(a destra) Martini 2
2001 - pastello ad olio su carta 50x70 cm
81
INTERVISTA
Vico Faggi Dedicato a Milly Coda
INTERVISTA
Parla Milly Coda
82
Parla Milly Coda
Vico Faggi scrisse di me la prima volta nel 1995, in
occasione della mia personale “I Rifugi dell’Immaginario” all’Antico Castello di Rapallo. Conobbi Mirta, sua
moglie, e tra noi si venne a creare un sincero vincolo di
profonda amicizia.
Ma credo che la fonte di questa nostra amicizia risalga ad un tempo anteriore, il tempo di guerra, quando mio fratello Delfo, che aveva diciotto anni, venne
ucciso dai Tedeschi. Penso che lo stesso Delfo abbia
voluto il nostro incontro. Vico Faggi era stato anch’egli partigiano e a lui toccò in sorte il compito,
nel 1998, di scrivere la prefazione al “Diario di Delfo Diario di Milly”.
Nel 2004, a mia volta, dedicai a Faggi una poesia, che
diede titolo al mio libro “La stessa luna”, dove sono
sue le parole tra virgolette nell’ultima strofa e nel primo verso: Quella “luna più gialla della paglia”, che, per
preludio di sorte, fu la stessa luna che io disegnai sul
mio diario di bambina, la sera di quell’autunno,
l’ultima volta che Delfo mi portò sulle sue spalle:
INTERVISTA
83
Parla Milly Coda
“La stessa luna”
Sotto “una luna più gialla della paglia”
tu combattevi e già scrivevi versi,
sotto la stessa luna, quell’autunno,
io mi rivedo in quei disegni avversi.
Ritornavamo da casa dell’Annetta
e Delfo mi portava sulle spalle.
Avevo freddo, sonno e un po’ paura,
ma lui cantava e mi teneva stretta.
Mio padre, avanti, rischiarava il passo
con la sua torcia in scorza di betulla.
Era una sera fredda e silenziosa
e da vicino cantava la civetta.
Ma noi che cantavamo senza posa,
non l’abbiamo sentita. Era destino.
Già Delfo, aveva fatto la sua scelta
e né i suoi cari, né la luna o Annetta
avrebbero fermato il suo cammino.
E da quei giorni, su sentieri alpini
l’erica rossa e i rododendri nani
i mirtilli, le fragole e i lamponi
lascian color di sangue tra le mani.
E mentre “i fiori selvatici dei prati
continueranno a gridare il” loro “nome”
tu, che sei qui con me a ricordarli,
hai riportato Delfo alle mie mani.
Milly Coda
Gianluigi Gentile Un’America, tante Americhe
84
UN’AMERICA, TANTE AMERICHE
Un’America, tante Americhe
Dell’America si parla continuamente, si cerca di capirne i valori,
nella consapevolezza che questo serve non solo alla conoscenza
di quel Paese, ma soprattutto ad analizzare e riconoscere i valori della civiltà contemporanea nei suoi fenomeni emergenti, ad
anticipare le più importanti attese, cogliendo anche le indicazioni delle svolte più rischiose insite nel processo evolutivo della civiltà occidentale.
In America si realizzano per buona parte, con ampio anticipo, gli
eventi positivi e negativi destinati a costituire l’avventura della nostra vita individuale e collettiva; questo vale sostanzialmente non
solo per i paesi occidentali ma anche per quelli che in qualche modo possono definirsi antagonisti, come la Russia e la Cina.
A fronte di questa funzione d’avanguardia del bene e del male,
troviamo una cultura che, operando nel presente e nel futuro,
non ha rinunciato al recupero del proprio passato, alla ricerca di
una tradizione che consentisse, attraverso la pluralità delle forme d’espressione, la rifondazione di un linguaggio unitario, mirato al superamento delle origini filologiche, per giungere all’espressione di una realtà autonoma e scevra da debiti verso le
esperienze altrui.
Chiedersi se questa linea culturale rappresenta il superamento
del cosiddetto “complesso dell’Europa”, o se non sia stato lo stimolo segreto di questo complesso, a motivare la ricerca di
un’identità culturale, che dobbiamo dare ormai per acquisita,
può essere considerato sostanzialmente un falso dilemma di
fronte agli eventi culturali determinatisi soprattutto nella seconda metà del Novecento.
