Come far passare un Mammut attraverso una porta (senza tirarla giù)
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Come far passare un Mammut attraverso una porta (senza tirarla giù)
centro territoriale mammut come far passare un mammut attraverso una porta (senza tirarla giù) corpo, scuola e città alla ricerca di una didattica salutare a cura di Giovanni Zoppoli & Alessandra Tagliavini edizioni del a Piero Colacicchi. Maestro e amico che sanamente si occupò di campi rom, malattia mentale e carcere tre. sperimentazioni. le porte sommario 1. il mito del mammut premessa • grazia honegger fresco 9 introduzione 11 mappa • alessandra di fenza e alessandra tagliavini 91 scAttiva. incontri per una scuola attiva • alessandra tagliavini 100 mappa generale di ricerca 104 2. porta del carcere uno. da dove siamo partiti da dove siamo partiti 15 la porta eterna • maurizio braucci il mito della caverna e il carcere • elvira quagliarella una quinta nella caverna di platone • tonino stornaiuolo 115 118 123 3. porta dell’aula: tra estetica e sostanza due. il contesto dove porta quella porta • rosaria pica la scuola che esce dalla scuola • alessandra tagliavini 126 131 1. ecosistema box • ciro minichini giro d’italia tra veleni e antidoti • enzo ferrara saluti da castel volturno • filippo mondini condomini • giovanni zoppoli 31 32 39 43 2. città la città dei bambini • alessandra di fenza la dittatura della sicurezza • luca lambertini 49 52 3. carcere il carcere come luogo comune • dario stefano dell’aquila carcere e territorio • fabrizio valletti sj la porta del carcere • alunni della “virgilio 4” 56 59 63 4. e a scuola? scuola e salute sana e robusta costituzione • vincenzo esposito disegno dei bambini ed etnopsichiatria • giulia valerio la scuola scende in campo • daniela iennaco aiuto / sgarrupo • daniela izzo 66 68 71 75 5. valutazione. dentro e fuori la scuola radici di valutazione 78 4. porta rom e migranti una città piccola piccola • yasmine accardo un’aula che raccoglie il mondo intero • clementina gambocci teatro magia • giovanni zoppoli campo scuola • argentina dragutinovic porte di conoscenza • yasmine accardo 137 140 144 147 149 5. porta universo un museo dei bambini a scampia • riccardo dalisi giocare con i numeri • marisa damiano tutti in cerchio • rossana sanges la mia esperienza • carmela de lucia storie: luci caverne geni euridici 158 160 164 167 177 6. in piazza osservazioni in piazza • chiara ciccarelli il cerchio • nadia vembacher l’orto i viaggi di … • tonino stornaiuolo adolescenti tra bici, strada e breakdance • chiara ciccarelli 193 200 203 204 208 7. in viaggio il mammutbus • giovanni zoppoli 231 fare scuola con i giornali • alessandra di fenza 235 orfeo ed euridice sul soffitto della scuola • tonino stornaiuolo 238 quattro. radici per una didattica della salute 1. teorie zanotti bianco, il maestro che cura • mirko grasso, la scuola come luogo di rispecchiamento • franco lorenzoni sulla porta del mito • giulia valerio scuole d’esclusione, scuole d’eccezione • giuseppe ferraro bellezza e cura nella scuola viva • sara honegger il bosco come aula • raniero regni per una pedagogia del corpo • ivano gamelli non chiamatela arteterapia • margherita bellini a scuola di notte • margherita bellini e marco pollano 245 251 254 257 262 269 274 280 283 2. pratiche gemelle educazione e artigianato • marco carsetti pirati nella casa del bambino • filippo mondini fare biciclette, fare educazione, fare città • giulio vannucci corpo e pedagogia • claudia cannavacciuolo il circolo “la gru” e la salute • aldo bifulco mobilità critica • claudio caccavale 291 298 305 309 312 314 cinque. conclusioni (provvisorie) per una scuola salutare 317 profili: albert bandura piero colacicchi • francesca saudino ovide decroly ivan illich • luigi monti paul le boech maria montessori • grazia fresco rudolf steiner bibliografia 243 154 198 286 64 228 89 328 premessa Cari Amici, vete intrapreso una strada non facile, ma preziosa non solo per il vostro lavoro a Scampia, ma anche per dare coraggio a tutti quelli che in tante altre zone della nostra bella quanto disastrata penisola sono alla ricerca di soluzioni, contatti, invenzioni per star meglio nel lavoro quotidiano con bambini e con ragazzi. Oggi sono in troppi a ricorrere a sistemi aggressivi per ottenere da loro attenzione e risultati, ma quanto ci vuole per capire che violenza genera solo violenza? I nostri figli e allievi chiedono di essere ascoltati, di trovare cose davvero interessanti da fare, di poter creare, inventare, partecipare. Per rinnovare la scuola occorre rovesciarla da cima a fondo, persuadendo gli adulti a non assumere più il solito ruolo di padre-padrone o peggio da giudice/misuratore, pronto a rivestire i panni di insindacabile accusatore, per diventare guida prudente e delicata, con una robusta preparazione professionale, allo scopo di trovare fonti di ispirazione in ambiti diversi. L’attuale didattica, scarnita a furia di circolari e leggi insulse, ridotta a esercizi dati solo per individuare i vincenti e i perdenti, non risponde più alle esigenze di giovanissimi in un mondo in continuo e rapidissimo cambiamento. Il curioso è che, per procedere a passo sicuro verso il futuro non si può non ricorrere a voci del passato, lontane e vicine – dalla Grecia antica (Sofocle? Socrate?) al Rinascimento (Vittorino da Feltre, Tommaso Campanella o, non ultimo, Giordano Bruno?) e poi i contributi dei secoli seguenti fino all’ultimo da poco concluso con la “mia” amata Montessori, ma anche Ferrière e tutte le feconde proposte dell’educazione attiva, Freinet, Freire, Freud. Non bisogna stancarsi di leggere, tornando sempre direttamente agli scritti originari, non contentarsi del “sentito dire”. Altro grande nutrimento si trova nella grande poesia e nel teatro, antico e moderno, con le sue grida di libertà che ha così di frequente espresso. La buona didattica nasce da menti ben nutrite, che continuino ad alimentarsi dei pensieri e delle opere di uomini e donne che hanno segnato passaggi luminosi, a volte senza nemmeno saperlo, nella storia dell’umanità. Ho letto in questi giorni un libro appena uscito che mi ha commosso e rallegrato: il diario di un maestro in una piccola scuola umbra, che – dopo il lavoro in classe – legge e riflette, cerca soluzioni, si accorda con i colleghi e con i genitori, esce spesso con i suoi allievi perché si possano immergere in mondi – dagli Uffizi di Firenze al Guggenheim di Venezia ad esempio - solitamente considerati “difficili” a livello di Primaria. Mi riferisco a I bambini pensano grande di Franco Lorenzoni, amico vostro e mio, con esperienze così prossime A 9 alle vostre, che nelle sue pagine (edite da Sellerio) rivela la massima fiducia verso di loro e insieme la capacità di tradurre in termini semplici, ma corretti il pensiero complesso degli adulti. Bisogna innamorarsi dei propri allievi, dal nido alla secondaria, come spinta iniziale per realizzare un buon lavoro in cui anche un adulto senta di crescere, grazie anche al piacere che i loro occhi e il gusto di impegnarsi esprimono. Questo, da quando avete cominciato a Scampia nel 2007, avete saputo dimostrarlo in vari modi, attraverso il coraggioso giornale “Il Barrito del Mammut”, i vostri opuscoli, il “librone” che ha preceduto questo (Come partorire un Mammut, Marotta&Cafiero 2011), gli incontri di formazione, i nodi che avete intessuto in varie regioni, discutendo, instaurando contatti in ogni direzione. Ora proponete un passo ulteriore: far emergere l’intreccio tra scuola, territorio e salute, di rado presi in considerazione insieme (anche se, a livello di primaria, si trovano molti spunti nei testi di Mario Lodi: altri diari significativi!). È urgente ormai una riflessione collettiva su di essi, una rinnovata sensibilità che riguarda da vicino ciascuno di noi. Grazia Honegger Fresco, 10 Castellanza (VA) 8 dicembre 2014 introduzione Q uesto librone è il proseguimento di un esperimento di scrittura collettiva iniziato ormai otto anni fa con “Il Barrito del Mammut”, il giornale cartaceo e on-line del nostro centro territoriale. Il lavoro di “mungitura della realtà” portato avanti in diciotto mesi di ricerca-azione tra Scampia e il resto d’Italia trova spazio nelle pagine che seguono grazie alle voci di bambini, ragazzi, maestri, medici, psicologi, professori universitari, preti, artisti, scrittori, attivisti sociali e culturali. È stato un tempo prezioso e noi che c’eravamo dentro ce ne siamo resi conto. Sapevamo che era un tempo “finale”, la coda del nostro pachiderma, dove potevamo esprimere al meglio quanto imparato a essere e a fare nei sette anni precedenti. Non ce lo dicevamo, eppure sapevamo che questo sarebbe stato un tempo eccezionale, dove con sorpresa e meraviglia di operatori e “utenti” le cose riuscivano finalmente bene e con una fluidità mai viste prima. Forse, scalzando sdolcinature e ipocrisie, la parola che sintetizza meglio questi 18 mesi è commovente, nel senso più autentico della parola. È stato un “mettere appassionatamente in movimento”, un agitarsi insieme e in profondità di mamme, bambini, ragazzi ma anche di tutti quei pezzi di città normalmente distanti, come la stampa cittadina. Abbiamo insomma avuto la fortuna di vivere un tempo privilegiato. Forse è sempre così quando una collettività casuale come la nostra sperimenta, più o meno consapevolmente, una sacca di resistenza con complicità profonda. Una complicità implicita, ma forte al punto da tenere unite persone molto diverse e distanti. Non possiamo sapere cosa resterà di giornate tanto intense, né rientra nelle nostre possibilità proseguire il lavoro oltre le condizioni materiali che ci sono date. Questo libro è parte di quello che possiamo fare qui e oggi: restituire attraverso la scrittura quanto abbiamo imparato dalle esperienze e dalle riflessioni di mesi. In verità se qualcosa abbiamo imparato lo dobbiamo anche a questo libro, alla tensione di ricerca che ha accompagnato ciascuna delle giornate e degli operatori anche in funzione della scrittura che ne avremmo dovuto trarre. Esperimento ulteriore di equilibrio tra narrazione autentica e narcisismo burocratico-spettacolare. Ma anche prova della necessità di una letteratura pedagogica che sia frutto di un’esperienza diretta di apprendimento, anziché lettera imbalsamata che priva alunni piccoli e grandi della possibilità di viverla veramente, una reale esperienza di apprendimento. L’impianto del testo è quello consolidato in questi anni con il lavoro del Barrito. Partiamo dall’analisi dei contesti in cui le sperimentazioni sono avve- 11 nute, per poi fornire un racconto a più voci di tali sperimentazioni, corredato da qualche elemento di “oggettività”, sempre frutto di un lavoro di ricerca, anche attraverso gli scritti di chi ha partecipato da lontano, perché in città o con ruoli diversi, al lavoro di questi mesi. Vi proponiamo poi il bagaglio di teorie e pratiche di cui ci siamo nutriti, un bagaglio costruito a partire dalle necessità contingenti di lettura della realtà. A differenza del precedente Come partorire un Mammut, questo testo ha un tema specifico: il rapporto che lega didattica e salute. Tema nato da una accalorata quanto allarmata riunione tra maestre e operatori intorno all’emergenza rifiuti in Campania e alle difficoltà di una scuola che se ne cade a pezzi. Centrare il tema non è sempre stato facile perché il rischio di scivoloni verso la spettacolarità della catastrofe o la cialtroneria medicamentosa era sempre in agguato. Ma anche perché ormai pensare a un tipo di scuola che basa il suo quotidiano su benessere e salute (di alunni e insegnanti) sembra qualcosa lontano anni luce. Noi ci abbiamo provato e quelle che troverete sono forse solo le prime abbozzate riflessioni, frutto del tentativo di rimettere in moto una scuola generatrice di salute. 12 uno. da dove siamo partiti P resentiamo in apertura una versione aggiornata di quello che abbiamo chiamato “metodo Mammut”, ovvero il nostro personale modo, messo a punto attraverso il lavoro sul campo, di organizzare l’intervento educativo e sociale; l’insieme dei metodi, dei temi, degli strumenti, degli stati d’animo che hanno accompagnato il lavoro di questi anni e che fungono da cornice di senso delle pagine che state per leggere. Da questo modo di procedere è nata anche la domanda – sul rapporto tra didattica e salute – a cui questo “rapporto di fine ricerca” tenta di offrire qualche risposta. quesiti fonte Il Mammut è partito nel 2007 come ricerca-azione tra operatori provenienti da differenti regioni italiane, intorno a tre domande: 1) sulle possibilità di dar vita a una cellula sociale efficace e al tempo stesso ancorata e coerente ai valori di partenza del gruppo; 2) sulle possibilità di recuperare spazi pubblici di città a partire dalle pratiche della pedagogia attiva e della partecipazione sociale; 3) sulla possibilità di costruire una scuola nuova per adolescenti. Tre nuclei di indagine che hanno trovato sintesi in una nuova domanda: 4) sulle possibilità di costruire una scuola generatrice di salute per persone e territori. Quella di cui daremo conto nel capitolo conclusivo di questa ricerca. Tutte le esperienze e le riflessioni di questi anni, anche quelle contenute in questo libro, hanno avuto la finalità di sperimentare e convalidare ipotesi di cambiamento relative ai nuclei d’indagine sopra enunciati. In questi ultimi due anni abbiamo messo alla prova il metodo di ricercaazione descritto in Come partorire un Mammut (senza rimanere schiacciati sotto). L’abbiamo fatto tanto a Scampia quanto nelle altre occasioni di formazione realizzate in giro per l’Italia, lavorando con altre équipe, spesso assai diverse tra loro e da noi. In tutte queste circostanze ci sono sembrate evidenti alcune costanti che cercheremo di riassumere. 15 sulla metodologia di ricerca Impostare un lavoro di ricerca-azione in maniera rigorosa aiuta prima di tutto l’azione e la solidità dell’équipe. Fare ricerca significa per noi partire dai temi “caldi”, dai nodi problematici del nostro lavoro, scovando le risonanze con quelle vicende che ci riguardano nell’intimità, nel tentativo di far evolvere insieme sfera personale e sfera professionale. Le tappe del “metodo Mammut” sono andate definendosi in questi termini: Uno 16 a) analisi condivisa del contesto in cui si opera Analisi che deve essere fatta dall’intero gruppo, in maniera dinamica, affinché l’équipe sia sempre pronta a cogliere mutamenti piccoli o grandi in ciò che lo circonda. Strumenti e approcci dell’antropologia, della sociologia e della psicologia sono indispensabili per procedere in questa prima fase. Analisi del contesto che per i gruppi che lavorano nel terzo settore risulta fortemente compromessa da due ordini fattori: l’intreccio perverso tra l’esigenza di presentare un quadro tragico del contesto (ai fini di “toccare” il possibile finanziatore) e i tratti caratteriali del “salvatore” che spesso connotano (secondo la descrizione del “triangolo drammatico” di Karpman) chi fa il nostro lavoro. Con la progressiva riduzione dei finanziamenti pubblici, la possibilità di mettere in campo azioni sociali sta ancora di più nella capacità di attirare risorse. Lo Stato, il popolo della rete, le aziende, i semplici cittadini sembrano ormai disposti a metter mano al portafogli solo in caso di “tragedia”. Da qui l’obbligo per chi in un’organizzazione del terzo settore è preposto al reperimento di risorse di calcare la mano sull’elemento tragico del contesto in cui vorrebbe far confluire i finanziamenti. Per quanto riguarda il secondo aspetto, quello costituito dal tratto caratteriale corrispondente al “salvatore”, non possiamo che rimandare, per ragioni di spazio, alla letteratura afferente alla psicologia della Gestalt, dove bene viene messa in evidenza la necessità per chi si occupa di relazioni di aiuto di uscire dal triangolo vittima-salvatore-carnefice. Triangolo rientrante nel più generale schema dei “giochi” descritti da Eric Berne, invito ad acquisire almeno la consapevolezza delle ragnatele di cui si è co-tessitori. Il primo scoglio per un lavoro di ricerca-azione sta appunto nel superamento di questa pericolosa sovrapposizione tra esigenze di marketing dell’organizzazione e tratti caratteriali degli operatori che vi lavorano. Scegliere di formarsi attorno ad un modello di ricerca-azione come quello da noi sperimentato con il Mammut, significa decidere di mettere in discussione entrambi gli aspetti. Essendo disposti anche a correre il rischio di rinunciare alla propria azienda o al lavoro di educatore. Sull’altro piatto della bilancia la possibilità di una crescita autentica, tanto della propria organizzazione quanto dei membri che la compongono, con azioni di gran lunga più efficaci e in grado generare relazioni più autentiche e sane con i destinatari dell’intervento. Altro elemento di criticità è costituito dall’immersione totale nel “fare” e la delega del “pensare” (dell’analisi e della critica) ai fantomatici “esperti”. Adottare un modo di fare ricerca come quello che abbiamo vissuto in questi anni con il Mammut vuol dire infatti prima di tutto affrontare il proprio rapporto con la scrittura. Ogni volta che abbiamo messo maestre/i o educatori/trici di fronte a una richiesta di scrittura abbiamo riscontrato qualcosa di molto simile a un vero e proprio blocco, le cui radici erano rintracciabili nel passato scolastico. Un passato quanto mai “attuale” nella vita di queste persone, dove la costante è la valenza che alla scrittura viene ancora data dalla collettività: la capacità di scrivere, di “prendere la parola”, richiama in maniera diretta quanto diremo in seguito su giudizio e valutazione e rimane prerogativa di pochi eletti. Con criteri selettivi legati più che all’effettivo saper scrivere al mercato (un mercato dell’editoria che sta collassando) e al grado di affiliazione con il mondo accademico. Chi fa il maestro o l’educatore non rientra generalmente in quei “pochi” (salvo fenomeni da baraccone mediatico). Il nostro fare ricerca è dovuto passare perciò prima di tutto attraverso un serrato lavoro di empowerment, nel recupero della possibilità di scrittura come facoltà “normale” dell’essere umano, non necessariamente legato alla gloria né a intelligenza e genialità eccezionali. Difficoltà oggettive risiedono poi nel doppio ruolo di “attore” e “scrittore” della realtà, con le tante implicazioni anche rispetto agli “utenti” e ai poteri forti dei territori in cui si opera. Eppure il lavoro che abbiamo portato avanti negli otto anni di Mammut conferma che attrezzandosi opportunamente per affrontare queste e altre criticità, la possibilità che hanno i soggetti coinvolti in processi educativi (bimbi, ragazzi, insegnanti, educatori che siano) di mettere a fuoco un’analisi di contesto lucida e veritiera sono sorprendenti. Proprio perché basate sulla conoscenza diretta di realtà complesse, e sull’esperienza in prima persona. Rifuggendo le trappole e i blocchi di cui sopra, il lavoro di analisi del contesto e scrittura collettiva a opera di insegnanti e educatori si dimostra perciò tra le ultime possibilità di fornire una versione dei fatti aderente alla realtà anche in contesti marginali. Sappiamo quanto bisogno ce n’è, visto il vuoto lasciato da chi – giornalista, ricercatore sociale o antropologo – riusciva un tempo a dedicare le dovute energie al racconto della “città”. Metodi 17 Uno 18 b) le domande Focalizzare bene le i nodi critici che interessano davvero all’intera équipe. La pedagogia attiva insegna che perché ci sia reale apprendimento è necessario partire da ciò che incuriosisce e interessa veramente. E questo vale tanto per chi apprende che per chi insegna. Mentre nelle sperimentazioni messe in campo con i bambini e i ragazzi le domande nascevano dagli aspetti più svariati dell’esperienza, in quelle con gli operatori (noi compresi) l’interesse a cui abbiamo dato spazio nasceva dalla necessità di evolvere situazioni di lavoro difficili. Da quelle criticità capaci di stimolare intellettualmente, ma che poi difficilmente si riuscivano a superare nel concreto. In questa direzione la ricerca-azione ha mostrato tutta la sua efficacia: fare ricerca implica prendere una certa distanza e mettersi a osservare la realtà (anche quella nella quale si è impantanati) da angolature differenti. Fare ricerca in questo senso ha acquisito per noi anche un valore “terapeutico”, supervisione di gruppo senza un super visore guru. c) la mappa L’azione successiva consiste nel trasformare le domande di partenza in ipotesi da verificare, e da queste articolare una mappa di ricerca fatta di obiettivi realizzabili attraverso azioni da mettere in campo. Anche in questo caso si tratta di una mappa sempre in evoluzione, come sottolineeremo nelle pagine dedicate al “Mito del Mammut”. Più che uno schema tecnico è necessaria una postura ben precisa perché si possa lavorare a una mappa di ricerca. Serve cioè un’ incrollabile resistenza nel procedere attraverso prove ed errori; quello che alcuni chiamano ragionamento scientifico, altri filosofico, altri ancora “cadendo s’impara”. Nel nostro “metodo” la mappa non è qualcosa di lontano dal contesto, di astratto e teorico. Al contrario ha senso se è una filiazione diretta del contesto e rimane rotta per chi vi naviga. L’importanza data alla serendipità fa meglio capire il senso che diamo alla parola mappa: un’attenzione orientata che permette di scoprire anche ciò che non si sta cercando. Sempre che si conservino adesione alla realtà e apertura di sguardo. d) sistema di monitoraggio Anche questa fase è tutt’altro che facile. Consiste nell’osservare, il più oggettivamente possibile, tutti quegli elementi che confermano o smentiscono le nostre ipotesi di partenza. La letteratura in materia è quanto mai vasta, ma forse la possibilità che questa fase risulti efficace sta ancora una volta nell’autenticità. Autenticità delle domande da cui ha preso le mosse la nostra ricerca-azione, prima di tutto, della loro aderenza alle persone e al contesto in cui si interviene. In questo caso vale quanto alcuni approcci (in particolare quello montessoriano) ci hanno insegnato relativamente all’autovalutazione: non c’è nessuno più severo dell’alunno stesso nel valutare la propria prestazione. Sempre che sia messo nel giusto clima e che abbia a disposizione gli strumenti adeguati, come avremo modo di evidenziare nelle pagine dedicate alla “valutazione”. Clima e strumenti di autovalutazione costituiscono quindi gli ingredienti principali per questa fase. Ricordandosi ancora una volta che l’educazione è un’arte e non un calcolo matematico, e che il ruolo prevalente e definitivo spetta in ultima istanza a quella che Betty Edwards definisce la “funzione destra” del cervello, basata su intuito e percezione globale. Diari di bordo, griglie osservative, indicatori quantitativi, ma anche “tracce grigie” come disegni, mostre, feste di piazza sono alcuni degli strumenti affinati negli ultimi due anni della nostra ricerca ai fini di una valutazione effettiva. Attenti il più possibile a non lasciarci distrarre dalle invadenti richieste della rendicontazione burocratica e della società dello spettacolo. e) condivisione L’importanza di finalizzare il proprio percorso di ricerca alla realizzazione di un “prodotto finale” è stata un’altra acquisizione di questi anni. Sapevamo bene che la cosa più importante era il percorso, ma abbiamo meglio messo a fuoco quanto importante fosse anche il prodotto. Non il prodotto in sé, per carità. Rimangono da evitare, perché nocive oltre che di cattivo gusto, la stragrande maggioranza delle orribili recite e saggi di fine o metà anno, tentativi degli adulti di scimmiottare l’industria dell’intrattenimento televisivo, senza possederne i mezzi, il guizzo artistico e le professionalità necessarie. Così come sarebbe opportuno non rendersi complici delle parate di fine progetto in ossequio a richieste di bandi o di finanziatori particolarmente narcisisti. Parliamo piuttosto dell’importanza che abbiamo imparato a dare a quel tipo di prodotto da cui nasce una tensione positiva del percorso, nella consapevolezza che i propri frutti verranno assaporati anche da altri. Le feste legate ai cicli astronomici, le premiazioni e le giornate conclusive del Mito e dei concorsi del MammutBus, la realizzazione di un libro (come nel percorso “STAR - Strategy To Advocate Roma integration in Italy”, con il Comune di Napoli, o “Lenti a contatto”, con la Ong Intervita) o di un cdrom (come con Casa in piazzetta di Pistoia) e gli altri “prodotti” di cui parleremo nel resto del libro: fattori fondamentali per la qualità del percorso stesso, nonché doverose restituzioni alle comunità di riferimento. f) riprogrammazione Il bello di questo lavoro è che non finisce mai, ma sempre si evolve a contatto con quanto di reale e attuale c’è. Se una mappa è autentica non Metodi 19 Uno può che generarne una nuova ogni volta che, al termine di un percorso, la si rivede con il gruppo, a partire da una visione del contesto di riferimento rinnovata, aggiornata e corretta. Tra le difficoltà principali di procedere con questa metodologia ci sono quelle legate alla scarsità di risorse. Già in precedenza abbiamo messo in luce quanto difficile possa essere per un operatore preso dal “fare” trovare tempo ed energie per osservare, trascrivere, riflettere e trarre astrazioni teoriche dal proprio intervento. In questi anni di crisi aggiungiamo una considerazione ovvia: un operatore che non abbia un contratto che vada oltre i sei mesi, costretto a fare almeno due lavori e in cerca costante di opportunità occupazionali più solide non si trova certo nelle condizioni migliori per svolgere un’attività di ricerca come quella che abbiamo tratteggiato finora. Ma questo ha a che fare con la prima delle nostre domande, quella sulla possibilità di dare vita a una cellula sociale efficace (e sostenibile) e ancorata ai valori di partenza del gruppo. 1) sulla cellula sociale 20 Questa domanda racchiude gran parte delle istanze intorno a cui, otto anni fa, si è coagulato il nostro gruppo di lavoro: la costruzione di un’organizzazione davvero incisiva ma non lontana dai valori che ci avevano animato fino ad allora. Erano quelli anni in cui molti di noi uscivano da esperienze dispendiose, in termini di tempo e di energie, e poco efficaci, in termini di risultati. Anni però in cui sembrava ancora possibile la scommessa di un intervento sociale capace di generare benessere e, al tempo stesso, di garantire condizioni lavorative dignitose a chi ci si dedicava. In questi otto anni abbiamo probabilmente assistito a una rivoluzione copernicana del nostro welfare, con una quantità incalcolabile di morti e feriti lasciati sul campo. Su questi temi la nostra ricerca si è arricchita grazie ai percorsi di formazione realizzati con gruppi che operano in diverse parti d’Italia, e al decisivo contributo della rete de “Gli asini”, la rivista pedagogica all’interno della cui area va collocata l’intera esperienza Mammut. Rinviamo perciò ai molti articoli che su questa rivista hanno riportato considerazioni nostre e dei tantissimi attivisti che sulla crisi del sociale hanno detto la propria attraverso pagine capaci di coraggio e respiro internazionale. Se ci voltiamo indietro e osserviamo l’esperienza del Mammut di questi anni ci sentiamo di considerarla un’anomalia di sistema. Una felice (dal nostro punto di vista, ovviamente) convergenza di coincidenze pubbliche e private, che hanno permesso alle nostre avventurose sperimentazioni pedagogiche di esistere tra le pieghe di un sistema che ne era strutturalmente refrattario. Se non ci fossimo incaponiti sin dall’inizio, il progetto Centro territoriale Mammut (partito con un importante finanziamento regionale) sarebbe probabilmente morto già dopo il primo anno di attività. Dando così ragione alla stampa scandalistica e ai tanti “competitor” più anziani, quelli che avevano gridato allo scandalo per un finanziamento affidato a degli sconosciuti; conferma di un sistema “chiuso” e intimamente disposto allo spreco piuttosto che all’innovazione. Invece il Mammut ha costituito in questi otto anni di esistenza un’effettiva cellula sociale, capace di equilibrio tra efficacia e radicamento valoriale. Sappiamo quanto queste parole possano suonare autoreferenziali, ma abbiamo prestato attenzione, senza narcisismi ma nemmeno tendenze autolesioniste, ai risultati ottenuti, a cui offrono riscontro, tra l’altro, fonti diverse e autorevoli. Del resto l’impianto di ricerca sopra descritto, in cui le griglie osservative e i diari di bordo di questi anni risuonano ricche di “prove”, ha dimostrato un incremento di efficacia ed efficienza (siamo passati ad esempio dagli oltre venti operatori remunerati del primo anno ai soli cinque dell’ottavo, arrivando in molti casi a triplicare la quantità di attività svolte e di persone coinvolte, con miglioramenti significativi anche nella qualità dell’intervento stesso). È stato forse proprio a causa della “crisi” che la sperimentazione del Mammut ha potuto fare leva su disponibilità istituzionali prima insperabili (oltre che su quella di operatori innamorati del proprio progetto). Ma alla fine i nodi vengono al pettine e la decisione di preservare nei valori originari, in primis la possibilità di riservare ai lavoratori, tutti, un trattamento economico dignitoso, presenta il suo salatissimo, insostenibile, conto. All’ottavo anno di attività è diventato cioè impossibile sostenere il costo di un’organizzazione basata su garanzie economiche e giuridiche minime per i propri lavoratori. Il ritardo con cui avvengono i pagamenti da parte degli enti pubblici, il sistema sui cui si reggono i bandi pubblici di finanziamento (che prevede ad esempio notevoli capacità di anticipare grandi quantità di denaro per l’ente vincitore) tra l’altro di nuovo vinti “al ribasso”, l’inasprimento della conflittualità tra associazioni per la riduzione delle risorse, l’imprevedibilità di un terzo settore al collasso sono solo alcuni dei fattori che ci hanno costretto a scegliere costantemente tra un normale trattamento economico dei lavoratori e la solidità finanziaria dell’organizzazione. Per otto anni siamo riusciti più o meno a conciliare queste due cose, pagando pesanti costi, non solo a livello di fatica personale. Oltre non abbiamo voluto andare, convinti che il compromesso avesse superato una soglia inaccettabile. Siamo arrivati nudi alla meta, proprio nel momento in cui le due esigenze della nostra cellula sociale (efficacia e ancoraggio ai valori di partenza) sembravano non essere più conciliabili. E ad aiutarci è stato ancora una Metodi 21 Uno 22 volta il nostro lavoro sui miti, quelli di passaggio a cui abbiamo lavorato negli ultimi due anni. Dopo le decine di racconti di morte e risurrezione rivisitati con bambini e maestri non potevamo non aver imparato la lezione: per rinascere è necessario lasciar morire quello che è già morto e non rimanerci attaccati. Dunque ancora una volta una scelta di fondo, quella di cui parleremo tra poco. Eppure a Napoli, in questo inverno 2014, sembra essere tornata una parvenza di normalità nel bilancio comunale e anche il sociale ha ricominciato a girare. Rispetto al picco minimo di qualche mese fa, il welfare comincia risalire la china. Almeno rispetto agli ultimi anni in cui le associazioni avevano iniziato a non presentarsi nemmeno più ai bandi comunali: più di una volta i tempi di assegnazione da parte del Comune superavano la scadenza stessa del bando, per non parlare dei pagamenti che arrivavano a distanza anche di cinque anni. Se la Regione rimane latitante, oggi almeno i pagamenti comunali vengono effettuati di nuovo nell’arco di un anno, e questo, alla luce del recente passato, sembra già molto. Ma è successo anche a Napoli quello che sta accadendo nel resto d’Italia. La ripartenza è legata ad un ulteriore abbassamento del sistema di garanzie giuridiche e del trattamento economico riservato agli operatori, a fronte di una mole di lavoro crescente e, nella sostanza, difficilmente realizzabile, concentrato più sulle esigenze del controllo e del contenimento sociale che sullo sviluppo e la crescita delle persone e delle comunità in cui vivono. Abbiamo verificato sulla nostra pelle che la possibilità reali per le organizzazione di andare avanti risiedono in un nutrito ufficio amministrativo interno, capace di prodezze finanziarie, e di un buon ufficio marketing che sappia intercettare fondi (oltre che clientele politiche, secondo meccanismi di vecchia data). Mentre sempre meno valore hanno le effettive capacità e qualità del lavoro deli operatori. Del resto è un cane se si morde la coda: se non si riescono a fare contratti al di là dei sei mesi, che utilità ha per l’azienda investire in formazione? Ed è forse questa la nota che lascia più avviliti (e che mina maggiormente la qualità dell’intervento). È ormai radicato tra gli operatori il senso di rabbia e frustrazione di chi sa di non poter vedere migliorata la propria posizione lavorativa, e non solo perchè le organizzazioni sindacali che abbiano davvero preso a cuore le sorti di questa categoria (esiste una categoria “educatori” specificamente tutelata in quanto tale?) costituiscono un’assoluta rarità. Un sindacalismo senza sindacato potremmo definirlo, che porta spesso a situazioni davvero tristi, dove l’identificazione con la vittima è realizzata a pieno, oltre che a livello psicologico, anche per le condizioni economiche oggettive nelle quali molti di questi operatori sono venuti a trovarsi (e dove a resistere sembra solo la fasulla convinzione di una “superiorità sociale” conseguente alla propria posizione da educatore rispetto all’educando). Ragionamento questo che rimanda a dissertazioni di portata più ampia sul mercato del lavoro in generale, potendo noi limitarci soltanto a registrare quanto osservato nella nostra piccola esperienza da Mammut. In ciascuna delle regioni italiane nelle quali abbiamo lavorato, abbiamo incontrato quasi sempre un settore pubblico che riesce a mantenere il proprio sociale grazie alla programmazione sistematica di condizioni lavorative infime per quegli operatori che riceveranno incarichi nei servizi esternalizzati. Se fino a qualche tempo fa basare l’esistenza economica della propria organizzazione su precarietà e trattamento economico-giuridico poco favorevoli per il lavoratore sembravano prerogative del “privato”, oggi non è più così. Le speranze che molti di noi avevano riposto in questa crisi, e cioè nelle possibilità di cambiare le pratiche e la cultura del welfare mantenendo però la sua tensione universalistica, si sono rivelate al momento caduche. Con grande tristezza abbiamo assistito spesso a un sociale ridotto al mero accattonaggio istituzionale, lacchè dei potenti (per usare le parole di Goffredo Fofi), con la prevalente preoccupazione di un’immagine da curare all’eccesso ai fini della commercializzazione del proprio prodotto e con spese di struttura che si mangiano ogni possibilità di intervento qualitativamente alto. In molti casi abbiamo avuto la sensazione di essere finiti in una situazione dove il sociale sta piano piano per essere sostituito dai meccanismi peggiori della cooperazione internazionale nelle mani di poche ONG (vedi a riguardo il bell’articolo di Domenico Chirico Le multinazionali del bene, in “Lo Straniero” n.160, ottobre 2013). All’uscita dal tunnel (che è ancora piuttosto lungo) si intravede la possibilità di sopravvivere se si diventa bravi a rendicontare e a vendere il proprio prodotto, disposti a sacrificare la maggior parte delle energie e del tempo della propria organizzazione al soddisfacimento di procedure burocratiche kafkiane o al tentativo di far coincidere il lavoro educativo con quello di una fabbrica di produzione in serie. Tornando a noi, per la nostra scelta di rinascita non ci è restato che guardare a quanto rimasto al di fuori di tutto questo. E cioè, esattamente come facemmo otto anni fa, ripartire da valori e spinte ideali e pendere spunto da quelli che ci sembrano nascenti modelli organizzativi post-centro sociale, ma anche post-azienda terzosettoriale. Come la biblioteca di quartiere “Booq” di Palermo, dove l’aggregazione nasce dalla consapevolezza e necessità di unire sforzi e energie ai fini del miglioramento della vita individuale e collettiva). Organizzazioni senza più assistiti né assistenti, basate sulla convivialità proprio come suggeriva Illich un bel po’ di anni fa. Ed è a questa possibilità che stiamo rivolgendo attualmente i nostri sforzi, naturale evoluzione di quello che è stato il nostro progetto. Metodi 23 Uno 24 Presa coscienza del fatto che non esiste più un pubblico che possa star dietro a sperimentazioni come quella realizzata dal Mammut negli anni passati, abbiamo cercato di trovare una soluzione nuova, con le parti di città (anche dentro alle istituzioni) non ancora annientate dalle dinamiche terzosettoriali più nefaste. Con gli adulti, i ragazzi, i bambini e le altre persone del quartiere che in questi anni si sono aggregate al Mammut, abbiamo deciso di avviare l’esperimento di una nuova cellula sociale. Privata del carattere di “servizio” pubblico, ma potenziata dalla natura di luogo aperto, basato sul mutuo aiuto e sulla realizzazione di passioni e talenti, caratteristiche che da sempre fanno parte della nostra “scuola”. Ed è stato bello trovare proprio nei gruppi di breaker e writer un nuovo nucleo di ripartenza. Una via del tutto aperta, visto che nel momento in cui scriviamo non riusciamo ad azzardare ipotesi sulla sua realizzabilità, ma solo a condividere quanto fertile e interessante si sta mostrando questo nuovo tentativo, anche solo dal punto di vista teorico. Durante le riunioni con mamme, ragazzi, assessori, funzionari, Sindaco… di cui questo tentativo è costituito, ci rimbombava nella testa l’eco dei dibattiti tra anarchismo e statalismo, tra fiducia assoluta e sfiducia nera nello spontaneismo e nell’autorganizzazione. Intuiamo che questo tentativo potrà andare a buon fine solo se i cittadini e i politici che vi stanno partecipando riusciranno a assumersi il proprio pezzo di responsabilità, e con essa tutti i rischi che comporta. Si tratta ancora una volta di avere un’idea di città a cui tendere, sganciandosi però dall’ideologia che ingabbia, dall’assistenzialismo e dalla vigliaccheria istituzionale. Non potendo che rimandare i nostri lettori ai futuri numeri del Barrito, ci accontentiamo per il momento di condividere la bellezza e la forza di questa nuova avventura. Il “Centro ricerche Mammut” e i suoi servizi (il MammutBus, la rivista “Il Barrito del Mammut” e le altre proposte didattiche, formative e per il tempo libero messe a punto in questi anni) costituiscono infine il tentativo di proseguire la nostra sperimentazione anche sul piano professionale, nella convinzione che una base nomade mette al riparo da molti dei mali riservati agli stanziali. Un centro territoriale stabile e dall’offerta diversificata non può che essere “servizio pubblico”, specie in quartieri cosiddetti “difficili”. Degli ingenti costi fissi e non “imprenditorializzabili” propri di un servizio pubblico può farsi carico solo il pubblico. L’organizzazione preposta alla gestione professionale del centro deve cioè potersi dedicare pienamente al suo compito, nella tranquillità di contare su una struttura finanziaria certa, frutto di una volontà ferma da parte delle istituzioni locali. Cosa che del resto ancora avviene in molti settori pubblici. Ed è per questo che la nostra sperimentazione di cellula sociale segue ora due possibilità: • l’attualizzazione dell’attivismo di base pre-terzosettoriale, come possi- bilità di mantenere un presidio di senso nei locali di Scampia dove finora ha avuto sede il Centro territoriale Mammut; • proseguire la sperimentazione professionale, ampliandola e sganciandola dal bisogno di una struttura pesante, attraverso un tentativo itinerante di costruzione di una scuola “fuori classe”. Andare in giro e intrecciare la propria ricerca con quella di gruppi a loro volta “in ricerca” non ha bisogno di strutture pachidermiche, potendo al limite basarsi anche sulla totale gratuità. Fare rete vera e permettere di toccare con mano la possibilità di vivere strade e piazze (anche facendo scuola e senza ansie securitarie) sono del resto le due vere priorità che la nostra ricerca ci consegna. E a noi piace pensare che con un MammutBus ci si possa lavorare meglio. Continuando a farne esperienza di scrittura collettiva. Considerazioni tutte che tracciano la strada per un ritorno a una critica sociale ancor più serrata. E portandoci a casa una importante consapevolezza, che poi è il nocciolo della nostra scelta di rinascita: non vale la pena sprecare la propria esistenza per dimostrare quanto le istituzioni facciano schifo. Prima di tutto perché non ce n’è bisogno, e poi perché per noi lasciare in giro semi di utopia rimane la cosa più bella e utile che si possa fare, anche continuando a cercarne la possibilità tra le pieghe (momentanee) di un sistema istituzionale in cui seminare fertili anomalie. In questi anni abbiamo capito fin troppo bene quanto importante possa essere non far coincidere la propria esistenza con quella di un progetto. Per il bene di entrambi, perché viene il momento in cui bisogna decidere quale delle due sacrificare, e tanto la psicologia quanto l’economia offrono al riguardo indicazioni chiare sulla necessità di non identificarsi con il proprio lavoro e tantomeno con l’ente che lo attua. Se è infatti evidente che il problema non sta (solo) nella scarsità di fondi per il sociale e per la ricerca ma prima di tutto nel modo in cui i soldi vengono spesi, è altrettanto evidente che di risorse per il sociale forse non ce ne sarebbe così tanto bisogno se venissero prese decisioni radicalmente diverse su ciascuna delle voci alla base dell’organizzazione di uno Stato, a partire da quelle di bilancio generale (di Stato, Regioni e Comuni), oltre che del mercato del lavoro, delle politiche migratorie, di quelle sanitarie, scolastiche, della pubblica amministrazione. È anche per questo che vale la pena continuare a lottare sui temi di base della giustizia sociale. Possibilmente in maniera efficace. 2) e 3) sulle possibilità di recuperare spazi pubblici e realizzare una scuola per adolescenti Affrontiamo insieme queste due domande perché ognuna delle sperimentazioni messe in campo in questi anni ha forgiato un metodo basato Metodi 25 Uno 26 sull’intreccio tra “fare scuola” e “fare città”. Già nelle pagine in cui abbiamo parlato della situazione attuale di Piazza Giovanni Paolo II, dove il Mammut ha avuto la sua sede, abbiamo avuto modo di soffermarci sull’argomento. Essere passati dalla difficoltà estrema nel convincere le scuole anche solo a fare laboratori all’interno delle proprie aule, all’impossibilità di soddisfare le richieste di tutte le insegnanti che volevano venire a fare lezione nella piazza di Scampia, la dice lunga sulla strada percorsa in questi anni. L’intero Mito VII edizione di cui parleremo nel seguito di questo testo, è frutto del coinvolgimento delle maestre nel lavoro di recupero della piazza e di altri spazi cittadini. Focalizzare l’attenzione sugli spazi pubblici possiede molti aspetti positivi di cui abbiamo scritto e parlato spesso, ma anche aspetti fortemente negativi. Ad esempio la difficoltà a far percepire uno spazio davvero come “pubblico”. Il meccanismo appropriativo scatta molto facilmente e chi si prende cura di un giardino, di una strada, di locali abbandonati fa presto a considerarli suoi. La confusione tra spazio proprio e spazio di tutti è tanta, e i molti anni di retorica istituzionale e accademica sull’argomento non hanno migliorato i termini della questione. Basta guardare ai tantissimi progetti urbanistici e didattici in cui il cattivo gusto e la dubbia professionalità degli adulti viene camuffata attraverso inesistenti progetti di partecipazione urbana. Occuparsi di carcere, migranti, scuola, inquinamento ambientale (non in astratto ma a partire da vissuti personali e oggetti esterni ben identificati) ci ha invece permesso di compiere uno scatto importante. Di certo in questi casi la possibilità di verificare il proprio lavoro è meno immediata e oggettivabile di quando ci si concentra sulla trasformazione di uno spazio fisico. Eppure il grado di coinvolgimento e la potenzialità trasformatrice riscontrate sull’ordinario scolastico subiscono un salto di qualità notevole. Certamente ha aiutato questa impresa lo sfondo integratore scelto lo scorso anno per tutti i nostri interventi, quello della “porta”. A conferma di uno degli aspetti centrali del nostro metodo: l’utilizzo di miti e archetipi come scenari simbolici del cambiamento sociale. L’altro elemento che a questo punto ci sembra decisivo ai fini di una scuola per adolescenti efficace sta nel viaggio. “Corridoio” fu il nome dato alla sperimentazione iniziale del Mammut nell’area adolescenti. Si basava su progetti individualizzati e viaggi fuori regione nelle città dove avevamo organizzato una rete di supporto. Tutti i questi percorsi (che negli otto anni hanno coinvolto oltre 100 minori tra viaggi individuali e di gruppo) hanno confermato la potenza educativa del viaggio. La verifica effettuata sul lungo periodo con ciascuno dei partecipanti, ci ha permesso di toccare con mano quanto l’esperienza di spaesamento che avevano vissuto avesse contribuito a una svolta decisiva nella loro vita. Se il viaggio rimane importante in una scuola per i bambini, dalla nostra ricerca è risultato un elemento indispensabile in una scuola per adolescenti. Che forse proprio sul viaggio andrebbe re-impostata. Quando nella festa d’autunno 2014 del Mammut abbiamo visto radicalmente cambiati i ragazzi che solo un paio d’anni fa venivano a buttare pietre, a spaventare i più piccoli, a distruggere auto e altri beni nostri o del gruppo, abbiamo capito quale valore possa assumere un intervento sociale basato sulla trasformazione di uno spazio pubblico. Quei ragazzi, insieme a molti altri, sono diventati uno dei fattori che ci hanno consentito di lavorare in quel luogo, difendendo noi e le attività portate avanti e facendosi veicolo di contagio dei valori in cui crediamo con altri coetanei del quartiere. E questo vale soprattutto per chi ha conosciuto il carcere, con un attaccamento e un’affezione al Mammut che ci ha lasciati pieni di meraviglia. Aver investito così tanto su quest’area, nella ferma convinzione di dover creare autonomia e non dipendenza, permette oggi al nostro progetto di centro territoriale di continuare a vivere attraverso un normale ricambio generazionale. Ma anche questo rimanda alle riflessione fatte sulla cellula sociale: restituire spazi al quartiere, in primis ai suoi giovani, non è possibile se l’organizzazione fa la scelta di occuparli stabilmente, per motivi di economia aziendale o altra ideologia. Di certo si tratta di processi lunghi, i risultati più significativi abbiamo cominciato a vederli dopo sette anni. Risultati estendibili un po’ all’intero quartiere. Sappiamo bene che il Mammut ha solo una piccola parte del merito, ma quello che è avvenuto negli spazi pubblici di Scampia nei vent’anni in cui vi abbiamo operato è probabilmente il cambiamento più evidente. Quanto leggerete di Aldo Bifulco sul lavoro del circolo La Gru a Scampia è un apice di questo cambiamento, con un numero molto alto di spazi recuperati dai semplici cittadini. Più in generale sono le strade stesse a essere cambiate: non si percepisce più come cosa normale la grande quantità di siringhe e di persone che, barcollando, andavano a iniettarsi eroina nel quartiere. Lo spazio pubblico è diventato un fattore aggregante formidabile, che coltiva e nutre quanto di buono già c’è (a partire dal Gridas, lo storico e vivissimo centro sociale di Scampia). Da questo punto di vista è stato fondamentale collocarsi in un contesto di quartiere, al servizio di quelle spinte e di quelle organizzazioni sociali che avevano radici negli stessi nostri valori. (g.z.) Metodi 27 due. il contesto A ncora una volta partiamo dal contesto, dal mare in cui è immersa ciascuna delle azioni e riflessioni di cui daremo conto nel seguito di questo libro. Se c’è un aspetto del “metodo mammut” che ha ricevuto solo conferme in ciascuna delle sperimentazioni messe in campo tra nord, sud e centro Italia (isole comprese) è l’assoluta necessità di partire dal contesto in cui il nostro intervento educativo è inserito. E la conferma dell’importanza di farsi orecchio e mettere da parte narcisismi e ansie d’intervento, perché possa avvenire un ascolto autentico. Purtroppo abbiamo verificato anche quanto questa prassi sia stata messa in soffitta da chi si occupa di educazione e sociale, e come l’analisi di contesto sia diventata uno dei tanti copia/ incolla funzionali alla scrittura di bandi e progetti. A uscirne svilite non sono solo le pratiche, ma anche le analisi sociali sempre più basate sulle testimonianze di gruppi di attivisti e “imprenditori” sociali, inclini a dare una versione piuttosto monca, quando non faziosa, della realtà. È anche in ragione di ciò che forse “scuola” e “salute” sono diventate categorie sempre più distanti. Gli scritti di questo librone ci dicono che non solo è ancora necessario, ma anche possibile proseguire il lavoro dei gruppi di base (i primi che ci vengono in mente: l’Associazione risveglio Napoli, alcuni cattolici del dissenso, l’Associazione italiana per l’educazione demografica, la Mensa dei bambini proletari, ecc.) che negli anni ‘60 e ‘70 facevano intervento sociale praticando inchiesta sociale, proprio grazie ad una radicata presenza sul campo. Chi volesse seguire ancora questa strada potrebbe avvalersi oggi dei tanti contributi che la ricerca antropologica e sociale ha prodotto negli ultimi cinquant’anni, riuscendo magari a potenziare la salute del proprio territorio proprio a partire da una normale giornata di scuola. O consideriamo il contesto come punto di partenza e di arrivo di ogni nostra azione educativa o dobbiamo accettare che il ruolo esercitato nei confronti dei nostri “assistiti” non vada oltre le soglie del controllo e del recupero spicciolo alla società prevalente. 29 1. ecosistema biblio-sitografia minimale a cura di Ciro Minichini M 30 olto si è scritto e girato sul disastro ambientale in Campania a cavallo tra i due secoli, tanto che molti di noi si sono chiesti come mai gli abitanti di questa regione non siano ancora fuggiti tutti via. Una delle ragioni della mancata fuga sta forse nel fatto che in nessun’altra parte del paese è possibile sentirsi davvero al “sicuro”. Enzo Ferrara, nel suo “Giro in Italia tra veleni e antidoti”, ricostruisce per noi un quadro quanto mai realistico. Del resto rimane accesso il dibattito sull’effettiva nocività per la salute delle sostanze dannose sotterrate o disperse nell’ambiente. Oltre agli immancabili sciacalli (in politica come nei media), molte sono state le voci critiche da parte degli imprenditori agricoli piccoli e grandi, ridotti a volte sul lastrico, prima di tutto per le già delicate condizioni dell’agricoltura campana e poi perché finiti nell’occhio del ciclone mediatico. Più di una volta questi imprenditori si sono difesi producendo test e analisi sui propri prodotti agricoli effettivamente “in ordine”, malgrado le sostanze inquinanti presenti nel sottosuolo in cui erano cresciuti. La percezione di “sentirsi in pericolo” ha indubbiamente fatto un salto molto grande in questi ultimi anni in Campania. E molti dati epidemiologici sembrano confermare che non solo di “percezione” si tratterebbe. E a riguardo c’è ormai una letteratura molta vasta, a volte anche lucida e onesta. Anche per questo non aggiungiamo altro materiale a quello già circolante su dati e analisi, riportando solo una scheda sintetica in cui Ciro Minichini ha mappato materiali utili a farsi un’idea della reale situazione ambientale. Riportiamo infine una normale giornata condominiale su vicende di quotidiano inquinamento da cui si capisce quanto sia proprio il rapporto intimo con la terra ad essere stato minato da questi anni di sciagurata incuria per il creato. 1) Roberta Pirastu et al. (a cura di), SENTIERI – Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento: RISULTATI, Epidemiol Prev 2011; 35 (5-6) Suppl. 4: 1-204 http://www.epiprev.it/sites/default/files/EP2011Sentieri2_lr_bis.pdf Si tratta di uno studio condotto da diverse strutture impegnate nella ricerca in ambito epidemiologico, che ha riguardato l’analisi delle cause di mortalità in 44 degli allora 57 siti di interesse nazionale per le bonifiche, in Italia; cioè quelle parti di territorio nazionale per le quali, negli anni, è stato riconosciuto un quadro di contaminazione ambientale tale da essere considerate aree ad alto rischio sanitario, per essere caratterizzate dalla presenza di grandi poli industriali attivi o dismessi, o per inglobare zone di smaltimento di rifiuti industriali e/o pericolosi. 2) Un aggiornamento di questo studio, che si è concentrato sullo studio dell’incidenza oncologica nei 18 siti di interesse nazionale per le bonifiche ricadenti in territori serviti per i quali fosse disponibile un registro tumori, è il seguente: Roberta Pirastu et al. (a cura di), SENTIERI - Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento: MORTALITÀ, INCIDENZA ONCOLOGICA E RICOVERI OSPEDALIERI, Epidemiol Prev 2014; 38 (2) Suppl. 1: 1-170 http://www.epiprev.it/materiali/2014/EP2/S1/EPv38i2S1_SENTIERIind.pdf 3) Il sito dell’associazione A Sud contiene molte pubblicazioni e il riferimento a diverse iniziative legate alla documentazione di conflitti sorti intorno a questioni di carattere ambientale (in particolare, si tratta dei prodotti del lavoro del Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali) http://asud.net 4) Vi si trova anche un documento che riassume i passaggi salienti di quella che è stata identificata come “crisi dei rifiuti” in Campania, in cui ci si focalizza su diversi aspetti, da quelli epidemiologici, a quelli politici, a quelli economici, a quelli sociali. box lucie greyl et al., la crisi dei rifiuti in campania, italia, cdca 2009 http://asud.net/wp-content/uploads/2013/07/Rifiuti-in-Campania-definitivo.pdf giro d’italia fra veleni e antidoti sui movimenti in difesa dell’ambiente e della salute di Enzo Ferrara L Due 32 a costruzione di uno spazio adeguato e su grande scala per un dibattito pubblico sull’ambiente e sul suo stato di salute non è semplice; l’attuale fase di sviluppo della sensibilità ecologica in Italia è dominata dal moltiplicarsi di una miriade di movimenti locali sorti per contestare singoli aspetti dell’industrializzazione e delle infrastrutture che ne garantiscono il funzionamento. La spinta all’azione ha a che fare con le preoccupazioni per la salute e l’ambiente legate a condizioni di rischio innegabili causate dei progetti contestati. Per la loro soluzione, a fronte dell’incisività delle mobilitazioni localizzate, si osserva la marginalità delle organizzazioni nazionali tradizionali. La geografia della contestazione dell’impatto industriale è difficilissima da tracciare per la sua estrema frammentazione. Vanno considerati anche aspetti psicologici, in quanto una comunità colpita diventa autoreferenziale anche per difendersi. La vicenda di Seveso, i rifiuti a Napoli e altre esperienze simili hanno insegnato che c’è anche uno stigma sociale, un pregiudizio di colpa, che si aggiunge al carico di angosce di chi è colpito nel proprio territorio, nella propria salute. piccolo inventario ambientalista A volte la mobilitazione è circoscritta a singoli quartieri, in alcuni casi è ridotta a un unico attivista che regge l’intera rete utilizzando i social network. “Un sommario Giro d’Italia fra veleni e antidoti” abbiamo provato a tracciarlo con Pier Paolo Poggio presidente della Fondazione Luigi Micheletti di Brescia, con Gemma Beretta presidente del Circolo Legambiente Laura Conti di Seveso, con Fulvio Aurora vicepresidente di Medicina Democratica e con Marino Ruzzenenti, attivista e studioso di storia dell’ambiente presso la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia. “Alcune realtà hanno grande rilevanza su scala nazionale – spiega Marino Ruzzenenti – innanzitutto il coordinamento nazionale dei siti contaminati, costituitosi a Brescia nel 2013 dopo che l’allora ministro per l’ambiente, Corrado Clini – attualmente agli arresti domiciliari con l’accusa di peculato per il progetto New Eden in Iraq – aveva declassato 18 aree sulle 71 censite, riducendo a 57 i Siti di Interesse Nazionale (SIN) per la bonifica. Rimangono fra i SIN l’amiantifera di Balangero e gli ex stabilimenti Eternit di Casale Monferrato in Piemonte, le industrie Caffaro di Brescia, il sito di Cengio Val Bormida in Liguria, le aree del litorale vesuviano in Campania, le zone industriali di Porto Torres in Sardegna, il bacino idrografico del fiume Sacco nel Lazio, Taranto e Manfredonia in Puglia, Gela e Priolo in Sicilia. Sempre di rilievo nazionale, c’è l’associazione Peacelink di Taranto che da tempo immemorabile, con caparbietà e competenza, si batte contro l’inquinamento dell’Ilva; a Taranto operano anche altre associazioni, come Taranto Sociale e il Comitato Cittadini Lavoratori Liberi e Pensanti. Più a nord, in Abruzzo vicino a Pescara c’è il sito di Bussi sul Tirino, una delle più grandi discariche abusive di sostanze tossiche e pericolose mai trovate in Italia e in Europa, a causa della quale il forum abruzzese dei movimenti per l’acqua ha sollevato il problema dell’inquinamento della falda da tetracloruro di carbonio. A Colleferro, nel Lazio, c’è la Rete per la tutela della Valle del Sacco contaminata dai residui delle industria chimiche e degli armamenti. In Lombardia, c’è il Coordinamento dei comitati ambientalisti Lombardia, particolarmente impegnato contro le trivellazioni e lo stoccaggio di metano, contro il mega inceneritore di Brescia di proprietà della A2A e attento alla vicenda del SIN Caffaro. Poi, c’è Ambiente Brescia e, sempre in Lombardia, la rete Insieme per uno sviluppo sostenibile.” Gemma Beretta spiega che a questa rete aderiscono Legambiente, il WWF, alcuni gruppi politici locali che si rifanno all’area ambientalista o della sinistra ecologista, e numerose associazioni locali, “tutte interessate alla difesa del territorio dell’hinterland milanese e accomunate dalla preoccupazione per il progetto della Pedemontana, una nuova autostrada in costruzione nell’area nord di Milano, che dovrebbe collegare la provincia di Milano con le province di Varese e Bergamo, oltre che con gli aeroporti di Malpensa e Orio al Serio”. Altro esempio di associazionismo in Lombardia è la Rete dei cittadini reattivi che si batte per conservare terra, cielo e acqua puliti per tutti. “A Seveso in particolare – spiega Gemma Beretta – siamo preoccupati perché il tracciato autostradale della Pedemontana passerebbe proprio attraverso il Bosco delle Querce, un’oasi naturale che conserva la memoria dell’incidente dell’ICMESA del 1976 ma che è anche il luogo dove sono seppellite le diossine fuoriuscite a causa di quell’incidente, non sappiamo cosa accadrebbe se i lavori andassero a dissotterrarle”. Mantenere la rete non è semplice perché ogni comitato, caratterizzato da una forte impronta sul proprio territorio, fa fatica a uscire dai propri confini. “Siamo anche attenti alla rete dei SIN, nella quale abbiamo un rappresentante – continua Gemma Beretta – invece non abbiamo riferimenti politici né sul piano politico parlamentare nazionale, né al di fuori dei territori di nostro interesse. Abbiamo legami, anche forti, ma sul piano personale con alcuni uomini e donne della politica parlamentare, con qualcuno delle varie aree che fanno riferimento alla sinistra, sono però casi singoli”. Eco Sistemi 33 Due 34 Proseguendo l’inventario, Marino Ruzzenenti segnala a Vicenza il Movimento di salvaguardia dell’ambiente e il Movimento contro l’allargamento della basi militari. A La Spezia e Vado Ligure, i comitati di cittadini contro le centrali a carbone, come “Spezia via dal carbone”. A Casale Monserrato, in provincia di Alessandria, l’Associazione Familiari e Vittime dell’Amianto (AFEVA) e l’Associazione Italiana Esposti Amianto (AIEA) con i loro importanti e forti contatti internazionali, da Ban Asbestos Italia e Coordinamento nazionale Amianto a Ban Asbestos Francia, allo svizzero Comité d’aide e d’orientation des victimes de l’amiante (CAOVA) a Ban Asbestos Spagna. A Trieste, c’è l’associazione Nosmog, impegnata contro l’inquinamento dell’acciaieria di Servola. Scendendo verso Sud, va ricordata l’associazione A Sud che si occupa dei problemi ambientali con ampio respiro, partendo da quelli connessi all’estrazione di petrolio in Val D’Agri in Basilicata. Poi in Puglia, l’associazione Brindisi bene comune e le associazioni ambientaliste di Manfredonia. In Sardegna, i comitati contro le basi militari, come Gettiamo le basi, impegnato nella vicenda di grave inquinamento del poligono di Quirra, il Comitato di azione, protezione e sostenibilità ambientale per il nord Sardegna (C.A.P.S.A. – No Chimica Verde/No Inceneritore) di Porto Torres, il Movimento per il lavoro, l’ambiente e i diritti di Sassari. In Basilicata l’associazione antinucleare di Scanzano Jonico, Scanziamo le scorie, che ha condotto vittoriosamente la lotta contro il sito unico di stoccaggio dei rifiuti nucleari. In Calabria, la rete per la difesa del territorio Difendiamo la Calabria, oltre all’organizzazione impegnata nel processo contro la Marlane di Praia a Mare per i morti da contaminazione per l’uso di coloranti e il trattamento di rifiuti, Sindacato dei lavoratori autorganizzati intercategoriale (SLAI_COBAS). Non vanno dimenticati i comitati veneti per la memoria del Vajont. azione e comunicazione In molte di queste realtà, oltre al radicalismo e al localismo dei comitati accusati, infatti, di sindrome Nimby, spiccano la diffidenza verso i professionisti della politica e il tentativo di pratica della democrazia partecipativa, con tutte le contraddizioni che ciò comporta. Hanno come comune denominatore la contestazione di singole manifestazioni dell’industrialismo, impianti produttivi o infrastrutture di funzionamento della macchina industriale. Mentre la classe politica senza distinzioni punta sulla reindustrializzazione quale unica via per la crescita e l’uscita dalla crisi economica, alcuni comitati riescono a dimostrare che decisioni spacciate per strategiche e per la cui realizzazione si agita lo stato di eccezione – il cantiere TAV di Chiomonte in Val di Susa, come la discarica di Chiaiano in Campania sono stati dichiarati siti strategici di interesse nazionale, difesi dall’esercito – sono, in realtà, prive di razionalità e prodotto non di un sapere superiore ma della volontà di “non sapere” salita fino al governo. “Invece di incarnare il bene comune mascherano malamente interessi particolari, spesso illegali, quando non schiettamente criminali”, così ha spiegato Pier Paolo Poggio. “Diversamente da quel che sostengono i critici e la generalità dei media, i comitati di contestazione dell’industrialismo nell’era della globalizzazione non hanno posizioni luddiste – spiega Poggio – al contrario, facendo uscire dall’apatia le popolazioni, i comitati si impegnano a fondo nello studio dei problemi, si documentano, coinvolgono esperti, tecnici, scienziati. Credo che non ci sia un osservatorio adeguato per cogliere il fenomeno per intero, però un elemento caratterizza fortemente l’Italia in questi anni: il venir meno delle grandi organizzazioni ambientaliste nella capacità di cogliere le situazioni per tempo e diventare un referente necessario, in modo che tutte queste situazioni locali assumano importanza, rilievo politico, culturale e di comunicazione su scala nazionale. È la questione principale, con vantaggi e svantaggi”. Secondo Poggio, la mancanza di un riferimento per l’opinione pubblica e la mancanza di peso del mondo ambientalista sono aspetti negativi. “La situazione attuale può garantire i pochi e puri, però è un dato di fatto: ci sono numerose situazioni di fermento, di grande interesse sociale e culturale, ma pochissime diventano questioni nazionali anche per un problema di comunicazione. Ed è un peccato perché, avendolo vissuto, posso dire che quarant’anni fa non c’era niente di tutto ciò anche se c’erano già forme di aggressione fortissima al territorio. Però non c’era questa presa di coscienza che adesso c’è. Certo è minoritaria – prosegue Poggio – non sto dicendo che sia la scelta della maggioranza, però ci sono tante minoranze ognuna delle quali a me sembra autoreferenziale. Potrebbe essere un giudizio moralistico il mio. I motivi per cui le diverse parti non si tengono assieme magari sono altri e si potrebbe tentare di approfondire”. “Il caso dell’ILVA di Taranto, per esempio, è importante – spiega Poggio – ma il rilievo dato a situazioni simili serve anche per oscurare tante altre realtà che meriterebbero un’attenzione eguale. Ciò non avviene. Di grandi opere che stanno creando problemi rilevanti ce ne sono molte e in ogni situazione ci sono comitati, gruppi che si oppongono, lottano ma in situazione di quasi totale isolamento. Questo significa, banalmente, che per come è fatta la comunicazione può passare anche ciò che è non omologato, purché spettacolarizzabile. Deve accadere il grande guaio per accendere i riflettori che comunque durano pochissimo”. Un altro elemento importante, secondo Poggio, è il fatto che tutto il filone del ripensamento dell’agricoltura e dell’alimentazione ha sì una sua visibilità però meriterebbe analisi che al momento nessuno sembra in grado di sviluppare. Questi movimenti difendono il bene comune, il quale in Eco Sistemi 35 Due 36 passato per eccellenza era la terra. In questo ambito la prospettiva, talvolta fumosa, della decrescita, assume contorni concreti, indicando una dinamica di possibile fuoriuscita dall’eredità tossica dell’industrialismo. Però si osserva anche un disaccoppiamento forte fra il livello della partecipazione emotiva e razionale di molte persone ai problemi di inquinamento, occupazione, degrado del proprio territorio e i loro comportamenti quotidiani. Per esempio, un fenomeno che fino a poco tempo fa era quasi residuale, quello dei Gas, i Gruppi di acquisto solidale, si è rivitalizzato: si osservano e si creano nuove forze in continuazione, però non si vede e quasi rimane sommerso come un mondo a parte cosa stia succedendo nelle campagne, quali trasformazioni siano in corso. Non c’è la capacità di tenere assieme questi movimenti su scala che non sia locale o localissima, eppure tutti hanno un loro significato non dissimile da quello di tante altre esperienze del passato molto più radicali. E neppure si riesce su scala più ampia a mettere assieme, per una volta, chi lavora la terra e chi usufruisce dei prodotti della terra con atteggiamento critico. Secondo Poggio, quello che abbiamo di fronte non è un panorama desolato. Possiamo parlare di un’enorme frantumazione delle iniziative su scala nazionale, dove manca un minimo di circolazione anche solo delle idee in comune, il che è paradossale rispetto alla enorme disponibilità degli strumenti di comunicazione. Secondo Fulvio Aurora ciò che più demoralizza ed è segno dei tempi è l’assenza di sostegno da parte di istituzioni, accademie, sindacati. “Quando ci costituiamo parte civile assieme ai movimenti per i risarcimenti, come nel processo Eternit – spiega Aurora – per i disastri da inquinamento o per la difesa del sistema sanitario nazionale, come nel caso del processo in corso a Torino contro Stamina Foundation che ha millantato progetti di ricerca per la cura del cancro con cellule staminali, siamo quasi sempre soli, non sostenuti da agenzie, amministrazioni o confederazioni, che oltretutto sovente patteggiano per uscire dal processo con un indennizzo. Ma noi ci battiamo anche per rivendicare il diritto alla salute e a un ambiente pulito, i risarcimenti servono per le bonifiche, per la cura dei malati, per il sostegno dei parenti di chi ha perso la vita o la capacità lavorativa. Abbiamo una estrema sfiducia nell’istituzione pubblica, politica, sindacale, scientifica, culturale, che ti chiede partecipazione, sostegno alle proprie iniziative ma appena vede la possibilità di un compromesso con il potere non ti ascolta più. Abbiamo problemi legati ai temi della salute anche nella gestione del servizio sanitario”. Negli ospedali lombardi, infatti, l’obiezione di coscienza sull’aborto, sulla legge 194, è praticata dall’ottanta per cento dei medici. Ci sono ospedali dove i medici sono tutti obiettori. Secondo Aurora si tratta di una questione ideologica ed è un fatto: anche chi non sarebbe obiettore lo diventa, per non restare isolato sia per la carriera sia per il lavoro, perché chi pratica aborti in queste condizioni va a finire che fa solo quello, non è una situazione sostenibile. “Cerchiamo di capire come si stia trasformando il concetto di sanità, cosa diventa, cosa vuol dire oggi – aggiunge Aurora – Medicina Democratica è un movimento di lotta per la salute nato a Milano ma diffuso in tutta Italia. A Matera, per esempio, ci occupiamo di amianto e malattie da asbesto, legate agli ex impianti Anic-EniChem di Pisticci Scalo e seguiamo il processo dell’ILVA di Taranto pur non avendo nessun gruppo attivo sul territorio”. Anche Medicina Democratica ha peculiarità molto legate ai territori. “Ci sono zone che si occupano prevalentemente della questione ambientale – racconta Aurora – per esempio a Brescia c’è la grossa questione della Caffaro che ha seminato ovunque PCB e diossine e c’è anche l’inceneritore. Facciamo inoltre un lavoro di carattere scientifico che va avanti da anni. Il principale attivista di Brescia, Marino Ruzzenenti – socio di Medicina Democratica – ha prodotto un libro notevole sulla questione della diossina (Un secolo di cloro e PCB. Storia delle industrie Caffaro di Brescia, Jaca Book, Milano 2001). Siamo arrivati a fare un paragone con Taranto, chiedendoci come mai non ci sia un giudice anche a Brescia”. “Medicina Democratica ha un gruppo consistente in Toscana, che lavora particolarmente sulla salute nei luoghi di lavoro. C’è uno sportello che si occupa di questo tema cercando di coniugare i problemi di salute dei lavoratori intesa in senso tradizionale – la malattia professionale provocata da usura, trauma, contaminazione – con le questioni di carattere psicologico: lo stress, il mobbing, seguite in quasi tutta la Toscana. Poi c’è il gruppo di Milano che prevalentemente si occupa di sanità e segue le vicende del discorso pubblico e privato sull’assistenza che la regione Lombardia tende ad affrontare con posizioni prevalentemente ideologiche, come per la vicenda della legge 194 sull’interruzione di gravidanza”. “Sulla questione ambientale, anche Medicina Democratica partecipa al coordinamento dei SIN partito da Brescia ma che tocca varie parti d’Italia. A noi interessano molto la Valle del Sacco, nel Lazio, dove ci sono questioni legate all’industria militare, che hanno analogie con quelle delle servitù militari in Sardegna e con gli effetti sulla salute delle popolazioni della zona e dei militari colpiti. Collaboriamo anche con ISDE, l’Associazione dei medici per l’ambiente (International Society of Doctors for the Environment) che è forte all’interno delle strutture sanitarie e che è stata diretta a lungo da Renzo Tomatis”. per conservare la memoria Un ultimo tema importante in questo Giro d’Italia dei veleni e degli antidoti è legato all’archivio di avvenimenti, testi e testimonianze, anche Eco Sistemi 37 Due 38 molto significativi, che fotografano situazioni problematiche ma che quando termina il ciclo di lotta sembra spariscano nel nulla. Spiega ancora Pier Paolo Poggio: “Non è così perché le questioni ambientali non sono risolte, sono state tombate. I rischi per salute e ambiente restano lì dov’erano se il problema non è affrontato alla radice. Intendo soprattutto le forme di inquinamento territoriale, i problemi di Seveso, dell’Acna di Cengio non sono state mai risolte interamente, però non se ne parla più. Si potrebbe fare il confronto con il modo in cui si parla, pochissimo e a singhiozzo, dei problemi dell’amianto: anche in questo caso sta succedendo che alcuni gruppi ci si sono dedicati come se avessero la missione di occuparsene solo loro, mentre tutto il resto della società sembra potersene disinteressare, salvo sobbalzare per eclatanti fatti di cronaca. Il clima mi sembra questo. Non è che queste lotte non ci siano, ci sono e numerose e in certi casi intelligenti e determinate. Ogni movimento fa cose degnissime al proprio interno ma raramente c’è la possibilità di ricostruire in modo approfondito e dettagliato queste vicende. Oltretutto, se queste proseguono ognuna restando imbozzolata nella propria piccola realtà, i grandi attori continueranno ad avere buon gioco nel combattere o ignorare ogni fermento. In un paese che tutti i momenti ti dicono essere fragile, semi-disastrato dall’inquinamento, dalle infiltrazioni della camorra, della mafia, ogni volta superata l’emergenza è come se nulla fosse stato. Anche per questo, la Fondazione Micheletti si è data un ruolo principalmente di documentazione storica, perché è necessario che restino e si trasmettano alcune memorie in forma collettiva e perché queste vicende hanno rilevanza storica”. “E se anche questo discorso fosse solo teorico, astratto, discutibile nel caso dei fenomeni di cui stiamo parlando, di aggressione all’ambiente, è sicuro che faremo i conti con le conseguenze sulla salute degli Italiani su tempi lunghi, lunghissimi, soprattutto se non ne conserviamo memoria. È un esercizio elementare quello a cui ci dedichiamo ma chi sta conducendo una lotta non ha tempo né interesse immediato ad archiviare la propria storia e a mantenerne la traccia anche se la ricchezza delle informazioni in tempo reale è insostituibile. Poi, dopo a ritroso potremo recuperare informazioni sui danni magari attraverso l’utilizzo dei dati statistici che sono sì in grado di trovare correlazioni, perché quell’anno lì in tale posto è successo il tale fatto. Però ci vuole anche tutto il resto e il contesto. A Brescia vorremmo tentare di creare qualcosa che ancora non esiste in Italia: una scuola di storici attenti al rapporto fra tecnica, industria e ambiente. Questa è la missione che ci siamo dati. Non ci siamo ancora arrivati vogliamo fornire però i materiali di base. E in questo senso le situazioni minute a noi interessano quanto i grandi fatti. Penso per esempio che sia tempo di raccogliere l’archivio delle lotte in Val di Susa, mi sembra giusto e forse ovvio: ci sono una miriade di attestazioni che altrimenti verranno cancellate”. saluti da castel volturno. una cartolina di Filippo Mondini N on si può compiere un’analisi del contesto di Castel Volturno ragionando a compartimenti stagni, come se i disagi e le opportunità che ne nascono – immigrazione, camorra, ambiente, integrazioneinterazione, condizioni di lavoro, urbanistica – possano essere scomposti e risolti o raccolte separatamente. È difficile trovare la causa scatenante del degrado. Alcuni vi trovano le origini nel bradisismo di Pozzuoli degli anni ’80, quando gli sfollati sono stati accolti nelle seconde case della riviera Domitia. Altri, tra cui Mario Luise (Dal fiume al mare. Un lungo viaggio tra gli spaesati di Castelvolturno, Edizioni Scientifiche Italiane 2001), sottolineano come a Castel Volturno sia mancata una programmazione capace di gestire la corsa dalle campagne alla costa e come questa mancanza sia stata la causa di un sistema di abusivismo e di clientele, fatto di legami tra Camorra, imprenditori e Stato, che perdura tutt’oggi: il caso della famiglia Coppola è esemplare. Possiamo però dire che Castel Volturno è comunque un non-luogo funzionale al sistema capitalistico, è uno spazio che può essere paragonato alle Bantustan del Sud Africa dell’Apartheid: bacini di forza lavoro a basso prezzo, cloaca della grande industria che vede la possibilità di smaltire rifiuti a basso costo, città invivibile dove è possibile concentrare un numero altissimo di immigrati irregolari, dormitorio per chi non può più permettersi una casa a Napoli o a Caserta: zona grigia dove è difficile stabilire con certezza che cosa è la legalità. Nel sistema capitalistico non può non esistere una Castel Volturno che funzioni come valvola di sfogo. La città diventa anche un’ottima vetrina per le operazioni dello Stato (che quando vuole mostrare la sua presenza si inventa il “modello Caserta”) e per le associazioni che qui crescono come funghi. I missionari Comboniani, che hanno nel loro carisma quello di stare con “i più poveri e abbandonati”, hanno scelto non a caso di operare a Castel Volturno. Castel Volturno è quindi una realtà complessa che come tale non va semplificata ma analizzata. Di seguito si cercherà di dare rilievo alle questioni essenziali e maggiormente problematiche, tentando di evidenziarne le caratteristiche principali ma tenendo sempre presente che questi temi non sono tra loro isolati ma vanno tutti compresi partendo dall’idea di Castel Volturno come “cloaca del Sistema”. Era necessario creare questo degrado per avere una zona franca dove poter gestire in pace i propri interessi criminosi. Eco Sistemi 39 camorra Due 40 1. vedi Daniela De Crescenzo, Confessioni di un killer, L’ancora del Mediterraneo 2012) 2. Casalesi: un patto tra casertani e africani, Il Mattino del 20 agosto 2008), Castel Volturno non ha una Camorra locale ma subisce l’influenza di quella Casalese, soprattutto della famiglia Bidognetti. Gigi Di Fiore (L’impero. Traffici, storie e segreti dell’occulta e potente mafia dei Casalesi, Rizzoli 2008) sottolinea anche l’influenza delle famiglie Luise-Morrone, satelliti dei Casalesi. Recentemente, fino al suo arresto, Peppe Setola ha tentato di affermare il suo dominio sul litorale domitio. Il business della Camorra su Castel Volturno è legato soprattutto ai rifiuti e il paese diventa luogo di nascondiglio per latitanti e bacino di manovalanza per azioni criminali. Oreste Spagnuolo, pentito di Camorra, afferma che tutto il litorale domitio paga la tangente a Zagaria ma visto gli imminenti lavori al Villaggio Coppola, Setola e i suoi hanno scatenato la guerra per ritagliarsi una fetta consistente di guadagno1. Il legame tra la camorra e il Comune – commissariato diverse volte per infiltrazioni mafiose – sembra consolidato: sempre Spagnuolo dichiara che Scalzone era un loro “burattino” mentre Nuzzo era facilmente ricattabile. Come evidenziato da Rosaria Capacchione2, esistono sicuramente rapporti di affari sulla prostituzione e sulla droga tra la camorra e la mafia nigeriana. La convivenza chiaramente viene imposta a suon di polvere da sparo: dal 1986 al 1990 ci sono stati 16 tra omicidi e ferimenti di africani e albanesi. Il 23 aprile 1990 la prima strage di immigrati, a Pescopagano: 5 morti e 7 feriti, i bersagli dovevano essere alcuni spacciatori nigeriani e tanzaniani. Scopo della strage era dare un avvertimento alla mafia nigeriana e farla allontanare dal litorale. È facile sentire la gente di Castel Volturno lamentarsi per il fatto che il paese non è neanche riuscito ad esprimere una propria famiglia camorrista: è come se la gente si sentisse abbandonata perfino dalla camorra. immigrazione Negli ultimi trent’anni il numero di immigrati presenti sul territorio è aumentato notevolmente e, da luogo di villeggiatura, Castel Volturno è passata ad essere una città tra le più sature di manodopera extracomunitaria. Non a caso Fabio Amato definisce la provincia di Caserta come una delle province più “nere” d’Italia3. Gli immigrati dell’Africa sub-sahariana costituiscono, infatti, una parte rilevante della popolazione straniera residente a Castel Volturno. Ciò è dato dalla vasta possibilità di occasioni di lavoro temporanee e precarie che offre l’economia locale. Le opportunità di lavoro vengono offerte da chi cerca lavoro a basso costo (lavori in campagna, giardiniere, muratore) che raccolgono i migranti presso i “Kalifoo ground” – letteralmente “terre- no dove trovare i kalifoo”, schiavi a giornata, come vengono etichettati in Libia gli immigrati in transito verso l’Italia – ossia punti della città dove si incontrano i migranti per lavorare a giornata: 10/12 ore di lavoro nei campi o nei cantieri per 24 euro al giorno. Nell’area di Castel Volturno i maggiori “Kalifoo Ground” sono a Giugliano, Licola, Aversa, Villa Literno, Cancello Arnone, Arzano, Pianura. Possiamo quindi affermare che questo comune è un punto di riferimento per gli africani perché permette di vivere in una condizione di “galleggiamento”, ossia di irregolarità, ma anche di recuperare le reti di connessione con i paesi di partenza. La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Nigeria con il 35,5% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dal Ghana (10,1%) e dall’Ucraina (7,0%). A questi si deve aggiungere il numero di migranti irregolari, difficile da stimare. I settori economici di impiego sono l’artigianato, l’agricoltura, il commercio e l’edilizia. Prendendo spunto da una definizione di Sayad 4, gli immigrati di Castel Volturno sono visti solo ed esclusivamente come “forza-lavoro provvisoria, temporanea e in transito”: devono lavorare ma al tempo stesso devono sparire dagli spazi di vita sociale locale. Danno fastidio ma sono anche quelli che mantengono l’economia locale, in particolare quella degli affitti, e consentono a molte imprese di sopravvivere grazie al basso costo del lavoro immigrato. Eco Sistemi 41 genocidio ambientale È in atto un vero e proprio genocidio ambientale. Il comune di Castel Volturno è l’unico della Campania ad avere avuto, nel 2008, la tipizzazione delle matrici ambientali, e le criticità di questo monitoraggio coincidono con i siti indicati dal pentito Di Caterino. Nel 2006 il rapporto di sintesi dello studio epidemiologico pone Castel Volturno in “area di rischio 5”, il livello massimo. Un recente congresso dell’Ordine dei Geologi della Campania tenutosi a Castel Volturno ha evidenziato come di fatto le bonifiche siano impossibili proprio per la quantità e la complessità delle sostanze: l’unica soluzione sarebbe quella di fare di questo territorio una zona “no food” e destinare le aree agricole ad altri tipi di economia. Pietro Comba, responsabile del dipartimento di Epidemiologia Ambientale dell’ISS, riferendosi a uno studio che analizza i dati ambientali e le percentuali di mortalità di 196 comuni nelle province di Caserta e Napoli, commissionato dal Dipartimento della Protezione civile e realizzato, tra gli altri, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, afferma che “lo studio 3. Dal sud del Sahara verso il Mediterraneo, in “Meridione. Sud e nord del mondo”, vol. 2 del 2010). 4. La doppia assenza, Raffaello Cortina Editore 2002 ha rilevato percentuali del 9% in più per gli uomini e del 12% in più per le donne del rischio di morire di tumore e 84% in più di possibilità di far nascere un bambino con malformazioni congenite, se si risiede nei comuni di Acerra, Aversa, Bacoli, Caivano, Castel Volturno, Giugliano in Campania, Marcianise e Villa Literno” 5. Lo stesso studio rileva come, oltre a questi otto, anche in altri comuni “della provincia di Napoli e Caserta esiste in media un incremento del 2% della mortalità ed un eccesso del 4% di malformazioni dell’apparato urogenitale e nervoso per la popolazione residente nelle zone maggiormente interessate da pratiche illegali di smaltimento e incenerimento di rifiuti solidi urbani e pericolosi.” Due 42 5. www. protezionecivile.gov.it/ resources/cms/ documents/ Studio_di_correlazione.pdf. A Castel Volturno la prassi consueta è quella della rappresentanza. La società civile corre il rischio di essere un ostacolo più che un enzima di trasformazione e cambiamento. Badiou afferma che la politica comincia quando non si vuole rappresentare le vittime ma quando si rimane al fianco di quegli eventi in cui le vittime affermano se stesse. È incoraggiante in questo senso la nascita di comitati di cittadini che si impegnano nella lotta contro il biocidio e per il diritto alla vita. condomini di Giovanni Zoppoli È sabato pomeriggio e un papà gioca col suo bambino di tre anni nel cortile di casa. Il rapporto con la terra, qualcosa che possa collegare con le radici e con il ciclo della natura, osservare un seme che diventa frutto: cose fondamentali diventate impossibili in una vita tra i palazzi. Oggi l’orto in giardino, sul terrazzo, in cassetta diventano abitudine sempre più diffusa. E anche questi papà e figlio stanno coltivando il loro orto in cassetta. Finita la stagione dei pomodori è arrivata quella di friarielli, lattuga e altre piante invernali. Il contenuto della cassetta va mescolato, rimestato, quello che sta sopra deve andare sotto per accogliere al meglio i nuovi semi, proprio come si farebbe con un terreno in campagna aperta. E così i due ne approfittano per divertirsi, mettono le mani nel terreno, ci ficcano tutte le dita, la mano, il braccio… si fanno quasi la doccia con questo terreno. Di fronte c’è solo il vecchio loto in mezzo a cumuli di terreno e ammassi di materiali di risulta. Sono diversi mesi ormai che nel palazzo i condomini fanno lavori di ristrutturazione e per tutta l’estate in quel cortile c’è stato solo un monticello nero fatto dell’ex copertura del tetto e degli altri materiali di risulta. Oltre il cortile palazzi, palazzi, palazzi, qualche gabbiano e un colombo. Siamo a Materdei, quartiere napoletano sempre più in. Papà e figlio hanno quasi finito. Hanno cambiato la plastica che riveste le pareti della cassetta e sparso i semi. È a quel punto che al papà torna in mente un’immagine appena vista: quando era andato a prendere le cassette con le vecchie piante di pomodoro, accanto ha notato degli strani tubi. Il papà è un po’ paranoico e torna a vedere. È tempo di emergenza ambientale in Campania, sui principali media è esplosa la questione dei rifiuti (finalmente di quelli tossici sotterrati e disseminati un po’ dappertutto) e il papà ha accentuato i suoi tratti ipocondriaci. Guarda i tubi, ne conta almeno una decina e dalle sezioni spezzate non ha dubbi: è eternit, amianto. Accanto a tutti i materiali di scarto dei lavori di questi mesi, anche questi tubi di amianto. Cercando di dissimulare lo spavento il papà torna da suo figlio, lo accompagna a casa e lo mette a mollo nella vaschetta da bagno. Il papà chiama il suo amico ricercatore in fisica, che appena vede i tubi conferma la sua ipotesi. Il giorno dopo quando va all’Università l’amico fisico fa vedere ai colleghi le foto di quei tubi e tutti confermano che si tratta di amianto. Il papà è sempre più in preda al panico e non sa che fare. È assalito da pensieri angosciosi. Cosa hanno respirato lui, la compagna e il figlio in tutti questi mesi? Che può essere rimasto delle polveri sottili nel terreno di quelle cas- Eco Sistemi 43 Due 44 sette di pomodori così vicine ai tubi di amianto spezzati? Andarcene tutti via di casa? Denunciare alla polizia l’accaduto? Chiamare il proprietario e avvertirlo? Intanto si informa sulle conseguenze legali di un atto come questo. Il codice penale parla chiaro: galera, ammende pecuniarie… Insomma c’è da passarsela brutta per un reato così. Alla fine decide di chiamare il proprietario e di avvisarlo della scoperta. Il proprietario di casa è rispettabile avvocato del Vomero, un signore perbene, sciolto, simpatico. Dice di non saperne niente di questi tubi, che di sicuro sono di Pvc e che se mai ci fossero tubi di amianto nel cortile lui non ne saprebbe niente. Papà e mamma chiamano un tecnico che in via amichevole verifica che questi tubi sono proprio di amianto. Avuto il responso certo del tecnico il papà avvisa il proprietario con un sms: “è amianto”. Quello gli risponde “no”. Il papà è al lavoro e appena due ore dopo quel messaggio riceve una telefonata allarmata dalla sua compagna: “Un camioncino va via veloce dal cancello e al posto dei tubi in eternit ne sono comparsi degli altri in Pvc”. La madre ha gridato a quel furgone di fermarsi, di non permettersi di andare via. Ha il figlio in braccio che è appena tornato dall’asilo e non sa cosa stia succedendo. Il furgoncino ovviamente non sente nemmeno quelle urla e scappa a tutto gas. Quando riceve la telefonata il papà sta andando a una manifestazione delle Terre dei fuochi, una delle tante che finalmente in questi giorni ha cominciato a invadere le vie dei comuni martoriati tra Napoli e Caserta. Cambia strada e va a prendere figlio e compagna. Intanto dal cellulare chiama il proprietario, lo avvisa dell’accaduto. L’avvocato fa il cavilloso, dice che lui ha subito avvisato il direttore dei lavori, i suoi tubi erano di Pvc. Il papà non può che urlargli VERGOGNA! E abbassare il telefono. La madre intanto ha chiamato la polizia, ma che può fare ormai la polizia? Ah ci sono anche le foto? Bene bene. Sì venite a fare la denuncia, ma noi che possiamo fare ormai? I tubi se li sono portati? Sì verremo ma… Le cassette con friarielli e lattuga rimangono incredule e solitarie a guardare i nuovi tubi di Pvc. Difficile raccontare qualcosa in terza persona, quando la terza persona sei tu e la rabbia ancora ti pervade. Un’ordinaria giornata campana, come ce ne sono tante, ma vissuta sulla propria pelle rende ancora più amari i perché di una terra in rovina. Malgrado le migliaia di manifestanti che invadono le strade, la gente che conta continua a costruire imperturbabile il presente come ha imparato a farlo in questi anni di immonda stupidità collettiva. Sono passati ormai due mesi da quella giornata. Nel mio cortile condominiale le cose sono cambiate con una rapidità impressionante: in pochi giorni hanno terminato i lavori e messo tutto a posto; gli altri condomini ci guardano con un misto di riconoscenza e diffidenza; il proprietario ormai comunica con me solo via raccomandata. Ovviamente la vicenda condo- miniale è rimasta nel più assoluto “privato”, essendo per noi impossibile dedicare tempo incalcolabile al nobile fine dell’accertamento dei fatti e delle responsabilità di quanto accaduto. Ma qualcosa è cambiato, almeno al di fuori del piccolo condominio. La notizia “rifiuti tossici nella Regione Campania” è deflagrata ed ora è come se vivessimo in una fase 3. “L’acqua pubblica di ventuno Comuni è costretta in condotte realizzate con cemento amianto. Tutto certificato dalle mappe dell’Ambito Territoriale Ottimale (Ato2). Una buona parte dei 113 chilometri totali di vecchie e pericolose condotte si snodano lungo i monti del Matese, i pendii del vulcano di Roccamonfina e del Montemaggiore. I sindaci appaiono impotenti e rassegnati davanti al problema. Soldi che non ha il consorzio idrico e nemmeno i municipi (...) I Comuni interessati dalla presenza di condotte con l’amianto sono Conca della Campania, Tora e Piccilli, Marzano Appio, Galluccio, Roccamonfina, Caianello, Alife, Capriati e Volturno, Fontegreca, Gallo Matese, Dragoni, Baia e Latina, Bellona, Grazianise, Carinola, Casapulla, Portico di Caserta, Casagiove, Macerata Campana e Villaricca”. Così scrive l’edizione napoletana del Corriere della Sera del 21 dicembre 2013. A fronte di questa e delle moltissime altre notizie che in questi mesi hanno riempito, oltre al web, anche le prime pagine dei principali quotidiani locali, i miei tubicini di amianto sono davvero un’inezia. La stessa proporzione c’è tra l’angoscia (probabilmente sproposita) che mi assalì davanti a quei tubi, e il panico che si è scatenato in questi giorni in tutta la regione. Il papà di un bambino che conosco fa il fruttivendolo a Giugliano: ha dovuto chiudere perchè nessuno voleva più comprare la verdura da lui. Il mio amico affermato imprenditore agricolo sul Vesuvio se la sta passando davvero brutta: molti dei suoi clienti del nord Italia e del resto d’Europa da lui non vogliono comprare più niente. I dati parlano chiaro e basta leggere i quotidiani locali di questi giorni per scoprire le conseguenze che le notizie sull’ambiente stanno avendo sull’agricoltura campana. Notizie ovviamente non di rado false e su cui sono piombati sciacalli vecchi e nuovi dell’informazione, vendendo spesso vere e proprie bufale. L’Espresso ad esempio, nel cercare di cavalcare la una notizia priva di validità scientifica che vedeva gli americani gridare all’allarme per l’acqua inquinata di Napoli, sono addirittura riusciti a risollevare un po’ l’immagine del sindaco De Magistris (che ha potuto fare finalmente una figura decente smascherando la mala informazione del settimanale). La fase 3 di cui parlavo non è insomma meno paradossale delle precedenti. Né della prima, quella in cui nel territorio della Campania si sversava di tutto e tutti sapevano ma nessuno (tra chi aveva il potere di farlo) faceva niente. La fase 2 quando tutti hanno cominciato a fare a gara per denunciare quanto spacciata fosse la situazione in Campania, mettendo in evidenza quanto non solo i rifiuti sotterrati, ma anche l’inquinamento elettroma- Eco Sistemi 45 Due 46 gnetico, il wi-fi di computer e modem, gli impianti di aereazione di intere università e parti consistenti di edifici scolastici fossero costruiti in eternit. Insomma, quanto ormai non ci fosse più scampo alla morte prematura di tutti e non solo in Campania. La fase 3 è quella in cui si sa tutto (e anche di più) ma niente cambia. Non ci sono soldi per le bonifiche efficaci e quindi le bonifiche non cominciano. Chi deve fare i lavori di muratura in condominio o in appartamento, per risparmiare, continua a rivolgersi a ditte che smaltiranno i rifiuti in maniera balorda. A Scampia, come nel resto dell’area nord di Napoli, la sera continua ad alzarsi il fumo degli incendi di copertoni (smaltiti in questo modo) che rendono l’aria irrespirabile. Non ci sono mai stati così tanti controlli sui generi alimentari campani, ma ora nessuno ne vuole più. Situazioni estreme come quella del campo rom comunale di Giugliano (vero luogo di sterminio per la sua ubicazione tra fonti inquinanti) non vengono nemmeno messe in discussione. Nelle terre dei fuochi ci vengono ormai tutti e tutti i giorni, politici di governo e di opposizione. Ma poi sembra che la risposta sia sempre la stessa: servirebbero troppi soldi e poi nessuno ci crede che qua qualcosa potrà essere bonificato. Il movimento di protesta è molto cresciuto e ha anche già cominciato a dividersi. L’impressione è insomma che siccome la situazione è davvero troppo catastrofica per poter fare qualcosa, la via sia quella di tornare alla fase 1: si sa, ma è meglio che facciamo finta di niente. L’unica speranza sta nel livello di consapevolezza diffuso, soprattutto tra chi non ha ancora raggiunto la maggiore età. Rispetto a vent’anni fa l’attenzione di chi oggi vive in Campania ha fatto su questi temi un enorme balzo in avanti. Anche durante il primo incontro di ScAttiva del 2013, la giornata seminariale organizzata dal Mammut di Scampia a inizio settembre, i molti insegnanti, medici, psicologici e operatori sociali presenti sembravano tutti d’accordo sull’assoluta necessità di occuparsi in maniera urgente della questione ambientale. Più volte in quell’occasione si è parlato di quanto fosse triste e assurdo che le campagne venissero ormai ritenute luoghi di pericolo per la salute, molto più della città, per i rifiuti del sottosuolo. Subito dopo il terreno portatore di malattia, quella mattina fu la scuola a essere additata come altro luogo capace di nuocere gravemente alla salute. Oltre al quotidiano esercito di reclusi dietro a un banco, ogni giorno il malessere di insegnanti, genitori e altri lavoratori della scuola si riversa massicciamente su bambini e ragazzi che si pretenderebbe di educare. Un paio di giorni fa una maestra riprendeva in maniera durissima una bambina di seconda elementare perché a suo dire stava seduta in modo sbilenco dietro al banco: “Ma non lo capisci? Lo sai perché ti punisco? Lo sai che se continui a sederti in quel modo l’anca ti entra e tu non potrai più avere figli? Mai più!” Non sono a conoscenza di studi sulle connessioni tra anca rientrata per seduta sbilenca e fertilità femminile, ma è evidente che il problema serio ce l’aveva la maestra. E i 30 alunni costretti ad essere in suo pugno 5 giorni alla settimana, per nove mesi, per 5 anni? Se sulla nocività del terreno c’è ormai molta consapevolezza, su quanto la scuola possa incidere sulla salute molto meno. Ed è proprio intorno a questo argomento che abbiamo fatto ricerca con le scuole e le associazioni che quest’anno hanno partecipato al gioco di teatro-quartiere “Il Mito del Mammut”: sulla possibilità di trasformare scuola e territorio in luoghi che potenziano la salute invece della malattia. La strada è lunga e l’argomento evidentemente ostico, anche perché il rischio di incagliarsi negli ultimi ritrovati del terrorismo salutista e dello psicologismo da quattro soldi è sempre dietro l’angolo. Ipocondria e inglesismi della valutazione come Pes, Bes e bestialità affini, sono il primo ostacolo perché davvero possa cambiare qualcosa nell’ordinario scolastico. Ma ancora una volta non possiamo che scegliere di provarci, se l’alternativa è far finta di niente o andare solo alla ricerca del marcio. Eco Sistemi 47 2. la città la città dei bambini inchiesta su salute e città di Alessandra Di Fenza R Due 48 estringiamo il campo ed entriamo nelle “porte” scelte per questa nostra seconda avventura Mammut (che ricordiamo sono state: carcere, aula, migranti-rom, ecosistema). Durante il giro fatto a settembre 2013 in occasione del seminario ScAttiva – incontri conviviali per la scuola attiva tra le scuole partecipanti al Mito del Mammut abbiamo deciso insieme su cosa concentrare la nostra ricerca. Nelle pagine che seguono le considerazioni dei bambini si incrociano con quelle di un gesuita e di un attivista fornito di intelligenza per darci un quadro d’insieme del carcere, istituzione totale per eccellenza, eccesso estremo che faremmo bene a leggere non come isola, anomalia del sistema, ma come lente d’ingrandimento rispetto a quanto avviene normalmente. Anche a scuola. Il contributo bolognese di Luca Lambertini mostra come sia piuttosto l’intera città a rivelarsi un “carcere globale”, con sbarre fatte di paure e mille normative sulla sicurezza che alla lunga si rivelano un boomerang per qualsiasi autentica sperimentazione di liberazione. Dell’asfissia burocratica e legislativa di una “scuola della paura” troverete traccia anche nei racconti “Aiuto/Sgarrupo” riportati nei capitoli successivi: la tutela della salute e della sicurezza a scuola diventa il terreno di fobie e nevrosi collettive, facendosi a sua volta causa di malessere e malattia. Oltre che di una pessima scuola. Indicatori mobili di tutto questo “gli stranieri” e il modo in cui la città riesce a rapportarsi con la loro presenza: Yasmine Accardo ce ne fa un racconto appassionato. Anche su rom e migranti abbonda la letteratura e non manca quella di buona qualità. È sotto gli occhi di tutti la stupidità e la mala fede che in tutta Europa fa di rom e migranti un insostituibile oggetto di speculazione politica, alimentata dall’indisponibilità della base, di destra o sinistra che sia, a capire in maniera autonoma i termini reali della questione. All’ottusa criminalizzazione a destra di rom e migranti come causa di ogni male corrisponde a sinistra la criminalizzazione ad oltranza di chiunque osi far rilevare le “ombre” della presenza migrante. Intanto i cittadini di periferia continuano a respirare i fumi da smaltimento abusivo di copertoni e materiali tossici, anche ad opera di pochi rom e migranti assoldati a basso prezzo. E una cittadina immigrata muore perché non adeguatamente accettata al pronto soccorso dell’ospedale di Pozzuoli dove si era recata per un malore. Le nostre porte ci fanno entrare insomma in un “luogo-mosaico”, frutto dell’interdipendenza tra ciascuna delle etichette che la nostra ricerca ha tentato di mettere in discussione: carcere, scuola, migranti, rom e ecosistema. L e frasi riportate sono il frutto di un’inchiesta realizzata con i bambini e le bambine dell’area nord di Napoli sul tema “salute e città”, tratte dai racconti della II edizione dei Concorsi di MammutBus: “Una giornata salutare ovvero quel giorno in cui a scuola o in città sono stato bene o male”. in città Città La mia città la voglio colorata e con i fiori. (II E, I.C. 58° “J.K. Kennedy”) A noi bambini piace giocare all’aria aperta, invece a Chiaiano vogliono aprire un’altra discarica! (V A, I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”) Arrivata alla Villa Comunale c’erano delle siringhe e papà le ha raccolte per non farmi far male. All’inizio mi sono spaventata poi ero felice. (Sara, II A, 5° Circolo Didattico “Eugenio Montale”) Il giorno che mi sono sentito proprio bene è stato quando sono salito su un cavallo alto e ho cavalcato piano. (Pasquale, V B, I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”) Sulle strade ci sono tanti fossi e molte macchine, biciclette e motorini ci sbattono dentro. (Roberta, III D, I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”) Dal balcone di casa di mia nonna ho visto un signore che dalla sua auto abbandonava i rifiuti per strada. (Desirée, III D, I.C. 28 “Giovanni xxiii – Aliotta”) Che bello viaggiare con il camper con tutta la famiglia. Al mare ho scoperto sotto la sabbia dei denti di pesce antico. (Luigi, III D, I.C. 28 “Giovanni xxiii – Aliotta”) Un giorno salutare per me è stato quando il 15 gennaio sono andata allo stadio con tutta la famiglia e mi sono divertita tantissimo. (Giulia, III D, I.C. 28 “Giovanni xxiii – Aliotta”) 49 Dentro all’ascensore del mio palazzo fumano le sigarette e io mi sento male. (Pietro II A, 5° Circolo Didattico “Eugenio Montale”) Sto male quando sento fumare, sto bene quando il prato è fiorito. (Ilaria II E, I.C. 58° “J.K. Kennedy”) Invece di usare prodotti naturali si usano prodotti chimici che fanno male alle piante e a noi che le mangiamo. (Gaia III D, I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”) La mia città può diventare migliore se le persone iniziano a rispettarsi. (Samanta II B, 5° Circolo Didattico “Eugenio Montale”) a scuola Quel giorno sono stata felice perché ho visto i delfini che nuotavano. (Patrizia V B, I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”) Due Andare in palestra mi fa stare bene, qualche tempo fa ho imparato il flic flac, un esercizio della ginnastica artistica molto difficile, ed ero molto contenta. (Tiziana V B, I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”) Quando mamma e papà ridono, se sono dispiaciuta mi sento meglio! (Loredana II A, 5° Circolo Didattico “Eugenio Montale”) Quando incendiano i rifiuti si forma un fumo nero. Io l’ho una volta l’ho respirato è mi è venuta la febbre. (Christian Leone III A, I.C. “Ilaria Alpi – Carlo Levi”) 50 A Scampia ci sono le immondizie ma pure fiori di tutte le specie e farfalle bellissime. (Angela III A, I.C. “Ilaria Alpi – Carlo Levi”) Non mi piace che chiamano la mia città la terra dei fuochi e che le persone si ammalano. (Lucia III A, I.C. “Ilaria Alpi – Carlo Levi”) Mi chiamo Riccardo e abito nel campo rom. Il Mio campo viene trattato come una discarica, le persone arrivano e buttano l’immondizia: televisori, lavatrici, mobili, frigoriferi. (Riccardo III A, I.C. “Ilaria Alpi – Carlo Levi”) I camorristi per motivi economici hanno fatto trasportare dal nord al sud tutti i rifiuti tossici. Ora la terra è contaminata, l’aria puzzolente e infetta. (Desiree V F, I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”) Chiaiano era famoso per essere il paese delle ciliegie e nel mese di giugno si organizzava una grande festa. Ora questa festa non si fa più! (Ilenia V F, I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”) Sto male quando buttano la spazzatura per terra. Sto bene quando vado in palestra. (Martina - Gabriella II E, I.C. 58°“J.K. Kennedy”) Quel giorno a scuola sono stato proprio bene perché ho festeggiato il mio onomastico, abbiamo mangiato tutti insieme e riso tanto. (Emanuele V B, I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”) Ricordo che ero molto felice di andare in prima elementare perchè avrei conosciuto nuovi amici e imparato nuove cose. (Antonio V B I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”) Città È stato bello partecipare con la scuola al carnevale di quartiere, noi come carro abbiamo portato l’orto mobile. (Francesco III B, 5° Circolo Didattico “Eugenio Montale”) A scuola io e Camillo abbiamo preparato i cartelloni da portare alla manifestazione contro la discarica. Il giorno dopo ci siamo andati e mi sono molto divertita perché abbiamo potuto dire quello che vogliamo. (Clelia I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”) Il 22 febbraio la mia classe ha vinto il premio “Il presepe in bottiglia”. Per ritirarlo siamo usciti in metropolitana. A Toledo, con Tonino, Carmine e Alessandro, ci siamo mangiati una pizzetta in attesa della maestra e degli altri compagni. (Pasquale III D, I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”) Il 7 Marzo la mia scuola ha organizzato un flash mob contro la violenza sulle donne, abbiamo ballato, preparato i cartelloni, percorso le strade del quartiere fino al Comune. Sono stata bene. (Simona, Salvatore, Antonio, 5 F) 51 la dittatura della sicurezza di Luca Lambertini L Due 52 a storia che qui racconto velocemente e per sommi capi non ha propriamente a che fare con sperimentazioni didattiche e lavoro educativo, ma mi sembra esemplifichi bene il corto circuito che si è creato attorno agli spazi pubblici urbani in questi ultimi anni e aiuti alcune riflessioni che probabilmente suoneranno familiari, addirittura banali, a chiunque si sia misurato con problemi di questo tipo. Nel parco di un quartiere periferico della città di Bologna, esposto come tutti al rischio di diventare un grande quartiere dormitorio, era sopravvissuto fino a un paio di anni fa un piccolo chiosco. Il chiosco era un luogo importante: esisteva da molti anni, era stato realizzato negli anni ‘80 dagli abitanti della zona per rivitalizzare una piccola area verde che si trovava a ridosso del fiume Reno. Il parchetto era uno dei pochi allora presenti in quest’area, caratterizzata dalla presenza di stabilimenti industriali e artigianali disseminati nel tessuto urbano del quartiere. Per questo era (ed è ancora) tanto caro ai residenti, che lo frequentavano numerosi e con il tempo hanno cominciato a prendersene cura. Da allora le aree a ridosso del fiume Reno hanno subito notevoli cambiamenti: con la chiusura delle numerose attività industriali e artigianali della zona, le grandi aree vuote sono diventate riparo per le prime massicce ondate migratorie. Dall’inizio degli anni 2000 tutta la zona sarebbe diventata famosa per le estese baraccopoli in cui trovavano un primo riparo i tanti immigrati (provenienti soprattutto dalla Romania) che arrivavano in città per lavorare (quasi sempre in nero) nei numerosi cantieri aperti negli anni della grande ubriacatura edilizia. Proprio in quegli anni l’attività del chiosco si è ampliata: da un piccolo bar di pochi metri quadrati si è trasformato in una piccola attività ristorativa, dove magiare tigelle e crescentine a prezzi accessibili. Successivamente la zona in cui si trova il parchetto ha subito altri cambiamenti. Nei vuoti lasciati dalle fabbriche sono stati costruiti nuovi palazzoni residenziali, mentre il “sindaco sceriffo” ha condotto una lotta senza quartiere agli accampamenti, sgomberando a più riprese gli insediamenti più grossi e costringendo i suoi abitanti a inventarsi tanti piccoli rifugi improvvisati e ancor più provvisori in giro per il quartiere e la città. Ma per i cittadini, il parco e il chiosco avevano mantenuto intatto il loro valore e quella era una delle poche aree verdi attrezzate con giochi per bambini e dove poter cenare con gli amici, ritrovarsi per un gelato o bere qualcosa nei mesi estivi. Uno dei rarissimi luoghi del quartiere frequentato da bambini, giovani e anziani, famiglie italiane e di origine straniera, dove insomma tutti andavano volentieri e si incontravano “alla pari”. Un luogo di incontro e di senso in una periferia che, come tante, negli anni aveva visto il progressivo diradarsi dell’antico tessuto sociale, che si era formato attorno ai luoghi di lavoro (le fabbriche) e l’impegno pubblico e politico (il quartiere era considerato una “roccaforte rossa”). La “crisi” (a oggi irreversibile) è cominciata un paio d’anni fa, quando a ridosso del parco, proprio dietro il chiosco e l’area giochi, si è trasferita una coppia che, confondendo come spesso accade, uno spazio pubblico con il proprio giardino di casa, ha cominciato una lotta senza quartiere ai frequentatori del parco (clienti del chiosco e frequentatori del parco giochi), rei di fare rumore e baccano (degrado?) anche la sera e di non garantirgli la dovuta quiete. Purtroppo il conflitto si è allargato in poco tempo, coinvolgendo anche i gestori del chiosco e i frequentatori “storici” dell’area. Ben presto sono cominciati gli interventi di vigili urbani e forze dell’ordine, convocati dai contendenti. L’unico risultato di questi primi sopralluoghi è stata la scoperta che molti dei giochi presenti non rientravano nelle normative più recenti sulla sicurezza e piano piano sono stati smantellati. Ma i giochi non sono stati le uniche vittime della contesa: gli agguerriti avvocati delle parti ben presto hanno scoperto che l’allargamento del chiosco era avvenuta con alcune scorrettezze dal punto di vista urbanistico e che anche il chiosco risultava quindi abusivo. Anche questo è stato, quindi, costretto a chiudere e poi demolito. Nel frattempo le forze politiche locali non sono restate ferme a guardare, regalandoci un dibattito spesso fuori fuoco e autoreferenziale: fin dall’inizio della vicenda a difesa del cittadino vittima di tanto degrado sono intervenuti gli attenti difensori della legalità e dell’ordine pubblico, così come i nuovi movimenti con attivisti pronti a schierarsi a fianco del cittadino vessato dalle voci dei bambini e dalle chiacchiere dei frequentatori del parco. Quando è poi emerso l’abuso edilizio allora il caso è diventato cittadino, con video inchieste di denuncia stile “striscia la notizia” e astuti complottisti che individuavano in questa vicenda oscure trame di potere... insomma è stata una vicenda che ha tenuto banco per qualche tempo, senza che nessuno però ne cogliesse l’effettiva portata: la distruzione di un luogo importante e significativo per tutti gli abitanti del quartiere, che si stava compiendo sotto gli occhi di tutti. Solo in pochi hanno colto la gravità di quanto stava accadendo. Il triste epilogo è stata la distruzione di uno spazio pubblico, effettivamente “di tutti”, a causa di usi privatistici del luogo (lotta al degrado e abusi edilizi) che sono entrati in conflitto tra loro. Quello che resta è la constatazione di quanto sarà difficile ora cercare di ricostruire in quel luogo qualcosa di sensato. Città 53 Due 54 In quel luogo alcuni decenni fa un gruppo di cittadini si era impegnato per rendere uno spazio pubblico più vivibile e accogliente per tutti, e questo è probabilmente l’ABC, l’essenza del fantomatico “lavoro di comunità” di cui oggi tanto si parla e si ragiona: prendersi cura assieme dei luoghi in cui si abita, delle persone in difficoltà, della crescita e dell’educazione di bambini e ragazzi. Abbiamo visto quanto oggi sia facile distruggere quanto realizzato in passato con quei metodi. E questo è un primo indice di quanto possa essere mutata (in peggio) la possibilità di lavorare sullo spazio pubblico. Gli spazi pubblici sono infatti gravati da una serie di vincoli normativi che negli anni si sono stratificati e che, pur essendo nati per promuoverne l’uso, il presidio e la valorizzazione, hanno finito per strangolarli. I giochi e le attrezzature di un’area verde, per restare nell’ambito della nostra storia, devono rispettare precise norme relative a materiali, metodi di montaggio, manutenzione che li rendono difficilmente sostenibili per enti locali sempre più senza risorse e non possono essere presi in carico dai cittadini, sempre per via del groviglio di vincoli da rispettare. Sui giochi nei parchi pubblici a Bologna tira una brutta aria da quando nel 2008 un bambino morì (dopo mesi di coma) dopo la caduta da un’altalena che si è rotta mentre la usava. Da allora le preoccupazioni sulle aree gioco sono lievitate con la conseguenza (aggravata poi dai bilanci sempre più risicati degli enti locali) che i giochi nei parchi si sono molto diradati e, in caso anche di piccole rotture, restano chiusi e inagibili per mesi. Se poi si volesse allargare il campo ad altre attività che sono caratteristiche del lavoro di quartiere e di vicinato come la musica o il cibo allora la giungla dei vincoli diventerebbe ancor più inestricabile. Per realizzare una piccola festa di quartiere è necessario infatti procurarsi certificazioni di ogni tipo (gli impianti, l’impatto acustico, il corretto montaggio delle strutture, ecc.) e coinvolgere (e pagare profumatamente!) numerosi professionisti e tecnici. Oltre a dover allestire luoghi idonei con la normativa igienica e sulla sicurezza (bagni, cucine, magazzini, spogliatoi, ecc.). Tutto questo non rende impossibile realizzare iniziative di trasformazione (anche temporanea) degli spazi, ma rende il tutto estremamente costoso e complicato, e spesso allunga terribilmente i tempi di realizzazione. Con il risultato che gli unici a poter organizzare iniziative negli spazi pubblici sono soggetti imprenditoriali e commerciali, che traggono da quelle iniziative le risorse necessarie per poter affrontare tutti gli oneri e le procedure previste. Oggi è quindi chiaro che organizzare iniziative di vicinato, su piccola scala, coinvolgendo le persone del luogo, rispettando tutti i vincoli normativi è praticamente impossibile. Diventa così necessario capire che margine di abusivismo (e quindi di rischio) le persone coinvolte sono disposte ad assumersi, che grado di adattabilità hanno alle pratiche burocratiche e ai burocrati, quanta parte delle proprie energie sono disposti a sottrarre ai progetti per dedicarle alle procedure e allo studio delle norme. In un simile scenario, capita sempre più frequentemente di incontrare persone e gruppi che abbandonano lo spazio pubblico, che battono in ritirata, che decidono di agire le loro pratiche in contesti privati, cercando poi, nei casi migliori, di rendere pubblica, cioè aperta a tutti, la fruibilità dei progetti. Un simile corto circuito dovrà arrivare prima o poi a un punto di rottura, a un acme che renderà evidente quanto sia urgente e importante un radicale ripensamento delle norme che riguardano gli spazi e i beni pubblici: come si può chiedere ai cittadini di tornare a occuparsi di questi se le norme e le burocrazie che li regolano lo rendono impossibile? Alcuni piccoli segnali di questo cominciano già a vedersi: a Bologna ad esempio è stato emanato un regolamento comunale in grado di snellire alcune procedure per aiutare i cittadini che intendono partecipare alla manutenzione e rivitalizzazione degli spazi urbani. Anche se al contempo i comitati antidegrado hanno ottenuto un regolamento sull’impatto acustico delle attività all’aperto che rende ancor più difficile e complesso organizzare anche piccoli eventi di quartiere, come piccoli concerti o cinema estivi all’aperto. Forse l’unica speranza è che la rivendicazione di poter organizzare piccoli eventi negli spazi pubblici anche per piccoli gruppi di cittadini senza grandi fondi a disposizione diventi anche rivendicazione politica. Cioè che queste associazioni o gruppi informali, che sono ormai tanti, inizino a porre questi problemi, tutt’altro che secondari, all’attenzione di chi amministra le città costringendoli a confrontarsi con loro e con le loro istanze. Città 55 3. carcere il carcere come luogo comune alcune figure sociali e hanno determinato una forte crescita di ingressi nel sistema penitenziario. Non appena vi sono state modifiche a queste norme e si è reso più semplice il ricorso a misure alternative alla detenzione, vi è stata una inversione di tendenza. È un luogo comune dunque ritenere che vi sia una correlazione diretta tra aumento di reati e aumento della popolazione detenuta. Sono le scelte politiche che determinano le dinamiche di ingresso in carcere senza che vi sia alcuna correlazione con l’andamento dei reati. di Dario Stefano Dell’Aquila A 56 metà tra i luoghi invisibili agli occhi si colloca il carcere. La parola “carcere” (il cui etimo significa appunto nascondere) è forse una delle più lette o ascoltate, nei racconti della cronaca quotidiana, e allo stesso tempo il “carcere” come luogo fisico è noto solo a quanti vi sono detenuti e a quanti (operatori penitenziari, agenti, figure civili) vi lavorano. Questo rende il carcere, oggi, in un tempo in cui nulla sfugge all’occhio di una telecamera, allo stesso tempo un luogo noto e sconosciuto. Forse è per questo che spesso lo riempiamo di luoghi comuni. Non è un limite della nostra epoca, da sempre, dalle sue origini, sul carcere si producono gli stessi inesorabili discorsi. Deve essere un luogo di punizione o deve essere un luogo di redenzione, bisogna proteggere la società o occorre rieducare, questi i poli di un discorso che non contiene molte variabili. Inutile dire che, nel discorso sociale, pesa molto di più l’opinione collettiva che invoca sempre più carcere, sempre più cattivi da mandare in cella, e che disegna il nostro sistema penale come “sostanzialmente” lassista. Quanto c’è di vero in tutto ciò? Questa pagina non offre abbastanza spazio, se non per qualche spunto che andrebbe approfondito. Procedo per punti sintetici, confidando nella pazienza di chi legge, promettendo in cambio brevità. Uno. Negli ultimi vent’anni il numero di detenuti è progressivamente cresciuto, raddoppiando in pochissimo tempo, tra il 1990 e il 2000 si è passati da 25mila a 50mila presenze. Poi una crescita inarrestabile fino ad arrivare a quota 70mila (su una capienza di 48mila), infine una lieve ma costante inversione che ha riportato il numero dei detenuti a circa 54mila unità. Che cosa è successo? Presto detto: contrariamente a quanto si possa pensare, la criminalità organizzata pesa pochissimo, meno del 10 per cento. Il 60 per cento della popolazione detenuta è composta da immigrati o tossicodipendenti ed entra in carcere principalmente per violazione delle norme sul possesso di sostanze psicotrope (droga). La legge Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi hanno avuto un forte impatto nella criminalizzazione di Due. Le carceri italiane, quelle campane in particolare, sono tutto tranne che alberghi a 5 stelle. Negli ultimi quattordici anni si sono registrati, nelle carceri italiane, 2.364 morti, tra cui 842 suicidi, e, dato sempre poco diffuso, migliaia di episodi di tentati suicidi (1.067 nel 2013) e di autolesionismo, ovvero di persone che tagliano il proprio corpo per protestare (6.092 nel 2013). Si muore per cure mancate, episodi di violenza mai chiariti, disperazione, solitudine, in celle talmente affollate che a Poggioreale, ad esempio, si arriva a una densità di 16 persone per stanza, con i letti a castello impilati per tre. Tre. Opinione comunque è che i migranti che commettono reati la facciano sempre franca. Nulla di più falso, non solo sono tra i più colpiti dall’azione penale, spesso per reati di relativo allarme sociale, come la vendita di merce contraffatta, ma scontano la detenzione in condizioni di assoluta povertà e assenza di aiuto esterno. Ancora oggi, nonostante questa presenza straniera sia consolidata da decine di anni, non vi è un servizio di mediazione culturale strutturato nelle carceri italiane, gli operatori penitenziari che hanno delle competenze linguistiche o di mediazione le hanno acquisite solo per spirito di coscienza personale. Quattro. Il carcere non lo sconta solo il condannato (o il detenuto in attesa di giudizio) ma tutta la sua famiglia. Le file interminabili che cominciano alle 6 del mattino dinnanzi il carcere di Poggioreale, le perquisizioni fisiche anche per i bambini, i trasferimenti improvvisi senza motivazioni, la sospensione di ogni dimensione affettiva rendono l’esperienza detentiva dolorosa non solo per chi ha commesso un reato ma anche per tutti i suoi cari. Cinque. Ancora oggi il nostro sistema penitenziario è costruito su una razionalità “maschile” che rende la detenzione femminile ancora più dura. Così come è dura per le mamme con bambini che sino a tre anni possono far loro compagnia “dietro le sbarre”. Si, avete letto bene. Nonostante il credo comunque alimentato da molti film, una mamma con bambini Carcere 57 piccoli finisce in carcere e ancora oggi non vi sono luoghi alternativi che consentano di conciliare l’esigenza di sicurezza con la tutela di un minore costretto a vivere una esperienza traumatica. Due 58 In queste condizioni sperare che il carcere possa essere un luogo che consente un reinserimento sociale è pura utopia. Negli ultimi anni le risorse dedicate alla parte sociale del trattamento penitenziario sono divenute prossime ai centesimi. È già molto se oggi, e solo per lo sforzo volontario e solitario di una parte del mondo penitenziario che non si è arreso ad una condizione di brutalità, si riesce a garantire una condizione detentiva che non determini inumanità e situazioni degradanti. Questa consapevolezza non deve affievolire la volontà di chi decide di lavorare in carcere, anzi deve rendere più forti. La consapevolezza che il carcere deve essere un luogo comune, un luogo di tutti. Un luogo in cui non vi siano solo persone private della libertà, ma operatori sociali, volontari, associazioni e semplici cittadini che devono certo rendere meno pesanti le condizioni di chi è recluso, ma che sappiano ogni giorno interrogarsi sulla sua necessità e sulle possibili alternative. Per farlo è necessario però abbattere, uno per uno, tutti i luoghi comuni che disegnano per gli uomini solo un orizzonte di sbarre. carcere e territorio di Fabrizio Valletti S.J. dal mio arrivo a Napoli nel 2001 che frequento sia il Centro Penitenziario di Secondigliano sia la Casa Circondariale di Poggioreale. Ma è soprattutto girando fra le famiglie del quartiere che ho preso più contatto con la realtà della detenzione con tutte le sue connessioni sociali, culturali e familiari. Quando lavoravo nelle città della Toscana e dell’Emilia Romagna, visitando i locali istituti di pena, emergeva la presenza preponderante di ristretti provenienti dal Mezzogiorno d’Italia, dalla Campania e in particolare dalla provincia di Napoli. La inquietante domanda del perché una tale percentuale di problemi giudiziari sia concentrata in un particolare territorio, ha trovato chiara risposta proprio abitando la periferia napoletana e frequentando altre realtà come quelle dei Quartieri spagnoli, dei quartieri della Sanità, di Forcella e delle altre periferie cittadine. La scorsa estate, durante un’attività di animazione nel quartiere, uno bambino era stato punto da una vespa. Lo accompagnai a casa. La nonna ci accolse chiedendomi se potevo visitare il marito che era a Poggioreale. Arrivarono presto la mamma del bambino con la sorella. Il discorso anche per loro era lo stesso… i loro uomini erano uno ad Ariano Irpino e l’altro a Carinola, istituti di pena campani un po’ più confortevoli di quelli del capoluogo. Di fronte a situazioni come queste si concentrano diverse domande sulle cause di un fenomeno così grave e diffuso. Ci si chiede anche quale processo sociale e civile potrebbe sollevare tante famiglie da una condanna che non investe solo il colpevole di un reato, ma gran parte dei suoi parenti più vicini. Nella storia di vita di molti ristretti emerge una situazione di sofferenza che risale all’infanzia. È esperienza comune nel quartiere di Secondigliano la fragilità e la povertà culturale di molte famiglie. Rappresentano un’eccezione quelle che hanno affrontato con continuità l’istruzione. Se ne deduce che non è diffusa l’esperienza di un equilibrato sviluppo di responsabilità, come anche la possibilità di affermarsi come persone libere in un clima di legalità. Il racconto del passato che molti ristretti mi confidano non rivela la coscienza di che danno e sofferenza un reato possa aver provocato alle vittime, quasi che la nebbia del vivere senza libertà abbia offuscato la capacità di cogliere il mondo intorno a sé. La condizione stessa di ristretto – di chi cioè è costretto a vivere in luoghi promiscui, senza spazio e aria, senza occupazione lavorativa, con rare possibilità di distrazione – rende la coscienza ancora più chiusa nella propria sofferenza, senza la capacità di entrare in discussione con le ragioni del pro- È Carcere 59 Due 60 prio operare. Anche la mancanza di basi culturali o di esperienze lavorative regolari restringe ancora di più l’orizzonte di un pensiero che tutt’al più si esercita nelle dinamiche della pena, dei percorsi giudiziari, nella serie dei processi affrontati o da vivere, di possibili alternative… tutti argomenti di cui i ristretti rivelano una competenza aggiornata, acuta e vigile. Dal racconto che i responsabili di reato hanno spesso affidato al mio ascolto ho potuto verificare che i colpevoli di azioni illegali sono spesso anche vittime di un sistema giudiziario lento, tanto complesso che è quasi impossibile capirne i meccanismi. Per la maggior parte dei casi il percorso della difesa, delle cause e dei processi è molto costoso e ritenuto ingiusto. È una sequenza spesso interminabile di confronti con giudici e avvocati, tribunali e carceri da raggiungere anche con lunghi viaggi, alleviata da poche possibilità di incontro con gli educatori, gli psicologi e gli assistenti sociali. Chi ne soffre in maniera speso disumana sono i familiari che con molti sacrifici cercano di essere puntuali ai colloqui settimanali. Il solo essere spettatori esterni della procedura con la quale i familiari si preparano ai colloqui, suscita un senso di ribellione a cui purtroppo non c’è rimedio, per i meccanismi perversi delle lunghe attese, delle perquisizioni, del tempo che richiede ogni piccolo spostamento. Sono le occasioni in cui soprattutto le donne mostrano la capacità di soddisfare le esigenze dei loro congiunti ristretti. Donne che nel tempo di libertà dei loro uomini hanno spesso subito abbandoni e infedeltà, umiliazioni e violenze, ma dal momento che il carcere ha significato separazione e lontananza, diventano capaci di trasformarsi in tante “penelopi”, fedeli e costanti nel provvedere alla biancheria e al cibo. Cibo che si trasforma immancabilmente in “sapore di famiglia” per ogni ristretto. Il percorso che l’ordinamento penitenziario dovrebbe offrire ai detenuti, nel dovere costituzionale di favorire la rieducazione e il reinserimento sociale, si rivela spesso inadeguato per la carenza di opportunità formative. Tanto da consolidare spesso la mentalità malavitosa. I meccanismi di relazioni che il carcere offre non presentano l’acquisizione di una coscienza libera e non sono in grado di rafforzare quelle inclinazioni positive che anche un responsabile di reati spesso può esprimere. Alla base del sistema c’è l’assidua presenza della “sorveglianza” che accompagna ogni azione, ogni problema, ogni necessità dei ristretti. Quanto può essere richiesto per le esigenze anche più elementari va formalizzato con la compilazione scritta di domande sottoposte all’approvazione degli ispettori di ogni reparto. È un meccanismo di dipendenza che rende gli individui sospettosi, passivi, rinchiusi nella sofferenza di un tempo dilatato, di uno spazio invalicabile. Anche il migliore agente di polizia penitenziaria, il migliore educatore, il migliore direttore di Istituto non potranno abbattere il muro di gomma che rende la detenzione una esperienza di fatto disumanizzante. È chiaro che ci possono essere delle eccezioni, e spesso lodevoli. Anche al Centro penitenziario di Secondigliano e a Poggioreale è possibile avere una attività lavorativa, come anche esperienze di studio generalizzate e organizzate, in collegamento con le istituzioni scolastiche del territorio. Spesso sono realizzati dei laboratori di creatività e di espressione, come anche dei progetti di formazione al lavoro. Si può vivere all’interno delle carceri anche un’esperienza di vita religiosa favorita dalla presenza di ministri di culto di varie espressioni di fede. Prevalente è l’azione dei cappellani per i cattolici, spesso coadiuvati da volontari impegnati anche per far fronte a esigenze di assistenza elementare. I volontari, previsti dall’ordinamento penitenziario, sono delle figure importanti che fanno da cerniera fra “il dentro e il fuori” delle carceri. Sono previste due possibilità di intervento dei volontari: quelli impegnati in singoli progetti anche di breve durata (con il cosiddetto art. 17) o quelli che svolgono un permanente servizio di assistente volontario (art. 78). L’importanza di queste figure non solo si rivela efficace per le iniziative culturali, religiose, ricreative che sono organizzate all’interno della struttura, ma possono essere il vero volano di una relazione che si può e si deve stabilire con la società civile e con il territorio esterno all’istituto di pena. Primo fra tutti il contatto con quelle famiglie che soffrono la separazione dai propri congiunti spesso ristretti da anni. Su questa traccia di riflessioni nasce l’interrogativo se in un territorio come Scampia, che soffre per una densità notevole di popolazione coinvolta nella illegalità, ci sia una coscienza culturale, sociale e politica per tutto ciò che comporta la presenza di uno o più detenuti nella propria famiglia. Che sia un problema culturale lo rivelano per esempio i tanti casi di bambini che nelle scuole del quartiere risentono di una situazione familiare poco serena, condizionata dagli obblighi che vivono coloro che, soprattutto donne, hanno congiunti ristretti, da visitare e da sostenere col faticoso appuntamento dei colloqui. L’organizzazione malavitosa a cui alcuni detenuti appartengono aiuta economicamente le loro famiglie, con il risultato che un legame di illegalità si perpetua nella cultura dei familiari e ciò che è peggio nella crescita dei figli. Della risonanza problematica sul piano educativo che il carcere determina nei bambini del nostro quartiere sono testimoni gli insegnanti che hanno in classe figli di detenuti. Alcuni hanno affrontato il problema con determinazione elaborando percorsi didattici appropriati. O gli educatori che, nei centri di aggregazione e di animazione sportiva, cercano di diradare nell’ animo dei figli dei detenuti le tante suggestioni di aggressività, di violenza, di dolore, di cui il loro immaginario è ingombro. Sono interessanti le sperimentazioni in atto e lodevoli le iniziative intraprese soprattutto a livello di volontariato. Carcere 61 Due 62 Alle esigenze più generali dovrebbero dare attenzione i servizi sociali presenti nel territorio. Purtroppo dispongono di poche risorse per alleggerire il carico di molte famiglie. Quello che risalta nell’analisi delle responsabilità sociali e politiche è la totale assenza di amministratori che elaborino un ancor minimo progetto che favorisca un rapporto efficiente ed efficace fra società civile e istituzione penitenziaria. Si tratta di prevedere che nel percorso di esecuzione della pena il ristretto possa godere di permessi, di occasioni di semi libertà per il lavoro esterno, di detenzione domiciliare, di tutte quelle forme di misure alternative, possibili solo se nella società si attivano forme di accoglienza e di reinserimento civile. È anche un problema di educazione dei cittadini, spesso renitenti a riconoscere l’importanza che i detenuti abbiano una riduzione dei tempi di pena e quindi una libertà anticipata. Non si può mantenere una strategia dello struzzo alimentata da solidi pregiudizi, rinforzati da episodi che hanno visto detenuti compiere dei reati mentre godevano della semi-libertà o di un permesso premio. A tale proposito può essere interessante incrementare quelle esperienze che hanno visto studenti delle scuole del quartiere entrare nel Centro Penitenziario di Secondigliano e prendere contatto diretto con la realtà del carcere ed elaborare una adeguata conoscenza del fenomeno. A Poggioreale è stata interessante l’iniziativa del “Premio Napoli” che ha affidato a dei ristretti la lettura di alcuni romanzi e di alcuni saggi in concorso. Sono soprattutto le iniziative di carattere artistico ad avere valore formativo e a permettere a chi vi partecipa, siano esterni come detenuti, di elevare le capacità di comprensione e di riscatto da ogni forma di mala società. Per il quartiere Scampia la scommessa è del tutto aperta, se pure con piccoli interventi, e c’è da sperare che si moltiplichino le occasioni che permettano, soprattutto a chi ha pagato il conto con la giustizia, di reinserirsi, famiglie comprese, in un contesto favorevole e costruttivo. la porta del carcere degli alunni della VB della “Virgilio 4” – docente Elvira Quagliarella Per me in una piccola stanza non possono stare in 10 detenuti. I detenuti quando si devono lavare non hanno l’acqua calda. Quando andavo a trovare mio padre aspettavo sei, sette ore prima di entrare. L’attesa è interminabile. Le persone quando vanno a trovare i loro parenti in carcere, fanno la fi la e si prendono pure a botte. I bambini si spaventano. Vi giuro che è terribile. Carcere I carcerati anche se hanno sbagliato non devono vivere in condizioni disumane. Una volta usciti dal carcere è difficile reinserirsi nella società perché nessuno ti vuole. Anche trovare lavoro è quasi impossibile. 63 Nelle celle c’è un bagno comune per tante persone. Per andare a trovare mio zio al colloquio, mia zia con i figli deve arrivare fino in Calabria. I cuscini sono duri e pure le coperte, i letti freddi e ti manca il calore della famiglia. Quando andavo a trovare mio padre e lo vedevo mi mettevo a piangere, perché si capiva che non stava bene. All’inizio del colloqui le famiglie si salutano e si abbracciano con i detenuti ma la guardia suona subito il campanello per far capire che non si possono abbracciare. paul le bohec (1921-2009) P edagogista francese, ha proseguito e attualizzato molti dei contenuti del suo maestro Celestine Freinet, dando nuove possibilità anche alle intuizioni di Decroly e di altri autori della pedagogia attiva. Tra i suoi testi principali Leggere e scrivere col metodo naturale (Junior 2006), un utilissimo manuale teorico-pratico in cui Le Bohec parla anche della possibilità di una letto-scrittura capace di potenziare la salute. “Quindi, alla fine, la scrittura è uno strumento per una miglior qualità di vita. Ma perché i bambini dovrebbero esserne frustrati? Essi possono accedervi fin dall’inizio della scuola profili primaria, in particolare se si utilizza il metodo naturale di ‘scrilettura’ che si fonda sulla natura dell’essere umano, sull’espressione-creazione e sulla natura della lingua”, scrive in un articolo dal titolo La lettura non ha primaria importanza del 2004. Tra le ragioni che hanno reso fondamentale l’opera di Paul Le Bohec anche ai fini delle sperimentazioni Mammut contenute in questo libro, vi sono i suoi studi sugli stadi dello sviluppo infantile e i parallelismi tra disegno e attività di letto-scrittura, che fondano l’intero processo di apprendimento sui portati affettivi del singolo partecipante, piccolo o grande che sia. Affettività ed emozioni trovano così piena cittadinanza nella scuola, a prescindere dal bene, dal male, dal merito e dal giudizio, facendosi anzi materia prima indispensabile, trasversale a ogni ambito disciplinare, dentro e fuori dall’aula, in italiano come nelle materie scientifiche, come Le Bohec mostra in maniera chiarissima in un altro suo titolo fondamentale: Il testo libero di matematica. Un modo creativo di insegnare/imparare la matematica (La Nuova Italia 1995). Nelle pratiche e nelle opere del pedagogista francese troviamo, infine, molti spunti importanti sul lavoro con gli adulti, avendo esercitato ruoli rilevanti come formatore all’interno del tentativo compiuto dalla cooperazione europea di innovare la didattica a partire dal corpo insegnante. 4. e a scuola? scuola e salute O ggi di educazione alla salute si parla probabilmente con frequenza e consapevolezza molto maggiori che in passato, con avanguardie regionali come quella lombarda (vedi. scuolapromuovesalute.it/ebook/#p=1) afferente al network europeo Schools for Health in Europe - She (http://www.schoolsfor-health.eu/she-network). Come spesso capita nella nostra scuola, i buoni propositi sembrano limitarsi però alla trasmissione di concetti astratti, distanti dalla vita reale e scollegati dall’esperienza. Mentre si predicano cambiamenti di stili di vita improntati su movimento e natura, si continua a costringere bambini e ragazzi di ogni età nello spazio ristretto di banchi e aule per intere giornate. E lontani sembrano i tempi in cui la salute e il funzionamento psicofisico determinavano il modo effettivo in cui studiare la matematica, l’italiano e le altre materie curriculari. Ancora una volta insomma la salute come materia a parte. Perché la scuola è e pare debba rimanere a essere sofferenza. Prima di raccontarvi i modi con cui abbiamo cercato di ricominciare a ragionare in positivo su questi argomenti, alcune riflessioni sulla salute a scuola. Oltre all’iper normativismo securitario a cui abbiamo già fatto cenno con il concorso “Aiuto/Sgarrupo” e di cui stavolta ci racconta una maestra, riportiamo le riflessioni della psicoterapeuta junghiana Giulia Valerio sulla psicologia che regge la candela alle redivive “classi speciali”. Vecchi stratagemmi a cui presidi e insegnanti rifanno il trucco, circondati dalle rovine di una scuola che cade a pezzi e dai pezzi di una società senza più alcuna tutela. Infine il frutto del lavoro di ricerca-azione svolto per l’ong WeWorld – Intervita, tra Piemonte, Lombardia, Lazio, Campania, Sicilia sul tema della dispersione scolastica. Seppure in contesti tanto diversi, la valutazione è sempre risultata elemento centrale ai fini dell’abbandono scolastico, perché capace di creare seri danni alla salute psicofisica di adulti e bambini. Chi voglia ripensare davvero a una scuola salutare dovrà probabilmente ripartire proprio dal ripensamento radicale del modo in cui fare valutazione. 65 sana e robusta Costituzione di Vincenzo Esposito. Incontro con Giovanni Zoppoli e Alessandra Tagliavini V Due incenzo Esposito è un medico chirurgo e omeopata napoletano che in questi anni ha condiviso con noi un importante pezzo di strada nella ricerca di una scuola salutare, realizzando tra l’altro un ambulatorio medico nei locali del Centro Mammut. Di seguito uno stralcio del volantino usato per pubblicizzare quell’iniziativa: “È in quest’ottica che avviamo un ambulatorio popolare e gratuito a Scampia, tenendo lontana ogni volontà di sostituirci al sistema medico pubblico e di tapparne i buchi. Obiettivo di questa nuova attività del Mammut è quella di produrre cultura della salute pubblica, a partire dal miglioramento della vita di ciascun individuo e producendo consapevolezza collettiva su economie e politiche locali, nazionali e internazionali che minano la vita del pianeta e di chi lo abita”. A lui dobbiamo molto, anche per essersi preso cura della nostra salute individuale. Gli abbiamo rivolto alcune domande sul tema “Stato e salute”. 66 In Campania, più che nel resto d’Italia, mass media e movimenti dal basso hanno urlato l’allarme salute, per adulti e bambini. Ritieni che la situazioni sia davvero grave (di più che in passato e in altri posti d’Italia)? Se sì, per quali motivi? Quali sono i dati più significativi rispetto alla gravità della situazione? Lo stato di salute della popolazione è gravemente compromesso in tutta Italia senza sostanziali differenze. La salute è definita come una condizione di benessere psico-fisico individuale di interesse collettivo e la Costituzione italiana lo sancisce all’articolo 32, ma essa è stata inapplicata su tutto il territorio nazionale indistintamente; il fatto che al sud le cose siano nettamente peggiori è un luogo comune mediatico. Proprio l’applicazione del principio costituzionale avrebbe permesso attraverso il raggiungimento di uno standard nazionale di non trovarci con una frantumazione politica territoriale quale quella attuale. Oggi la gravità è determinata proprio da una deliberata scelta di gestione non unitaria della tutela della salute della collettività nazionale. Non sono le cosiddette nuove patologie ad aggravare la situazione ma la gestione non collettiva dello strumento sanitario: dagli anni ‘70 in poi si è giocato sulla dicotomia pubblico-privato. La salute è un bene individuale che va assicurato e sostenuto nell’interesse della collettività, in questo senso essa è un diritto di cittadinanza. La dicotomia pubblico-privato è stata in realtà un modo ipocrita in cui stato-impresa privata e privato sociale sono entrati per nascondere (da parte di alcuni in maniera consapevole, da parte di altri inconsapevolmente per difetto di analisi) il fatto che c’era da perseguire un obiettivo strategico: “usare” la sanità pubblica in tutte le sue articolazioni finanziarie, amministrative e professionali come un grosso fondo di denaro e di forza lavoro per produrre malattia, quindi creare bisogni per assicurarsi un indotto senza rischio di esaurimento. Sarebbe troppo lungo, in questa sede, esaminare in dettaglio tutti i passaggi, ed è inutile dire che l’articolo 32 della Costituzione è stato strappato: oggi il dato unico grave è che la salute è un diritto individuale che può essere assicurato dal censo della persona. Questo punto di arrivo è grave per due motivi: non è giusto rispetto alla Carta Internazionale dei Diritti Umani ed è stupido perché se non garantisci il singolo non garantisci la collettività (per es. Ebola non guarda in faccia a nessuno). Scuola Quali sono gli elementi di maggiore mutamento, in particolare per la salute dei bambini, in questi ultimi 40 anni a Napoli? La mancanza di una struttura familiare stabile. La non conoscenza e il non interesse delle coppie genitoriali naturali a capire la struttura relazionale della triade fisiologica padre–madre–bambino e prendere atto delle correzioni che si possono fare entro i primi tre anni di vita. Quali sono i fattori sociali e ambientali che in questo momento incidono più negativamente sulla salute dei bambini? Potresti dirci qualcosa di più in particolare sull’inquinamento elettromagnetico, anche legato all’uso di nuove tecnologie (specie quando nessuna attenzione viene fatta ad eventuali conseguenze sui bambini)? I campi elettromagnetici deformano il citoscheletro cellulare per cui influiscono sulla efficienza della risposta dei sistemi di regolazione (linfaticoendocrino-neurovegetativo) che sono peraltro integrati fra loro. 67 disegno dei bambini ed etnopsichiatria di Giulia Valerio D Due 1. Erny P., L’enfant et son milieu en Afrique noire, Essai sul l’éducation traditionnelle, Paris Payot 1972; Ethnologie de l’education, L’Harmattan 2000; L’enfant dans la pensée traditionelle de l’Afrique noire, L’Harmattan 2000: Les premiers pas dans la vie de l’enfant d’Afrique noire, L’école 1972. 2. T. Nathan è stato il fondatore del primo consultorio etnopsichiatrico nel 1973 all’ospedale a anni con alcuni amici vado regolarmente in Mali, nel paese dei Dogon, popolo celebre per la ricchezza della cultura orale e per il livello della loro civiltà, in cui saggezza religiosa, ospitalità, capacità di cura e senso della vita si intrecciano, richiamando ormai da quasi un secolo antropologi, etnologi, etnopsichiatri, pedagogisti, infermieri, medici, turisti, malati in cerca di guarigione e studiosi assetati di alterità. Ci siamo trovati di fronte a un modo radicalmente altro di vivere, di concepire la vita, la storia e la società, e in questo spaesamento abbiamo deciso di approfondire alcune nostre ipotesi, e di accostarci alla loro pedagogia, ai loro sistemi di “costruzione” dell’essere umano e di educazione di bambini e bambine. Ci siamo dolorosamente accorti di come siamo soliti raccontare e affrontare la diversità con i nostri sistemi di coscienza, le nostre prospettive e le nostre nosografie. Un piccolo esempio: un esperto psicologo dell’età evolutiva, vedendo come i bambini dogon disegnano gli alberi, ebbe (secondo lui) la prova della loro arretratezza: radici esposte, cattiva collocazione nello spazio e così via; tutta la batteria dei test proiettivi fatti (si dovrebbe dire “somministrati”) nelle nostre istituzioni li avrebbe schedati come arretrati, se non parzialmente psicotici. Una piccola parte di noi non si arrese, poiché intuimmo che ci trovavamo di fronte a una diversa forma di coscienza, e riconoscevamo stilemi e astrazioni antichi e ricchi di altri sensi e significati. Per un mese abbiamo lavorato nella scuola elementare del villaggio di Kamba, sull’altopiano, a circa 15 chilometri da Sangha e a 25 da Bandiagara, capoluogo della regione (e abbiamo imparato tantissimo). La strada di collegamento è una pista in arenaria rossa, spesso allagata durante la stagione delle piogge e dissestata nella stagione secca. Vi convergono i 10 villaggi limitrofi, e tutti giungono a piedi, alcuni facendo chilometri di falesia anche 4 volte al giorno. Ma la scuola, poiché non è obbligatoria (per le carenze delle strutture) è vissuta come una gioia, e gli alunni accorrono vestiti a festa ogni giorno, riuniti in classi numerosissime (un centinaio in prima, poi intorno alla quarantina). Spesso un maestro copre due classi. Nonostante il libro di testo (al singolare perché ce n’è uno solo per il maestro) imiti quelli europei, quindi con una linea in basso per la terra, uno spazio vuoto in cui camminano gli esseri viventi e una linea sopra per il cielo (e solo allora mi accorsi dell’assurdità di questa rappresentazione) bambini e bambine disegnavano ponendo persone e oggetti in tondo. Avevano in sé una rappresentazione del cosmo straordinaria, non indoeuropea, capace di tenere insieme spiriti e esseri umani, spesso rappresentati simbolicamente, basata sulla circolarità e il nutrimento, fino alla stupenda raffigurazione del cielo, rotondo come la terra, in cui sono compresenti tutti i cieli possibili: diurno, notturno, stellato, nuvoloso, rosato quando il giorno nasce e tramonta. Questa esperienza inaugurò l’approfondimento della pedagogia africana, molto avanzata e complessa, cui studiosi come Erny hanno dedicato interessantissimi studi1, sulla quale si è basata una commissione ministeriale maliana per studiare programmi scolastici non ispirati soltanto alla cultura scritta occidentale, ma basati sulla “pedagogia convergente”, per liberare la scolarizzazione dalle violenze di chi l’aveva imposta: i coloni e i missionari, che per secoli cercarono di sradicare i bambini dalle loro famiglie, dalla lingua madre, dalla religione e dalla cultura che li avevano messi al mondo. Da allora, e grazie all’etnopsichiatria, ci siamo accorti della violenza dei nostri sistemi di cura e di presa in carico, in cui imponiamo un lessico scientifico che, come scrive Nathan2, è basato su termini che nella lingua corrente sono insulti (come “isterica”, “nevrotico”, “autistico” divenuti epiteti del litigio). Queste definizioni cronicizzano la malattia attraverso trattamenti medicalizzati e sintetici, e segnano una marginalità e un “difetto” di cui cercare i colpevoli nei familiari stretti. Diagnosticare un essere in evoluzione significa fissarlo ad uno stadio preciso, e non cogliere più il processo dinamico evolutivo né la straordinaria flessibilità e resilienza dei primi dieci o dodici anni di vita. I disordini psichici nei minori sono il segno e il sintomo del disagio della civiltà in cui vivono: come piccoli radar, assorbono e segnalano ciò che è scomposto ed in pezzi, frammentato o esplosivo, e tutte le lacerazioni dell’ordine naturale di cui avrebbe bisogno una crescita armoniosa. Per questi motivi tanti sistemi terapeutici (a cui anche quello etnoclinico si ispira) accolgono in équipe un gruppo di persone, familiari, amici, insegnanti e assistenti sociali, in quanto piccola rappresentazione del sistema in cui il minore abita e vive. Il bambino o la bambina stanno al centro e disegnano, giocano, mentre il cerchio di adulti prende in esame il problema che viene dichiarato attraverso di lui. Uno per uno, tutti i partecipanti si presentano, ricchi delle loro esperienze di vita, e tutti ugualmente adatti ad accogliere e prendere in cura quel disordine e quel male, dai genitori ai fratelli, dai terapeuti agli amici, dalle figure istituzionali agli operatori. Il bambino o la bambina, anche quelli abitati da disordini molto gravi, assumono un atteggiamento composto, poiché la cintura che li accoglie si fa carico delle loro schegge e dei loro silenzi. Non si cercano responsabilità, che gravano e opprimono, ma si costruiscono collegamenti e si riparano smagliature tra le molte realtà presenti, Scuola Avicenna di Bobigny (oggi diretto da M.-R. Moro) e nel 1993 ha aperto il Centre Deveureux all’Università Paris VIII. È autore di T. Nathan e I. Stengers, Medici e stregoni, Bollati Boringhieri 1996; Non siamo soli al mondo, Bollati Boringhieri 2003; La follia degli altri, Ponte alle Grazie 1990; L’influence qui guérit, Odile Jacob 2000; T. Nathan e P. Pichot, Quale avvenire per la psichiatria e la psicoterapia?, Colibrì 1998. Due 70 mostrando come si può ricomporre, costruire e ricostruire, cercando di mettere ordine nelle stanze abitate, troppo spesso in conflitto. Il bambino e la bambina per molte altre culture sono loro stessi ponti tra generazioni, e portano in sé il sapere degli antenati che ci hanno preceduti: non una tabula rasa da riempire, ma un essere da accompagnare, ascoltare e imparare a capire. E, dato importantissimo, mai da offendere, perché si offende la vita stessa, quella visibile e quella invisibile che ci fonda e da cui proveniamo. Ospite d’onore per gli anni della sua formazione, il bambino inaugura tutte le cerimonie di semina e di fertilità, poiché è germoglio vivente, protettore della vita ed esperto di soglie, di passaggi, di ingressi. La nostra psicologia, scienza che ha messo i primi anni di vita al centro della costruzione della persona, si rivela un’arma a doppio taglio: se da un lato può aiutare a comprendere i disagi della psiche e offrire strumenti di cura e letture dei profondi moti dell’inconscio, dall’altro, se si affretta a codificare e risolvere i problemi, rivela di essere, come scriveva il sociologo Anders, un “agente segreto del sistema”, o, secondo Foucault, un “garante della festa sociale”, a cui non tutti devono essere invitati. la scuola scende in campo di Daniela Iennaco Si può cambiare la scuola. È duro, difficile, faticoso, rischioso, ma possibile e, se è possibile, allora diventa un dovere. Gianni Rodari L a prima supplenza in una scuola media mi è arrivata inaspettatamente lo scorso anno, in una delle scuole cosiddette a rischio e soggette a dispersione scolastica. Uscivo da un periodo di grande soddisfazione professionale in ambito sociale e culturale, nello stesso territorio in cui ho insegnato e dove per 12 anni ho svolto e svolgo tutt’ora attività di volontariato. Ho lavorato nelle scuole superiori delle periferie napoletane e nella scuola di italiano L2 (Scuola Mammut di Italiano per Tutti - Smit) del Centro territoriale Mammut tra Scampia-Napoli e Castel Volturno, in provincia di Caserta, esperienze che mi hanno dato molto in termini di scambio interculturale, didattica e apprendimento. Il territorio di Scampia, a nord di Napoli, lo conosco molto bene così come metà della platea scolastica della scuola e le loro famiglie. L’I.C. “Alpi – Levi” è noto per la vicinanza di uno dei più longevi insediamenti abusivi, in cui vivono tutt’oggi i rom, circa 700 persone tra bambini e adulti. I campi rom di via Cupa Perillo sono abitati da circa 60 nuclei familiari allocati in diversi insediamenti di fortuna sprovvisti dei servizi minimi di vivibilità e tra i quali risultano essere presenti più di 300 minori. La scuola accoglie una platea molto eterogenea che comprende bambini e ragazzi provenienti dai rioni adiacenti (lotto P, lotto G e, un po’ più distante, le Vele) luoghi abbandonati dalle istituzioni, altrettanto abusivi, frutto di un’urbanizzazione mai compiuta. È una scuola che oltre ad essere Istituto Comprensivo, ha anche il CTP (Centro Territoriale Permanente) educazione degli adulti e la sezione distaccata del Carcere di Secondigliano. Anche qui come in altre scuole del quartiere un’alta percentuale di ragazzi hanno uno o più componenti del nucleo familiare in carcere o agli arresti domiciliari. La comunità rom presente sul territorio da circa trent’anni vive lo stesso vissuto di disagio di chi vive le periferie delle grandi città; la problematica si acuisce soprattutto per la mancanza di documenti, di un lavoro legale o l’opportunità di accedervi. Numerosi sono stati negli anni i progetti di scolarizzazione finanziati ad hoc per i rom, dal Comune di Napoli; comprendono attività di accompagnamento, inserimento scolastico, attività pomeridiane e curricolari, Scuola 71 Due 72 accompagnamento sanitario, risoluzioni di problematiche giuridiche. La spesa pubblica per una loro più efficace scolarizzazione non è destinata alle scuole per il miglioramento dell’offerta formativa ma divisa tra associazioni no-profit/cooperative e imprese di trasporto per l’accompagnamento (per una panoramica delle politiche pubbliche citate si rimanda a Rom in comune. Studio sul Comune di Napoli e i rom che ci vivono, Barrito del Mammut edizioni 2012) Ho lavorato anche come mediatrice culturale per un’associazione locale; gli interventi di mediazione, rientrano nei progetti di scolarizzazione sopracitati e sono rivolti alle famiglie degli inadempienti all’obbligo scolastico e ai bambini con gravi problemi di frequenza, ma nel tempo hanno prodotto risultati parzialmente positivi ed efficaci. Le assistenti sociali dopo aver segnalato i bambini inadempienti tramite ods (modello per la segnalazione dell’evasione scolastica), in particolare nella scuola primaria, provano una certa difficoltà e diffidenza ad accedere al campo per segnalare l’evasione scolastica di minori rom, se non in presenza di associazioni del territorio, confidando nel loro lavoro di mediazione. Nell’anno 2012-2013 i rom iscritti risultavano essere 91 alla media Carlo Levi e 73 alla primaria Ilaria Alpi (dati raccolti dalla scuola). Alcuni colleghi insegnanti non sono mai stati in un campo rom e hanno scarsi contatti con le famiglie, a questo si aggiungono anche le partenze continue di alcune famiglie che per lunghi periodo ritornano nel paese di origine per cui accade che molti bambini/ragazzi risultano iscritti ma non frequentanti. Le politiche sono troppo spesso scollegate, la scuola isolata. I piani e gli ambiti di intervento istituzionali quali risultati hanno generato e prodotto? Alla segregazione abitativa a cui sono costretti a vivere i rom in primis ma anche tanti ragazzi napoletani corrisponde molto spesso una segregazione fisica e mentale, che genera malessere diffuso che si ripercuote inevitabilmente anche a scuola. Manca soprattutto un lavoro di relazione; la scuola è una macchina burocratica troppo carica ed inefficiente, che si perde nei meandri di leggi, circolari, norme, piuttosto che concentrarsi su come generare benessere e salute, si lavora in un perenne stato di emergenza, tempi ristretti, scadenzari, mancanza di personale. ricerca-azione In questo contesto pieno di contraddizioni c’è però una notevole vitalità pedagogica, che rende il territorio di Scampia ricco di esperienze: dallo storico centro sociale Gridas, fondato e animato da Felice e Mirella Pignataro, alle attuali realtà territoriali che lavorano con una grande sinergia. Un terreno fertile da cui ogni insegnante può attingere metodologie e pratiche di una pedagogia/didattica attiva, sperimentando così dentro e fuori l’aula, azioni vive e capaci di confrontarsi con il contesto. Ho aderito perciò con grande entusiasmo al percorso di ricerca del Mammut, una delle realtà più interessanti, non solo a livello locale, centro di sperimentazione pedagogica e di relazioni vitali. In maniera trasversale ed itinerante, abbiamo lavorato sulla macro domanda: Come possiamo migliorare la scuola perché da potenziatrice di malessere e disturbi psico-fisici si trasformi in luogo di potenziamento della salute individuale e collettiva? Provando a lavorare dentro e fuori l’aula con le mie classi, una prima e due seconde medie, ho cercato di coinvolgere anche altri ragazzi della scuola sia in orario curricolare che extra, partecipando a momenti di manifestazioni volte alla riappropriazione degli spazi pubblici nel quartiere, provando a lavorare sul loro immaginario, attraverso un lavoro di inchiesta territoriale, dalla lettura condivisa di storie e racconti del quartiere, all’esplorazione dei luoghi conosciuti o sconosciuti ai ragazzi. Un lavoro collaudato anche negli anni passati (ad esempio con il Progetto viaggio nella memoria per, realizzato insieme all’associazione “chi rom e… chi no”), che si è esplicato nella scoperta del territorio, della sua storia, a partire dall’etimologia della parola Scampia che rimanda ad un passato di fertili campagne, la trasformazione di spazi anonimi in luoghi di socialità e crescita collettiva, fino ad arrivare a conoscere la storia migrante dei suoi abitanti, rom e napoletani, entrambi accomunati da un viaggio che li ha portati fin qui. Nel tempo si è generato in loro un senso di benessere psico-fisico nel vivere o semplicemente conoscere i luoghi del quartiere, hanno provato a trasformarli con delle piccole azioni positive, vivendoli, giocandoci. Attraverso una didattica interdisciplinare, con un linguaggio semplice, i ragazzi hanno affrontato tematiche e materie quali scienze, ecologia, antropologia, urbanistica, letteratura, scienze motorie. Il momento collettivo di condivisone del percorso è stata la partecipazione alla Mediterranea Antirazzista, una manifestazione sportiva, artistica e culturale, che da tre anni fa tappa anche a Napoli, organizzata con l’appoggio del Comitato Spazio Pubblico, una rete di associazioni, singoli, cittadini che opera da anni sul territorio. Un momento di aggregazione multiculturale in cui si promuovono le relazioni tra gli abitanti della città, superando le dicotomie centro/periferia, inclusione/esclusione. Uscire insieme dal ghetto fisico e mentale nel quale tutti noi ci sentiamo rinchiusi e vivere la strada, la piazza, in relazione autentica, bambini, ragazzi e adulti di altri rioni e città. I ragazzi sono stati coinvolti in maniera attiva nell’organizzazione delle giornate, dopo una lettura condivisa del comunicato stampa dell’evento, autonomamente si sono divisi in sottogruppi, hanno diffuso la notizia agli altri compagni di scuola, Scuola 73 in un lavoro cooperativo che è continuato anche a casa attraverso telefonate e social network. I ragazzi hanno partecipato ai tornei di calcio scegliendo come nome della squadra “Carlo Levi Scampia”; il senso di appartenenza alla scuola è fortemente radicato. Per molti di loro rappresenta un punto di riferimento, un luogo dove rifugiarsi, dove mettere un po’ di distanza con le situazioni, a volte soffocanti, che subiscono ogni giorno in famiglia, nel rione o nel campo rom. Da questa esperienza, i ragazzi sono riusciti a trasformare la competizione in cooperazione, a “fare squadra”, a condividere culture altre, sentendosi parte del tutto, vivendo quei luoghi come fonte di benessere. Due aiuto/sgarrupo di Daniela Izzo Q uello che segue è il racconto di una maestra di scuola elementare scritto per la II edizione del concorso MammutBus “Giornalista per un mese”, dove a partire dal detto napoletano “vaco p’aiuto e trovo sgarrupo” (cerco aiuto e trovo difficoltà ulteriori) abbiamo cercato di stimolare una riflessione collettiva, che fosse anche un’inchiesta territoriale, attorno al tema della relazione d’aiuto. La saggezza popolare ha anticipato di molti secoli psicologia e altre scienze sociali mettendo in risalto il lato ombra che può celarsi dietro a chi offre protezione e conforto: lo “sgarrupo”, ovvero il danno ulteriore alla situazione che si pretendeva di migliorare. Tra i miti e le favole che abbiamo trovato più belli nei laboratori condotti intorno all’argomento (come per le strade della cittadina sannita Airola (BN) agli inizi di settembre con il MammutBus), c’è “La città”, racconto di Armin Greder, edito da Orecchio Acerbo. Oltre a quelle che troverete nel pezzo di Alessandra Di Fenza nella parte terza1, con un racconto più dettagliato di quanto abbiamo portato e raccolto nelle scuole attraverso questo concorso. Tema centrale quello della relazione d’aiuto rispetto alla nostra ricerca sulla salute. Tanto se lo si guarda dall’angolatura delle professioni deputate alla cura (il medico come l’educatore), quanto se ad essere messo sotto osservazione è il legislatore che deve fornire un quadro normativo di riferimento alla salute collettiva. Anche a seguito dei 500 racconti arrivati alla redazione del Barrito con questo concorso, entrambi gli aspetti avrebbero oggi bisogno di molta più attenzione. Se da un lato gli operatori sociali sono quelli più a rischio rispetto alla capacità di prestare una relazione chi sia davvero utile anche per il destinatario (per tanti motivi, tra i quali i tagli economici, tante volte messi in risalto in questo librone), dall’altro le mille norme a tutela (di sicurezza, salute…) si rivelano spesso un boomerang. Ostacolo più che aiuto per una scuola salutare, finendo spesso per dimostrarsi controproducente la montagna di normative imposte a scuole e associazioni. E in questo anche il sindacato fa la sua parte… L’aneddoto che leggerete ricorderà qualcosa di spiacevole a molte mamme e papà di Napoli e delle altre città che versano in condizioni analoghe. Ai genitori napoletani che hanno un figlio nella scuola materna pubblica non è difficile che capiti di dover lasciare qualsiasi cosa e precipitarsi a scuola perché il proprio bambino non è riuscito in tempo ad andare in bagno per fare cacca o pipì. “Buon giorno, è la segreteria della scuola X, dovreste venire a prendere vostro figlio Y perché si è fatto la cacca sotto e il personale ATA non è autorizzato a cambiarlo, né le maestre riescono a farlo”. Capita così che per un misto Scuola 75 1. Fare scuola con i giornali, p. di norme sindacali, paure di abuso ai danni del minore e scarsità di personale (una maestra sola con 23 bambini), un bambino di 3 anni sia costretto ad aspettare nel corridoio (solo con i propri escrementi) l’arrivo del familiare che arriverà in soccorso. Due 76 È una storia che non ho mai avuto il coraggio di raccontare, quella in cui il mio tentativo di essere d’aiuto si trasforma in un autentico “sgarrupo”, avvenuta, curiosamente, proprio nel mio primo giorno da insegnante. Ebbene, nel lontano 1999/2000 entrai in ruolo nella scuola dell'infanzia; la notizia dello scorrimento della graduatoria improvvisa mi catapultò dalla strada, in quanto ero agente di commercio, in una classe numerosissima di piccoli dai 3 ai 5 anni, presso l'85° Circolo Didattico “Rione Berlingieri”. La gioia era mista a timore, in quanto, pur essendo mamma ed innamorata dei bambini, immaginavo la difficoltà di gestione di un gruppo tanto numeroso, considerato che tanti bimbi insieme li avevo visti solo alle recite di mio figlio. Ma questo lavoro mi riempiva d'orgoglio e a tutti i costi volevo farcela! Piena di entusiasmo e buona volontà mi rimboccai le maniche e via, partii per l'avventura più emozionante della mia vita durata quattro anni. Ricordo precisamente la classe che mi fu affidata, la disposizione dei banchetti, i cartelloni sulle pareti con i nomi dei piccoli, addirittura la luminosità scarsa per l'esposizione a settentrione. I piccoli arrivavano a flotte intorno alle 9:00 accompagnati dalle loro mamme, ancor più rumorose dei figli per l'ansia del distacco. Ho sempre detto e continuo a dire, pur non insegnando più nella scuola dell'infanzia, che i pianti dei bambini sono lo specchio delle ansie nascoste ed immotivate delle mamme. Noi maestre attendevamo i bimbi sull'uscio e, se tutto andava bene, tra un bacino ed un abbraccio riuscivamo a portare i bambini dentro la classe due-tre per volta. Ma il bello doveva ancora arrivare! Terminata l'accoglienza, cominciavano, o meglio, incalzavano i pianti dei più piccoli; sembrava un contagio: piangeva uno, poi iniziava il secondo poi il terzo fino ad orchestra completa. Ma il contagio non interessava solo il pianto, bensì anche il vomito, purtroppo protagonista della mia storia. Se un bimbo vomitava, forse gli odori, forse le immagini, provocavano la medesima reazione a catena negli altri. Una delle tante Circolari interne per la gestione della scuola prevedeva di condurre i bambini prossimi al vomito direttamente ai servizi, in modo da non influenzare gli equilibri precari degli altri piccoli. Il bambino accompagnato dalla maestra fuori la classe doveva essere poi gestito dal personale ATA. Io tirai un sospiro di sollievo, poiché confesso di avere sempre avuto una spiccata ”sensibilità”, per non parlare di intolleranza, verso gli odori del vomito. La Circolare, accolta da tutti piacevolmente, non aveva però considerato che i bimbi erano tanti ed il personale poco, per cui quel giorno toccò a me condurre L. E. direttamente alla vasca. Appoggiai una mano sulla fronte del piccolo E. come si è soliti fare e mi chinai con lui verso la vasca. Forse la vicinanza, forse il nitido scorrere del liquido che ricordava il latte inacidito, non percepii l'arrivo fulmineo, immediato ed inaspettato del mio liquido, che a cascata finì direttamente sulla testina del piccolo. Mi sentii quasi svenire; non sono mai riuscita a capire se per il mio malore o per ciò che avevo provocato! Una scena agghiacciante, vomito ovunque, non sapevo se ridere o piangere. Immediatamente chiamai i soccorsi per pulire il bambino, di certo non avrei potuto dire alla mamma che la testina del suo angioletto era stata bersaglio di un mio conato di vomito. Per cui ci organizzammo con salviettine imbevute, disinfettanti e quant'altro; per l'abbigliamento non fu possibile recuperare nulla. Purtroppo il mio tentativo di aiuto si trasformò in un vero e proprio “sgarrupo” per quel piccolino che incontro spesso e saluto ancora oggi con affetto. Non nascondo che ogni volta che lo incontro mi chiedo se lui abbia conservato ricordi di quel giorno: io non ne ho mai fatto parola, lui, per fortuna, nemmeno. Che l'abbia rimosso? Non lo so, ma se dovesse leggere questa storia sulle pagine di un giornale credo proprio che il nostro “sgarrupato” primo giorno di scuola potrebbe riaffiorargli nella memoria. E non sarebbero piacevoli ricordi! Scuola 77 5. valutazione dentro e fuori la scuola N Due elle pagine che seguono abbiamo cercato di condensare le riflessioni prodotte nel lavoro svolto per conto dell’ong WeWorld – Intervita tra il 2013 e il 2015, all’interno del programma di contrasto alla dispersione scolastica Frequenza200. Il lavoro di ricerca e formazione che il Mammut ha condotto con diversi gruppi di educatori nelle città di Milano, Torino, Roma, Napoli e Palermo ha portato alla realizzazione di tre numeri del quaderno di approfondimento pedagogico “Lenti a contatto” (ed. Marotta&Cafiero, Napoli 2014). Quelli che pubblichiamo sono stralci tratti dal secondo numero di questo quaderno e dal sito web di Frequenza 200, frutto del lavoro di riflessione e ricerca che con ciascuno dei gruppi abbiamo condotto sul tema della valutazione. radici di valutazione 78 di Giovanni Zoppoli Queste le domande da cui siamo partiti: 1) Come dotarsi di un sistema valutativo capace di comparare processi e prodotti educativi anche tra paesi diversi e di ovviare al turn over eccessivo di docenti, realizzando però una valutazione efficace? 2) Come evitare che il lassismo valutativo del docente “compagnone” generi demotivazione negli alunni più diligenti? 