Il passaggio delle consegne fra la cultura (e il mercato) dell’arte
della vecchia Europa e quella del Nuovo Mondo avviene sotto
l’impulso di cause strutturali concomitanti, in un quadro storico
mondiale in cui quasi tutti i paesi sono ancora alle prese con le
conseguenze politiche, sociali ed economiche della prima guerra
mondiale: in Europa, il nazifascismo incombente determina
l’emigrazione di molti artisti che trovano rifugio e accoglienza in
istituzioni come la New School di New York, il Black Mountain
College, North Carolina, la New Bauhaus di Chicago.
Attraverso queste sedi si compie un vero e proprio fenomeno
d’osmosi fra le culture dei due mondi, favorito, sul versante americano, dai provvedimenti adottati a favore dei giovani artisti con
l’attuazione del New Deal rooseveltiano, predisposto per far
fronte alle conseguenze della Depressione del 1929.
UN’AMERICA, TANTE AMERICHE
85
Gianluigi Gentile Un’America, tante Americhe
GEORGE GROSZ New York Skyline
Gianluigi Gentile Un’America, tante Americhe
86
UN’AMERICA, TANTE AMERICHE
Questo passaggio storico, verificatosi peraltro in condizioni di tensione
sociale e politica, rappresenta la prova del fuoco per la capacità di rielaborazione autonoma da parte della
cultura artistica americana.
Anni fa, Louis Bromfield, nel saggio
Profile of America, scriveva in proposito: “Pur non essendo gli Americani
culturalmente e tradizionalmente un
popolo del tutto nuovo, ma gli eredi
di tutte le culture d’Europa, bisogna
convenire, tuttavia, entro una cornice
politica ed economica, che essi hanno
operato, fin da principio, un netto distacco dalle forme del vecchio mondo
e che, ancor oggi, l’America è, in larga misura, un mondo nuovo”.
A riprova, la storia ci offre uno spunto significativo: dal 1935 al 1943 si
sviluppò in America il Federal Art
Project, nell’ambito del quale si costituì, nel 1937, il gruppo AAA (American Abstract Artists) che perseguiva, fra gli altri, l’obiettivo dell’unità
degli artisti americani e la ricerca interdisciplinare.
Storicamente, la mostra “American Art
Today”, ospitata nel 1939 dall’Esposizione Universale di New York sancisce
la volontà d’autonomia da parte degli
artisti americani, sicuramente alimentata da un terreno fertile, consolidato
negli anni successivi attraverso
l’American Way of Life, che configura
un modello di società strutturato sul
pragmatismo mercantile e su di una
spiccata attitudine ai cambiamenti e alla gestione dell’indeterminatezza.
Fra le iniziative spontanee di scambio
culturale che si svilupparono in quegli
anni, sicuramente la scuola fondata da
Hans Hofman ebbe un ruolo determinante nel trasmettere ai giovani artisti
americani le basi della moderna pittura europea, con riferimento soprattutto al cubismo e al fauvismo.
HANS HOFMAN bacchanale
La mostra di Pollock del 1943 in qualche
modo rappresenta il definitivo taglio del
cordone ombelicale, dando il via alla fase dell’espressionismo astratto (le cui figure di punta è ormai inutile ricordare),
Il suo quadro Easter and the totem può
essere considerato un emblematico
anello di congiunzione fra l’eredità culturale europea (si consideri l’influsso di
Matisse e dello stesso Hofman) e gli sviluppi successivi dell’action painting e
delle stagioni di creatività autonoma sviluppate da Jasper Johons, Robert Rauschemberg, Jim Dine, James Rosenquist,
Roy Lichtenstein, Andy Warhol, Keith
Haring, Jean Michel Basquiat, che ci hanno portato alla fase di cui ci stiamo occupando attualmente.
Nel 1927 Heisemberg, formulando il
principio d’indeterminazione aveva
fornito il supporto teorico a quello
che in seguito sarebbe divenuto il sistema di vita del Nuovo Continente,
destinato a confrontarsi in piena au-
UN’AMERICA, TANTE AMERICHE
87
Gianluigi Gentile Un’America, tante Americhe
JACKSON POLLOK easter and the totem
ROBERT RAUSCHEMBERG interview
tonomia con la weltanshaung determinista della vecchia Europa.