3) Come procedere a una valutazione efficace dell’insegnante, essendo spesso determinante la paura di quest’ultimo nel vedersi valutato negativamente in seguito all’insuccesso scolastico dei propri alunni? “Valutazione” quindi come tema generatore di riflessioni, perché assolutamente centrale in ogni relazione educativa, ma al tempo stesso punto d’arrivo controverso degli stili e degli approcci pedagogici che ha alle spalle. Viaggiando tra esperienze e teorie al nostro gruppo di ricerca è presto saltato agli occhi che prima ancora che parlare di strumenti, percorsi, indicatori, tracce... è necessario parlare dei “climi” adottati dal maestro/edu- catore. Non è raro infatti venire in contatto con esperienze pedagogiche orgogliose di rifarsi a dottrine di pensiero innovative e “democratiche”, che magari fanno anche uso degli strumenti valutativi consigliati da queste dottrine (quelli dell’autovalutazione montessoriana piuttosto che indici di ultima generazione), che però vivono, e fanno vivere, le giornate di scuola in un clima di giudizio e prestazione identico a quello delle scuole più arretrate e autoritarie. campo della valutazione Il campo oggetto della nostra indagine attorno al tema della valutazione è quello dei processi educativi in senso lato. Senza forzare le inevitabili differenze, abbiamo ritenuto opportuno tenere insieme la valutazione di progetti pubblici e privati di tipo socio-pedagogico con quella dei processi di apprendimento a scuola. In primo luogo perché gli educatori impegnati in “Frequenza 200” si sentissero nella stessa barca con gli educandi dispersi (scolastici), cercando sulla propria pelle modalità di valutazione efficaci ma non nocive e che potessero andar bene anche agli alunni di una normale classe scolastica. In secondo luogo perché il nostro modo di intendere l’intervento sociale, qualsiasi intervento sociale, ha come presupposto la volontà di apprendimento e quindi di ricerca da parte di tutti i soggetti coinvolti. Definito il campo d’indagine abbiamo così cominciato ad addentrarci nelle problematiche che i singoli educatori (di Milano, Napoli e Palermo) incontravano sul campo giorno per giorno. Dando vita alle nuove domande di ricerca sopra riportate. Fornendo spunti teorici e pratici perché queste difficoltà potessero venire esplorate nel gruppo di discussione e, successivamente, affrontate sul campo, ha cominciato così a prendere forma il quadro teorico in cui porre le radici per una valutazione condivisa. quadro teorico Mettere al centro l’interesse genuino, quello che appartiene solo ad alunno e maestro in carne ossa nell’unicità del contesto dove si sono incontrati, tenere fermo al centro del processo educativo e di apprendimento questo interesse contingente, far coincidere lo stesso processo di insegnamento/ apprendimento con l’appagamento di questa sete/curiosità è probabilmente il nucleo centrale di chi ha cercato di cambiare la scuola nell’ottica della pedagogia attiva. Qualcosa di analogo è successo nella ricerca sociale e antropologica, dove ricercatori come Malinowsky e Lewin hanno attuato Valutare 79 Due 80 la propria rivoluzione mettendo in crisi il modello di ricerca basato sulla passività dell’oggetto di studio, collaudando possibilità di ricerca in cui i bambini, i ragazzi, gli adulti e le intere collettività oggetto d’indagine fossero il più possibile coinvolte e consapevoli della ricerca messa in campo. Facendo della ricerca uno strumento di cambiamento sociale immediato. Eredità fatta propria da molti gruppi di base che nella pratica dell’inchiesta sociale degli anni ’70 hanno saputo coniugare operatività sul campo e ricerca socio antropologica. Se l’educazione, come afferma Dewey non è una scienza ma un’arte, che si serve di molti diversi approcci (così come l’arte di costruire i ponti si serve di diverse scienze fisiche e chimiche) anche nell’ambito “valutazione” sarà necessario prendere in considerazione i contributi di variegati campi della conoscenza (restando però al singolo educatore la responsabilità di creare i propri ponti con gli educandi che si troverà davanti). Con i gruppi coinvolti nella ricerca abbiamo cominciato ad addentrarci in alcuni di questi ambiti, cominciando a far prendere forma al comune bagaglio teorico su cui incentrare un sistema di valutazione condiviso. Vi riportiamo di seguito la sconfinata mappa emersa dai nostri incontri, come mare magnum utile da navigare per ragionare attorno al tema e mettere in campo azioni migliori. psicologia e filosofia Se fine ultimo della scuola è l’individuo nella sua interezza, l’approccio pedagogico che scegliamo è quello capace di connettersi con le parti più profonde ed autentiche della persona. Per questo la psicologia fornisce contributi indispensabili al nostro tema, prima di tutto perché l’educatore sia consapevole dei propri agiti ed eviti di riprodurre “copioni” e proiezioni sue proprie che nulla hanno a che vedere con l’esperienza di apprendimento. della sua provenienza socio-culturale, siano in grado di influenzare il percorso scolastico degli anni avvenire. Il marchio diventa cioè una sorta di condanna indelebile a seguire “il destino” che a quel marchio è abbinato. Studi più aggiornati sull’etichettamento e sulla grande varietà di terminologia oggi utilizzata dalla psicologia applicata alla scuola (come Bes) costituiscono un campo di indagine molto utile. • alexander lowen. Gli studi del padre della bionergetica sul narcisismo, assieme a quelli di altri psicologi di stampo psicanalitico, permettono di entrare nei meccanismi della ricerca di consenso alla base di molte relazioni (comprese quelle educative). Anche prima che questa ricerca di consenso diventi patologica, ritenere imprescindibile soddisfare l’aspettative del genitore (o del suo sostituto docente, educatore o altro) è un meccanismo che mina il processo di apprendimento, oltre alla salute psico-fisica dell’individuo. • lucio dalla seta. Lo psicologo junghiano permette di approfondire e attualizzare questo filone, rendendo ancora più evidente quanto nefasta possa essere qualsiasi relazione basata sul senso di colpa. Nel suo Debellare il senso di colpa (Marsilio 2010), che verrà di seguito approfondito, l’autore allarga il ragionamento all’ambito filosofico, collegandosi al più generale tema del libero arbitrio. • augusto boal. Molto importanti ci sono sembrati gli studi dell’iniziatore del “teatro dell’oppresso” (e continuatore della pedagogia della liberazione di Freire) sul “poliziotto interno” e sul rapporto con l’autorità interna/esterna. Ci siamo soffermati a parlare anche degli approcci della psicologia della Gestalt e del sentimento di inadeguatezza, come dell’importanza di dare frustrazioni perché indispensabili al processo di crescita. sociologia dei gruppi Molti, al riguardo, sono gli autori preziosi. Tra questi: • albert bandura. È tra i principali autori della social cognition. Con il suo lavoro sull’autoefficacia ha messo bene in evidenza che tra efficacia percepita e rendimento c’è un nesso importante, essendo molto difficile ottenere buoni risultati da qualcuno che non si sente capace. Gi studi di Bandura si spingono oltre, arrivando ad indagare le correlazioni tra percezione di efficacia e danni per la salute psicofisica. (Autoefficacia: teoria e applicazioni, Erickson 2000) • “effetto pigmalione”. Gli studi di R. Rosenthal e L.Jacobson (del 1974) sulla “profezia che si auto avvera”, hanno evidenziato sin dal secolo scorso quanto le idee che gli insegnanti si fanno su un alunno, anche in virtù Molto utili ci sono sembrati anche molti dei contributi della sociologia dei gruppi come quelli della psicologia sociale, in particolare su ruoli, status, aspettative e stili di conduzione (o leadership) cooperativi/competitivi. sociologia urbana Urbanistica e sociologia urbana permettono di analizzare con maggiore “scientificità” l’incidenza del contesto anche sui processi di apprendimento. Casa, palazzo, quartiere e città in cui si vive hanno un ruolo determinate su ciascuno degli aspetti della crescita. L’assetto urbanistico come fattore determinante ai fini dell’indagine pedagogica. Valutare 81 La partecipazione urbana è stata più volta presa in considerazione anche come esempio significativo di manipolazione del consenso. pedagogia generale È questo l’ambito più evidentemente connesso con i temi del nostro studio. L’apporto di autori del secolo scorso come Maria Montessori e i suoi studi sull’autovalutazione rimangono le basi per un ragionamento efficace su pedagogia attiva e valutazione a scuola. Ecco che interrogarsi su marketing e libero arbitrio diventa una necessità per chi vuole ottenere qualche risultato nella didattica in situazioni marginali. Concorrenza e competitività infine, come elementi cardine dei sistemi economici prevalenti, non possono non avere ripercussioni sugli stili di apprendimento e quindi sul tema della valutazione. Chi vuole realizzare interventi pedagogici tesi alla cooperazione non può tralasciare questo fondamentale dato di contesto. diritto pedagogia sperimentale Due Determinante risulta ai nostri fini la conoscenza dei molti modelli di ricerca-azione che cercano di ricomporre la frattura tra ricerca quantitativa e qualitativa. economia 82 L’economia si è dimostrata utile almeno quanto l’urbanistica per comprendere il contesto e la sua incidenza sui processi di apprendimento. La necessità di valutare “i risultati” senza troppi fronzoli e margini di errori propria all’analisi economica applicata a processi produttivi ha del resto già influenzato la ricerca pedagogica sul tema. Portando talvolta ad eccedere nell’utilizzo dei criteri tradizionalmente utilizzati per valutare la produttività industriale; e altre volte a dimenticarsi invece gli spunti pur preziosi che questa materia può fornire a operatori e ricercatori in ambito didattico e sociale. Le tecniche di marketing e le esigenze di standardizzazione della produzione di massa in particolare, sono ambiti di conoscenza importanti per addentrarci nei meccanismi della manipolazione del consenso (in collegamento anche con quanto detto sopra sul narcisismo di Lowen e sul libero arbitrio). I forti collegamenti tra motivazione all’apprendimento e dispersione scolastica sono stati da più parti messi in evidenza. Il diverso approccio rispetto all’istruzione di migranti appena arrivati in Italia rispetto a quelli di più vecchio insediamento e, ancora di più, rispetto alla popolazione autoctona, porta a risultati molto diversi anche in termini di abbandono e rendimento scolastico. Il valore attribuito alla cultura piuttosto che ad oggetti simbolo pompati dal mercato (telefonini, abiti, macchine, moto...) non solo dal singolo studente, ma anche dalla collettività di cui fa parte, rivestono insomma un ruolo determinante anche rispetto alla possibilità di conseguire buoni risultati a scuola. Il diritto costituzionale, quello penale e la filosofia del diritto sono probabilmente le branche di studi giuridici che maggiormente hanno da dire a chi va facendosi domande attorno alla valutazione in ambito pedagogico. Analizzare il sistema giudiziario consente di avere uno sguardo ulteriore sul fenomeno della dispersione scolastica, e non solo per le tante correlazioni tra popolazione carceraria e livello di istruzione. L’abbondante letteratura giuridica in materia dei “delitti e delle pene” va interrogandosi probabilmente da molto più tempo attorno agli stessi quesiti di chi oggi fa ricerca in ambito educativo, permettendo forse di fare qualche passo in più rispetto a Pavlov e al suo cane che, malgrado le tante sofisticate teorizzazioni pedagogiche, ancora sembrano dettare le linee guida nella quotidianità effettiva delle classi scolastiche italiane. letteratura Scrittori come Tolstoj, Dostoevskij, Kafka dicono, a chi sa leggerli, le cose fondamentali su questo tema, permettendo di viaggiare nei meandri dell’animo umano di fronte ai temi della giustizia di ogni luogo e tempo. Abbiamo utilizzato un breve scritto di Kafka sulla porta come incipit della giornata di lavoro col gruppo Frequenza200 di Palermo, sperimentando insieme la potenza evocativa di un materiale tanto prezioso. Anche la letteratura sacra gioca un ruolo fondamentale sul tema. Non solo rispetto ai convincimenti profondi individuali e collettivi sedimentanti nel corso dei secoli, ma anche per quanto ha ancora da dire a chi cerca modi adeguati per lavorare attorno al tema (come ben messo in evidenza nel libro di Lucio Della Seta di cui parliamo in seguito). Le parole del Vangelo sulla capacità di prevedere il tempo che arriva da segni molto semplici, o sulla bontà degli alberi che si riconosce dai frutti offrono probabilmente molti più suggerimenti rispetto alle sconfi nate dissertazioni su indicatori e temi affini di specialisti poco collegati con la vita sul campo. Valutare 83 scienze fisico-biologiche Due Fondamentale è il contributo metodologico delle “scienze dure”, che, con le dovute differenze, possono fornire utili contributi anche alle scienze umane e sociali. Il metodo della ricerca che andiamo costruendo è basato su molte analogie con quello della ricerca scientifica, come nei campi della fisica e della biologia. Diventa però fondamentale appropriarsi anche dei contributi di chi, come Kundt e Foyeraben, ha messo in crisi lo stesso concetto di scientificità e di metodo pure in questi campi della ricerca. Concetti come trasferibilità, comparabilità, ripetibilità tanto cari alla pedagogia di oggi, dovrebbero perciò trovare il giusto ridimensionamento. Anche quando riferiti ai processi di valutazione. medicina 84 Molti i punti di contatto con la scienza medica. Prima di tutto per i pesanti risvolti che climi e processi valutativi possono avere sulla salute di studenti e operatori (come visto anche in Bandura), tanto in positivo quanto in negativo. Ma anche perché le scienze mediche hanno molto da suggerire alla valutazione in educazione dal punto di vista metodologico. I sistemi di misurazione e diagnosi, assieme all’animato dibattito tra i fautori di approcci olistici e specialistici, tra chi centra l’attenzione sulla malattia e chi sul sintomo, sull’importanza di non far coincidere il malato con la sua malattia... sono solo alcuni degli argomenti con assonanze importanti con la valutazione in pedagogia. docimologia Nel rivisitare rapidamente ambiti e principali (controverse) correnti della scienza che si occupa dello specifico valutazione, sono state anche condivise le tendenze più attuali della docimologia, più o meno convergenti verso la necessità di ritenere il momento valutazione interno al processo di apprendimento e dove l’alunno sia parte attiva e consapevole. Durante le giornate di formazione e ricerca che hanno portato all’elaborazione di questo secondo numero di “Lenti a contatto”, l’attenzione dei gruppi è stata focalizzata sul modello di ricerca-azione anche rispetto al tema valutazione, ovvero verso un modello in cui l’intero processo ruota attorno ad un’ipotesi da verificare con la conseguente necessità di raccogliere “prove” credibili. Nella metodologia prospettata, il processo di valutazione si inserisce perciò in questo schema, comprendendo operatori e alunni, pur nella diversità di elaborazione cognitiva e di ruoli. In entrambi i casi il punto critico, quello da evitare, è la fuga versa l’appagamento dell’aspettativa esterna: spesso la raccolta di prove e il monitoraggio efficace vengono cioè invalidati, o annullati del tutto, dall’ansia di prestazione verso un genitore o il suo sostituto (il professore, il mercato, il finanziatore, il superiore gerarchico...) . Emerge pertanto la necessità di dotarsi di sistemi di monitoraggio e valutazione efficaci, non in ottemperanza a richieste esterne, ma perché la propria azione abbia un senso. In un sistema del genere diventa proprio lo studente il valutatore più severo e rigoroso di sé stesso. A patto però che avvenga un’autentica presa in carico del percorso di ricerca da parte dell’alunno, evitando manipolazioni e falsità da parte del conduttore. Essendo probabilmente preferibili, anche ai fini di una crescita armoniosa, processi di valutazione autoritari (ovviamente nei dovuti limiti) a quelli manipolativi o eccessivamente lassisti. Chiunque sia impegnato in un percorso di apprendimento deve cioè poter sapere se e dove sta “sbagliando”. Tutta la differenza sta tra chi intende la scuola come sistema di punizione attorno a questo sbaglio (inevitabile) e chi invece fa dello “sbaglio” il punto di partenza più fecondo perché il suo discente possa avanzare in maniera autonoma nel percorso di crescita e conoscenza. In ogni caso non consentire a chi sta imparando di capire se ha fatto un errore somiglia molto all’atto sadico del maestro autoritario e giustiziere. Assieme alla priorità di liberare il clima di classe da “colpa” e “competitività”, riaffidando la titolarità del processo di verifica/ valutazione all’alunno, nel nostro giro di incontro tra Palermo e Milano siamo stati tutti d’accordo su un punto: se la valutazione manca, il processo di apprendimento/ ricerca fallisce e rischia di fare grossi danni. sulla valutazione, per una pedagogia dell’errore È cioè proprio “valutando la sua valutazione” che è possibile comprendere meglio la metodologia adottata da un gruppo (sia esso una scuola pubblica o un’associazione privata) ed eventualmente tentare di modificarla. L’argomento apre questioni assai complesse, in primo luogo perché impone di trovare l’equilibrio tra due esigenze in apparenza conciliabili come l’acqua con l’olio: 1) la necessità di processi formalizzati e standardizzati per poter procedere ad una valutazione comparabile e intellegibile, 2) l’effettiva, sostanziale, veritiera valutazione di processi e prodotti. Con i gruppi di Frequenza 200 abbiamo ragionato attorno a questi e a molti altri punti caldi, sempre a partire dall’importante gamma di espe- Valutare 85 Due 86 rienze di cui i gruppi stessi erano portatori. Esperienze differenti per tipologia di operatori, ragazzi e docenti destinatari, ma soprattutto per i contesti territoriali da cui queste esperienze educative nascevano. Le grida di un bimbo picchiato dal padre perché non vuole andare a scuola, e all’uscita dal centro educativo trovare un tavolo con una dozzina di uomini, donne e bambini a cavare polpa dai ricci, in un borgo disastrato e fermo al dopoguerra; donne e ragazzi mal messi che frugano in mezzo agli avanzi di frutta e verdura, insieme ai colombi e a qualche altro uccello, fotografati da un ragazzo e una ragazza radical con macchina digitale, nel breve intervallo tra la fine di uno dei mercati più grandi d’Europa e l’arrivo di macchine pulitrici efficientissime dotate di idranti dallo spruzzo potente; la desolazione di stradoni e palazzoni di una periferia che sembra immensa, deserta e tutta uguale tanto da inghiottirti nel vuoto… sono alcune delle scene di questi mesi, che fanno da cornice a questo lavoro sulla valutazione almeno quanto le parole di Montessori e Freinet. Ogni processo educativo nasce, cresce e muore all’interno in una determinata strada, quartiere, città e a questa rimane indissolubilmente legata. Per questo mettere in comunicazione persone di differenti città può costituire un incidente che provoca il cambiamento, anche nella vita del singolo educando. Durante i nostri incontri di ricerca abbiamo esaminato decine di casi di successo e insuccesso scolastico in qualche modo collegati al tema della valutazione, cercando di “estrarre” dagli educatori partecipanti basi teoriche e soluzioni pratiche adottate dalle rispettive équipe nell’affrontare tali temi. I primi risultati di questo percorso sono contenuti nel secondo numero della rivista pedagogica “Lenti a contatto”, strumento di comunicazione che il gruppo di ricerca si è dato. La nostra “arte di costruire ponti” – per dirla con Dewey – ha preso in rassegna l’apporto di molte scienze. Antropologia, filosofia, psicologia, pedagogia, fisica e biologia, medicina, economia, medicina, letteratura, sociologia e urbanistica, teologia, diritto: tra tutti questi campi ha spaziato la nostra indagine, cercando di uscire da una impasse gravosa. Infatti con una scuola sempre più in crisi e la riflessione culturale ferma al dilemma “Invalsi sì/Invalsi no” (fuori dai denti mi schiero senza dubbi per un netto Invalsi no! e per mille ragioni), il tema della valutazione non può essere più lasciato nelle mani di docimologia e ragionamenti a compartimenti stagni. Rimandando a chi avesse la voglia e la pazienza di approfondire il nostro viaggio gnoseologico ad una lettura di “Lenti a contatto”, cerchiamo di seguito di riportare alcuni dei punti salienti emersi dal nostro ragionamento collettivo, proponendoli come base per una nuova pedagogia dell’errore: • l’ingrediente fondamentale per una valutazione efficace rimane la relazione e il clima di classe. Il bagaglio umano, culturale e la fi losofia che sta alle spalle del maestro, rimane cioè l’elemento primario in cui si colloca anche il processo valutativo. A poco servono strumenti e tecnologie raffinate, moderne o nostalgiche, se il clima d’aula non è adeguato; • come già detto l’approccio pedagogico a cui noi facciamo riferimento ha le sue radici nella pedagogia attiva e nella ricerca-azione, pur rispettando altri stili e modalità d’insegnamento parimenti efficaci e rispettosi della natura umana; • dare la possibilità ad uno studente di comprendere se e dove qualcosa non va nel suo percorso di apprendimento è tra le cose più importanti del percorso stesso. Per questo è addirittura preferibile il vecchio giudizio autoritario al lassismo senza argini del moderno maestro amicone. Altrettanto nocive ci sono sembrate le modalità falsamente partecipative, quelle in cui all’alunno viene data l’illusione di avere un margine decisionale all’interno di un processo valutativo nel quale invece tutto era già stato deciso dai “grandi”; • la modalità di valutazione adottata può essere considerata uno dei principali responsabili della disaffezione alla scuola, e quindi anche della dispersione scolastica. Molti sono gli autori (A.Bandura e L. Della Seta, tanto per citarne due) che mettono bene in luce quanto nella vita psicologica di ciascun individuo occupi un ruolo determinante “il giudizio” altrui. Vivere in un contesto sociale basato sulla paura del giudizio, come ancora oggi è la scuola in molti casi, può risultare nocivo per la stessa salute psico-fisica di adulti e bambini. La fuga è una delle risposte possibili e, sotto alcuni aspetti, più “salutari”, specie quando l’alunno si trova in una delle fasi evolutive in cui il giudizio assume un’importanza ancora maggiore. Non è forse un caso che proprio alle medie il fenomeno dispersione cominci ad assumere dimensioni più importanti; • di qui la necessità di cambiare il modo di fare valutazione, tanto nella scuola, quanto nell’extra scuola che dovrebbe supportarla; • punti principali su cui basare un processo di valutazione dovrebbero quindi essere: a) dirigenti scolastici e altri responsabili dell’organizzazione educativa, insegnanti e educatori dovrebbero partire da un lavoro in profondità su di sé relativamente al proprio rapporto con colpa e giudizio, dotandosi degli aiuti necessari, e senza abbassare mai la guardia su questo argomento fino al momento della pensione; b) la scuola dovrebbe basarsi sull’errore, ovvero sulla libertà autentica di sbagliare per poi imparare dal proprio errore. L’intero sistema educativo sembra, invece, esistere perché nessuno sbagli e per perseguire chi ha sbagliato. Bisognerebbe cioè spezzare il circolo perverso (messo in luce anche nel già citato numero di “Lenti a contatto”) e ancora molto forte tra sistema valutativo a scuola e sistema carcerario; Valutare 87 Due 88 c) risulta pertanto indispensabile recuperare la funzione amorevole del maestro come guida e regista del processo educativo, mettendo da parte pulsioni persecutorie e sadiche. Aprendosi ad un simile atteggiamento non risulterà difficile trovare gli strumenti più utili, attingendo anche a letteratura e prassi internazionali del passato e del presente. Sarebbe importante riuscire a farlo malgrado alla scuola, e ancora di più al privato sociale, manchino troppo spesso le condizioni minime di serenità strutturale; d) in una metodologia che si ispira al modello di ragionamento scientifico-filosofico, il processo di valutazione si basa sempre sul ruolo attivo e la responsabilità ultima di chi apprende; sull’attenzione posta su prodotti e processi di apprendimento e mai sul soggetto che apprende; sulla produzione di “prove” credibili da discutere con la comunità di apprendimento; e) andrebbe perciò messa al bando, e senza troppi fronzoli, quell’infinta gamma di strumenti e modalità valutative (a partire da buona parte dei documenti di programmazione didattica e progettazione sociale ancora oggi basati sul copia incolla), funzionali solo a convincere il valutatore della propria bravura. Sarebbe, insomma, ora di riconoscere questi strumenti come, oltre che nocivi, inutili e addirittura controproducenti ai fini della valutazione e dello stesso processo di apprendimento. A lasciar stupiti la maggior parte di noi è stata la consapevolezza che molte di queste indicazioni fossero già contenute in studi autorevoli, leggi, direttive, circolari d’Istituto, oltre che nei manuali per diventare docente ed educatore. Ed è forse anche grazie a questo che qualcosa sta cominciando a cambiare. Ma il clima generale e i dati sulla disaffezione scolastica riscontrati in ciascuna delle città partecipanti alla ricerca pongono un interrogativo imbarazzante: come mai siamo ancora a questo punto? Forse è solo e ancora una questione di scelta. Procedere ad una valutazione efficace e rispettosa della natura umana comporta il rischio di rimanere isolati e succubi del “giudizio” prevalente, chiamandoci al difficile compito di dar conto prima di tutto alla nostra coscienza e all’etica professionale. Anche a costo di rinunciare al nostro lavoro, da ministro, sottosegretario o maestro che sia. Forse solo così qualche studente in meno rinuncerebbe al proprio, di “lavoro”. rudolf steiner (1861 – 1925) È certamente il più eclettico tra gli autori contemplati in questi nostri profili. I suoi molteplici studi e interessi per i campi dello spirito, della scienza, della lettura e dell’arte lo portarono a mettere a punto quel complesso sistema teorico chiamato “antroposofia”. Teorie, oggi, ancora ampiamente praticate in pedagogia, ma anche in altri ambiti come la medicina e l’agricoltura. Questo complesso sistema teorico, frutto di una tensione volta a gettare ponti tra conoscenza spirituale e scientifica, ha molti risvolti utili alla nostra dissertazione su didattica e salute. Non a caso quello di Steiner è uno dei pochi profili approcci in cui esiste una branca specifica chiamata “pedagogia curativa”. Steiner ne parla in un ciclo di conferenze tenuto a Dornach, Svizzera, nel 1924, a partire da casi come quello del ragazzo idrocefalo Otto Specht, la cui educazione gli venne affidata quando Steiner era uno ancora studente ventitreenne di Vienna. Steiner descrive il modo in cui riuscì a curare quel ragazzo, facendosi assegnare anche compiti educativi e grazie al fatto di aver instaurato un rapporto affettivo sincero con il ragazzo e di fiducia con la mamma. Attraverso l’utilizzo di tecniche didattiche e terapeutiche, Steiner riuscì a far diventare medico quel ragazzo in cui nessuno riponeva inizialmente alcuna speranza di successo scolastico. Molte sono le scuole che in tutto il mondo ancora oggi ispirano la propria prassi agli insegnamenti di Steiner. E anche in questo caso non mancano di certo critiche più o meno severe al suo approccio. Non azzardiamo valutazioni sulle scuole steineriane (ne conosciamo alcune ottime, altre pessime, e come sempre ci sembra che a fare la differenza siano gli insegnanti che ci lavorano), ma di certo ci sembra che questo autore abbia ancora moltissime cose da dire. Soprattutto sull’esistenza di nessi profondi tra scuola e salute (del corpo e dell’anima). tre. sperimentazioni: le porte 1. il mito del mammut P orta universo è il titolo della settima edizione del gioco di teatro-quartiere che ha accompagnato l’intera avventura del Centro territoriale Mammut. Alcune di queste edizioni non hanno trovato spazio nei racconti raccolti in questa pubblicazione, ad esempio quella dal titolo “Hapy hour a Scampia” del 2013 (e basato sul mito del Dio egizio Hapy, che per un anno ha accompagnato i tempi di piena e di magra di un terzo settore sempre più in crisi). Il Mito è un percorso difficilmente raccontabile a parole e per questo proviamo a farlo con un albero che visualizza le molte tappe di un “marchingegno” a cui abbiamo imparato a voler bene per la sua preziosità quasi magica. La settima edizione è durata più delle altre, 18 mesi fitti di attività. Alibabà, il mito di Er di Platone, Giano Bifronte, Ofreo e Euridice, Proserpina, la fiaba zigana Dio che creò il mondo con l’aiuto del diavolo, quella indiana Madre luna e padre lupo e molte altre ci hanno accompagnato in questo percorso. il mito del mammut: mappa di Alessandra Di Fenza e Alessandra Tagliavini 1. avvio. scAttiva al museo archeologico di napoli l 9 settembre 2013 presso la Sala Conferenze del Servizio educativo del Museo Archeologico Nazionale di Napoli si è tenuta la seconda edizione di Scattiva– incontri conviviali per una scuola attiva, una bella occasione di confronto e condivisione teorica dei percorsi svolti da docenti, ricercatori e educatori quotidianamente impegnati sul campo. Al termine della giornata è stata elaborata la domanda – ipotesi intorno a cui intessere la mappa di ricerca1 della VII edizione de Il Mito del Mammut. Il 14 ottobre 2013 tutti i partecipanti alla ricerca si sono incontrati nei locali del Centro territoriale Mammut in piazza Giovanni Paolo II di Scam- I 91 1. Vedi scAttiva. Incontri conviviali per una scuola attiva, p. 100 ss. pia. Il gruppo, a partire dall’ipotesi generale, ha elaborato le sottodomande e l’intera mappa di lavoro. Con gli insegnanti e gli educatori iscritti si è poi proceduto ad incontri individuali nella sede Mammut, estraendo la mappa di ricerca specifica per ciascuna organizzazione. Accanto ai nodi didattici, ogni insegnante ha definito lo spazio e/o servizio da modificare. Tre festa ottobre Il 24 ottobre 2013 si è tenuta in piazza Giovanni Paolo II la festa d’autunno, come occasione di condivisione della programmazione dell’anno con le componenti generazionali che frequentano il Mammut. L’organizzazione di una kermesse di piazza attorno ai temi della porta e dei miti di passaggio, ha portato alla realizzazione di una delle giornate più colorate e partecipate della storia del centro. Per la prima volta la piazza è sembrata “piccola”, e un ulteriore importante tassello è stato aggiunto all’intreccio metodologico tra gioco, didattica e recupero di spazi urbani abbandonati. 2. le azioni 92 • laboratorio “lancio” presso le agenzie educative iscritte Come concordato con gli insegnanti, l’équipe Mammut si è recata in ciascuna delle classi iscritte al gioco a condurre le giornate di laboratorio per dare il via alla VII edizione del Mito. La proiezione del video dell’anno precedente si è rivelata ancora uno strumento molto efficace ai fini della restituzione di senso e dello stimolo motivazionale per alunni e insegnanti. Ciascuna delle giornate-lancio è durata 2 ore circa, prevedendo oltre alla proiezione del video “Hapy Hour a Scampia” (realizzato da Figli del Bronx come video racconto della giornata conclusiva del Mito VI edizione ispirata al vuoto fertile e alla divinità egizia del Nilo, Hapy): • circle time finalizzato all’estrazione della mappa di ricerca del gruppo classe attorno alle domande: “Quando stai bene a scuola?”, “Che cosa andrebbe secondo te cambiato?” (spazi e servizi); • scrittura autobiografica attorno al tema della porta; • racconto teatrale della storia di Alibabà e i 40 ladroni; • cerchio di capitalizzazione. A seguito degli incontri con i bambini, l’équipe è riuscita a definire la mappa di ricerca iniziale attorno a cui ciascun/a insegnante ha ricollocato in seguito la propria partecipazione. tappe: • 7 novembre I.C. 28 “Giovanni xxiii- Aliotta” • 12 novembre I.C. 58° “J.F. Kennedy” • • • • 24 ottobre 5° Circolo Didattico “Eugenio Montale” succursale 25 ottobre I.C. “Virgilio 4” 29 ottobre I.C. “Ilaria Alpi – Carlo Levi” 31 ottobre 5° Circolo Didattico “Eugenio Montale” • laboratori mito nei locali del mammut (‘a scuola col mammut’) Nel mese di novembre 2013 le classi partecipanti al Mito del Mammut hanno cominciato i laboratori realizzati in sede, conclusi a dicembre con i laboratori di verifica tappe: • 21 novembre, 27 novembre 2013, 3 dicembre 2014 - 5° Circolo didattico “E. Montale” (maestra Rossana Sanges) • 25 novembre, 30 aprile 2013, 26 novembre 2014 - 5° Circolo didattico “E. Montale” (maestra Marisa Damiano) • 2 dicembre, 9 dicembre, 16 dicembre 2013 - I.C. “Ilaria Alpi – Carlo Levi” • 15 gennaio 2014, 29 gennaio 2014 – I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta” • 3 febbraio, 10 febbraio, 24 febbraio, 10 aprile 2014 – I.C. “Virgilio 4” • 19 Marzo, 2 aprile, 28 maggio, 12 novembre 2014 – I.C. 58° “J.F. Kennedy” • laboratori in sede La festa d’ottobre ha segnato l’inizio dei laboratori in sede. Le attività per i bambini dai 6 ai 10 anni si sono svolte tutti i martedì e giovedì, tra attività di “doposcuola” e laboratori di carattere più spiccatamente teatrale. • Laboratorio ‘A BiCicletta: uno spazio aperto a tutti i ragazzi e le ragazze dagli 11 anni in su, all’interno del quale si lavora intorno alla conoscenza della ciclo-meccanica. • Ciclofficina: uno spazio aperto a tutti (bambini, ragazzi, adulti) in cui si aggiustano le biciclette. • MammutBreak: laboratorio composto da un gruppo variegato (per provenienza sociale, culturale, economica) di bambini e ragazzi intorno al comune interesse per la breakdance. • laboratori in carcere La realizzazione del laboratorio di teatro con i detenuti del Carcere di Secondigliano condotto da Maurizio Braucci, con il supporto di Linda Martinelli e Giuseppe Carbone, è stata l’occasione per mettere in campo un’altra azione sul tema della “porta”: la possibilità di creare elementi di di connessione tra esterno ed interno del carcere. Il laboratorio si è concluso il 27 giugno 2014 con uno spettacolo realizzato all’interno dell’istituto di Secondigliano. Mito 93 laboratorio di teatro magia e il genio eir ascòl Come da metodologia Mammut è stato proprio lui, il genio fuggitivo, a fare da sfondo integratore al percorso svoltosi all’interno di una classe dell’ Istituto Comprensivo “Ilaria Alpi – Carlo Levi” con il supporto dell’équipe Mammut: lo scopo dell’iniziativa era quello di sperimentare ancora una volta modalità innovative per una scuola salutare (tecnicamente il tema era sulla dispersione scolastica), in particolare con bambini e bambine rom. • laboratorio teatrale e spettacolo “i viaggi di gulliver” Durante il periodo finale dell’anno, terminata la scuola, i bambini che avevano preso parte ai laboratori pomeridiani fin da settembre, sono stati coinvolti in un laboratorio teatrale guidato dall’operatore Mammut Tonino Stornaiuolo e da Gianni Vastarella. Grazie anche al rapporto educativo instaurato nei mesi precedenti e alla grande preparazione teatrale conseguita negli anni di partecipazione ai progetti “Punta Corsara e Arrevuoto” dalle due guide, il percorso si è rivelato molto valido. Portando alla realizzazione di uno spettacolo finale nell’auditorium di Scampia. Tra i molti effetti positivi, la grande partecipazione dei genitori che hanno preso parte attiva alla preparazione dello spettacolo (ad esempio nel ruolo di costumisti). • Tre 94 a) tappe intermedie di piazza e di strada miti di luce 20 dicembre 2013 piazza Giovanni Paolo II. Come ogni anno abbiamo festeggiato l’avanzare della luce con la festa interculturale dei Miti di Luce. Grande partecipazione di bimbi e famiglie del quartiere. I bambini, in preparazione alla festa, hanno lavorato sull’ “Albero della Nascita”. Il percorso si è rivelato molto interessante poiché ha permesso di lavorare sul tema del parto e della venuta al mondo di ciascuno. carnevale Nel febbraio 2014 il Centro Mammut ha partecipato alla 32ma edizione del Carnevale di quartiere promosso dalla Associazione Culturale Gridas (Gruppo Risveglio dal Sonno) con l’Accrocchio “Porta-fortuna” realizzato durante i laboratori pomeridiani con i bambini e i ragazzi delle scuole del quartiere. Il tema che faceva da sfondo alla festa è stato la Porta: le porte aperte che creano incontri e relazioni, le porte che negano spazi e le maschere che permettono di superarle e accedervi, in primis la porta della Villa Comunale di Scampia che dà sulla piazza “Giovanni Paolo II” e che sarebbe l’accesso più logico se si volesse realmente favorire la fruizione della villa da parte dei cittadini. Il tutto realizzato con i ragazzini delle scuole 5° Circolo didattico “E. Montale”, I.C. “Ilaria Alpi - Carlo Levi” e I.C. “Vir- gilio 4” di Scampia, I.C. 28° “Giovanni xxiii-Aliotta” di Chiaiano e con gli adolescenti e i più grandi che frequentano il Centro. festa di primavera: festa di piazza stagionale aperta al quartiere Il 20 marzo è stata organizzata una grande festa tra le colonne della piazza e l’interno della sede, coinvolgendo attivamente genitori e bambini che facevano parte del gruppo Mammut e allargando l’invito all’intero quartiere. Diversi i momenti e le aree: si iniziava con un’accoglienza dove i bambini si iscrivevano ai giochi e le attività della giornata. C’era uno spazio di gioco libero, attrezzato con i giochi in legno della tradizione popolare. All’interno del MammutBus, il nostro camper magico, i bambini entravano e su un biglietto potevano scrivere cosa avevano “seminato” in inverno e cosa stavano raccogliendo ora. Usciti dal MammutBus sceglievano tra vari tipi di semi disponibili quello che preferivano e lo piantavano all’interno di un guscio di uovo che, con po’ di terra, diventava un semenzaio fertile. Infine in un momento della giornata all’interno della stanza grande del Mammut si poteva ascoltare il racconto teatralizzato del Mito di Proserpina. Durante tutta questa prima fase di attività, il gruppo mamme era parallelamente impegnato a impastare gnocchi, cuocere e preparare sugo e bruschette che tutti hanno potuto gustare. Come augurio primaverile, Argentina ha preparato della uova decorate e colorate con colori naturali com’è tradizione della cultura rom. Come ogni festa del Mammut, era aperta per tutto il tempo la ciclofficina per eventuali riparazioni di biciclette, il tappeto per la breakdance e tanta musica. convegno ‘le porte del carcere’ Il giorno 10 aprile 2014 il Centro Mammut in collaborazione con l’Istituto Comprensivo “Virgilio 4” ha organizzato una giornata di studio dal titolo La porta del carcere per riflettere sul tema del carcere e per creare un confronto e uno scambio tra chi ha lavorato sulle “porte del carcere”, allo scopo di fornire ulteriori elementi per la comunicazione interno/esterno. L’idea di organizzare questo incontro è nata tra le mura di un’aula scolastica a partire dai vissuti di tanti bambini che hanno genitori detenuti, nel tentativo di raccogliere idee e materiali sul miglioramento del sistema carcerario e delle sue radici (anche nel mondo della scuola). mito in piazza alla ricerca del genio eir ascòl “Il Mito del Mammut” è il gioco didattico di teatro-quartiere ideato nel 2007 con lo scopo di proporre nuovi modi di lavorare alla didattica ordinaria portando insegnanti, educatori e alunni per le strade della città e mostrando tutte le possibilità didattiche e formative che esse possiedono. Nell’edizione 2013/14, attorno all’archetipo della “porta” e ai miti di passaggio dei 5 Con- Mito 95 Tre 96 tinenti (tra cui: il mito di Er, quello della caverna di Platone, di Orfeo e Euridice, la fiaba zigana “Dio che creò il mondo con l’aiuto del Diavolo”, di Alibabà e i 40 ladroni, di Giano Bifronte) sono stati coinvolti oltre 2.000 bambini e un centinaio di ragazzi, dentro e fuori dalle aule scolastiche di Scampia, Monterosa, Chiaiano, del centro storico e di Castel Volturno (Ce). Anche quest’anno il recupero di spazi abbandonati si è intrecciato con il miglioramento di una quotidianità scolastica ancora troppe volte connotata da abbandono scolastico e malessere generalizzato. concorso “aiuto / sgarrupo” Ottobre – novembre 2014. La II edizione del concorso “Giornalista per un mese” ha avuto come tema “aiuto / sgarrupo, cerco aiuto e trovo difficoltà” per una riflessione collettiva intorno alla relazione d’aiuto. Destinatari sono stati i bambini e le bambine dai sei ai dieci anni e agli insegnanti di scuola primaria. festa d’estate Mercoledì 23 luglio 2014, in piazza Giovanni Paolo II, si è tenuta, come ogni anno, la festa d’estate al Mammut. Il cancello della Villa comunale di Scampia che dà su piazza Giovanni Paolo II rimane chiuso? Il Mammut l’ha presa alla larga e ha lanciato il percorso ginnico “I viaggi di Gulliver attorno alla Villa”. Mostre di pittura e fotografia, video, concerti musicali, street art, cena conviviale e la seconda edizione del circuito/gioco di strada per bambini “MammutBusPark”: come ogni anno il Centro territoriale Mammut festeggia l’estate portando in piazza i frutti dell’anno di lavoro con bambini, ragazzi, insegnanti e adulti italiani, rom e migranti. In particolare la festa è stata l’occasione per lanciare il percorso ginnico d’autore “I viaggi di Gulliver attorno alla Villa” (e per raccogliere i fondi necessari alla sua istallazione negli spazi urbani interessati): nove tavole disegnate dall’artista Luca Dalisi, come proposta di sport all’aria aperta attraverso la celeberrima storia di Gulliver, in un percorso atletico che chi vorrà potrà realizzare attorno al parco pubblico di Scampia ancora sottoutilizzato anche a causa della difficile accessibilità. Di seguito riportiamo le indicazioni rispetto alle quattro “porte” a cui hanno lavorato le/gli insegnanti nel corso dei 18 mesi di ricerca-azione: b) mammutBus e i concorsi concorso “miti luce” Dicembre 2013. Il Centro territoriale ha bandito il concorso: “Storie di Luce intorno al camper” rivolto ai bambini della scuola primaria. I bambini hanno scritto un mito a partire dalle suggestioni raccolte nel MammutBus. concorso “una giornata salutare” Marzo-aprile 2014 Il quotidiano Il Mattino e il Centro Ricerche Mammut presentano un concorso di scrittura per le scuole primarie dell’area nord di Napoli. Tema del concorso è: come la tua scuola e la tua città possono fare bene o male alla salute. 3. le porte • carcere: maestra Elvira Quagliarella dell’I.C. “Virgilio 4”. Spazio prescelto: porta carcere. Nodi critici: geometria, solidi, fonti di energia; valutazione (premio/punizione, giudizio) • immigrazione e rom: Clementina Gambocci dell’I.C. “Ilaria Alpi – Carlo Levi”. Spazio prescelto: aula. Nodi critici: ecologia sociale, alterità, ecosistema. • immigrazione e rom: Yasmine Accardo della scuola di Italiano L2 (lingua seconda) “APS Garibaldi 101”. Servizio prescelto: scuola per adulti. Nodi critici: conoscenza reciproca, porta tra scuola diurna e serale per italiani e scuola di italiano per stranieri • aula: Marco Mailler e Raffaele Mosella del Cpia “Ilaria Alpi – Carlo Levi”. Spazio prescelto: aula che esce dalla scuola. Nodi critici: alterità, incontro tra scuola e cittadini, relazione interculturale, educativa, intergenerazionale, Italiano L2 (lingua seconda) come lingua veicolare per la didattica curriculare • aula: Rosaria Pica dell’I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”. Spazio prescelto: aula scolastica. Nodi critici: porte della storia, aula funzionale all’insegnamento curriculare, regole, norme sicurezza e antincendio vs didattica attiva • universo: Carmela De Lucia dell’I.C. 58° “J. F. Kennedy”. Spazio prescelto: aiuola del cortile esterno. Nodi critici: astronomia, osservazione delle piante • universo: Rossana Sanges del 5° Circolo Didattico ”Eugenio Montale”. Spazio prescelto: spazio verde davanti al cancello della scuola. Nodi critici: alterità, astronomia, geometria, equilibrio e fisica • universo: Marisa Damiano del 5° Circolo didattico ”Eugenio Montale”. Spazio prescelto: spazio verde davanti al cancello della scuola. Nodi critici: autostima dei bambini e delle bambine, matematica intesa come numeri, misure e conti. Mito 97 scAttiva. incontri conviviali per una scuola attiva di Alessandra Tagliavini A Tre 100 lla sua VII edizione, il Mito del Mammut ha coinvolto le maestre e le insegnanti dei Cpia che hanno aderito all’iniziativa non solo nella sperimentazione didattica con i propri gruppi classe, ma anche e a pieno titolo come ricercatrici attraverso ScAttiva – incontri conviviali per una scuola attiva, valido strumento capace di fornire ancor più vigore ad una delle principali finalità della ricerca Mammut, ovvero produrre circolarità e condivisione di informazioni tra chi lavora sul campo, e di dimostrare la possibilità che tale modalità di formazione consente, ovvero non dipendere da un “esperto” e dall’intervento spot di un esterno, ma basarsi sulla permanenza di chi lavora quotidianamente in un determinato contesto. Ciascuna ha realizzato il proprio percorso, con il supporto dell’équipe Mammut, a partire dallo sfondo integratore della “porta”, l’archetipo che ci ha aiutato a riflettere e lavorare sui temi della trasformazione, del passaggio, del trapasso. Abbiamo così conosciuto la “porta” aula che esce dalla scuola per incontrare il territorio come nel caso del Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti – Cpia “Ilaria Alpi–Carlo Levi” che da Scampia è andato a tenere lezioni a Castel Volturno, in provincia di Caserta; le “porte” della vita che raccontano il passaggio dalla quinta elementare alla prima media, ma anche quelle della storia all’I.C. 28° “Giovanni xxiii-Aliotta” di Chiaiano; la “porta” migranti-rom relativa alla questione dell’alterità e dell’intolleranza attraverso lo studio della cooperazione tra sistemi e dell’ecologia sociale come nel caso dell’I.C. “Ilaria Alpi–Carlo Levi” sito nei pressi del campo rom di Scampia; le “porte” su mondi chiusi e poco comunicanti come quelli tra gli studenti dei corsi serali e diurni e per adulti stranieri, e tra persone di diversa provenienza geografica, alla “Leonardo da Vinci” del centro storico in collaborazione con “Aps Garibaldi 101”; la “porta” carcere per riflettere sulla valutazione intesa sempre più come sistema di punizione/premiazione, nonché per contribuire ad una elaborazione del vissuto di famiglie, bambini e detenuti sulla distanza carcere-mondo all’I.C. “Virgilio 4”; “porte” interiori che si aprono sulla matematica, l’universo e l’astronomia, come al 5° C.D. “E. Montale” e all’I.C. 58° “J. F. Kennedy”, per narrare di ponti invisibili che collegano persone e parti della città, uscendo da isolamento e disistima di sé. Il mio compito, in sintonia con l’azione generale dell’équipe Mammut, è stato quello di supportare la singola insegnante nel proprio lavoro attorno alla mappa di ricerca a cominciare dalla quella generale nata nel corso del primo incontro ScAttiva del 9 settembre 2013, poi sviluppata collettivamente in sotto-domande il mese successivo in occasione del secondo appuntamento. L’ipotesi di lavoro/ domanda di ricerca è stata: Territorio e scuola possono trasformarsi in luoghi generatori/potenziatori di salute realizzando in maniera sostanziale, e non formale, valori e metodologie della pedagogia attiva ed esercitando un ruolo di centro territoriale che potenzi cooperazione e spirito di comunità anche con chi è straniero? Nel corso dei diciotto mesi ho incontrato le maestre e gli insegnanti individualmente sia nei locali del Mammut sia nelle aule delle scuole. Tali incontri settimanali o quindicinali sono consistiti in attività di consulenza e supporto didattico-educativo, oltre che di raccolta dei dati e dei risultati utili a sviluppare le mappe di ricerca di ciascun insegnante e quindi del Mito nel suo insieme, risultati conseguiti in termini di incisività sull’ordinario didattico, di implementazione delle modalità di lavoro cooperativo interscolastico ed evoluzione dell’intera metodologia di lavoro. Incontri tesi, dunque, a sostenere sotto ogni aspetto il lavoro, rinforzando da una parte gli elementi propri della scuola attiva, dall’altra portando gradualmente ad una relazione con il resto delle insegnanti coinvolte: la necessità di scegliere una collega con cui intessere una relazione di aiuto per vincere il mitico gioco ha consentito di passare dal rapporto individuale a quello duale per arrivare a quello del grande gruppo nelle altre giornate di approfondimento ScAttiva. Abbiamo iniziato con la definizione dello scenario di partenza che ha individuato chi fossero alunni e alunne, il rione, quali e quante relazioni tra genitori alunni docenti, tra colleghe; criticità e potenzialità; quali “porte” aprire e su quali affacci. Per proseguire con l’ideazione di una ipotesi di lavoro e la scelta dello spazio pubblico/servizio da migliorare: chi ha scelto l’aula scolastica, chi l’aiuola nel cortile, chi lo spazio verde davanti all’istituto, chi ancora il servizio scuola stesso per adulti migranti. Il lavoro ha previsto, poi, lo stabilire obiettivi di mutamento didattici, educativi, di sistema e un certo numero di azioni da mettere in campo per il conseguimento di tali obiettivi; abbiamo ragionato su come strutturare una griglia di osservazione davvero utile al nostro lavoro, al di là della burocrazia, infine su quali indicatori potessero risultare utili per verificare se tale cambiamento fosse avvenuto o meno; ci siamo date un ritmo per il monitoraggio, discusso di tracce e fonti di verifica; infine, abbiamo buttato giù qualche riferimento teorico e di pratiche affini che potessero animare il percorso. Regolarmente, abbiamo rivisto insieme quegli indicatori, li abbiamo commentati, integrati, riempiti di vita vera, ricordando piccoli o grandi Mito 101 Tre 102 episodi significativi avvenuti in classe o durante un laboratorio del Mito, le azioni messe in campo fino a quel momento. È in questo modo che abbiamo riconosciuto poco alla volta in quelle schedine chiamate “diario di bordo” di cui eravamo tutti dotati, équipe Mammut e maestre, non solo meri foglietti da riempire con inchiostro di colore blu o nero, ma strumenti per annotare gli accadimenti e le scoperte di quei giorni; che quel contesto era stato tratteggiato da loro per una loro utilità (pur sempre comune), da aggiornare di tanto in tanto; che quegli indicatori avrebbero dovuto essere cambiati, integrati, cancellati se poco utili ai fini della ricerca. Una ricerca che prima di tutto era funzionale a guardare al proprio contesto di azione in modo nuovo, più intelligente, cioè potenziato nel leggere la realtà. Capace di incastonare quei laboratori mitici, fatti in aula o nei cortili delle scuole grazie al MammutBus, quelle chiacchierate settimanali all’interno della didattica ordinaria, a vantaggio e arricchimento di tutti. Mai come un qualcosa in più, di estraneo. L’attività è proseguita di pari passo con lo svolgersi dei laboratori mattutini del Mito del Mammut a scuola come al Centro, i cui ingredienti sono stati tra gli altri il Mito di Er, Alibabà e i quaranta ladroni, Romeo e Giulietta, Orfeo ed Euridice, il mito della Caverna di Platone, Non ti pago di Eduardo, Proserpina, il Lupo e la luna; le feste stagionali e il carnevale del Gridas; la ricerca del Genio Eir Ascòl; i concorsi di inchiesta MammutBus, la ciclofficina e la breakdance a cui partecipavano alcuni bimbi delle scuole iscritte. Per quanto riguarda gli incontri collettivi, essi hanno fornito numerosi spunti di riflessione e di verifica del lavoro svolto: il modello di formazione e ricerca basato su una cornice collettiva di senso da cui ciascuno parte e verso cui torna nel proprio lavoro personale; il forte affiancamento individuale realizzato grazie alla presenza di una facilitatrice; l’affiancamento sul campo durante le giornate laboratoriali condotte dagli operatori Mammut in aula e nei locali del centro territoriale con l’intero gruppo classe; il lavoro con i bambini e le bambine che le maestre inviavano al Mammut nel laboratorio pomeridiano, si sono rivelati elementi di un modello vincente. Durante la giornata di verifica del 31 luglio 2014 l’équipe ha fissato le priorità su cui concentrare il lavoro per il restante periodo di ricerca: tutte le attività messe in campo sono state destinate al lavoro di scrittura collettiva del rapporto di ricerca e alla relativa pubblicazione. Maestre, bambini, ragazzi e operatori sono stati parte attiva in questa scrittura, com’è nello stile del nostro centro ispirato a modalità di ricerca-azione nate attorno al lavoro di autori come Lewin e Dewey. È stata proprio la “scrittura” lo sfondo integratore dei mesi successivi, cercando di raccogliere materiali importanti, supportati da una buona scientificità, sulla possibilità di trasformare scuola e territorio in luoghi capaci di generare salute anziché malattia. Ma chi ha vinto il percorso? In maniera diversa, tutti. Persino la scuola per migranti Asnada di Milano e MetisAfrica di Verona, che a distanza hanno fornito preziosi suggerimenti ai concorrenti. Tra le consegne de Il Mito del Mammut vi era, infatti, l’elemento gioco, ovvero la necessità di scegliere, insieme con la classe, il percorso di un’altra scuola partecipante a cui dare il proprio contributo: il gioco, dunque, ha compreso certamente un aspetto competitivo ma anche collaborativo poiché avrebbe vinto la classe in grado di dare il migliore apporto al percorso di un’altra. Così è stato quando Rossana ha raccontato degli indiani d’America e del cerchio della vita ai bimbi della classe di Carmela; oppure quando Yasmine ha spedito alcune lettere per posta tradizionale alle classi di Rosaria, Rossana e Carmela, lettere scritte a mano su tematiche legate alle piante e alla coltivazione dai suoi allievi stranieri; quando Carmela ha tenuto un laboratorio presso le classi di Clementina sul Mito di Teseo e Arianna; infine, quando Rosaria e la sua classe hanno preparato e regalato ai bimbi di Carmela un plastico sui giardini pensili di Babilonia. La restituzione del lavoro fatto (e di senso) ai compagni e al quartiere è stata realizzata a maggio grazie a momenti di socializzazione a cui hanno preso parte non solo le classi dell’istituto ma anche genitori e gli altri partecipanti al gioco: se la classe della maestra Rossana ha costruito con Giovanni uno xilofono ad acqua nello spazio verde antistante la scuola, suonato, nei suoi alti e bassi colorati, da bimbi e mamme, la maestra Carmela e la sua seconda E hanno abbellito lo spazio-aiuola del cortile interno dove solitamente gli adulti si fermano in attesa dei figli e delle figlie, mentre le mamme appendevano al muro di fronte i cartelloni con le storie che hanno accompagnato il percorso; Yasmine e alcuni alunni hanno guidato la classe di Carmela e le mamme tra le porte della città, tra un mercato africano e i silenzi tuareg; Rosaria ha aperto la sua aula dipinta di nuovo alla scuola, mentre Clementina ha creato un bellissimo cerchio che ha ripercorso le tappe più significative dell’anno; Elvira, dulcis in fundo, ha concluso il cammino con la rappresentazione dello spettacolo teatrale ideato da Maurizio Braucci nel carcere di Secondigliano: Le maestre sono state, possiamo dire, attente e vigili portinaie, capaci, come Giano Bifronte, di guardare al futuro e al passato, verso l’esterno (il contesto) e l’interno (di ciascuno dei bimbi che le hanno accompagnate, e di loro stesse). Mito 103 mappa generale di ricerca R Tre 104 iportiamo di seguito alcuni elementi che ci sono stati utili a capire se il lavoro di questo ultimo anno e mezzo ha contribuito realmente al cambiamento desiderato. Tali riscontri sono il frutto del processo di monitoraggio che ha caratterizzato anche questa esperienza di ricerca-azione. Questi i passaggi principali, come raccontato in precedenza con ScAttiva, incontri di scuola attiva: 1) a seguito degli incontri con maestre, alunni ed educatori coinvolti nel percorso, abbiamo elaborato la mappa di ricerca-azione. Per la precisione una collettiva e otto specifiche per ognuna delle maestre partecipanti. Nella mappa erano indicate sia le domande attorno a cui avrebbe lavorato l’intero gruppo, che gli obiettivi, gli indicatori e le azioni da mettere in campo per realizzare tali obiettivi; 2) tutte le maestre, gli insegnanti e gli educatori coinvolti ne Il Mito del Mammut potevano contare su una griglia di osservazione, ovvero un diario di bordo, attraverso cui osservare e registrare l’esperienza svolta nelle scuole, nei locali del Centro Mammut o negli altri luoghi in cui il Mito del Mammut si svolgeva; 3) al termine di ogni fase di lavoro (in concomitanza con i momenti di socializzazione di piazza: festa d’autunno, di primavera, d’estate) abbiamo messo in campo attività di verifica, in cui l’attenzione nostra e dei bambini era orientata ad osservare e registrare elementi rilevanti ai fini delle domande e degli obiettivi contenuti nella mappa, secondo gli indicatori che ciascun sottogruppo si era dato; 4) da giugno a novembre 2014, tanto le maestre, quanto gli alunni e gli educatori coinvolti, sono stati impegnati in un lavoro di scrittura collettiva orientata da obiettivi, domande e indicatori della mappa di ricerca-azione. In ciascun momento di lavoro abbiamo sempre tenuto presente la giusta importanza da attribuire a mappa di ricerca e indicatori preordinati: semplicemente una bussola per orientare rotta e osservazione. Molta attenzione è stata posta a non ingabbiare il presente e il fluire libero dell’esperienza (a partire da intuizione, immaginazione, passione): qualsiasi indicatore, obiettivo o domanda ulteriore fosse nata durante la singola esperienza avrebbe ricevuto la più calda delle accoglienze. Troverete alcuni esempi di tali indicatori e tracce di lavoro in coda a ciascuna sperimentazione, nelle parti 1-6 del presente capitolo. Non sempre siamo riusciti a compilare il diario di bordo a fine giornata di lavoro (compito essenziale!). Ma di sicuro siamo riusciti ad ottenerne molti e di ottima qualità. Registrando una differenza positiva e di dimensioni notevoli rispetto alla pre- cedente ricerca raccontata in Come partorire un Mammut (e non rimanere schiacciati sotto), Marotta&Cafiero, 2011. domanda di lavoro/ipotesi: Territorio e scuola possono trasformarsi in luoghi generatori/potenziatori di salute individuale e collettiva, realizzando in maniera sostanziale, e non formale, valori e metodologie della pedagogia attiva ed esercitando un ruolo di centro territoriale che potenzi cooperazione e spirito di comunità anche con chi è straniero? domande generali di ricerca: a) Come si può sviluppare consapevolezza sulla connessione ecologica e interculturale, modificando atteggiamenti e comportamenti individuali e collettivi attraverso le azioni di un centro territoriale? b) Ricerca e burocrazia possono essere utili a migliorare l’intervento sul campo? Mito obiettivi di mutamento generali: a) realizzare percorsi di scuola attiva utili a potenziare la salute individuale e collettiva; b) migliorare l’efficacia e la piacevolezza dei percorsi di apprendimento curriculare; c) produrre un documento di ricerca, con basi teorico/pratiche rigorose, sulla validità di approcci e metodologie. sotto-domande 1) Come permettere alla maestra o al maestro “in ricerca” di uscire dal proprio isolamento? Obiettivi: a) incrementare qualitativamente e quantitativamente le interazioni positive tra insegnanti; b) far diventare patrimonio diffuso le specificità/eccellenze di singole scuole/classi. Azioni: a) quelle de Il Mito del Mammut 2013/14 e in particolare il lavoro sull’aula realizzato dalla maestra Rosaria Pica dell’Istituto Comprensivo 28° 105 “Giovanni xxiii-Aliotta” a Chiaiano e la competizione basata sul miglior contributo reciproco nel gioco Il Mito del Mammut; b) incontri ScAttiva e convegno finale; c) pubblicazione finale di ricerca e Barrito on-line; d) percorsi MammutBus. Tre 106 Indicatori: a) numero di episodi in cui le insegnanti comunicano (implicitamente o esplicitamente) di aver incrementato il contatto con altri insegnanti; b) numeri di episodi in cui si rileva questo incremento; c) miglioramento delle relazioni interpersonali (minori episodi di scontro, disciplina migliore anche in assenza della maestra “cattiva”); d) incremento di episodi in cui le insegnanti fruiscono del patrimonio di altre scuole/classi. 2) Come può la scuola non essere più un luogo in cui si genera insuccesso, dove nessuno abbia più la sensazione di essere chiuso in un “carcere” da cui ha voglia di evadere, dove la fase di valutazione sia efficace e non dannosa e castrante? Come interrompere la connessione tra la “cattiva” scuola e il carcere, contribuendo ad aprire la porta del carcere al resto del mondo? Obiettivi: a) sviluppare una riflessione efficace sul tema “valutazione”; b) produrre riflessioni sul sistema punizione/premiazione e su scuola e carcere; c) sviluppare cultura e realizzare percorsi sulla capacità di muoversi con consapevolezza dentro e fuori dalle istituzioni: • migliorare la dinamicità delle classi nel dialogo tra “dentro e fuori” la scuola; • favorire il contatto tra migranti e autoctoni, riducendo “scontro” e pregiudizio; • sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi di apertura al mondo del carcere e di altre istituzioni totali (aula scolastica compresa); • contribuire ad una elaborazione del vissuto di famiglie, bambini e detenuti sulla distanza tra istituzioni totali (aula compresa) e il mondo. Azioni: a) quelle de Il Mito del Mammut e in particolare le azioni della maestra Quagliarella all’ Istituto Comprensivo “Virgilio 4”, del percorso con l’Istituto Comprensivo “Ilaria Alpi-Carlo Levi” a Castel Volturno e del percorso “Aps Garibaldi 101”; b) laboratorio guidato da Maurizio Braucci in carcere e con alunni presso l’I.C. “Virgilio 4”; c) seminario su carcere e valutazione; d) numero di “Lenti a contatto” con la Ong Intervita. Indicatori: a) numero di scambi interno/esterno tra istituzioni totali (o quasi) e resto del mondo; b) maggiore serenità nei bambini nel parlare della permanenza loro o di parenti in istituzioni più o meno totali; c) numero di scambi/incontri sul tema valutazione; d) numero di volte in cui si comunica in classe rispetto al tema istituzioni totali e su entrata/uscita; e) numero di episodi in cui le insegnanti e gli alunni percepiscono di avere un migliore rapporto con la valutazione; f) numero di episodi in cui migliora l’efficacia della valutazione in presenza di un differente approccio a questo tema; g) minori interventi delle insegnanti per richiamare i bambini rispetto alle regole. 3) Come ridurre il fenomeno della dispersione e dell’abbandono scolastico? Obiettivi: migliorare quantità e qualità della presenza a scuola di alunni e insegnanti. Azioni: a) le azioni de “Il Mito del Mammut” in raccordo con le azioni MammutBus e il progetto PON F3 su Teatro magia; b) incontri ScAttiva e convegno finale. Indicatori: a) incremento della presenza nelle classi coinvolte e nei laboratori pomeridiani; b) episodi in cui si rileva un incremento del benessere a scuola; c) miglioramento delle prestazioni scolastiche. 4) Come ridurre la distanza tra enunciati e pratiche di base? Obiettivi: provocare consapevolezza a scuola sulla distanza tra enunciati e pratiche base; Mito 107 Azioni: a) quelle de “Il Mito del Mammut”; b) incontri ScAttiva e convegno finale. Indicatori: a) episodi in cui a scuola si rilevano i principali elementi caratterizzanti la scuola attiva; b) episodi in cui a scuola insegnanti e alunni parlano della distanza tra termini proposti, enuncianti ed esperienze effettivamente messe in campo; c) numero di materiali autoprodotti a scuola. d) episodi in cui si riscontra un sistema “valutativo” più aderente alla pedagogia attiva. Tre 5) Come fare in modo che la psicologia sia davvero di aiuto nel lavoro pedagogico, nella scuola e nel sociale? Obiettivi: favorire processi in cui la psicologia dia effettivamente un supporto al lavoro pedagogico, alla scuola e al sociale. 108 Azioni: a) quelle de “Il Mito del Mammut”; b) incontri ScAttiva e convegno finale. Indicatori: a) numero di episodi in cui a scuola si rilevano elementi in cui la psicologia favorisce azioni di senso e supporto al lavoro pedagogico, nella scuola e nel sociale; b) incremento qualitativo prestazione servizio sanitario pubblico a seguito di azioni riconducibili al Mito del Mammut. 6) Come incidere su apprendimento e sviluppo psicosociale quando l’alunno ha alle spalle una famiglia molto problematica? E quando in classe delle elementari ci sono più alunni pluribocciati? Come rispondere a questo e altre situazioni problematiche senza attivare percorsi di segregazione e classi speciali? Obiettivi: favorire lo sviluppo psicosociale dei bambini/ragazzi, evitando il ricorso alla costituzione di classi speciali e a percorsi di segregazione. Azioni: a) quelle de “Il Mito del Mammut”, in particolare i percorsi presso “Virgilio 4”, “Alpi-Levi” (sia a Scampia che a Castel Volturno), “Garibaldi 101”; b) azioni in rete con il MammutBus e il progetto di Teatro Magia del Pon F3. Indicatori: a) numero di episodi in cui gli allievi percepiscono un miglioramento, in termini di apprendimento come di sviluppo psicosociale, grazie al percorso intrapreso; b) numero di episodi in cui gli insegnanti riconoscono tale miglioramento nei propri alunni; c) incremento del numero di episodi di partecipazione attiva di famiglie considerate problematiche; d)incremento del numero di episodi effettiva triangolazione famiglia/ scuola/sociale. Mito 7) Come fare in modo che i genitori (e gli allievi) accettino che la scuola non serva solo a insegnare a leggere e a scrivere? Obiettivi: creare consapevolezza nei genitori (come negli alunni) che la scuola è molto di più di un luogo dove si impara a leggere a scrivere. Azioni: a) quelle de Il Mito del Mammut; b) concorsi MammutBus; c) condivisioni dei lavori finali realizzati nell’ambito de Il Mito del Mammut. Indicatori: a) numero di episodi in cui i genitori (e gli allievi) riconoscono che la scuola non serve solo ad insegnare/apprendere a leggere a scrivere; b) incremento della partecipazione dei genitori ai percorsi scolastici, anche al Mammut. 8) come possiamo migliorare i territori perché da potenziatoti di malessere e malattia psico-fisica si trasformino in luoghi di potenziamento della salute individuale e collettiva? come può la scuola incidere sul grave inquinamento di acqua, aria e terra come nel caso di bagnoli e delle cosiddette “terre dei fuochi”? come possiamo trasformare aule grigie e pareti rovinate in luoghi pulsanti vita, calore e bellezza? 109 Tre 110 Obiettivi: a) aumentare la consapevolezza del pensiero e la conoscenza critica sul tema; b) migliorare il contatto tra alunni e genitori e l’ambiente, facendone percepire l’interconnessione; c) produrre consapevolezza su interconnessione ecologia/didattica; d) favorire conoscenza e consapevolezza sulla connessione tra alimentazione e regni animale/vegetale; e) miglioramento della salute dei partecipanti alle attività de “Il Mito del Mammut” f) mutamento stili di vita; g) miglioramento nelle porzioni di territorio coinvolte nelle progettualità “Mito del Mammut”. Azioni: a) quelle de Il Mito del Mammut e in particolare i percorsi delle scuole: “Ilaria Alpi- Carlo Levi” a Scampia; I.C. 58° “J.F. Kennedy” del rione Monterosa; 28° Circolo Didattico “Giovanni xxiii – Aliotta” di Chiaiano; b) ciclofficina del Mammut e intrecci con le attività nelle scuole; c) proposta bici a scuola; d) documento inchiesta partecipata da presentare a istituzioni nazionali e internazionali su danni alla salute per terreno, aria, acqua; e) aumentare la massa critica (anche web e giornali) su questi temi; f) azioni in rete con il Comitato Spazio Pubblico di Scampia; g) laboratorio di astronomia con la maestra Carmela De Lucia presso l’I.C. 58° “J.F. Kennedy”. Indicatori: a) diminuzione di episodi conflittuali con l’ecosistema; b) aumento della relazione tra alunni (prestarsi oggetti, specificare); c) numero di volte in cui gli alunni non buttano la carta per terra ma usano il cestino; d) numero di volte in cui gli alunni non buttano rifiuti per terra ma fanno la differenziata; e) minori interventi delle insegnanti per richiamare i bambini rispetto alle regole; f) numero di soggetti allergici (insegnanti e alunni) che migliorano; g) più azioni dei genitori a tutela dello spazio aiuola e in generale degli spazi pubblici; h) più tempo trascorso bene nello spazio scelto per trasformazione; i) documenti d’inchiesta e incontri pubblici sul tema; approfondimento e denuncia; j) numero delle persone che partecipano agli incontri; k) numero delle azioni che si generano indipendentemente dalla presenza Mammut; l) riduzione percentuale di fattori inquinanti; m) numero di risposte positive sulla percezione individuale rispetto alla propria interdipendenza con l’ecosistema; n) modificazioni visibili negli spazi oggetto di trasformazione rilevate nelle giornate di condivisione nel mese di maggio 2014. 9) come possiamo migliorare la scuola perché, da potenziatrice di malessere e malattia psico-fisica, si trasformi in luogo di potenziamento della salute individuale e collettiva? Obiettivi: a) produrre analisi e consapevolezza relativamente al tema in oggetto; b) miglioramento della salute psico-fisica dei partecipanti alle attività del Centro Mammut; c) mutamento di stile nella conduzione delle giornate a scuola; d) miglioramento di alcune porzioni di territorio coinvolte; e) maggiore consapevolezza rispetto alla connessione con l’ecosistema; f) favorire un impatto sull’opinione pubblica relativamente alla ricerca animata all’interno de “Il Mito del Mammut”; h) costruzione opinione pubblica (web, giornali); i) raccolta dati, immagini, aneddotica e consegna a Bruxelles (Commissione Europea o Parlamento Europeo) di una relazione finale. Azioni: a) quelle de “Il Mito del Mammut”, in particolare i percorsi di “Garibaldi 101” e I.C. 58° “J.F. Kennedy”; b) produrre un’inchiesta sul tema che denunci i danni provenienti da una “didattica nociva” e da elementi di psicologia/pedagogia mal interpretati e praticati; c) laboratorio/formazione sull’astronomia con la maestra Carmela De Lucia presso l’I.C. 58° “J.F. Kennedy” nel rione Monterosa; d) laboratorio/formazione sul rapporto ambiente-didattica con la maestra Rosaria Pica dell’I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta” di Chiaiano; e) concorsi MammutBus in collaborazione con il quotidiano “Il Mattino”. Indicatori: a) numero di documenti di inchiesta e di incontri pubblici (di approfondimento e di denuncia) sul tema; b) numero di persone che partecipano agli incontri; c) numero di azioni realizzate indipendentemente dalla presenza Mammut; Mito 111 d) riduzione percentuale di fattori e sintomi di malessere psico-fisico legati alla presenza a scuola; e) numero di risposte positive sulla percezione individuale rispetto alla propria interdipendenza con l’ecosistema a partire da esperienze scolastiche; f) numero di episodi in cui si rileva un miglioramento nella didattica in connessione al miglioramento di consapevolezza sul tema e/o salute dei partecipanti; g) incremento qualitativo di prestazioni del servizio sanitario pubblico a seguito di azioni riconducibili al Mito: Tre 112 10) Come la scuola può potenziare lo sviluppo di una maggiore consapevolezza sull’interconnessione tra vita individuale e contesto ambientale? Obiettivi: a) produrre analisi e conoscenze sul tema, tanto negli aspetti psicologici che in quelli economici; b) produrre una modificazione negli atteggiamenti e nei comportamenti delle persone coinvolte nel percorso “Il Mito del Mammut”; c) favorire la frequenza scolastica di migranti (grandi e piccoli), aumentando e stabilizzando la loro presenza; d) favorire il contatto tra migranti e tra migranti e autoctoni, riducendo frizioni e pregiudizi; e) migliorare il contatto tra alunni (conoscenza, scambio culturale e personale); f) migliorare il contatto tra famiglie di diversa provenienza; g) migliorare la permanenza in aula di alunni e docenti; h) migliorare l’apprendimento effettivo degli studenti, almeno della lingua italiana L2; i) favorire il ragionamento sulla lingua italiana come lingua veicolare; j) potenziare associazioni locali di migranti. Azioni: quelle de “Il Mito del Mammut”, e in particolare dei percorsi dell’“Ilaria Alpi – Carlo Levi” sia a Scampia che a Castel Volturno, e dell’associazione “Aps Garibaldi 101”. Indicatori: a) numero di episodi in cui si rileva un effettivo incontro tra gruppi di diversa provenienza; b) numero di episodi in cui si riscontrano modalità di stare insieme agli “altri” senza pregiudizio; c) diminuzione di episodi conflittuali; d) aumento nella relazione tra alunni (per esempio prestarsi oggetti, incontrarsi dopo la scuola, ecc. ); e) numero di volte in cui gli alunni non buttano la carta per terra ma usano il cestino; f) numero di volte in cui gli alunni fanno la differenziata; g) minori interventi delle insegnanti per richiamare i bambini rispetto alle regole; h) decremento nel numero di “evasioni” in aula (telefonino, uscite dal cerchi o aula) in presenza di migranti; i) percentuale di tempo di fuga/permanenza attorno all’orario di inizio e chiusura della lezione; j) aumento percentuale di espressioni e commenti/condivisioni tra alunni e insegnanti; k) numero di test linguistici superati; l) numero di volte in cui si realizzano materiali, discussioni, ragionamenti sul tema della lingua italiana come lingua veicolare; m) numero di insegnanti che conoscono l’esperienza di scuola “Fuori porta”, ne parlano in modo positivo e chiedono come si è realizzato (anche in consiglio di classe); n) numero di Cpia che organizzerà un percorso simile a quello realizzato dalla “Alpi-Levi”; o) rapporto tra numero di alunni iscritti e numero di alunni frequentanti; p) numero di episodi positivi che riportano le associazioni di migranti aderenti al “Mito del Mammut”. 11) Ricerca e burocrazia possono essere utili a migliorare intervento sul campo? Obiettivi a) produrre materiale utile all’elaborazione dell’esperienza; b) produrre materiale utile all’elaborazione del testo conclusivo della ricerca; b) migliorare l’efficacia ai fini della documentazione per Comune e altri finanziatori; c) migliorare l’intervento sul campo; d) migliorare professionalità e “umanità” dei membri dell’équipe Mammut; Azioni: a)quelle de “Il Mito del Mammut”; Mito 113 b) compilazione quotidiana dei diari di bordo con formato condiviso; c) documentazione video ad opera di un operatore a questo destinato; d) compilazione di altri documenti di ricerca; e) riunione mensile d’équipe destinata alla ricerca; f) supervisione psicologica; g) redazione di documenti finalizzati alla comunicazione esterna (articoli, foto racconti) con scadenze e individuazione di responsabilità specifiche tra i membri dell’équipe; Tre Indicatori: a) costanza nella compilazione dei diari di bordo; b) qualità e quantità dei documenti di racconto e ricerca prodotti; c) quantità e qualità delle “prove” su cui contare nel momento di verifica conclusiva attorno alla validazione dell’ipotesi; d) numero di episodi da cui si evince facilità e soddisfazione da parte di membri équipe e dell’utenza a seguito dell’elaborazione dei documenti di ricerca e di adempimento burocratico; e) miglioramento delle azioni sul campo rilevabili anche grazie agli indicatori relativi alle altre domande; f) episodi e comunicazioni relative al miglioramento professionale ed “umano” dei membri dell’équipe. 2. la porta del carcere È forse proprio questa la “porta” dove abbiamo raccolto maggiori prove sulla possibilità di una scuola della salute a-terapeutica, dove un buon utilizzo del mito può dare risultati importanti. Tonino Stornaiuolo, teatrante ed educatore dell’équipe Mammut, ci fa entrare nella caverna di Platone come possibilità di uscita dalle catene del carcere, subite indirettamente dai figli e famigliari dei detenuti. Possibilità resa tale solo dall’incontro con una maestra capace di farsi regista tra scuola e territorio, carcere incluso. Il racconto di Maurizio Braucci completa il quadro, dando conto del tentativo di tenere insieme tutti i pezzi di una realtà che restituisce, meglio di altre, il reale stato di salute di una società. Se i risultati sul mutamento del servizio su cui la classe di Elvira Quagliarella aveva scelto di concentrare i suoi sforzi, il carcere, non sono facilmente quantificabili, risulta non di meno evidente il valore di questa esperienza ai fini del miglioramento dell’esperienza scolastica. Anche in merito alla fantomatica “dispersione”. 115 la porta eterna. i bambini e il carcere di Maurizio Braucci Q uando lavoriamo con gli adolescenti, in centro o in periferia che sia, data la tipologia sociale di una parte dei nostri ragazzi, il carcere è per noi un tema ricorrente. Che sia per droga o per furto o altro, qualcuno dei “nostri” ragazzini ci è finito ma più spesso ci ha a che fare attraverso qualcuno dei suoi familiari. Così, l’aldiquà del nostro lavoro con gli adolescenti è spesso il carcere, un pianeta che oggi non è più troppo ignoto, anche se spesso ci si dimentica che è anche luogo emblematico di un territorio e di una società, che lo rappresenta. Oggi gli istituti penitenziari stanno cambiando innanzitutto nella destinazione: stiamo passando, abbastanza velocemente, a una configurazione che vede le carceri divise in tre categorie di base: massima sicurezza, per i boss e gli affini; alta sicurezza, per gli affiliati; e quelli normali con le varie aree per la tossicodipendenza e la psicopatologie e i reparti sanitari. Sembrerebbe un efficace organigramma, ma chiaramente il pianeta carcere è pieno di condizioni disumane e a volte aguzzine, come testimoniano i casi delle morti per tortura o per Tre 116 mancata assistenza medica. Nel carcere conta molto lo staff dirigenziale, è a sua discrezione infatti il miglioramento e la fornitura di percorsi formativi, chiaramente nei limiti legislativi e finanziari. Il carcere è anche un pianeta economico che nutre molte attività di ditte e associazioni che vi forniscono merci, servizi e formazioni, non sempre in maniera chiara ed efficace però. In carcere entri a lavorarci con un progetto educativo solo se accetti le regole carcerarie, che significano controllo e limitazione negli spazi e nei movimenti, per questo non tutti gli operatori accettano o possono sostenere queste condizioni coercitive. Fino a dieci anni fa anni partecipavo a un laboratorio multimediale in un carcere a custodia attenuata – l’unico tipo di carcere, fino a qualche anno fa, per i reati connessi alla tossicodipendenza – e solo due anni fa ho ripreso delle attività (teatrali) con alcuni detenuti del carcere di Secondigliano ad alta sicurezza. Anche qui la presenza di una buona direzione è stata la premessa per poterci lavorare. Dopo un laboratorio teatrale, in tempi strettissimi, finanziato dalla scuola locale Carlo Levi, abbiamo creato, io e la coreografa Linda Martinelli, un piccolo spettacolo sulla differenza tra la piccola manovalanza e i boss della criminalità organizzata. Il titolo era “Rosencrantz e Guildenstern sono in carcere” ed aveva per attori dei detenuti per reati secondari nel sistema criminale (qui sarebbe troppo lunga da spiegare l’epopea di tanti arrestati, spesso per spaccio, con l’aggravante di reato per associazione mafiosa). Sull’onda di questa esperienza di teatro – che nei detenuti stava servendo a iniziare un percorso di percezione del sé inserito nelle dinamiche di potere criminale, ma che abbiamo dovuto interrompere per mancanza di fondi e perché la scuola puntava a percorsi più visibili e spettacolari – sull’onda di questa esperienza, dicevo, abbiamo cercato altre maniere per continuare. È stato il Centro territoriale Mammut, con cui c’è una consolidata collaborazione, a fornirci uno spunto importante che fa ritornare questo scritto alla sua premessa, cioè al rapporto tra i bambini e il carcere. Lavorando acutamente sul territorio, il gruppo del Mammut ha incontrato l’esperienza dell’insegnante elementare Elvira Quagliarella, molto avanzata nel metodo educativo, che ha sottoposto al Mammut il problema degli alunni della sua classe, non pochi, che avevano i genitori in carcere. Il Mammut mi ha contattato e insieme abbiamo discusso questo fenomeno. Ci è sembrato emblematico degli effetti della grande repressione che c’è stata a Scampia negli ultimi anni – l’effetto Gomorra per capirci – e che ha portato tanti bambini a vivere indirettamente il carcere, nelle assenze dei genitori, nelle visite o nelle telefonate in carcere. Il progetto, durato purtroppo solo tre mesi, è partito da un laboratorio nella scuola della maestra Quagliarella, la Virgilio 4, condotto da Tonino Stornaiuolo e che ha sollecitato i bambini a immaginare liberamente l’aldilà di una porta chiusa, prima con dei disegni e poi con una scena teatrale in cui, a turno e per coppie, gli alunni si confrontavano materialmente con una porta serrata. Il risultato è stato una libera associazione di desideri e timori, spesso fantasiosamente offerti, davanti all’obiettivo della telecamera di Claudia Brignone, che è diventato un video dal titolo “La porta”. La finalità è stata unica e chiara: liberare i ragazzini dalla vergogna e dall’imbarazzo per la condizione dei loro familiari e fare in modo che i loro compagni accogliessero la loro sofferenza senza pregiudizi. Nel mentre, io e Linda, accompagnati dal regista Pino Carbone, abbiamo lavorato nel carcere di Secondigliano con un gruppo di 15 detenuti sul tema delle relazioni con l’esterno, ottenendone una concerie di immagini e situazioni, anche qui fatte di desideri e paure che andavano dal cibo alla morte, di sé e dei propri cari, vissuti dentro le sbarre. Inoltre, usando gli esercizi e le verbalizzazioni teatrali, abbiamo aperto un confronto tra i bambini e i detenuti, offrendo a questi ultimi le immagini create dagli alunni della Virgilio 4 e suscitando in loro una prevedibile commozione e un sentito bisogno di parlarne all’esterno. Il risultato finale è stato un breve spettacolo, “La porta eterna”, servito tra l’altro come base per una riflessione sulle responsabilità dei detenuti verso gli altri, e soprattutto verso i bambini. Non è stato un grande spettacolo – avevamo alla sinistra del palco la proiezione del video fatto dai ragazzini, in modo che la porta chiusa venisse a dividere loro dai detenuti – ma ci ha fatto capire per una seconda volta le potenzialità, per i detenuti, di un percorso teatrale di riflessione sulla propria condizione. La nostra ambizione non era soltanto spettacolare, anche se il poco tempo a disposizione ci ha comunque imposto un lavoro esteticamente rarefatto, ma diretta a osservare con sensibilità i fenomeni che riguardavano quel particolare gruppo e a metterli a fuoco e in scena, per elevare il livello di consapevolezza e di autocritica. Carcere 117 il mito della caverna e il carcere di Elvira Quagliarella, maestra alla scuola primaria I.C. “Virgilio 4” descrizione del contesto a scuola in cui lavoro da 30 anni e più è nel quartiere Scampia, nella periferia Nord di Napoli. Accoglie in sé una platea proveniente dalle cosiddette “Vele” (lotto LM ) e dai “Sette Palazzi” (Comparto H) nonché dal lotto G e da case di edilizia economica e popolare abitate da famiglie particolarmente svantaggiate, con basso livello socio-economico e culturale. Tale platea scolastica, inoltre, è soggetta ad un continuo fenomeno di fluttuazione dovuto al progressivo sgombero delle “Vele” ed alla immediata e continua rioccupazione delle stesse da parte di nuovi nuclei familiari fortemente disagiati, perlopiù provenienti dall’hinterland partenopeo. La povertà economica è pari a quella culturale: la maggior parte dei nostri ragazzi vive la propria quotidianità nei confini del rione, che oltre a strade immense e palazzoni grigi offre ben poco: la parrocchia, la piscina comunale, alcune strutture sportive (Scuola Calcio Arci Scampia, la Palestra del maestro Maddaloni), ampi spazi verdi, ovviamente vandalizzati e abbandonati, dunque, nella maggior parte dei casi, impraticabili. Unici baluardi alcune Associazioni che lavorano nel quartiere, tra cui il Centro territoriale Mammut, il centro sociale Gridas e altre ancora. La strada e le sue leggi sono, assai spesso, l’unica “palestra” dove i giovani si formano. Molto alto risulta, ovviamente, il tasso di illegalità: lo spaccio di sostanze stupefacenti è altissimo ed è oramai diventato, grazie alla totale assenza delle istituzioni, la principale fonte di reddito per le famiglie dei nostri alunni. Un’altissima percentuale di ragazzi ha uno o più componenti del nucleo familiare in carcere o in stato di latitanza o, al meglio, agli arresti domiciliari. Sovente si tratta del capofamiglia o dei fratelli maggiori. Le madri, se non implicate esse stesse in organizzazioni criminali, sono spesso assenti, impegnate quasi sempre in lavoro nero, pertanto, lontane da casa per molte ore della giornata. Bambini e adolescenti vivono quotidianamente la strada, frequentano compagnie di ragazzi, molto spesso, più grandi di età che fanno della “trasgressione” la regola prima della comunità. Qui trova terreno fertile la diffusione delle droghe, che, attraverso lo spaccio, assicura guadagni rapidi e facili, per poi risolversi in un doppio laccio mortale per i giovani: da un lato la carcerazione, dall’altro la tossicodipendenza. Alta è, inoltre, la percentuale dei ragazzi con componenti familiari deceduti, vittime di malattie, omicidi, incidenti sul lavoro, portatori di handicap. Molte famiglie L Tre 118 vivono continui stravolgimenti nel loro assetto, si fondono e si frantumano repentinamente, consegnando ai ragazzi l’ardua impresa di riconoscere ed accettare nuovi padri, madri, sorelle e fratelli mai visti prima e che, forse, di lì a poco, non rivedranno più. Sembra quasi essere un mondo a sé, che si chiude a riccio su se stesso, un microcosmo dove persino i miti dei ragazzi sono figli “indigeni”, prodotti da una subcultura che appare mille miglia distante da quella di altre realtà giovanili, cittadine e non. Qui l’eccezione diventa regola, il caso la “normalità”, la realtà completamente trasfigurata. La mia classe era formata da 24 alunni (9 femmine e 15 maschi) sino al novembre 2013; successivamente due bambini sono andati via, in seguito a tristi e drammatiche vicissitudini del nucleo familiare. All’interno del gruppo-classe vi erano ben 9 alunni che avevano ripetuto la classe per una, due e anche tre volte adducendo come motivazione la loro semi inadempienza e lo scarso profitto scolastico. Si trattava di bambini provenienti prevalentemente dai Sette palazzi, dalle Vele e dalle abitazioni assegnate da pochi anni agli abitanti delle Vele in via Gobetti. Già da tempo ero a conoscenza del fatto che la maggior parte dei bambini frequentanti la mia classe aveva uno dei due genitori in stato di detenzione o agli arresti domiciliari, oltre che zii, cugini e quant’altro in situazioni analoghe. Tutti bambini che avevano alle spalle situazioni familiari alquanto problematiche, bambini che si erano affollati nella mia classe nel corso di 5 anni perché bocciati o rifiutati dalla scuola. Bambini demotivati, angosciati, spenti. L’ipotesi principale intorno alla quale si era andata articolando la mappa di ricerca del Mito del Mammut (VII edizione) era stata tradotta in questo modo: come trasformare la scuola e il territorio in luoghi che generano salute anziché malattia? L’ imprevedibilità della ricerca, come afferma Giovanni, ha fatto sì che, durante il primo incontro tra gli amici del Mammut e i bambini della mia classe, nel novembre 2013, emergesse uno dei nuclei principali del nostro lavoro. L’archetipo della porta, all’interno della mia classe, è diventato in quell’occasione uno spunto di riflessione intorno al tema della “detenzione”. Nei tre incontri che si sono tenuti presso la sede del Mammut ho visto la presenza e la partecipazione attiva ed entusiasta dell’intero gruppo-classe. Allo stesso modo, negli incontri avvenuti a scuola, i bambini, all’interno del cerchio che puntualmente costituivamo, riuscivano, quasi sempre, a raccontare e meditare collettivamente. Ho visto ciascuno di loro farsi coraggio, prima uno, poi l’altro, poi l’altro ancora, cercavano di liberarsi di quel peso insostenibile che portavano dentro, spesso anche per un’imposizione dei familiari. Insieme, sia durante gli incontri con i nostri amici, sia dopo, abbiamo ragionato sulle tante ingiustizie che si annidano attorno Carcere 119 Tre 120 alla Porta del carcere proponendo di fare di quella porta uno dei contesti da trasformare attraverso il Mito del Mammut. L’entrata del carcere si è rivelata, per molti versi, simile al passaggio in un aldilà, forse, ancora più inspiegabile della morte. Attraverso racconti autobiografici e miti classici, come quello della “Caverna” di Platone si è cercato di lavorare attorno a questo tratto doloroso della vita individuale di molti bambini, tentando di migliorare tanto il loro benessere psicofisico quanto l’apprendimento scolastico. Ecco, quindi, la scelta del “mito della Caverna” di Platone attraverso la lettura, la rappresentazione grafica, la narrazione con le ombre cinesi. Dentro il buio, fuori la luce, dentro le catene, fuori la libertà. Questo percorso intrapreso con i bambini è andato a integrarsi con il laboratorio teatrale condotto nel carcere di Secondigliano da Maurizio Braucci che, a sua volta, ha tenuto all’interno della scuola due incontri con i bambini della classe. Altro momento molto intenso e significativo è stato quello della visione del film Il loro Natale di Gaetano Di Vaio. Qui sono venute fuori emozioni forti e i bambini, attraverso un processo di identificazione (quasi catartico, direi) con i protagonisti del film, hanno esplicitato emozioni e sentimenti autentici, pulsanti, “quelli che fanno sballare programmi e produzioni standardizzate”. Purtroppo accade che, troppo spesso, il nostro sistema scolastico insegni a mettere da parte emozioni e stati d’animo. Come ci hanno insegnato alcuni grandi maestri come Freinet, compito della scuola sarebbe proprio quello di partire da questa “materia viva” (appunto emozioni e sentimenti) per dare ai bambini strumenti e possibilità di apprendimento vero. Io ci provo da sempre, ma questa volta ancora di più, cercando con il mio lavoro di aumentare la motivazione intrinseca, connettendo la didattica all’esperienza, tramutando la competizione in cooperazione, promuovendo attività laboratoriali, superando le barriere della classe, facendo respirare loro all’interno della scuola un clima sereno, facendo sì che anche e soprattutto l’errore costituisse per tutto il gruppo un’occasione di crescita. Scuola, quindi, non più come un “carcere da cui si ha voglia di evadere” ma un luogo accogliente in cui ritrovarsi per stare insieme, per condividere insieme ansie e paure, ma anche gioie e sorrisi, un luogo trasformato in un’officina operosa dove nessuno giudica e punisce ma dove tutti condividono e rispettano le stesse regole, dove gli alunni vedono nella “maestra” una figura autorevole e non autoritaria, dove si insegna ai bambini “a sconfiggere i draghi” (Chesterton), non ad averne paura! considerazioni Pur avendo intrapreso con grande entusiasmo e convinzione questo percorso che, giorno dopo giorno, mi conduceva a smantellare tutte quelle impalcature che rendevano proprio la scuola il principale fattore di condizionamento negativo, nella misura in cui si andavano sistematicamente a stabilire le condizioni che incentivavano lo svantaggio iniziale anziché ridurlo, mi rendevo conto ogni giorno di più di essere su una nave di cui io ero il capitano! Venivo osservata da molti con un misto di curiosità, sconcerto, a volte disappunto: troppo permissiva, troppo affettuosa, troppo “rivoluzionaria”, troppo comprensiva, troppo autonoma nelle scelte e nelle decisioni; poco autoritaria, poco attenta al rispetto della disciplina, poco attenta ad impartire il sapere e a svolgere in tempo il programma (!) Intanto, dalle mie osservazioni appariva sempre più evidente che questo “modo nuovo di fare scuola” stava ottenendo una ricaduta sui ragazzi notevole, sia in relazione alla frequenza scolastica e al grave problema dell’abbandono, sia in merito agli apprendimenti. Carcere 100% 90% 80% 70% 60% 50% 121 40% 30% 20% 10% sett. ott. nov. dic. gen. feb. mar. apr. mag. frequenza scolastica del gruppo classe italiano matematica scienze storia/geogr inglese 10 8 6 4 2 sett. / mag. sett. / mag. sett. / mag. rendimento scolastico nelle diverse discipline classe v b scuola primaria ics “virgilio 4”, a.s. 2013–14 sett. / mag. sett. / mag. Ordinate e ascisse: grafico frequenza: mesi del calendario scolastico 2013⁄2014, percentuale di frequenza degli alunni. grafico rendimento: materie curriculari, voti dei suoi alunni Aumento della riflessione sul carcere e sulla valutazione Realizzazione del seminario sul carcere, tenuto presso l’Istituto Comprensivo “Virgilio 4” ad aprile 2014. Visione a scuola del film “Il loro Natale” e discussione finale. Produzione di disegni da parte di alunni e alunne sul tema carcere e città. Commento della maestra Quagliarella: “gli alunni e le alunne hanno sviluppato un buon senso critico (discussioni spontanee e guidate) portando motivazioni a supporto o detrazione della tesi”. Riduzione percentuale di fattori e sintomi di malessere psico-fisico legati alla presenza a scuola (maestra) Aumento di benessere psico-fisico e della frequenza scolastica di alunni e alunne Commento della maestra Quagliarella “Ora mi piace lavorare sui solidi”, miglioramento anche per i bambini (cfr. quaderni e voti) Sblocco emotivo/incremento percentuale costante nella frequenza scolastica tra settembre 2013 (40%) e maggio 2014 (quasi il 100%) La valutazione viene fatta sul e in gruppo, questo produce benessere sia per la maestra che per gli alunni e alunne: il bambino più capace aiuta spontaneamente l’altro in difficoltà. Nessuno si sente additato, l’errore non è causa di insuccesso o demotivazione. Incremento percentuale del gruppo classe in italiano: a settembre 2013 la percentuale di rendimento era al 5% mentre a maggio 2014 era pari al 7%. di Tonino Stornaiuolo Incremento percentuale del gruppo classe in scienze: a settembre 2013 la percentuale di rendimento era al 6% mentre a maggio 2014 era pari all’ 9%. Incremento percentuale del gruppo classe in storia e geografia: a settembre 2013 la percentuale di rendimento era al 4% mentre a maggio 2014 era pari all’ 7%. Incremento percentuale del gruppo classe in matematica: a settembre 2013 la percentuale di rendimento era al 5% mentre a maggio 2014 era pari all’8%. Incremento percentuale del gruppo classe in inglese: a settembre 2013 la percentuale di rendimento era al 6% mentre a maggio 2014 era pari all’ 9%. Commento della maestra Quagliarella: “prima non mangiavano insieme/ora sì”. Almeno la metà dei bambini, dice la maestra, ora sono felici. Prima molto meno. Vari episodi riscontrati di accasamento, la chiamano mamma per sbaglio. griglia indicatori i. c. “virgilio 4”, classe v Docente: Elvira Quagliarella una quinta nella caverna di platone Alcuni alunni si sono trasformati, riporta la maestra: dall’inizio dell’anno ha visto aumentare motivazione, frequenza scolastica, il piacere nel venire a scuola. Il musical “L’isola che c’è” ha ulteriormente favorito l’incremento del rendimento scolastico, grazie alla piacevolezza del momento. ggi abbiamo fatto il primo incontro con la 5°A dell’Istituto Comprensivo “Virgilio 4”. Nei primi incontri, quando andavamo a conoscere le classi che avrebbero partecipato, chiedevamo a ogni insegnate e bambino di scegliere “una porta chiusa che avrebbero voluto aprire. Qualcosa che avrebbero voluto cambiare”. La classe della maestra Elvira Quagliarella decise che la porta su cui avrebbe lavorato sarebbe stato il carcere. La classe è composta da 22 alunni. Mentre sono al Mammut a sistemare, sento delle voci da fuori, mi affaccio e vedo i bambini attraversare la piazza vuota che dalle Vele porta al Mammut, sotto la pioggia e senza ombrelli. Entrano e iniziano a guardarsi introno, a scoprire questo posto di cui tanto avevano sentito parlare. Com’è nostra consuetudine, prepariamo il cartellone delle presenze. Sono tutti presi da questo momento, rispetto alle altre scuole e ai nostri bambini, risulta un momento molto interessante, sono tutti in cerchio, a terra: si guardano negli specchietti, disegnano generalmente il loro viso o e poi scrivono come si sentono. Elvira ci tiene subito a sottolineare una cosa: la sua classe, di lunedì, conta sempre un massimo di 12-13 alunni su 22, questa mattina ce ne sono 21. Mi segno subito questo dato, molto importante per noi e per le nostre domande di ricerca. Iniziamo facendo dei giochi in cerchio, scambi di scosse, di energia e di riflessi; i bambini si divertono molto e sono molto partecipi. Dopo decidono di esplorare il Mammut e vanno nella mediateca, la stanza dove teniamo i giochi e i libri. Giovanni ed Elvira li seguono, fanno la merenda e poi un po’ di gioco libero. Nel frattempo io, Nadia e Davide allestiamo la sala grande per il racconto teatrale. Ogni volta che una classe viene al Mammut e iniziamo un percorso, usiamo sempre una storia che faccia da sfondo e da input iniziale, legata all’argomento su cui la classe dovrà lavorare. Questa volta abbiamo scelto il mito della caverna di Paltone. Mentre noi tre continuiamo a sistemare e ad organizzarci per le ombre cinesi, Giovanni si è spostato nella stanza “officina” con i bambini, e fa disegnare loro un biglietto che varrà come ingresso per lo spettacolo. Devono disegnare una porta per loro importante, che vorrebbero aprire e che attualmente è chiusa. Tutto è pronto, i bambini entrano e si siedono. C’è un po’ di concitazione, la stanza che loro hanno lasciato prima si è un po’ trasformata, ci sono le luci soffuse, un telo bianco illuminato da una forte luce rossa e io ho indossato dei vestiti particolari. Inizio la storia in questo bel clima. Nadia ogni tanto passa degli oggetti creando le ombre sul telo. Gli sguardi dei bambini sono attenti, diretti a me O Carcere 123 e alle ombre; le orecchie seguono attentamente la storia. Quando mi avvio verso la fine del racconto, loro sono ancora lì, in silenzio, e aspettano che gli dica una parola conclusiva. Allora mi viene da improvvisare un finale aperto: “ancora oggi, nessuno ha mai saputo se quell’uomo è uscito dalla caverna o è rimasto dentro, insieme agli amici”. Tre 124 Finito il racconto li invito a mettersi in cerchio e iniziamo una discussione sulla storia. Ognuno dice la parte del racconto che più l’ha colpito, poi Giovanni rivolge una domanda a tutti: “Secondo voi, che doveva fare? Uscire o restare con gli amici? Voi cosa gli consigliereste o cosa fareste?” A questo punto inizia un lungo e interessante confronto tra i bambini. I primi sono tutti dell’idea di restare: dentro ci sono gli amici, gli affetti. Poi pian piano uno prende coraggio e dice: “Io uscirei. Fuori ho visto la vera vita e tante cose belle” e iniziano a discutere. Si dicono tra loro che uscire non sarebbe giusto, non si lasciano gli amici così, senza motivo. “Sì, ma ha provato a dirglielo agli amici, non gli hanno creduto, se ne deve andare”. Alessandro dice in tutta franchezza: “A me nun me ne fotte, io vado fuori, ce sta ’o sole, tutto il mondo che ho scoperto. Se non vogliono venire so’ fatti loro, io me ne vado”, e qualcuno gli risponde: “Allora sei un infame, gli infami fanno così”. Dopo le discussioni sull’uscire o meno, cercano di capire la situazione: ma come hanno fatto a mangiare per anni lì dentro se erano rinchiusi fin da quando erano bambini? Sono nudi? E soprattutto: se esce come fa a vivere se non sa leggere e scrivere e quindi non può lavorare? Il discorso e gli interrogativi vanno avanti per un bel po’, finché Giovanni non sintetizza il tutto scrivendo le domande principali su tre foglietti, gli dice che queste sono domande irrisolte, domande che da millenni nessuno ha mai sciolto e che loro, per la settimana successiva, dovranno indagare e portare al gruppo le proprie scoperte. In tutta questa lunga discussione non hanno mai preso voce le ragazze. Le ragazze della classe “fanno gruppetto” e tendono a non partecipare a questo tipo di discussioni o ad alcuni giochi che proponiamo. Dicono che si mettono “scuorno”, si nascondono dietro le compagne e non commentano, non dicono mai la propria idea. È come se si sentissero già donne, troppo grandi per fare giochi che considerano da bambini, ma allo stesso tempo insicure e timorosissime del giudizio degli altri nei confronti della loro opinione o dei loro disegni. Questa cosa l’avevo notata anche quando eravamo noi ad andare a scuola, ma ora sembra prendere sempre più corpo. Le vedo agghindate, truccate, pronte a mostrare sicurezza se qualcuno fa loro qualcosa; ma anche a nascondersi appena vengono chiamate in causa. Sono molto affettuose, sempre pronte ad abbracciarmi, ma allo stesso tempo sembrano schive, guardano tutto con sospetto, come se qualcuno dicesse loro o facesse chissà cosa. Come se fossero bambine già donne o donne mai state bambine. Lascio da parte questi pensieri che mi frullano in testa, e con i bambini iniziamo a metterci in movimento con dei giochi teatrali. Con un po’ di musica chiedo loro di muoversi nello spazio: ad un suono di tammorra devono fare un gesto, a due suoni un altro gesto e a tre suoni un altro ancora. Ora anche le ragazze partecipano, sempre a loro modo, senza scomporsi. Nascoste dal gruppo, si lasciano andare, non si sentono al centro dell’attenzione. Cambio gioco e chiedo a ognuno di attraversare la stanza inventandosi una propria speciale camminata e stando molto attenti alle camminate degli altri: nel secondo giro dovranno copiare la camminata di un compagno o di una compagna e ricordarsi anche a quale compagno/a apparteneva quella camminata. Qui di nuovo le bambine tendono a mettersi fuori, non reggono il fatto di dover camminare in un modo strano, buffo e divertente, con tutti gli altri che le guardano. Proprio non ci riescono. Finito questo gioco, ci spostiamo di nuovo nella stanza “officina” per l’ultima fase della giornata. Dovranno disegnare con le tempere una delle scene che più è piaciuta della storia della caverna. In molti tendono a fare il cielo stellato che l’uomo della storia ha visto la prima volta uscendo dalla caverna; qualcun altro la scena degli uomini incatenati e qualcuno rimane molto tempo a sperimentare i colori e la varie tonalità che possono comporre. Infine tutti tornano con i propri disegni nella stanza “grande” e ognuno mostra la propria opera al gruppo. Anche qui le ragazze non vorrebbero mostrare quello che hanno prodotto, tendono sempre a dire che i loro disegni sono brutti, ma alla fine ciascuno riesce a mostrarli e quasi tutti a raccontare la scena che hanno scelto. Intanto si sta facendo tardi, il preside della scuola chiama la maestra e le dice che devono tornare; lui e due bidelli sono dall’altra parte della piazza ad aspettarli per riportarli a scuola. Ci lasciano e si incamminano di nuovo sotto la pioggia. Li guardo allontanarsi, girare la testa ogni tanto e salutarci fino alla fine. Rientro e sistemo di nuovo le stanze, mentre in testa mi girano ancora le loro voci, i loro confronti nel cerchio, quei discorsi così interessanti che un congresso di fi losofi non avrebbe saputo far meglio e i miei perché sulle bambine, sul come mai sono così restie a lasciarsi andare, a divertirsi come fanno i loro amici e come farebbe qualsiasi bambina di dieci anni… Carcere 125 3. porta dell’aula: tra estetica e sostanza È 126 proprio dall’aula che bisogna partire per una “scuola nuova”. Il lavoro di questi anni ce l’ha detto con chiarezza. Anche l’estetica conta, ma cambiare l’aula significa prima di tutto disporsi spazialmente a un modo nuovo di essere in relazione. Nella sperimentazione con la maestra Rosaria Pica ci abbiamo provato, mentre la maestra Carmela De Lucia ci ha sorpresi con la rivoluzione dello spazio che ha condotto in autonomia. Ma la nostra dissertazione sulla necessità di un modo nuovo d’intendere l’aula è argomento trasversale a ogni pagina di questo libro. Specie quando la città riesce a mostrarsi come vera “aula”. In ognuno dei nostri incontri con i bambini delle classi a cui andavamo a proporre la partecipazione al Mito, la “porta” sulla cui apertura volevano lavorare quasi tutti è la porta della scuola. Abbiamo provato ad aprirla anche grazie alla determinazione di due insegnanti del Cpia, che hanno voluto ritrovare un senso al proprio lavoro serale con i migranti. Anche a costo di mettere di tasca propria le spese per la benzina e il tempo necessario a percorrere 40 km, da Napoli a Castel Volturno, due giorni a settimana: una delle esperienze del Mito in cui la scuola è uscita dal suo edificio per incontrare i migranti nei loro luoghi di vita e ritrovare una propria ragione d’essere. dove porta quella porta achitettura e vita di una classe di chiaiano di Rosaria Pica, maestra della scuola primaria “Giovanni xxiii – Aliotta” L o scorso anno scolastico ho partecipato al Mito del Mammut VII edizione con la classe V dell’Istituto Comprensivo 28 “Giovanni xxiii Aliotta” di Chiaiano, l’ultimo quartiere dell’area nord di Napoli. Si trova in un punto strategico, urbanisticamente parlando, perché è vicino alle zone di confine di Mugnano e Marano, un’area immersa nel verde, fino a quando, una trentina di anni fa hanno costruito le cosiddette palazzine, edifici nati in conseguenza del boom demografico, disseminati su il territorio compreso tra Marianella e Chiaiano. Anche la scuola ha subito recentemente una trasformazione importante: dal vecchio edificio scolastico situato nella zona storica di Chiaiano vicino al Comune, ci siamo trasferiti in una scuola nuova, una mega struttura realizzata una decina di anni fa; un ambiente enorme, molto bello e accogliente ma forse poco adatto, per come è strutturato, a bambini piccoli. È composta da due edifici distaccati: nel primo ci sono gli uffici della segreteria, la dirigenza e una serie di servizi di cui la scuola è fornita, (tra cui una palestra grande e il laboratorio multimediale); il secondo, che si raggiunge attraverso un cortile, quindi all’aperto, raccoglie le classi della scuola dell’infanzia e, da un po’ di tempo, delle prime e delle seconde. In questo secondo edificio si verificano di frequente atti vandalici; ogni tanto troviamo le aule aperte e gli armadietti sfondati. Strutturalmente il padiglione B, rispetto al padiglione A dove era ubicata prima la mia classe V, ha delle problematiche logistiche. Come dicevo, la scuola è nuova e vedendola per la prima volta dà una sensazione di accoglienza e di benessere. Grazie alla volontà della dirigente e al frutto di alcuni progetti finalizzati a questo scopo, siamo riusciti poi nel tempo a effettuare alcuni abbellimenti: murales all’ingresso e alle pareti lavori che le classi realizzano grazie ad attività curriculari e a progetti con associazioni. Col passare del tempo però la scuola necessitava di manutenzione: alcune aule erano malandate, altre avrebbero dovuto essere ristrutturate. Io ho avuto in assegnazione un’aula che non era stata mai ripristinata, quindi veramente malmessa, a partire dalle pareti che presentavano un colore un po’ cupo o erano state imbrattate; in altri punti avevamo affisso dei pannelli di compensato per coprire scempi vari. Detto ciò, si capisce come mai, quando ho deciso di partecipare al Mito del Mammut con lo sfondo narrativo della “porta”, intesa come idea di passaggio, e subito dopo aver riflettuto su come tale tematica potesse essere inserita all’interno della didattica ordinaria, io abbia pensato all’aula come luogo progettuale da trasformare: questa nuova aula che ci era stata data in consegna era tra l’altro più piccola rispetto alla precedente e di conseguenza i movimenti dei bambini molto più sacrificati. È utile ricordare, poi che il gruppo classe, eterogeneo dal punto di vista dell’estrazione sociale, passava molti pomeriggi a scuola essendo questa a tempo pieno con quaranta ore di attività didattiche settimanali e aveva in me il punto di riferimento principale, avendo cambiato ogni anno, dalla prima alla quinta classe, l’insegnante di matematica. L’aula, dunque, rappresentava il luogo migliore per il nostro intervento trasformativo, sia perché i bambini ci hanno passato la maggior parte del loro tempo negli ultimi tre anni, sia perché era lo spazio più facilmente visibile dove operare una trasformazione, e il lavoro sarebbe stato facilmente documentabile attraverso foto e altro. Si trattava di renderla accogliente, un luogo dove eravamo noi a decidere cosa fare, a partire dall’immaginario del gruppo, e dove stavamo bene nel farlo. Siamo così partiti da un progetto Aula 127 Tre 128 di trasformazione, supportati dalla dirigente. “Cosa non ti piace?” “Cosa cambieresti?”: queste le domande che abbiamo posto ai bambini e a noi stesse. Dopo i primi laboratori con Tonino e Nadia, l’aula è stata ritinteggiata e questo primo passo ha fatto sì che i bambini si incuriosissero per il percorso e introiettassero una cosa importante: se si crede fermamente in qualcosa, sostenuti da una valida motivazione, e se si chiede con determinazione, forse il cambiamento può avvenire. L’ambiente più pulito ha trasmesso un certo benessere, una condizione più tranquilla per apprendere. Questa affermazione non è supportata da una misurazione scientifica ma è così, lo dico perché l’ho vissuto: tutti ci siamo presi cura dell’aula, facendo attenzione a non sporcarla, a tenerla sistemata, avendo sviluppato un certo senso di accasamento. Questo prima non avveniva. Questa piccola cosa ha favorito un clima più sereno Durante le ore di laboratorio, l’aula si è trasformata completamente, in base alle esigenze: i banchi sono stati accostati alle pareti, si è creata una situazione da circle time, abbiamo giocato e parlato, ci si è confrontati tra pari e con gli operatori. Questo i bambini lo hanno apprezzato tantissimo. Non che non fossero abituati, ma sicuramente per una questione tecnica di spostamenti e di incastri di ore questa modalità di “fare scuola” avveniva meno frequentemente. La simbologia utilizzata, l’uso di miti e leggende si sono dimostrati ottimi alleati alla mia didattica, poiché hanno affascinato i miei alunni e si sono ben inseriti nel mio modo di fare geo-storia, un ambito disciplinare che amo molto. La storia insegnata così non si dimentica facilmente. Se è vero che lo sfondo integratore mi ha permesso di dare spazio alla fantasia, procedendo anche con lavori di scrittura creativa (è nata infatti la filastrocca “Dove porta quella porta”) è anche vero che indubbiamente, non è stato sempre facile portare avanti questa esperienza, in lotta come siamo noi insegnanti contro il tempo per concludere il programma, soprattutto in quinta. Una esperienza arricchente anche per me in quanto mi ha permesso di rapportarmi con colleghe di realtà e scuole diverse dalla mia, condividendo un pezzo di strada insieme. La “porta” ci ha condotto avanti e indietro nel tempo della nostra vita: da quando gli alunni sono nati, a quando sono entrati nella porta della scuola dell’infanzia e in quella della scuola primaria per giungere ad una porta semiaperta che è quella che loro stavano per varcare verso la scuola media, con tutta l’ansia, i timori e le novità che questo passaggio comporta. Ancora indietro sulla linea del tempo, attraverso la storia, come la porta dei Leoni di Micene e del Cavallo di Troia, le porte di Roma, quella della piramide ovvero l’accesso all’aldilà degli Egiziani, infine la porta di Ishtar a Babilonia che era una delle meraviglie del monto antico. Il tutto si è chiuso con tre eventi: la realizzazione di un murales, che i bambini hanno realizzato in collaborazione con gli operatori Mammut e una collega, riportando tutti gli elementi del percorso svolto sul dorso del MammutBus, che ci ha accompagnati lungo il viaggio; una mostra aperta ai genitori e alla scuola guidata dagli alunni stessi; uno spettacolo teatrale sulle porte della vita e della storia. Infine, abbiamo varcato la soglia della scuola media attraversando un tunnel di cartapesta e cantando la canzone di Gigliola Cinquetti “Alle porte del sole, ai confini del mare”. Aula 129 Miglioramento dello spazio oggetto di trasformazione (aula scolastica) Realizzazione di un mural sul tema delle porte della vita e della storia. Migliore apprendimento curriculare storia Commento della maestra Pica “Ai miei alunni e alunne piace di più la storia raccontata con l’uso di miti, attraverso le ricerche e gli approfondimenti, i percorsi di storia animata, laboratori teatrali; se la ricordano meglio (confrontare voti e interventi). Aumento percentuale di fattori e sintomi di benessere psico-fisico legati alla presenza a scuola (maestra) la scuola che esce dalla scuola Commento della maestra Pica: dopo che alunni e alunne hanno avuto l’aula ritinteggiata hanno cambiato atteggiamento. “Ce la posso fare… se vedo i risultati”, dicono. Ciò influisce anche sull’impegno verso lo studio. L’ Commento di un’alunna del gruppo classe che fa lezione nella stessa aula che lo scorso anno la maestra Pica aveva in dotazione: la ferma per i corridoi e le esprime felicità per un’aula così bella. Una alunna asmatica sicuramente riceve giovamento dal fatto che le pareti dell’aula siano pulite (meno allergeni). Ciò detto non può “provare” che l’alunna stia meglio solo per questo fattore, immaginando la presenza di più fattori. L’aula è diventata laboratorio, ovvero spazio modificabile in base all’esigenza. Per gli alunni e le alunne, che frequentano a tempo pieno, questo ha significato non sentirsi in gabbia ma vivere l’aula con piacevolezza. Commento della maestra Pica. Commento della maestra Pica: maggiore armonia tra insegnanti e alunni/e: un ambiente più pulito e accogliente ha migliorato i rapporti tra i soggetti. Incremento nella cura dell’aula in autonomia: dopo i laboratori le alunne puliscono i banchi e per terra, tutti stanno attenti a non sporcare il muro tinteggiato. Rispetto all’ambiente circostante, è stato organizzata una manifestazione contro il nuovo inceneritore. griglia indicatori i.c. “giovanni XXIII – aliotta”, classe v luogo prescelto: aula scolastica docente: Rosaria Pica di Alessandra Tagliavini articolo che segue si interrompe proprio laddove ha avuto inizio la sperimentazione sulla “scuola che esce dalla scuola”, coraggiosamente messa in campo lo scorso anno a Castel Volturno dal Cpia “Alpi-Levi” di Scampia. Forse sono state radici molto colorate e profonde a permettere esiti sorprendenti (prima di tutto per noi) all’esperienza portata avanti principalmente dai due docenti che per un anno intero hanno svolto le proprie lezioni all’interno dei locali dell’associazione Miriam Makeba a Castel Volturno. In una serata di inizio estate organizzata dai comboniani presso la sede dell’associazione, i due docenti, insieme ad una quindicina degli studenti che avevano frequentato le loro lezioni, hanno raccontato, con commozione, quanto senso avesse riacquistato il proprio lavoro di insegnanti proprio grazie a quella decisione scomoda di percorre oltre 40 km di macchina per fare scuola. Dal racconto dei due insegnanti, il motivo del successo scolastico dell’impresa non sembrava attribuibile tanto ad un cambiamento radicale nel modo di fare lezione, quanto alla passione per la riscoperta di un mestiere utile a sé e agli altri. (g.z.) Aula 131 Prima il muro era il mare, adesso il documento. Sarà, non lo so. Alì, 21 giugno 2012 E ro a Napoli da un paio d’anni quando Yacoubou Ibrahim mi disse che alcuni suoi conoscenti provenienti dall’Africa francofona avevano intenzione di fare un corso di lingua italiana. Erano parecchi, vivevano tra Varcaturo e Castel Volturno ma si spostavano quotidianamente su Scampia in cerca di lavoro. Un qualsiasi lavoro, in nero naturalmente, per pochi euro al giorno, ma sempre lavoro era. Giovanni d’altra parte, mentre camminavamo in via Cirillo verso Piazza Garibaldi, mi sollecitò a riprendere in mano un’area tanto cara al Compare: sai che bello poter intrecciare quest’aspetto al lavoro educativo del centro! Una piacevole sfida, come ebbi a puntualizzare con Mario durante una supervisione di équipe. Mi sembrò in effetti divertente, angosciante, irritante quel giorno in cui andammo a Licola Mare per incontrare il referente della comunità beninese, il signor Toure. Pioveva a dirotto e il nostro primo “mammutpullmino” aveva i tergicristalli rotti. Visitammo, Yacoub e io, appartamenti più o meno decorosi, parlammo con tante persone, tanti odori, tante aspettative. Insieme decidemmo di crearla questa occasione. Occasione anche per i cittadini della zona di Scampia, che conoscevano ’o niro soltanto attraverso Tre 132 stereotipi ed etichette date dalla non conoscenza diretta delle persone, nella maggior parte delle volte. Occasione per me – che avevo interesse verso il tema dei confini, delle migrazioni e dell’alterità così come dell’insegnamento/apprendimento di una lingua straniera e seconda – da quando ero io la studentessa di lingue straniere o “morte”, e dopo, ai tempi dell’università, quando studiavo letterature anglofone e, tra la consegna di un cappotto e l’altro in un locale Arci, di notte mi sperimentavo con alunni-avventori di colore attraverso l’alfabetizzazione informatica. Infine avevo da poco sperimentato io stessa la condizione di “straniera”, nel mio soggiorno ad Addis Abeba, pur di lusso e per scelta (il che può fare la differenza) e, perché no, anche qui a Napoli. Lingua, spostamenti, relazioni, ricerca pedagogica. E tanto altro, compresa l’occasione, per noi tutti, di affrontare tematiche ancora aperte. Iniziammo al 5° Circolo Didattico, grazie al progetto “Scuole Aperte” per il quale la maestra Rossana ci aprì le porte di un’aula al piano terra. Dopo aver delineato il contesto di partenza, Luca ed io passammo ad articolare le domande di ricerca su cui focalizzare la nostra attenzione, che erano sia sul contesto che di ordine educativo, didattico e linguistico. Attraverso le riunioni di coordinamento, si strutturavano poi le azioni in collaborazione e in linea con le altre aree del centro, ovvero l’Area bambini e l’Area adolescenti, e con quelle trasversali sullo spazio pubblico, partecipando alle feste e ai momenti di intreccio col territorio (carnevale e feste stagionali). Grande entusiasmo, volontari che mischiavano competenze e vocazioni diverse. Ricordo bene ancora oggi i loro nomi: Baky, Zed, Kone, Wasiu, Naomi e Laziz, Swala furono i primissimi alunni. Insieme, e col supporto di Chiara della scuola di Nonantola e degli Asinitas nei nostri ricchi incontri a Nazzano, sperimentammo i materiali Montessori, la famiglia del nome e del verbo, ma pure il metodo naturale, il cerchio narrativo e l’uso potente del disegno, ottimo compagno di strada che usciva dai pennarelli sapienti di Luca. Segno e disegno confluivano, infatti, in una magica combinazione, rendendo gli incontri più immediati, accoglienti, caldi. Credo che se incontrassi Anita per strada e le chiedessi del topo di campagna e del topo di città, visualizzerebbe subito il banchetto disegnato da Luca e successivamente la storia. L’utilizzo dello sfondo integratore, identificato all’inizio di ciascun anno, si è dimostrato uno strumento malleabile ed efficace da cui trarre pratiche educative: il viaggio, il suono e la trasformazione della città, l’attraversamento del paesaggio (interno ed esterno), il castello. In quei quattro anni, grazie ad esso, abbiamo lavorato su questioni politiche (Robin Hood è un ladro oppure no? La politica e lo sceriffo, il potere buono o malamente e i suoi simboli, il sindaco di Hamelin, l’accoglienza, il Permesso di soggiorno, la guerra); sociali (Gulliver e il viaggio, la mi- grazione, l’alterità, la comunità, il lavoro); personali, emotive ed affettive (l’abbandono della propria terra, il sé l’io incappucciato l’identità, l’unione che fa la forza); didattiche (morfosintassi, lessico, ecc.); abbiamo utilizzato il territorio come aula, intrecciando didattica e inchiesta sotto la cura di Rita, antropologa portoghese che ha condiviso con noi tre mesi di ricerca sul campo. La mappa di ricerca ci guidavano e ci sorreggeva quando il fare prevaleva sul riflettere, o quando si era incerti su come procedere. Ci forniva elementi su cui posare le forze, per capire se si stava andando verso il cambiamento desiderato oppure no. Dopo il primo anno a Scampia, con la problematica dell’autobus che non passava e il desiderio di fare più scuola, in sede di verifica con gli allievi ci fu chiesto di avvinarci al luogo dove essi risiedevano e fu così che incontrammo Filippo e Padre Antonio, che ci ospitarono per un anno presso la Casa del Bambino dei comboniani sulla via Domitia. Il cartellone delle presenze, il testo libero o a tema, il racconto e l’uso del colore, uniti ai laboratori manuali diedero forma e sostanza agli incontri, articolati tra lavoro individuale collettivo e di gruppo e scanditi dai riti di apertura e chiusura, di solito giochi e canti. Lavorammo sulla questione del giudizio e dell’errore, il senso del gruppo. Ma il vero accasamento ci parve di averlo conquistato quando la scuola, che aveva il nome di Scuola Mammut di Italiano per Tutti – Smit, si trasferì di nuovo a Scampia, presso il Centro Mammut. Credo che un contributo vero a questa decisione la diede Livia, amica e docente universitaria, quando sollevò un dubbio rispetto alla ubicazione della scuola. A Castel Volturno era, secondo lei, poco esposta all’“altro”; al Mammut avrebbe invece goduto di una mescolanza che poteva dare salute e potenza tanto alle azioni della scuola che a quelle del centro territoriale. Anche Padre Antonio era dell’idea che avrebbe fatto solo bene, a quei giovani, uscire da quel territorio, per viverne un altro, diverso, in un viaggio che forniva la giusta distanza alle piccinerie del luogo. Così Steven e David da ex allievi divennero “mediatori”, uno per la parte francofona e l’altro per quella anglofona. Accoglienza, mediateca, lingua, comunità furono i temi di quel terzo anno. Da un numero che si attestava sui 15 partecipanti stabili, si arrivò a 50, il che ci pose di fronte a una serie di domande rispetto a questo incremento, oltre che sulla qualità dell’intervento stesso, anche in termini di provenienza geografica dei partecipanti. Certamente frequentavano anche i rifugiati della vicino Chiaiano, ma cosa faceva sì che tutti i 50 frequentassero regolarmente fino a giugno le attività? Sicuramente il ruolo dei mediatori fu centrale, ma pure l’offerta Mammut: accanto agli incontri di lingua infatti furono proposti un percorso di alfabetizzazione informatica con il quale si rafforzava la scrittura e la lettura, Aula 133 Tre 134 per trascrivere i compiti o le storie, la ricerca in rete per piccole inchieste o la ricerca del lavoro, la mail e facebook per restare in contatto con parenti e amici vicini e lontani, sotto la guida di Alfredo; il percorso di disegno e il suo tentativo di far esprimere i partecipanti con un altro linguaggio, molto utile per leggere il mondo attraverso occhi diversi; il tutto ricondotto, poi, alla parte didattica, animata da me e Livia Velleca. Per tre volte a settimana, tutte quelle persone raggiungevano il Centro per studiare, confrontarsi o come base di incontro per poi andare al mercato del venerdì in piccoli gruppi o a casa dell’una o dell’altra, per stare semplicemente insieme. Questo fu utile anche per tentare una ipotesi rispetto alla domanda sulle “due città” (quella del “popolo” e quella dei “borghesi”, qui estesa anche a ghanesi e nigeriani, ucraine e “africane”, rifugiati e migranti). Il corso di cucina avvicinò donne del Vomero e di Scampia, non senza uno scudo di stereotipi all’inizio, donne “africane” e rom, e tutte si sono mescolate, non solo per il piacere di imparare ricette succulente, ma anche per preparare il pranzo ai bambini del Mammut che dopo le attività mattutine accorrevano affamati al tavolo, apparecchiato, sparecchiato e curato per la comunità intera. Rivelandosi ancora una volta, il pranzo, un’ottima occasione di conoscenza, scambio, convivialità, proprio come avevamo verificato nel corso del primo anno, quando la maestra Rossana come Alberto l’architetto preparavano pentoloni di sugo per tutti, prima di iniziare la scuola. Il Mondiale antirazzista, con la squadra di calcio femminile guidata da Lia, amica del Mammut, fu l’ennesima possibilità di indagare e sperimentare un modo sincero di fare gruppo. Sicuramente i tacchi delle giocatrici non ressero il confronto con i tacchetti della squadra avversaria, ma fu bello e divertente, chissà se Mister Piccolo, organizzatore dell’evento, ha mai saputo quanto quel giorno è ancora impresso nella memoria di ciascuna delle “atlete” Smit che vi presero parte. Dal punto di vista metodologico, cercammo di spingerci sempre più all’interno del metodo naturale, utilizzammo molto il teatro, il materiale vivo e incandescente portato quotidianamente dai partecipanti su cui si costruiva parte della lezione, che aveva sì un canovaccio e un obiettivo didattico, ma che cercava di tenere dentro sempre le urgenze, le storie, i dubbi delle persone con cui ci univamo. La correzione è stata sempre collettiva, senza trascurare gli apprendimenti di ciascuno, così come la discussione iniziale in cerchio che “dava il la” al resto. Tutto per noi era occasione per fare scuola: la costruzione di un carro di Carnevale, i momenti individuali in mediateca che le persone frequentavano anche senza dover per forza “fare lezione”, la cucina, il computer, l’incontro casuale con i bambini, i ragazzi e le mamme Mammut. Tutto concorreva alla creazione di una prospettiva diversa, era pensato per animare nessi tra persone di età, provenienza geografica e culturale differenti. E venne giugno, momento in cui abbiamo socializzato il percorso con valutatori di calibro, come Mirella del Gridas, Marco, Aldo, Ciro, in qualità di rappresentanti del territorio. Il quarto anno, l’ultimo, fu molto diverso. La verifica e riprogrammazione non ebbero un seguito, essendo venute meno risorse energetiche e monetarie, Luca andò a insegnare alle superiori. Tornammo ad essere un gruppetto di dieci persone, tre volontari, Rita come enzima della ricerca antropologica. Continuarono le gite per il territorio, momenti di aula nel parco cittadino. Poi, a febbraio, il Mammut chiuse per un po’ e in suo soccorso giunsero subito gli insegnanti del Cpia “Alpi-Levi”, che avevamo nel frattempo ritrovato grazie a Yasmine della “Garibaldi 101”, vera creatrice di incontri. La Smit entrava così in una scuola pubblica, con in dotazione un’aula, una certificazione finale dello Stato per coloro che avessero concluso positivamente il percorso che dava accesso alla licenza media. Marco e Raffaele ci aiutarono a fornire loro il primo certificato, il diploma! Contemporaneamente si avviarono, grazie alla tenacia di Alfredo e Annamaria, percorsi di accompagnamento al lavoro e di regolarizzazione che videro altri intrecci: Giovanni Marino e Padre Edoardo, Assunta e Mimmo, Paola e sua mamma Gabriella, Gino e Giovanni. Persone che si sono date da fare per mesi interi, strepitose energie umane che si sono mobilitate per portare a termine (ma sono ancora in essere fortunatamente) percorsi educativi personalizzati: Michel, David, Annor, Hassan e Frank hanno ora un documento e un lavoro, alcuni anche una comunità italiana di riferimento. Penso a Frank quando veniva a scuola e stava quasi sempre con la testa tra le mani, preoccupato, angosciato, e ora, a distanza di due anni, che parla italiano con sicurezza e immediatezza. Il sesto, che chiameremo Anthony, avrebbe avuto bisogno di più sostegno forse, ma non è ancora detta l’ultima parola per fortuna. Oggi la Smit si è di nuovo trasformata, da quell’incontro, nato da una emergenza logistica, si è creata una esperienza interessante che ha visto lo scorso anno gli insegnanti della “Alpi-Levi” uscire permanentemente dalla scuola per andare incontro agli allievi, sulla via Domitia. Aula 135 Numero di episodi in cui si riconosce che la scuola non serve solo ad apprendere a leggere a scrivere Riduzione percentuale di fattori e sintomi di malessere psico-fisico legati alla presenza a scuola Decremento nelle “evasioni” in aula diminuite (telefonino, uscite dal cerchi o aula) 4. porta rom e migranti Numerose discussioni partecipate rispetto a tematiche storiche e di “educazione civica”. Entrambi gli insegnanti dichiarano che l’esperienza non solo è stata positiva e soddisfacente, ma li ha “ricompensati” di anni di frustrazione. Gli insegnanti rilevano una partecipazione attiva degli alunni e delle alunne. N Tutta gli studenti e studentesse frequentanti (con un supporto fattivo degli insegnanti e della Dirigente scolastica) hanno ottenuto il diploma di scuola media, documento ritenuto dai partecipanti come molto importante anche ai fini sociali. Frequenza stabile di circa 10 persone. ei racconti che seguono rom e migranti si fanno ciceroni di nuove e inesplorate possibilità di vivere la città e la scuola. Se da una parte i migranti aprono le porte del centro città ai bambini di periferia grazie al lavoro della scuola d’Italiano della “Aps Garibaldi 101”, dall’altra “ facciamo magie” con i bambini rom: i molti terreni d’indagine del filone didattica e prestigitazione a cui stiamo lavorando da tempo, si arricchiscono di possibilità e nuove domande nel lavoro portato avanti con i bambini rom alloggiati alle spalle della scuola in cui lavora la maestra Clementina Gambocci, l’I.C. “Ilaria Alpi – Carlo Levi”. Per fortuna con loro siamo riusciti a non fare un percorso speciale, trasformando un nucleo da tenere fuori dalla classe, in “ fuoriclasse” dell’innovazione scolastica utile a tutti. Ed è forse stata questa la vera magia. Il piccolo nucleo di ragazzini del campo rom ha fatto da padrone di casa nella giornata del Mito in piazza Giovanni Paolo II, dove a cercare Il “Genio Eir Ascòl” c’erano altri 300 bambini. 137 una città piccola piccola di Yasmine Accardo, insegnante presso “Aps Garibaldi 101” N griglia indicatori cpia “ilaria alpi-carlo levi”/ smit a castel volturno servizio prescelto: servizio scuola operatori: Marco Mailler e Raffaele Mosella apoli è una città piccola piccola. Dove si vive, tutti, l’uno sull’altro. Qualche volta ci si stupisce di trovare il braccio del vicino sopra la testa, mentre sta cercando di prendere il pane. Come se avesse i super poteri dell’uomo gomma. Appena c’è uno spazio libero, subito si riempie. Così qualcuno riesce a riprendere fiato e qualcun’altro si ritroverà incastrato, e salirà su qualcun’altro ancora per ricadere in uno spazio un po’ più libero. Perché tutti immancabilmente devono stare proprio lì. La città mercurio, liquida ma a forma di sfera. E, quando qualcuno ci si stacca, si porta necessariamente dietro, un pezzo di questa sfera con tutte le persone dentro. È impossibile togliersi di dosso gli altri. È attraversata per questo da ondate furiose di perfetta convivenza e di scomposta intolleranza. E di molto rumore. Se un gigante stregone si avvicinasse per provare a capire questo rumore cos’è e da dove viene riuscirebbe forse a vedere le strade piene di buchi e tazzine rotte, forcine per capelli, vestiti multifiori rovesciati, cellulari rotti. Tre 138 E scarpe, scarpe, scarpe in movimento continuo e delirante. Se poi provasse ad avvicinarsi un poco, facendo molta attenzione a non caderci dentro, vedrebbe che tra gomiti incrociati e capelli spezzati, si distingue qualcuno. Qualcuno con una borsa a tracolla che si ferma, si piega, afferra una forcina con i brillantini e la gira davanti agli occhi. Disegna nell’aria il corpo di una donna. E lui, il gigante, resterebbe a guardare questo qualcuno e riceverebbe un pugno in piena faccia. Senza capire da dove viene. Ma non riuscirebbe ancora a capire cos’è quel rumore. Allora un po’ stordito ci riproverebbe e scorgerebbe stavolta una donna con una lunga gonna ed un fazzoletto in testa che, con un carrello di cartone, fa il giro, guarda per terra, nei cassonetti; ci si arrampica e ci scava dentro con un lungo pezzo di ferro, come una maga che mescola gli ingredienti e poi… tira fuori un braccialetto. Girando un po’ lo sguardo s’accorgerebbe di Ahmed che osserva la donna ammirato. Proverebbe ad avvicinarsi... ma riceverebbe un calcio proprio dritto in pancia. Chissà chi sarà stato!? Così piegato in due e l’occhio pesto il gigante si rimetterebbe a guardare, soprattutto perché tutto quel frastuono è strano e poi che lingua è? E scoprirebbe l’odore che viene da quel carnaio. Ed anche quello ma cos’è? Da dove viene? E finalmente deciderebbe di farsi piccolo piccolo ed entrare. Perché deve assolutamente scoprire da dove viene quel rumore e chi è tutta quella gente. Seguirebbe molte persone in cammino verso il piazzale antistante l’hotel Cavour. Ne vedrebbe altre arrampicate su bancarelle piene di colori. Vedrebbe un gran sciamare di braccia che salutano, spingono, insultano o che sistemano la propria mercanzia sul selciato. In un unico suono di voci... Le bes Ahmed? ... alhamdulillah adam! Ça va… c’est le prix. Come on guys. Dobro... uagliòò. Cundureje. Finalmente incontrerebbe Fatima che passa con il suo carrello di bibite calde, assaggerebbe un po’ di quel liquido rosso e profumato e così accogliente che gli scenderebbero le lacrime pian piano. Quella bevanda che acchiapperebbe tutti i suoni e li legherebbe insieme: Salam aleikum! Questo gigante scoprirebbe il senso e la provenienza di quel rumore così assordante e terribile ma così caldo e vero. Il suono delle genti insieme, che trasformano questa città in un unico corpo. Il suono delle storie dei migranti appena arrivati appoggiati al gomito di Pemba che ascolta tutto e riporterà i racconti nel campo dove l’aspettano i bimbi scalzi ed inzaccherati di fango. Il campo rom. Dove ad ondate ognuno aggiungerà altri elementi alle storie arricchendole e costruendone un canto che si spargerà nelle metropolitane scassate della città. Le storie che si attaccheranno sotto le scarpe dei signori bene e si intrufoleranno nelle borse delle donne improfumate per ricomparire tra le mani dei bimbi nelle case alte, nei vasci e nei centri occupati. Case illuminate, forse. Bimbi che chiederanno: papà ma da dove viene quest’odore? … sarà la metropolitana credo. Sì la metro. La metro. E sarà ancora una volta il rumore nel mercato di piazza Garibaldi che ricorderà a quel bambino l’odore che porta addosso il padre ogni volta che torna. E sarà stupito di trovarlo nei colori del vestito di Omar, che si compra il balsamo di karitè dalle mani di Rhokaya. Ed ancora di trovarlo nella corsa di Alex il monello senza scarpe che sta andando con la sua fisarmonica a guadagnarsi la giornata. Questo gigante, che si è fatto piccolo, allora piangerà davvero, perché la mano cui sta stretto stretto è quella di suo padre. E quel rumore viene dal suo petto, che è quello di tutta la città. 235 mila migranti vivono in tutta la Campania, solo a Napoli sono oltre 50 mila, molti vivono qui da oltre venti anni e pare che vogliano restare. Eppure le difficoltà sono davvero enormi. Difficilissimo trovare lavoro, fin troppo spesso sottopagato se non di vera e propria schiavitù (18 ore di lavoro pesante nelle campagne o nell’industria tessile a 5 euro al giorno, voi come lo chiamate?). Se pensiamo, poi, che per un migrante è indispensabile avere un contratto di lavoro per poter mantenere il permesso di soggiorno, molti di noi si domanderebbero: “Ma perché a Napoli fanno contratti di lavoro?” Senza documento il migrante potrebbe essere direttamente spedito in un Cie, un carcere per migranti, appunto. Un carcere per chi non ha commesso alcun reato se non quello di non avere un documento, che magari ha perso perché dopo sette anni di lavoro è stato licenziato e non ha più trovato nulla, o che non ha mai avuto perché schiavizzato da qualche imprenditore. Difficile anche pagare un affitto o sfuggire alle politiche scellerate che costruiscono campi e muri intorno alle persone, perché sono rom e devono stare tutti insieme belli segregati. Così il costruttore di turno e gli assessori “amici” possono anche guadagnarsi qualche centinaio di migliaio di euro en passant. Per non parlare di chi è appena sbarcato che farà la ricchezza della camorra più, diciamo così, d’elite, che si guadagnerà con il minimo sforzo almeno una ventina d’euro al giorno a persona. Persona che resterà persino senza scarpe. Eppure vogliono restare. Nonostante anni ed anni di sfruttamento ed angherie e qualcuno che continua a dirgli che sono “stranieri” e si sente in diritto di bastonarli. Certo che questa città è proprio un mistero! Ed è in questo mistero che abbiamo trovato l’enorme forza degli incontri e la bellezza che questi incontri creano. Quella bellezza che combatte contro le storture e gli abusi ogni giorno, senza lasciare macerie ma strie di colori e suoni. Aula 139 un’aula che raccoglie il mondo intero di Clementina Gambocci, maestra della scuola “Ilaria Alpi – Carlo Levi” P Tre 140 uò una scuola attraverso una metodologia attiva trasformarsi in un potenziatore di salute? Può esercitare sul territorio, dove opera, un ruolo educante che favorisca la cooperazione e lo spirito di una comunità che nel suo interno vede la presenza di abitanti rom? Una bella domanda per una risposta che, se fosse positiva, potrebbe risolvere il problema di un luogo martoriato dalla presenza di roghi che immettono nell’aria sostanze nocive per tutti gli abitanti di Scampia e nello stesso tempo dovrebbe favorire la nascita di condizioni ideali per l’integrazione degli alunni rom. Il plesso della scuola dove insegno, Istituto Comprensivo “Alpi-Levi”, è situato a ridosso di un campo rom e, proprio per questa sua locazione, conta il maggior numero di alunni rom iscritti e frequentanti sul territorio. Una percentuale abbastanza alta che si aggira intorno al quaranta percento, arrivando, in alcune sezioni di scuola primaria, a superare anche il cinquanta. Nelle mie due classi, tra maschi e femmine, sono iscritti sedici alunni rom; sono presenti anche due bambine di colore di cui una nata da un solo genitore di origine straniera, l’altra da entrambi i genitori non italiani e un altro bambino di madre polacca. Le mie classi rappresentano quindi l’espressione più originale della società multiculturale che il mondo moderno sempre più insistentemente ci propone, un modello composto da etnie diverse con usi e costumi propri con bagagli di esperienze che spesso generano elementi di contrasto e di conflitto tali da rendere difficile ogni possibilità di condivisione di valori. Sono classi particolari, dunque, e, per la loro composizione variegata, penso che meglio di tante altre possano attribuirsi la definizione di comunità democratica: un laboratorio dove sperimentare modelli di vita in comune per superare insieme, nel rispetto delle diversità, il contrasto che inevitabilmente si genera dall’incontro di etnie diverse. Se non sono particolarmente evidenti problemi di accettazione e di socializzazione tra i bambini all’interno delle mie classi, non posso affermare che tale clima sia presente anche tra gli adulti. S’ignorano vicendevolmente e qualche volta non mancano, tra gli uni e gli altri, affermazioni colorite di rifiuto e di disprezzo. Se nell’immaginario collettivo il bambino straniero (africano, cinese, brasiliano, russo) intenerisce ed induce alla carezza, la visione del bambino rom resta ancorata all’idea del “ladro, sporco e accattone”. Eppure in questi anni ho maturato la convinzione che i bambini non avessero pregiudizi innati nei confronti del diverso, ma accogliessero il pensiero dell’adulto, positivo o negativo che fosse. In questo clima, sereno solo a metà, è nata la mia esperienza con il Mammut. Ho conosciuto Giovanni, Alessandra, Tonino e altri e la loro proposta di scuola attiva ha destato in me molta curiosità. La possibilità di far partecipare i miei alunni a un laboratorio fuori dalla scuola mi è sembrata molto accattivante soprattutto per bambini che per motivi economici non partecipano a visite guidate. Insieme alle mie colleghe abbiamo svolto degli incontri alla sede del Mammut in piazza Giovanni Paolo II. È stata un’esperienza gioiosa per tutti i bambini che hanno mostrato chiaramente di essere più propositivi e originali in situazioni di maggiore autonomia e libertà. Gli incontri hanno offerto innanzitutto la possibilità di azzerare il divario, per conoscenze e abilità, esistente tra bambini rom e italiani scegliendo come canale di comunicazione il pensiero “filosofico”, la parola e la libera espressione artistica. Durante gli incontri anche gli alunni più timidi e impacciati sono intervenuti apportando il loro contributo. Lo sfondo sul quale si è intessuto il nostro percorso non ha escluso gli argomenti della programmazione didattica che le docenti delle classi terze avevano previsto nella fase iniziale dell’anno scolastico: la salute e la tutela dell’ambiente. Il viaggio si è dipanato attraverso i miti di creazione del mondo delle varie civiltà antiche e uno in particolare della letteratura rom. Il confronto tra scienza e immaginazione popolare ha offerto l’input ai bambini per creare loro stessi un mito nel quale ognuno doveva raccontare con le parole scritte ma anche con le immagini e, in alcuni casi solo con esse, un racconto per spiegare come nacque la Terra. Poi il percorso si è sviluppato attraverso la conoscenza delle piante e degli animali e delle relazioni che intercorrono fra organismi viventi e ambienti, individuando l’adattamento all’ambiente come forma di competizione per garantire la sopravvivenza, stabilendo l’ipotesi che esista un rapporto che lega disponibilità delle risorse ambientali e esseri viventi e discriminando le cause naturali da quelle antropiche che hanno provocato l’estinzione degli animali. Un equilibrio necessario che permette la vita del nostro pianeta. È così che gli alunni hanno maturato la convinzione che se il mondo (e gli abitanti che contiene) deve essere salvato è necessario mantenere questo equilibrio. Oltre ai miti e ai racconti “visivi”, gli alunni hanno preparato un gioco dell’eco-logia: un percorso da seguire, una serie di caselle disegnate dagli alunni stessi con fiori, piante, animali, comportamenti a tutela dell’ambiente e disastri ambientali con punti da assegnare o da perdere prima di raggiungere la casella dell’arrivo. Infine il percorso si è concluso con un racconto inventato dagli alunni dal titolo “Scampilianda”. È la storia di un luogo fantastico, dove ognuno si rispetta ed è felice perché ognuno ha il suo ruolo necessario per la comunità. Quando interviene l’interesse di qualcu- Aula 141 Tre no, l’equilibrio si frantuma con tristi conseguenze per Scampilianda. L’ottimismo innato dei bambini ha voluto trovare un epilogo felice alla storia: l’intervento dei più piccoli favorirà il rientro della normalità e Scampilianda ritornerà a essere un’oasi felice. Ma quali sono i risultati raggiunti? A dir la verità i roghi sono rimasti. Solo le nuove generazioni, sulla base delle conoscenze acquisite, potranno spegnere per sempre questo scempio. Ma i cambiamenti bisogna saperli vedere. Nel frattempo però un alunno, Christian, mi ha raccontato di essere stato nel campo rom per giocare con Angelo, il suo migliore amico e dopo si è incontrato con Mitat. Questa è stata l’esperienza in assoluto più inaspettata che mi potesse capitare: un bambino italiano che gioca in un campo rom. Illusioni e speranze? Forse, ma questo piccolo “fatto” è sicuro. Numero di episodi da cui si evince una migliore relazione tra bambini italiani e non italiani Numero di risposte positive sulla percezione individuale rispetto alla propria interdipendenza con l’ecosistema a partire da esperienze scolastiche Riduzione percentuale di fattori e sintomi di malessere psico-fisico legati alla presenza a scuola (alunni e alunne) • un bambino italiano è andato a giocare al campo rom con il suo amichetto • maggiore rispetto per gli animali • Incremento qualitativa e quantitativa dei partecipanti a fine percorso Pon F3 “Genio Eir Ascòl” • tutti i bambini che avevano partecipato al Pon F3 “Genio Eir Ascòl” sono venuti, con le mamme e senza nessun bisogno di accompagnamento/ sollecitazione nel campo da parte della mediatrice culturale, alla giornata finale del percorso. A inizio percorso (durato due mesi) la maggior parte dei bambini iscritti a scuola non voleva venire e la mediatrice interna al campo dovette faticare parecchio per convincerli • la mattina in cui abbiamo presentato il Pon F3 all’intera scolaresca, a voler partecipare erano anche i bambini non rom. Il messaggio era passato: veniva offerto un percorso di “lusso”, non un’alternativa per alunni “di serie B”. • Anche a fine percorso erano ancora di più i bambini, anche non rom, che chiedevano di partecipare. • i compagni di scuola non rom hanno guardato al percorso fatto dai rom come a qualcosa di appetibile anche per loro • I bambini rom si sono sentiti protagonisti e padroni di casa nel percorso di teatro magia “Il Genio Eir Ascòl”, anche rispetto agli alunni provenienti dalle altre scuole che partecipavano a “Il Mito del Mammut” nella giornata di piazza di maggio 2014. • produzione critica e consapevole sui temi ambientali nei racconti “Giornata salutare”, anche da parte dei bambini rom • riflessione e risoluzione di gruppo a problematiche ambientali attraverso tecniche di fabulazione e comunicazione teatrale. griglia indicatori i.c. “ilaria alpi – carlo levi”, classe iii a e b luogo prescelto: aula docente: Clementina Gambocci Incremento di episodi in cui le insegnanti fruiscono del patrimonio di altre scuole/ classi. Numero di episodi in cui le insegnanti percepiscono un minor isolamento rispetto alla scuola e alle colleghe (anche di altre scuole) Realizzazione dell’intreccio con la maestra De Lucia sul mito di Arianna. teatro magia una ricerca contro l’abbandono scolastico con i bambini rom e non rom di scampia di Giovanni Zoppoli erché quasi il 17% dei ragazzi con meno di 16 anni in Campania abbandona la scuola? E perché per i rom che abitano nei campi la percentuale di abbandono a Napoli supera addirittura il 50%? Ci sono molti modi per interrogarsi attorno a questi argomenti. C’è chi attribuisce il dato al contesto di provenienza (quartieri disagiati, genitori in carcere, vita da campo rom, povertà); chi invece a motivazioni di natura psicologica, chi alla globalizzazione, chi a fattori genetici, chi alla presenza di un vulcano in quiescenza… Per rispondere a questa difficile domanda noi abbiamo scelto di dare avvio ad un’impresa senza precedenti: la ricerca del Genio Eir Ascòl. Con una quindicina di bambini abitanti nel campo rom di Cupa Perrillo (Scampia) che hanno fatto da nucleo centrale della ricerca, siamo partiti a febbraio dalla scuola primaria “Ilaria Alpi” arrivando a contagiare le altre scuole primarie dell’area nord di Napoli. L’incontro con la magia inizia, tre alla volta, all’interno della pancia del camper che il Mammut ha adibito a ludobus. Le quattro classi al completo (quelle in cui erano iscritti i bambini rom e che la scuola aveva indicato come partecipanti alle attività del Pon F3) entrano nel camper dove cose inspiegabili accadono in un clima incantato mentre i propri compagni giocano all’esterno, nel cortile della scuola dove il camper è parcheggiato, con i giochi in legno della tradizione popolare, le costruzioni, le tempere e altri materiali. Non prima però di aver fatto il biglietto in classe: il disegno di una cosa inspiegabile “capitata proprio a te”. Quella prima mattina si è conclusa con tutti i bambini (rom e non rom) delle quattro classi, entusiasti della “scuola di magia” che stava per cominciare. Tutti avrebbero voluto partecipare al percorso pomeridiano, anche se purtroppo di posto ce n’era al massimo per una ventina (e i posti erano stati già quasi tutti assegnati ai bambini rom). Quello che rischiava di essere un percorso ghettizzante (cioè per soli rom) era diventato un percorso di “prestigio” a cui tutti ambivano prendere parte. Ne sono seguiti pomeriggi incandescenti, tra campo e scuola, dove le mille difficoltà non sono però mai riuscite a prendere il sopravvento sul mare di meraviglia e bellezza. Abbiamo continuato a interrogarci su cosa fosse la magia con frutta e ortaggi trasformati per incanto in colori con cui inondare il foglio bianco da P Tre 144 sottoparato; con la creazione di una tavolozza infinita di tonalità a partire da tre soli colori; con spugne che diventano punti di luce sul lenzuolo bianco del cantastorie… Tutto per dare materia alle scene dell’immaginazione, quelle partorite dell’incontro di noi adulti e loro bambini, in un gioco di entrata e uscita dal colore anche grazie ai giochi teatrali e alla simulazione di situazioni di vita. La magia così non è stata solo quella dei trucchi di prestigio che ci siamo prima insegnati l’un l’altro e che poi abbiamo approfondito grazie a un professionista venuto a tenere alcune lezioni. La magia è consistita piuttosto in quel viaggio all’interno dell’immaginario e nelle scene, tracciate su carta, che ne abbiamo tratto, “messe in vita” tra il caos e l’estremo ordine della curiosità che si accende. I trucchi di prestigio, gli inganni dell’illusionista – così come ci ha insegnato il nostro maestro Bustrik – sono diventati possibilità di svelamento del vero che c’è in ognuno, al di là di stereotipi positivi e negativi, nella meravigliosa banalità dell’essere se stessi che si scoperchia avanti a uno stupore autentico. Il tuffo nei quadri di Manet degli apprendisti della nostra scuola di pittoteatro-magia (che dovevano prima proseguire il racconto letto nei quadri con tempere e acquerelli e poi diventarne i registi attraverso una messa in scena teatrale) è stato uno dei momenti più belli del percorso. E il Genio Eir Ascòl che c’entra? Ebbene come da metodologia Mammut è stato proprio lui, il genio fuggitivo, a fare da sfondo integratore a tutto il nostro percorso: la storia di un genio fuggito da scuola perché non ci trovava più la magia e che era nostro compito ritrovare. La pittura, il teatro, il gioco, l’apprendimento di trucchi di prestigio, il racconto di eventi inspiegabili accaduti a ciascuno di noi e perfino una caccia al tesoro in piazza con altri 200 bambini sono stati tutti “mezzi” per il comune obiettivo di far tornare il Genio Eir Ascòl, riaccendendo la capacità di fare “magie” per bambini e maestre. Il capovolgimento di relazione che sperimentiamo tutte le volte che i bambini iscritti al nostro doposcuola pomeridiano vengono al Mammut, nella mattina con l’intera classe (diventando per una mattina “gli esperti” e “i padroni da casa”) è diventato ancora più potente in questo percorso all’ “Ilaria Alpi-Carlo Levi”: la maggiore padronanza acquisita dai bambini rom con la magia li ha fatti sentire per una volta “padroni di casa”, tanto nell’incontro con gli altri compagni non rom della propria classe, quanto con le altre centinaia di coetanei intervenuti nella caccia al tesoro del Mito in piazza Giovanni Paolo II. Ed è stato proprio grazie al Mito del Mammut (il gioco didattico giunto alla sua settima edizione) che il percorso ha potuto avere un retroterra di senso ben più forte di quello di un Pon di 2 mesi. La mappa di ricerca sviluppata con la maestra tutor (insegnante della maggior parte dei bambini Aula 145 rom partecipanti) era partita fin dal settembre 2013, inserendosi nella ricerca cooperativa che il centro territoriale sta conducendo. Tre 146 Il percorso ha fornito un’ulteriore conferma alle nostre fondamenta pedagogiche: 1) abbandono e dispersione scolastici non si combattano con progetti speciali, ma migliorando la scuola di tutti; 2) la centralità nel processo di riavvicinamento all’apprendimento sta nel desiderio, nella voglia di andare a scuola. L’accettazione incondizionata e il partire dall’interesse contingente di alunno e maestro nella loro unicità rimangono i migliori presupposti perché nessuno, alunno o maestro di qualsiasi provenienza, abbia più voglia di fuggire dalla scuola; 3) l’immensa fertilità e il clima positivo che nasce dalla compresenza di bambini rom e non rom scema tristemente se una delle due componenti viene a mancare. Ne è nata una storia scritta insieme, fatta di cadute da bicicletta, mostri ingannatori, nonne carnevalesche e “genio detector” per vedere se il Genio Eir Ascòl ha fatto ritorno. Anche perché la caccia al tesoro del 14 maggio si è conclusa con un nulla di fatto e al momento ci sono altri 200 bambini in cerca del genio. Alla ricerca del Genio Eir Ascòl è appunto il titolo della mostra e del video racconto proiettato all’Istituto Comprensivo “Ilaria Alpi – Carlo Levi” il 29 maggio 2014, proseguimento del gioco di entrata/uscita dall’immaginario cominciata con verdura e ortaggi e proseguita con la telecamera di una paziente video maker che ha partecipato a tutti gli incontri del percorso. Rendere visibili le storie che nascono dentro di noi e diventare capaci di entrarci ed uscirne assieme a chi ci sta intorno per modificare noi e il mondo di cui siamo parte: c’è magia più grande? Di questo non possiamo che essere grati ai bimbi rom che ce ne hanno dato ancora una volta la possibilità. campo scuola di Argentina Dragutinovic. Incontro con Alessandra Di Fenza M i chiamo Argentina Dragutinovic, lavoro al Centro territoriale Mammut da quando ha aperto: erano passati solo tre mesi dall’assegnazione della sede e io ero già li, era l’estate del 2007. Mi occupo della sede e di tutto quello di cui c’è bisogno. La mia passione è la cucina e spesso ho preparato dei piatti romanes in occasione delle feste. In primavera ho realizzato un laboratorio di pittura e di decorazione di uova con mamme e bambini così come si preparano per la nostra Pasqua. Quest’anno il Mammut mi ha chiesto di collaborare per la realizzazione di un progetto pomeridiano a scuola, un progetto interculturale, contro l’abbandono scolastico. Una volta a settimana mi facevo il giro dei campi per avvisare i genitori e i bambini che c’era un laboratorio di teatro-magia che serviva a fare scuola divertendosi. Inizialmente i bambini non volevano venire forse perché credevano di ritrovare la stessa scuola del mattino, alcuni genitori invece pensavano che era una cosa che non serviva. Piano piano i bambini si sono appassionati al percorso e invece di inseguirli per la baracche, erano loro ad aspettare me, e mi aspettavano anche un’ora prima. Erano una ventina e venivano da campi di diverse provenienze e religioni: cristiano-ortodossi, mussulmani, evangelici. Roberto, Sara, Svenco, Sabrina, Gelco non vedevano l’ora di trovare ”Il Genio Eir Ascòl”, questo genio arabo era un grande mago che era scappato da scuola perché lì non stava bene, e il compito dei bambini era ritrovarlo facendo tornare la magia, sperimentandosi con i trucchi, la pittura e il teatro. E sono andati a scuola pure il giorno di San Giorgio, una festa religiosa in cui si cucinano maiali, pecore e si preparano i piatti della tradizione come le sarme (verze ripiene di carne e riso), peperoni ripieni, insalate e dolci, c’è musica e si sta in famiglia. In quest’occasione la maestra si è lamentata con noi operatori del fatto che i bambini venivano di più al pomeriggio che alla mattina. Ed è stato un peccato che Vanessa, del mio campo, abbia rinunciato a venire perché aveva paura della scuola: è riuscita a partecipare al laboratorio solo due volte, nonostante la mia presenza. Vanessa è abituata a vivere liberamente e se vede un albero di prugne non resiste e gli corre incontro e si arrampica anche se il bidello la sgrida. Diciamo la verità, gli alberi di prugne sono una passione per tutti bimbi rom e più le prugne sono acerbe e più gli piacciono. Era molto complicato accompagnare i bambini a scuola, nel cortile c’era una albero di prugne bello grande… e io ero lì a rincorrerli e i figli del custode proprio non mandavano giù queste incursioni. In realtà sembrava Aula 147 Tre 148 alla ricerca del genio eir ascòl che non fossimo ben accolti perché anche quando i bambini si comportavano bene avevano qualcosa da ridire. Anche l’utilizzo dei bagni sembrava un po’ complicato perché le pulizie terminavano prima che noi iniziassimo e quindi avevamo il fiato sul collo perché non si poteva sporcare. Il Genio Eir Ascòl sembrava proprio aver ragione! Anche perché per arrivare a scuola d’estate a piedi, scavalcando cumuli e cumuli di immondizia, con la puzza e i topi che corrono vicino, non è proprio semplice… d’inverno invece ci sono le pozzanghere e devi combattere con il freddo e il fango. I bambini ce l’hanno messa tutta per far tornare la magia, vedevano il genio comparire e poi scomparire tra nuvole o dietro il colonnato, dietro il paesaggio di un disegno o in un trucco riuscito bene. È stata organizzata pure una Caccia al tesoro che ha coinvolto anche gli altri bambini delle scuole del quartiere, tutti alla ricerca del Genio Eir Ascòl… che però non è stato ancora trovato! Durante l’ultima giornata del progetto, è stata allestita una mostra dei racconti, delle pitture fatte dai bambini ed stato proiettato il video che parla delpercorso del Genio Eir Ascòl. Le magie hanno preso forma con i trucchi e i colori, e alla domanda “secondo voi tornerà il Genio Eir Ascòl”, i bambini hanno risposto di sì! E io ci credo perché sono venuti numerosi e accompagnati dalle mamme nonostante io non fossi andata a prenderli e il cancello della scuola fosse chiuso… e non perché erano venuti in anticipo ma perché si erano dimenticati di aprirlo... sarà stato il Genio? nna on la no e cappello. c a r a p si pre iarpa sta. ttere sc Il genio llo in te e e p m p a a c a iut o largo che lo a e col su nico s s la c . l mecca a d a Entra in n la bicicletta v a d co ta e an gici. Giocava eva la biciclet letti ma o z z a p f m n Poi si ro tava la bici co osa, . ius alsiasi c pallone l u che agg o q c a e v h e anc prend oi Giocava giochi, o c r a tava a n p r l o a p a v la a and one e e. nel pall a v a r in class t o n e m a v cchio spetta appare che lo a n soldi. u e h c an parire i a m v o a c t r r a o f P di neri. capace gliava che era ndi, li ta no sempre più a r g i ll e ap i sua iventa Aveva c quelli d panni d i e e e n r ie le b arneva del dal bar cherzo iva da c t s s e lo v a a r v face E si t lla quale a , a n n rivano no scompa i u c a libro e colori. .) disegni a colori.. e in g a p ie delle elle stor n e u g e s ( porte di conoscenza di Yasmine Accardo la didattica H o sempre detestato le porte. Ho sempre avuto l’impressione che ce ne fossero troppe. Porte che si aprono e si chiudono. Porte che sbattono. Porte che cigolano. Troppe e di troppi tipi. La porta del bagno. La porta dello studio del medico. La porta dell’ascensore. E poi la porta della percezione. La porta dell’aldilà. Questo mondo mi sembrava un libro di legno in cui andavo a sbattere con la testa troppo spesso. A volte risolvevo guardando attraverso il buco della serratura o collezionando chiavi e serrature di ogni tipo. Poi ho smesso di pensarci e semplicemente mi stupivo quando vedevo una porta chiusa. “To’, sono ancora qui?” Così quando sono entrata in questo gioco sapevo solo una cosa: che porte non volevo vederne e per questo avrei lottato e molto. Non ero sola questa volta. C’erano i miei alunni! Ovviamente sapere che c’era una porta da affrontare mi ha reso più energica. La didattica, o come vogliam chiamarla, è consistita in questo: le porte dovevamo oltrepassarle, studiarle con attenzione, ridere di loro o piangere per loro. Romperci il naso camminando nella notte a braccia distese. O disegnarvi un trompe l’oeil. Poi, ad un certo punto ci siamo seduti sotto la porta ed è stato rincuorante. Era lì e quello che ci offriva erano storie, storie che dovevamo ricordare e storie che volevamo raccontare. Abbiamo smesso di lottare e ci siamo rilassati. La corsa per superare, aprire o chiudere porte si è arrestata. Abbiamo cambiato la forma delle porte: le abbiam rese liquide o di creta o della “materia dei sogni”. Allora abbiamo cominciato il gioco: quando siamo usciti dalla didattica e abbiamo oliato la sua porta cigolante per andare a farci un giro. com’è cominciata Siamo arrivati da poco. La porta è ancora aperta e aspetta che qualcuno decida che siamo abbastanza, che non c’è più spazio e si può quindi iniziare. Qualcuno fa capolino: Enzo ha lo sportello per le vertenze di lavoro ed è impegnatissimo ma passa sempre a darci un saluto: “La maestra è arrivata puntuale?”, “Cosa ha combinato oggi?”, “Siete pronti oggi?” Joy “grande” si aggiusta sulla sedia, sorride in silenzio. Joy “piccola” ride, si alza e con i pugni ai fianchi dice: “Noi siamo sempre pronti! Vero Yasmine?” Aula 149 Tre 150 Sara la guarda un po’ stupefatta, si aggiusta i capelli, gira indietro la testa e si reimmerge nel suo vocabolario cinese-italiano, appuntandosi qualcosa. Oresta alza il braccio e fa ciao. Da fuori arriva il chiacchiericcio delle persone che cercano gli avvocati o che salutano Wioletta prima di entrare. Wioletta è un po’ il nostro “capotreno”: è lei che fischia l’inizio e la fine della lezione. Poi la porta viene chiusa, ma già sa che i soliti ritardatari la disturberanno ancora. Ecco appunto Mustapha, Aliou e Cheikh. “Forza ragazzi che cominciamo!”