Bisogna arrivare alla fine degli anni
cinquanta, precisamente nel 1958, per
trovare un evento culturale che costituisce una pietra miliare significativa
agli effetti di questo confronto.
In quell’anno John Cage, nel laboratorio creativo organizzato presso la New
School for Social Research, mise in opera un paradigma, definito da Philip Corner “l’atto del lancio di pezzi della realtà sul pubblico”, dei principi
d’Indeterminatezza e di Complementarietà, destinati ad influenzare, insieme
con una forte componente Zen, i movimenti successivi a Fluxus, dalla New
Music, alla Land Art, alla Minimal Art.
Non si può acquisire criticamente la
presenza contemporanea di tanti artisti, con personalità e con strumenti
espressivi così diversi, senza prendere
in considerazione questo background
che li accomuna nella diversità.
Un esempio di questa “comunanza nella diversità” si è già avuto nella recente
Whithney Biennal 2008, tenutasi in Madison Avenue e negli spazi dell’Armory, storico edificio fra Park Avenue e la
67a, uno dei punti di riferimento ormai
mondiale per la critica e il mercato.
Storicizzando l’analisi di quest’evento
e di quello dell’American Art Festival,
emerge un quadro di riferimento all’interno del quale punti di vista e suggestioni si moltiplicano, si sdoppiano,
assumono le forme più diverse.
L’architettura, che in America ha conosciuto momenti d’estrema vitalità
(basti ricordare l’opera pedagogica
di Gropius, le figure di Wright, di
Mies, di Louis Kahn e, più recentemente l’opera dei Five Architects,
che fa capo a Meyer) gioca un ruolo
importante nella formazione di questo quadro di riferimento.
L’insieme probante delle singole realizzazioni eccellenti ha dovuto tutta-
UN’AMERICA, TANTE AMERICHE
Gianluigi Gentile Un’America, tante Americhe
88
ANDY WARHOL Mick Jagger
UN’AMERICA, TANTE AMERICHE
Gianluigi Gentile Un’America, tante Americhe
via confrontarsi con l’oggettiva difficoltà di un innesto sulle radici profonde di quella che Fitch come sociologo chiama “la vitalità totale” della società americana, storicamente attratta da due
polarità opposte: da un lato la tematica metropolitana, germogliata dallo sviluppo industriale e dal pragmatismo imprenditoriale, dall’altro l’America bucolica, che si rifugia nel balloon frame delle abitazioni in legno diradate nell’hinterland.
Queste due Americhe hanno sempre convissuto nello stesso individuo senza trovare una sintesi in uno spazio architettonico dedicato.
L’occasione dell’American Art Festival ci consente di analizzare
un ventaglio abbastanza vasto e significativo di testimonianze
sull’attuale stato dell’arte negli Stati Uniti.
Dai segnali che ci è dato di interpretare attraverso il materiale
predisposto dal gruppo che fa capo a Karl Stirner, sembra di poter osservare come vi sia una chiara percezione della realtà in via
di formazione, di là dalla posizione critica manifestata da ciascun artista.
Una prima lettura possibile è quella di un’America decisamente
non omologata nei contenuti e nelle forme; sembra anzi di poter
cogliere, nel suo determinarsi, la pulsione verso un’unità dialettica, dove ogni carattere, fino a quello individuale, possa confluire, con la propria espressione, in un metaprogetto variamente articolato ma condiviso nell’ambito di una collettività operante.
La globalizzazione, con le sue implicazioni, recentemente anche
tragiche, ha, di fatto, provocato, nel vecchio e nel nuovo continente, l’invecchiamento dell’antinomia city-hinterland, dilatandola nel confronto fra la consapevolezza di una realtà metacontinentale e la necessità di riconsiderare le pulsioni più profonde
dell’individuo e della sua identità subconscia e corporea.
I messaggi che giungono da Easton consentono di formulare sub
condicione alcune ipotesi di possibile rielaborazione critica, anticipando un panorama figurativo e culturale da verificare entrando nel merito dei contenuti dell’evento.