. Indico la porta e a bruciapelo chiedo: “Cosa fa questa porta?” Trenta teste si girano in simultanea, con un sussurro che schiaffeggia Alì, rimasto fermo a guardare davanti a sé con i suoi occhi azzurri e le rughe immobili in un deserto silenzioso e molto distante. Alì è sordo, lui ascolta il vento delle parole degli altri. “Dorme”, risponde Aliou. “Ma tu pensi sempre dormire, eh?”, ribatte Joy, “Quella apre la scuola!” Ridono tutti. Sara scuote la testa. “Ok ragazzi facciamo un bel disegno di una porta.” Ecco, è cominciata così, tra le incertezze e i dubbi miei e di tutti i partecipanti, che non sapendo proprio che farsene di quella porta o cosa dirne, copiavano dall’amico o dal vicino di banco, sperando di non sbagliare. Perché è questa la prima parola che imparano: sbagliare. Il posto sbagliato, il nome sbagliato, il paese sbagliato, il giorno sbagliato, il documento sbagliato. Come uomo sono una sbaglio. E se una cosa ha fatto quella porta sorniona è stato “sbattersi in faccia” a questa brutta parola. E quando Ziahul ha aperto la porta per presentarsi e dire il suo nome, abbiamo tutti imparato a pronunciare ZI AA HUL e non Giovanni come lo chiamano qui a piazza Garibaldi. Così anche lui si è ricordato come si chiamava. E che il suo nome non era uno sbaglio. Visto che era un gioco e non sapevamo dove ci avrebbe portato, quel giorno in classe venivano tutti, anche solo per qualche minuto. Quando la porta del salone si chiudeva il mondo esterno del raggiro non poteva entrare. Così Sara, che era sempre molto restìa a parlare del suo mondo, un bel giorno arrivò alla lavagna per disegnare la sua “porta indifferente” e dire: “Questa è la porta del ristorante dei miei genitori” e lei disegnata in un angolo a studiare. Indifferente, appunto. Con noi in classe c’è sempre stato Davide, che voleva organizzare uno spettacolo insieme alla classe e ci ha molto aiutato a buttare fuori energie e risorse. È grazie a lui e alle giornate di laboratorio teatrale che abbiamo potuto ascoltare la luminosa voce di Joy “grande” ed il “tenore” Saiful. La porta del teatro ha trasformato Joy da bruco in farfalla. Sono aumentati i dibattiti sui temi proposti. Le parole si prendevano a cazzotti, combatteva- no per uscire anche se imperfette e lacere, ma piene, finalmente, di senso. La paura di sbagliare era scomparsa. le storie-porta Un giorno Davide ha portato in classe il racconto del leone (un racconto africano) che ha immediatamente coinvolto Mustapha, ragazzo energico e di carattere, ma che ancora non partecipava troppo ai nostri incontri. Così il nuovo Mustapha-leone è diventato il vero leader della classe, portandoci storie, disegni, attività fino a proporsi come rappresentante, inscenando anche un discorso di insediamento sull’uguaglianza tra i popoli, e a regalarci una sorpresa meravigliosa durante “la gita delle porte” che organizzammo con i bambini della scuola “Kennedy”. Il momento delle storieporta, in cui ognuno era invitato a portare una leggenda del proprio paese (che avesse all’interno il significato di “porta/passaggio”), è stato uno dei più significativi. Abbiamo viaggiato insieme in luoghi mai visti, ascoltato la poesia di Fatima e Rhokaya sulla potenza del cuore dell’africa, dei racconti degli avi. In questo frangente Mbaye, anziano commerciante con notevoli difficoltà di vista, che non aveva mai parlato prima, si è buttato nella mischia della conversazione e ci ha descritto piante e loro potere curativo. Fortificata la porta interna, eravamo pronti ad aprire la porta esterna. Decisi allora di cambiare luogo: potevamo andare in una scuola media superiore in cui avremmo incontrato quel mondo con cui dovevamo confrontarci, un mondo indifferente e ostile. Quel mondo che i migranti sfioravano ogni giorno e da cui erano spesso guardati con diffidenza e disprezzo. Da qui avremmo cominciato anche a costruire le basi per un ponte con i bimbi con cui condividevamo il gioco e che ancora non conoscevamo. Cominciammo a lavorare sui prodotti dei singoli paesi: Ilnaz ci parlò dello zafferano dell’Iran, Mustapha del mango; Sara era ormai lanciata nei racconti della Cina e ci illustrò non solo la coltivazione del bambù ma ci raccontò una storia che poi disegnò alla lavagna: la leggenda dei dieci soli. Per alcuni ascoltare la leggenda cinese fu motivo di riso; ne parlammo insieme, cercando di trovare paragoni tra una storia e l’altra e uscirono fuori gli djin del deserto, come le imprese dei giganti. “Meraviglie e storie sono tante e questo è bello”, dissero Fatima e Rokhaya. Assaporammo infine i dolcetti iraniani che Ilnez portò a scuola per farci assaggiare qualcosa della cucina iraniana. Visto che alcune classi di bimbi erano impegnate nello studio della coltivazione, decidemmo di mandar loro dei consigli. Ilnaz, Mustapha e Sara mandarono le loro lettere e i bimbi risposero chiedendo altre storie. Non contenti, pensammo di organizzare la “gita delle porte” e Mustapha, Sofia- Aula 151 Tre 152 ne, Ahmed, Fatima, Rhokaya, Mohamed organizzarono le storie e il percorso da fare tra le porte di piazza Garibaldi. Mustapha mostrò ai bimbi come si veste un guerriero. Bimbi e mamme assaggiarono i dolcetti bengalesi di Lima. E seguirono la voce del vento, unico amico dei tuareg durante le traversate del deserto. Il cambio di scuola però non fu del tutto felice. Ricordo un episodio piuttosto grave che capitò dopo l’arrivo nella nuova scuola. Il mercoledì era stato dedicato al laboratorio teatrale con Davide; nella stessa scuola c’è un Ctp con cui collaboriamo per somministrare ai migranti l’esame per la certificazione A2 e con cui avremmo voluto creare una comunicazione tra le classi sul tema della porta. E invece la porta rimase chiusa. Venne imposto ai partecipanti di seguire la lezione A2, pena l’impossibilità di sostenere l’esame. Anziché una possibilità ulteriore di approfondimento e uso dell’italiano, il laboratorio fu considerato un ostacolo. Così un insegnante venne in classe dicendo: “voi non potete stare qui, dovete fare l’A2 e se non raggiungete le presenze non potrete sostenere l’esame”. La cosa peggiore fu la reazione di alcuni partecipanti che, presi dal panico, smisero di seguire il laboratorio per sedersi nei banchi A2. Ci arrabbiammo e protestammo, ma ormai il guaio era fatto: la paura dello sbaglio era stata reintrodotta. Altro che unione delle forze e condivisione! Nella stessa scuola i miei studenti hanno raccontato storie e difficoltà di vita alle classi del mattino, incontrando quegli adolescenti ai quali cui i Ndemba e Mohamed fecero poi da guida nel mercato di piazza Garibaldi e nella moschea. La visita alla moschea deve averli un po’ turbati, perché se ne scapparono dopo poco e non riuscimmo più a parlarne. La scuola era al termine. Le ultime interrogazioni incombevano e non c’era più tempo. Un piccolo lavoro di inchiesta sullo sfruttamento del lavoro e sulla prostituzione è stato però fatto da alcuni adolescenti, che hanno preparato un breve video e ci han chiesto di tornare presto per incrociare più storie. Con la scuola è stato difficile cominciare, sono molte le scadenze che classi e professori devono rispettare e questo ha tolto tempo e fiato alla nostra piccola azione sulle “porte”. Ma ovviamente non ci arrendiamo. Aumento nell’interazione tra scuola serale, corso di italiano L2 e corso diurno Riduzione percentuale di fattori e sintomi di malessere psico-fisico legati alla presenza a scuola Numero di episodi di “didattica salutare”: Realizzazione di una inchiesta da parte degli studenti del corso diurno dell’Itis “Leonardo da Vinci” attraverso il centro storico con il supporto dell’insegnante Accardo e si uno studente della scuola di Italiano L2 “Garibaldi 101”; realizzazione di interviste degli studenti del diurno ai ragazzi della scuola di Italiano L2. L’insegnante Accardo avverte forte disagio ogni volta che i suoi studenti sono prelevati dalla classe per essere portati in un’altra stanza, da colleghi del diurno, al fine di seguire il corso di Italiano L2, livello A2. L’insegnante sente di essere esautorata ogni volta. Realizzazione del percorso teatrale ad opera di Davide Iodice all’interno della classe di Italiano L2, che ha portato affiatamento e buon clima di classe favorendo anche l’apprendimento curriculare. Da quando quegli stessi sei alunni hanno iniziato il corso A2, hanno perduto motivazione allo studio della lingua e non frequentano più la classe della “Garibaldi 101”. Cooperazione con le maestre De Lucia, Sanges e Pica. Il gruppo classe, costituito da studenti non italiani, è infastidito dall’interruzione e dalla separazione dai colleghi. griglia indicatori “aps garibaldi 101” in collaborazione con scuola itis “leonardo da vinci” operatrice: Yasmine Accardo per piero di Francesca Saudino S ono settimane che mi chiedono di scrivere un articolo in ricordo di Piero Colacicchi, perché ero molto legata a lui e insieme abbiamo fondato “OsservAzione” (centro di ricerca e azione contro la discriminazione di rom e sinti), ma ogni volta che ci penso mi distraggo subito e mi occupo di altre cose. Mi sono resa conto che sfuggo a questo impegno perché in realtà mi rifiuto di pensare che Piero non ci sia più. Per me è sempre lì, nella casa in via dell’Osservatorio a Firenze, in mezzo al verde, con i suoi innumerevoli libri e con il suo computer che scrive profili e fa battute sarcastiche su ogni cosa. Ogni volta che ci penso sento nelle orecchie la sua voce che mi canzona: “e dai Francè e che ci vuole a scrivere, mica ho fatto niente di particolare io?!!” Be’, insomma, uno che ha vissuto in Italia e in America, che si è immerso nei temi più intricati e densi del nostro mondo, dalla psichiatria, al carcere, alla questione dei rom, il tutto facendo il professore di scultura all’Accademia di Belle Arti… Se ci penso mi assale un senso di soggezione e non riesco a continuare. Ci vorrebbe almeno un anno di lavoro per approfondire tutti i temi e rendere giustizia della straordinaria vita di Piero. Ora provo a cominciare ma non posso che limitarmi a un ricordo di amicizia. Anche perché Piero, per la sua discrezione, non ha mai sbandierato ai quatto venti tutto quello che ha fatto, detto e scritto nella vita. Mai. Per saperne dovevi andare a scavare da solo, oppure chiedere e insistere affinché raccontasse. Comincio da poco fa, dalle ultime volte che ci siamo sentiti e soprattutto dalle ultime mail che ci siamo scambiati. Dopo la sua morte, ad agosto, mi sono tuffata a rileggere avidamente le nostre comunicazioni e, ripensandoci, il tono di Piero negli ultimi mesi era, da un lato come al solito, leggero e canzonatorio, ma dall’altro molto intenso, come se sentisse l’urgenza di sintetizzarmi dei concetti fondamentali delle sue idee e una strada per continuare, anche senza di lui. A marzo di quest’anno, dopo essere stata alla Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani del Senato, per relazionare in rappresentanza di un gruppo di associazioni sul caso dei rom di Giugliano in Campania, sistemati a vivere in mezzo alle discariche tossiche, gli mandai un link per poter ascoltare tutta la registrazione dell’audizione. Fu entusiasta e mi riferì di aver ascoltato tutta la registrazione due volte. Quello che lo faceva più felice era il confronto con gli anni in cui aveva iniziato ad interessarsi delle faccende dei rom, la fine degli anni ottanta, ma anche solo con gli esordi di Osservazione, l’associazione fondata insieme, nel 2005. All’epoca, infatti, interessarsi dei rom era questione di carità o al limite un affare di tutela culturale, di studio di una cultura completamente “altra”; interessarsi dei rom e della questione politica che ruota intorno alla loro condizione, dei diritti dei rom come persone, invece e prima che della loro cultura, contrastare le scelte istituzionali discriminatorie e proporre soluzioni diverse era appannaggio di pochi, tra cui Piero, che senza sosta provavano a contagiare settori istituzionali e non con un ragionamento più articolato. Quello che Piero raccontava di quando aveva iniziato ad interessarsi della questione era che chi aveva cominciato a interfacciarsi alla questione rom, anche in buona fede, aveva sbagliato strada pensando che i rom fossero semplicemente della povera gente da aiutare e che loro stessi volessero, ad esempio, vivere nei campi sosta, poi divenuti i cosiddetti campi nomadi. Ciò che l’aveva convinto del contrario erano stati gli stessi rom, le persone in carne ed ossa. Semplicemente conoscendole, chiacchierando, spogliandosi dei preconcetti, infatti, si era reso conto che per la maggior parte dei casi, per esempio, la vita in un campo non era affatto una profili questione culturale, che tutti i rom stranieri provenienti dall’area della ex Yugoslavia vivevano in città e in case in muratura normalissime, lavoravano come chiunque altro ecc. Di qui, da questa conoscenza delle persone, Piero si è battuto senza sosta contro la politica dei campi per rom adottata da quasi tutte le amministrazioni locali, le quali, partendo dall’assunto che queste persone fossero nomadi, ovvero non stanziali, e nascondendosi dietro la foglia di fico della tutela culturale, hanno legittimato e legalizzato la creazione di luoghi generatori di marginalità e segregazione. Luoghi di sospensione del diritto, come Piero ci ha sempre insegnato, promotori di uno stato di eccezione che ha portato alla fine degli anni 2000, nel 2008, addirittura alla cosiddetta “emergenza nomadi” con legge dello Stato. Per fortuna dichiarata illegittima dal Consiglio di Stato nel 2011. È proprio sulle battaglie contro i campi nomadi che ci incontrammo, alla fine degli anni 90, quando noi, il Com.p.a.re., un gruppo di studenti attivisti, ci imbattevamo a Napoli in omologhe questioni rispetto ai rom di Scampia e sbattevamo contro un muro istituzionale, e anche associativo, che ci additava come giovani ideologici. Piero e la sua esperienza furono linfa vitale, perché ci aiutarono a pensare che non era da pazzi ritenere che fosse una scelta sbagliata e discriminatoria sistemare 800 persone in un luogo isolato dietro un carcere a vivere in container di lamiera. Soprattutto perché, grazie al lavoro di Piero e degli altri, la Toscana aveva fatto passi avanti, aveva già messo su un progetto sperimentale, il Guarlone, per poche famiglie in una zona collegata con la città, aveva iniziato a sistemare l’inserimento nell’edilizia pubblica e sopratutto aveva dichiarato la volontà di superare i mega campi per rom, in considerazione dei cattivi risultati ottenuti in base all’esperienza fatta. Purtroppo a Napoli i tempi non erano ancora maturi (e probabilmente non lo sono ancora dopo tanti anni) il mega campo di Secondigliano fu costruito come soluzione temporanea ed è ancora lì, dopo 15 anni e se ne progettano altri. Molto prima di imbattersi nelle questioni rom, Piero si era interessato di psichiatria. C’è una bellissima intervista fi lmata di Christian Brogi (http://www.osservazione.org/ it/2_43/addio-caro-piero.htm) in cui Piero racconta dell’esperienza al manicomio San Salvi di Firenze dove, nel 1964, aveva dato vita, insieme ad altre professionalità, ad un laboratorio sperimentale di ceramica, e dell’impatto “rivoluzionario” che portò in quel contesto l’intervento di Giorgio Antonucci, punto di riferimento dell’antipsichiatria in Italia, allora agli esordi della sua carriera. L’approccio di Antonucci gli permise di comprendere che c’era un modo per guardare la questione psichiatrica completamente diverso da quello ordinario. Infatti, mentre la psichiatria tradizionale partiva da posizioni pregiudiziali e da un’ideologia medica completamente astratta e repressiva, Antonucci metteva in discussione radicalmente l’idea stessa del malato psichiatrico e la necessità della psichiatria. In uno scambio con Dacia Maraini che gli chiedeva: “In che consiste questo metodo nuovo per quanto riguarda i cosiddetti malati psichici?” Giorgio Antonucci rispondeva: “Per me significa che i malati mentali non esistono e la psichiatria va completamente eliminata.” profili Quello che Piero aveva messo a fuoco da quell’incontro che ha segnato la sua vita era che l’approccio psichiatrico, che si fondava su un’ideologia intrisa di pregiudizi e soprattutto repressiva, generava naturalmente un’escalation di repressione e ribellione, sempre più aspra, con la ovvia vittoria del più forte sul più debole. L’umiliazione subita dalle persone, infatti, perché rinchiuse in manicomio e sedate con psicofarmaci, messe da parte e non accolte, produceva una reazione, giusta o giustificabile, di ribellione, nuovamente repressa e ancora più duramente. Sono sicura che quello che più addolorava Piero e lo muoveva all’azione, al di la di tutti i proclami, era proprio la sofferenza delle persone umiliate e, insieme, il fallimento di quel tipo di approccio. Facendo un parallelo tra psichiatria e razzismo, Piero diceva che entrambi hanno sempre usato pretesti per costruire il pregiudizio con cui poi opprimono. E che uno dei pregiudizi più forti è stato proprio quello di rifiutare chi non accetta di “stare fermo”, che ha prodotto il concetto di “ebreo errante”, di “nomade” e, in ambito psichiatrico, di “agitato”, concetti ottocenteschi che hanno alla base le stesse idee e anche gli stessi teorizzatori. Cesare Lombroso, per esempio, scriveva allo stesso modo di rom – o zingari, come dicevano loro – di persone ricoverate in ospedali psichiatrici e di delinquenti. Non a caso, un altro importante capitolo dell’impegno militante di Piero è avvenuto nelle carceri della Toscana. E sui temi di cui stiamo parlando – carcere, razzismo, minoranze – non si può non ricordare il saggio che Piero ha scritto per accompagnare l’edizione italiana del volume di John Dos Passos sull’esecuzione degli anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti nel 1927 in America (John Dos Passos, Davanti alla sedia elettrica, edizioni Spartaco, 2007). Piero ha vissuto negli Stati Uniti, conosceva dal profondo certe dinamiche. Nel saggio mette in evidenza, ancora una volta, quanto abbiano influito, sulla condanna dei due anarchici, soprattutto i pregiudizi – italiani, immigrati, anarchici, rossi – più di una valutazione giuridica puntuale degli elementi di colpevolezza. E quanto il carcere e tutto il sistema penale rappresentino una lente di ingrandimento dei valori di una società Piero affida proprio alle parole di Bartolomeo Vanzetti, riportate in uno scritto preparato per autodifendersi, una prima sintesi: «Il fatto che io vivessi in una comunità di italiani e che in quel giorno, a quell’ora, in quel preciso minuto mi trovassi tra loro a vendere le anguille e i pesci che mi avevano ordinato, proprio questo al processo mi fu estremamente contrario: poiché spinse tutti quegli italiani a testimoniare in mio favore. E fu proprio il fatto che si trattasse di italiani ciò che indusse i giurati americani, carichi di pregiudizi razziali, religiosi, politici ed economici, pieni di odio contro tutti gli italiani e i democratici intransigenti, a non volere, a non poter credere, alle loro parole». Secondo Piero, “un importante indicatore delle condizioni dei nuovi immigrati in paesi stranieri – dei livelli di accoglienza, della forza dei pregiudizi, dei conflitti – è proprio il carcere, inteso non solo come periodo di internamento, ma come percorso complessivo che inizia dalla condizione di sospetto, prosegue attraverso il processo profili e finisce con la fine della pena, o con l’uccisione.” Nel periodo in cui Sacco e Vanzetti furono condannati le carceri americane erano piene di italiani e, ai loro danni, si registra una percentuale altissima di esecuzioni capitali. Nel solo 1912, Piero ci riferisce citando due saggi di Scott Christianson docente universitario a New York, “su un totale di 15 esecuzioni, 10 furono quelle eseguite su italiani. E questo a fronte di una popolazione di italiani che in tutti gli Stati Uniti contava, all’epoca, poco più di 800.000 persone”. Per questi aspetti il racconto non può non riportare l’attenzione, come Piero fa, a quello che accadde oggi, alle condanne in America, ora ai danni di nuovi facili bersagli, ma anche alle condizioni degli immigrati in Italia, alla vulnerabilità e al rischio di subire più di altri il perverso meccanismo del sistema penale: “Negli Stati Uniti di oggi, le condanne, le carcerazioni e le esecuzioni riguardano principalmente bianchi poveri, neri e persone di recente immigrazione oltre che, recentemente, musulmani, perché in tutti i suoi tribunali sono ancora in funzione gli stessi meccanismi. E ciò avviene anche in Italia, aggiungiamo noi, ricordando ancora il rapporto di Antigone – senza, fortunatamente, l’orrore della condanna a morte”. Mi preme sottolineare che, anche sul tema delle carceri, Piero non era solo un teorico, al contrario, l’analisi gli serviva per tuffarsi nella pratica con più vigore, nello sforzo costante della relazione umana, dei passi fatti dalle persone in carne ed ossa, con il contatto reale a partire dall’accettazione e dalla pulizia da idee pregiudiziali. E tanto è stato il suo lavoro pratico anche in questo luogo si segregazione. Per tornare alla mail che Piero mi ha spedito in privato, a marzo di quest’anno, voglio regalare ai lettori di questo libro l’ultima frase di sintesi. L’ho fissa in mente, è molto dura ma molto efficace e riassume quello che Piero ci ha sempre invitato a fare: “Poche chiacchiere e poche teorie: la merda puzza e chiunque ci caschi dentro, se non gli si da una mano, affoga: ecco qual è sempre stato per me il motto con cui ho visto l’attività di OsservAzione”. 5. porta universo N on si apre nessuna porta finché non si scoprono quelle attraverso cui ognuno di noi è collegato al resto del creato. La “conversione ecologica” analizzata e vissuta da Alex Langer, come le “compresenze di morti e viventi” di Aldo Capitini sono lontane da divenire esperienza di massa, ma se è possibile sperimentarne qualche fugace segmento, a noi è sembrato di esserci riusciti in alcuni momenti di questa settima edizione del Mito del Mammut. Le creazioni matematiche e Eduardo De Filippo ci hanno addirittura permesso un viaggio oltre i confini della terra. Tenendo ancora una volta insieme scuola e natura, grazie anche ai ricordi di piante delle madri e a un maestro artigiano. un museo dei bambini a scampia di Riccardo Dalisi 158 V enti bambini completamente ipnotizzati attorno a un tavolo a guardare un signore dai capelli bianchi con berretto e cappotto che fa schizzi e macchie di colore, ritagli e collage. Il signore non dice una parola, fa solo gesti, consegna sorrisi assieme a fogli e matite, e i bimbi cominciano a disegnare anche loro, contagiati dal tratto di quel signore che sembra riversarsi sui loro fogli. Tutto senza una parola. Nella nostra officina Mammut di maestri ne sono passati tanti, ma questa forse è la prima volta che la comunicazione con i bambini non si è servita nemmeno di una parola. È stato così che Riccardo Dalisi, artista, docente universitario e designer ci ha stupito per davvero. Per oltre due anni ci ha accompagnato con la sua arte generosa e gratuita in molti dei percorsi con bambini e ragazzi, donandoci opere e insegnamenti. È stato suo l’input dato alle maestre partecipanti al Mito del Mammut – VII edizione sui disegni necessari a realizzare l’opera collettiva “Porta Universo”. E sempre con lui abbiamo tentato nel giugno 2014 di lanciare l’idea di un Museo del bambino in una delle Vele di Scampia, assieme alle altre associazioni del Comitato spazio Pubblico. Quelle che pubblichiamo di seguito sono le parole che Riccardo scrisse per accompagnare quella giornata. U n museo dei bambini è una sfida per l’adulto in quanto mette in campo temi che riguardano la logica della poesia da una parte e la logica del razionale dall’altra. Questo conflitto, del resto, vive solo nell’adulto. E il museo del bambini vuole mostrare anche questo aspetto. Durante un incontro a Scampia sono stato sfidato nel disegno dai bambini. Ho mostrato come disegnavo i cavalli e subito si sono messi all’opera. I loro cavalli sono belli e affascinanti, assorbono in sé l’immagine dei cavalli preistorici rupestri e quelli di qualche artista del ‘900. Forse più belli, formidabili, curiosi, assurdi. Mostreremo i loro e i miei cavalli insieme. Mostreremo anche altri disegni di artisti “adulti” in cerca dello spirito infantile che permane in tutti noi, così come si tentò di fare negli anni ’70 con la Global Tools, una contro-scuola-laboratorio in cui il movimento radicale italiano cercò di convogliare una visione diversa e più libera della ricerca sull’espressione grafico-pittorica. Con l’esposizione dei risultati progressivi dei laboratori a cui daremo vita, il museo vuole porre sul tappeto il grande tema pedagogico del rapporto con i piccoli affrontando con loro temi non consueti come, ad esempio, il design. Mi piace ricordare la sediolina per un cece che disegnò una bambina al Rione Traiano negli anni ’70 e che fu ridisegnata da Andy Warhol, Joseph Beuys, Ettore Sottssas, Enzo Mari, Alessandro Mendini, Umberto Eco e altri. Vien su l’idea di una sorta di Bauhaus dei bambini e questo per la molteplicità e la qualità delle iniziative da mettere insieme in un unico obbiettivo fondatore. Un nuovo modo di intendere il lavorare creativamente con l’infanzia aprendone, come è da fare, ancor più il ventaglio di prospettive, lasciandosi guidare da loro, dalla loro piena disponibilità e ispirandoci anche alle loro naturali attitudini, all’innata spinta a sperimentarsi nel mondo, a modellarlo entro il bisogno di immaginazione che si incontra specularmente col bisogno del mondo di un contributo di fiabesca qualità della vita. I bambini possono aiutarci a riscoprire il valore del magico, della fiaba in tutto ciò di cui giornalmente ci alimentiamo. Quel valore magico è stato messo troppo sistematicamente da parte dalla moderna idealità razionale, dal dominio della pura logica ed oggi dalle funzioni e dalla illusorietà del virtuale dominante, a sua volta dominato dall’economia di mercato. Ci si potrà così rincontrare, rivalorizzandolo, con il mondo infantile messo troppo spesso a parcheggio davanti alla televisione. Rincontrarlo quindi sul piano creativo. E, d’altro canto, da tante parti si avverte il bisogno di legare bellezza e giustizia, il mondo emozionale e quello razionale. Se ne sente il bisogno culturale e operativo. Disgiungere l’“educazione alla giustizia” dal sentire, dalle emozioni e dalla loro espressione, isolare e circoscrivere i mondi in cui il bambino vive è a nostro parere un errore. Come dice il filosofo James Hillman nel libro La giustizia di Afrodite, l’amore e la bellezza sono indissolubilmente legati alla giustizia. Universi 159 giocare con i numeri di Marisa Damiano, maestra della scuola “Eugenio Montale” L Tre 160 avorare, o meglio, insegnare a Scampia è difficile sia perché qui i bambini si sentono “diversi”, meno “importanti”, sia perché il background socio-culturale è mediamente piuttosto ostico. Bisogna insegnare ai bambini prima di tutto ad aver fiducia in se stessi, incoraggiandoli costantemente, perché crescono nella convinzione di essere inferiori ai bambini di Napoli. Ma Scampia è un quartiere di Napoli! I mass media e gli stessi napoletani etichettano questo quartiere facendolo apparire agli occhi di tutti un mondo a parte, una parte della città da cui stare lontano e i bambini che abitano qui si confrontano quotidianamente con l’altra faccia della medaglia “dell’Oro di Napoli” introiettando la sensazione di vivere nel Bronx. In questo contesto, la scuola può diventare un laboratorio in cui sperimentare una rappresentazione della città e delle differenze che l’attraversano opposta a quella maggioritaria. Una rappresentazione che parte proprio dai bambini. In classe penso di poter dire che ognuno ha trovato il modo di esprimere le sue potenzialità e integrarle con quelle degli altri in modo da sviluppare anche un senso d’interdipendenza e d i appartenenza al gruppo. È importante che ognuno abbia la possibilità di esprimere ed affermare la propria originalità e creatività facendo in modo che le differenze siano vissute come complementari e non come inconciliabili. Il livello culturale delle famiglie è abbastanza omogeneo (fatto salvo per quello di due o tre bimbi che brillano per intelligenza e per propensione all’astrazione) e si riflette sia nel lessico che nei comportamenti iniziali dei piccoli; ma questi ultimi, avendo ormai cambiato il loro approccio nei confronti degli “altri”, hanno sapientemente guidato i genitori verso la loro visione ottimistica ed altruistica del mondo. I genitori hanno imparato a essere più fiduciosi e si lasciano consigliare da me poiché hanno capito che non sono qui per giudicare ma per insegnare ai loro figli non solo la storia, la geografia o l’italiano ma soprattutto ad avere stima in se stessi, a crescere con la consapevolezza di poter fare qualsiasi cosa, a non lasciarsi influenzare dei luoghi comuni, a considerarsi parte del mondo. Un mondo tutt’altro che perfetto, ma non solo al sud, non solo a Napoli e soprattutto non solo a Scampia. La dinamica di gruppo è fondamentale al fine dell’apprendimento, senza la creazione di una relazione di classe positiva si rivela inutile ogni tentativo. Inizialmente l’approccio dei bambini alle varie materie è spesso caratterizzato da un fondo di paura: paura di non farcela, di non essere all’altezza, di sbagliare. Pian piano però capiscono che l’errore aiuta a crescere e che tutti possiamo farcela se aggiungiamo alla ricetta determinazione, metodo e forza di volontà; se poi ci lasciamo aiutare dai compagni e dall’insegnante è ancora più facile. Per incoraggiarli e far sentire loro il mio supporto ho appeso, alla parete, una scritta creata con il loro aiuto che dice: “Siete bravi, non abbiate paura”. La matematica è stata quest’anno l’ostacolo più ostico: non solo non ne capivano l’utilità, ma ne provavano in un certo senso timore. La domanda comune era: “Maestra, ma a che ci serve?”. La mia risposta è sempre stata: “La matematica è vita! La usate quotidianamente, anche quando non ve ne accorgete”. La matematica non è fatta solo di numeri, problemi, formule, operazioni, ma è logica, razionalità, è l’uso potenziato delle facoltà della mente per risolvere i piccoli e i grandi problemi di tutti i giorni. Partendo dal presupposto dell’applicabilità della matematica nel quotidiano abbiamo svolto attività che potessero “avvicinare” i bambini ai concetti matematici più difficili. La visione di alcune parti della commedia Non ti pago di Eduardo De Filippo, dove i numeri sono al centro della storia (che prende le mosse da una vincita al lotto, gioco popolare inventato dai Borboni e caro ai napoletani che a tutt’oggi amano interrogare la smorfia per interpretare sogni ed eventi), ha fatto in modo che ai bambini fosse più chiara la funzione ludica dei numeri, e quindi della matematica. Il numero come espressione di concetti astratti ma anche espressione artistica: i bambini si sono divertiti a disegnare e colorare un numero a loro scelta che per loro significasse qualcosa o descrivesse qualcosa di familiare. Qualcuno ha disegnato un 5 dicendo che gli ricordava il naso, la bocca ed il mento di un parente, altri hanno aggiunto connotati umani al panciuto signor 8 e cosi via. È stato bello osservarli mentre utilizzando la loro fantasia e creatività inventavano, tutti insieme, buffe storie sui numeri che prendevano vita diventando, a loro discrezione, dispettosi, simpatici o nervosi. Per comprendere praticamente come i numeri potessero diventare gioco, abbiamo giocato con le tipiche carte napoletane. Un gioco apparentemente semplicissimo come “l’asso piglia tutto”, risulta invece un potenziale contenitore di ragionamenti logico-matematici. Poter vincere attraverso nozioni scolastiche (in questo contesto matematiche) stimola poi ulteriormente i bambini all’apprendimento, oltre a sviluppare in loro una sana competizione. Attraverso il gioco i piccoli apprendono anche il rispetto delle regole, del sapersi comportare e relazionare con gli altri bambini, siano essi compagni di squadra o momentanei avversari, capendo in questo modo che non importa di quale squadra si faccia parte: la “sfida” inizia e finisce con il gioco Universi 161 e dopo si torna tutti amici. Sono questi argomenti che mi stanno particolarmente a cuore visto il quartiere in cui i miei alunni crescono e vivono. Tre Insomma ho cercato di dar vita a un insegnamento quotidiano della matematica basato sul divertimento. Naturalmente la scuola non può e non deve diventare una ludoteca, ma può sempre insegnare divertendo ed è questo che ho cercato di fare: insegnare con il sorriso, con la praticità e con il gioco, perché credo fortemente che sia dal gioco, dall’uso delle mani e dal sorriso che il bambino apprenderà veramente. Ho intrapreso, e continuo, questo tipo di insegnamento anche grazie al supporto del Mammut, dove i bambini si trovano in ambienti più familiari e dove possono dare piena libertà alla loro fantasia giocando con i numeri, ma soprattutto diventando in prima persona parte attiva del gioco. Gli incontri al Mammut sono infatti percepiti dagli alunni come momenti ludici che “nascondono” un apprendimento vero e pratico, che per tale motivo resterà, io penso, impresso a lungo nelle mani e nella mente dei bambini. Incremento episodi in cui le insegnanti fruiscono del patrimonio di altre scuole/ classi. Numero episodi in cui le insegnanti percepiscono un minor isolamento rispetto alla scuola e alle colleghe (anche di altre scuole) Aumento del nr. di bambini che esprimono “amore” per la matematica Riduzione percentuale di fattori e sintomi di malessere psico-fisico legati alla presenza a scuola (alunne e alunni) La maestra si sente meno isolata, dichiarando di vedere migliorata la relazione e l’intesa con le altre insegnanti. -maggiore confidenza degli alunni nei confronti dei numeri; - i bambini legano i numeri a portati affettivi e immaginativi; - chiedono alla maestra più compiti di matematica rispetto a quelli assegnati; - la maestra usa molti degli strumenti suggeriti durante il percorso Mammut anche durante le normali giornate a scuola. - i bambini esprimono benessere durante le ore di matematica - molti dei comportamenti più esuberanti e divergenti hanno trovato adeguata canalizzazione anche grazie al sistema narrativo e di creazione matematica avviati nel percorso col Centro Mammut. griglia indicatori 5° circolo didattico “eugenio montale” classe: II B servizio prescelto: giardinetto davanti al cancello della scuola Insegnante: Marisa Damiano tutti in cerchio di Rossana Sanges, maestra della scuola “Eugenio Montale” Sull’Isola dei bambini, anche se si trova sotto l’Orsa Maggiore, splende sempre la Croce del Sud. Fabrizia Ramondino L’isola dei bambini Tre 164 L a mia ombra misura sette piedi di Samuele – dice Ciro ad alta voce, così da consentire a Giovanni di registrare la misurazione effettuata. Altre voci si sentono per registrare la – misura delle ombre. È un mercoledì di novembre quando nella piazza Giovanni Paolo II, che io amo chiamare ancora “Piazza dei quattro venti”, viene effettuata la misurazione delle ombre. Gli alunni si dispongono a coppie di due e, con minuzia e precisione, piede dopo piede, attenti a non sbagliare e ripetendo più volte per essere precisi, misurano l’ombra che il sole traccia sul selciato. Sembra un gioco e nel vederli così impegnati le poche persone che passano di lì, sorridono, forse ricordando quando anche loro andavano a scuola. È ancora una piazza non molto frequentata, ma ci sono voluti anni e molto impegno perché la si sentisse un luogo di incontro. E naturalmente i bambini sono quelli che ci riescono meglio. Hanno fatto talmente tante esperienze in questi due anni nella piazza e nel centro del Mammut, che portano con loro non pochi ricordi. La voce di Mattia è lontana ma chiara - Maestra il sole si muove! – No, Mattia, il Sole non si muove, sei tu che non stai fermo un attimo! Anche per me le esperienze che facciamo insieme nascono come un gioco, ma poi mi accorgo di quanto sono importanti per tutti noi, anche per gli educatori mammuttiani. Così ricordandomi del saluto al sole, che spesso facevo quando ero più giovane, propongo loro di fermarsi per mettersi in cerchio. Nella grande Piazza il cerchio disegna tutte le nostre ombre che si sovrappongono e che si sfiorano sinuose. Ricordo ai bambini che abbiamo studiato già che non è il sole a muoversi ma è la terra che gira intorno al sole e inizio a raccontare di quando Nonno Sole si è incontrato con nonna Luna e hanno dato vita a Padre Cielo e Madre Terra. È un racconto affascinante tratto dalla mitologia degli Amerindiani. Il racconto mitologico serve per evocare interesse, per trasportare i bambini in un passato lontano e immaginifico, ma pieno di verità. Poi chiedo loro di staccare le mani dal cerchio e di disporsi con il viso verso il sole che campeggia caldo e riscalda la fredda mattinata. Sono le 11 e i bambini si muovono al comando delle mie parole con semplicità e senza incertezze, come se avessero fatto già mille volte questo esercizio e invece, è la prima volta ed è un attimo che dura ore… Vederli impegnati, divertiti, felici, contenti di aver trascorso una giornata diversa fuori dalle pareti scolastiche non solo mi rende soddisfatta, ma anche consapevole che se non si parte dalle esperienze di vita l’apprendimento non ha valore, è asettico, nozionistico. Abbiamo lavorato per molte settimane su questa esperienza, scrivendo e descrivendo, contando e misurando, cantando e conversando e i giorni freddi di novembre non ci sono sembrati tristi, perché ogni giorno il sole, che aveva riscaldato i nostri cuori nella piazza quella mattina, riscaldava le nostre anime comunitarie e ci infondeva l’energia necessaria per imparare da noi stessi le cose della vita. Gli amici del Mammut mi hanno insegnato a essere una migliore educatrice, a scoprire che senza entusiasmo per ciò che si fa, senza amore per questa professione non è possibile trasferire ai bambini che proprio questa è la carta vincente per vivere la vita comune. Tonino con le sue storie mitologiche, Alessandra con i suoi riti sugli elementi, e Giovanni mago incantatore fanno alta educazione e donano a tutti con sorrisi e divertimenti i migliori metodi per apprendere la vita. Le evocazioni di ciò che si è ascoltato interagiscono con l’esperienza di quello che si è fisicamente vissuto, mettendo insieme ascolto e azione, “azionando l’ascolto” che, pur essendo perché esperienza di chi racconta, viene elaborato creativamente attraverso “il fare”. Il dialogo che si crea dentro ogni individuo attraverso i principi dell’ascolto attivo di Rogers e Gordon, attiva la presa di coscienza del proprio stile di apprendimento, delle proprie capacità e della naturale attenzione verso il gruppo, visto che tutti i componenti partecipano alle attività. I luoghi dell’apprendimento diventano vari: aula ma anche strada, piazza, come naturalmente avviene nel corso della nostra vita e infine i tempi non sono compressi come quelli scolastici, ormai ridotti al lumicino. Ma si attivano anche durante le ore che non si trascorrono nell’edificio scolastico. Tutto questo non viene dall’improvvisazione di alcuni giovani educatori, né dalle nostre esclusive creatività. È immerso nelle esperienze di grandi pedagogisti, donne e uomini che hanno creduto nel potere dell’educazione, in una scuola di esperienze educative che a Napoli non ha eguali, che viene da lontano e che nel nome di Fabrizia Ramondino o Felice Pignataro si ritrova insieme in un mutuo-aiuto di kropotkiniana memoria. Universi 165 Aumento numero di alunni e alunne che migliorano le competenze/conoscenze, in particolare rispetto ad astronomia ed ecologia; maggiore interesse verso geometria, equilibrio e fisica (del suono ma non solo) Riduzione percentuale di fattori e sintomi di malessere psico-fisico legati alla presenza a scuola (alunne e alunni) I bambini e le bambine hanno dimostrato maggiore dimestichezza e familiarità con la scrittura e la teatralizzazione di storie; hanno dimostrato di aver interiorizzato elementi di ecologia e astronomia, riportando molti episodi in cui questi elementi ritornavano anche nella vita extrascòlastica (es. in vacanza). Alunno Y: considerato Bes (Bisogni educativi speciali), è migliorato tanto rispetto al rendimento scolastico quanto alle problematiche sociali e comportamentali registrate a inizio percorso. Oltre alla partecipazione anche ai laboratori pomeridiani presso il Centro Mammut, al miglioramento ha contribuito il percorso di cura medica che sua madre ha potuto esperire grazie all’ambulatorio di medicina integrata gratuito tenuto dal dottor Vincenzo Esposito presso il centro Mammut stesso. Esempio di regia educativa da parte dell’équipe di lavoro, che ha tenuto dentro ciascuno degli attori in causa: alunno, insegnante, genitore e medico. Nello scarabocchio musicale i bambini ricordavano le differenze tra suoni acuti e alti e riuscivano a compiere collegamenti rilevanti senza difficoltà tra suono e colore. In quell’occasione abbiamo potuto verificare sensibili progressi sulla percezione del suono e della luce come onde. La maestra lavora sui punti di forza degli alunni e delle alunne, questo dà loro forza e fiducia in se stessi, cosa che risulta nelle dinamiche di gruppo e individualmente nel rapporto con la scuola e la maestra (rapporto empowerment/ rendimento). griglia indicatori 5° circolo didattico “eugenio montale”, classe: III B servizio prescelto: giardinetto davanti alla scuola insegnante: Rossana Sanges la mia esperienza di Carmela De Lucia, maestra della scuola “J.F. Kennedy” Uno dei compiti dell’educazione è quello di aiutare a trasformare un’interdipendenza di fatto in una solidarietà in cui si entri liberamente. A tale scopo, essa deve mettere in grado di capire se stessi e di capire gli altri attraverso una migliore comprensione del mondo. Episodi in cui a scuola si rilevano i principali elementi caratterizzanti la scuola attiva • Cooperazione con la maestra De Lucia, con l’insegnante Accardo • Utilizzo di Miti e storie, cerchio, valutazione “salutare”, lo sfondo integratore centrato sul tema della Porta, lavoro sugli indiani d’America: lavoro didattico che ha tenuto insieme le diverse dimensione della persona (cognitiva, corporea, affettiva). Numero di genitori che percepiscono la scuola in un modo diverso dallo standard Lavoro di cura rispetto alla triangolazione scuolafamiglia-territorio (non ultima la giornata di restituzione collettiva dove sono intervenute anche le mamme). Mamme, papà e nonne partecipano alla progettazione dello spazio da trasformare nell’ambito de “Il Mito del Mammut”. Jacques Delors, Nell’educazione un tesoro M i chiamo Carmela De Lucia, sono una docente di scuola primaria e insegno in una realtà, Scampia, che nell’accezione comune è considerata “a rischio”, “difficile”. Non voglio tediarvi con la lista dei luoghi comuni su questo quartiere, ma anzi posso affermare, alla luce del mio percorso, che si può fare scuola a Scampia e che forse è bene sfatare qualche mito su questo territorio, se si ha rispetto dell’altro, chiunque esso sia, e della sua cultura di appartenenza. Il rispetto del sapere popolare allora richiama al rispetto del tessuto culturale. Il contesto locale degli educandi è il punto di partenza per capire come essi stanno costruendo il loro mondo. Il loro mondo “in ultima analisi è la prima inevitabile miniatura del mondo stesso” (Paulo Freire, Pedagogia della speranza, EGA 2008). La ricerca-azione alla quale ho partecipato e che mi ha permesso di sperimentare una collaborazione fattiva sia con il Centro territoriale Mammut, sia con altri insegnanti ha dato alla mia quotidianità di docente supporto e inventiva, riuscendo a smuovere quei freni e quei blocchi che spesso accompagnano chi fa il mio mestiere. Le domande di partenza sono state: la scuola può generare benessere? Può essere una palestra di creatività e di salute mentale e fisica? Insieme ad alcuni amici ho provato ad andare in questa direzione e posso affermare che ciò è possibile. E provo a spiegarvi perché. Sono un’insegnante “prevalente” di una terza elementare, composta da 18 alunni, di cui uno con certificazione di Disturbo specifico dell’apprendimento, l’unico che ancora presenta difficoltà nella lettura e nella scrittura autonoma. Sin dal primo incontro ho cercato di instaurare un rapporto fattivo e diretto con i genitori dei miei alunni, ho chiesto la loro collaborazione, che è risultata fondamentale per lo svolgimento della ricerca, che partendo da un’ipotesi generale, il rapporto tra didattica e benessere psico-fisico, si è snodata in diverse tematiche, affrontate dai vari componenti del gruppo di ricerca. Universi 167 Tre 168 In particolare abbiamo deciso di vagliare questa ipotesi: può uno spazio aiuola diventare una porta tra comunità interne ed esterne alla scuola, facendosi specchio del cielo e dei suoi mutamenti? (L’aiuola a cui mi riferisco è quello spazio nel cortile interno della scuola che abbiamo deciso di migliorare nell’ambito della sperimentazione giocosa e didattica denominata Il Mito del Mammut.) Il cielo, la scuola, i mutamenti, lo spazio… tutte parole che all’inizio mi sono sembrate sconnesse, ma soprattutto “fuorvianti” e lontane dalla mia programmazione, i miei obiettivi specifici, lo sviluppo delle competenze dei miei alunni. Questa confusione è durata solo un po’, perché quotidianamente ho iniziato a cogliere le connessioni e ho capito che il “fare scuola” si snoda in piccoli passi e piccoli “tentativi”, che dovevo demolire consuetudini e abitudini sbagliate e aprirmi allo spazio esterno, sia mentalmente che fisicamente, collaborando con le realtà territoriali presenti nel quartiere. Abbiamo iniziato prima a stravolgere lo spazio fisico dell’aula, la cattedra al muro, i banchi uniti per formare un unico tavolo di lavoro, la flessibilità dei posti e dei compagni, la complicità delle scelte… e tutto questo ci ha portati a sentirci un gruppo che quotidianamente e democraticamente prendeva decisioni su comportamenti e attività. Poi siamo diventati vagabondi: l’aula non era più uno spazio chiuso, ma una realtà che si materializzava ogni qualvolta si presentava una situazione di apprendimento, ovvero aula-giardino, aula-cortile, aula-piazza, aula-porta della città, aula-centro territoriale e via di seguito. Come afferma Ivan Illich, “è fuori della scuola che ognuno impara a vivere. Si impara a parlare, a pensare, ad amare, a sentire, a giocare, a bestemmiare, a far politica e a lavorare, senza l’intervento di un insegnante.” I miei alunni hanno sperimentato attività manuali, quale il giardinaggio, la costruzione di mattonelle, la realizzazione di un calendario murale coinvolgente ed evocativo di emozioni ed esperienze, passeggiate nei mercatini stranieri della città, momenti di gioco, momenti di osservazioni e riflessioni. In questo anno di ricerca-azione con il Mammut, ci sono stati dei percorsi bellissimi e intensi come: la visita guidata ad alcune piazze della nostra città sotto la guida degli alunni della scuola serale di Yasmine; il “momento del fare” condotto da Alberto che ci ha aiutato a comporre un mosaico su una parete della nostra aiuola, le varie osservazioni-rilevazione del tempo e del cielo, i bellissimi racconti delle mamme sui ricordi della loro infanzia, il momento corale della rappresentazione del mito di Proserpina, i cerchi fatti alla fine di ogni giornata laboratoriale. Non sono mancati i momenti di condivisione e di sintesi con gli operatori del Mammut, il confronto e le interviste di Alessandra, le riprese di Claudia, le drammatizzazioni di Tonino, la disponibilità di Chiara ed Alessandra e l’atteggiamento non giudicante di Giovanni e la sua maestria nel condurre il gruppo sia come maestro che come giullare e tanti altri. Tutte queste attività hanno dato mordente al mio lavoro didattico e mi hanno consentito di osservare i miei bambini in attività che se svolte tradizionalmente non mi avrebbero permesso di cogliere certe sfumature di sensazioni, sentimenti e percezioni. I ritmi della scuola lasciano spesso poco spazio alla riflessione, alla visione multi speculare di chi ti è di fronte e dei suoi reali bisogni. Non vorrei peccare di presunzione, ma anch’io mi sono vista sotto una luce diversa, quella dello sguardo assorto e interessato dei miei alunni, che si perdevano nei miei racconti e nelle mie lezioni. Sì, lezioni perché questi momenti sono risultati molto vantaggiosi nelle attività “curriculari” dove l’apprendimento veniva richiamato al suo ruolo istituzionale, ma sempre scevro da dogmatismi e categorizzazioni. Infatti ci siamo sentiti in salute, abbiamo avvertito il benessere, del fare e del pensare, lo star bene nel gruppo e fuori dal gruppo, e anche quei compiti istituzionali sono risultati meno banali e più proficui. Le relazioni all’interno della classe sono state e sono in crescendo, in modo particolare un bambino che mi chiedeva aiuto e comprensione attraverso atteggiamenti di aggressività di ritrosia, ha modificato il suo comportamento. Oggi è meno aggressivo, sopporta le frustrazioni e dopo un rimprovero accetta il confronto e il punto di vista dell’altro, ma ciò che è evidente sorride e “sta bene” a scuola. I genitori, poi, hanno accompagnato sia fisicamente che moralmente questa nostra esperienza, si sono dati da fare per essere al nostro fianco, hanno collaborato alla stesura dei cartelloni, sono venuti al centro e hanno raccontato le loro storie, le loro emozioni. La pedagogia è scesa dalla cattedra, ha preso sembianze umane, come in un mito greco tutto si è umanizzato dando spazio al fare, al vedere, al sentire, al capire. Ma soprattutto al cambiamento creativo e alla costruzione di un percorso verso l’acquisizione del pensiero divergente, del pensiero creativo, del benessere fisico e mentale di tutti gli attori in gioco. Universi 169 Numero di episodi in cui i genitori riconoscono che la scuola non serve solo ad insegnare/ apprendere a leggere a scrivere Miglioramento prestazioni scolastiche/ episodi in cui si rileva un incremento del benessere a scuola • Maggiore fiducia accordata alla maestra da parte delle mamme, rispetto al suo non utilizzo del voto e a molte altre sue. Nelle giornate di verifica, i bambini dimostravano di aver interiorizzato elementi di ecologia e astronomia, riportando molti episodi in cui questi elementi ritornavano anche nella vita extrascòlastica (es. durante le vacanza). • Maggiore partecipazione alle azioni collettive delle mamme (condivisione delle azioni rientranti ne “Il Mito del Mammut”, cartelloni da loro realizzati in cui si narra del mito di Proserpina, partecipazione al laboratorio al Centro Mammut). • L’insegnante dà appuntamento alle mamme nello spazio aiuola per eventuali comunicazioni. La bambina Y, disgrafica, migliora anche grazie al lavoro svolto nei pomeriggi al Mammut. Ciò le conferisce maggior autostima. Momenti di osservazione dello spazio esterno e riflessione critica. griglia indicatori i.c. “j. f. kennedy”, classe II E luogo prescelto: aiuola nel cortile della scuola docente: Carmela De Lucia Incremento episodi in cui le insegnanti fruiscono del patrimonio di altre scuole/ classi. N° episodi in cui le insegnanti percepiscono un minor isolamento rispetto alla scuola e alle colleghe (anche di altre scuole) Riduzione percentuale di fattori e sintomi di malessere psico-fisico legati alla presenza a scuola (maestra) Riduzione percentuale di fattori e sintomi di malessere psico-fisico legati alla presenza a scuola (alunne e alunni) • utilizzo dell’aula diffusa al Centro Mammut come nello spazio aiuola durante il laboratorio condotto da Alberto Ippolito a maggio 2014 dove si è ragionato su: cemento – usi e composizione, che vuol dire? realizzazione di mattonelle e abbellimenti da esterno; • cooperazione con le maestre Gambocci e Sanges, con l’insegnante Accardo; • utilizzo di Miti e storie, elementi di filosofia per bambini; • diario quotidiano sul come ci si sente e si sta a scuola. La maestra prova maggiore autostima, si sente più sicura e meno isolata rispetto al contesto sia scolastico che relazionale e professionale L’alunno X a inizio percorso era molto irrequieto e sembrava molto spesso “irraggiungibile”, ma soprattutto chiuso nella roccaforte delle sue convinzioni e di atteggiamenti aggressivi. A fine percorso è cambiato positivamente il suo rapporto con il gruppo classe e con gli adulti, si è aperto al dialogo, si distrae meno, è più concentrato nelle prestazioni; con i compagni è diventato collaborativo, e non ama più prendersi gioco dei più deboli. Il suo rendimento scolastico è migliorato. Oggi è meno aggressivo, sopporta le frustrazioni e dopo un rimprovero accetta il confronto e il punto di vista dell’altro, ma ciò che è evidente sorride e “sta bene” a scuola. L’insegnante dichiara che il benessere che prova nello stare in quella scuola, con la sua classe, è trasferito nella pratica didattica, restituendo motivazione, interesse e partecipazione. Il clima relazionale è diventato positivo. I bambini accettano i compiti e sono diventati più critici nei confronti di episodi di disturbo del percorso apprenditivo. Di conseguenza la docente riceve da loro continue conforme rispetto al fatto che il suo fare scuola li coinvolge e che non è semplice trasmissione di saperi, ma un dare e un avere continuo, dove molto spesso il piano di scambio è interconnesso e gli oggetti non sono le competenze ma le conoscenze, viste come chiavi di osservazione dello spazio-realtà e dello spazio del vissuto quotidiano e di esplicitazioni di emozioni, di sentimenti e di riflessioni. In generale il gruppo classe ha potenziato “qualità della presenza e frequenza scolastica”, aumentando il grado di benessere collettivo: non c’è rivalità finalizzata a se stessa, ma solo voglia di emergere per far sentire la propria voce e partecipare al processo di crescita, che non è mai del singolo ma di tutti. La classe si è compattata, il tono è sempre fondato sul “cogito”, sulla continua valutazione, rivalutazione e riflessione sulla strada che si sta percorrendo; ogni incrocio diventa un ventaglio di possibilità, un avvistamento di nuovi orizzonti e di rinnovate visioni. Spesso ci si confronta solo per capire se si è sulla strada giusta, se quello che si fa va bene ed è stimolante. indicatore extra È l’ultima giornata di questo ciclo al Mammut e mentre i bambini stanno disegnando pezzi della propria storia facciamo quattro chiacchiere con la maestra Marisa. Tre – Ma insomma Marisa, tutto questo lavoro ti è servito a qualcosa? – Sono dei mostri!!! Non vedi? Quanto fa 24 x 4? Subito una voce: 96! – Vedi? Ti premetto che in questa zona sono in genere bravi con la matematica. E io in matematica me la cavo piuttosto bene. Ma quello che è successo con loro è che affrontano la matematica con gioia. Senza paure e con gioia. Negli altri progetti in genere questo scatta per qualcuno e per qualcun altro no. Ma qua invece è qualcosa di comune a tutti. Gli do per compiti tre addizioni e loro dicono: ma così poco?! Ho quattro tirocinanti in questo momento. Loro mi dicono: “Ma come è possibile che questi sono così bravi?!” Anna non sapeva niente di matematica e guarda ora: “com’è la matematica?” chiede ad Anna la maestra Marisa. “Bella!”. Risponde lei pronta. – Visto? Non dicono facile. Dicono bella. incontro lancio de il mito del mammut percorso per ogni scuola ingredienti: proiettore, dvd, fogli, pennarelli, giochi, canti, storia di Alì Babà e i quaranta ladroni programmazione 10.30 - 10.45 giochi e canto 10.45 - 11.10 proiezione del video su Hapy Hour/cerchio presentazione su “cos’è Il Mito del Mammut”? • cerchio: inchiesta territoriale su spazi e servizi pubblici da trasformare 11.10 - 11.30 biglietto/racconto autobiografico: un momento in cui sono stato bene o male a scuola. I partecipanti devono disegnare e scrivere un aneddoto su foglietto, avranno così il biglietto per partecipare al racconto teatrale che segue. 11.30 - 12,00 • racconto teatrale Alì Babà e i quaranta ladroni • consegna: disegna una porta che vorresti aprire + parola magica per aprire questa porta 12,00 - 12,30 • cerchio chiusura con gioco, canto, ballo e parola magica del disegno indicatori • Raffronto biglietti “sto bene sto male” • Numero e qualità dei partecipanti • Mutamento di spazi e servizi Carmela De Lucia – I. C. 58° “J. F. Kennedy” scheda: scuole al mammut sede: mammut tappa 1: 19 Marzo 2014 Nr. insegnati: 1 Nr. partecipanti: 18 Ingredienti: giochi di presentazione; Mito di Proserpina; tempere, fogli e pennelli; pennarelli. Struttura laboratorio: 9,00-9,40 Accoglienza: cartellone, giochi, canti e balli; 9,40 - 10,00 uscita dal centro Mammut e misurazione dell’ombra; 10,00 - 10,20 rientro, confronto tra la misurazione dell’ombra e l’ipotesi su come cambierà nel prossimo incontro 10,20 - 10,45 merenda e gioco libero nella mediateca 10,45-11,00 realizzazione biglietto: racconto su una pianta che ti è rimasta impressa e perché 11,00 - 11,25 racconto del Mito di Proserpina 11,25 - 11,45 cerchio di confronto sul Mito di Proserpina 11,45 - 12,15 disegno della scena che è piaciuta di più 12.15 - 12,30 saluti tappa: 26 Marzo Nr. insegnati: 1 Nr. partecipanti: 18 ingredienti: giochi all’aperto; creta; pittura; pennelli 9,00 - 9,25 Accoglienza e giochi 9,25 - 9,55 Misurazione ombra e discussione su come e perché sia variata 9,55 - 10,20 Merenda e gioco libero 10,20 - 11,00 Arrivo delle mamme che raccontano le loro storie legate alle piante 11,00 - 11, 15 Disegno con pittura di una delle scene delle storie delle mamme 11,15 - 11, 35 Gioco libero 11,35 - 12,20 Creazione vasi e mattonelle di creta su cui incidere la scena del disegno fatto la scorsa volta sul Mito di Proserpina 12,20 - 12,30 Che lascio e che porto, saluti tappa: 2 aprile Nr. insegnati: 1 Nr. partecipanti: 18 Ingredienti: giochi di gruppo; giochi all’aperto, pittura vasi 9,00 - 9,40 Accoglienza e giochi 9,40 - 10,15 Misurazione dell’ombra e verifica delle ipotesi/ tesi fatte nel secondo incontro dopo la prima variazione 10,15 – 10,50 Merenda e gioco libero 10,50 – 11,40 Pittura dei vasi e delle mattonelle 11,40 – 12,05 Cerchio sul resoconto del percorso al Mammut 12,05 – 12,15 Che lascio e che porto 12,15 - 12,30 giochi di saluto 28 Maggio. Giornata di condivisione finale Nella giornata di condivisione del percorso Mammut, i bambini hanno recuperato le mattonelle che avevano dipinto e, con l’aiuto di Alberto Ippolito, le hanno attaccate al muro esterno vicino allo spazio aiuola della scuola. Sono poi arrivate le mamme che, insieme ai bambini, hanno affisso sul muro esterno d’ingresso, dei cartelloni realizzati da ciascuna di loro a casa con il proprio figlio o figlia. Ogni cartellone rappresentava una scena della storia che aveva fatto da sfondo integratore al percorso: il Mito di Proserpina. Per fi nire, Tonino ha raccontato a mamme e bambini, seduti sui gradini di uscita della scuola, la storia di Orfeo ed Euridice. Elvira Quagliarella – I.C. ”Virgilio 4” tappa 1: 3 febbraio Nr. insegnati: 1 Nr. partecipanti: 21 Ingredienti: giochi di gruppo; fogli; pennarelli, pittura, pennelli, Mito della Caverna di Platone; teli e ritagli oggetti per ombre cinesi, lampada. 9,00 - 9,30 Accoglienza e gioco 9,30 - 10,00 Merenda e gioco libero 10,00 -10,45 Biglietto su “una porta chiusa che vorrei aprire” 10,45 - 11,05 Racconto “La caverna di Platone” con ombre cinesi 11,05 - 11,25 Cerchio di discussione sulla storia e sul fatto se sia giusto restare “dentro” la caverna con gli amici o uscire fuori lasciandoli 11,25 - 11,55 Disegno con pittura di un momento della storia che gli era piaciuto 11,55 - 12,15 Condivisione dei disegni in cerchio 12,15 - 12,30 Saluti e rito chiusura tappa 2: 10 febbraio Nr. insegnati: 1 Nr. partecipanti: 21 Ingredienti: sacco contenente oggetti, giochi all’aperto, esperimento scientifico (ghiaccio, acqua calda, fi l di ferro) 9,00 - 9,20 Accoglienza e giochi in cerchio 9,20 - 9,45 Gioco tatto e sensazione (toccare qualcosa che c’era in un sacchetto e senza sapere cosa fosse provare a dire colore, a cosa serve e una parole che ti viene in mente) 9,45 - 10,15 Merenda e gioco libero fuori 10,15 – 10,40 Esperimenti su solido liquido e gassoso: ghiaccio, acqua calda, fi l di ferro, fuoco. 10,40 - 10,55 Divisione in 3 gruppi (solidi, liquidi e gassosi) per sfida e giochi a squadre 10,55 - 11,20 Divisione in 3 stanze, ogni gruppo ha la stessa consegna: siete in una stanza, la porta è bloccata, il tetto pian piano si abbassa, fuori dalla porta c’è una persona che può aiutarvi ma non sa che voi siete bloccati dentro e per di più è sordo, cieco e muta. Come far capire a questa persona di aprire le porta e salvarci? (uso degli esperimenti fatti prima o di ipotesi di passaggi di stati) 11,20 - 11,30 Cerchio su soluzioni trovate 11,30 - 12,00 Giochi teatrali 12,00 - 12,20 Condivisione disegni fatti nel primo incontro su storia caverna. Restare o scappare? 12,20 - 12,30 Che lascio e che porto; rito chiusura tappa: 24 febbraio Nr. insegnati: 1 Nr. partecipanti: 21 Ingredienti: giochi a squadra, musica, giochi teatrali 9,00 - 9,30 Accoglienza e giochi fuori dal Mammut a squadre 9,30-10,30 Visualizzazione della propria “caverna”. Il posto buio da dove uscire; chi e cosa vogliono fuori e/o dentro. Sdraiati a terra con musica e poca luce, viene chiesto di immaginarsi nella caverna e cosa loro avrebbero fatto. Dopo la visualizzazione, viene chiesto di dire una parola chiave del “viaggio” che avevano fatto (libertà, morte, paura, buio, nonno, papà, sbarre) 10,30 - 10,50 Disegno della visualizzazione 10,50 - 11,30 Merenda e gioco libero sotto le colonne 11,30 - 11,55 Cerchio su condivisione disegni 11,55 - 12,10 Che porto e che lascio 12,10 - 12,30 Condivisione dell’esperienza e saluti 10 Aprile. Giornata di condivisione finale: tavola rotonda “La porta del carcere” Indicatori: tasso dispersione prima e dopo l’esperienza; benessere degli alunni e delle maestre; sblocco didattico diretto (quello fatto con noi su liquidi solidi ecc.) e indiretto (grazie allo sblocco emotivo conseguente ai laboratori). Miglioramento servizio carcere: rielaborazione individuale e di gruppo delle tematiche interiori relative ai propri familiari detenuti. Rosaria Pica - I.C. 28° “Giovanni xxiii- Aliotta” incontro lancio: Giovedì 7 novembre tappa: 15 gennaio (2 ore) Nr. insegnati: 1 Nr. partecipanti: 20 Ingredienti: giochi teatrali 10,00 - 10,20 Cerchio iniziale su cosa sia il Mammut e sul perché si faccia a scuola e non in sede 10,20 – 10,50 Giochi teatrali di movimento con classe liberata dai banchi 10,50 - 11,05 Cerchio su cosa non dovesse mancare nel mural che avremmo realizzato sulla parete della classe 11,05 – 11,15 Che titolo darebbero a dei libri da disegnare nel mural? 11,15 - 11,45 Gioco su movimento con sedia 11,45 - 12,00 Rito di chiusura tappa: 29 gennaio (2 ore) Nr. insegnati: 1 Nr. partecipanti: 20 Ingredienti: giochi teatrali, fogli e pennarelli 10,00 - 10,30 Giochi movimento/teatrali con classe libera dai banchi 10,30-11,00 Divisione in 3 gruppi e gioco: indovina il codice segreto dell’altra squadra; perché si fermano e partono tutti insieme, qual è il loro codice segreto? 11,00 - 11,30 Teatralizzazione: imitare un personaggio storico/mitologico, studiato o meno, che gli altri gruppi devono indovinare 11,30 – 11,45 Riprendere ciò che desideravano comparisse nel mural e farne una bozza su foglio con pennarelli 11.45 - 12,00 Cerchio su “quale classe aiutiamo? 12,00 - 12.10 Cerchio fi nale e saluto indicatori: Miglioramento aula Miglioramento auto-efficacia per modificazione verificata dell’aula con conseguente maggiore fiducia nel cambiamento possibile Miglioramento didattica e frequenza scolastica Mutamento modo di utilizzare l’aula Rossana Sanges - 5° Circolo Didattico “E. Montale” incontro lancio: giovedì 24 ottobre tappa: 21 novembre Nr. insegnati:1 Nr. partecipanti: 20 Ingredienti: saluto al sole, Mito Orfeo e Euridice, bende, gioco libero, musica, giochi teatrali 9,30 - 10,00 Misurazione ombra e saluto al sole 10,00 - 10,15 Cerchio: se e come cambia l’ombra al prossimo incontro 10,15 - 10, 40 Merenda 10,40 - 11,00 Cerchio: un buio che hanno vissuto, “quella volta che improvvisamente tutto si è fatto buio e…” scritto e disegnato 11,00 - 11,20 Racconto di Orfeo e Euridice 11,20 - 11,35 Corsa bendati e gridare cosa si prova (emozione) 11,35 – 12,10 Gioco libero 12,10 – 12,40 Sperimentazione su suoni acuti e bassi tramite giochi movimento/teatrali 12,40 – 12,55 Rito di chiusura 12,55 - 13,00 Saluti tappa: 27 novembre Nr. insegnati: 1 Nr. partecipanti: 20 Ingredienti: saluto al sole, gioco libero, storia del creatore di colori, giochi teatrali, strumenti per la sperimentare di suoni 9,30 - 10,00 Accoglienza e giochi 10,00 - 10,15 Misurazione ombra e saluto al sole 10,15 - 10,35 Cerchio su variazione dell’ombra e ipotesi del perché sia cambiata 10,35 - 11,00 Gioco libero sotto le colonne 11,00 - 11,15 Merenda 11.15 – 11,30 Cerchio “chi ti salva dal tuo momento di buio” 11,30 – 11,45 Storia del creatore dei colori 11,45 – 12,10 Strumenti per sperimentazione suoni alti e bassi con giochi (bottiglie acqua riempite sempre meno, tappi, corde, latte) stop/ go a secondo dei suoni percepiti 12,10 – 12,35 Colore associato al suono. Bendati sentendo una musica dovevano usare il colore che loro ritenevano più adatto ad un suono basso alto 12,35 – 12,45 Cerchio condivisione disegni usciti 12,45 - 13,00 Rito saluto indicatori: Connessione con Natura in vita di tutti i giorni Acquisizione modalità ragionamento scientifico fi losofico in classe e fuori classe Modificazione stili di vita verso maggiore eco-compatibilità Miglioramento porzioni territorio scelte all’inizio Clementina Gambocci - I.C. Ilaria Alpi tappa 1: 2 dicembre Nr. insegnati: 2 Nr. partecipanti: 23 Ingredienti: pennarelli, fogli, giochi, storia di Dio e Diavolo, tempere, pennelli 9,00 - 9,30 Accoglienza e giochi 9,30 - 9,45 Biglietto per storia 9,45 - 10,20 Merenda e gioco libero 10,20 - 10,35 Storia del dio e diavolo che lo aiutò a creare il mondo 10,35 - 10,50 Cerchio su “voi siete mai stati ingannati?” 10,50 - 11, 20 Gioco libero 11,20 - 11,45 Disegno scena storia e del loro ingannatore 11.45 - 12,00 Rito chiusura tappa 2: 9 dicembre Nr. insegnati: 2 Nr. partecipanti: 23 Ingredienti: storia lupo e luna, pittura, fogli, pennelli, giochi MammutBus 9,00 - 9,30 Accoglienza 9,30 - 10,05 MammutBus per concorso 10,05 - 10,25 “Storia del lupo e la luna” 10,25 - 10,40 Merenda 10,40 – 11,05 Gioco libero 11,05 – 11,25 Disegno “Storia del lupo e la luna” con pittura 11,25 – 11,40 Condivisione disegni 11,40 – 11,50 Che lascio e che porto 11,50 - 12,00 Rito di chiusura tappa: 16 dicembre Nr. insegnati: 2 Nr. partecipanti: 25 Ingredienti: tempere, fogli, pennelli, Dvd Avatar, giochi teatrali 9,00 - 9,30 Accoglienza 9,30 - 9.45 Merenda 9.45 - 10 Caratteristiche specifiche dell’ingannatore disegnate 10,00 - 10.15 Caratteristiche ingannatore teatralizzate 10.15 - 10.50 Gioco libero 10.50 - 11.10 Proiezione scena Avatar 11,10 - 11,30 Discussione su avatar e su rapporto natura/ uomo 11,30 – 11,45 Giochi di movimento su natura 11,45 - 12,00 Rito chiusura e saluti incontri mammutbus il genio eir ascòl concorsi mammutbus • un incontro laboratoriale di 1 ora con tutte le scuole partecipanti al mito, riguardante il concorso “storie di luce attorno al camper” Ingredienti: tempere, pennelli, ortaggi, trucchi di magia, video, telecamera, oggetti travestimento, quadri famosi. partecipanti: 22 insegnanti 1 ingredienti: MammutBus, fogli, musica, pennarelli Tappe: 7 incontri da febbraio a marzo tutti i lunedì dalle ore 15.00 - 18.00 un incontro lancio - un incontro chiusura indicatori: miglioramento stato di benessere psicofisico Frequenza Maggiore dialogo tra rom e napoletani Premiazione MammutBus di 2 h con le classi vincitrici del concorso presso la scuola primaria 5° C.D. “Eugenio Montale”: classe II A e III B scuola “Eugenio Montale” n. 38 bambini/e + 2 maestre; I.C. 28° “Giovanni xxiii-Aliotta” n. 2 bambini + 1 maestra; V B elementare I.C. “Virgilio 4” + 1 maestra n. 22 bambini; giornalisti de “Il Mattino” n. 2 + Dirigente Scolastico della scuola “Eugenio Montale” • un incontro laboratoriale di 2 h con tutte le classi partecipanti a il mito del mammut riguardante il concorso mammutbus “una giornata salutare”: ingredienti: MammutBus, fogli, pennarelli, musica • un incontro laboratoriale di 3 h con tutte le classi partecipanti a il mito del mammut riguardante il concorso mammutbus “aiuto/sgarrupo”: ingredienti: video caccia al tesoro mammut, racconto romeo e giulietta, MammutBus, musica, oggetti storia, giochi MammutBus storie luci caverne geni euridici alla ricerca del genio eir ascòl 2. Succede che... Genio Eir Ascòl stava andando sulla bici, quando all’improvviso escono 2 mostri: uno dalla conchiglia e l’altro dal tamburo che aveva comprato al mercato e che era un tamburo incantato. Il mostro esce indossando la maschera da amico Antonio e così lo inganna. Il mostro ha rotto la ruota della bicicletta, il genio è caduto e ha perso la memoria. E siccome stava troppo lontano non è più riuscito a tornare a scuola. L’unica cosa che ricordava è che a scuola c’erano tutti i suoi compagni che lo volevano picchiare perché lui era il più forte, il più genio, il più intelligente. 3. Il genio fugge dalla scuola con... ... con una palla argentata che si accendeva con bacchetta magica e faceva uscire fumo luminoso. ... con un carro e una corda magica che quando finiva la strada e c’era un precipizio lei, la corda, diventava la strada. ... con una conchiglia che quando si girava diventava una barca e ci usciva anche il mare da dentro. ... con una bicicletta che dove passava aveva il potere di far crescere fiori. 6. Il genio detector Sarà tornato il genio? Questo non lo sappiamo, ma ci è comparso uno strano apparecchio: il genio detector, serve a misurare il livello di magia e a vedere se il Genio Eir Ascòl è arrivato dentro al suo palloncino da viaggio. “Come mai Euridice non lo aiuta, guidandolo con la voce e ricordandogli di non girarsi perché lei è ancora dentro gli inferi? È giusto che Orfeo non ami più nessun’altra donna dopo aver perso per sempre la sua? Zeus non poteva far risorgere la sua amata?” orfeo ed euridice sul soffitto “Ma Orfeo dove ha trovato il coraggio di affrontare l’inferno? Se il loro amore era così bello, perché nessun dio li ha aiutati?” “E poi: ma una volta che Orfeo muore, ucciso dalle Baccanti, va all’inferno e quindi rivede Euridice o va in paradiso e neanche dopo la morte la può riabbracciare?” “E se dovessimo continuare noi la storia, Orfeo lo faremmo finire in paradiso, beato ma solo, o all’inferno ma in compagnia del suo grande amore?” “E... dove si trova la costellazione della Lira?” “A me nun me ne fotte, io vado fuori, ce sta ’o sole, tutto il mondo che ho scoperto. Se non vogliono venire so’ fatti loro, io me ne vado!” “Ma come hanno fatto a mangiare per anni lì dentro se erano rinchiusi fin da quando erano bambini? Sono nudi? “ “E soprattutto: se esce come fa a vivere se non sa leggere e scrivere e quindi non può lavorare?” 6. in piazza dalla caverna “Ancora oggi, nessuno ha mai saputo se quell’uomo è uscito dalla caverna o è rimasto dentro, insieme agli amici...” I l lavoro sulla spazio pubblico ha molti vantaggi, primo tra tutti l’impossibilità di mentire a sé stessi e agli altri. E Piazza Giovanni Paolo II, se paragonata a come l’abbiamo trovata otto anni fa, la dice lunga della strada fatta sin qua. Se dal punto di vista materiale non è cambiato niente (niente di tutto quanto avevamo suggerito al Comune di costruire è stato costruito e la piazza rimane un ammasso spoglio di cemento), nessuno potrà dire lo stesso per quanto riguarda le relazioni. Attraverso il presidio umano e la bonifica dell’immaginario a cui abbiamo lavorato in questi anni, la piazza delle siringhe e della droga è diventata punto di riferimento importante per molti cittadini, napoletani e non. Vi proponiamo alcune “istantanee” della piazza, dentro e fuori al Mammut. osservazioni in piazza di Chiara Ciccarelli una calda serata di luglio. Ore 22.30. Il laboratorio break è appena finito, i ragazzi sono andati via. Mi preparo per andare anche io. Oggi sono venuta senza macchina, quindi ritorno a casa a piedi. Attraversare la piazza mi dà modo di osservarla, viverla e riflettere su come nel tempo sia cambiata. Ma facciamo un passo indietro. Era il 2007 quando nelle nostre riunioni con le urbaniste Federica Palestino e Gilda Berruti si discuteva dell’importanza di scegliere dei punti di osservazione dei luoghi su cui avevamo deciso di provocare un cambiamento; le osservazioni andavano ripetute nel tempo, sempre dagli stessi angoli di visuale, annotate per iscritto e con foto. È così che abbiamo cominciato a osservare quella che ben presto sarebbe diventata la “nostra” piazza. Era stata consegnata ai cittadini solo un anno prima, dopo essere stata a lungo un mega cantiere e una “stanza del buco a cielo aperto”. All’epoca, benché fosse stata ripulita e “decorata” da un maestoso colonnato bianco restava un “non luogo” frequentato solo da tossicodipendenti che si andavano a fare; in terra solo sangue e siringhe. Aveva un nome anonimo, piazza dei Grandi Eventi, che ben presto decidemmo di È Racconti e domande dei bambini delle scuole “Ilaria Alpi – Carlo Levi” e “Virgilio 4” di Scampia e “Giovanni xxiii – Aliotta” di Chiaiano. 193 Tre 194 trasformare in “piazza dei Grandi Venti” dopo la ventata di energie portate dalla Parata Par Tot di Bologna e da tutte le persone con cui costruimmo la prima azione di piazza organizzata dal nascente Comitato Spazio Pubblico di Scampia (http://comitatospaziopubblico.blogspot.it). Nel novembre 2009 è il Cardinale Sepe insieme al Sindaco Iervolino a ribattezzare ufficialmente la piazza dandogli un nome illustre,”Giovanni Paolo II”, il Papa che nel 1990 venne in visita a Scampia e celebrò la messa proprio lì, sulla collina della Villa Comunale che affaccia sulla piazza. Mese dopo mese, anno dopo anno, le azioni nella piazza si sono susseguite, tra le cacce al tesoro del Mito, le iniziative realizzate insieme al Comitato Spazio Pubblico, i concerti di Sfreno organizzati con i giovani, le feste stagionali, i laboratori, le lotte con il Comune perché la rendesse realmente pedonale limitando l’accesso a macchine e motorini. Nel tempo il nostro presidio quotidiano ha fatto sentire questo spazio più sicuro, vivo e da vivere, da giocare, percorrere a piedi e in bici, da colorare con murales. Gradualmente la piazza è cominciata a diventare un luogo d’incontro non più per tossicodipendenti ma per tutte le famiglie e i ragazzi che frequentavano il Mammut, e per le altre associazioni, gruppi o chiese che ad utilizzarla hanno iniziato a provarci gusto. Gradualmente abbiamo osservato come il nostro lavoro, insieme a quello del Comitato spazio pubblico, stava trasformando l’immaginario e la rappresentazione di questo luogo. Ma è nel giugno 2014 che siamo stati testimoni di un’importante processo che ha segnato il conferimento di una nuova identità alla piazza. È come se quel 27 giugno migliaia di persone del quartiere e della città si fossero rese conto che quella piazza esisteva. In quel giorno si celebrava in piazza il funerale di Ciro Esposito, il giovane tifoso napoletano ferito a Roma il 3 maggio 2014 prima della finale di Coppa Napoli-Roma. Ciro era di Scampia ed è qui che dal 25 giugno, giorno della sua morte, tutti i suoi amici hanno iniziato a radunarsi, proprio sul tetto del Mammut. E con il passare delle ore si sono visti arrivare gruppi ultrà da tutte le parti della città e da altre città italiane ed europee. È stato affascinante osservare il comportamento di questi gruppi: silenziosi, compiti, anche se di una presenza imponente, fermi ad aspettare l’arrivo di Ciro previsto per il giorno dopo. Per noi quel 25 giugno era un mercoledì normale, o quasi… All’ora di pranzo vediamo la task force del Comune di Napoli capitanata dalla dottoressa Guidi, assessore dell’VIII municipalità, che compie un sopralluogo nella piazza. Il responsabile del cerimoniale del comune di Napoli, Sergio Mancini, che conosco bene, mi dice che il funerale di Ciro si farà in piazza e che di certo avremmo dovuto prestare la corrente (naturalmente così è stato anche se nessuno ce lo ha chiesto ufficialmente). Noi intanto ci prepariamo per la ciclofficina, pensiamo di farla fuori, ma poi capiamo che è meglio stare dentro. Il clima, intorno a noi, è strano. Tutte queste persone che arrivano. Visi stravolti. È successo qualcosa di grosso… Il pomeriggio va avanti, la ciclofficina è molto affollata. Alle sette comincia il laboratorio di break. A un tratto Genny, il fotografo, chiede di abbassare la musica. Improvvisamente mi rendo conto che siamo al centro di un tornado e che questa faccenda ci riguarda da vicino. Ricordo una sensazione simile quando mia nonna mi chiedeva di abbassare il volume della tv ogni volta che moriva qualcuno del palazzo. Uso le stesse parole con i ragazzi che fanno break quando gli chiedo di abbassare la voce. Non tutti mi capiscono. D’altronde anche io quando ero piccola non capivo bene questa cosa. Giovedì 26 giugno. Il corpo di Ciro è ancora a Roma per l’autopsia. La tensione emotiva è alta ma il clima pacato e triste. Noi intanto regaliamo metri e metri di un telone bianco che i ragazzi in piazza usano per fare gli striscioni; ne avevamo un bel po’ per le nostre attività. In principio è Tonino, un caro amico nostro e di Ciro, a chiedercelo. Poi la voce nel quartiere si diffonde e in un movimentato pomeriggio di laboratori con i bimbi vengono ragazzi da tutti i rioni a chiederci pezzi di striscione. A un tratto arriva in piazza anche “Genny ’a Carogna” a capo di un gruppo di circa venti motorini, Davide e Tonino raccontano la scena: è davvero molto forte. Il quartiere si riempie di striscioni, ogni rione il suo. In piazza c’è molto movimento; gli amici di Ciro, su indicazione della famiglia, cominciamo a metter dei nastri azzurri tra i pali della luce. Qualcuno mi dice che è una richiesta del papà di Ciro: il funerale di suo figlio deve essere una festa, come quando vince il Napoli. Il 27 mattina siamo tutti impegnati al carcere di Secondigliano dove Maurizio Braucci ha il debutto dello spettacolo del laboratorio teatrale, percorso parallelo a quello della maestra Quagliarella dei suoi bambini sulle porte del carcere. Torniamo all’ora di pranzo. La piazza comincia ad esser sempre più piena di persone e di striscioni in ogni angolo. Sento l’esigenza di mettere un biglietto fuori dalla porta del Mammut, un semplice “Ciao Ciro” mi sembra doveroso. Intanto tanta gente bussa per andare in bagno. Un caro amico di Ciro mi affida delle bandiere che la famiglia ha chiesto di fare. C’è scritto: “Ciao Ciro, fratello Partenopeo”, molti i ragazzini e signore bussano per averle. Sentiamo una forte pressione. Scegliamo di chiudere e di stare in piazza. Anche noi vogliamo partecipare come tutti. Certo, la piazza così piena non l’avevamo vista mai. Migliaia di persone di diverse classi sociali, quartieri, Piazza 195 Tre 196 città, mondi, sono intervenuti per dare l’ultimo saluto a questo giovane di 29 anni morto di una morte folle. Televisioni e giornali da tutto il mondo. Scampia, grazie al coraggio e alla dignità della famiglia Esposito, si fa onore, esempio di civiltà e rispetto. Ad un tratto sorge una targa toponomastica, sostituisce la precedente e rinomina la Piazza. Sciarpe del Napoli e di altre tifoserie insieme a pupazzi ed altri simboli colorano l’asta che sorregge il marmo con la scritta: Piazza Ciro Esposito. Nel salutarmi, Vittorio Passeggio, fondatore dello storico Comitato Vele che si batte da anni per la riqualifica del quartiere, mi dice con soddisfazione che ora avevamo nuovamente una piazza laica. Ma poco dopo scopro con sorpresa che la targa non era stata messa dal comune ma dagli amici di Ciro. La giornata volge al termine. In serata un silenzio che impressiona. Nei giorni a seguire diversi movimenti in piazza: il 1 luglio Ozon disegna sul muro il volto di Ciro. Il muro scelto è quello più ampio dove Raro (un writer del quartiere) aveva fatto una grande scritta per contestare l’assedio mediatico che da sempre Scampia subisce: NO PHOTO. Il muro era stato accuratamente imbiancato per il giorno del funerale dagli amici di Ciro. Il viso di Ciro prende vita, poche sere dopo, davanti a un centinaio di persone, tra cui il fratello e la fidanzata. Io sono lì a guardare; Tonino mi vuole presentare Pasquale, il fratello di Ciro. Sono un po’ imbarazzata, ma quando Pasquale mi dice che ci conoscevamo, che la sua bambina in passato aveva frequentato il Mammut ogni imbarazzo scivola via. Pasquale mi parla a lungo, io lo ascolto. Nella serata successiva accanto al volto contornato da un azzurro Napoli compare una scritta: “Scampia non vuole vendetta, solo giustizia per Ciro”. Il dipinto sul muro ben presto diventa motivo di attrazione e frequentazione della piazza. Molte persone vi entrano con la macchina o motorini per fermarsi a guardarlo. È come se fosse diventato un luogo di culto. Un santuario. Il 3 luglio il gruppo Area Nord degli ultrà decidono di fare una scritta per Ciro: “Fino a quando avrò fiato non sarai dimenticato”, loro sono davvero i suoi amici. Scelgono un muro in cui non coprono dei disegni fatti recentemente dai writer del quartiere. Leggo questa scelta come una forma di rispetto per i ragazzi. Torno così a quella calda serata di luglio, quando attraversavo a piedi la piazza. Rimango affascinata nell’osservare la sua composizione. Dal colonnato guardando sulla destra c’è un gruppetto di giovani che si riuniscono per fumare insieme, sono lì ogni sera, spesso gli prestiamo il pallone. Sulla sinistra invece un gruppo di macchine, sotto le scalinate in una zona buia, un cerchio perfetto di adulti, saranno più di cinquanta, tutti in piedi, solo uomini; la riconosco, è una riunione degli ultrà, le ho viste spesso a Piscinola. Sono gli ultra di Scampia e dintorni, per la prima volta si riuniscono in piazza, parlano ordinatamente uno alla volata e si ascoltano con attenzione. In fondo alle scale dove c’è l’enorme scritta CIRO VIVE, tra una mega lettera e un’altra c’è un altro cerchio, stavolta un gruppo di religiosi, con l’amico gesuita Sergio Sala. Discutono di non so che cosa. Vedo arrivare, poi, altre 4 macchine; parcheggiano davanti alle scalinate lunghe; escono circa una ventina di ragazzi e ragazze, una persona tira fuori una torta, un’altra un pallone, aprono il cofano della macchina da cui esce una musica latino americana e cominciano a ballare. Guardo verso il cancello chiuso della villa comunale di Scampia, li c’è un signore con due bambine intenti a guardare le rane, in questi giorni ce ne sono tantissime e sono piccolissime, forse vengono dal laghetto della Villa. Intanto sotto al dipinto del volto di Ciro un gruppetto di persone scatta qualche foto con il flash. La piazza è diversa dal solito, sembra una piazza vera. (Certo, ho la sensazione che la proposta di mettere i paletti, che sono stati rimossi, per non far entrare le auto, risulta alquanto anacronistica). Non so quanto durerà, ma sembra che Scampia abbia trovato la sua piazza e il suo eroe. Piazza 197 ovide decroly edico, psichiatra e pedagogista belga, nato a Renaix nel 1871 e morto a Uccle nel 1932. È indubbiamente tra le figure più importanti ai fini di questa nostra dissertazione sui temi della didattica e della salute, essendo tra gli iniziatori di molte delle sperimentazioni metodologiche del movimento delle “scuole nuove” a cui anche il Mammut si è nutrito. Per la rivoluzione che apportò al modo di fare scuola dei suoi tempi. A partire da una critica radicale alla scuola esistente (prima di tutto per l’insofferenza con cui la subì in prima persona alle superiori), sviluppò un approccio del profili tutto nuovo alla didattica ordinaria, basandosi proprio sulle sue conoscenze mediche e psicologiche. Il motivo per cui le riflessioni di Decroly ci interessano sta proprio in questo: si tratta di un metodo d’insegnamento basato sullo studio del funzionamento psicofisico della persona. Studio e lavoro sul campo che portò teorie pedagogiche e psicologiche (di Spencer, Darwin, Dewey ma anche della ancora giovane psicologia della Gestalt) a farsi “scuola nuova” per bambini e adolescenti. Quella di Decroly è una modalità di insegnamento/apprendimento basato sui concetti di “centri d’interesse” e “approccio globale” alla conoscenza, approccio che non si riduce mai a ricettine, ma che è basato sul radicale cambiamento della giornata scolastica. Tanto nell’attività accademica (nel 1920 diventa docente di psicologia infantile all’Università di Bruxelles), quanto nella sua “École de l’Ermitage” fondata nel 1907, Decroly delinea quella che ancora oggi, a distanza di cent’anni, sarebbe una vera e propria rivoluzione, la vera riforma della scuola che aspettiamo da anni. Tra i principali punti di questa nuova scuola: M • integrità dello sviluppo. La vita scolastica deve basarsi su uno sviluppo integrato della persona, prendendo in considerazione e coltivando ciascuno degli aspetti da cui è composta la sua personalità; • ambiente. La scuola non si fa nell’aula, ma là dove scorre la vita vera. L’importanza della campagna, dell’esperienza in natura e in città è centrale in tutta la sua opera. Teorie che trovano realizzazione tanto ne “L’ecole pour enfants irreguliers” fondata nel 1901 in aperta campagna, quanto nella “Scuola dell’Ermitage”, fondata nel 1907 a Ixelles e poi trasferita ai margini del bosco della Cambre à Uccle. Nella scuola di Decroly l’aula come luogo di apprendimento viene sostituita dall’ambiente esterno, luogo di vita reale dove l’allievo può sviluppare e nutrire ciascuno degli aspetti della sua personalità, e favorire l’adattamento ambientale e sociale. Una delle funzioni della scuola deve essere proprio quella di sviluppare il necessario adattamento all’ambiente: un monito che oggi, in epoca di grande ubriacatura per le scuole parentali, mette in guardia dalle isole felici, che alimentano forme di alienazione sin da piccolissimi; • individualizzazione e non specialità del processo di insegnamento/apprendimento. Avendo lavorato molto con i bambini portatori di problematiche specifiche, Decroly è fermo nel sostenere che non esistono due diversi tipi di scuola: quella per disabili e quella per non disabili. Ma che l’educazione è un processo unico e semmai ad esistere sono infiniti tipi di scuola: il processo formativo è basato sull’unicità dell’alunno e deve perciò farsi percorso individualizzato, facendo in modo che ciascuno possa trarre il massimo profitto dal processo educativo in cui è coinvolto. Decroly è insomma un pioniere, iniziatore di un approccio integrato alla scuola della salute, che tiene insieme e riduce a unità ricerche e azioni sul “come”, sul “dove” e sul “quando” insegnare/ imparare cosa a chi. Anche se non mancano critiche severe (anche in questo nostro librone ne abbiamo riportate alcune) e aspetti profili ormai superati della sua teoria, il messaggio e l’impianto teorico del medico e pedagogista belga rimangono quanto mai attuali e necessari. E, ahinoi, in buona parte disattesi. cerchio di condivisione di Nadia Vembacher E Tre 200 siste un cerchio magico al Mammut. È un cerchio dove non esiste giudizio e dove si possono scoprire nuove cose del mondo e delle persone. Esiste una sola regola: parlare uno alla volta e ascoltare cosa hanno da dire gli altri. Imparare ad ascoltare gli altri risulta difficile anche per gli adulti, forse proprio perché da bambini non hanno mai potuto sperimentare il cerchio magico che noi invece conosciamo molto bene… In questo cerchio tutti riusciamo a guardarci negli occhi, possiamo diventare scienziati o filosofi, oppure possiamo semplicemente raccontare cosa pensiamo di quello che ci accade nella nostra vita. Una volta ci siamo domandati cosa succedesse alla terra quando vengono i terremoti, da cosa derivassero, cosa provocassero. E cosa abbiamo provato noi quando ci siamo accorti che la terra tremava… Il cerchio magico si nutre di curiosità, passione, interesse, domande e intuizioni. Occhi che si intrecciano e si rivolgono parole senza necessariamente utilizzare il linguaggio verbale. Abbiamo parlato di un certo Platone che aveva scovato una caverna con dei bambini incatenati che non potevano fare altro che vedere delle ombre, credendo che fosse la realtà. E poi abbiamo continuato a parlare del fatto che Platone sapeva che uno di loro era riuscito a uscire e che dopo molte difficoltà dovute al fatto di non essere abituato alla luce del sole aveva poi visto cosa c'era fuori dalla caverna. Abbiamo parlato di cosa potesse fare il bambino una volta tornato nella caverna e aver detto agli altri cosa aveva visto. Abbiamo capito che non è facile decidere di abbandonare gli amici e la vita in condivisione nella caverna per vedere il mondo là fuori. Abbiamo parlato di Orfeo che scendeva all’inferno per amore. Voleva ritrovare la sua amata, morta forse ingiustamente. Abbiamo scoperto che il mondo forse è stato creato dalla collaborazione tra dio ed il diavolo, e un’altra volta ancora abbiamo discusso dell’unione che si era creata tra lupo e luna… Abbiamo potuto scoprire storie che molti degli adulti neppure conoscono e che dovrebbero imparare ad ascoltare per poter riflettere, come abbiamo fatto noi in cerchio, su tanti dubbi e domande che sono sempre un po’ irrisolte o troppo velocemente archiviate. Il cerchio magico ha contenuto anche molti pianti, oltre ai sorrisi e alle domande. Ma noi possiamo sempre scegliere cosa lasciare in quel cerchio e cosa portare via. Il cerchio di condivisione è uno dei modi in cui si può fare pedagogia alternativa/attiva, mettendo in discussione le regolari modalità didattiche che nelle scuole vengono portate avanti e spesso date per scontate. Usufruire di altri modi di comunicare con i bambini, ricercare attraverso la condivisione, l’intimità, la creatività, un linguaggio che possa comunicare con il loro, senza filtri né schemi mentali già strutturati e articolati. Attraverso il cerchio stiamo sperimentando una chiara messa in discussione della visione gerarchica, dualistica, verticistica che solitamente si presuppone nel rapporto tra adulti e bambini, o tra gli stessi bambini. Siamo tutti sullo stesso livello, siamo tutti disposti a mettere noi stessi dentro quel cerchio, e non delle proiezioni falsate che recitano una parte. Si tenta di sradicare queste modalità che spesso fanno già parte della cultura mediatica di cui sono figli i bambini contemporanei. Si riesce in questo modo a parlare delle questioni più diverse, stimolo continuo per arricchire conoscenze e curiosità di tutti; da ciò si possono ottenere discussioni fi losofiche che i più noti intellettuali del nostro tempo invidierebbero. La condivisione è lo strumento chiave di tale approccio educativo perché determina la possibilità del confronto, una varietà di prospettive messe in campo, la costruzione di rapporti di fiducia e la creazione di un racconto mai unico ma molteplice, caratterizzato dalla voce di tutti. In questo modo si riesce a comprendere una delle regole fondamentali del cerchio, o meglio l’unica regola che lo caratterizza. Ascoltare gli altri. Grazie a questo teorema di base ci si rende conto di quanto si possa imparare dal racconto di un altro. Le esperienze di tutti vengono poste al centro del cerchio per essere condivise e conservate. Spesso il rito iniziale o conclusivo di tale cerchio innesca una sorta di protezione per il contenuto del cerchio stesso, come se si potesse comprendere che quello che è stato condiviso lì, sarà qualcosa che solo con quelle persone e in quel momento ha avuto senso dire e ascoltare. Ridare importanza al qui ed ora con dei rituali che riescano poi a collegare il trascorso con gli accadimenti futuri, fa sì che si protragga un filo conduttore tra presente, passato e futuro, in modo tale da avere una memoria storica delle esperienze formative, proiettate verso una ripetizione che può essere variabile, ma che solo vivendo il presente riesce ad innescarsi. Attraverso tali meccanismi è possibile quindi andare oltre l’insegnamento che l’adulto impartisce al bambino, fondato sui meccanismi di premiazione o punizione o sulla valutazione quantitativa di ciò che non può essere quantificato. Il bambino non può essere valutato con un numero, né messo a paragone con gli altri come se si trattasse di una competizione volta a conseguire il riconoscimento dall’adulto. La competizione sana volge alla scoperta dei propri limiti e del proprio sé piuttosto che alla costruzione di un personag- Piazza 201 Tre 202 gio che soddisfi i bisogni e le richieste dell’adulto giudicante. Per generare un reale flusso di fiducia il cerchio necessita di assenza di giudizio, che permette ai bambini di raccontare ed esprimersi, che permette all’adulto di raccontare miti, fiabe, canzoni che rappresentano un modo di guardare il mondo e la realtà. Le tematiche che attraverso un approccio maieutico possono essere intraprese sono molteplici e sono di carattere tanto scientifico quanto umanistico; si possono approfondire temi che con termini specifici e tecnici, non accoglierebbero niente altro che esclusione e disinteresse. La filosofia del bambino è legata all’immaginazione, la quale permette una libertà d’espressione capace di raggiungere ogni ambito conoscitivo e ogni nuova forma percettiva. Come Socrate ci ha insegnato, la pratica della conoscenza è dialettica, ossia è un dialogo continuo che non presuppone un maestro e un discepolo, ma piuttosto mette al centro la qualità di una discussione esistente tra due soggetti, che confluisce verso un obiettivo comune. Il bene comune del cerchio di condivisione è la fiducia e l’ascolto, che va custodito come la pratica più pregiata e ricca in una didattica stimolante, senza la quale il maestro/insegnante non può avvalersi della pretesa di insegnare alcunché a nessuno. l’orto a cura dell’équipe Mammut L’ orto nel giardino antistante al Mammut ha costituito l’altra grande “porta” dell’incontro con la natura. L’esperienza di quest’anno è iniziata a dicembre 2013, in concomitanza con la festa dei miti di luce, quando ai molti partecipanti abbiamo chiesto di sotterrare un seme e un proprio desiderio da affidare alla terra fertile. La nuova semina è poi avvenuta nella festa di primavera, all’interno di uova/semenzai e racconti autobiografici. Arrivati all’estate, ha sorpreso un po’ tutti quanto gli ortaggi e i girasoli che vi avevamo seminato fossero stati rispettati dall’intero quartiere, senza subire nemmeno un’incursione durante tutto il periodo di permanenza dell’orto. Sorpresa anche per la cura e la meraviglia con cui mamme, bimbi e ragazzi si sono dedicati all’orto. Trattando con insperata delicatezza e spirito comunitario i fiori e i frutti che le piante di zucchine, pomodori, peperoncini e i girasoli avevano prodotto. Sul grande potere educativo che l’orto ha rivestito, il racconto di un episodio avvenuto durante la festa d’estate. Giovanni, uno dei ragazzini più incontrollabili del gruppo, aveva cominciato da alcuni giorni a prendersi cura dell’orto, innaffiandolo e togliendo erbacce infestanti. Durante la festa mi chiede di poter recintare un pezzetto di terra accanto all’orto Mammut per coltivare un ulteriore piccolo orticello con i suoi amici. Non impiego molto a fargli capire che ogni stagione ha il suo momento e che seminare pomodori ad agosto non corrisponde ai tempi della natura. In questo, come in moltissimi altri episodi, abbiamo potuto verificare quanto un orto di “comunità” come quello del Mammut possa valere più di mille lezioni sull’interconnessione ecologica. L’esperienza dell’orto ha rivestito una grande importanza anche nel percorso formativo dei ragazzi partecipanti al percorso formativo “Giocatori di strada” del MammutBus. Chi di loro ha partecipato al tirocinio sul campo, ha imparato una modalità efficace di animazione di spazi pubblici, entrata a far parte del bagaglio del gruppo. Piazza 203 i viaggi di… di Tonino Stornaiuolo L Tre 204 o sfondo narrativo del periodo è stata la storia di Gulliver, attorno a cui i bambini di Scampia hanno lavorato durante i laboratori tenuti presso il Centro Mammut nella rielaborazione della trama per calarla sulle situazioni di vita di ciascuno. Ne è uscito il lavoro teatrale “I viaggi di…” messo in scena il 4 giugno 2014 all’auditorium di Scampia e il canovaccio per lo spettacolo di strada che ha fatto da ossatura allo scambio con i bambini di Nocera Umbra e paesi limitrofi. Gulliver, viaggiatore tra mondi strani e densi di pericoli ma anche di grandi possibilità di meraviglia e crescita, è stato un’ottima porta tanto per coinvolgere genitori e territorio di Scampia, quanto per facilitare l’incontro con bambini “altri”, come quelli incontrati durante le giornate in Umbria. Il MammutBus si è trasformato per l’occasione in un teatro mobile, formidabile strumento narrativo. Il lavoro su Gulliver, infine, è divenuto un percorso di viaggio attorno alla Villa Comunale di Scampia, grazie alle tavole inventate con i bambini durante le giornate estive denominate “Il villaggio” e disegnate da un artista del fumetto affermato come Luca Dalisi. Raccolta in nove tavole d’autore, la storia inventata con i bambini è cioè diventata un percorso ginnico, installabile attorno al perimetro della villa comunale. Visto che quest'anno la parola chiave dei nostri percorsi è stata “la porta” sotto i suoi molteplici punti di vista, da quello fisico a quello psicologico, si è pensato a quale testo potesse essere appropriato per il nostro tema. E quale miglior porta se non quella del viaggio? Quale miglior viaggio se non quello di Gulliver? In un primo momento è stata raccontata la trama della storia ai bambini, dopodiché si è dato tutto “in pasto” alla loro creatività, spontaneità e realtà per vedere cosa ne sarebbe uscito. In un cerchio di condivisione, ognuno si è messo nei panni di Gulliver e ha pensato a quale sarebbe stata l'isola ideale nel quale naufragare. La prima isola è stata quella dei bambini. Ecco che viene fuori un governo fatto di soli bambini, loro anche le leggi: non si va a letto prima di mezzanotte, le maestre sono tra i banchi, nel carrello della spesa ci vanno i grandi, il parlamento è ugualmente formato da soli bambini e via così, tante altre leggi che gli stessi si sono inventati. Messo in scena e tornati poi in cerchio per decidere come chiudere questo mondo, si sono chiesti: ma in un mondo fatto di soli bambini, chi ci insegna a portare la bici? Chi ci cucina da mangiare? Chi ci racconta le favole e ci coccola? E così si è deciso che il nostro Gulliver lasciasse quell'isola riportando i bambini alle proprie famiglie, perché un posto fatto di soli bambini non funziona, come non funzionava quello da cui Gulliver veniva, il mondo reale, perché è fatto solo di adulti che decidono per tutti. Finito di mettere in scena questo primo viaggio, ci si interroga di nuovo su un possibile nuovo mondo da scoprire. Viene fuori quello degli animali, in particolare degli asini. Asini un po' speciali, che parlano e sono dotati di grande intelligenza, proprio come gli essere umani. Ma anche qui qualcosa non va. Proprio come gli umani, gli asini si fanno la guerra gli uni contro gli altri e per un motivo ben preciso: le orecchie. Proprio da un cerchio di discussione con i bambini viene fuori questa idea: “se gli asini sono come gli uomini e si credono tanto intelligenti, allora si fanno anche la guerra, gli uomini fanno così!”. Si decide quindi di mettere in scena un gruppo di asini dalle orecchie lunghe e uno dalle orecchie corte che si ammazzano quotidianamente perché ognuno si crede superiore all'amico/nemico. Ma in tutto questo vi è una particolarità: questi asini così come si ammazzano, rinascono! È questa la loro sventura: tutti i giorni si ammazzano gli uni con gli altri per poi rinascere poco dopo. I bambini decidono che Gulliver anche da qui va via e cercano poi di pensare ad un mondo finalmente bello dove Gulliver resti contento. E allora ci chiediamo: deve essere un posto bello, “ci devono essere i bambini” dice Serena “ma anche gli adulti “ risponde Mattia, “e allora anche piante e animali” subentra Emanuele “ sì ma questo è il nostro mondo normale e tanto bello non è” spegne gli entusiasmi Espedito. Provo allora a suggerire loro “è un posto dove ci sono tutte queste cose, ma stanno bene insieme, dove si prendono le decisioni insieme e nessuno vuole prevaricare l'altro. Un posto dove c'è armonia tra bambini, adulti, piante e animali”. Ed ecco Lino che spalanca gli occhi contento e suggerisce “il Mammut!! Al Mammut si deve risvegliare Gulliver, perché qua c'è l'armonia”. Tutti i bambini a questo punto si schierano con Lino, “Ha ragione, noi al Mammut stiamo bene, starà bene anche Gulliver” e così ci inventiamo quello che sarà il nostro ultimo mondo dello spettacolo: Gulliver che si risveglia nella piazza di Scampia, osserva le vele, le colonne e infine il Mammut, vede i bambini stare insieme agli adulti tutti felici e vede anche un orto e un cane. Decide finalmente di restare. Ma poi ci ripensa. Resta ma non a lungo perché a Gulliver piace viaggiare e raccontare. Vuole raccontare in giro per il mondo ciò che di bello ha trovato al Mammut. È stato proprio qualche giorno prima dello spettacolo che la storia di Gulliver ha preso vita anche in noi. L'armonia c'era nelle prove, ma a questo punto mancavano i vestiti di scena. Come fare? Ecco che corrono in nostro aiuto le mamme, che allestiscono una sartoria per un giorno al Mammut e tagliano e cuciono vestiti, orecchie e giacche. Ora è tutto pronto per andare in scena. Piazza 205 C'è molta gente in teatro, le loro famiglie hanno delle facce serene prima dell’inizio. Parte la musica e inizia lo spettacolo. Non un applauso di troppo, non una voce di un genitore che chiama il proprio figlio, non un cellulare che suona. Sono tutti rapiti dalla storia, presi e trascinati sulla barca di Gulliver. Tre “Ho ancora le allucinazioni, sono sulla terra ferma e dietro di me vedo ancora le vele. Come è grande questa piazza, ma è deserta. C’è solo un cancello giallo che dà su un parco, ma è chiuso. E quello cos’è? Sembra un tempio antico con quelle colonne enormi. Li sotto c’è qualcuno, sento delle voci. Ma sono bambini. Sembrano felici. Ci sono anche degli adulti, Ci sono le loro mamma e i loro papà. Sono tutti insieme. Vedo un cane che gioca con loro spensierato, chissà come si chiamerà. Sono tutti intorno ad un orto: zucchine, pomodori, basilico e bellissimi fiori di girasole. Che bel posto, finalmente ho trovato un luogo dove regna l’armonia tra tutti. Ho deciso, resto qui. Si è fatto buio, quante stelle che ci sono questa notte. Ho deciso che anche da qui ripartirò. È un posto bellissimo, ma a me piace viaggiare. Ciò che conta è il viaggio, non la meta. L’arrivo per me non è altro che un nuovo punto di partenza. Se ho trovato un posto così bello, vorrà dire che c’è ne saranno altri. Pochi, ma ci sono. E da quei pochi a pochi tenterò di cucire un filo per legarle tutte. Ad ognuno che scoprirò racconterò di quelle che ho visto prima di arrivare da loro. Sarà un viaggio lungo e faticoso. Ma la rotta sembra quella buona.” (Monologo finale dello spettacolo del nostro Gulliver) Piazza 207 adolescenti tra bici, strada e breakdance di Chiara Ciccarelli un’officina di biciclette “C Tre 208 1. Francesco Sivo ed io siamo i responsabili del laboratorio bici e della Ciclofficina. Con noi Luca Giaccio, prezioso volontario. hia’ ma hai capito? Si è bucata un’altra volta la ruota! Ma come è possibile? Ieri abbiamo messo una camera d’aria nuova!”, è Andrea, dodici anni, al telefono. Ci confrontiamo sulla cosa, poi gli chiedo se vuole fare extra per aggiustarla, visto che bisogna aspettare ben sei giorni prima del giorno delle biciclette al Mammut; mi risponde di no, può aspettare, aveva chiamato solo per dirmelo. Sono stupita, sul viso un sorriso e uno strano senso di soddisfazione, mi colpisce la passione e l’importanza con cui Andrea mi racconta delle vicissitudini della sua bici. Quasi mi fa ridere questa storia che ora ci si telefona per una bucatura… Mi torna alla mente uno dei primi giorni in cui Andrea è venuto al Mammut, un anno fa. Era con Enzo, un coetaneo dalle mille energie, sfrontato e coraggioso, cavallo pazzo, leader nel gruppetto della Vela Bianca, “lui se la sa vedere, è in grado di difendere i compagni”. Questo gruppetto è composto da ragazzini molto poveri e i loro genitori si arrangiano come possono con umili lavori. Enzo lo incontro sempre in strada, con il padre a raccogliere il ferro, a volte lo vedo in giro con il suo carrozzino anche a mezzanotte. Sembra senza regole, mi affascina il suo modo di affrontare i problemi, non si perde d’animo di fronte a niente e in modo veloce trova sempre una soluzione, anche se precaria. La prima volta che venne al Laboratorio bici, insieme ad Andrea, io e Francesco, con uno sguardo d’intesa, capimmo subito che dovevamo sfoderare le nostre armi migliori per dare una buona impostazione al rapporto fin dall’inizio1. Quel giorno sono i primi ad arrivare al laboratorio, noi siamo molto accoglienti ma non esitiamo a dare anche dei limiti comunicando chiaramente ciò che può avvenire e ciò che non può avvenire in quello spazio. Enzo è tosto, Andrea meno. Finita questa contrattazione iniziale ci applichiamo nello smontare una catena di una bici del Mammut che stavamo aggiustando, Enzo vuole fare da solo, è un vulcano, ha proposte e soluzioni per vari problemi, è molto bravo. Per lui la catena si smonta con giravite e martello, noi gli proponiamo invece un attrezzo tecnico: lo smagliacatena. Non accetta, ritiene più efficace il suo: “L’ho fatto mille volte con mio padre! Io smonto tutto!”, accettiamo di imparare il suo metodo ma rilanciamo, proponendogli di capire anche il nostro. Non sembra molto interessato alla proposta, la snobba un po’, lui già sa fare e ha già le sue strategie. Accogliamo. Riesce ad aprire la catena e a rimontarla anche se danneggiandola un po’. Mentre armeggiamo con le bici Enzo commenta: “ma è tutto importante qui!”; mi rendo conto che un po’ presa dall’ansia di questa relazione così articolata ho ripetuto quella parola decine di volte su più argomenti: era importante avere rispetto, era importante ascoltarsi, era importante che le bici del Mammut restassero tali in modo da far sì che tutti ci potessero giocare, era importante capire come funzionava lo smagliacatena. Sì, c’erano un sacco di cose importanti, e la prima era che in quel momento stavamo lì a fare una cosa insieme. Mi rendo conto di aver un po’ esagerato e ci facciamo una risata insieme. Il tempo sembra essere scaduto, Enzo si muove ancora più velocemente, e decide di andare via. Andrea resta, ha la sua bici da aggiustare. La stanza intanto si popola. Andrea deve fare una bucatura ma sembra non riuscire a stare concentrato più di cinque minuti di fi la, prova a delegare, si distrae, poi piano piano insieme ci riusciamo. Andrea è diventato uno dei frequentatori più stabili, la sua capacità di concentrarsi è aumentata e si è sperimentato in imprese davvero complicate per far funzionare quella sua bici diroccata, sembra aver acquisito coraggio e autostima, ora non ripete a bassa voce il corretto procedimento per le varie riparazioni, ma aiuta i compagni a farle. Enzo invece ha avuto una presenza più discontinua, con il suo carisma è sempre venuto a chiedere qualcosa in più degli altri (aggiustare la bici in un giorno diverso o qualche pezzo di ricambio per un amico in difficoltà) ma non è mai più venuto come quel primo giorno. In uno degli ultimi incontri prima dell’estate viene con gli amici, è affettuoso e ha voglia di fare, ma anche di confrontarsi. Un amico lo chiama perché ha un problema alla catena, si deve aprire, viene da me e mi chiede: “Ma dove sta quel coso per aprire la catena?”. Dopo quel primo giorno non avevamo mai più parlato dello smagliacatena, ora mi sembrava che Enzo avesse avuto il tempo di maturare fiducia e capacità di accogliere qualcosa di nuovo da aggiungere ai suoi preziosi saperi che tanto lo fanno sentire sicuro. Nella stessa giornata osservo Marta che con fare esperto è alla ricerca di spugna e scotch telato, ha una sella di un amico da aggiustare… Ormai prassi acquisita senza passare per gli adulti: per aggiustare una sella si sa, un po’ di spugna e un scotch te la mettono a nuovo! …Oggi per Vincenzo e Giovanni, è la prima volta, anche se è luglio e il nostro anno sta per finire, siamo pronti ad accoglierli nel nostro gruppo. Sono venuti con le loro mamme, hanno fatto prima l’iscrizione e poi hanno cominciato a frequentare, in genere il processo è inverso. Inizia la ciclofficina, mostro loro come si ripara una bucatura. Subito si integrano bene nel gruppo, loro vanno a scuola, sono seguiti dalle famiglie e hanno una buona capacità di concentrazione. Piazza 209 Tre 210 Il pedale di Martina si è rotto, non ne abbiamo uno nuovo da sostituire e neanche uno vecchio da adattare. Vincenzo e Giovanni iniziano a discutere del problema con Giaccio e Martina, trovano una soluzione: costruire un pedale di legno! Ma un legno adatto non c’è nella nostra officina. Giaccio, non si perde d’animo: in pochi istanti in sella a bici e monopattini sfrecciano via nel quartiere alla ricerca del legno giusto, tornando vittoriosi con il legno tra le mani! In breve tempo, fanno la sagoma del pedale, la segano, la levigano e ci fanno anche le decorazioni. Missione compiuta. Martina ha il suo nuovo pedale, unico nel suo genere! Lei, otto anni, elemento molto positivo nel gruppo per la sua disponibilità, generosità e voglia di fare, è sorpresa dal movimento cooperativo che si è attivato intorno al suo pedale. Per tutti grande soddisfazione vederla andar via felice pedalando sulla sua bici! A fine giornata due commenti mi ritornano alla mente, quello di Giaccio che mi dice: in un pomeriggio Vincenzo e Giovanni hanno visto cosa è il Mammut: biciclette, passeggiate nel quartiere, riciclo di materiali e possibilità di creare e inventarsi soluzioni ai problemi!; e quello di Vincenzo e Giovanni che prima di salutarmi mi dicono: Ah, ma qui non è come a scuola, qui in poco tempo abbiamo imparato un sacco di cose. Emiliano (9 anni) arriva con suo fratello minore e un amico, guidati da Mimmo (11 anni), loro vengono dalle Case dei Puffi – come gli abitanti hanno ribattezzato il Lotto P, rione molto difficile del quartiere – con le loro bici su cui trasportano pezzi di altre bici per aggiustarli. Vederli venire in questo modo è uno spettacolo! Non sono i primi ad arrivare, tra gli altri già sono in Ciclofficina due fratelli, Flavio e Roberto, che invece abitano nei parchi, quelli dove si sta tranquilli. I fratelli condividono una BMX rossa lucente, è veramente bella. Alla vista di Emiliano, Roberto mi dice in privato che pochi giorni prima quel bambino aveva provato a rubargli la bici, ma lui era riuscito a divincolarsi e scappare. Invito Roberto a darci una mano a fare il check-up della bici di Emiliano, i ragazzi cominciano a fare insieme, poi introduco l’argomento del tentato furto, Emiliano non ha molte parole e non sa dire perché lo ha fatto. A giornata conclusa resto con la sensazione che sia avvenuto qualcosa di importante oggi, il fatto che Roberto non abbia avuto paura di parlare, ed Emiliano che è stato ad ascoltare… Checco arriva con il suo papà, attendono il loro turno, mentre i nomi di Chiara, Francesco e Giaccio, riecheggiano nella stanza. Oggi è un giorno bello, pieno e movimentato con un sacco di bici da aggiustare. Chiediamo al signor Ciro, papà di Checco, se sa aggiustare le bici: un po’ ne capisce, lo invitiamo a mettersi al nostro fianco, ora ci sono due mani in più per tutti! Da quel giorno tutti i genitori che accompagnano i più piccoli sono coinvolti attivamente nell’esperienza, questo attiva un circuito virtuoso, dove il sostegno arriva anche dalle nonne che accompagnano i nipoti e che, stando a guardare danno anche qualche suggerimento. Goran ha la bici rotta e non riesce a portarla al Mammut. Giaccio prende la valigetta degli attrezzi e va al campo rom, dove abita Goran. La settimana dopo alla Ciclofficina viene una famiglia di rom: mamma, papà e i tre bimbi, che hanno le bici da aggiustare. Ci cimentiamo insieme. Il canale è aperto; da quel giorno numerosi sono stati i ragazzini rom che sono venuti in ciclofficina. Oggi rompiamo lo schema: il laboratorio si fa in giro per il quartiere. Ognuno deve pensare ad un posto del quartiere in cui è successo qualcosa di importante nella sua vita. Poi, definito l’itinerario, a turno si è guida del gruppo, alla ricerca del luogo che racconta di sé, per condividere la propria storia con gli altri. Ora per tutti tanti luoghi hanno assunto significati emotivi, arricchendosi dei racconti autobiografici dei membri del nostro gruppo. La giornata ci lascia la consapevolezza di come la passione per gli apprendimenti passa anche attraverso la rottura dello schema quotidiano che rischia di portare alla monotonia. La passione per gli apprendimenti passa attraverso il corpo, il cuore, le emozioni, la propria storia. “Manue’ fa’ tu!”, ‘‘No, lassa fa’ a Chiara”, “Ma chell’è femmena, non ‘o sape fa!”, “Ma che?!, Chiara ccà è ‘o mast’!”. È quando ho ascoltato queste parole che ho compreso la necessità di sforzarmi acquistare competenze ciclomeccaniche. Mi hanno dato la spinta ad imparare per smontare i ruoli precostituiti del maschile e femminile molto riduttivi e rigidi che vanno per la maggiore nel quartiere. Non lo scopro quel giorno quanto sia importante che chi fa lavoro educativo spenda il suo tempo anche nel dedicarsi a al fare, a capire fino in fondo e a sperimentare su di se ciò che propone agli altri. Maestro e artigiano. Ascolto un’interessante discussione tra Aniello e Guido, sulle Vele e i loro abitanti. Guido dice che lì ci vive solo povera gente, sporca che fa schifo. Aniello invita Guido a guardarlo e gli dice che anche lui vive nelle Vele e che non è né sporco né povero, quindi nelle vele ’c’è anche gente come quelle del Bakù (rione di Guido); continua dicendo che è vero che ci sono quelli sporchi e poveri, ma loro sono nella Vela Bianca, lui invece è nella Vela Blu. La discussione è veramente appassionante e l’averla ascoltata ci ha dato modo anche di riflettere sull’argomento e sul tema dell’esclusione/ inclusione e delle città nelle città. Piazza 211 diario di bordo laboratorio bici/ciclofficina1 11 giugno 2014 di Francesco Sivo Tre 212 2. Il mercoledì, giornata delle bici al Mammut, è strutturato in due tempi: dalle 15.00 alle 17.00 c’è il laboratorio bici, rivolto ai ragazzi e le ragazze dagli 11 anni in su; dalle 17.00 alle 19.30 c’è la Cicofficina aperta a tutte le età bambini e adulti (dalla primavera in poi abbiamo La giornata di oggi sarà dedicata alla creazione, insieme ai ragazzi, di uno striscione da mettere in piazza2 nella parte da dove entrano le auto. In particolare, l’idea ci è venuta dopo due cose successe in settimana: mercoledì scorso, al termine della ciclofficina Pasquale fu investito (lievemente e senza farsi male) da un auto che entrava in piazza; lunedì al Mammut c’è stato un incontro molto bello nell’ambito di un progetto europeo dove si è data parola ai ragazzi/e ascoltando le loro idee ed opinioni su diversi temi come la scuola, la città, il futuro. L’idea dello striscione ci sembra buona per diversi motivi: diamo un elemento di novità al laboratorio, lavoriamo con i colori e le idee, è occasione di riflessione sullo spazio pubblico, cerchiamo di influenzare lo spazio esterno al Mammut, ma anche i nostri pensieri e il quartiere in cui viviamo, trasmettendo un messaggio. Nella riunione di programmazione io e Chiara decidiamo di iniziare con la lettura della frase scritta fuori al mammut in alto che dice “Scampia non vuole un deserto, vuole una piazza. Restituiamo le strade ai bambini”, frase di elicitazione, per poi avvicinarsi, piano piano, al tema striscione. Prepariamo l’officina con il tavolo centrale, i pennarelli ed i fogli. Arrivano i ragazzi/e, firmano sul diario di bordo, poi Chiara fa una breve introduzione al laboratorio della giornata. Usciamo fuori e facciamo leggere la frase. Quando rientriamo chiediamo loro di scrivere su dei foglietti colorati tutto quello che la frase gli fa pensare. Dopo i primi attimi di rodaggio, escono delle cose bellissime che mi sorprendono molto perché colgono perfettamente il significato della frase scritta fuori. Poi Chiara lancia un altro input: scrivete sui foglietti che cosa vi fa pensare l’espressione “spazio pubblico”. Anche questa volta resto sorpreso dalle risposte dei ragazzi. In particolare il gruppo del Bakù mostra una grande maturità e conoscenza del mondo. Poi riportiamo tutte le loro idee e pensieri su un foglio A3. Chiara a questo punto si allontana un attimo per fare l’iscrizione ai ragazzi, fuori durante tutto il tempo ci sono le mamme dei ragazzi del Bakù che aspettano3 . Restiamo nella stanza con i ragazzi io e Giaccio. Chiediamo loro di fare un disegno su un foglio A4, la loro idea di striscione da mettere in piazza, con frasi e disegni. Così i ragazzi iniziano a scrivere: spazio pubblico, spazio pedonale, per bambini, vietato l’entrata alle auto e fanno disegni di divieto alle auto e moto. Poi io faccio notare loro che tutti hanno fatto disegni sulle cose che non si possono fare nella piazza, così gli chiedo di disegnare adesso cosa si può fare nella piazza e così loro su un altro foglio A4 scrivono e disegnano robe del tipo: è possibile giocare con il pallone, entrare con le bici, i monopattini, fare picnic, fare foto etc. Nel frattempo si sono fatte le cinque e fuori i ragazzi iniziano ad aumentare, da molto tempo c’è il gruppetto della Vela Bianca che pazientemente ha aspettato fuori l’inizio della ciclofficina, poi c’è Checco, il piccolo Francesco con la nonna e sicuramente qualcun altro ancora. Io, cercando di non perdere la buona atmosfera che si è creata durante il laboratorio dico a Chiara che, se pensa sia meglio, può andare nella stanza grande in fondo con il gruppetto del laboratorio a continuare a lavorare allo striscione, io starò in officina a lavorare sulle bici, ce la farò da solo! Chiara così chiede al gruppetto del laboratorio che cosa preferisce fare ma loro preferiscono aggiustare le proprie bici adesso. Così il laboratorio è rimandato alla prossima settimana, del resto, con il senno di poi, da solo sarebbe stato molto difficile gestire il momento della ciclofficina. Mi dedico subito alla bici di Francesco, 7 anni, che sembra sia quella al momento più inguaiata. Dedicherò molto tempo a questa bici, quasi assentandomi dal resto. Ad un certo punto mi guardo intorno e vedo l’officina invasa da ragazzini e Chiara e Giaccio in mezzo alle loro richieste di attenzione ed aiuto. A me toccano sempre le bici con più problemi e questo da una parte è un problema perché mi tiene concentrato su di una sola bici, mentre potrei fungere anche io da jolly; a volte mi sono accorto che Giaccio e Chiara erano proprio sommersi dai ragazzi e che le mie energie avrebbero potuto essere impiegate meglio… ma del resto quando una bici è complicata da sistemare è complicata e non c’è niente da fare4 . Verso la fine della giornata esco fuori dall’officina, mi siedo vicino alla nonna di Francesco che è stata seduta sulla panca di legno tutto il pomeriggio ad assistere alla ciclofficina, mi dice: “ma che pazienza che avete si vede proprio che ci tenete”. Piazza 213 separato le giornate di Ciclofficina e Laboratorio visto l’aumento del numero dei partecipanti). 3. Piazza Giovanni Paolo II di Scampia, dove è la sede del Centro territoriale Mammut. diario di bordo/scheda laboratorio bici sabato 12 luglio 2014 di Chiara Ciccarelli Tre 214 4. Spesso è capitato che i ragazzi/e hanno cominciato a frequentare prima il laboratorio e poi, su nostre sollecitazioni, i genitori sono venuti a fare l’iscrizione. Questo passaggio è molto importante in quanto rinsalda un patto di partecipazione e dà forza alla scelta dei ragazzi di esserci, Ore 10.30. Oggi i ragazzi hanno molta voglia. Essere stati convocati apposta in questa giornata inconsueta (sabato mattina) ha dato al fatto una certa importanza. Hanno sentito anche l’importanza che noi abbiamo dato a questi due ultimi incontri incentrati solo sull’apprendimento della meccanica della bicicletta, per potere fare sintesi degli apprendimenti costruiti nel corso dell’anno. Ritornano Marta e Giorgio che non venivano da un po’, per una volta il mio sms è stato utile, o forse più utile è stato il passaparola tra i ragazzi. Sono tutti della Vela Bianca. Sono 3 ragazze e 6 ragazzi. Dopo aver condiviso lo scopo di questi ultimi incontri di laboratorio e definito l’obiettivo di dover ripetere gli apprendimenti base (struttura della bici con tutte le sue componenti e ruota) ci dividiamo in sottogruppi: 1) Disegno della bicicletta: sotto la guida di Giaccio 2) Smontaggio dei pezzi della bici: sotto la guida di Francesco 3) Vocabolario: sotto la guida di Chiara Il laboratorio procede in una quiete che solo il sabato mattina si può avere. Stiamo molto bene. C’è chi fa le foto, chi scrive, chi disegna, chi smonta. Ci si parla tra i diversi gruppi e quello dello smontaggio e del vocabolario procedono parallelamente. I ragazzi del secondo e terzo gruppo poi si alternano nei compiti. Nella seconda parte della mattinata, forse per stanchezza, ci sentiamo un po’ meno efficienti della prima, anche se il momento resta bello. Ci salutiamo verso le 13.20, anche se non abbiamo finito i vari lavori. Ci diamo appuntamento alla settimana prossima. note: La presenza di figure come Mara (8 anni) che manifesta reale interesse e curiosità per le proposte fatte è molto positiva. Molto emozionante osservare i grandi progressi fatti da questo gruppetto della Vela Bianca, al principio visti come un gruppo indistinto, confusionario, caratterizzato da grande avidità e bisogno di “possedere”. Oggi visti come legittimi frequentatori di questo spazio, che hanno saputo usare con passione e interesse prendendosi il meglio che aveva da offrire loro. Resta la difficoltà di far integrare gruppi provenienti da vari rioni se vengono in gruppo e non singolarmente. Molto buono separare il laboratorio dalla ciclofficina e il lavoro in sottogruppi con guide adulte. Così si può realmente lavorare! … Diari di bordo… preziose tracce e memorie di esperienze. Aiutano a capire, ad evolversi, a registrare il cambiamento. Nelle ultime giornate ci siamo resi conto che i ragazzi/e hanno imparato molte più cose di quello che pensavamo. Ora si muovono nell’officina con sicurezza, hanno acquisito una buona padronanza di diverse conoscenze di ciclomeccanica, hanno ben interiorizzato la cultura del riciclo e riuso dei materiali (in molti casi già di per sé ben sviluppata); spontaneamente si aiutano tra loro, danno meno conto all’estetica e più alla funzionalità delle loro bici, si pongono creativamente verso i problemi, mostrando determinazione nella capacità di trovare soluzioni, e soprattutto ora usano più spesso la bici e non solo per giocare. C’è chi lo fa per andare a scuola, chi per andare a lavoro, chi per muoversi quotidianamente; nel quartiere, poi, è visibilmente aumentato l’uso della bicicletta. Molti sono stati i ragazzi e le ragazze che sono passati nella nostra officina, ne abbiamo contati circa cinquanta, ognuno c’è stato per il tempo che ha scelto di starci. Ognuno si è preso ciò che è riuscito a prendersi e ha interiorizzato a modo suo gli apprendimenti sperimentati nel corso dell’anno e ha contribuito attivamente a creare questa esperienza. Incoraggiandoci a pensare a come poter sviluppare ancora meglio questo spazio di sperimentazione e conoscenza. Piazza 215 il corpo, la musica, il ballo. tra breakdance e hip hop Rispetto, famiglia, corpo, amicizia, salute, solidarietà, felicità, bello, cultura, amore, gruppo, comprensione, valori, responsabilità, libertà, legami, condivisione, certezze, luogo d’incontro, rifugio, breakdance, vero, tranquillo, impegno, ricordi, progetti, biciclette, casa, bimbi felici, produttivo, hip hop, carnevale, colori, formazione, possibilità, scambio, porte della crescita, prime esperienze. Queste sono solo alcune delle parole scritte alla richiesta di raccontare il Mammut in cinque parole nella riunione di riprogrammazione fatta con i ragazzi e ragazze del laboratorio di breakdance, o più comunemente detto black dance, dai tanti bambini e ragazzi del quartiere che vi partecipano affascinati dalle acrobazie dei più grandi. A settembre 2014 le riunioni del laboratorio break sono state due: quella con il gruppo dei giovani adulti (composto anche da ragazzi che non fanno break ma praticano altre discipline dell’hip hop) e quella con gli adolescenti ormai gruppo stabile del laboratorio. Il primo gruppo è composto dai ragazzi con cui, sette anni fa, abbiamo realizzato le prime sperimentazioni all’interno del Progetto Corridoio1. Tra approfondendo intimità, relazione e coinvolgimento delle famiglie. 5. Nel gruppo di lavoro io sono quello che ha maggiori competenze in ciclomeccanica. Tre 216 questi qualcuno scrive2 : “Il Mammut mi ha fatto viaggiare. Credo che sia una componente fondamentale nella mia vita il saper di poter lasciare tutto e andare via, tornare in patria e poter mettere in pratica ciò che ho vissuto per migliorare me e l’ambiente che mi circonda. Quest’ultimo punto – il saper di poter agire sul posto dove vivo per renderlo migliore – è un altro regalo del Mammut”; “Quando siamo partiti per Firenze abbiamo cominciato a viaggiare insieme”, “Le prime esperienze al Gridas7 mi hanno dato la possibilità di vedere un’altra realtà sociale”. Ed è composto anche da quelli che si sono aggiunti poco dopo, quando, nel febbraio del 2009, il Mammut si è stabilizzato nella sua sede, in cui ben presto ha avuto inizio il laboratorio di breakdance. Ecco qualche altra “traccia”: “I ragazzi a cui abbiamo insegnato a ballare la break hanno cominciato a farlo fuori dal Mammut confrontandosi con altri contesti, come le Jam, i battle”; “Nel Mammut ho incontrato il primo libro interessante, il primo libro che sono riuscito a leggere, thanks kiara!”, “Un giorno che assistevo all’allenamento di break entrò un bambino ‘estraneo’, sono rimasto colpito dall’atteggiamento dei presenti nell’accogliere in modo naturale quel bambino, quel modo usato mi ha insegnato molte cose”. Il secondo gruppo, quello degli adolescenti invece scrive: “Mi ricordo il primo giorno in cui sono venuto al Mammut fu molto emozionante mi sono sentito subito a mio agio come se già ne facessi parte, sono stato accolto molto bene da tutti”, “Un momento in cui ho sentito che il Mammut era importante è quando ho visto che tutti erano disposti a cedere qualcosa di proprio ad un’altra persona. Ho imparato la condivisione del sapere e della felicità”, “Quando ho cominciato a ballare la break il Mammut è stato importante perché luogo di apprendimento”, “Nel momento in cui, entrando nel mammut, ho notato che non era solo un luogo per allenarsi ma era un posto neutro da ogni tipo di razzismo, nessuno giudica nessuno, siamo una sola famiglia che condividiamo la stessa passione”, “Quando siamo andati insieme al PUB73, e, imparata la strada, abbiamo cominciato a ballare lì nel tempo della chiusura del Mammut”, “Credo che ogni giorno si possa imparare qualcosa dal Mammut anche inconsapevolmente quindi il mio episodio è quello di tutti i giorni”. Nel ricordare un momento bello dell’anno qualcuno scrive: “Quando sono cominciati a venire anche gli altri breaker da altre parti della città”, “Ai battle tutti insieme, iscrivendoci come un unico gruppo il Mammut Flava”. Alla domanda su proposte, idee, prospettive, Francesco scrive: “Diventare allenatore di break”. Francesco ha 15 anni e a scuola non ci riesce più ad andare, si è fermato in prima media, benché sia serio, diligente, molto competente, sa scrivere e leggere bene, è molto veloce negli apprendimenti, riesce bene in tutto quello in cui si impegna. A scuola, però, proprio no, dice che si scoccia. Il laboratorio di break per lui è stata una vera e propria rivelazione, la sua iniziale curiosità è diventata ben presto passione e determinazione, in poco tempo ha imparato acrobazie e passi difficili. Frequen- ta anche la ciclofficina, anche lì è molto bravo. La possibilità di farlo tornare a scuola aiutandolo a riconoscersi, e far riconoscere le sue competenze, è un obiettivo chiaro per il nostro lavoro, ma il suo desiderio di diventare allenatore di break mi apre visioni e prospettive, forse proprio quelle che Francesco sente che gli sono state aperte nel confronto con tante esperienze al Mammut. Oggi il laboratorio di break è molto affollato e alcune ragazze mi hanno chiesto di occupare anche le altre stanze oltre il salone, per poter provare i passi, per poter lavorare a superare la vergogna di non sapere fare come gli altri. Sono sostenute dai compagni che non esitano a spendersi, con pazienza e passione, per insegnare ciò che sanno. Si sente molta energia. Un giovane adulto che fa il volontario mi dice: “Non sai in queste stanze quanta Hip Hop c’è…”. Questa frase qualche anno fa non avrebbe significato nulla per me, ora invece mi emoziona e mi fa capire che la rotta è giusta. In molte occasioni lui e tanti altri, mi hanno raccontato cosa ha voluto dire per loro il mondo dell’hip hop. La possibilità di confrontarsi con altro, qualcosa di bello. La possibilità di imparare a conoscere un mondo diverso rispetto a quello delle file di tossicodipendenti in attesa di comprare una dose, visto dalla finestra di casa. “Sì, l’hip hop mi ha salvato la vita! Quei pantaloni larghi, mi hanno cominciato a far sentire diverso dagli altri del mio rione ma appartenente ad un’altra famiglia”, sì, quella dove ci si saluta ogni volta con quel movimento di mani che sembra un gioco, ma che invece per chi ne è dentro è condivisione e rievocazione dei principi fondamentali di questo mondo: pace, rispetto e fratellanza. Anche se gli stili e il modo di vivere l’hip hop sono tanti, ognuno dei ragazzi si è avvicinato a questo mondo in modo diverso, con diverse motivazioni e provenendo da situazioni sociali e famigliari differenti, chi da contesti più poveri e difficili, chi da contesti più benestanti, sani, sereni. Una delle caratteristiche più importanti del Mammut è che qui si confrontano vari modi di vivere l’hip hop all’interno di un “contenitore” che a sua volta veicola ideali, etica e la sua visione del mondo. Miscela davvero interessante, caratterizzata dalla presenza di tante diversità che si confrontano tra loro, arricchendosi reciprocamente definendo nuovi codici comuni. Il laboratorio breakdance è ormai un’esperienza consolidata da anni. Nel tempo si è sviluppata e ha assunto una sua forma specifica, sintesi di tutte le tracce e i contenuti lasciati dai tanti ragazzi e ragazze che sono passati e hanno contribuito a creare questo spazio di espressione libero, legato alla breakdance ma più in generale al mondo dell’hip hop. I ragazzi lo sanno bene che questa non è una palestra o semplicemente un luogo per allenarsi, il Mammut è altro. Ed è per questo che i più grandi che ora insegnano nelle palestre la disciplina della breakdance invitano i loro alunni a venire Piazza 217 6. Luglio 2007. Per saperne di più vedi Come partorire un mammut (e non rimanere schiacciati sotto), a cura di G. Zoppoli, Marotta&Cafiero 2011, scaricabile anche dal sito www.mammut napoli.org. anche al Mammut: “lì sì che si capisce davvero che cos’è la break, il valore dell’incontro, il rapporto con la strada e la contaminazione con gli altri, il confronto con diversi stili, ognuno il suo, frutto di una ricerca personale”; “lì si viene a contatto con una dimensione a 360° dell’hip hop perché c’è chi fa rap, chi disegna, chi fa il DJ”. L’incontro con la cultura hip hop è stato fondamentale all’interno della nostra riflessione su “una scuola per adolescenti”. Ha aperto visuali, ha allargato immaginari, in primis agli adulti/educatori e poi di conseguenza a tutti i ragazzi e le ragazze che s’incontrano ormai da cinque anni tra le mura del Centro territoriale Mammut, condividendo stesse passioni e interessi, esprimendo curiosità e conquistando conoscenze. Tre 218 7. Ad ognuno dei ragazzi/e è stato chiesto di scrivere: ‘Racconta un episodio in cui senti di aver imparato qualcosa al mammut o in cui hai sentito che il mammut era importante per te’. diario di bordo laboratorio breakdance 16 dicembre 2013 Oggi è un giorno speciale! A Napoli c’e’ Tom, un ospite venuto da lontano, uno dei membri della Universal Zulu Nation organizzazione mondiale che ha come scopo la diffusione dei principi etici, ideali e anche della tecnica relativa alle diverse discipline e dell’hip hop. Nel fine settimana ha svolto un workshop nell’Auditorium occupato “Carlo e Valerio Verbania”. È ospitato dai ragazzi di “Stonage” che hanno una sede a Soccavo. Gabriele, la guida di questo gruppo, ha organizzato la sua venuta. Salvatore, che quest’anno si sta dedicando come non mai al laboratorio di break del Mammut, ha insistito con Gabriele per far passare Tom anche dal Mammut. Nel corso dei mesi molti breaker adulti hanno cominciato a frequentare il Mammut, su fb hanno costituito un gruppo che si chiama Mammut Flava. Lo spazio del Mammut è molto apprezzato da questi giovani, alcuni commentano con Salvatore che il nostro sembra un po’ un centro di aggregazione giovanile su modello europeo, un’esperienza a metà tra il centro sociale e quegli spazi gestiti in modo più formale. La presenza di giovani provenienti da diverse zone della città e della provincia rappresenta un ottimo contesto educante per i più piccoli, che confrontandosi con un gruppo variegato e composito non solo stanno imparando vari stili di break ma stanno avendo occasione di confrontarsi con diversi adulti in una dimensione relazionale e di apprendimento basata sulla passione, lo scambio e l’informalità. Osservo una grande crescita da parte dei più piccoli, soprattutto Francesco, che dando molta soddisfazione ai suoi maestri, per la sua capacità di apprendimento rapida ed intuitiva, sta istaurando delle relazioni importanti con molti ragazzi più grandi. L’arrivo di Tom è atteso con ansia da tutti, per l’occasione anche i piccoli si trattengono fino a tardi. Tra i breaker napoletani si sparge la voce che Tom è al Mammut e tutti accorrono, arrivano Dalila e Andrea, Lorenzo da San Giovanni a Teduccio, che porta anche i dolcini della pasticceria dove lavora, e molti altri. Il clima è bello ed emozionante e noi facciamo gli onori di casa come meglio possiamo: regaliamo sorrisi, racconti, passi di break e una maglietta del mammut a Tom, lui felice ci ricambia con i suoi racconti e i suoi passi. A fine serata, poi, io faccio da guida per arrivare da Scampia a Soccavo dove c’è l’associazione in cui è ospitato Tom. Piazza 219 8. Gridas – Gruppo risveglio dal sonno - www. felicepignataro. org. Storico centro sociale del quartiere, per noi radice e fonte di ispirazione, parte della rete con cui condividiamo molte delle nostre azioni. conclusioni Tre 220 Sfogliando le pagine dei tanti diari di bordo, degli appunti delle riunioni di verifica e di riprogrammazione, mi accorgo di quante evoluzioni, quante graduali conquiste in questi anni, e di come le domande/problemi delle nostre “mappe di ricerca” sono naturalmente mutate nel tempo. Domande che hanno trovato riposte e soluzioni nel fare quotidiano e nella possibilità di sviluppare insieme un pensiero educativo, a partire dallo sforzo di noi educatori di tenere nella propria mente i tanti ragazzi e ragazze con cui stiamo crescendo in un continuo scambio reciproco, e di cui abbiamo il privilegio di osservare crescita ed evoluzione nel tempo. Tenerli nella mente insieme agli ideali, l’etica, la visione del mondo che dà spazio al nostro e al loro desiderio di ricerca e cambiamento. La complessità della situazione, la ricchezza del gruppo e il suo essere variegato e composito, la mescolanza delle diverse identità e componenti: il corpo, le bici, i sapere, le passioni, la manualità, il ragionamento, gli apprendimenti, il ballo ci pongono continuamente di fronte a imprevisti e necessità di ridefinirsi rispetto agli accadimenti. Di fronte alla nostra domanda di ricerca – territorio e scuola possono trasformarsi in luoghi generatori/potenziatori di salute individuale e collettiva? – osservando gli indicatori qualitativi e quantitativi raccolti ci è sembrato che le azioni messe in campo con gli adolescenti abbiano rappresentato contesti sani e generatori di benessere, strumenti per conquistare e diffondere una visione critica e complessa del mondo, in una “postura” di continua ricerca, attraverso cui poter ripensare il modo di fare educazione e di fare città. Ringraziamenti: Ringrazio Francesco Sivo e Luca Giaccio, compagni di biciclette, per la generosità, la passione e l’amore con cui hanno costruito insieme a me questa esperienza. Ringraziamo Mario Schiano per la sua presenza e i suoi regali. Ringraziamo i membri della Ciclofficina Popolare di Napoli ‘Massimo Troisi’ promotori anche della Critical Mass napoletana, SpaccaNapoli Bike, l’Associazione Cicloverdi FIAB, Napoli Pedala/Napoli Bike Festival, che ci hanno incoraggiato e sostenuto, in particolare ringraziamo Eduardo Lubrano per la sua diponibilità e Claudio Caccavale, ciclomeccanico appassionato, senza il suo supporto non saremmo arrivati dove siamo! Ringraziamo i giovani della UNS Crew, ma in particolare Domenico Tranzi e Salvatore Riccardi che si sono dedicati con desiderio e passione al Laboratorio di break. inquadramento metodologico area adolescenti e giovani: Il contesto del Mammut rivolto ai preadolescenti, adolescenti e giovani adulti, si pone l’obiettivo di essere un’esperienza-ponte tra scuola, famiglia, quartiere e resto del mondo. La pedagogia attiva è alla base della nostra metodologia e i seguenti principi guidano le azioni: • ruolo attivo dei ragazzi: nessuno di loro è considerato utente passivo, ma ognuno contribuisce attivamente alla creazione del proprio percorso di crescita e contribuisce alla vita del Centro, assumendo un ruolo preciso nell’organizzazione; • educazione informale e peer education è alla base della creazione dei contesti educativi proposti, in cui si da spazio a passioni, curiosità ed attitudini di ognuno; • la visione di città come aula diffusa: la città e le sue strade, le sue piazze, così come le altre città, sono contesti di sperimentazione e apprendimento privilegiati. L’uscita dal proprio quartiere, il confronto con altre esperienze, l’essere portatori di specifiche competenze nella condivisione di progetti comuni sono occasioni di crescita preziose. Le esperienze maturate in questi anni ci hanno dato precise indicazioni sulla necessità di creare contesti di apprendimento chiari e definiti, basati sull’esperienza e sul fare, caratterizzati da flessibilità ma allo stesso tempo da una cura e da un rigore metodologico che svolge la funzione di contenitore stabile all’interno del quale accompagnare un processo di crescita. Ciò nasce dalla consapevolezza che in questa fascia d’età i ragazzi e le ragazze manifestano una certa difficoltà a mantenere continuità nella presenza e a concentrarsi sul lavoro, la proposta fatta ha quindi lo scopo di stimolare la motivazione e l’auto-responsabilizzazione dei ragazzi che devono scegliere di partecipare all’esperienza in base ai loro interessi, bisogni, desideri, attitudini, curiosità. Il confronto con un contesto di apprendimento che ha un sistema di regole ben strutturato ma che non richiede obbligatorietà rappresenta un’esperienza inconsueta e fertile per i ragazzi. laboratorio bici ABCicletta e ciclofficina mammut La bicicletta con tutte le sue porte è lo sfondo integratore dell’esperienza proposta. caratteristiche: scheda tecnica La scelta di utilizzare la bicicletta come centro delle nostre attività nasce dalla consapevolezza degli effetti benefici sulla salute psicofisica dell’individuo e dalla presa di coscienza di tutte le possibilità educative offerte da questo mezzo a diversi livelli: dal micro (individuo, lavoro sul corpo, manualità, ingegno, cooperazione, confronto, curiosità, capacità di risolvere problemi, concentrazione, abilità manuali, autonomia, autostima acquisizione di competenze spendibili in diversi contesti) al macro (gruppo/collettività/ società, ecologia, inquinamento, fruibilità di strade, città, mobilità sostenibile, visione critica del mondo). La bicicletta è anche primo mezzo di sperimentazione autonoma con cui cominciare a scoprire il mondo liberamente. organizzazione degli spazi e dei tempi La proposta si articola in due diversi modi con spazi, tempi e modalità specifiche: il Laboratorio ABCicletta e la Ciclofficina. Nel corso dell’anno siamo venuti in contatto con almeno 60 persone tra bambini, adolescenti e adulti. 1) laboratorio ABCicletta: È uno spazio aperto all’interno del quale si lavora intorno alla conoscenza della ciclomeccanica e si stimola lo sviluppo di una cultura ecologica legata alla bicicletta e alla mobilità sostenibile declinata in tutti i suoi vari aspetti. Si svolge una volta a settimana per due ore. Si rivolge a ragazzi e ragazze dagli 11 anni in su, senza escludere la possibilità che qualcuno anche con qualche anno in meno possa manifestare una passione ed attitudine particolare e quindi entrare a far parte del laboratorio. struttura tipo del laboratorio: 1) Accoglienza con disegno bici e firma sul diario di bordo 2) Cerchio in cui si condivide il programma della giornate e le esigenze del gruppo 3) Sperimentazioni pratiche di apprendimenti di ciclomeccanica attraverso vari strumenti, tra cui anche uscite 4) Merenda (prevalentemente frutta) 5) Cerchio di condivisione finale in cui si condividono apprendimenti, scoperte, conquiste ed emozioni della giornata per poi scriverle ed appenderle al diario di bordo collettivo appeso al muro ingredienti: Ambiente sufficientemente ampio Stabilità dello spazio e del tempo Spazio che può conservare le tracce dell’esperienza anche sui muri Attrezzi base di un officina di ciclo-meccanica (uso della panoplia) Manuale di ciclo-meccanica Bici su cui poter sperimentare Pezzi di bici smontati da poter studiare Diario di bordo giornaliero sul modello del “giornale murale” Programmazione Diari di bordo degli operatori • • • • • • • • • • • • Intreccio con altre esperienze della struttura di cui fa parte Intreccio con altre esperienze cittadine e nazionali della rete alcuni strumenti di lavoro: • Cerchio di condivisione • Sperimentazioni pratiche: nei primi incontri siamo partiti da un approccio molto pratico e diretto, dove ognuno smontando e rimontando una bicicletta ha cominciato a scoprirne tutti i segreti • Graduale ricerca e connessione tra attrezzi e parti delle bici, dando anche molto spazio al gioco • Lavoro di archiviazione dei pezzi di ricambio • Lavoro sulla terminologia: il vocabolario della bicicletta • Giochi collettivi con pezzi di bici (ad esempio “cerca l’intruso”) • Lavoro volto alla creazione di un manuale di ciclomeccanica • Lavoro sull’identità del gruppo: creare elementi distintivi del gruppo, come ad esempio dipingere le bici comuni con lo stesso stile • Utilizzo di vari linguaggi espressivi: pittura, disegno, costruzione di storie e/o fumetti in cui la bicicletta è protagonista • Utilizzo collettivo della macchina fotografica per documentare la giornata attraverso lo sguardo dei ragazzi • Passeggiate in bicicletta nel quartiere: Es. Laboratorio sulla biografia dei luoghi: connessione tra luoghi del quartiere e biografie personali • Passeggiata in bicicletta per partecipare ad iniziative organizzate da altre associazioni e/o gruppi • Scambi culturali e gite in bicicletta in città volti all’uscita dal rione e dal quartiere (quindi conoscenza della città e partecipazione alla vita cittadina, attraverso passeggiate in bici e confronto con atre esperienze come le Critical Mass) • Ciclofficina itinerante nel quartiere • Diario di bordo murale collettivo, in cui poter condividere apprendimenti, novità, conquiste della giornata ma anche le emozioni ad essa connesse • Riunioni di programmazione e verifica degli operatori • Scambio di pratiche tra esperienze simili • Uno sguardo alla città: lavoro di rete per creare occasioni di incontro, scambio, contatto con altre realtà • Uso degli spazi pubblici in una dimensione partecipata e collettiva, azioni di riqualifica sullo spazio pubblico attraverso l’uso della bici caratteristiche metodologiche: • Lo spazio del laboratorio è stato pensato in un’ottica montessoriana: attrezzi e materiali sono facilmente accessibili il che favorisce l’autonomia dei ragazzi nella loro gestione e nell’organizzazione del lavoro. • Il ruolo degli adulti è quello di favorire l’esperienza di apprendimento, privilegiando soprattutto autonomia, sperimentazione pratica, ragionamento, creatività e capacità di problem solving dei ragazzi, stimolando cooperazione e apprendimento tra pari. • Struttura flessibile rispetto ai tempi di partecipazione e alle frequenze: non vi è l’obbligo di dover partecipare a tutto il ciclo del laboratorio, ma vige la regola che nel tempo che si sceglie di stare all’interno del laboratorio ci si concentra sul lavoro, si partecipa e si è disponibili a mettere a deposizione le proprie competenze per aiutare gli altri. • Osservare i diversi stili di apprendimento mettendo in campo azioni che possano sostenere ognuno nelle sue caratteristiche. 2) ciclofficina Condivide i principi delle ciclofficine popolari. È uno spazio aperto a tutti: bambini, adolescenti adulti, in cui si aggiustano insieme le biciclette gratuitamente, si creano nuove biciclette assemblando i pezzi, si effettua il prestito delle bici. Si svolge una volta a settimana per tre ore. struttura tipo del laboratorio: 1) Accoglienza con disegno bici e firma sul diario di bordo 2) Cerchio in cui si condividono le problematiche delle diverse bici da aggiustare e si definisce insieme un programma di lavoro 3) Si aggiustano le bici in una dimensione cooperativa dove ci si aiuta reciprocamente con il sostegno degli adulti 4) Prima di andar via ognuno appunta le conquiste della giornata sul diario di bordo murale ingredienti: • Ambiente sufficientemente ampio • Stabilità dello spazio e del tempo • Spazio che può conservare le tracce dell’esperienza anche sui muri • Attrezzi base di un officina di ciclo-meccanica (uso della panoplia) • Manuale di ciclo-meccanica • Pezzi di ricambio • Diario di bordo giornaliero sul modello del “giornale murale” • Diari di bordo degli operatori alcuni strumenti di lavoro: • Riutilizzo e riciclo di materiali • Inserimento nel movimento cittadino che sostiene l’uso della bicicletta contribuendo a creare una rete dei soggetti (meccanici di biciclette) che con le biciclette lavorano ogni giorno e con il tentativo di “rimettere in marcia” le moltissime bici che sono abbandonate negli androni dei palazzi o nei garage caratteristiche metodologiche: • La regola base è che le bici si aggiustano insieme, il proprietario non è considerato un utente passivo destinatario di un servizio, ma partecipante attivo che insieme ai ciclomeccanici del Mammut acquisisce consapevolezza del problema della propria bici e si sperimenta nel poterlo risolvere in autonomia. • Questo spazio è utile per il quartiere, in quanto offre la possibilità di aggiustare bici gratuitamente. • Creazione in cui si crea una relazione privilegiata con i ragazzi e le ragazze con cui è più difficile entrare in contatto: il fare insieme, l’affidamento, la cooperazione crea un’occasione di scambio importante e possibilità di instaurare relazioni significative, in cui i ragazzi si confrontano con adulti attenti e accoglienti che spingono verso l’autonomia e l’acquisizione di competenze senza accettare deleghe (“ fai tu, io non lo so fare”), stimolando autostima e rinforzo di capacità personali. • La Ciclofficina prevede anche la realizzazione di prestiti gratuiti delle biciclette di lunga durata. Questa offerta si propone l’obiettivo di promuovere l’utilizzo della bicicletta e di diffusione di una cultura della mobilità sostenibile, molto importante in un quartiere di periferia come Scampia dove, come in tanti altri quartieri metropolitani, il motorino rappresenta uno status e strumento di definizione della propria identità. Il prestito rappresenta anche un modo per avere un patrimonio comune (un bene comune da curare insieme che può essere utilizzato liberamente, e rappresenta un modo per “tirare dentro” anche chi non ha la bicicletta). annotazioni interessanti: Interessante osservare come la sperimentazione abbia rappresentato un lavoro trasversale sul tema dell’identità di genere e le pari opportunità. Per i ragazzi confrontarsi con un operatrice di sesso femminile che ha competenze in ciclo-meccanica sorprende molto, in quanto il fatto che una donna riesca a risolvere problemi di meccanica non corrisponde alla loro rappresentazione della figura femminile. Allo stesso tempo per le ragazze la presenza di una donna ciclo-meccanica rappresenta un forte stimolo, che dà coraggio e incentiva a provarci, aiutando ad allargare immaginari ed anche la possibilità di ripensarsi in modo diverso rispetto al modello culturale che la società propone. Questo ci è sembrato quindi un importante modo per smontare i ruoli precostituiti legati al maschile e al femminile e poter offrire stimoli di riflessione e confronto con modelli culturali diversi. La proposta educativa fatta si inserisce in un contesto di rete allargata cittadina che negli ultimi anni sta portando avanti a Napoli un importante lavoro di diffusione della cultura della bicicletta e la diffusione dei valori ad essa connessa. Tale rete rappresenta per noi un supporto importante sia per le attività in sede sia perché ci offre opportunità di rientrare in contesti allargati legati al mondo della bicicletta in cui i ragazzi si possono confrontare. laboratorio breakdance / hip hop Il laboratorio di Breakdance si svolge stabilmente tre volte a settimana accoglie un gruppo di circa 30 ragazzi e ragazze: di età compresa tra i 6 e i 25 anni (ragazzi che sono all’interno o all’esterno dei circuiti scolastici). Il laboratorio prevede la presenza di un educatore con funzione di regia educativa, e di giovani volontari esperti di breakdance che insegnano ai meno esperi tale disciplina. A fianco ai laboratori ci sono le giornate di allenamento di break autogestite completamente dai giovani più grandi che da anni frequentano il Mammut e hanno le chiavi della sede. caratteristiche: • Entrambe le esperienze si basano sull’apprendimento tra pari e sull’educazione informale, in un continuo e reciproco scambio di competenze, passioni e valori, laddove non vi è un unico soggetto che detiene il ruolo di “maestro” ma questa funzione è distribuita tra tutti quelli che hanno sviluppato maggiori competenze. Vi è quindi una continua alternanza di ruoli e spesso accade che un piccolo insegni ad un grande perché ne sa di più. • Il gruppo è misto per provenienza, sociale, culturale, economica, di genere ed anche età (6 – 26 anni): la passione comune travalica la distanza generazionale. Tutti i membri del gruppo sono concentrati su un obiettivo comune: esprimersi ed aiutare i compagni a trovare il loro canale di espressione, trasmettendo valori e competenze. • Creazione di un ambiente educante in cui sentirsi riconosciuti e poter riconoscere, arricchito dagli stimoli degli educatori del centro e da un senso di appartenenza ad una fertile e stimolante comunità territoriale più ampia, composta da bambini, famiglie, giovani e migranti. • Legame e scambi con la cultura hip hop, che rappresenta uno dei linguaggi più sviluppati tra i giovani nelle periferie delle metropoli e non solo. Le sue quattro discipline: writing, rap, dj, breakdance, appassionano e coinvolgono. Nella cultura hip hop il rapporto con la strada, la possibilità di poterla esplorare, vivere, conoscere, trasformare, “cantare”, “ballare” è una caratteristica fondante. Vivere la strada in modo sano e costruttivo imparandone limiti e potenzialità, esprimendo costanza e volontà per imparare, approfondire e crescere nella propria specifica disciplina. Ogni disciplina è caratterizzata da prove estremamente difficili, che richiedono dedizione e passione affinché si possa diventare competenti. Ognuna richiede studio, rigore e volontà ferrea, ma soprattutto il piacere, il desiderio di scambiare competenze, di imparare da un pari e al contempo insegnare qualcosa in cui si è più bravi, in un continuo e reciproco scambio. Il conflitto, la competizione, è una caratteristica dell’hip hop, questo viene vissuto in una dimensione costruttiva volto all’evoluzione, e si esprime nei passi di break, nelle rime del rap, e nei colori di un muro che prima era grigio. Il gruppo, la crew, rappresenta un aspetto centrale dell’esperienza condivisa, il gruppofamiglia di appartenenza, organizzazione valoriale, che va a corrispondere ai bisogni pro- pri del periodo adolescenziale, quando vi è la necessità di aggregarsi con i coetanei ed identificarsi in altri gruppi ed esperienze che possano supplire alla propria famiglia. Si tratta di un contesto educante, basato sull’educazione informale, sull’apprendimento tra pari e su linguaggi e gerghi da cui spesso gli adulti sono esclusi, ma che quando si cominciano a comprendere esprimono tutta la loro potenzialità. Si imparano a leggere i muri della città, si impara a capire chi ci è passato, come si sentiva e che cosa sia successo, si impara a non avere paura di fronte a un battle (=battaglia) che, per quanto possa avere un sapore di guerra diventa show in cui osservare i miglioramenti di chi si mette in gioco. ingredienti: • • • • • Spazio ampio con possibilità di uso bagno, con acqua calda. Strumentazione musicale. Peer education. I principi dell’educazione informale. Presenza di chi ha un ruolo di maestro: (che condivide le stesse esigenze degli alunni: allenarsi e continuare ad imparare). • Presenza di chi ha un ruolo educativo. • Creare spazi di pensiero condiviso e riflessione sull’esperienza attraverso cerchi di condivisione e riunioni di verifica e riprogrammazione. • Sostenere la cultura dello scambio di competenze anche con i più piccoli, in un contesto in cui è la competenza che fa diventare maestri anche i più giovani. • Favorire la creazione di progetti comuni collegati con la struttura: preparare esibizioni collettive per le feste del Mammut, ecc. • Partecipazione attiva alla vita del centro. • Uscite collettive: partecipazione a jam, battle, eventi legati al mondo dell’ hip hop. • Contaminazione con tutte le discipline dell’hip hop. • Sostegno alla nascita di processi spontanei di autonomia e contatto con altre esperienze (ad esempio, insegnare la strada per recarsi in un locale o in un parco pubblico dove ci sono altri ragazzi che ballano). • Apertura e contatto con altre realtà giovanili (locali e nazionali) che condividono la stessa passione. • Viaggi. • Uso degli spazio pubblici in una dimensione partecipata e collettiva. montessori a scampia di Grazia Honegger Fresco L a voce di Maria Montessori può avere posto fra le molte evocate dai coraggiosi educatori del Mammut a Scampia, in quella piazza dallo strano colonnato che si richiama forse a ben altre strutture dell’antichità, sotto il quale si apre una forte, bella iniziativa: appunto quella del Mammut. Montessori oggi è un nome all’improvviso invocato da tanti genitori della piccola e media borghesia, scontenti di come la scuola assilla i suoi giovani “clienti” – una scuola-azienda, no? – inaugurata da ministre del recente passato profili che nessuno rimpiange. Eppure Montessori ha cominciato a occuparsi di ragazzini poverissimi, chiamati nel tempo oligofrenici (di “piccola mente”), deficienti, deboli mentali, disabili, ai suoi tempi chiusi in manicomio con gli adulti. Lei li portò fuori di lì, e per due anni lavorò a lungo e direttamente con loro – il mio solo titolo in pedagogia, disse poi – tanto da condurli a una licenza di scuola elementare, felicemente conclusa. E questo la fece riflettere sullo “spreco d’infanzia” dei cosiddetti sani. Circa dieci anni più tardi per una serie di circostanze positive, su proposta dell’ Istituto dei Beni Stabili, creò per i piccoli tra i due anni e mezzo e i sei, a San Lorenzo (il quartiere allora più malfamato nella Roma del primo Novecento) la prima Casa dei Bambini. Venne fuori per caso, dal suo desiderio di osservare il comportamento dei bambini più piccoli, lasciati liberi di scegliere tra diverse attività molto semplici: i materiali sensoriali che lei aveva già usato con i ragazzini salvati dal manicomio, incluse le lettere smerigliate come base per la conoscenza dell’alfabeto, tavoli e sedie leggeri perché i piccoli potessero spostarli secondo loro necessità, le pulizie dell’ambiente e poco altro. Bambini poverissimi, privi di giochi e di protezione, lì riuniti perché non rovinassero muri e scale appena messi in ordine. Ed è lì che – osservandoli – Maria nota una piccolina di quasi tre anni alle prese con un incastro in legno contenente forme diverse, simile ai vecchi contenitori dei pesi per le bilance a due piatti. Dentro e fuori, dentro e fuori, dieci venti quaranta volte la bambina li estrae e li rimette dentro, totalmente concentrata tanto da non essere minimamente distolta malgrado il rumore intorno. Lei la sposta insieme al suo incastro e la piccola continua, sempre totalmente assorta, finché smette con aria soddisfatta, Una capacità così elevata di “polarizzare l’attenzione” fu una vera scoperta e l’inizio di tutto: un potere mentale mai considerato nei più piccoli; un modo di agire – dentro e fuori ripetuto, assurdo in apparenza e così diverso da quelli osservabili in età successive – lo riscontrò poi in altri bambini. Quelli che si erano appassionati tanto alle lettere a tre anni, ai quattro o a cinque cominciavano a scrivere e a leggere spontaneamente senza alcun intervento “didattico”, e ancora, in un ambiente in cui la giovane maestra che li seguiva aveva il compito di osser- vare intervenendo il meno possibile, senza gridare né ricorrere a premi o a castighi, ecco la metamorfosi inaspettata: in principio aggressivi o timidi, si mostravano dopo poco tempo socievoli, tranquilli, ordinati. “I nostri maestri”, disse lei ammirata di fronte al fenomeno di una socievolezza del tutto nuova, nata dalla coesione creatasi spontaneamente grazie al clima nonviolento di quella situazione ambientale, modesta eppure rivelatrice. Il fenomeno – alle stesse condizioni – si ripeté ovunque, in altre piccole Case dei Bambini nei condomini di San Lorenzo, come in seguito in quelle aperte nei quartieri residenziali, nei palazzi degli aristocratici, a Milano negli edifici eretti dalla Società Umanitaria per le famiglie operaie, così come a San Lorenzo aveva fatto l’Istituto dei Beni Stabili, oltre che in altre zone di campagna umbre o lombarde. Nel giro di pochi anni in Olanda, Inghilterra, Russia, Stati Uniti, ovunque gli adulti capivano come profili cambiare atteggiamento verso i bambini, il fenomeno si ripeteva. A poco a poco si cominciarono a delineare i criteri base del lavoro: • spazzare via ogni pretesa didattica del tipo “Ti insegno io adulto che cosa e come imparare”, ma mettere al centro il bambino come protagonista, riconoscendolo sapiente costruttore di se stesso, capace di autocorreggersi, di riordinare, di aiutare spontaneamente o di consolare il compagno in difficoltà, di aderire alle richieste di un adulto paziente, non più padre-padrone e tanto meno giudice, ma guida, affettuoso osservatore che mostra come fare questo o quello, parlando poco, dato che le sue mani con gesti lenti sono tanto più efficaci; • disporre tutti gli oggetti ad altezza di bambino perché ciascuno possa scegliere e adoperare ciò che lo interessa, per il tempo che gli occorre, rimettendolo poi a posto. È il principio della libera scelta; • di conseguenza occorre che, in partenza, l’adulto prepari l’ambiente – accogliente, armonioso, tutto utilizzabile, anche con attività di lavaggio vere, con attrezzi veri anche se di dimensioni ridotte e oggetti frangibili – piatti, bicchieri, vasetti per i fiori ecc. – che suggeriscono con la loro stessa fragilità un modo garbato di adoperarli; • l’importanza di mettere insieme grandi e piccoli dai tre ai sei anni più o meno, maschi e femmine insieme, ricchi e poveri, più sono mescolati, tanto più ampie saranno le esperienze tra loro; • l’importanza di disporre oggetti corrispondenti ai diversi livelli di sviluppo e l’attenzione al gusto di “ fare da solo” che anche più piccoli manifestano (alla conquista dell’indipendenza); • l’importanza di materiali corrispondenti agli interessi sensoriali della prima infanzia: appaiare gli uguali, riconoscere i simili (graduare) per grandezza, colore, suono, forma, peso, superficie, odore, sapore, per formarsi mentalmente le basi ai concetti basilari della realtà ambientale; • l’importanza di lasciar loro sperimentare le tante attività domestiche o di vita pratica; • il valore dell’accesso precoce alle lettere smerigliate senza alcuna pretesa di ri- sultati, permettendo a ciascuno di giungere secondo i propri tempi all’esplosione della scrittura e della lettura; • l’importanza di consentire tante attività individuali per favorire concentrazione e indipendenza, riducendo al massimo le lezioni frontali dominate dall’adulto, avendo constatato che solo le prime, basate sulla libera scelta e sul rispetto dei ritmi personali, conducono a un clima di sana comunità e al rispetto reciproco, certo non raggiungibile con prediche e sgridate di vario tipo. Nel giro di pochi anni questa modalità conquistò maestri e genitori in diverse regioni del mondo, tanto che Maria lasciò la professione medica e si dedicò, attraverso corsi e congressi, a raccontare le cose che nel 1907 aveva constatato e come si potevano realizzare ovunque, a patto che gli adulti si “convertissero” a un diverso modo di profili mettersi in relazione con i bambini, portatori di nuovo. Oggi la scuola italiana è ancora quella di impronta ottocentesca con molte riforme che risultano false, non avendo rinunziato al dominio sui più giovani con il ricatto dei voti, dei premi e le gare, anziché sul rispetto e la fiducia. Montessori propone una riforma non costosa in termini di denaro, ma faticosa per gli adulti in quanto deve partire da loro la persuasione per un cambiamento totale dei propri gesti e delle parole da usare per non ferire. Gli amici del Mammut, ben consapevoli di tutte le sofferenze che una società malata infligge ai suoi figli, sono sulla buona strada per costruire una scuola diversa, dai piccoli ai grandi, una via di ascolto in cui ambiente interno delle classi e ambiente esterno, finalmente sani assicurino uno sviluppo altrettanto sano a bambini e ragazzi con cui loro vengono a contatto. Napoli, città di grandi tradizioni, di cultura e di un linguaggio popolare davvero notevoli, potrebbe diventare con la sua vivacità nuovo punto di riferimento educativo per i docenti dell’intero paese. 7. in viaggio il mammutBus di Giovanni Zoppoli al settembre 2013 il Mammut ha messo su quattro ruote la sua sperimentazione pedagogica. Come tentativo di salvarla dai meccanismi del finanziamento pubblico, ma anche della becera impresa “finto sociale”. Assieme ad un gruppo di adolescenti provenienti dai diversi quartieri napoletani e a nostri amici storici (Cecco e Nicola con la mitica falegnameria “Fagioli” di Pistoia e il romano Claudio Tosi del Cemea) abbiamo riadattato un vecchio camper Ford, trasformandolo in ludobus o, come preferiamo chiamarlo, in centro territoriale mobile. Così la ricerca e le inchieste pedagogiche del Centro Mammut si sono fatte ancora più itineranti, raccogliendo e seminando scoperte e meraviglie in giro per l’Italia. Al servizio di chi nelle diverse città ha deciso di non esser solo “un’anima bella” ma anche catalizzatore di denuncia e critica sociale. Il MammutBus, al di là del sogno fricchettone del pedagogista viaggiante, si è rivelato uno strumento davvero potente. Prima di tutto perché ci ha permesso di coinvolgere un numero alto di bambini (oltre 100 in una mattinata) e in maniera non superficiale. Nelle nostre mattinate nelle scuole, proprio grazie al novello camper, siamo riusciti a bypassare le infinite difficoltà burocratiche dell’uscita da scuola. Senza troppe difficoltà abbiamo potuto, infatti, produrre un ragionamento collettivo sul dentro e fuori aula, permettendo ai bambini di vivere il proprio cortile e trovare nel nostro camper un’aula ulteriore, dove avvenivano cose inaspettate e magiche. Il MammutBus è stato, insomma, uno dei più importanti mezzi con cui lavorare sulla “porta” della scuola. Oltre che negli istituti di Scampia, molti altri sono stati i luoghi in cui abbiamo sperimentato questo strumento, tra questi Sassuolo (MO), con gli educatori del comprensorio ceramico partecipanti a una formazione Mammut; Nocera Umbra e altri luoghi visitati dal terremoto, dove è avvenuto un bellissimo scambio tra bambini e ragazzi napoletani e quelli umbri; Airola, paese sannita dove i giochi popolari in legno non li avevano mai visti e in una mattinata di piazza hanno davvero fatto faville; nel dicembre 2014 a Santangelo dei Lombardi, all’interno di un magnifico castello nell’ambi- D 231 to di un percorso fatto con i rifugiati politici dello Sprar e i bambini della scuola primaria locale. Due le principali caratteristiche dei nostri percorsi messi in campo col MammutBus: • Il cambiamento. Non ci sono se né ma: un buon intervento per noi deve produrre da subito una qualche modificazione visibile, tanto nella normale giornata a scuola, quanto negli spazi della città a cui l’azione si rivolge. • I nostri sono percorsi di scrittura collettiva, tesi a fare inchiesta di territorio intrecciando ecologia e urbanistica con gli approcci propri della ricerca antropologica, sociologica e letteraria. Luoghi dell’intervento sono stati: Tre 232 1) in aula e androni scolastici Finalità: • migliorare il grado di benessere e motivazione di insegnanti e alunni nel proprio ordinario, diminuendo così anche tassi di dispersione e abbandono scolastico; • migliorare lo stato di salute di persone e territori coinvolti nell’intervento. a) con gli alunni: momenti d’aula con l’intero gruppo di alunni si alternano con uscite in cortile e interazioni teatrali e artistiche attorno al camper parcheggiato nell’androne scolastico. Dove lo spazio o il servizio pubblico su cui il gruppo classe ha deciso di lavorare non fosse all’interno del cortile scolastico, il percorso prevede i necessari sopralluoghi. Fanno parte di questi percorsi scambi con altre scuole collocate in un’area socialmente più agiata della stessa città. b) Con gli insegnanti: attraverso incontri con l’intero gruppo delle insegnanti partecipanti e colloqui individualizzati con ciascuna di loro, gli operatori Mammut forniscono un supporto psicopedagogico durante l’intero arco del percorso. 2) nei rioni e campi rom Bambini e ragazzi che hanno partecipano in questi anni alle attività Mammut si fanno da tramite per promuovere le attività del Mammut in rioni, campi rom e altri luoghi della città considerati inaccessibili. Attraverso i giochi dell’antica tradizione popolare, la ciclofficina, le narrazione teatrale, le cino-proiezioni di palazzo, il giardinaggio e altri strumenti capaci di catturare con immediatezza anche i più reticenti a laboratori strutturati, si avviano percorsi di cittadinanza responsabile migliorando competenze e conoscenze psicosociali e didattiche degli abitanti. 3) in piazze e strade Piazze e strade della città diventano luoghi di realizzazione di momenti di unione, come la caccia al tesoro de Il Mito del Mammut che si svolge nel maggio 2014 e coinvolge oltre 300 bambini. Mensilmente il MammutBus porta in piazza Giovanni Paolo II di Scampia i suoi percorsi ludici e le attività da bibliobus, continuando così il lavoro di presidio e recupero. alcuni strumenti specifici messi a punto attraverso il mammutBus: • Sostegno pedagogico. Incontri collettivi e individualizzati con insegnanti ed educatori. Promuovendo un lavoro su di sé, a partire dalla ricerca di un collegamento dei propri temi di vita con le difficoltà incontrate su campo, si supporta la professionalità del richiedente fornendo conoscenze e strumenti propri della pedagogia attiva e della ricerca-azione. • MammutBuspark. Kermesse di piazza, consistente in un circuito dove le postazioni sono i giochi della tradizione popolare, tutte collegate da un comune sfondo integratore funzionale agli obiettivi territoriali. • Caccia al tesoro. Azione di teatro-quartiere, possibilità di intrecciare apprendimento curriculare con miti e leggende intercontinentali nella riappropriazione di spazi pubblici abbandonati. • Concorsi del MammutBus. Concorsi letterari in tandem con quotidiani locali rivolti a restituire un ruolo di cittadinanza attiva ai bambini e alle bambine. A partire da un racconto teatrale avente ad oggetto miti e leggende, viene dato un input di scrittura agli alunni delle scuole materne e primarie. Scrittura che verrà sviluppata tra l’aula e il cortile della scuola, tra dentro e fuori il camper. Il vincitore diventa giornalista per un mese sul quotidiano locale. • Il piccione viaggiatore. Percorsi/scambio tra gruppi di pari distanti geograficamente. Lo scambio avviene attraverso un gioco a distanza (che fa molto poco uso della rete web) che termina con un incontro sul territorio di appartenenza di uno dei gruppi partecipanti al percorso. • Il pitto teatro magia. Percorsi di apprendimento scientifico e di riflessione filosofica. A partire dai giochi di prestigio e da un approccio proprio della peer education, spaziando tra pensiero magico infantile e scoperta di nessi e leggi scientifiche, il percorso si avvale dell’utilizzo di tecniche teatrali e pittoriche. • Il Mito del Mammut. Intreccio di ciascuno degli strumenti Mammut come modalità di cooperazione educativa e di empowerment territoriale tra diverse tipologie di enti, anche distanti geograficamente. • Scrittura collettiva. Quasi tutti i percorsi MammutBus finiscono per Viaggi 233 Tre essere lavori di scrittura collettiva, diventando anche prodotti editoriali diffusi nei normali canali di distribuzione. fare scuola con i giornali Altri strumenti utilizzati all’interno dei percorsi MammutBus: grandi giochi in legno della tradizione popolare, il circolo narrativo, la ciclofficina, la panoplia di piazza, il biglietto, la banca, l’ufficio postale, disegnare con la parte destra del cervello, la falegnameria, l’atelier di pittura, il cielo in terra, a che gioco giochiamo?