Il processo di ricerca di un’identità culturale ed artistica
d’ambito continentale ha dovuto confrontarsi col fenomeno della globalizzazione, che in qualche modo sta passando un colpo
di spugna sull’antinomia tra Vecchio e Nuovo Mondo, mettendo
ormai l’intero pianeta di fronte a problemi sempre più comuni e
sempre più interconnessi.
La ricaduta di questo stato di fatto è l’assenza di grandi correnti artistiche, poiché queste storicamente hanno trovato il loro
terreno di coltura nella convergenza di orientamenti ideologici e
culturali su scala nazionale.
A fronte di quest’assenza di nuove direttrici estetiche, il percorso più pregnante per chi si pone oggi di fronte al problema di
esprimere la propria creatività, sembra essere quello di sondare
fino alle estreme possibilità strumenti e metodi, consolidati sto-
89
Gianluigi Gentile Un’America, tante Americhe
90
UN’AMERICA, TANTE AMERICHE
ricamente, ma che sembrano non
avere del tutto esaurito le loro potenzialità di comunicazione.
Il riferimento storico e culturale più importante nel panorama degli statements che abbiamo di fronte, sembra
essere quello della matrice espressionista, sia nella sua coniugazione astratta
sia in quella figurativa, a riprova del
fatto che l’onda lunga dell’immigrazione di personalità creative, determinatasi dal Nord Europa negli anni trenta del
secolo scorso, si è stabilizzata come costante culturale, trascendendo dal ruolo di corrente artistica.
Un’altra costante è sicuramente costituita dall’approccio figurativo tradizionale, rivisitato in chiave ironica, talvolta vagamente onirica e riconducibile in qualche modo agli influssi surrealisti, mentre è persistente la volontà di rivisitare le potenzialità espressive del cubismo e del new dada.
Appare in ogni caso sempre più problematico ricondurre la pluralità dei
contributi a poche categorie identificabili, anche se in qualche modo si
può, con buon’approssimazione cogliere una valenza trasversale che travalica le differenti formule espressive
e in base alla quale è possibile ipotizzare che la componente della creatività, basta sulla creazione del mito e sul
suo utilizzo in funzione di transfert
comunicativo, superata in apparenza
dall’arte programmata, dall’elaborazione digitale e dalle composizioni cinetiche, stia riemergendo come costante culturale, fino ad imporre la
sua connotazione ad un settore molto
vasto dell’attuale produzione artistica.
Secondo un giudizio formulato da Gillo
Dorfles, nel saggio “Ultime tendenze
nell’arte d’oggi”, (Feltrinelli 2006).
Dietro il mito della concettualizzazione si
sono affermati i nuovi rituali della feticizzazione dell’unicum, dell’idolatria del
“fatto a mano”; dei cerimoniali delle “mitologie personali”, delle Selbstadarstellungen, dei comportamentismi Zen…
E’ lecito chiederci a questo punto se
ci troviamo a percorrere una nuova
forma di eclettismo congiunturale,
destinato a lasciare il campo ad una
rinascenza strutturalmente più consistente, o se invece dobbiamo leggere i sintomi di un approccio diverso
nella reinterpretazione creativa della
realtà, attraverso codici individuali
desunti dall’introspezione antropologica, che esplorano i territori della
magia, dell’ironia e del subconscio.
A questo dilemma non è possibile,
credo, dare risposta se non disponendo di una campionatura storicamente più allargata, nel momento in
cui sarà possibile individuare con
chiarezza, attraverso una stabilizzazione dei ruoli dei mass media, un
processo evolutivo basato su di una
prassi culturale che trascenda i condizionamenti speculativi, esasperati
dalla logica mercatista.
Quest’obiettivo di sviluppo, che per ora
è consentito configurare unicamente
sotto forma utopica, potrebbe costituire attendibilmente un quadro di riferimento capace di incentivare la nascita
di prodotti artistici finalmente segnati
dall’impronta di una qualità estetica verificabile e fruibile da una base di pubblico in progressiva espansione.
Gianluigi Gentile
AMERICAN ART FESTIVAL
a cura di Karl Stirner, Mario Napoli, Mario Pepe, Maria Tagliafierro.
Genova, SATURA Associazione Culturale
Genova dà il benvenuto ad un gruppo di artisti americani, pittori, fotografi, scultori, che fanno parte del Easton Circle formatosi intorno
alla figura carismatica di Karl Stirner, che da New York e da varie parti degli Stati Uniti si sono trasferiti a Easton, una cittadina della Pennysilvania, per trovare spazi più adeguati alle loro attività.
L’Associazione Satura li ospita per una collettiva che si sviluppa in
mezzo ad eventi culturali collaterali che sottolineano festosamente
l’incontro.
Quest’anno possiamo dire che l’arte americana è di moda in Italia. Si
è appena conclusa a Brescia al Museo di Santa Giulia, per la prima
volta nel nostro Paese, una grande mostra sulla pittura americana
dell’ottocento in cui si assiste alla celebrazione dei grandi spazi da
parte dei pittori della Hudson River School, ai viaggi di artisti americani alla scoperta dell’Italia, fino alle influenze della pittura impressionista.
Per quanto riguarda l’arte americana del novecento, la Liguria si è distinta per aver ospitato a Bordighera negli anni ’50 una selezione di
pittori statunitensi tratti dalla celebre collezione di Peggy Guggenheim già presentata alla Biennale del 1948. Furono riproposti per la
rassegna ligure del ’53, all’attenzione del pubblico e della critica artisti oggi universalmente conosciuti come Pollock, Rotko, Gorky, Matta. La Mostra di Pittura Americana del ’55 fu apertamente figurativa
rivelando al grande pubblico artisti come Hopper, Feininger e Ben
Shahn e lanciando alcuni giovani artisti di talento alle prime armi: Beverly Pepper, Dimitri Hadzi e Jack Zajac passati poi con notevole successo alla scultura.
Inoltre, a Genova nel ’79 e nel’80, in occasione del Festival Internazionale della Poesia ideato da Edoardo Sanguineti e Attilio Sartori, confluirono poeti e letterati americani della beat generation come Allen
Ginsberg che lessero testi di Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti e
Jack Kerouac.
In questo American Art Festival che si tiene nei locali dell’Associazione Satura ci sono varie tendenze dell’arte americana contemporanea.
Innanzitutto c’è Karl Stirner lo scultore che, dopo aver insegnato alla
Temple University di Philadelfia si è spostato a New York e infine a Easton dove il recupero di una dismessa fabbrica di mattoni divenuta il
suo studio e la sua galleria, ha catalizzato la rinascita culturale di que-
Mario Pepe Genova meets Easton
GENOVA MEETS EASTON
AMERICAN ART FESTIVAL
14 giugno - 8 luglio 2008
91
AMERICAN ART FESTIVAL
Mario Pepe Genova meets Easton
92
LOUIS LAMONT, An evening at the cass
1986, pastel, 38.1x48.3 cm
sta cittadina non distante da New York.
Molti artisti seguendo il suo esempio si
sono trasferiti a Easton aprendo studi e
gallerie creando la comunità artistica
del “Easton Circle”, dando un notevole
impulso all’economia della città, che riconoscente ha proclamato il mese di
settembre del 2000 come “Karl Stirner
Month”. Nel suo atelier-officina Karl lavora col ferro, spesso recuperato dai residui della civiltà industriale, mirando
all’essenzialità delle sue sculture con rigoroso minimalismo formale che non
gli impedisce di trasmettere significati
vitali profondi. L’opera che presenta a
Genova fa parte di una serie che si riferisce alla morte di sua moglie Barbara:
un grande recipiente cilindrico viene
violentemente compresso riducendosi
ad un ammasso compatto ed acquistando così una nuova forma, quasi a mimare l’indistruttibilità dell’individuo e il
permanere della sua memoria.
Gli artisti scelti da Karl esprimono le attuali tendenze dell’arte americana che
partecipa della globalizzazione ed ha
pertanto caratteristiche del tutto analoghe se non identiche a quelle europee.
Anche per l’arte americana infatti stanno scomparendo le linee di demarcazione tra le tradizionali categorie arti-
stiche, tra le diverse forme di cultura e
di rappresentazione che si mescolano
arricchendosi anche di contributi extra
occidentali. Il “postmoderno” incalza
con la sua perdita di riferimenti storici,
schiacciando passato e futuro su di un
perpetuo presente, alimentando la sfiducia nell’idea di progresso del sapere.