/tra gioco e relazione d’aiuto, la serigrafia artigianale, la lettura animata, cinema di palazzo. di Alessandra Di Fenza i concorsi del mammutbus C on un fi lo per stendere i panni e il nostro camper MammutBus, attrezzato con giochi della tradizione popolare, andiamo in giro per la città a raccogliere storie e racconti. Anche oggi i bambini e le bambine ci aspettano insieme ai loro maestri. Abbiamo una proposta: gli chiederemo di partecipare alla terza edizione dei concorsi del MammutBus e di contribuire alla nostra piccola inchiesta su scuola e salute, scrivendo un proprio racconto. In palio anche la possibilità di diventare “giornalista per un mese” sul quotidiano più importante della nostra città: “Il Mattino”. La scadenza del concorso è il 10 novembre 2014. Questa volta partiremo dal detto napoletano “vaco p’aiuto e trovo sgarrupo” (cerco aiuto e trovo difficoltà) per una riflessione collettiva attorno alla relazione d’aiuto. Entrati in classe, raccontiamo ai bambini “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare. Fra Lorenzo, per difendere l’amore avversato dalla società, finisce per offrirci la più grande storia di sgarrupo che la letteratura abbia mai suggerito. Durante la narrazione c’è silenzio, i bambini sono assorti ed emozionati, la storia d’amore li prende come i contrasti tra Montecchi e Capuleti. La Verona medievale non è poi tanto diversa dalle città attuali, dalle urla in piazza quando accade qualcosa di grave, dalle lotte tra gruppi che si contendono il potere. Dopo il racconto chiediamo ai bambini di pescare tra i propri ricordi un’esperienza reale in cui un aiuto ha portato difficoltà e di farsi venire in mente tutti i particolari della vicenda compresi i riferimenti spazio-temporali. Il ricordo diventa così il biglietto per entrare nella pancia del MammutBus. Si esce dall’aula e si continua a fare scuola giù nel cortile, proprio dov’è parcheggiato il nostro camper. A cinque alla volta si sale a bordo mentre gli altri corrono, saltano e giocano. I corpi si muovono e si riscaldano tra corse e giri di ruote in attesa del proprio turno. Qualcosa di magico e misterioso li attende: oggetti illuminati da candele suggeriscono nella penombra l’ispirazione di una nuova storia da inventare o richiamano alla mente particolari di una storia già vissuta. Nelle giornate di aiuto/sgarrupo il nostro camper è custode degli oggetti della storia di Romeo e Giulietta che si possono scorgere soltanto con una lanterna e poi, guardando bene, e per incanto, si possono anche ritrovare Viaggi 235 oggetti che raccontano della nostra storia mentre una musica medievale ci fa andare dietro nel tempo. Una volta usciti, con colori e pittura i bambini sono chiamati a ultimare la loro opera. E infine nel grande cerchio, se ne discute insieme, alla ricerca di nessi, analogie e ammissibilità delle prove, come allenamento a modalità di pensiero scientifico e filosofico. Il concorso questa volta è rivolto anche agli insegnanti delle scuole materne ed elementari. Chi vuole scrivere, deve far riferimento ad un episodio di aiuto/sgarrupo avvenuto a scuola e riportare i dati identificativi della norma (legge, circolare ministeriale, direttiva, …) che proponendosi di tutelare e promuovere la salute ha invece dato vita ad un episodio dannoso per la didattica e/o la salute psicofisica di alunni e docenti. Tre 236 “Chi frequenta la scuola sa che oggi la domanda/muro che più spesso ci si sente fare è: “e se si fa male”? Mentre nessuno sembra più chiedersi “e se si fa bene”? Del resto la percezione che molti bambini hanno di trovarsi ingabbiati è talvolta più vera che mai, in un equilibrio tra protezione e spinta all’esplorazione (elementi entrambi indispensabili per una crescita sana) sbilanciato verso le ansie da protezione. Così anche a Napoli molti dei danni causati alla salute psicofisica di bambini e ragazzi, più che da abbandono e incuria, sono frutto di atteggiamenti fobici verso gli spazi pubblici o non controllabili direttamente o indirettamente dai genitori.” (Stralcio del bando del nostro concorso) A mano a mano che i bambini e le insegnanti scendono dalle classi il nostro filo dei panni si riempie di racconti e di disegni colorando e trasformando lo spazio con qualcosa che prima non c’era. Raccontando la città in cui si vive, contribuendo a cambiare quello che non va. Nei primi viaggi di MammutBus (Dicembre 2013) abbiamo chiesto ai bambini di ricercare, tra buio e luce, quale storia mitica si nascondesse dietro gli oggetti trovati nel camper. Ne dovevano scegliere uno soltanto, ricordandone tutti i particolari. Un cristallo, un ramo, una conchiglia, una pigna profumata, un ferro di cavallo, una lira, tutti custodi di una storia. In palio la narrazione del mito di Orfeo ed Euridice. Nel secondo concorso (Marzo-Aprile 2014) realizzato sempre in collaborazione con il quotidiano “Il Mattino” abbiamo proposto ai bambini di raccontare come e perché “la scuola e la città possono fare bene o male alla salute”. Abbiamo richiesto, inoltre, di portare “prove attendibili, tracce di quello che ci volevano far conoscere”. Raccontare quello che vedevano, nella maniera più autentica possibile, senza lagne, con la voglia di denunciare prepotenze e ingiustizie per il desiderio di contribuire a migliorare la città. In questo modo, come suggerisce la pedagogia attiva, la salute non diventa materia a sé, slegata dalla vita quotidiana, dentro e fuori dall’aula, ma è la stessa didattica che ne diventa alleata giovandosene a sua volta. Bambini e ragazzi sono perfettamente capaci di capire se un’esperienza fa loro bene o male, hanno solo bisogno di trovare l’ambiente adatto, il loro campo di giochi per sprigionare quello che sono e che pensano. Poi si liberano e cominciano a inventare, a costruire. Fanno gruppo, si confrontano: criticano, apprezzano, ascoltano più di quanto possano fare gli adulti. A noi il compito di raccogliere, di ordinare la loro creazione, di restituire l’importanza e il valore di quello che portano, e di provare insieme a trasformare la scuola e la città in luoghi in cui si sta bene, e da cui nessuno vuole fuggire. Insieme, con la consapevolezza che in quello che abbiamo creato, i bambini si riconoscano e siano convinti che è proprio la loro opera, il loro edificio quello che hanno costruito. Viaggi orfeo ed euridice sul soffitto della scuola di Tonino Stornaiuolo L Tre 238 e note di Let her go di Passenger suonano la sveglia, è ora di alzarsi. Stamattina si va a “premiare” i vincitori del concorso del MammuBus. Il MammutBus è un camper che abbiamo trasformato in un “centro territoriale vagante”, che ogni volta ci divertiamo a trasformare in qualcosa di nuovo a seconda di ciò che faremo con i bambini. L’ultima volta avevamo oscurato completamente l’interno, lasciando solo delle piccole lucine a intermittenza che permettessero ai bambini di muoversi e di cercare degli oggetti: il loro compito era di entrare nel buio del MammutBus, scovare degli oggetti e scegliere quelli che per loro erano più funzionali alla scrittura di un storia “mitica”. Di chi erano quelle cose? Chi era passato di lì? Chi aveva usato quell’oggetto e perché era finito proprio lì? Da questo viaggio in sei metri quadrati uscirono circa 150 storie “mitiche”, tutte fantasiose e misteriose. Avevamo scelto di lavorare con solo dieci classi perché i tempi non ci avrebbero permesso di fare di più. Finito tutto avremmo raccolto i testi e scelto i vincitori di questo primo concorso MammutBus. In palio c’era il racconto di una storia. Ricordo che quando dicemmo ai bambini qual era il premio si esaltarono ancora di più: morivano dalla voglia di sentirsi raccontare delle fiabe. I bambini non conoscono più le fiabe o le storie mitologiche. Elsa Morante direbbe che gli Infelici Molti pensano ad altro piuttosto che ai Felici Pochi e al loro bisogno di sentire, prima di abbandonarsi al sonno, una voce che sussurri di grandi amori, caverne, fuochi, villaggi e draghi. Appena accendo l’auto, da una stazione su cui la radio era sintonizzata parte Happy di Pahrrell Williams. Alle 9.30 ho appuntamento con Nadia per essere alle 10.30 a scuola. Arrivo alla metro, aspetto Nadia e andiamo al Mammut per prendere tutto quello che ci servirà: dei fogli bianchi su cui i bambini, dopo aver ascoltato la storia, disegneranno la loro scena preferita; pennarelli; il pc e le casse per mettere la musica durante la storia; il proietta-stelle. Appunto, il proietta-stelle. Rivoltiamo sotto sopra il Mammut, ma non riusciamo a trovarlo; in passato, in circostanze simili, è stato molto utile. Ci ricordiamo che qualcuno dei nostri colleghi sabato è andato con il MammutBus a Benevento. Forse se lo sono portati con loro ed è rimasto nel camper? Chiamiamo Chiara che ci dice di averlo preso e che Alessandro l’aveva messo da qualche parte nel MammutBus. Andiamo al parcheggio e per fortuna il camper è aperto; entriamo e dopo aver scavato un po’, riusciamo a trovarlo. Ora che abbiamo tutto possiamo andare a scuola. Arriviamo a Chiaiano, I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”. È una scuola particolarmente bella, Giovanni dice sempre quando veniamo qui “mi sembra di essere di nuovo a Bolzano in questa scuola”; è molto curata, sono sempre tutti accoglienti e niente è lasciato al caso. Ma Giovanni oggi non c’è, Bolzano è lontana molti chilometri e qui vicino c’è una discarica che ci ricorda che siamo nella periferia napoletana. Ma la scuola resta bellissima. Entriamo e andiamo in classe, accolti dai bambini con urla, abbracci e baci. Anche la maestra ci accoglie con affetto; è una maestra molto brava, tra quelle con cui si riesce a lavorare meglio e io personalmente la stimo molto per come lavora e per il rapporto che ha con i suoi bambini. Dopo aver salutato tutti, diciamo ai bambini che saremmo scesi al piano di sotto, per preparare la stanza, e che saremmo tornati a chiamarli nel giro di 15 minuti. Scendiamo nella stanza destinata all’incontro con i bambini: sembra un mix tra biblioteca, sala insegnanti e aula magna. Come il resto, anche questa stanza è tenuta molto bene. Iniziamo a preparare tutto con cura. Oscuriamo le finestre, dirigiamo solo una piccola lampada nel punto in cui io racconterò la storia. Nadia intanto sistema le musiche e le casse e io preparo le sedie per i bambini. Dal Mammut ci siamo portati un po’ di oggetti per abbellire e rendere accogliete e magico il luogo in cui incontrare i bambini. È molto importante per noi la cura degli spazi, la situazione in cui si svolge un racconto: spesso si perde più tempo a preparare e sistemare con cura la sala e gli oggetti che con il racconto in sé. Tutto è pronto, si può andare a chiamare la classe. I bambini scendono e si accomodano piano piano sulle sedie messe in semicerchio, mentre nella stanza si diffonde una musica e una luce soffusa. Sono tutti subito molto rapiti dalla situazione, parlano poco e rimangono in attesa della storia. Oggi racconteremo il mito di Orfeo ed Euridice. Erano stati gli stessi bambini a sceglierla. Eravamo andati in classe una settimana prima dicendogli che potevano scegliere tra Orfeo ed Euridice oppure La caverna di Platone e loro avevano deciso così, a sensazione, che era meglio la prima. Sono tutti attenti, si crea subito un’atmosfera che facilita il racconto. Riempio la narrazione di particolari, di suoni, di gesti e movimenti che catturano e fanno entrare sempre più i bambini nella storia. Io mi sento molto bene e sento che i bambini partecipano con me a una storia che amo molto. Nel finale, quando proietto nel buio le stelle sul soffitto, stanno tutti lì, immobili, per lunghi minuti, a guardare le stelle, nessuno stacca gli occhi dal soffitto. Sono costretto io, dopo qualche minuto, a interrompere la proiezione altrimenti non so quanto ancora bambini e maestre avrebbero guardato un soffitto bianco dipinto di stelle finte, immagini fantastiche come le ombre della caverna di Platone. E un po’ penso a noi, a quanto non Viaggi 239 Tre 240 siamo più abituati a guardare le stelle, quelle vere, quelle che, “collegando i puntini” compongono immagini infinite. Mentre racconto sono tutti attenti e mi torna in mente il ricordo di qualche settimana fa, quando durante la festa del Mammut, mentre raccontavo la stessa storia, dalle casse dell’impianto stereo della piazza partirono brani latino americani e un gruppo di ragazzine prese dall’irrefrenabile voglia di ballare corsero via facendo un gran rumore e rompendo la magia che si era creata. Ricordo che volevo interrompere il racconto, fermare tutto e prendermela con quelle quattro disgraziate che avevano infastidito me e il resto della platea. Volevo urlare il mio fastidio e dirgli che forse avrebbe fatto meglio loro ascoltare la storia struggente di Orfeo ed Euridice, piuttosto che sculettare a destra e sinistra. Ma poi mi trattenni, respirai a fondo e continuai a raccontare. Il resto dei bambini era lì, in silenzio, che aspettava di sapere cosa avrebbe fatto Orfeo, con la sua lira, tra le fiamme dell’inferno. Oggi per fortuna i latinoamericani mi hanno risparmiato e tutto si è concluso nel migliore dei modi. Finito il racconto ci mettiamo in cerchio e iniziamo a discutere tutti insieme sulla storia. I bambini fremono e tutti hanno da dire qualcosa. La prima domanda viene da un bambino che ci chiede: perché Orfeo ha resistito tutto quel tempo senza girarsi e come uno stupido si gira proprio alla fine? Non abbiamo neanche il tempo di aprire bocca che gli altri compagni di classe iniziano una discussione tra loro. Qualcuno sostiene che Orfeo era convinto che anche lei oramai fosse fuori, qualcun’altro che non ha resistito più e si è voluto girare, una bambina afferma che l’amore è troppo forte e non si può contenere. Questa stessa bambina poi esprime un dubbio: ma cos’ha fatto di male Euridice per meritarsi l’inferno? E anche in questo caso sono gli stessi bambini a rispondere: forse aveva fatto qualcosa che noi nella storia non sapevamo, forse non doveva andarsene da sola prima di sposarsi; ma la più condivisa tra le risposte sembra quella di un bambino convinto che chi viene morso da un serpente va all’inferno. E via di seguito con altre domande secondo la stessa dinamica; chiedono a noi, ma cercano da soli la risposta: Orfeo dove ha trovato il coraggio di affrontare l’inferno? Se il loro amore era così bello, perché nessun dio li ha aiutati? Come mai Euridice non lo aiuta, guidandolo con la voce e ricordandogli di non girarsi perché lei è ancora dentro gli inferi? È giusto che Orfeo non ami più nessun’altra donna dopo aver perso per sempre la sua? Zeus non poteva far risorgere la sua amata? Dove si trova la costellazione della Lira? E poi la domanda su cui restiamo più tempo ad interrogarci tutti, formulata da una bambina che fino a quel momento non aveva ancora parlato: ma una volta che Orfeo muore, ucciso dalle Baccanti, va all’inferno e quindi rivede Euridice o va in paradiso e neanche dopo la morte la può riabbracciare? Qui iniziamo una lunga discussione che coinvolge pienamente anche noi e la maestra. Quindi arriviamo a porci una domanda finale alla quale chiediamo di rispondere individualmente: se dovessimo continuare noi la storia, Orfeo lo faremmo finire in paradiso, beato ma solo, o all’inferno ma in compagnia del suo grande amore? Fioccano le risposte e le interpretazioni. La maggior parte dei bambini opta per l’inferno: non fa niente se si soffre; il fatto che avrà la sua amata vicino allevia tutte le sofferenze. In pochi scelgono il paradiso, spiegando che anche se sarà triste all’inizio, dopo un po’ passerà perché vivrà in un luogo bello e privo della sofferenza. Due bambini ci colpiscono per l’originalità delle loro interpretazioni. Il primo è un bambino che ci dice che se dovesse finire in paradiso, lui stesso scenderebbe all’inferno pur di riprendersi l’amata; proverebbe a rapirla o a chiedere un favore a Zeus, ma non la lascerebbe sola. Una bambina invece ci spiega che secondo lei Orfeo andrà in paradiso, ma poi chiederà ad Ade di prendere lui negli inferi e di lasciare andare Euridice. Chiudiamo con questa idea il cerchio e torniamo in classe a disegnare. Diamo ad ogni bambino un foglio bianco su cui dovrà disegnare la scena della storia che più gli è piaciuta. Mentre loro sono intenti a disegnare, la maestra condivide con me e Nadia il piacere di questa giornata. Ripercorriamo insieme a lei alcune domande, risposte e conclusioni dei bambini (che Nadia si era appuntata durante la discussione). Sorridiamo e giriamo tra i banchi per vedere come procedono i nuovi racconti. Quando tutti hanno finito ognuno mostra agli altri il proprio disegno spiegando a tutta la classe che scena ha voluto rappresentare e perché. Anche in questa fase di condivisione tutti si divertono ad ascoltare i propri compagni e ripercorrono la storia tramite i loro disegni. Alla fine sembra che non manchi nessun momento cruciale della storia. Su un disegno c’è rappresentato il momento in cui Orfeo si gira sulla soglia dell’inferno. E dietro i due amanti, il dio Hermes, che Ade aveva mandato per controllare che Orfeo non si girasse. Quando vedo questo disegno mi viene in mente un rilievo custodito nel Museo Archeologico di Napoli, una copia, di età augustea, da un originale greco. Le posizioni e il movimento della scena sono molto simili. Dico questo ai bambini che sembrano molto curiosi di vederlo, la maestra mi anticipa e dal suo cellulare scarica la foto dell’opera e la mostra a tutti, passando tra i banchi. L’autore del disegno è ovviamente felicissimo e chiede alla maestra di portarli qualche volta in gita al museo. Tentiamo tutti insieme di strappare una promessa alla maestra, che sorridendo dice che proverà a organizzare. Per noi è arrivato il momento di andare. Salutiamo i bambini e la maestra portandoci dentro tutte le domande dei bambini e negli occhi i loro disegni. Lasciamo la scuola più “pesanti” di quando siamo arrivati. Nel tragitto che ci porta dalla scuola alla metro io e Nadia ripercorriamo la bella giornata. Ci interrompe la metro che la deve riportare a casa. Io passo dal Viaggi 241 Mammut a lasciare tutto il materiale della giornata e poi torno a casa. Dallo stereo della macchina parte la solita musica, ma stavolta spengo subito. La musica che voglio ascoltare ancora per un po’ è quella dei bambini e delle loro supposizioni, e quella di Orfeo e della sua lira, che ovunque sia finito, inferno o paradiso, sono sicuro continui a suonare. Come dovrebbero cantare le mamma e i papà ai loro bambini la sera prima di andare a letto. Quella sera ho provato a guardare le stelle. Non si vedevano bene, troppe luci, troppi fumi. Forse erano davvero più belle quelle sul soffitto della scuola. Tre albert bandura sicologo canadese nato ad Alberta nel 1925, è tra gli iniziatori della social cognition. Bandura è un autore importante per la nostra ricerca su didattica e salute, perché i suoi studi sull’autoefficacia rimangono un caposaldo anche relativamente alle ferite profonde che interazioni scolastiche negative possono lasciare in bimbi e ragazzi. Bandura analizza i nessi tra reazioni fisiologiche e capacità di relazionarsi all’ambiente, dando centralità allo sviluppo del locus of control interno rispetto alla possibilità di controllare gli eventi. Interpretare positivamente i segnali del nostro corpo e riuscire profili a mettere in campo risposte efficaci anche davanti a eventi molto stressanti, sarebbe strettamente correlata alla convinzione di riuscire a essere più o meno efficaci. Convinzione che è appunto frutto (anche) delle interazioni sociali, ovvero di un ambito in cui un ruolo molto importante è occupato dalla scuola e, in particolare, da climi e sistemi di valutazione messi in campo. Quella di Bandura è insomma una delle prime produzioni in cui meglio vengono dimostrati i nessi tra un certo tipo di relazioni (anche educative e didattiche) e gli stati di salute fisica, oltre che psichica. Arrivando a fornire contributi importanti su metodologie di insegnamento e apprendimento efficaci, capaci di potenziare lo stato di salute personale e sociale. Tra questi le basi della peer education, oggi tanto in voga e che anche nelle sperimentazioni Mammut ha trovato grande spazio. P quattro. per una didattica della salute 1. teorie Q uelle che seguono sono alcune delle radici teoriche alla base delle riflessioni e delle azioni esposte sin qui. Il lavoro e il pensiero di chi ci ha preceduto e quello di maestri a noi contemporanei che riportiamo in questa sezione ci auguriamo possano diventare un fertilizzante potente come lo è stato per noi. Nonché monito di possibilità collaudate e suggerite da tempo, ma purtroppo in buona parte ancora inattuate. 245 zanotti bianco, il maestro che cura di Mirko Grasso C’era un tempo in cui il maestro sapeva prendersi cura dei suoi alunni. Non dei singoli pezzi, ma dell’insieme; senza intendere la medicina come stregoneria nelle mani di pochi eletti. (g.z.) U mberto Zanotti Bianco (1889-1963) è stato il più attivo animatore dell’Associazione nazionale degli interessi del mezzogiorno d’Italia (Animi) fondata nel 1910 dopo il terremoto di Messina con l’obiettivo di intervenire in nome del progresso civile nei luoghi e nei settori della vita sociale (l’economia, la sanità, i beni culturali) in cui l’azione dello Stato era debole o spesso assente. Per circa mezzo secolo la sua complessa opera ha rappresentato un importante esperimento di mobilitazione diretta alla formazione culturale, all’assistenza delle popolazioni dell’Italia meridionale e alla promozione di attività economiche. Quattro 1. G. Malvezzi, U. Zanotti Bianco, L’Aspromonte occidentale, Libreria Editrice Milanese 1910, ora Nuove Edizioni Barbaro 2002. 2. Id., Scuola e analfabetismo in Calabria, ivi, p. 77. Di estremo interesse è l’altro importante scritto di Zanotti Bianco sullo stato dell’educazione calabrese Il martirio della scuola in Calabria, in “L’Educazione Nazionale”, V, luglio-agosto, 1923, pp. 25-50. Il sud diventa per Zanotti Bianco un luogo dove operare secondo un radicalismo morale ed è per lui un banco di prova dal quale deve passare una classe dirigente (ma anche educativa) rinnovata nei metodi di governo e caratterizzata da un altissimo rigore etico. Nella sua poliedrica azione, indirizzata alla costruzione della democrazia attraverso le strade della cultura, riveste un ruolo centrale il terreno dell’educazione e della formazione. Il suo modo di intervenire nei problemi educativi ancora oggi rivela dei tratti di stringente attualità perché vuole superare la visione conservatrice di un sud incapace di fare emergere saperi e capacità organizzative, mirando invece, attraverso chiari, determinati e moderni progetti di riforma, a far crescere il lievito della consapevolezza e della capacità di governarsi. Le finalità civili della sua sorprendente azione mettono in cima alle priorità l’educazione (culturale, ambientale, morale, umana) alla quale si può giungere solo tramite un sistema scolastico non impositivo, ma formativo nel senso più ampio della parola. L’azione pedagogia dell’Animi è attuata in tempi di crisi e in scenari difficilissimi quali i due nostri dopoguerra. Prima di programmare l’intervento sociale Zanotti Bianco parte da una ricognizione precisa di luoghi, fatti e situazioni in cui intervenire. Egli nella sua prima inchiesta calabrese1, affronta la problematica scolastica traendo dati precisi da confronti tra la situazione italiana e quella meridionale, tra quest’ultima e l’Europa: tra nord Italia e sud, in particolare la Calabria, egli rileva un tasso di analfabetismo di circa 60 punti inferiore e lo stesso raffronto è effettuato anche con alcuni paesi mediterranei e dell’Europa orientale che nello stesso momento verranno da lui assimilati al Mezzogiorno d’Italia per criticità, problematicità e necessità di intervento (albanesi, armeni, russi ecc.). L’alto tasso di analfabetismo e la quasi totale assenza di biblioteche e canali formativi collocano gli italiani del sud dietro a spagnoli, magiari, greci, russi, rumeni, polacchi: “Accademie e congressi non sono mancati davvero: ma furono giochi seri con dadi falsi, che tutt’al più servirono a far rilevare l’inazione e l’impotenza del Governo a riscattare il passato, senza mai lasciare nella vita reale alcuna traccia duratura”2. Zanotti Bianco dedica un’ampia trattazione all’individuazione delle cause che concorrono a mantenere alto il tasso di analfabetismo nel Mezzogiorno: l’esasperato individualismo delle classi più basse, la mancanza di iniziative private e la quasi totale indifferenza verso la cultura da parte dei ceti più benestanti, le condizioni disastrose delle poche scuole gravate dalla sfiducia e dal senso di impotenza degli insegnanti verso uno stato di cose apparentemente immutabile, l’indifferenza della politica. Accanto al grave stato in cui vive ampia parte della popolazione lo scrittore denuncia situazioni di abbandono e miseria degli spazi destinati alla formazione. Nella zona dell’Aspromonte occidentale i locali utilizzati per l’istruzione sono principalmente baracche prive di servizi igienici, idonei materiali didattici e dotazioni di cancelleria. In questo contesto l’azione dei pochi maestri motivati è vana tanto che nella maggior parte dei casi fra le loro fila prevale il pessimismo e l’incapacità di reagire. L’incapacità del sistema scolastico è anche causa dell’emigrazione, dello spopolamento e dell’abbandono continuo di queste zone. Anche questo sarà un terreno di lavoro dell’Animi che viene efficacemente inquadrato dal giovane meridionalista3. Le pagine finali dell’inchiesta propongono una serie di misure utili per affrontare realisticamente alcuni bisogni urgenti: la costruzione con criteri antisismici di nuovi locali scolastici opportunamente riforniti di materiale didattico e di cancelleria, la fondazione di asili d’infanzia, scuole serali/festive e a indirizzo speciale, la promozione di un tessuto capillare di biblioteche popolari, l’intervento nel campo della sanità e dell’igiene: «ci pare che dopo tanto studiare e decretare e legiferare sul problema del Mezzogiorno convenga tentare ancora un mezzo finora non usato: l’assistenza personale, continua, ai migliori di quelle regioni nei loro bisogni e nelle loro iniziative»4. Il fallimento della legge Daneo-Credaro (che rendeva la scuola elementare un servizio statale e introduceva le prime norme sull’istruzione degli adulti ed agevolazioni nella contrazione di mutui da parte dei comuni per la costruzione di nuovi ed idonei edifici scolastici) spiega il progetto scolastico per il quale l’Associazione utilizza il metodo montessoriano fortemente collegato alle esigenze del territorio. Le scuole volute da Zanotti Bianco, che si sviluppano in maniera sistematica e costante anche dopo la conclusione del primo conflitto mondiale, dimostrano un’impostazione innovativa in grado di condurre azioni educative utili alle eterogenee comunità meridionali. La fondazione di una scuola è sempre affiancata dalla creazione di biblioteche popolari aperte anche in giorni festivi e orari serali che spesso ospitavano momenti di riflessione e studio dei problemi del Mezzogiorno attraverso l’intervento di meridionalisti come Salvemini, Colajanni, Franchetti. I luoghi dell’intervento scolastico in Calabria sono quelli già conosciuti dalle pagine dell’inchiesta zanottiana del 1910 con un bacino territoriale di azione in continua espansione. La realizzazione dei propositi dell’inchiesta di Zanotti Bianco si coglie anche nell’incisivo piano per l’educazione infantile ed elementare realizzato, sin da subito, a Melicuccà, Bova Marina, Bagaladi, Mammola, Brancaleone. In questo diviene cruciale il ruolo giocato dal maestro e dall’educatore che si trova ad agire in contesti critici e scenari sociali complessi. Ai termini mazziniani cui guarda Zanotti Bianco, il maestro diviene l’apostolo di un metodo e di una finalità educativa Teorie 3. Sul tema dell’educazione e sul nesso fra scuola e democrazia Zanotti Bianco ritornerà anche nel suo interessante volume-inchiesta La Basilicata, Collezione Meridionale Editrice 1927. 4. Id., I bisogni urgenti, in L’Aspromonte occidentale, cit., p. 142. 5. E. Kanceff, La Calabria di Hélèn Tuzet, in E. Kanceff, R. Rampone (a cura di), Viaggio nel Sud, Atti del Congresso Internazionale che prendono slancio dal forte legame con il sociale per cui egli deve vivere nei pressi della scuola, dedicarsi principalmente all’insegnamento, esercitare la propria professione in orari concordati con le popolazioni rurali, accontentarsi di una scarsa retribuzione arricchita da premi proporzionati al numero dei successi scolastici, distribuire gratuitamente i materiali scolastici anche in orari non lavorativi. Zanotti Bianco riteneva indivisibile il nesso tra formazione ed educazione alla bellezza, concependo la cultura non come intrattenimento ma come leva riformatrice. A questo proposito è utile richiamare la partecipata descrizione delle scuole calabresi stesa dalla ricercatrice Hélèn Tuzet che nel 1928 per conto della Fondazione Rockfeller verrà inviata in Calabria e Sicilia per analizzare le strutture educative dell’Animi: Quattro Viaggio nel Sud, 22-26 maggio 1990, Slatikine Geneve-Centro Studi Interuniversitario di Ricerche sul Viaggio in Italia, Moncalieri 1995, p. xvi. Il testo dal quale è tratta la citazione è stato ripubblicato in H. Tuzet, J. Destrée, In Calabria durante il fascismo, a c. di S. Napolitano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008. 6. E. Pontieri (a c. di), Carteggio tra Giustino Fortunato e Umberto Zanotti Bianco, Collezione Meridionale Editrice 1972, p. 318. L’insieme forma una sinfonia in giallo dorato e blu regale, alla quale si armonizza persino l’uniforme invernale dei piccoli: i maschietti in giacca grigio scura fra i capelli. I dormitori, tutti bianchi, tutti inondati di luce e di gioia, sono ornati da mattonelle di maiolica con la spiga di Metaponto, giallo-dorata su un fondo azzurro brillante, l’azzurro dei Della Robbia. La sala da pranzo, ove ci vengono serviti eccellenti funghi, ha dei mobili dalle belle linee sobrie rivestite degli stessi colori; sulle pareti delle riproduzioni del Beato Angelico e di Benozzo Gozzoli. La villetta della direzione contiene parecchie camerette, a metà strada tra ufficio e salotto, trasformate all’occorrenza in camere da letto, ornate di tessuti calabresi e di belle terrecotte, raccolte con un buon gusto attento di amatori sempre svegli, e di cui ci viene spiegata la provenienza: ciascuna ha la sua storia. I padiglioni di legno sono stati decorati esteriormente – sempre in giallo e azzurro – da Zanotti Bianco che per il padiglione del refettorio si è ispirato alla leggenda romanda dell’incantatore di topi5 . In questo percorso non viene tralasciata la formazione degli adulti che nel 1919 era stata ordinata con la creazione dell’Ente per l’istruzione degli adulti analfabeti. Con lo stesso decreto si concretizza lo strumento legale che dà slancio ed autonomia all’opera educativa dell’Associazione alla quale vengono assegnate come regioni di intervento anche in campo scolastico la Calabria, la Basilicata, la Sicilia, la Sardegna. L’attività scolastica dell’Associazione raggiunge sistematicità dal 1921, con decreto legge del 28 agosto che permette l’istituzione dell’Opera contro l’analfabetismo che delega all’Animi il compito di provvedere all’istruzione degli adulti analfabeti in Calabria, Basilicata, Sicilia, Puglia e Sardegna. Viene avviata in questo modo la gestione di scuole serali per adulti, di corsi pomeridiani e festivi per le donne e di alcune scuole rurali itineranti. Per Zanotti Bianco tutti i livelli formativi possono essere gestiti da enti privati e associazioni che devono tuttavia rivelare nella loro azione un pro- fondo radicamento nella coscienza civile della nazione, concorrendo alla formazione della cittadinanza grazie anche ad una maggiore efficienza (e realismo) della macchina statale. Esprime questa convinzione a Giustino Fortunato nei giorni in cui si preparava la riforma scolastica di Gentile: “Io non desidero che lo Stato s’assuma direttamente, mai, la gestione degli asili. La gestione delle scuole è un esempio di quanto sappia e possa fare: ma desidererei che per ogni asilo esistente, e funzionante decorosamente assicurasse un rilevante sussidio fisso, che rappresentasse almeno una quarta, una terza parte del suo bilancio normale. È questa una battaglia da sostenere e che vinta risolverà le sorti di tutti gli asili del Mezzogiorno”6. Il meridionalista aveva strutturato l’Animi con una chiara connotazione culturale e politica, ma distante dalle lotte e dagli interessi di partito. Anche per questo motivo lo scontro con il fascismo prima, e con la politica clientelare degli anni Cinquanta, è stato inevitabile in tutti i campi in cui Zanotti Bianco ha operato. Nel 1939 pur protetta da Maria Josè di Savoia, l’Animi verrà depotenziata e mutata in Opera Principessa Piemonte; verrà diretta tra il 1941 e il 1943 da Gentile che a suo modo nel 1927 ne aveva difeso la stessa esistenza dell’Animi. Qualche anno prima l’Animi aveva rinunciato alla delega per l’istruzione a causa dei rievocati contrasti con il regime fascista culminati dopo il delitto di Giacomo Matteotti perdendo così la gestione di 8262 scuole sparse nel luoghi più difficili di Sardegna, Sicilia, Basilicata e Calabria7. Confinato nel 1941 a Paestum Zanotti Bianco riprende le sue poliedriche attività subito dopo la caduta del regime concentrandosi particolarmente nell’opera di assistenza e soccorso alle popolazioni meridionali maggiormente colpite dal conflitto. Nel 1946 diventerà presidente della Croce Rossa Italia e senatore a vita nel 1952; la sua attività politica sarà intensissima per la ricostruzione del partito liberale, il federalismo europeo, la difesa del patrimonio culturale e paesaggistico italiano minacciato dal dissennato sviluppo urbanistico dell’Italia del miracolo economico. Pur affrontando numerose problematiche connesse al disordinato sviluppo italiano di quegli anni Zanotti Bianco riterrà sempre centrale il problema dell’educazione rimanendo ancorato alla sua idea di maestro che cura anche negli anni dell’Italia repubblicana quando, in contesti sociali e politici completamenti diversi rispetto al primo dopoguerra, e a pochi anni dal varo della riforma della scuola media, ancora ribadiva «forse è questa mancata permanenza dei maestri sul luogo e questa mancata libertà nell’adattarsi alle necessità locali, che intristisce la scuola rurale»8. Di fronte al disastro della scuola pubblica nel Mezzogiorno per conto dell’Animi nel 1950 richiederà al Parlamento la delega per l’istruzione popolare, pensando a quell’azione svolta trent’anni prima: Teorie 7. A questo proposito si pubblica il testo di Zanotti Bianco estratto dal suo libretto Proteste civili, Aldo Chicca, Tivoli 1954, pp. 49-54. Per gli altri scritti sulla scuola si rimanda alle indicazioni bibliografiche contenute in AA. VV., Umberto Zanotti Bianco (1889-1963), Associazione per il Mezzogiorno, 1980, pp. 247-268. Quattro 8. Citazione tratta dalla relazione di Zanotti Bianco al iii convegno degli «Amici del Mondo», in A. Battaglia (a cura di), Dibattito sulla scuola, Laterza, 1956, p. 278 9. U. Zanotti Bianco, Il problema della scuola, in “Il Ponte”, a. VI, 1950, p. 1154.. 10. U. Zanotti Bianco, Prefazione a M. Giacobbe, Diario di una maestrina, Laterza 1957, p. vi. Scrivo soltanto nella speranza di veder migliorato il presente sì triste; mi sarà permesso, quindi, di fare da queste pagine agli uomini politici di tutti i partiti che hanno potuto per anni seguire il lavoro disinteressato e al di fuori di ogni spirito dell’Associazione a cui sono legato da anni di lavoro e di battaglie. Come all’Associazione per gli Interessi del Mezzogiorno venne affidata anni or sono la piena responsabilità della lotta contro l’analfabetismo in Sicilia, Calabria, Basilicata e Sardegna, ottenendo risultati di cui è ancora vivo il ricordo, propongo che il Ministero competente le affidi l’incarico – mediante il versamento annuo di un miliardo – della costruzione di piccoli edifici scolastici per le frazioni rurali nelle zone a più alto analfabetismo del Mezzogiorno d’Italia. Edifici a due, tre aule, con alloggio per il maestro, il cui progetto tipo, approvato dagli uffici competenti non dovrà ogni volta tornare al loro esame, e ciò per evitare quegli intralci che stroncano lo slancio a qualsiasi iniziativa9. Egli temeva che la figura dell’educatore finisse schiacciata dalle implicazioni burocratiche e da astrazioni pedagogiche teoriche, come nei fatti purtroppo avverrà. In conclusione è significativo notare che anche introducendo il celebre Diario di una maestrina (1957) di Maria Giacobbe, Zanotti Bianco metteva in evidenza che una efficace strada educativa si poteva percorrere anche per il centrale ruolo dell’educatore che comprende il contesto sociale e lì opera concretamente: Più volte traversando le lande arse, i boschi di sughero dai tronchi scuoiati della Barbagia, o avvicinamento a quei solitari abitati che nel Sulcis sono nominati furia droxius e dove in una misera scoletta una paziente maestrina era intenta ad aprire – come poeticamente si era espresso un vecchio pastore – l’anima lebia de sos nostros piseddos, l’anima lieve dei nostri bimbi, io mi domandavo quale interesse potesse mai spingere la dittatura a stendere i suoi tentacoli fino a quei miseri aggregati umani fuori dalla politica, fuori della stessa vita! E quando per quelle solitudini, ove il silenzio non era interrotto se non da torme di pernici spaventate e da qualche cavaliere dal costume bianco rosso e nero, con la sua taciturna donna in groppa al cavallo, o a sera tardi – quando le selve di lentischi diventano nere e il loro aroma più amaro- dal trillo nostalgico di qualche grillo solitario, mi chiedevo: quale tra i nostri migliori maestri, o tra le nostre maestre più vicine all’anima dei bimbi, saprà mai scrivere la storia della sua dura vita, sì ricca di abnegazione e di stenti in questi ambienti chiusi, dal dialetto sì difficile e dove il suo sacrificio è per soprammercato amareggiato dalle imposizioni della dittatura?10 Anche il quel caso la risposta arrivava da una maestrina le cui pagine egli raccomandava per capire del “Mezzogiorno tante piaghe secolari e tante speranze”. la scuola come luogo di rispecchiamento di Franco Lorenzoni Gli specchi dovrebbero riflettere un po’ di più prima di rimandare l’immagine. Jean Cocteau L’ alienazione è il morbo che affligge la scuola, non c’è dubbio. Il problema è che spesso non si vede perché la si accetta, la si dà per scontata. Quando cominciò a insegnare, Emma Castelnuovo si accorse immediatamente che i programmi di matematica non erano adatti ai ragazzi, così si mise in ricerca e, dopo appena 4 anni, pubblicò La geometria intuitiva, un libro pazzo che rovesciava la didattica della matematica come un calzino. Nella prefazione del 1949 scriveva che “è necessario animare la naturale e istintiva curiosità che hanno i ragazzi dagli 11 ai 14 anni accompagnandoli nella scoperta delle verità matematiche, trasmettendo l’idea di averlo fatto per se stessi”. In quel “averlo fatto per se stessi” c’è la chiave didattica e forse anche terapeutica per chi voglia provare a curare e prendersi cura della scuola. Se nel presentare cultura, arte e scienza non riusciamo a dare la possibilità a bambini e ragazzi di rispecchiarsi e in qualche modo riconoscersi, almeno qualche volta, in quelle complesse costruzioni umane, se non riusciamo a proporle come specchi capaci di farci vedere e capire qualcosa più di noi stessi, certamente falliremo. Lo sganciamento, il distacco tra ciò che gli adulti propongono e ciò che passa per la testa ai ragazzi provocherà quello stato di alienazione che porta troppi studenti alla passività scontrosa o alla fuga, che sia dentro al cellulare nascosto sotto al banco o fuori dall’edificio scuola, sentito come estraneo e in alcuni casi nemico. Al contrario, sentirsi di casa e ritrovarsi dentro un racconto, una pittura, una scoperta matematica, di quelle che sconvolgono la mente, come incontrare l’infinito e l’irrazionale dentro la diagonale di un quadrato, che è la figura più rassicurante di tutta la geometria, possono aprire squarci alla nostra sensibilità e dare parole e senso ai nostri sentimenti più segreti. Ma per arrivare a entrare nel grande gioco del rispecchiamento c’è bisogno di lunghe manovre di avvicinamento. C’è bisogno in primo luogo che ci si metta in gioco e che si cerchi quale musica, letteratura, scoperta scientifica o manufatto culturale operi in noi la magia del rispecchiamento culturale, che è l’opposto della contemplazione narcisistica di sé. Se sono affranto dalla gelosia Otello parla proprio a me, ma dona al mio sentimento parole e respiro, offre la possibilità di non sentirmi solo al mon- Teorie 251 Quattro 252 do e, soprattutto, mi aiuta a comprendere che ciò che mi succede è certamente cosa unica e irripetibile per me, ma accadimenti simili son stati vissuti da altri ed altri ancora, ed è questa tensione tra l’unicità dell’esperienza individuale e i caratteri generali della natura umana che rende possibile il linguaggio, il dare nome a emozioni, pensieri ed esperienze; che costruisce il terreno per la condivisione ragionata, che è qualità propriamente umana. Nessuna ragazza o ragazzo è superficiale, checché ne pensino i suoi insegnanti. I sentimenti che prova sono potenti e profondi. Quello di cui a volte manca sono le parole e un linguaggio capace di dare respiro e orizzonti vasti al suo pensare se stesso e il mondo, se stesso nel mondo. A questo dovrebbe servire la scuola – skolè – il cui nome antico pare nomini l’ozio, il perdere tempo, il sostare sulle cose lontano da ogni utilità immediata. Il motivo per cui vedo forti limiti a tanti progetti sullo star bene a scuola è che viaggiano paralleli allo studio, separando la geografia delle relazioni reciproche dalla storia e dalla fatica del conoscere. Per anni ho condotto e promosso cerchi narrativi nelle scuole con ragazzi, insegnanti ed anche con genitori. L’idea che stava alla base di quella pratica era che raccontare di sé, seguendo stimoli inconsueti, permetteva di conoscersi meglio attenuando i pregiudizi. Favoriva un’autenticità e un uscire allo scoperto attraverso la creazione di un contesto di ascolto, che nella scuola molte volte si fatica a costruire. Il limite di questa proposta, come di tante altre che lavorano sulle relazioni reciproche attraverso il teatro, il canto, il movimento o la scrittura autobiografica, sta nel procedere parallelamente al lavoro duro della scuola, che consiste nel far acquisire apprendimenti e competenze indispensabili. Ora il nodo da sciogliere sta proprio qui. O noi pensiamo che cultura, arte e scienza siano il luogo della conoscenza di sé e della conoscenza reciproca, o la frattura rimane, provocando fughe e ferite. Quando decisi di fare il maestro elementare cominciai a frequentare a Roma, con assiduità, i laboratori del Movimento di cooperazione educativa. Ci incontravamo un pomeriggio a settimana per anni, ricercando attorno a un tema che poteva essere la fiaba, la storia vista con sguardo antropologico o la matematica da imparare con le mani. Torno a questi ricordi perché è lì che ho imparato quanto complesso, unico e irriducibile sia ogni essere umano e quanto tempo sia necessario per provare ad avvicinarmi ad un altro. Al centro della nostra attenzione non c’era l’oggetto della conoscenza separato e a se stante, ma la rete di relazioni che con quell’oggetto venivamo stabilendo. Così, se passavamo intere stagioni a leggere Alce Nero parla, ciò che via via andavamo scoprendo non erano solo elementi della cultura dei nativi americani, ma cosa in ciascuno di noi le parole di quella testimonianza suscitavano, perché era evidente a tutti che un testo parla solo se chi lo incontra gli dà voce e, nel dargli voce, scopre qualcosa di sé. Se questa manovra di avvicinamento la si fa in gruppo ci vuole molto tempo, perché a ciascuno deve essere dato il modo di condividere con gli altri il suo singolarissimo percorso ed approccio. Ma perdere tutto quel tempo era di fondamentale importanza perché nei modi, spesso inaspettati, con cui ciascuno intraprendeva la difficile strada del tentare di incontrare una cultura altra, noi ci rispecchiavamo e andavamo scoprendo, giorno dopo giorno, al tempo stesso, tratti del carattere dei nostri compagni di ricerca e qualcosa di più di noi stessi. Con i ragazzi di Giove abbiamo trascorso cinque mesi della quinta elementare a cercare di entrare nella “Scuola di Atene”. Al termine di questa lunga ricerca Marianna ha detto: “Tutti quei personaggi che abbiamo scelto Raffaello li ha fatto veri per metà, noi li abbiamo fatti veri per l’altra metà”. In questa frase credo ci sia il segreto di ogni relazione viva con la cultura e mi fa tornare alla mente ciò che diceva Montaigne, quando affermava che il discorso è metà di chi lo dice e metà di chi lo ascolta. Noi che insegnamo non dobbiamo mai pensarci padroni della parola, ma assumerci la responsabilità di dare a bambini e ragazzi la possibilità di “fare vera l’altra metà” di ciò che incontrano nello studio. Altrimenti la scuola si trasforma in un museo di mummie, di cui gli studenti non sanno che farsene. La cultura ha senso se può farci da specchio. Se crea in noi inquietudini e tensioni. Arte e scienza, letteratura e matematica diventano nutrimento attraente se ci si può giocare e, in quel gioco, cercare noi stessi. Parlo di gioco ma non è una cosa facile, perché conoscere richiede sforzi e fatica. Fatica a volte grande per alcuni, che si può affrontare solo se chi conduce il viaggio ha la capacità di fare intravvedere la bellezza della meta appassionandosi ad ogni tappa del tragitto. È la cosa più difficile da fare, ma necessaria se si vuole tentare di dare senso al nostro abitare la scuola. Altrimenti ha ottime ragioni Carmelo Bene, quando afferma: “La scuola, da skolé, è il corpo insegnante, confraternita laddove s’insegna e non mai dove s’apprende. Una palestra dove ci si va a rilassare, a dispetto del corpo insegnante: questa è la scuola. Lo studente o lo studiére è colui che desidera: vedi che scuola e studio sono un’antitesi. Non puoi andare ad apprendere dove si insegna...” Teorie 253 sulla porta del mito di Giulia Valerio C Quattro 254 1. Aminata Traoré, L’immaginario violato, Ponte alle Grazie 2002. Ministro della cultura del Mali nella penultima legislatura, figura di grande rilievo nei forum internazionali, è autrice di testi preziosi quanto precisi che analizzano le condizioni attuali del continente africano alla luce on sapiente maestria il Mammut, come altre associazioni di frontiera, sceglie di procedere e lavorare per mesi intorno a un tema archetipico e ad un mito, agli snodi che costituiscono le invarianti della nostra esistenza, e contengono un grande potere aggregativo e terapeutico. Ha invitato a concentrarsi sul tema della “porta” alcuni di noi, che operiamo in realtà complesse, in quei luoghi dove siamo chiamati a immaginare e creare nuovi modi di vivere, di esistere e di resistere. Quando affrontiamo situazioni gravi, smagliature psichiche, lacerazioni dovute a fattori sociali e ambientali, il nostro Io, con il suo corredo di saperi, prova un senso di impotenza che genera frustrazione e risentimento, rischiando così di aumentare gli schieramenti e i conflitti, di aggravare le ferite e le fragilità del contesto. Ma nelle crepe della torre che crolla, nei vuoti e nei margini, si intravvedono nuove luci, e le ferite possono diventare feritoie e finestre, porte che si aprono su altre possibili realtà. Per operare questo rivolgimento, abbiamo imparato ad abbandonare il pensiero indirizzato, la mente progressiva, il linguaggio dell’interesse e di quella nuova specie umana che è l’Homo oeconomicus, secondo quanto scrive Aminata Traoré.1 Vi è infatti un altro modo di procedere, circolare e capace di annettere, che rispetta i tempi del profondo e tiene insieme i contrari, generando nuove energie e possibili, impreviste configurazioni. Si tratta del linguaggio del mito, che delinea un campo, un modo di pensare, ed è capace di inaugurare il sogno e di instaurare un nuovo tempo, differente e differito. Jung nei Simboli della trasformazione distingue due forme del pensare: uno indirizzato, logico, che si snoda per parole, ed ha significato più sociale che personale: finché il nostro pensare è indirizzato, noi pensiamo per altri e parliamo ad altri. È il linguaggio tecnico di cui si sostanzierà la scolastica, ginnastica verbale che ha elevato la parola a significato assoluto. Questo modo del pensiero era sconosciuto agli antichi, ed anche ad altre civiltà attuali come quelle che appartengono all’Africa centrale. L’altra forma riguarda il pensiero non indirizzato, il sognare ed il fantasticare, e abita un linguaggio permeato di simboli. Opera senza sforzo, a differenza del primo, e procede spontaneamente, poiché esprime contenuti già pronti, guidati da motivi inconsci. È un pensare che volge le spalle alla realtà, e scioglie le tendenze soggettive le quali, considerate dal punto di vista dell’adattamento, sono altamente improduttive. Per questo, da un lato viene attualmente molto trascurato e dall’altro neutralizzato da accorte co- lonizzazioni. In esso risiedono il sapere e la saggezza, non l’intelligenza, perché davanti al nuovo, all’ignoto ed al sorgivo brancoliamo e brancoleremo sempre.2 Per i bambini e le bambine, questo linguaggio è costitutivo perché preserva e mantiene la loro capacità simbolica, che è innata e contiene un alto potenziale terapeutico. Ci sorprendiamo sempre di fronte alle loro capacità di entrare e uscire dal mondo del visibile e del possibile per entrare in quello abitato da esseri immaginari (ma non per questo meno reali ed efficaci) e renderseli amici, alleati, doppi indispensabili. Sanno porsi domande sull’esistenza e trovare risposte che abbiamo perso, e ascoltano con profonda attenzione racconti che tengono dentro gioia e orrore, timore e coraggio, prove pericolose e viaggi sorprendenti. Quello che consola – e guarisce – è la sospensione sia del giudizio che del peso della responsabilità individuale, che viene sciolta nella comprensione delle trame destinali e del volere del fato e delle divinità. A differenza della favola, che veicola una morale e un insegnamento, il mito tiene insieme bellezza e spavento: conosce la metrica dell’esistenza, e contiene i margini come se fosse semplice, con una accettazione profonda dell’alternarsi di ordine e disordine, di catastrofi e rinnovamenti, di morti e di rinascite. Il tema della porta concentra in sé questa dimensione dell’esistenza, quella iniziatica. A rischio di morire (e in realtà una parte di noi muore e si trasforma in ogni passaggio che sia veramente tale) il protagonista del grande viaggio deve prima o poi aprire la porta dell’ignoto, passare al di là del suo stato e delle sue stanze, per entrare nel mondo a rovescio, al di là dello specchio. Si perdono tutte le ricchezze, ci si trova vestiti di pelli di animale o coperti di cenere mentre si era nati sovrani, i cavalli vanno all’indietro oppure volano, si affrontano mostri dalle molte teste, ci si innamora di parvenze che scatenano guerra, si incontrano esseri dall’apparenza ripugnante che devono essere trattati con gentilezza per poterci schiudere bellezze sconosciute. Con moto dinamico, la porta costituisce sempre un invito,3 anche quando proibisce l’accesso. Proprio l’ultima stanza vietata custodisce il segreto da svelare: la porta indica la direzione dove cercare e affrontare il mistero, meta dell’iniziazione. Dal campo profano si entra nel mondo del sacro, di cui le divinità guardiane conoscono i ritmi: Giano ha due volti e due sguardi, per vedere contemporaneamente al di qua e al di là, e conserva le chiavi delle porte solstiziali, delle fasi ascendenti e discendenti dei cicli della natura, della vita e degli accadimenti del destino, soglie di dèi e di uomini, che danno accesso alle due vie di cui Giano, come Ganesha, è maestro. Il passaggio, spesso sorvegliato da guardiani divini o animali, mostruosi o enigmatici, non ci lascia più come prima. Torniamo animati da una nuova visione, capaci di cercare altrove risposte impossibili, chiavi d’oro che Teorie 255 della situazione macroeconomica del pianeta. A lei dobbiamo, bene altrettanto prezioso, la biblioteca che raccoglie tutte le opere e le testimonianze di uno dei maggiori saggi del nostro tempo, Hampatè Bâ. aprono orizzonti di senso. La porta di Scampia, magnifica arte d’amore di tutti gli artisti, dal più piccolo al più antico, porta con sé ogni racconto possibile, condensa non solo le speranze ma il coraggio di chi sa rimanere sulla soglia, a testimoniare che si può ‘stare’, e continuare a schiudere nuovi sogni. Perché sono i sogni a creare il mondo. scuole d’esclusione, scuole d’eccezione di Giuseppe Ferraro S Quattro 256 2. C. G. Jung, Simboli della trasformazione, Bollati Boringhieri 2012, pp. 30 e ss. 3. J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, vol. II, Rizzoli 1986, pp. 240 e ss. pesso mi accade di ripensare al perché tengo corsi di filosofia con i bambini nelle scuole “d’eccezione” e con le persone detenute, gli ergastolani. Non ci avevo fatto caso fino a quel giorno in cui mi ritrovai sorpreso dalla domanda che qualcuno mi rivolgeva sul perché di questo rapporto. Risposi allora che i bambini sono all’inizio del percorso formativo, i detenuti sono quelli che hanno deviato, ne sono usciti, deragliando quel cammino. È quel passaggio da capire, se non sia proprio quel cammino a suggerire la devianza, se non sia proprio la normalità a favorire l’esclusione. Quando si parla d’inclusione scolastica, è sempre a un ordine che si fa riferimento. Ci s’include in un ordine. Ci sono però quelli che ne restano esclusi e quelli che invece si trovano poi reclusi in quell’ordine. L’ordine è tra esclusione inclusione reclusione. Ormai lo ripeto a ogni occasione: il grado di democrazia di un paese si misura dallo stato delle sue carceri e delle sue scuole, quando le carceri saranno scuole e quando le scuole non saranno carceri, quel grado avrà raggiunto il punto suo più alto. Se faccio poi i conti con il linguaggio, con la terminologia del carcere e della scuola, mi ritrovo con le parole “evasione”, “dispersione”, “devianza”, “abbandono”, tutte espressioni di passioni tristi. Meno forse lo è “evasione” nel modo in cui dovrebbe essere la scuola, al contrario, un’evasione dalla realtà così com’è, esistente. E però la parola che più riflette carcere e scuola è “contenimento”. La ragione penale è il contenimento. Quello che si dice “tenere la classe” e che il carcere è il trattamento. Si va bene a scuola, se si sta bene a scuola. Questo bene spesso manca e chi si prodiga nell’insegnamento, i “buoni maestri”, le “buone maestre”, spesso sono “cattivi maestri” per l’istituzione. Quel “buono” fa riferimento non a una debolezza, i buoni non sono per niente deboli e permissivi, perché a tenere il bene ci vuole tanta fermezza da “far paura a se stessi” e certamente da dar fastidio ad altri. A dare fiducia si mette in grande difficoltà chi la riceve, deve esserne all’altezza, gli apre dentro una scalata. Chi fa scuola, come si dice per vocazione, è un “escluso”. Bisognerà riflettere allora sull’esclusione scolastica fino a rovesciarne la valenza e cominciare a pensare all’“ordine dell’escluso”. A ciò che ordina l’escluso, a quel che reclama, che si ponga all’ordine dell’esclusione. Fino ad arrivare a una critica dell’inclusione ovvero a critica della ragione normale, della scuola normale. Si sente ripetere tanto spesso di qualcuno che si rende responsabile di azioni terribili che “era una persona normale”, tanto da pen- Teorie 257 Quattro 258 sare non solo che è cacciato via da quella normalità dentro cui “era”, ma che sia proprio quella “normalità” a creare certe situazioni di assurdità di azioni e certamente di esclusione. L’autoesclusione è quando si compie invece una scelta, definisce un dissenso, si opera per un’altra via. Sono quelli che ci credono nella scuola che si autoescludono da quella normalità. Seguono un ordine diverso. Bisogna capire allora che cosa c’è nella richiesta di un ordine, quale individuazione di articolo, di prodotto o struttura. Insomma, quale è l’ordine della scuola da cui si può essere esclusi e quale rapporto stabilire tra segni e affezioni, tra affetti e sentimenti, tra essere e stare, tra sapere e vivere. Bisogna capire come nelle favole, se c’è una morale della scuola o se invece non sia da pensare a una scuola morale, una scuola dei legami. La legalità entra subito a prendersi la parola. Prima che giuridica la legalità è fatta di legami. Le regole senza relazioni sono vuote, le relazioni senza regole sono violente e cieche. Le condizioni spiegano le cose, sono poi le relazioni che cambiano le cose e le situazioni insieme alle loro condizioni. Il legame è relazione. Ogni sentimento è un legame, non è così l’inverso, un legame non per tale è un sentimento. Quello che è sentire è un legame che ti tocca, quando però un legame ti costringe, diventa un laccio da cui non aspetti altro che scioglierti. Non lo hai scelto. Non è tuo, non lo senti. La libertà è quando ci si costringe a un sentire, non quando si costretti a sentire. La costrizione deve essere la propria, un impegno, un dovere. Parole difficili, ma si comprendono meglio quando si coniugano alla passione, quando si riferisce a un impegno per un obiettivo e per un fine che si sente proprio, importante. E non c’è “proprio” più importante che non sia per altri, con altri, comune, quando a sentirsi nel proprio impegno ci sente anche partecipi di una comunità. La scuola deve poter essere una comunità, non riflettere, non farsi specchio della società, ma esprimere la comunità sociale e la società comune entro la quale si può essere propriamente se stessi, partecipandovi. Nella società non si partecipa. Si è soci. Non si è certo amici. Non ci sono legami che rimandano a un’affezione. Di società si è per interesse, per scavalcamento. Una società deve poter essere comune per non essere il campo dell’esclusione. La scuola comune allora, la scuola dei legami. Vorrei usare “scuola comune” invece di “scuola pubblica”, ma si capisce il punto di volta. La scuola non è un edificio. Il termine skholé, lo ripetiamo sempre, indica un tempo. Un altro tempo, fuori dell’attualità, un tempo inattuale, perché proprio. La scuola dà il tempo. Chi insegna dà il proprio, tutto il proprio tempo, quello che ha vissuto, la sua storia, il tempo del suo studio, della scuola sentita tra i banchi da bambini. Penso spesso che i più bravi insegnanti sono quelli che danno quello da bambini hanno sempre pensato che dovesse essere la scuola, spesso sono quelli che a scuola non “andavano bene”, spesso la scuola è per loro un rifugio di utopia, spesso è la loro propria intimità, perché l’utopia è nell’intimità, quello è propriamente il suo non luogo. Chi insegna dà tutto il proprio tempo, anche quello che non ha. E i sentimenti sono fatti di tempo. Chi insegna dà sentimento, stabilisce legame, ha i “suoi” alunni, ne soffre il distacco e ne prende la gioia a ogni nuovo anno di scuola. Chi insegna veramente, restituisce il proprio tempo come propriamente dell’altro. Lo apprende nuovamente dal suo ascolto. Il sapere si restituisce. Chi lo apprende è quando lo fa solo suo, proprio, come lo sente proprio di chi lo parla e nella sua voce fa capire quanto ne ha passione, quanto lo sente. Chi insegna dà tempo. Dà tutto il proprio tempo, ma dà anche all’altro, ai ragazzi, il loro tempo. Gli dà il tempo in cui apprendono e ognuno ha i suoi tempi di apprendimento, chi prima e chi dopo, ma in quel “prima” e in quel “dopo” è un modo differente, un legame con se stessi e con chi insegna e apprende insieme. Dare il proprio tempo è un’espressione di passaggio, su di essa passa l’attivo e il passivo, quello che si dà e quello che si riceve, quello dell’altro e il proprio. Il sapere di chi insegna è sempre deponente, come abbiamo imparato di quei verbi del latino che erano di forma attiva e valore passivo e viceversa. Il sapere è legame. Si va bene a scuola, se si sta bene a scuola. Leggo però la “buona scuola” del documento governativo attuale e non trovo gli studenti, trovo solo la società del merito nella competizione degli insegnanti, trova l’altalena di scuola e lavoro, come la scuola non fosse il lavoro più importante, quello che si fa su se stessi, ma è un’altra storia. In quella “buona scuola” c’è il mercato, c’è la società, manca la comunità. Ma come si può pensare a una scuola comune, come arrivare a una scuola aperta insieme, una scuola del rione, della città, a una città che si fa scuola? A una comunità. Quando penso a don Milani al quale tante volte ci riferiamo, ricordo che quella era una comunità. Senza distinzione di classe e di età. Anzi proprio per tale una comunità. Quando penso alla scuola a tempo pieno, ricordo che quella era una scuola piena di tempo, piena di cose, la si vive, e chi era là dava tutto il proprio tempo. Le utopie sono le eccezioni che fanno fatica a farsi regole, ecco perché si dice che poi confermano le regole, così le si può accantonare senza problemi, con esclusione autorizzata. Il punto di volta è proprio l’eccezionalità. Non parlo più di scuole a rischio, è una terminologia sociologica. Né parlo dei casi, che a scuola non sono mai casuali. Non parlo di BES e tutto quanto fa “specialismo”, facendo perdere quel che la scuola ha di speciale nella vita delle persone. La scuola somiglia sempre di più a una clinica e non a un luogo dove si fa critica. Ci sono i “casi”, le “patologie”, le “diversità”. La comunità è fatta delle singolarità. Teorie 259 Quattro 260 Negli anni recenti si è parlato di scuole d’eccellenza e di scuole a rischio, dove non è possibile nemmeno la normalità delle regole dell’ordine di rito. Anche gli ordinamenti scolastici e le stesse strutture hanno provato e provano a mettere a sistema una tale distinzione. Gli ordinamenti universitari sono tali con la distinzione tra diploma di laurea e specialistica. La selezione è sulla linea dell’esclusione. Nelle scuole d’eccezione non si possono fare percorsi “normali”, si possono però fare percorsi eccezionali. Le esperienze sono tantissime, bisogna dar loro ordine, metterle in ordine, l’ordine dell’esclusione. Metterle in ordine. Non fare semplicemente rete. Cosa certo importante a ritrovarsi in forum, più importante è però fare costituire delle scuole, essere espressione di un modo di fare scuole. È nei luoghi d’eccezione che si possono dare scuole eccezionali. Bisogna farne sapere. Darsi una costituzione dell’escluso. Tra le “ragioni” dell’evasione e della dispersione scolastica è la valutazione. È questa che finisce per essere come la cruna da cui passa il fi lo dell’evasione scolastica, della dispersione e dell’esclusione. La valutazione isola. Separa. Divide. Disperde. È la medaglia al merito. Personale, individuale. Ed è la croce di ogni insegnante come di ogni studente, una sorta di marchio o di medaglia, dipende dal voto, appunto. Può incidere nella carne e portarsi sul corpo, si può nascondere o ostentare, dipende dal voto. E tante volte l’insegnante deve fare i conti di voto tra quello che sente, spera, vuole, prova, capisce e si rende conto. Poi c’è la sala dei professori, dove si fanno i conti e ci si scontra. Si può provare a fare altrimenti. La valutazione comune. Ognuno partecipa del proprio voto alla valutazione della classe. Ci si dà un obiettivo, un fine. Insieme. Si farà la somma dei voti individuali, tale che sarà il contributo al lavoro comune. È un’altra la responsabilità che si attiva, altra la solidarietà, l’avvicinamento alla consapevolezza che tra i ragazzi ci si educa “aiutandosi”, sostenendosi a cercare di far avanzare ognuno, tra loro stessi. Il voto sarà perciò aperto. Ognuno dovrà dire quanto pensa di meritare, quale merito si dà in merito alla comunità, dandone le motivazioni, non sostenendo semplicemente l’intenzione, ma rapportandosi ad altri. Accade che il docente si trova nella condizione di dover “alzare il voto” in molti casi. Il passaggio è dall’essere giudicati al far parte. Bisogna raggiungere un voto di classe. Bisogna giungere a un obiettivo e coprirlo nella sua comprensione con la partecipazione di tutti. “Fare squadra” si direbbe adesso. Siamo in un tempo in cui con la tecnologia si stabilisce un grado di accesso alle informazioni che non hanno una corrispondenza con la partecipazione. Ognuno può accedere a qualcosa che è disponibile a tutti e che non mette insieme tutti, non li accomuna, si arriva ognuno isolato, mentre che ogni ricerca, ogni conseguimento di obiettivo è comune. I dispositivi di ricerca non sono più regolati dall’invenzione isolata, ma dal corrispondersi informazioni e pervenire a un fine. Non basta sapere bene le cose, se poi non si sa che cosa è bene fare. Il bene che è da fare del proprio sapere è quello comune, ovvero il comune è il far bene. Pensare una valutazione in questa prospettiva significa anche farla finita col merito e con l’esclusione. Farla finita con la valutazione e con la selezione. Ognuno avrà la propria centralità nel contributo di un centro comune. Le scuole d’eccezione, quelle delle periferie del mondo, nei luoghi d’esclusione, sono quelle dove la scuola s’inventa, diventa un’invenzione comune. Sono i luoghi dove la scuola inventa se stessa e dove ci si ritrova insieme, l’autonomia è un’autoesclusione. Quando un’esclusione dall’ordine diventa propria, si raccoglie nella propria eccezionalità, allora le scuole d’eccezione diventano eccezionali. Teorie bellezza e cura nella scuola viva di Sara Honegger L Quattro 262 a nostra prima scuoletta fu in una stanza di circa trenta metri quadri, a ridosso della ferrovia. Eravamo ospiti di una cooperativa sociale: lo stabile non aveva riscaldamento, al mattino, quando arrivavamo, dovevamo versare il kerosene in una stufa. Per le nove, quando iniziavano ad arrivare i primi studenti (quasi tutti rifugiati politici), era appena tiepida. Nonostante la temperatura – e nonostante la bruttezza oggettiva del posto, che fino a poco tempo prima ospitava gli uffici di un import-export – ci sembrava una stanza bellissima. Era nostra. Questo ci permetteva di usarla davvero: potevamo appendere alle pareti i lavori che facevamo con gli studenti, alcuni materiali didattici, i risultati dei laboratori, sì che dopo qualche mese era come stare immersi in un libro di testo che avevamo scritto insieme, che raccontava di noi, del nostro lavoro intorno e dentro la lingua. Lo spazio era poco, gli studenti tanti: e così, durante la mattinata, era tutto un montare e smontare: togliere i tavoli al momento del cerchio, rimetterli quando iniziavano le attività. Gli studenti ci aiutavano: avevano imparato presto il posto di ogni cosa, sapevano dove trovare le scorte delle penne come le tempere o le colle. Furono mesi bellissimi. Quando dovemmo andare via da lì, trovammo ospitalità nella sala lettura di una biblioteca, chiusa due giorni alla settimana. Stavolta avevamo il riscaldamento e anche le pulizie. Ma avevamo a nostra disposizione solo una parete e tutto ciò che usavamo (lettere smerigliate per gli analfabeti, alfabetari, tempere, pastelli a cera e così via) doveva essere messo via alla fine di ogni lezione. La sala era talmente grande che potevamo allestire gli angoli di lavoro fin dal mattino, lasciando al centro un ampio spazio vuoto per il cerchio, momento importantissimo durante il quale ci riconoscevamo come gruppo, ci davamo il buon giorno, acquisivamo tutti presenza. Anche qui preparavamo il tavolo della colazione e il tavolo degli strumenti, dove ogni studente trovava quel che gli poteva servire durante la mattinata. Ci è sempre piaciuto tenerli in ordine, questi tavoli; far sì che dicessero insieme a noi maestre: qui sei benvenuto, qui sei “pensato”. Questo ambiente ci riguarda. Anche se solo per poche ore, è nostro. Qui siamo tutti a casa. Come i nostri studenti, anche noi maestre siamo migranti, non abbiamo una casa stabile. La vita in biblioteca è durata due anni. Poi, ancora, un trasloco. Una nuova stanza (una via di mezzo fra la prima e la seconda), nuove relazioni da stabilire, una nuova organizzazione da pensare. In quest’ultima, nella quale facciamo scuola ancora adesso, non possiamo appendere alcunché alle pareti. Non ci siamo scoraggiate. Grazie a quattro grandi pannelli, che gli studenti ci aiutano a muovere anche per creare un po’ di intimità ai gruppi di lavoro, riusciamo lo stesso a far vivere intorno a noi i nostri lavori, le nostre parole. Quattro pedane di legno (la stanza in altri momenti viene usata per delle serate musicali) diventano pannelli per appendere i materiali didattici o grandi fogli su cui scrivere. La quinta (rinforzata all’interno da assi orizzontali) la usiamo girata al contrario, come libreria. All’ingresso dell’aula, gli studenti trovano di volta in volta a loro disposizione una scelta di albi illustrati, i dizionari, qualche atlante, i piccoli libretti contenenti le storie loro o di studenti degli anni passati, che via via confezioniamo in modo molto semplice per non disperdere la bellezza di tanti racconti. Anche qui abbiamo il tavolo della colazione e il tavolo degli attrezzi. Ma, come nella prima stanza, durante la mattina lo spazio cambia e quindi tutti devono dare una mano per montare e smontare. Si inizia con l’accoglienza, e quindi i tavoli sparsi nella stanza, con sopra giochi didattici o ludici, materiali linguistici, alfabetari; si prosegue con il cerchio; si finisce con le attività. Come il primo anno, dopo qualche giorno gli studenti (una quarantina, fra uomini, donne di diverso statuto giuridico, ma anche due bambini di pochi mesi) hanno compreso come funziona. Così, insieme si allestisce, insieme si smonta. Tutti i materiali finiscono poi in un grande armadio guardaroba, posto nel corridoio, che una signora ci ha regalato un paio di anni fa. Ogni tanto ci piace svuotarlo e rimettere tutto in ordine: i barattoli delle penne, i fogli divisi a seconda della loro funzione (a righe grandi per gli analfabeti, a righe piccole per gli altri), le carte colorate, i cartoni, le veline, le crespe, i materiali di recupero che usiamo durante i laboratori, gli strumenti come le squadre, la taglierina, le pinzatrici, i diversi tipi di colla; i giochi; le vettovaglie per la colazione; i registri, i diari di scuola, i testi e le poesie, i libri che via via acquistiamo o portiamo da casa… C’è tutta la nostra vita di maestre e di studenti, in quell’armadio. Averne cura è come avere cura di noi stesse. Quando il disordine abbonda, sentiamo che qualcosa non va, che è il momento di fermarsi, di prendersi una pausa, di riguardare, di sistemare, di ridarsi una base per andare avanti. Così ci prendiamo un tempo e facciamo ordine: troviamo vecchi ricordi, scopriamo cose dimenticate, buttiamo via quel che è da buttare, acquistiamo quel che manca. Sempre poco, perché i soldi sono scarsissimi: siamo solo una piccola associazione (asnada onlus) che sopravvive grazie a bandi e a un impressionante sforzo volontaristico. Ma insegnare la lingua italiana è la cosa che ci piace di più. Nessuno degli ambienti dove fino ad ora abbiamo avuto la fortuna di poter fare scuola risponde alla nostra “idea di scuola”: una grande stanza per le attività comuni, stanze più piccole per le attività a gruppo, angoli per il lavoro individuale, una bella cucina. Ma questo abbiamo e quindi cerchiamo di trarre il meglio dalle possibilità date. Da subito abbiamo visto Teorie 263 Quattro 264 che renderlo accogliente, funzionale, capace di rispondere a diverse esigenze e intelligenze, sosteneva il lavoro nostro e degli studenti, e così proprio sull’ambiente abbiamo lavorato, cercando di trasformarlo in un alleato della nostra funzione educativo-didattica. Non ho mai lavorato nella scuola pubblica, ho capito troppo tardi (rispetto a concorsi e così via) che insegnare era la mia strada. Tuttavia conosco molte scuole, pubbliche e private. E so che trasformare l’ambiente è possibile anche in contesti burocratici e appesantiti da un’idea di scuola ottocentesca di cui, nonostante le vie indicate da grandi maestri del ‘900, non riusciamo a disfarci. Lavorare sull’ambiente è infatti costringersi a rivedere la propria posizione rispetto all’educazione e alla didattica; e rivedere queste, significa iniziare a porsi domande sul senso di fare scuola nel tempo che ci è dato di vivere. Qualche esempio? Nella Spagna rurale degli anni ’30, una neo maestra appena giunta in un paesino poverissimo (Storia di una maestra, Sellerio 2014) prima ancora di mettersi a insegnare (aveva una classe di ragazzini dai sei ai quindici anni) coinvolse i più grandi nella rimbiancatura della scuola. Cercò poi almeno una sedia per tutti. E su quel quasi niente impostò una didattica viva, così rivoluzionaria da dare fastidio a tutti. Pochi anni prima, nel poverissimo quartiere di San Lorenzo, a Roma, Maria Montessori iniziò con tappetini per sedere a terra, seggioline e tavoli leggeri che i bambini potessero spostare da soli, e finì per apparecchiare la scuola come una tavola imbandita, cui ogni bambino e ogni bambina potessero servirsi in autonomia. Nella Rimini del dopoguerra, Margherita Zoebeli trasformò delle semplici baracche di legno in luoghi a misura di bambino, piantandovi intorno alberi che oggi svettano maestosi. E poco dopo, in un piccolo paesino della pianura padana, il neo maestro Mario Lodi scoprì quasi subito che doveva togliere dalla classe le cose inutili, perché i bambini avevano bisogno di muoversi e occorreva spazio per sistemare la tipografia, la zona per la pittura libera e per il teatro. Così tolse la cattedra e la pedana, si sedette all’altezza dei bambini e tutta la sua didattica si trasformò. Si dirà che sono esempi vecchi, come se vecchissimi non fossero i banchi e le lavagne (anche nella loro versione multimediale). E allora pensiamo alle tante scuole di Italia (www.senzazaino.it) che proprio nei nostri giorni hanno iniziato a ripensarsi a partire dall’ambiente: dal colore alle pareti all’acustica, dai mobili alla disposizione dei banchi o dei tavoli, dall’utilizzo degli spazi morti (ad esempio i corridoi) alla presenza nella scuola di piante e animali. Oppure alle sperimentazioni Montessori che stanno nascendo in tante scuole pubbliche italiane. A dare il via al cambiamento è talvolta il profondo malessere che vivono gli insegnanti (come per esempio quello raccontato da Leonardo di Costanzo nel documentario La scuola). Altre volte è lo stato degli edifici, come è accaduto a Roma, nella scuola di “Celio Azzurro”, o a Milano, nella scuola elementare di via Brunacci. Qui, grazie all’iniziativa di alcune maestre, il processo di ristrutturazione ha coinvolto genitori e dirigente: un ripensamento globale di tutti gli ambienti, corridoi inclusi, in funzione di un altro modo di fare scuola, di stare con i bambini. Ma a dar vita al cambiamento potrebbe essere anche il desiderio di fare della scuola una calamita per il rafforzamento di un senso di comunità ormai fragilissimo: un luogo aperto, capace di attirare non solo nuovi bambini, ma anche i genitori, la famiglia allargata, il territorio. O una straordinaria passione educativa, come quella di Roberta Passoni (A partire da un libro, Edizioni Junior 2013) e di Franco Lorenzoni (I bambini pensano grande, Sellerio 2014) nell’Umbria di oggi. Strade quindi percorribili, purché le si voglia vedere. Ma facciamo un passo indietro e proviamo ad avvicinarci alla nostra scuola come fosse la prima volta. Somiglia a una casa, a un carcere o a un ospedale? Che cos’ha intorno: un bel giardino, un cortile di cemento, una strada trafficata? I bambini che vi entrano vedono un ingresso vuoto e grande o si trovano in uno spazio adatto alla loro misura? Qual è l’odore della scuola? E la temperatura? Le aule sono fresche oppure da aprile in poi fa talmente caldo che si ha continuamente bisogno di bagnarsi la faccia? Esistono tende alle finestre per ripararsi dal sole? I vetri sono abbastanza robusti da non far entrare il rumore delle macchine e il suono delle sirene? I corridoi sono vuoti e invitano a correre? Cosa c’è alle pareti? E se c’è qualcosa, chi lo ha appeso? Quando? All’altezza di chi? Interessa ancora a qualcuno? I bagni sono pensati perché i bambini possano starvi anche da soli o i lavandini e i water sono tutti in fila? Gli asciugamani sono vicini al lavandino o dall’altra parte della stanza, così che cadono gocce dappertutto? Gli arredi sono tutti uguali, oppure ogni aula ha qualcosa che la caratterizza? I banchi sono disposti verso una sola direzione (la lavagna, la cattedra)? Ci sono scaffali dove sistemare materiali ad uso comune o l’unico oggetto, a parte i banchi e la cattedra, è il secchio della carta straccia? Esistono luoghi dove un bambino che ne senta il bisogno possa stare da solo? Esiste una stanza dove gli adulti possano stare da soli? Che posto hanno i bidelli all’interno della scuola? C’è una biblioteca o un angolo dove prendere un libro e magari sedersi, su un divanetto, a leggere? Che strumenti ci sono, a parte i libri di testo, per comprendere il mondo? C’è un armadio (o un’aula) cui tutti possano accedere dove sia presente un binoculare o un cannocchiale? Esiste una stanza dove sedersi in cerchio, magari per terra, su dei cuscini e un tappeto, per raccontarsi storie o gli eventi del giorno prima? Se un bambino ha una predisposizione alla musica, può trovare qualcosa in più del solito flauto dolce di plastica? La mensa è una stanza grandissima? Qual è lo stato della sua acustica? Invita a mangiare in fretta, gridando sempre più forte? Teorie 265 Quattro È solo l’inizio di una serie quasi infinita di domande che l’ambiente può porre a chi si predisponga a considerarlo un importante alleato della propria funzione educativa. Non un contenitore, come per alcuni è il corpo rispetto all’anima o alla mente, ma il primo fattore di una fertile triangolazione: maestro, ambiente, bambino. Un vero e proprio mediatore, uno strumento capace di accogliere, interessare, calmare, guidare, coinvolgere, al quale adulto e bambino partecipano, entrambi ricavandone sostegno. Per il maestro/la maestra si apre la possibilità di uscire dalla scena principale (che spetta ai bambini) riservandosi il ruolo forse meno facile, ma certo alla lunga più interessante e rispettoso, di osservatore-regista; per il bambino/la bambina, la possibilità di sviluppare le proprie potenzialità grazie alla relazione con i compagni, la maestra o il maestro ma, soprattutto, al libero accesso a un ambiente ricco di materiali, di strumenti. Perché, tanto vale dirlo, solo la libertà di scelta sostiene l’innata capacità del bambino all’attenzione, la sua straordinaria capacità di concentrazione. Ha scritto Bertolt Brecht1 : 266 1. cfr. “Gli Asini”, n.22 ⁄ 23, luglio/ ottobre 2014 Pace vuol dire che non a tutti piace lo stesso gioco… Se è vero che i bambini non possono fare tutti la stessa cosa nello stesso momento, e se è vero che questo ha a che fare con la pace, ovvero sia con la possibilità di stare bene, di sentirsi compresi, accettati, e quindi predisposti a dialogare con gli altri, a concentrarsi sul proprio lavoro, sui propri interessi, come valuto il mio modo di fare scuola? Consente ai bambini di essere attivi o li costringe per molte ore al giorno in uno stato di passività? Punta sul piacere (di imparare, di concentrarsi, di scoprire, di fare le cose insieme) o, al contrario, sulla punizione? Rafforza il senso di capacità, e quindi la prestazione e il desiderio di continuare ad apprendere, o sottolinea sempre ciò che non va? Sostiene l’attenzione e la concentrazione o le spezza continuamente in funzione di orari e materie prestabilite dall’alto? Piacere/dispiacere, attivo/passivo, senso di capacità/incapacità, attenzione/distrazione sono modalità fondamentali di funzionamento mentale comuni a tutti gli esseri umani: ognuno di noi ne sperimenta la verità. Il mio modo di fare scuola ne tiene conto? E se no: la trasformazione dell’ambiente può aiutarmi nel processo di cambiamento? Maria Montessori, che più di ogni altro ha dedicato attenzione e studio all’ambiente e all’autonomia del bambino, li vedeva indissolubilmente legati. Per questo definì l’ambiente il primo fattore educativo. Il primo, che ovviamente non significa l’unico, poiché la scuola è un sistema complesso. Ma partire dall’ambiente può aiutarci, come in un gioco di domino, a rivedere, ripensare tutti gli altri. E quindi perché non provare? Si dirà che mancano le risorse, che la scuola del XXI secolo è troppo povera. Si potrebbe anche dire che quando ci si ama anche le nozze coi fichi secchi vanno bene. È necessario provare a fare il meglio che si può con il poco che si ha, contando soprattutto sulla collaborazione dei genitori e del territorio circostante, lavorando da subito per l’apertura della scuola e la sua centralità nel percorso educativo dei bambini, e quindi della città. Ma da dove partire? Si può iniziare girando per la scuola insieme ai bambini e staccando dalle pareti tutto ciò che è vecchio, malmesso, creando lo spazio per appendervi, quando sarà il momento, ciò che per noi è importante. Si può provare a guardare i corridoi come luoghi vivi, utilizzabili anche per qualche attività individuale, e iniziare a sistemarvi dei tavoli, creando piccoli angoli con diverse proposte interessanti – un libro, un gioco, una ciotola con qualche frutto, una brocca e i bicchieri per bere, un set per scrivere una lettera speciale. Ma si può anche partire dal grande ingresso, sistemandovi un “tavolo della stagione”, dove i bambini possano sistemare cose della natura trovate fuori. Partire dall’ingresso e dai corridoi, potrebbe essere l’occasione per coinvolgere nella sperimentazione e nell’educazione nuova i bidelli, che nei corridoi abitano tutto il giorno. Si può lavorare con i genitori perché smettano di comprare astucci costosissimi e allestire una cassa di classe con cui acquistare il necessario da condividere a scuola (materiali e strumenti di cui prendersi cura ogni giorno). Ma si può anche iniziare insieme ai bambini, spostando i banchi di modo che possano guardarsi negli occhi e tenendo in classe una scopa e una paletta per spazzare quando è necessario, perché curare la scuola non è solo compito dei bidelli. Si può provare a creare nell’aula un angolo per la pittura, un altro per la lettura, così come si può provare a stabilire dei turni per chi si occupa di temperare le matite o controllare che i pennarelli abbiano il tappo. Sempre ai genitori, si può chiedere aiuto per cucire delle tende e cercare qualcuno bravo a lavorare il legno, per dar vita a una falegnameria di scuola per la produzione di scaffalature. Si può organizzare una giornata di scuola aperta per raccogliere libri e iniziare a formare una biblioteca. Ma si può anche partire dalla mensa, predisponendo i necessari accorgimenti per assorbire il rumore, e suddividendo lo spazio con scaffalature e piante, creando piccoli angoli dove i bambini possano mangiare chiacchierando con calma. Gli esempi che abbiamo proposto ci dicono che non esiste una ricetta “ambiente” valida per tutti. Ogni scuola è diversa, non solo perché l’edificio è diverso, ma perché unici sono gli insegnanti e i bambini che la vivono. Allo stesso tempo, sono differenti le criticità. Accade anche quando parliamo di ambiente in senso generale: vivere a -40°, come accade in alcune zone Teorie 267 Quattro 268 della Russia o in Groenlandia, non è come vivere nel Niger, a ridosso del Sahara. La condizione ambientale di partenza influisce su tutto: il lavoro, il tipo di casa, l’abbigliamento, le relazioni fra le persone… Sapere che non esiste un sistema/ambiente perfetto per ogni scuola, ogni maestra, ogni bambino, potrebbe sembrare scoraggiante. Invece è forse la cosa più bella, perché sostiene nell’educatore l’inclinazione ad esplorare, anche tenendo conto delle mappe disegnate dagli esploratori del passato. È quindi dalle criticità che ognuno incontra nel suo cammino, ma anche dall’osservazione e dallo studio, che è necessario partire. L’ambiente non è però costituito solo da oggetti. Esiste, per così dire, una temperatura di scuola data dai termosifoni, ma esiste anche una temperatura emotiva data dalle relazioni, tanto più difficili quanto mantenute solo sul piano della parola (detta e ascoltata). Il legame fra le due temperature esiste, ma non è scontato. Se è vero che trasformare l’ambiente aiuta a ripensare la propria didattica, il proprio modo di stare con gli allievi, a nulla serve cambiare la disposizione dei tavoli se al centro della scena rimangono ancora la maestra o il maestro. A nulla serve sistemare alle pareti degli scaffali ricchi di materiali, se a questi i bambini possono accedere solo su invito diretto della maestra o del maestro. Perché l’ambiente diventi un reale terzo – l’alleato della relazione educativa – è necessario che i bambini possano utilizzarlo e viverlo in reale libertà, secondo le proprie attitudini, i propri tempi. Allora la scuola diventa un luogo vivo, accogliente, personale e, anche se povero di mezzi, bello perché capace di arricchire e arricchirsi della vita di ognuno: un luogo dove un bambino e una bambina (ma anche un maestro, una maestra, un bidello, una bidella) possano sentirsi pensati, liberi di muoversi, di accedere a tutto quello che serve in autonomia, dai fogli alla creta, dai colori ai cartoni, dai materiali più semplici a quelli più complessi. Un ambiente come questo è come un corpo in piena forma, che ci consente di camminare, correre, danzare, arrampicarci, saltare, scalare, riposare. La sua bellezza sta nella capacità di integrare ciò che solitamente viene diviso: il tempo dall’apprendimento, ancora frontale, seduti; il tempo della ginnastica e dell’intervallo, che è spesso tempo di sfogo; il tempo dei laboratori, delle tante attività che si fanno intorno, ma che non trasformano, non cambiano il modo di fare scuola. Una scuola può tenere insieme tutto questo, ad eccezione dello sfogo, di cui non c’è bisogno perché non c’è stata costrizione, sostenendo la fiducia reciproca al posto del controllo dall’alto, la collaborazione al posto della competizione, l’attenzione al posto della distrazione. Forse, più che attiva, dovremmo iniziare a chiamarla con il suo vero nome: scuola viva. il bosco come aula di Raniero Regni, conversazione con Alessandra Tagliavini Q uand’è che possiamo dire che un ragazzino a scuola sia completamente preso da ciò che sta facendo, che stia sperimentando il flow? Secondo lo psicologo Mihaly Csikszentimihaly, il flow o corrente della vita consiste in un particolare stato di coscienza che si ottiene quando ci impegniamo davvero in una qualche attività specifica che sia alla nostra portata e nella quale siamo presumibilmente abili. Stefano Laffi, nell’ambito di una ricerca nella scuola media superiore, interroga i ragazzi rispetto a quando essi sentono di vivere l’esperienza del flow, cioè quando quello che fanno genera in loro piacere, concentrazione spontanea, tanto che anche le cose complesse diventano semplici: le uniche cose che indicano a proposito della scuola sono gli sport. Nell’esperienza sportiva c’è una forma di mindfulness, cioè di pienezza della coscienza, del piacere; vi è quindi la coincidenza tra la motivazione, la vocazione verso quello che si sta facendo e la concentrazione spontanea, molto evidente nel gesto atletico. Quando un atleta, che ha lavorato tanto su un gesto, alla fine riesce a farlo? Quando c’è una coincidenza di fattori che la scuola sembra non coltivare per niente. Nella scuola queste esperienze di concentrazione spontanea, di piacere nel fare un’attività, sono diventate rare perché l’ambiente scolastico è insufficiente anche e soprattutto fisicamente. Il bambino da zero a sei anni pensa con le mani: ha bisogno di materiali, di concentrarsi sulle attività, e può farlo anche in un ambiente ristretto, un piccolo giardino, un’aula, la casa stessa. L’ambiente deve essere protettivo e permettere il dipanarsi di esperienze. Successivamente, nella scuola primaria, il bambino pensa con le gambe: tutta la psicopedagogia sostiene che l’apprendimento è proporzionale al movimento, e le neuroscienze rinforzano tale scoperta sostenendo che il cervello non distingue tra funzioni cognitive e funzioni motorie. Se faccio capisco: bisogna favorire la concentrazione profonda del bambino mentre lavora, e un bambino non si può concentrare sulle parole, ma ha bisogno di oggetti che suggeriscono delle attività; ecco che allora lui o lei si concentra, e più si concentra più cresce, più si concentra e più sta zitto. Quel silenzio è veramente d’oro, è il musicista dei frutti, come dice Saint-Exupéry, perché i frutti maturano in silenzio. La mente del bambino costruisce: il potere costruttivo che le neuroscienze ci dimostrano delle prime esperienze infantili è enorme. Il bambino costruisce quelle reti che userà da adulto, gli scaffali cognitivi e mentali che si porterà dentro e dietro per sempre. Senza abbandonarsi alla neuro mania, Teorie 269 Quattro 270 dobbiamo prestare attenzione a quel prefisso neuro- che è importante perché porta evidenze scientifiche al potere costruttivo delle attività, al potere psichico del movimento che Montessori aveva individuato benissimo chiamandolo mente assorbente. Il bambino pensa con le sue mani, quello che afferra con le mani il cervello lo afferra con le reti neurali, quello che non viene afferrato se ne va. Basta pensare che vi sono più neuroni e meno connessioni all’inizio: il cervello è un organo completamente diverso da tutti gli altri, rispetto al fegato, ai polmoni; le cellule del cuore di un adulto sono più numerose di quelle di un bambino, i neuroni sono di meno. Il cervello di un bambino pesa 700 grammi e quello di un adulto un chilo e tre: che cosa è aumentato, se le cellule all’inizio sono di più? Le connessioni. E chi produce le connessioni? Le esperienze. L’educazione fa biologia, determina la biologia, cioè è l’hardware che viene determinato, non il software, le cognizioni. Il bambino è cosciente ma non consapevole, come viene riportato da Alison Gopnik, del Mit, ne Il bambino filosofo, un libro splendido che raccoglie le recenti scoperte delle neuroscienze sulle primissime esperienze infantili. Il bambino riceve circa diecimila informazioni al secondo con una pienezza impressionante, e il suo cervello fa un’attività di selezione importante. Noi non sappiamo esattamente come sia la vita psichica di un bambino piccolo, però potrebbe essere simile allo stato che l’adulto raggiunge con la meditazione come quella orientale: è cosciente di tutto ma abbandona l’Io, la consapevolezza. In virtù del fatto che riceve tantissimi stimoli (Montessori diceva che è oppresso da un caos pesante) il bambino deve trovare un ambiente che lo aiuti a ordinarsi, non lo