I modelli di comunicazione mutano insieme ai supporti tecnologici che li sostengono e frammentano sempre più
velocemente l’immagine collettiva dei
comportamenti sociali. All’arte visiva
non rimane che ripensare se stessa attraverso un recupero critico delle immagini ereditate dal novecento con citazioni rivisitate e spesso ironiche. Il
patrimonio culturale del passato viene
riletto in una sintesi nuova che mescola culture d’élite e culture popolari privandole della loro valenza storica e riversandole in un flusso omologante di
massima referenzialità previsto già dal
1936 da Walter Benjamin.
Così Ann Harding rivisita l’action painting riscoprendo l’approccio spontaneo
e gestuale sulla superficie tattile della
rappresentazione astratta, mentre Jay
MARY ANN MILLER, lucia/agnus
2006, acrylic paint and oil crayon on wood,
61x61 cm
AMERICAN ART FESTIVAL
Mario Pepe Genova meets Easton
Milder la vive nella sua dimensione
espressionista e Bill Barrell crea punti
di energia pura per trasmetterli allo
spettatore. Anche Brian Gormley si serve dell’espressionismo astratto ma con
punti di contatto con l’informale: le
aree brillantemente colorate non costituiscono un insieme compatto ma sono
isole galleggianti in un nero allusivo alle catastrofi incombenti. I tondi di Berisford Boothe vanno alle radici della
pratica artistica svolgendo percorsi rituali che emanano energia vitale. Il ritorno al figurativo si tinge di feroce ironia in Nancy Marshall che si chiede chi
stiamo ammirando e che cosa, mentre
Mary Ann Miller riscopre il gusto della
semplificazione dell’immagine, quasi
un archetipo che trasmetta i rudimenti
dell’identità umana sia genetica che
culturale. Per Ken Kewley e Martha
Whistler sotto l’apparenza di una
scomposizione cubista della figura
umana si celano esigenze di costruzione razionale delle forme e dei colori
che li collegano alla pittura analitica.
Andrea Fantechi prende le sue immagini dalla vita quotidiana trasformandole
in icone-messaggi apparentemente
semplificati con soluzioni grafiche che
ricordano la Pop britannica. I ritratti
espressionisti di Paul Matthews e di
Barnaby Ruhe emanano la forza dell’introspezione psicologica. Sempre nell’ambito figurativo sono presenti anche
Maria Tagliafierro, che ha fatto a lungo
parte del Easton Circle, con i suoi fiori
solari e Guido Gelcich con le sue corpose figure femminili. Per il paesaggio, il
ponte verso i sogni di Easton è una ironica incisione di Charles Klabunde costruita come una vecchia stampa giapponese. Gli interni desolati degli ambienti urbani sono descritti da Louis Lamont con ricchezza di dettagli e parte-
93
AURELIO CAMINATI, Jimmy Hendrix
2008, olio su tela e tecnica mista, 30x80 cm
cipazione emotiva. Isadore LaDuca parte da un’immagine fotografica che
piazza al centro di un intervento pittorico teso ad inquadrare l’individuo dentro la complessità dell’esistenza, in un
universo di dualismi vicino-lontano,
passato-presente. Sul fronte del materico i “dipinti” di Steve Tobin sono costituiti da strati di viti e chiodi le cui qualità utilitaristiche si sono trasformate
in equilibrate tessiture, che rimandano
comunque all’abbandono degli scarti
della società industriale. Anche la fotografia di Alyssa Csük ricerca nelle rovine industriali le asperità delle superfici
del ferro e dell’acciao per isolarne suggestive immagini astratte. La fotografia
di Larry Fink invece punta alla costruzione di un’immagine con frammenti
provenienti da contesti differenti la cui
lettura complessiva risulta misteriosa
ed inquietante. Sono inoltre presenti
nella mostra genovese anche esponenti
AMERICAN ART FESTIVAL
Mario Pepe Genova meets Easton
94
RODOLFO VITONE, la rossa p.
1998, tecnica mista su tavola, 45x60 cm
dell’architettura e del design: William
Dohe and Karen Ramsey presentano il
progetto di una casa di minimo impatto ambientale, costruita con materiali
locali e orientata in modo tale da ricevere il riscaldamento dal sole in inverno. Matthew Hoey espone la sua famosa sedia Basel Lounge già presentata all’Art Basel di Miami strutturata con materiale tecnologicamente avanzato che
le conferisce speciale brillantezza e leggerezza. La scarpe di Martha Posner infine, piene di polvere e di ragnatele
sembrano uscite da una favola, insieme
ai vestiti dimenticati nella soffitta della
nostra infanzia.
L’evento American Art Festival con la
presenza a Genova degli artisti americani non poteva che stimolare l’incontro
con gli artisti che operano in Liguria e
che hanno avuto riconoscimenti nazionali ed internazionali come Tommaso
Arscone, Mario Bardelli, Franco Belsole,
Angelo Pio Biso, Gabriele Buratti “Buga”,
Virginia Cafiero, Aurelio Caminati, Antonino Cerda, Milly Coda, Giuliano Crepaldi, Barbara Danovaro, Walter Di Giusto, Bruna Ferrarini Dell’Utri, Giannetto
Fieschi, Giovanni Garozzo, Graziella Gemignani Menozzi, Guido Gelcich, Gianluigi Gentile, Luigi Grande, Giorgio Levi,
Sylvia Loew, Alberto Marani, Laura Mascardi, Plinio Mesciulam, Paola Mineo,
Mario Napoli, Riri Negri, Filippo Nicotra,
Peter Nussbaum, Martino Oberto, Sergio
Palladini, Lucia Pasini, Gabriella Pastorino, Paola Pastura, Mara Pepe, Mario Pepe, Pietro Pignatti, Anna Ramenghi,
Franco Repetto, Barbara Schiappacasse,
Raimondo Sirotti, Gabriella Soldatini,
Maria Tagliafierro, Giuseppe Tipaldo,
Rodolfo Vitone, Nevio Zanardi, che sono
stati invitati ad esporre nelle sale di Satura e che sono presenti nel catalogo. Ci
auspichiamo che l’incontro sia fertile di
scambi di idee e di esperienze, per farci
uscire dall’isolamento provocato dalla
scomparsa dei gruppi e dei movimenti
che elaboravano le grandi tematiche e
per contrastare così le tendenze attuali
che appiattiscono la creatività artistica
su di un’unica valenza mercantile.
Mario Pepe
NOTIZIARIO
95
i nSATURA
SCUOLA DI MUSI CA
ANNO SCOLASTICO 2008/09
Nell’ambito delle molteplici attività, SATURA propone un percorso che valorizzi giovani e meno giovani all’orientamento musicale.
Gli scopi sono quelli di di ffondere l ’educazi one musi cal e e promuovere ogni
iniziativa atta a fornire una corretta qualificazione professionale in campo
musicale. La Scuola sarà aperta a bambi ni , ragazzi e adul ti , a coloro che
della musica vogliono fare una professione come ai dilettanti.
La scuola è strutturata in tre tipologie di ordinamenti didattici:
Corsi Propedeuti ci di musica suddivisi in due indirizzi Classico e Moderno,
nati per soddisfare le esigenze e i gusti di tutti, adatti per tutte le età: corsi per bambini e corsi serali per adulti.
Avvi amento al Conservatori o per bambini e giovani che dopo un corso propedeutico intendono portare avanti la propria formazione al fine di una qualificazione professionale.
Master Professi onal i sono corsi musicali di approfondimento o corsi sperimentali tenuti da affermati musicisti.
Quanto sopra è reso possibile grazie ad un costante confronto con insegnanti e professionisti qualificati e di straordinaria sensibilità, insieme ai
quali viene individuato e realizzato un percorso tecnico-didattico specifico
nel pieno rispetto della personalità artistica dell’allievo.
SI ORGANIZZANO CORSI DI:
Basso, Batteria, Canto Lirico e Moderno, Contrabbasso, Chitarra Classica e
Moderna, Clarinetto, Fisarmonica, Flauto, Musica Antica, Pianoforte Classico e
Moderno, Sassofono, Tastiere, Tromba, Trombone, Violino, Violoncello.
PER INFORMAZIONI ED ISCRIZIONI
i nSATURA SCUOLA DI MUSI CA
Pal azzo Stel l a, piazza Stella 5, Genova 16123
010-246.82.84 / 010.66.29.17 / 338.291.62.43
www.satura.it - [email protected]
finito di stampare
nel mese di giugno 2008