anticipi e non lo sostituisca, semplicemente lo sostenga. Una viva e costante concentrazione è il segreto di ogni apprendimento e di ogni insegnamento. L’attenzione va ricercata e aiutata. Quando parliamo di didattica salutare dal punto di vista psico-fisico, parliamo di creare un ambiente che rispetti la vita; educare significa aiutare lo sviluppo della persona. Il bambino piccolo si sviluppa attraverso un ambiente, delle attività, dei materiali che favoriscono la messa in ordine del caos neurale di cui facevamo accenno in precedenza, che lo affligge per certi aspetti, ma che ha un grande potere costruttivo. La memoria si costruisce solo nella concentrazione. Il passaggio degli apprendimenti dalla memoria a breve termine a quella di lavoro e, da questa, alla corteccia richiede tempo, come sottolinea il premio Nobel Eric Kandel. Ma la nostra attenzione è una risorsa scarsa, e tutti sono a caccia per impossessarsene (penso al marketing o alle altre mille “reti di pesca” per l’attenzione). Siamo esposti ai tanti input che la quotidianità ci scaglia addosso: le notizie, le informazioni, le inquadrature televisive che durano zero virgola tre secondi, la navigazione sui browser e sui social network, il leggere dai cellulari che sono sempre tra le mani degli adolescenti (e non solo). Bisogna dare tempo al cervello di far passare i ricordi dentro al pensiero, cioè consentire il passaggio di informazioni dall’ippocampo alla neuro-corteccia. A quel punto i ricordi divengono parte integrante del pensiero, non vanno in una memoria esterna come succede nel computer. Goethe diceva che il genio è per tre quarti memoria! Quello che io chiamo pensiero, è per tre quarti memoria. Il multitasking, tutti gli stimoli che i bambini ricevono precocemente interrompono la concentrazione. A questo proposito gli scienziati parlano di costo dello switch, il costo cioè che si paga quando il cervello diventa bravo ad accendere e spegnere l’attenzione da una cosa all’altra. Quindi, è evidente che una didattica salutare rispetta questa concentrazione, la provoca, la favorisce e una volta che il bambino si concentra, non lo si deve interrompere. Dopo un lavoro concentrato, il bambino sarà risposato, più tranquillo perché il suo cervello è una macchina autofertilizzante: più lavora e più si riposa. Montessori direbbe “si normalizza”, perché questo è il vero stato normale, non l’ipermotilità e l’eccitazione continua. Se non trovano cibo per la loro mente, i bambini diventano insopportabili. E molto spesso nelle nostre case ricche non c’è cibo per il cervello dei bambini, che pensano con le mani. Successivamente, in un’altra fase di sviluppo, cambia tutto. Il bambino della primaria, che pensa con le gambe, non può stare seduto ai banchi per cinque giorni a settimana per cinque ore: Montessori chiamava il banco, che allora era inchiodato per terra ed era di legno, una specie di tortura dell’animo infantile, ma anche del corpo. A quella età si va alla ricerca dei perché, si cercano le cause, essendo in una fase dello sviluppo cognitivo superiore rispetto ai bimbi tre/sei anni. E le risposte non le può trovare dentro a un’aula, nemmeno se dotata di Lim, la lavagna interattiva multimediale: l’aula deve essere fuori dalla scuola, deve essere la città, la natura, il paesaggio. Per l’ecologia della mente e del corpo bisogna uscire dalla scuola. A dar forza a tale idea, Gardner sostiene che si deve dedicare un terzo del tempo scolastico, dalla scuola primaria fino alla superiore, a forme moderne di apprendistato. Non significa fare una visita al ceramista, al sarto, così tanto per fare, senza averla preparata in precedenza, ma di produrre una esperienza vera. Cioè organizzare un’uscita che corrisponda alle esigenze degli alunni di quel momento, esponendoli alla bellezza, nella pienezza dell’esperienza. Ogni aiuto superfluo è un ostacolo allo sviluppo: noi, invece, dobbiamo aiutare quello sviluppo, servire la vita; pensare, come diceva Vygotskij, alla zona di sviluppo prossimale1 ; offrire, non imporre al bambino. Il cervello delle imposizioni se ne infischia, le butta. Allora, la scuola salutare, biodegradabile, ecocompatibile, è quella che utilizza la città come aula, facendo attenzione al come si fanno le cose e tenendo presente che la libertà e la tecnica non sono opposte. La scuola deve essere un luogo dove si aiuta la vita e si educa alla bellezza, avendo fiducia nel bambino: noi in realtà non Teorie 271 1. Possiamo definire la zona di sviluppo prossimale come “la distanza tra il livello effettivo di sviluppo, così com’è determinato dal problem-solving autonomo, e il livello di sviluppo potenziale, così com’è determinato attraverso il problem-solving sotto la guida di un adulto o in collaborazione Quattro 272 con i propri pari più capaci” (Vygotskij, 1934) abbiamo fiducia nel bambino, per questo lo vogliamo controllare sempre, lo sottoponiamo a una serie di verifiche che misurano tutto ma non valutano alcunché. Perché quello che conta non può essere contato. Lo scopo della valutazione è migliorare il curriculum, diceva Bruner: è la retroazione che serve a migliorare l’offerta educativa. Gardner ha scritto un libro intitolato The unschooled mind, tradotto in italiano con “Educare al comprendere”, un libro importante che si focalizza su cosa sia la mente non scolarizzata. Chi è il bambino tra i zero e i sei anni? Un genio, sostiene. Gli scienziati e i bambini sono i più bravi ad imparare, eppure questi ultimi, quando entrano a scuola, sembrano incontrare tante difficoltà. Allora la domanda che si fa Gardner, facendo eco alla Montessori, è: cosa c’è che non va nelle scuole? Il fatto che venga detto loro “Sta’ buono, sta’ fermo, sta’ zitto”, probabilmente. Perché se è vero che imparano facendo, ne consegue che non possono imparare stando immobili. Ugualmente, se è vero che imparano interagendo, non possono farlo stando zitti. Ecco perché i bambini devono stare fuori della scuola per un terzo del tempo scolastico. Mettendoli a lavorare vicino a degli adulti che fanno dei mestieri veri, portandoli dentro ad una officina per esempio, quindi facendo mettere loro la tuta, dando loro la possibilità di sporcarsi le mani. Poi, portarli da un fi losofo, uno storico. Dal punto di vista del rapporto affettività e apprendimento, questo nesso è importantissimo. Le relazioni hanno una base biologica: così come l’esperienza fa biologia sul piano cognitivo, le relazioni fanno biologia sul piano affettivo. Questo lo abbiamo scoperto studiando gli orfani della seconda Guerra Mondiale: essi, pur mangiando, morivano. Si pensi alle ricerche di Spitz, Winnicot e Bowlby. Noi, infatti, siamo costruiti sin dalla nascita per entrare in sintonia con qualcuno che si prende cura di noi; la lunga infanzia umana è fatta a posta perché ci sia qualcuno che si curi di noi in maniera continuativa e con affetto. Prendiamo l’esempio di un neonato: al momento della nascita, il suo cristallino è programmato dalla natura per mettere a fuoco un oggetto che sta fermo ad una distanza di 25 centimetri; non gli serve per cercare il seno, che è vicino. Il suo cristallino è concepito perché, mentre prende il latte, cominci un dialogo occhi a occhi con la madre. E tale dialogo è fondamentale per la crescita tanto quanto il latte, poiché noi siamo programmati per la relazione. In principio era la relazione. Noi siamo abituati a segmentare lo sviluppo cognitivo (percezione, memoria, affettività), ma in realtà, diceva Bruner, il bambino “persepensa”, noi percepiamo sentiamo e pensiamo. Rispetto agli insegnanti, essi per definizione godono nel vedere le persone crescere, l’educatore è colui/colei che realizza sé stesso/a nell’aiutare gli altri a realizzarsi, il suo benessere sta nella soddisfazione dei suoi studenti. Ma sono oberati dai troppi compiti, non hanno più il tempo per essere sé stessi; l’ambiente scolastico è insopportabile an- che per loro, perché le scuole sono brutte, “odorano di scuola”, hanno perso ogni appeal. Nei programmi, nelle circolari, a livello linguistico, c’è una manomissione delle parole: si pensa che cambiando le parole si cambino le cose, secondo una concezione magica della trasformazione educativa, ma se io cambio le leggi o i regolamenti, non automaticamente cambieranno i comportamenti. Nell’ambito educativo questo capita ancora di più: ci sono delle routine, delle inerzie da parte degli insegnanti che, anche per autodifesa, non recepiscono alcun tipo di indicazione, e per certi versi fanno bene. Molti dei documenti ministeriali additano degli elementi per realizzare un tipo di scuola come l’abbiamo delineata in precedenza, ma non specificano gli strumenti e gli approfondimenti necessari né la formazione che dovrebbe accompagnare e implementare tali riforme. Per questo nessuno parla più di riforma, si è capito che la scuola è irriformabile. Quindi gli insegnanti italiani, per istinto, temono che ogni novità gli sovraccarichi il tempo, espropriandoli ancor più del controllo della loro professione. La burocrazia è pesantissima, pensiamo alle uscite dalla scuola e alla normativa sulla sicurezza. Uno studioso della città educante come Tonucci ricordava il grande pedagogista polacco J. Korczak quando diceva: “per paura che muoiano, gli impediamo di vivere!” Per paura della sicurezza, gli impediamo di fare esperienza mentre rischio (contenuto ovviamente) libertà gioco e piacere vanno insieme. Ma una scuola diversa è possibile perché le leggi rendono sovrano il consiglio di classe che, dopo la riforma dell’autonomia, hanno la prima e l’ultima parola in materia di scelte educative mentre gli insegnanti continuano a trincerarsi dietro ai programmi: ebbene i programmi non esistono più, ci sono solo indicazioni. Ci sono degli obiettivi finali, ma sui contenuti il collegio docenti è sovrano, può operare delle scelte. La ricerca accademica in ambito pedagogico, d’altra parte, è correa di questo stato di cose – parlo ovviamente anche di me e contro di me – poiché è troppo spesso distante dalla pratica didattica educativa e questo è un danno sia per l’università che per gli insegnanti. Montessori diceva che le scienze pedagogiche sono solo il presentimento di una scienza: io leggo poco di pedagogia, molto di altre aree di interesse come, ma è solo un esempio, nel caso di Dehaene che ne I neuroni della lettura ha demolito il “metodo globale”, ovvero quel metodo molto in voga negli anni ’70-‘80 in Italia che invitava i bambini a guardare alla parola nel suo insieme come se fosse un disegno mentre il cervello non funziona «globalmente» ma analizza lo scritto suddividendolo in componenti fino alle singole lettere. I neuroni non funzionano così, mentre le lettere smerigliate funzionano e benissimo. In Francia l’hanno proibito. Bisogna riavvicinare ricerca e pratica educativa. Richard Sennet ci ricorda, infatti, che quando la mano si separa dalla mente, chi ci rimette è la mente. Teorie 273 per una pedagogia del corpo ritrovare il piacere dell’azione e del movimento di Ivano Gamelli, incontro con Alessandra Tagliavini U Quattro 274 na “scuola salutare”, capace di generare benessere psicofisico per insegnanti e alunni, è una scuola che sa porre al centro del suo operare il primato dell’esperienza. L’esperienza del qui e ora, l’esperienza del sostare e al contempo del conoscere facendo, che per un bambino significa innanzitutto uno spazio disteso per il piacere del gioco spontaneo, libero, gratuito. Quel che invece non di rado accade nelle scuole è che purtroppo le insegnanti della scuola dell’Infanzia, man mano che si avvicina il passaggio alla scuola Primaria, sono tutte assorbite (e anche pressate da molti genitori) dal fatto che i bambini devono essere preparati per andare alla scuola Primaria; quando sono alla scuola Primaria, devono essere preparati per la scuola media... Tutto ciò genera un’ansia crescente da prestazione che bambini e ragazzi avvertono potentemente: vanno in stress, uno stress prestazionale che non è salutare poiché produce, appunto, l’impossibilità di vivere l’esperienza presente. Immagino le obiezioni che da subito possono insorgere da alcuni insegnanti, educatori, direttori didattici: i bambini giocano già e molto, noi a scuola abbiamo altri compiti, diranno. In discussione, però, non è tanto l’enfatizzazione del gioco genericamente inteso, quanto la possibilità di offrire al bambino una cornice (e la scuola può/deve rappresentare questa cornice) grazie alla quale egli possa progressivamente accedere a livelli via via più complessi di simbolizzazione. La crescita cognitiva, che ha a che vedere con la dimensione simbolica del sapere, non può essere raggiunta senza la mobilitazione profonda della storia del bambino, che è connessa con l’esperienza del gioco. Da un lato la scuola ci viene calata addosso, è un impianto istituzionale e culturale che non si modifica certo più di tanto col mio singolo apporto di insegnante, ma dall’altro questo impianto è una cornice, bella o brutta che sia, più o meno elastica, che ha bisogno di me, della mia energia, della mia creatività, della mia pazienza, della mia specifica preparazione. Di me come corpo, idee ed emozioni, che le danno forma e vita. La cornice c’è, ma il quadro sta a me dipingerlo, con dei collaboratori più piccoli di me, che non sarà facile coordinare, ma che porteranno una tale ricchezza di colori e sfumature, competenze e motivazioni, da affrescare la facciata di un palazzo. Dicendo questo sto semplicemente ricordando gli assiomi del pensiero di Jean Piaget: autore tanto conosciuto e studiato in tutte le scuole superiori e le università da coloro che diventeranno future maestre e insegnanti. Perlopiù, a dire il vero, di Piaget si insegnano gli stadi di sviluppo dell’intelligenza del bambino, ma questi non rappresentano il cuore della sua ricerca. Oltretutto, questi stadi si sono inevitabilmente modificati nelle loro scansioni temporali, perché le teorie invecchiano come gli individui, e il bambino di oggi non è certamente il bambino svizzero che egli aveva di fronte come oggetto di studio e di elaborazione delle sue teorie. Il bambino di oggi, ad esempio, accede al pensiero simbolico ben prima di quanto avesse postulato allora Piaget. La chiave, il focus della ricerca di Piaget risiede altrove. Egli si accorse che quella che noi chiamiamo intelligenza o, per dirla con un tipo di linguaggio oggi in voga nella scuola, sviluppo delle competenze (tanto ci sarebbe da riflettere anche sul linguaggio utilizzato quando si parla di scuola: nella parola competenza è contenuta la parola competizione, dunque un retaggio di carattere aziendale e ancor prima militare…), non è altro che la conseguenza dell’azione. L’intelligenza è un’azione interiorizzata. Il bambino, messo nella condizione di sperimentare il più liberamente possibile attraverso il dispiegamento nel gioco di tutti i sensi, agisce sulla realtà, che gli rimbalza dei significati destinati a diventare schemi d’azione, quindi saperi, conoscenze. Per questa ragione, gioco-azione-intelligenza-pensiero sono per Piaget isomorfiche, hanno la stessa forma, sono la stessa cosa. L’apprendimento è una questione di fare. La percezione sensoriale, la cognizione (l’elaborazione) e l’azione non avvengono, come si è a lungo creduto - e da cui discendono i tradizionali (obsoleti) sistemi di insegnamento - in sequenza: le tre funzioni agiscono in modo simultaneo. Le moderne neuroscienze ci dicono che quando osserviamo qualcuno compiere una qualsiasi azione si attiva in noi una zona del cervello che normalmente si attiva quando siamo noi stessi a compiere quella medesima azione. Il successo di ogni apprendimento è legato alla compresenza di osservazione e azione. L’acquisizione delle conoscenze da parte di un bambino avviene attraverso un processo integrato mente-corpo, un vissuto affettivo, lo stesso che ritroviamo nelle attività spontanee, esplorative, motorie che un bambino o una bambina mette in atto (se non ostacolato) all’insegna del piacere di vivere il suo corpo in relazione con gli altri, lo spazio e gli oggetti del mondo che lo circondano. Non si può pensare - insisto consapevolmente - a un’educazione a scuola, soprattutto nei primi anni, che prescinda dal piacere del gioco spontaneo del bambino, poiché il gioco attiva globalmente tutti i suoi bisogni: nel gioco c’è il contesto, la relazione con l’altro, il corpo, le emozioni, il pensiero. La scuola non può essere quel luogo frammentario e spezzettato che troppi bambini ancora incontrano. La scuola delle prestazioni è pensata come un luogo che si frequenta, come un non luogo per dirla con Augé; al contrario, una scuola che recupe- Teorie 275 Quattro 276 ra la dimensione integrata del bambino diventa un luogo che si abita. Abitare significa sentirsi bene in un luogo nel quale si è visti, accolti in maniera globale. E la misura prima e imprescindibile del riconoscimento e dell’accoglienza per ogni bambino (e ogni insegnante) è, appunto, il suo corpo. Il corpo è sempre e ovunque a scuola, non può essere relegato in poche ore di educazione motoria (e non solo quello dei bambini e dei ragazzi). Vivere la scuola col corpo è pensarla come un luogo di relazioni dinamiche e affettive, con una didattica capace di dare corpo al sapere, di incontrare la disponibilità naturale dello studente ad apprendere al livello della sua sensibilità più autentica. L’opportunità data ai bambini di vivere l’apprendimento in maniera globale passa inevitabilmente dalla disponibilità dell’insegnante a coltivare un proprio “sguardo corporeo” sui processi di cui è facilitatore. L’organizzazione, la cura degli spazi non sono elementi indifferenti: la scuola può essere un luogo bello, dove “bello” non deve immediatamente far pensare a un costoso edificio progettato da un architetto di grido. Una scuola bella è una scuola accogliente, disponibile a essere modificata. Molte delle difficoltà che incontrano oggi gli studenti a scuola a incorporare le conoscenze appaiono proprio come la conseguenza inevitabile di ambienti che costringono. Quando, invece, l’ambiente si adatta in maniera flessibile alle esigenze espressive degli alunni, regolandone sì gli atti ma decolpevolizzandone il desiderio, ecco che allora in loro si dispiegano le potenzialità sottese alla globalità dei tanti linguaggi e altrettanti sensi di cui sono portatori. Non è dalla volontà che scaturisce la motivazione ad apprendere, ma, al contrario, è la motivazione a generare desiderio di conoscenza. È interessante notare come oggi, per una serie di ragioni addotte (sicurezza, pulizia, razionalità), gli spazi educativi tendano a essere sempre più irrigiditi. Nell’università dove insegno, non vi è un’aula che non abbia banchi e sedie inchiodate, una tendenza che si va diffondendo sempre più. Naturalmente, ci sono delle valide motivazioni da un punto di vista razionale: i ragazzi non cadranno certo da delle sedie inchiodate, il personale addetto alle pulizie non dovrà impiegare tanto tempo per rimettere in ordine, ecc. Ma spazi che si danno già definiti, e che non possono essere modificati, non sono spazi accoglienti, poiché tutto ciò che è immutabile (insensibile al contesto) è destinato a essere percepito come estraneo. I bambini, i ragazzini sono così indotti surrettiziamente a una sorta di messa a distanza, di non riconoscimento di un simile luogo. Il movimento a scuola fa paura. Un corpo indisciplinato, libero, è difficile da controllare, da disciplinare. Nel piacere del gioco libero il bambino esprime la sua pulsionalità, quindi anche la sua aggressività. Se l’insegnante non è stata preparata, formata, non ha avuto la possibilità di sperimentare a sua volta un rapporto educativo con le proprie pulsioni, probabilmente non riuscirà ad accettarle nei bambini. Ma imbrigliare il movimento vuol dire mettere un coperchio alla dimensione vitale del bambino. Le nostre scuole sono state, e in molti casi continuano a esserlo, luoghi caratterizzati dalla compressione e dalla restrizione del movimento. Il monito di Maria Montessori di non cadere nell’errore di associare a scuola ciò che è bene con l’immobilità e ciò che è male con il movimento continua a essere più che mai attuale. Una didattica salutare ha a che fare con il concetto di dieta, parola greca che non si limita al regime alimentare ma esprime ogni condizione esistenziale di cura segnata da una pratica scelta e consapevole. La scuola deve avere una sua dieta. Spesso ci si lamenta del fatto che i ragazzini non sappiano comportarsi, non sappiano riflettere, ma la riflessività non è una qualità che nasce e si sviluppa così come in un bambino si sviluppa la lunghezza dei piedi o l’altezza: deve essere alimentata, stimolata, praticata. È necessaria una pratica quotidiana e ripetuta di cura che ha a che vedere con una didattica che deve necessariamente prendere in considerazione e accogliere tutte le dimensioni del bambino. Come ho scritto recentemente in un libricino per la scuola dal titolo A scuola in tutti i sensi, parafrasando un vecchio filone di ricerca del Movimento di Cooperazione Educativa degli anni ’60 “A scuola con il corpo”, bisogna superare l’artificiosità delle separazioni fra mente e corpo, parola e movimento, cognizione ed emozione, mondo della vita e mondo dell’educazione. In questo senso, la “Pedagogia del corpo”, disciplina che ho istituito e che insegno all’Università di Milano Bicocca, è una necessità e una provocazione necessaria, perché quella che mediamente viene chiamata e insegnata nelle accademie come pedagogia generale di tutto tratta tranne di ciò di cui si discute in queste pagine. Ho pensato quindici anni fa che fosse necessario parlare di pedagogia del corpo, non tanto e non solo per riflettere su che cosa fare con i bambini nella scuola per sviluppare le loro competenze motorie, quanto per disporre di uno spazio da cui chiedersi in che modo si possa provare a integrare le proposte educative in una prospettiva capace di tenere insieme tutti gli aspetti in gioco nella formazione, di cui il corpo è lo snodo, la dimensione fondante. Noi siamo corpo e abbiamo un corpo. Il corpo non è solo e semplicemente il corpo fisico, anatomico, ma è anche e soprattutto lo spazio che si apre nella relazione tra me e te, una relazione definita dall’incontro di due esperienze incarnate. Un corpo che sente, che si emoziona, che parla: in questo senso, la parola, la voce sono anch’essi gesti, prolungamenti del corpo. La voce è un’altra delle dimensioni rimosse dalla pratica educativa. Eppure è lo strumento per eccellenza di un educatore, di un’insegnante. Con la voce possiamo accarezzare, colpire, consolare, avvicinare o mettere a distanza l’altro. Al pari di un qualsiasi altro gesto, la voce produce effetti Teorie 277 Quattro 278 cinestesici. Essa è connessa al contesto emozionale e affettivo. Tutto questo è totalmente dimenticato nella formazione degli insegnanti. I contesti scolastici sono segnati da una sorta di bulimia ipercognitiva. I dirigenti si sentono manager. Può capitare che una giovane (o meno giovane) insegnante possa voler accogliere molte delle cose di cui qui si parla, ma andrà probabilmente incontro a vissuti di solitudine o di contrapposizione. Con il rischio che ciò la/lo porti a omologarsi verso il basso, non inseguendo più, pur avendone la vocazione, quel tipo di scuola che avrebbe desiderato, non chiedendosi più “come faccio per dare il mio contributo alla felicità di questi bambini”, ma “come faccio per sviluppare questa o quella competenza, anche a costo di …”. Non c’è più un ambiente sociale e culturale di supporto. Si è smarrito il senso della cooperazione tra gli insegnanti. Prevale la dimensione prestazionale che è il vero ostacolo: il contenere, il controllare, il competere, il dirigere, il conformare… Si tratta, quindi, di lavorare sulla ricomposizione di passioni e idee in funzione della destrutturazione delle rigidità che il più delle volte sono imposte, ma che non sono funzionali al buon lavoro dell’insegnante. L’educazione ha molto a che vedere con il ritmo. Così come nella musica le variazioni sono fondamentali, e i silenzi lo sono ancora di più perché senza di essi non vi sarebbe musica, è fertile pensare una situazione didattica come una composizione: non vi può essere un’unica “nota” che risuona all’infinito. Laddove le pratiche educative sono “stonate”, o monotone, le teste sono destinate a cadere sui banchi, come succederebbe a ciascuno di noi nell’ascolto di un pessimo concerto. Quando la musica sa sostenere la concentrazione, la motivazione, sa variare, sa portarci in mondi diversi, allora siamo presenti. Lo stesso vale a scuola. Ci sono tanti spazi nelle scuole che non sono utilizzati. I corridoi, per esempio, possono diventare dei luoghi per il movimento in tutte le sue forme, invece di servire solo per appendere i cappotti alle pareti o, durante l’intervallo, per corse sfrenate inevitabilmente compensatorie. Per non parlare poi degli spazi esterni: molte scuole ne hanno di bellissimi, ma non vengono pensati come luoghi d’esperienza didattica, se non eccezionale o ricreativa. Si studia la fotosintesi clorofilliana sui libri, ma dell’albero là fuori nessuno se ne accorge. Si deve tornare, insomma, alla dimensione del piacere e del gioco di cui si parlava all’inizio, declinandola in diverse forme: un laboratorio di riparazione delle biciclette (di cui in questo volume, ad esempio, si parla) può essere un’ottima cosa, se intercetta il piacere al coinvolgimento di bambini e ragazzi. In ciò risiede il cuore della motivazione ad apprendere. Dove oggi c’è un concetto, all’inizio c’era un’azione, diceva Piaget. L’educazione sta nel capire qual è il concetto a cui io miro con i bambini o ragazzi e attraversare il processo che vi conduce esperienzialmente. In tal senso la programmazione (parola che non amo), come qualcuno ha detto, è sempre una post-programmazione: se ho in mente di accompagnare gli alunni ad acquisire un dato concetto, quello che devo fare, quando entro in aula, è non nominare quel concetto ma pensare a tutto il percorso esperienziale che porta ad acquisirlo. Come insegnare l’area del triangolo? I bambini non sanno cosa sia un triangolo, allora bisogna pensare in quale esperienza lo possono trovare. Potrà essere un’esperienza pittorica, corporea, musicale. Le discipline servono alla conoscenza, non sono delle icone da venerare. Dal punto di vista metodologico, un suggerimento valido potrebbe essere quello di provare a ribaltare la sequenza con cui generalmente si affronta qualunque apprendimento. Invece di partire dalla sua presentazione/illustrazione/spiegazione da parte dell’insegnante, porgerlo come un “problema” da risolvere senza nominare né mostrare nulla, consentendo ai bambini di esplorare globalmente ogni possibile via, anche quelle “sbagliate” (sapere perché una soluzione è errata non è meno importante dell’individuare la risposta giusta); dopo un tempo sufficientemente lungo e a loro affidato completamente, potendo così l’insegnante osservare le soluzioni che via via emergeranno (l’insegnante che osserva è l’insegnante che insegna), riprendere alcuni elementi della ricerca dei bambini per suggerire loro di svilupparle; solo alla fine aiutarli a perfezionare e a mettere a fuoco l’apprendimento. Dal “brancolamento esperienziale” alla “tecnica” è il divenire naturale di qualunque nuova conoscenza; e non il contrario, come spesso avviene a scuola. Questo processo, naturalmente vale anche per l’insegnante, la quale non deve troppo temere di non disporre di una preparazione specifica sufficientemente adeguata e collaudata. Il giocare e conoscere con il proprio corpo non richiedono di essere “insegnati” ai bambini. Quel che conta, almeno per cominciare, è la disponibilità a creare le condizioni e a palesare la disponibilità ad accogliere le loro azioni e le loro scoperte, attraverso una qualità della presenza e dello sguardo che ciascuno adulto può recuperare nella propria memoria bambina. Il primo consiglio valido per un’“insegnante sensibile” è, forse, quello di cominciare a (re)agire di meno e ascoltarsi di più. Teorie 279 non chiamatela arteterapia di Margherita Bellini D Quattro 280 a sempre l’uomo danza, balla, dipinge, per celebrare, per celebrarsi, per consolarsi, per sentire che esiste, per esprimersi, percepirsi. Con l’avvento del positivismo, alla fine dell’800, tutte le attività che non fossero legate direttamente a un sapere scientifico, illuministicamente inteso, sono state relegate nel mondo del frivolo, del superfluo, dell’accessorio. Con l’inizio del ’900 e con le sperimentazioni in ambito psicoanalitico, alcuni psicoterapeuti hanno cominciato ad accorgersi di quanto disegnare, muoversi ed esprimersi “artisticamente” giovasse a molti pazienti malati (pensiamo, a titolo di esempio, a Jung e ai suoi studi sui mandala). Da queste sperimentazioni nascono, intorno agli anni ’40 del ’900 vari tipi di arteterapia (danza, musica e arte in generale), cioè tecniche sistematizzate che attingevano a varie forme d’arte per affiancare e favorire un percorso di cura.Sono passati gli anni e il nostro mondo avrebbe dovuto ben imparare come l’ideale dell’uomo scientifico, che servendosi della sola ragione trasforma il mondo portandolo verso un continuo progresso, sia fallimentare. Invece, nonostante fior di studi e fior di studiosi (Freinet, Piaget, Montessori, Gardner, solo per citarne alcuni) abbiano dato testimonianza di come l’uomo sia un’unità psico-corporea complessa fatta di mente, corpo, emotività e sensibilità imprescindibilmente collegate, di come l’apprendimento passi attraverso tantissimi canali diversi, non solo quelli logico-matematici, nonostante tutto ciò all’interno delle nostre istituzioni scolastiche si continua a trasmettere l’immagine di una realtà appiattita sulle categorie delle scienze naturali e a promuovere una didattica frontale e libresca. Attività musicali, di pittura o movimento vengono tutt’oggi considerate degli hobby, dei passatempi e acquistano dignità solo se dimostrano di veicolare la cura dei corpi e delle menti. Per questo si vive spesso la contraddizione di incontrare attività che si dichiarano esplicitamente terapeutiche anche in contesti e per persone che malate non lo sono affatto! Eppure la cosa spesso non crea scalpore alcuno, probabilmente perché la concezione che dell’umano viene promossa dalla nostra società è proprio quella di un essere carente, un essere incompleto (in un certo senso malato?). Non è forse questo il pilastro su cui si fonda il capitalismo il cui unico obbiettivo è indurre continuamente il senso di mancanza di qualcosa per portare a consumare sempre di più? È per questo che diventa particolarmente pericoloso il lavoro pedagogico attraverso le artiterapie senza un’attenta presa di coscienza. Innanzitutto si rischia di accondiscendere e anzi confermare la visione consumistica della società che sarebbe esattamente quella che esplicitamente si tenta di mettere in discussione. L’obbiettivo stesso delle artiterapie sarebbe infatti proprio quello di promuovere un’immagine organica dell’essere umano valorizzando fortemente la sua capacità di resilienza. La sua natura di ecosistema complesso che ha la capacità cioè di riportarsi in equilibrio dopo aver subito un’alterazione. Il contrario di “bisognoso di cura”! Infatti se si vogliono preparare i bambini e le bambine a inserirsi nel mondo di oggi come uomini e donne coscienti di sé e non spaventati all’idea di produrre cambiamento non si può che aiutarli a riscoprire questa capacità straordinaria di resilienza contro un mondo che restituisce loro un’immagine di esseri fragili e bisognosi di qualcosa che non possono avere se non comprandola. Inoltre usare il termine di “terapia” a scuola non fa che aggravare la tendenza piuttosto diffusa a incasellare bambini e bambine in base alle difficoltà che hanno ad adattarsi al funzionamento della scuola stessa (i cosiddetti “disturbi specifici dell’apprendimento”, inseriti all’interno del Dsm V, il manuale diagnostico per i disturbi mentali). Tendenza che aggrava il fenomeno di patologizzazione delle difficoltà di insegnamento e apprendimento e la percezione secondo cui una persona con una difficoltà ha una disabilità. In generale perciò bisogna prestare molta attenzione a parlare di arteterapia, sia alle persone a cui si propongono le attività (che non farebbero che auto percepirsi sempre di più come malati e bisognosi di essere “salvati”) sia alle persone coinvolte, come insegnanti e genitori, in una relazione educativa (che spesso finiscono per considerare strani, malati, inabili i propri alunni o i propri figli pur di non mettersi in discussione come educatori e come adulti). In qualità di danza-movimento-terapeuta, ancora in formazione, non posso però che sottolineare come le artiterapie abbiano il grande merito di essere impegnate in un continuo riscatto delle differenze e in un processo di valorizzazione delle diverse abilità senza discriminare alcun canale di espressione; come all’interno dei percorsi formativi venga dato grande spazio all’allenamento dello sguardo, senza il quale è molto difficile, quando si è implicati in una relazione educativa, “guardare” veramente chi si ha di fronte; come infine sia richiesto un impegno personale di presa di coscienza di sé per poter fare da specchio consapevole alle persone con cui si lavora senza proiettare i propri problemi su di loro (attenzione che non è richiesta in nessuna formazione universitaria). Come uscire allora da questa impasse? Come proporre metodologie interessanti e competenze utili, senza alimentare involontariamente una visione della realtà che complica di molto l’intervento educativo? In alcune scuole di danza-movimento-terapia si comincia a fare largo il termine di “pedagogia a mediazione corporea” che mi sembra molto interessante. E affiancato a questo potrebbero aggiungersi i termini di pedagogia a me- Teorie 281 Quattro 282 diazione musicale, teatrale, pittorica, ecc. Certo c’è da chiedersi se i pedagogisti tradizionali siano disposti a lasciare un po’ di spazio a queste altre forme dell’ “educare”. Se siano disposti ad ammettere che questi ambiti di sperimentazione siano importanti quanto l’informatica, l’inglese, la matematica ecc. e per certi versi preliminari e propedeutici alla conoscenza “classica”. Inoltre c’è un altro aspetto che è necessario analizzare. Credo che lo sviluppo di competenze manuali, di movimento, di espressione ed elaborazione grafico-pittorica siano necessarie per il buon sviluppo del bambino e della bambina, e che fino a poco tempo fa, molte di queste si acquisivano “spontaneamente” nei vari contesti di vita: per strada, quando non c’erano giochi pronti e bisognava inventarseli; a casa, quando si imparava dagli adulti a fare “le faccende” o quando ci si annoiava e non si avevano cartoni animati da guardare per cui si era costretti a fantasticare col corpo e con la mente, quando si incontravano persone dopo tanto tempo e bisognava raccontare cosa si era fatto nei periodi di lontananza, quando si acquisiva la capacità di descrivere immagini e scene perché non le si poteva immortalare con una foto, quando si ballava durante le feste… Credo che se oggi c’è bisogno di trovare spazi educativi ad hoc per riempire queste lacune non sia tanto “normale” e che se un sistema educativo convenzionale (come la scuola) non si prende cura di questi aspetti non sia tanto “salutare”. Messa così mi sembra che l’uso di un termine così forte come quello di “terapia” diventi almeno provocatorio: ci aiuta a comprendere come rinnegando questi aspetti dell’essere (corpo, emotività, creatività, desiderio di libera espressione) contribuiamo a creare grandi disagi (se non disturbi veri e propri) nell’apprendimento e nella buona crescita dei bambini e dei ragazzi. Certo mi piace molto di più pensare di progettare interventi di pedagogia a mediazione corporea o musicale o pittorico-plastica piuttosto che di danza-movimeto-musico-arte terapia. Ma mi chiedo se questo sia possibile prima che si restituisca dignità a queste antichissime forme culturali; prima cioè che venga dato loro pieno diritto di cittadinanza nella società come nella scuola. Preferisco comunque rivendicare con forza l’idea che quello che fa bene debba essere considerato in un orizzonte di normalità, mentre la cura (di una persona malata) vada inscritta in una dimensione di eccezionalità a cui dedicarsi con particolare attenzione e accortezza. Rivendico con forza il diritto di ognuno di cercare il proprio equilibrio attraverso mille pratiche di ricerca diverse. Ma mi sento di condividere la provocazione delle artiterapie quando rilevano che un uomo che non è libero di darsi alla musica, al canto, all’espressione artistica e alla danza, se non “malato” è quantomeno un po’ più incompleto. a scuola di notte di Margherita Bellini e Marco Pollano C i sono bambini e bambine che non sono mai stati al buio completo, molti almeno non hanno mai sperimentato il buio all’aperto, il buio “naturale”. Molti non sono mai stati da soli per due ore consecutive senza il conforto della televisione o del computer, senza poter essere raggiungibili telefonicamente, senza poter essere controllati da un adulto. Esperienze che fino a pochi anni fa erano normali, diventano rarissime. Come mille volte abbiamo letto, questa mancanza porta inevitabili conseguenze sull’autonomia e sulla percezione del sé. Probabilmente dovremo cominciare a guardare con occhi diversi i processi di differenziazione e di auto rappresentazione. Ma c’è dell’altro. Il senso di vuoto ha a che fare anche con la presa di coscienza dell’esistenza di qualcos’altro da sé e oltre sé; apre le porte alla possibilità che ci sia qualcosa che va oltre noi, che ci prescinde ma che ci contiene (naturalmente ci si riferisce qui a percezioni del tutto laiche, come possono essere ad esempio la potenza della natura, la vertigine della lontananza, la comunione degli esseri nella condizione umana, ecc.). Ecco perché ci sembra fondamentale e bellissimo (come da anni viene fatto alla Casa-laboratorio di Cenci, e come da anni propone il gruppo di “Pedagogia del Cielo” del Movimento di cooperazione educativa) restituire nel corso dei pochi momenti “notturni” che abbiamo a disposizione come educatori la possibilità di fare esperienze di “tradizionale meraviglia”, come guardare un cielo stellato in silenzio e di “tradizionale paura” (o meglio inquietudine) o come stare al buio di notte in mezzo alla natura. Dove per “tradizionale” intendiamo qui semplicemente quelle esperienze che ci hanno accompagnato per tutta la nostra esistenza di esseri umani. Nel cielo notturno si possono facilmente riconoscere delle costellazioni anche se non si è esperti e se non lo si è mai fatto prima, e molte di loro raccontano storie mitiche che vengono da antiche tradizioni tra le quali quella greca, ricchissima di mitologia stellare. Accompagnare le osservazioni con il racconto di questi miti bellissimi, ci aiuta ad accostarci all’antichità del cielo, e all’antichità dell’uomo che così tanti anni fa guardava le stesse stelle. I miti poi parlano sempre di un tempo fuori dal tempo che è un po’ quello in cui ci si sente trasportati quando si guarda la volta celeste immersi nei suoni della natura. E si sa, è il “non tempo” del rito che lascia addosso, al ritorno a casa, la sensazione di essere stati in un luogo Altro che aiuterà a vedere quello abituale con occhi diversi. Teorie 283 Quattro 284 Naturalmente per rivendicare un così alto potenziale trasformativo ci vorrebbe una certa consuetudine con questo tipo di esperienze ma, in mancanza di meglio, ci si accontenta di piccoli assaggi poiché in ogni caso alzare gli occhi al cielo e cominciare a trovare un ordine seguendo le tracce indicate da uomini vissuti migliaia di anni prima di noi è una di quelle esperienze che risvegliano in chi ne è coinvolto la meraviglia per il mondo vero (a discapito di quello virtuale). Per questo durante il breve incontro-scambio che ha visto arrivare nella sperduta e disabitata Nocera Umbra un affollatissimo MammutBus da Napoli, abbiamo pensato di andare alla ricerca delle tracce di Gulliver anche durante l’ultima notte di permanenza dei bambini napoletani. Fuori ha appena spiovuto. Il cielo sta schiarendo. La luna è piena. Siamo in cerchio intorno a una manciata di candele e impariamo un canto. Un canto sul fuoco ed un colibrì nascosto dentro. Dopo il canto si coglie un silenzio, non richiesto. Ci mettiamo scarpe e felpe, c’è una traccia da seguire fuori: un animale strano… Partiamo, siamo in fila. Ci dirigiamo verso il parco. Ogni tanto ci fermiamo, come per fissare un punto, per darci il tempo di farci sorprendere da qualche dettaglio. Tutto ha un’ombra, proprio come di giorno. Poi entriamo nel bosco, in realtà è una fitta pineta. Il sentiero è ben tracciato ma la notte qui dentro è diversa, ha cambiato colore, ha cambiato sapore. I nostri passi sono più incerti, qualcuno comincia a parlare più fitto, qualcuno lancia la voce più in su. Quasi che l’addizione notte+silenzio dia come inequivocabile risultato “paura”. Ci fermiamo dentro al buio cercando di non coprire con le nostre voci la voce del bosco. Poi riprendiamo a camminare e rientriamo nella notte illuminata. C’è sollievo e soddisfazione per la prova affrontata. Saliamo fin sulla cima di una collina. La luna è a sud. Ci giriamo verso Nord dove ci sono poche ma molto visibili stelle: la stella polare, le sette stelle dell’Orsa Maggiore e Arturo, una stella luminosissima e arancione. Chiediamo se qualcuno conosce la sua storia, perché si trova proprio lì, dietro alla coda dell’Orsa, quasi ad inseguirla. Allora inizia il racconto del mito che ci parla di loro. E ne segue un altro che dal cielo ci porta fino agi inferi per lasciarci risalire ancora più scompigliati. Chi sa se questi bambini e queste bambine si sono dimenticati che non si conoscevano fino a 4 giorni prima, se un po’ si sentono insieme in questa ricerca notturna di tracce, se la notte sembra loro più familiare ora che l’hanno conosciuta più da vicino, se si sentono più familiari tra loro e con noi. La proposta di esperienze analoghe a quella descritta nasce dalla sensazione che per riuscire a toccare davvero bambini-e ragazzi-e di questo tempo, così pieni di suoni e di immagini, di velocità, e al contempo di inerzia e indifferenza, bisogna trovare alleati forti, ma che agiscano con opposto stimolo e reggano il confronto con marchingegni tecnologici, inviti pubblicitari e stimoli continui al possesso e all’eccesso non meglio identificato. E allora, ecco perché tentare di offrire loro la disarmante quiete contro il continuo caos, la pervasiva sensazione di solitudine contro la continua connessione virtuale. Confrontarsi con la grandezza dello spazio (gli infiniti cieli dei pianeti e delle stelle) e con quella del tempo (la narrazione che di quei cieli ne hanno fatto uomini come noi in tempi così lontani) attraverso l’osservazione del cielo, permette di dimensionare se stessi in un doppio senso: essere piccoli e insignificanti, ed essere al contempo infiniti ed espansi come quel cielo perché lo si contiene con gli occhi, lo si può raggiungere con l’immaginazione e se ci si lascia avvicinare, lo si può far risuonare empaticamente nel profondo di sé (il concetto romantico di sublime non era poi troppo diverso). È molto difficile parlare di confronto con il cielo cercando di essere sobri, laici e asciutti: l’esperire lo spazio ha sempre qualcosa di mistico (anche se il mistico non ha sempre a che fare con il religioso), ed il mistico ha sempre a che fare con il mistero, con la vertigine, con la sensazione di essere di fronte all’autentico. Ci si chiede se non si stia tentando di emulare goffamente un rito di passaggio antico diluendo il senso del pericolo, mitigando l’impatto con la notte. Pensiamo che in mancanza di meglio sia lecito proporre un’esperienza notturna a cui poi ogni bambino\a ragazzo\a possa dare il senso che cerca o che ha percepito. Si tratterà non tanto di ritorno autentico alla natura quanto piuttosto di incontro reale con lei. Teorie 285 attualità di ivan illich di Luigi Monti P uò risultare disturbante leggere oggi Ivan Illich, uno dei più importanti pensatori del ‘900, come risultava disturbante per molti leggerlo negli anni in cui il suo pensiero si misurava, in presa diretta, con le contraddizioni della società del suo tempo. Era una voce dissonante allora ed è una voce che, per ragioni diverse, suona ancor più dissonante oggi. Conosciuto soprattutto per i pamphlet con cui negli anni ’70 criticava le istituzioni su cui si fondavano le speranze progressiste delle democrazie uscite dalla guerra – la scuola, la sanità, il welfare state – quello che, soprattutto “da profili sinistra”, si rimproverava allora a Illich era di avere uno sguardo romantico e passatista che non teneva conto dei conflitti materiali (sociali ed economici) delle moderne società industriali. In parole povere: troppo poco di sinistra, sia per i comunisti che per i cattolici progressisti. Oggi che quelle istituzioni – scuola, sanità, welfare state – stanno saltando per aria e non per le spinte di liberazione e autopromozione auspicate da Illich, ma per l’aggressione priva di scrupoli dei poteri finanziari, con la complicità più o meno consapevole dei governi democraticamente eletti (socialisti compresi) e di fronte alla nostra impotenza a reagire, le analisi di Illich possono sembrare, a una lettura superficiale, superate dalla storia e dai processi di disgregazione sociale che dopo la sua morte, avvenuta nel 2002, hanno avuto un’accelerazione impressionante. Se propongo in queste pagine una sintesi del suo profilo intellettuale e biografico è perché credo, al contrario, che la profondità della sua analisi (antropologica, filosofica e religiosa, non soltanto economica e sociologica) avesse colto in anticipo le cause principali di tale processo di disgregazione e disumanizzazione, i cui effetti vediamo con chiarezza solo oggi. E perché suggeriscono un metodo di indagine ancora essenziale a chi si occupa di educazione e intervento sociale. anatemi Nelle sue analisi e nei suoi scritti Illich si dedicava all’“anatema” più che al “dogma”. Si preoccupava di decostruire, demistificare più che di fornire facili risposte ai problemi delle società moderne. Soprattutto nella fase più militante, esercitava il carisma della “critica” e il compito che si proponeva era quello di smontare l’impalcatura delle fragili certezze su cui le moderne democrazie costruiscono nuovi e più sottili rapporti di dominio. I primi scritti – Descolarizzare la società (1971), La convivialità (1973), Energia ed equità (1974), Nemesi medica (1976) – si ricordano soprattutto per la forza interna del ragionamento e per la coerenza della tesi che li comprendeva tutti. Tanto stringenti che li si potrebbe riassumere con slogan quasi geometrici: la scuola rende ignoranti, gli ospedali fanno ammalare le persone, i professionisti dell’aiuto (psicologi, assistenti sociali, ecc.) le rendono dipendenti, l’industria dei trasporti limita la loro capacità di movimento. E via di questo passo. Per rintracciare una parte “costruttiva” del suo pensiero, sarebbe necessario esplorare la sua biografia, la sua purtroppo poco documentata esperienza umana. Sono convinto che si troverebbero lì suggestioni molto utili all’azione, alla costruzione di sperimentazioni sociali di autogestione. Penso ai corsi di spagnolo che organizzò a New York durante l’ondata migratoria portoricana, alla struttura organizzativa e ai metodi di insegnamento della libera “università popolare” che fondò a Cuernavaca, ai cenacoli parauniversitari con i quali metteva in piedi i seminari di ricerca tenuti insieme ad amici e colleghi in giro per mezzo mondo, all’austerità anarchica del suo stile di vita e, da ultimo, alla nobile fierezza con cui, coerentemente alle sue idee, rifiutò la profili medicalizzazione del tumore che negli ultimi anni di vita sfigurava il suo volto. Anche per questo, oltre che per intuire l’origine dell’eccentricità del suo pensiero, non è secondario fornire qualche breve cenno biografico. la vita Ivan Illich nasce a Vienna nel 1926 da padre dalmata cattolico e madre ebrea tedesca. Studia in Italia fin da bambino per fuggire alle persecuzioni razziali. Si laurea in materie scientifiche a Firenze, in filosofia e teologia a Roma e in storia medievale a Salisburgo. Entra in seminario verso la fine della seconda guerra mondiale. È ordinato prete nel 1951 e nello stesso anno parte per New York dove chiede che gli venga affidata la parrocchia di un quartiere-ghetto a prevalenza portoricana. Nel ’56 diventa vice-rettore dell’università Cattolica di Ponce, a Portorico. Inizia a tenere seminari paralleli e gruppi di lavoro sul nuovo “colonialismo” sostenuto dalla chiesa cattolica. Viste le sue posizioni vigorosamente contrarie al sistema dell’istruzione e all’ingerenza reazionaria della chiesa, rinuncia all’incarico istituzionale e dopo tre anni di vagabondaggi a piedi e in pullman per “studiare” le realtà sociali, politiche e antropologiche del Sudamerica, si stabilisce a Cuernavaca, in Messico, dove fonda il Centro di documentazione interculturale (Cidoc). Nato formalmente allo scopo di insegnare la lingua a giovani missionari e volontari stranieri, il Cidoc diventa presto un baluardo contro la “crociata allo sviluppo” lanciata in quegli anni da Kennedy e Giovanni xxiii. Oltre all’insegnamento dello spagnolo, Illich inizia a “ formare” i giovani e motivati cooperanti dissuadendoli dall’intraprendere un percorso istituzionale di aiuto allo sviluppo mostrando loro gli enormi danni economici e culturali di cui si fanno inconsapevolmente portatori. E così, oltre che un efficiente e ricchissimo archivio di documenti sulle tradizioni popolari latino-americane, il Cidoc si trasforma in un ereticale centro di analisi e critica del mito dello sviluppo e delle istituzioni (educative, sanitarie, economiche…) che lo sorreggono. Dai seminari di questa anomala quanto libera “università popolare”, nascerà quella critica radicale alle istituzioni che spingerà l’alta gerarchia vaticana a richiamare lo scomodo prete dalmata e a sottoporlo al giudizio del Santo Uffizio. Uscito indenne dal “processo”, Illich deciderà di separare nettamente la sua opera di intellettuale dalla funzione ecclesiastica e, senza mai rinunciare definitivamente ai voti, non si presenterà più pubblicamente come uomo di chiesa, anche se in privato il suo ideale di cristianesimo radicale non perderà di intensità e la sua profonda carica spirituale rimarrà sempre alla base di tutta la sua analisi e della sua critica sociale. contro le fabbriche del bene Illich è stato forse il primo a portare alla ribalta questioni che oggi sono all’ordine del giorno: le ambiguità e le perversioni delle istituzioni e delle professioni che si occupano di educazione e cura, degli aiuti umanitari, della cooperazione allo sviluppo, del volontariato ecc. La caratteristica che accomuna tutti gli uomini di tutte le epoche profili – questo, se si dovesse sintetizzare, il fulcro da cui parte il suo ragionamento – è lo stato di necessità cui tutti gli uomini sono sottoposti: necessità materiali (l’esigenza di cibo, di un riparo, di cure per la malattia e il dolore...) e necessità “spirituali” (il bisogno di relazioni umane, della cultura necessaria per far parte di una comunità, di strumenti psicologici per far fronte alla paura della morte, del “bello” artistico...). Ogni comunità umana ha risposto in maniera differente nel corso del tempo perché se le necessità fondamentali sono universali, i bisogni ad esse corrispondenti sono storici e culturali, variano cioè in relazione alle epoche e allo spazio. Oggi invece gli strumenti che noi occidentali abbiamo inventato per farvi fronte (la scuola, la medicina, lo stato sociale, le politiche del lavoro, il sistema dei trasporti... ) hanno omologato e monopolizzato le possibilità di rispondere alle necessità primarie creando una dipendenza indissolubile dai beni e dai servizi da loro prodotti. Come la sovrapproduzione di beni materiali, anche la sovrapproduzione di servizi ha effetti catastrofici; la prima devasta l’ambiente (consuma le risorse naturali, inquina, polarizza le ricchezze, genera guerre...), la seconda impoverisce la cultura, logora la libertà, isterilisce la creatività, sgretola la comunità. Il monopolio del modo di produzione industriale (poco importa che sia gestito da privati capitalisti o da uno stato socialista) applicato tanto ai beni materiali che ai servizi (salute, educazione, protezione sociale...) distrugge i legami sociali, impoverisce la creatività politica e l’immaginazione sociale. Una società, un’istituzione o uno strumento sono manipolatori quando trasformano necessità primarie e fondamentali in beni prodotti scientificamente, industrialmente e burocraticamente. La salute, l’istruzione, l’equilibrio psicologico, la mobilità personale, il benessere da necessità fondamentali si trasformano prima in bisogni e poi in beni quando sono visti soltanto come risultati di servizi o di trattamenti. Superata una certa soglia, rotto un certo equilibrio, l’istituzione (o lo strumento) da mezzo diventa fine, da servitore diventa despota: dapprima si rivolge contro il proprio scopo, poi minaccia di distruggere l’intero corpo sociale. Si tratta di quelle che Illich definiva le due “soglie di mutazione”: la prima si verifica quando il medico, l’insegnante, il terapeuta, l’educatore, l’operatore sociale producono l’effetto opposto a quello che dicono di perseguire (la malattia il medico, l’ignoranza l’insegnante, la nevrosi il terapeuta...), la seconda avviene quando per la loro azione la comunità diviene incapace di provvedere autonomamente e liberamente alla propria salute, alla propria istruzione, al proprio equilibrio psichico. La società, le istituzioni, gli strumenti manipolatori sono alla base della moderna povertà. Questa “aggiornata miseria”, come la definisce Illich, si traduce innanzitutto in scarsità d’immaginazione sociale e politica perché rende gli individui incapaci di organizzare la propria vita sulla base delle proprie esperienze personali e delle risorse disponibili nell’ambito delle loro comunità. Nell’ottica di Illich non esistono soluzioni intermedie: l’unica via percorribile, l’unica possibilità di uscita consiste nell’invertire radicalmente le logiche alla base delle relazioni umane, nel rovesciare la struttura profonda delle nostre istituzioni. Fino ad allora sarà inutile raccontarsela: o si tenteranno esperimenti radicali destinati a una breve e tormentata, ma fondamentale, esistenza oppure, consapevoli, profili disillusi e sicuramente un poco complici, non ci si può che limitare a inventare piccoli strumenti conviviali da insinuare con astuzia e indefessa costanza fra gli ingranaggi della megamacchina, tentando di stare nelle situazione con rinnovata intelligenza e creatività e di prendersi cura delle persone nelle istituzioni. O meglio, nonostante le istituzioni. la corruzione del meglio è il peggio Molto più attuali mi sembrano oggi i pamphlet di Illich alla luce delle riflessioni (sofferte, faticose e molto meno tetragone degli scritti che l’hanno reso famoso) che lo hanno occupato nell’ultimo periodo della sua ricerca sul Pervertimento del cristianesimo (questo il titolo italiano dell’intervista pubblicata da Quodlibet che raccoglie il “testamento intellettuale” di Illich). Con il cristianesimo si apre una dimensione inedita dell’amore e della conoscenza. Nella prospettiva del Vangelo è contenuta una nuova, rivoluzionaria libertà, e una fiducia nuova nella libertà di ciascuno. Cosa fino ad allora inconcepibile, posso scegliere chi amare, quando prima la mia libertà di amare era limitata alla comunità, alla famiglia, alla cultura di appartenenza. Ma nello stesso momento in cui inaugura una stagione di radicale libertà della civiltà umana, il cristianesimo ne apre una altrettanto rivoluzionaria di alienazione e disumanizzazione: quella corruzione dell’ottimo (che genera il peggio, secondo la definizione di Gregorio Magno) che si verifica quando si istituzionalizza il Vangelo, quando l’amore viene trasformato in richiesta di servizi. Nasce, insieme a questa rivoluzionaria apertura, la tentazione di voler controllare questo nuovo tipo di amore, di creare un’istituzione che lo garantisca, lo assicuri. Non interessa qui la portata storico-sociologica di questo passaggio (che fa della Chiesa il modello di tutte le istituzioni solidaristiche moderne – scuola, ospedale, stato sociale…), né quella religioso-teologica (il “mistero del male”, che fa sostenere a Illich come la Chiesa sia la cinghia di trasmissione di questo processo di corruzione, l’origine del Male moderno). Interessa piuttosto il portato esistenziale di questa inquietante intuizione. Se il peggio viene dal meglio e il meglio genera il peggio significa che la contraddizione in cui ci troviamo è insoluta e insolubile. Significa che qualunque tentativo di “evasione”, di separazione, di dissidenza non solo ci è impossibile, ma produce anch’esso “ideologia”. Che un “ fuori” non esiste. Che pure noi nelle nostre pratiche non possiamo che agire nella direzione di tale pervertimento e al tempo stesso che qualsiasi tipo di evasione (dalla scuola e dalle altre istituzioni) è una soluzione pigra e non meno corruttrice. vivere con speranza, senza aspettative Siamo un’umanità che si sta pericolosamente dimostrando incapace di vivere senza fedi, che è proprio ciò che il presente ci chiede. L’assestamento della nostra cultura e della nostra civiltà su basi non più assolutistiche sta producendo risposte profili compulsive, grette, stolide, ciniche e per ciò sempre mortifere. Anche qualora queste spinte dichiarano di perseguire altro. È difficile capire se le crisi che stiamo vivendo siano in realtà solo “scosse d’assestamento”, connaturate a processi di lunga durata volti – anche se noi che ne siamo immersi non ne riconosciamo la traiettoria – a equilibri e ricomposizioni di spinte che consentiranno una vita ancora decente alle generazioni che seguiranno. Così come è difficile capire se il declino “qui” corrisponda a vitalità e riattivazione della storia in altre parti del globo o se al contrario i germi di disumanizzazione esportati con la mondializzazione comprometteranno in partenza le istanze di rivolta e liberazione dei popoli finora esclusi dalla storia. Ma l’ultimo vivissimo insegnamento della critica di Illich sta proprio nel rinunciare a pretese di prevedibilità e programmazione, anche a un livello di comprensione e di analisi. “Negli ultimi anni sono arrivato a pensare che il miglior servizio che ancora posso rendere è quello di portare le persone ad ammettere che viviamo in un mondo fatto così… Non cercare di umanizzare l’ospedale o la scuola, ma chiediti sempre: che cosa posso fare io, in questo preciso momento, in questo qui e ora assolutamente unico in cui mi trovo, per uscire da questo mondo di soddisfacimento dei bisogni e sentirmi libero di ascoltare, sentire, intuire che cosa l’altro vuole da me, che cosa egli potrebbe immaginare, in questo momento.” 2. pratiche gemelle O gni esperienza è a sé e non esistono modelli esportabili. Ma sapere che c’è qualcuno che riesce a fare della propria scuola un’esperienza “salutare” può confortare tutti. Spetta a ognuno la scelta delle porzioni trasferibili nel proprio unico e irripetibile contesto. Nei racconti che seguono, alcuni dei momenti del nostro viaggio tra le “porte”: dall’avvio con l’inchiesta condotta insieme ad alunni e maestre, ai cerchi di discussione al Mammut e nelle scuole, ai lavori di recupero degli spazi adiacenti alle scuole che ognuna delle classi partecipanti aveva scelto di “liberare”. Per arrivare a Gulliver, uno dei più grandi attraversatori di porte, che ha accompagnato noi e i bambini delle attività pomeridiane fino in Umbria. educazione e artigianato di Marco Carsetti Il laboratorio artigianale N on molto tempo fa è nata Else, una casa editrice e un laboratorio di stampa artigianale che pubblica libri fatti a mano. Questa nuova realtà vuole essenzialmente tenere insieme il fabbricare cose, la manualità, le figure dell’infanzia, le storie. Tutto questo riunito in una lenta prassi produttiva che culmina nella realtà oggettuale del libro illustrato stampato in serigrafia e rilegato a mano. Solo quando il libro è finito si comincia a provare meraviglia, stupore e intimità con l’oggetto. E questa meraviglia è connaturata al fare. “Per qualsiasi cosa che proceda da ciò che non è a ciò che è – diceva Platone – la causa di questo processo è sempre una creazione (poiesis). Ed è fonte di meraviglia.” Così è per i libri e così è stato per la nascita di Else. Se si è trattato di un atto di creazione questo si è accordato con la potenza e l’energia scaturita dall’immaginazione e dall’ispirazione di un gruppo di persone molto diverse tra loro. Non fu qualcosa di selvatico, cioè nato spontaneamente, ma piuttosto un innesto. Un innesto tra due principali riferimenti, quello editoriale e quello educativo. Questo innesto ha dato vita a qualcosa di completamente nuovo per tutti: un laboratorio artigianale. E 291 Quattro 292 le due parole che definiscono meglio questo percorso sono industriosità e operosità. Prima il laboratorio non c’era, e se un giorno è nato è solo perché un gruppo di persone senza un vero libro contabile alla mano, una previsione di spesa, un cashflow (cose in ogni caso utilissime) si sono messe in moto per apprendere un mestiere, comprare dei macchinari, affittare un locale, dotarsi di strumenti e materiali, conquistare uno spazio pubblico a cui rivolgere le proprie produzioni, altrimenti chiamato mercato. Questo industriarsi riguarda quindi la creazione di un posto di lavoro nell’epoca di maggiore demoralizzazione da assenza di posti di lavoro. Ad oggi la storia di questa esperienza è ancora breve (tre anni) ma è un tempo sufficiente per il suo fallimento economico come lo è per la maggior parte dei progetti di start up di impresa, destinati statisticamente a chiudere entro il secondo anno di attività. La ragione per cui non è fallita non riguarda un successo economico insperabile ma la determinazione a portarla avanti fino all’insostenibile. Più semplicemente, e questo è l’insostenibile, grazie al fatto che le persone che ci lavorano non si pagano, lo fanno gratuitamente. E così l’impresa ha raggiunto un suo equilibrio tra entrate e uscite ma senza contemplare il lavoro. Questo equilibrio potrebbe essere considerato già un successo, ma il fatto di non riuscire a pagare il lavoro pone non il laboratorio ma le persone in uno stato di irrealtà, di galleggiamento, di precarietà, oltre a farle restare perennemente figli fin tanto che le famiglie (i genitori) come rete di sostegno continuano ad esistere anagraficamente ed economicamente. La libertà ha un prezzo e lo si paga individualmente e lo pagano le famiglie. Ma di quale tipo di libertà stiamo parlando? Qual è la libertà di cui si è ostinatamente alla ricerca? Una libertà fondamentale: “permettersi di non spendere tutta la propria vita nel guadagnarsela, ma guadagnarsi la vita amandola”. “Permettersi” è il verbo chiave e non è un regalo ma un atto di volontà. Chiunque abbia un briciolo di cervello e un minimo di possibilità, non solo possibilità economiche ma date dall’ingegno, energia fisica e psichica, curiosità e generosità, cercherebbe in tutti modi di praticare questo obiettivo entro certi limiti, con buon senso e senza disprezzo della fatica. Forse ci si è scordati che vivere è un’arte e che come si fanno innumerevoli sforzi per guadagnarsi da vivere per la propria sussistenza si potrebbero fare altrettanti sforzi per guadagnarsi una vita più onorevole. In tale condizione, le sensazioni più forti sono da una parte quella di appartenere all’irreale e dall’altra di essere scesi nella vita con il vestito della festa. Si è irreali perché costituzionalmente precari e quindi in balìa. Nella sua origine latina, balìa significa ciò che si ottiene attraverso una preghiera, attraverso una richiesta verbale che oggi dobbiamo saper rivolgere essenzialmente a noi stessi e alle persone vicine. È una condizione di vita fragile e avventurosa nello stesso tempo. Una sfida. A questo stato di irrealtà disobbedisce l’essere iper-realistici, persino iper-materialistici, pratici e pragmatici perché quotidianamente immersi nel lavoro artigianale autocreato attraverso un atto di resistenza e opposizione. Opposizione alla condizione di irrealtà in cui sembra siamo tutti caduti. Colui che possiede un mestiere ha “l’abito di”, una potenza, una tecnica e può metterla in atto, può ordinarla, può trasformarla, può produrre, può facere de materia. Possiede qualcosa suscettibile di essere sviluppato. Il possesso di una capacità o abilità può in certe condizioni generare gioia che altro non è che sentimento della realtà. Quando il lavoro entra dentro questa dimensione di gioia allora diventa il sentire in tutto il proprio essere l’esistenza del mondo. E nel lavoro artigianale, attraverso il fabbricare cose, c’è un passaggio al mondo reale. Ecco che la condizione insostenibile della precarietà, di una mancata sostenibilità economica, si trasforma, attraverso l’imparare a fare bene una cosa, in una prospettiva possibile anche se non definitivamente risolta. Le piccole imprese artigianali sono la tendenza al ritorno alla vita semplice, la creazione di un lavoro attraverso la conquista di uno spazio e di una tecnica per fare, il modo per ricreare volontariamente, consciamente, metodicamente le condizioni della propria esistenza. In questo la scelta della stampa artigianale serigrafica non è stata casuale. Ci si è messi alla ricerca non della tecnica che dà maggior rendimento, ma della tecnica che dà maggior libertà. La serigrafia, anche a livello professionale, è un tipo di tecnica dotata di strumenti conviviali alla portata di tutti. È conviviale nell’accezione che Ivan illich dava a questo termine: “Lo strumento veramente razionale risponde a tre esigenze: genera efficienza senza degradare l’autonomia personale, non produce né schiavi né padroni, estende il raggio d’azione personale. L’uomo ha bisogno di uno strumento con il quale lavorare, non di un’attrezzatura che lavori al suo posto. Ha bisogno di una tecnologia che esalti l’energia e l’immaginazione personali, non di una tecnologia che lo asservisca e lo programmi.” L’industrializzazione programmatica ci ha progressivamente privato di tali strumenti e l’uomo che lavora è stato ridotto o a ingranaggio o a controllore della super macchina. In un laboratorio artigianale vi è responsabilità, invenzione, azione, perché i mezzi che si utilizzano sono per l’uomo che ne dispone prolungamenti del proprio corpo, che trasmettono direttamente dei segni alla propria anima. E in questo risiede la vera natura del lavoro. Creare oggi un laboratorio artigianale, come creare una scuola, è il tentativo di bonificare un pezzetto di terra dove catastroficamente sembra non crescere più nulla e trasformarsi in piante pilota. Dal momento che bisogna Pratiche 293 pur avere uno scopo, che fare? Limitarci a un inventario della civiltà attuale o provare “a fare”? È un modo per fare tutto il possibile e per “prepararsi”, senza illusioni sull’efficacia dei nostri sforzi. Ma prepararsi a cosa? animal laborans e homo faber Quattro 294 La gioia che si prova quando si fa un certo lavoro non è diminuita dalla spossatezza. Ma bisogna capirsi, anche con noi stessi, su cosa intendiamo per lavoro. Dentro un laboratorio il lavoro diventa unione armonica “del corpo che lavora, le mani che operano, la mente che pensa, il cuore che sente”. Hannah Arendt in Vita Activa, aveva distinto politicamente l’animal laborans, il corpo che lavora, dall’homo faber, le mani che operano. Dunque l’uomo vive in due dimensioni, nell’una fabbrica cose senza sapere cosa fa, il mondo resta fuori e tutto si chiude nel privato, si è esseri amorali, immersi nel compito da eseguire, nell’altra, qualificata come condizione più elevata e superiore, cessiamo di produrre e cominciamo a discutere e giudicare, ovvero agiamo per la costruzione di una vita in comune: diventiamo esseri politici. Il lavoro all’interno di un laboratorio artigianale produce rispetto a questa distinzione nuove prospettive e una nuova consapevolezza. Quanto sostenuto dalla Arendt è vero in termini generali nella produzione industriale di massa e riguarda anche la produzione industriale di beni e servizi (sanità, scuola, assistenza sociale ecc. ecc.), ma non è vero nei luoghi di resistenza e operosità in cui convivono dentro la persona stessa, dentro la stessa esperienza, entrambe le dimensioni: quella di produrre cose fi nalizzate alla sussistenza e quella di produrre consapevolmente discorsi e azioni dentro lo spazio pubblico. Anzi l’esperienza di un laboratorio artigianale di tipo editoriale, legato a tecniche di stampa artigianali, può ribaltare tale distinzione facendo diventare le specificità dell’homo laborans guida dell’homo faber. Il primo infatti si domanda il come fare una cosa per portarla a termine, il secondo si domanda il perché. Entrambi domande fondamentali, ma da un punto di vista morale il come è più importante del perché. Un perché valido a cui si arriva attraverso una praxis spietata, perverte il suo significato, un perché debole o sbagliato, può essere corretto da una buona pratica. Ne L’uomo Artigiano Richard Sennet critica la sua maestra Arendt proprio in questi termini rimettendo al centro non la divisione ma l’unione di questi due aspetti come per molti secoli è stato tipico delle attività artigianali e artistiche. Sennet ci offre infatti nel suo libro uno sguardo dall’interno del laboratorio artigianale come spazio sociale e dall’interno di ciò che costituisce l’uomo nella dimensione di artigiano. il lavoro gioco “Tessi su poco ordito una fitta trama”. Nell’alleanza tra educazione e artigianato questo detto di Esiodo significa andare alla ricerca di tecniche che ci offrono la maggiore libertà di creare, costruire un’architettura leggera dotata di pochi ed elementari strumenti e macchinari, per poi restare in attesa dell’ospite sconosciuto: se solo accetterà l’invito sarà questi ad animare con il suo cuore e le sue risorse interiori il luogo, a riempirlo di senso. È da questo ordito rado che potrà svilupparsi la fitta trama di un gioco serio, in un continuo dialogo tra l’imparare a fare una cosa a regola d’arte e la gioia ludica. Il lavoro-gioco è l’educazione che viene dal lavorare, dal fare insieme cose vere, con una funzione e una utilità attraverso cui il bambino e il ragazzo possano riconoscersi come membro effettivo in seno all’ambiente di vita, scuola, società, famiglia, ed essere riconosciuto come uomo nel pieno delle sue forze. Vuol dire impostare un processo di apprendimento per imparare a fare bene una cosa, a svolgere bene un lavoro e questo è uno dei fondamenti della cittadinanza. Il lavoro artigianale, le varie arti utili a fabbricare oggetti fisici ci insegnano gli ostacoli, le difficoltà, le soluzioni e l’apertura di nuove strade di ricerca. Ci insegnano l’unità tra mente e corpo, atti semplici come l’afferramento e la prensione e atti complessi come l’imparare dalla resistenza e dall’ambiguità dei materiali che voglio trasformare, come degli strumenti che utilizzo. Ci insegnano come gli atti fisici della ripetizione e dell’esercizio consentono alla persona di sviluppare abilità tecniche che interiorizziamo e di riconfigurare il mondo materiale attraverso un lento processo di metamorfosi. Le difficoltà e le possibilità di fare bene le cose valgono anche per la costruzione dei rapporti umani, ci forniscono spunti sulle tecniche che possono aiutarci nei rapporti con gli altri. E poi il fabbricare cose ci dà lo spunto per scoprire di sé delle abilità che non conoscevamo, l’affiorare di interessi e passioni, nuove strade e aperture, ma soprattutto ci mette dietro, e non davanti come destinatari, del mondo oggettuale, dove le cose si creano prima di essere consumate. Diventando artefici diventiamo più consapevoli e capaci di giudizio critico su uno degli aspetti più incisivi della nostra educazione: i “discorsi” che subiamo dalle cose. Inoltre tornare a un dialogo tra pratiche concrete e pensiero ci insegna quanto è difficile, per non dire impossibile, approfondire la pratica senza la teoria, e viceversa, possedere bene la teoria senza la pratica: “In ogni arte v’è un gran numero di circostanze relative alla materia, agli strumenti e alla tecnica manuale, che possono essere apprese soltanto mediante l’uso. Spetta alla pratica presentare le difficoltà e proporre i fenome- Pratiche 295 ni; spetta alla teoria spiegare i fenomeni e togliere le difficoltà”, scrivevano nell’Enciclopedia delle scienze, delle arti e dei mestieri Diderot e D’Alembert. Nella pratica concreta del fare in cui ci sia manualità, strumenti di lavoro, materiale da trasformare e macchinari si possono apprendere direttamente, con l’esperienza del proprio corpo che lavora, della propria mano che opera, del proprio cuore che sente e della mente che pensa, cose che non riguardano solo la tecnica e il mestiere ma la propria formazione come persona. Quattro 296 • L’intimo nesso tra mano e testa si concretizza nell’acquisizione di abitudini di sostegno le quali creano un movimento ritmico tra soluzione e individuazione dei problemi; • in un lavoro artigianale è evidente che tutte le abilità anche le più astratte nascono da pratiche concrete; • l’intelligenza tecnica si sviluppa attraverso le facoltà dell’immaginazione; • ciascun essere umano è dotato della capacità di fare bene almeno una cosa, ovvero in ciascuno di noi alberga un artigiano intelligente; • nell’artigiano c’è un’etica del ben fare, non si lascia soddisfare da un lavoro fatto in modo passabile; • fare un buon lavoro significa avere curiosità di ciò che è ambiguo, andarci a fondo e imparare dall’ambiguità; • le abilità conquistate sono frutto dell’esercizio e della concentrazione; • imparare a svolgere bene un lavoro mette gli individui in grado di governarsi e dunque di diventare dei cittadini. E così il produrre cose materiali ci mette in una condizione di autosvelameto, è un processo in cui qualcosa di inaspettato si rivela a noi consentendoci di imparare nuove cose su noi stessi. Soprattutto imparare a fare bene una cosa ci insegna a cooperare con gli altri e rispettare il loro lavoro, a prestare attenzione alle caratteristiche dei materiali, a sentire il piacere di lavorare con strumenti che diventano i prolungamenti del proprio corpo, a difendere un luogo di lavoro prima di tutto come spazio dove si attuano relazioni sociali e di trasmissione delle conoscenze faccia a faccia, che crea vincoli tra le persone, uno spazio dove perdere il controllo per poi ritrovarlo. Ci insegna le qualità delle materie: elasticità, durezza, attriti, consistenza, durata, effetti dell’aria, dell’acqua, dell’umidità, del freddo, del calore, della secchezza. Come diversi materiali interagiscono tra loro. Ci insegna la meraviglia e l’aura, il soffio, la luminosità, che spira dalle cose che hanno una loro unicità irripetibile. Ci mette in grado di immaginare categorie più ampie di “bontà”. Fa nascere la curiosità di capire come le cose materiali fatte a regola d’arte pos- sano generare valori politici e sociali all’interno dello spazio pubblico. Ci rende cittadini. maestri e artigiani: la mano che trema Prima di tutto si potrebbe provare a condividere un presupposto: il fine di chi lavora non dovrebbe essere quello di guadagnarsi da vivere o di trovare “un buon lavoro”, ma piuttosto quello di eseguire bene un certo lavoro. Per maestri e artigiani questo dovrebbe essere alla base dell’etica del proprio operare. Prima dovrebbe venire la domanda sulla qualità del lavoro svolto e poi quella sulla propria sussistenza. Fare ciò che è giusto fare, che la comunità ti paghi o meno, pone la relazione tra il lavoro e il far fronte ai mezzi di sussistenza in un’altra prospettiva. Non basta trovare il modo di guadagnarsi da vivere fabbricando cose o insegnando. Il guadagno che si ricava si deve poter misurare con la coscienza del servizio reso o meno all’umanità. Entrambi questi mestieri presuppongono infatti un’operosità consapevole e continua, e partono da domande comuni e sempre le stesse: che fare? Come? Perché? Come abbiamo visto sono molti gli aspetti che accomunano educazione e artigianato, tutti tenuti insieme dal filo ininterrotto della perizia del fare. Il fare però deve essere sostenuto dall’abito, cioè dal possesso di una capacità o abilità. E se è vero che, come scriveva San Francesco “tanto l’uomo ha di scienza quanto opera” l’acquisizione di un’arte non è mai definitiva e il praticarla porta sempre con sé dubbi, esitazioni, ripensamenti. L’abito è sempre accompagnato dalla mano che trema. Scriveva Dante: “l’artista / ch’à l’abito de l’arte ha man che trema”. Se l’artigiano e il maestro si muovono entrambi in uno spazio di atti creativi, l’apparente opposizione tra abito come sicurezza della tecnica e la mano che trema ci dice anche cosa c’è alla base di questi lavori sospesi tra due impulsi contradditori e generatori: slancio e resistenza, ispirazione e critica. Lasciamo che la mano continui a tremare, come è naturale che sia, ma continuiamo a tessere e ritessere l’abito che sarà antico come il mondo e nuovo come tutte le cose in divenire. Pratiche 297 i pirati nella casa del bambino di Filippo Mondini L Quattro a Casa del Bambino dei comboniani (da ora in avanti CdB) sta diventando oramai una realtà affermata e apprezzata da diversi settori del territorio di Castel Volturno: scuola, istituzioni, altre associazioni e famiglie. Un indicatore potente di questo risultato è la presenza sempre più numerosa di bambini “bianchi”, figli di famiglie italiane, che partecipano alle nostre attività: 2008 2009 2010 2011 2012 2009 2010 2011 2012 2013 entrambi i genitori immigrati 25 24 23 20 33 entrambi i genitori italiani 0 0 1 3 8 un genitore immigrato 0 1 2 4 1 25 25 26 27 42 tot 298 Il metodo della CdB è quello costruito affrontando problemi che hanno spinto verso la riflessione e la ricalibrazione degli interventi. Certo, questo agire si deve confrontare realisticamente con l’attacco allo stato sociale e ai diritti delle fasce più deboli. Trovare risorse per il sociale diventa una sfida sempre più difficile. Il documento “Welfare 2012” realizzato dal Centro territoriale Mammut e da altre organizzazioni ha ben evidenziato come solo una piccolissima fetta del bilancio italiano viene destinata al sistema degli aiuti direttamente rivolti a migliorare condizioni di povertà ed emarginazione conclamate. Il metodo della CdB nasce dalla dialettica tra riflessione-valori-prassi. Questo consente di uscire dalla logica delle “procedure” dove senza considerare la persona si applica ad ogni problema lo stesso cliché di intervento. È quindi centrale la domanda dell’operatore, la sua curiosità, il suo esserci. L’operatore diventa un ricercatore sempre più consapevole mano a mano che si lascia contaminare, che inizia a vedere la realtà in maniera sempre più costruttiva, dove oggetto e soggetto hanno la stessa dignità, sono consustanziali. È lo stare di fronte a problemi nuovi che fa avanzare nella costruzione del modello e che rende umili e in continua tensione verso la ricerca di una verità che non si potrà mai possedere totalmente. Il metodo va inserito all’interno dell’orizzonte valoriale: • Libertà: intesa come capacità dell’uomo di optare per ciò che ritiene giusto o rifiutarlo. • Consapevolezza: intesa come capacità dell’uomo di diventare oggetto della propria riflessione, sviluppo cioè dell’autocoscienza e capacità di diventare sempre più complessi • Intersoggettività: capacità di un IO e di un TU di entrare in relazione nel rispetto delle singole soggettività. • Responsabilità: intesa come l’onere per l’uomo di essere causa della sua storia e delle sue azioni Questi valori vanno coniugati nel contesto sociale in cui siamo inseriti. L’idea di “comunità” è un’idea che ci orienta e ci guida come stella nel cielo. Proprio qui dove sembra manchi una trama che tiene insieme le persone è importante creare comunità, tentare cioè di essere alternativi a quella parte di realtà che stiamo in qualche modo contrastando. I punti centrali del metodo sono: • Sguardo critico sul contesto, sia a livello di macrocontesto (analisi della situazione mondiale, finanziaria, economica…) che a livello del microcontesto in cui avviene l’azione educativa. A tal fine sono necessari alcuni atteggiamenti primo tra tutti la capacità di essere in ascolto del territorio. Secondo elemento fondamentale è quello di assumere un atteggiamento di ricerca permanente ed il terzo è quello di basarsi su fatti concreti e non su opinioni. Fondamentale è tenere presente la Complessità al fine di evitare di ridurre la realtà ad una mera riduzione funzionale solo a placare l’ansia dell’operatore. Riteniamo quindi importante lavorare sui contesti, sul contesto del bambino della famiglia, sul contesto sociale e come questo forma e cristallizza la vita delle persone. • “Esserci”: non siamo né idealisti (dove si dà preponderanza al soggetto) né materialisti (preponderanza all’oggetto) ma siamo costruttivisti, dove soggetto e oggetto sono consustanziali. Assumere questa visione della realtà orienta la prassi educativa della CdB. Da una parte c’è l’operatore con tutto se stesso, le sue emozioni, la sua storia, la sua visione del mondo e dall’altra c’è il bambino anch’esso portatore di una visione del mondo e della realtà. È nell’“esserci” di queste due polarità che si gioca la crescita educativa di entrambi. Stare in relazione vuole dire quindi farsi carico dell’altro ma senza bypassare quello che sono, costruire costantemente una relazione dialettica dove l’altro risuona in me e fa germogliare in me reazioni particolari, permettendo ogni giorno di più di conoscermi e di aumentare la mia complessità. • Centralità della didattica: il primo periodo della giornata alla CdB viene impiegato facendo i compiti. Riteniamo che questa scelta sia fondamentale al fine di aiutare in maniera sempre più incisiva la famiglia nella crescita del bambino. Fare didattica vuole dire però sviluppare sempre di più l’autonomia del bambino, accompagnarlo cioè di fronte ai problemi che Pratiche 299 Quattro la vita gli pone innanzi lasciando cadere la facile tentazione di risolverglieli. Riteniamo che sia importante aiutare il bambino a sviluppare il pensiero critico e un atteggiamento capace di cercare e trovare le risorse per risolvere il singolo problema. Aiutiamo il bambino a porsi domande: “come posso fare quando non so una cosa?”; “a che risorsa posso attingere?”; “chi mi può aiutare?”; “quali sono le mie capacità? E che cosa devo ancora imparare?” • Attività esperienziali: le attività esperienziali occupano la seconda parte del pomeriggio alla CdB. È in questo luogo e spazio che il bambino impara facendo, mettendo in gioco non solo la razionalità ma anche il corpo, la fantasia e le emozioni. • Recupero di spazi: non vogliamo recuperare i bambini dalle strade ma le strade con i bambini. Questo slogan aiuta a comprendere il nostro agire e la nostra attenzione verso il territorio nello sforzo di riguadagnare spazi pubblici, degradati e semplicemente marginalizzati e farli diventare “bene comune” al servizio di tutti. pratiche per non ammalarsi 300 Che cosa si può fare in mezzo a tutto questo per non ammalarsi? Quali cammini di guarigione si possono proporre? Verso cosa si può camminare? Quali modelli proporre? Non è facile rispondere a queste domande soprattutto quando sembra che i cammini di liberazione siano tutti esauriti o condannati dalla storia. Bisogna allora prima di tutto compiere un passaggio che possiamo definire paradigmatico: iniziare a pensare cioè che Stato e Società non sono la stessa cosa e che ogni cammino di trasformazione radicale e di cambiamento nasca da un “evento” che marca una rottura con lo status quo. Probabilmente nessuno conosce la strada da percorrere ed è questa la potenzialità che dà forza e speranza: solo il pensare insieme, nel cerchio delle nostre assemblee può far scaturire la novità che ci fa riprendere fiato. Il cambio di paradigma ci porta ad abbandonare l’idea che per cambiare dobbiamo avere potere: potere statale, sociale, economico. Per cambiare basta smettere di prestare il fianco al sistema di oppressione: leggiamo un libro, organizziamoci in comitato contro la devastazione ambientale, facciamo un orto ribelle in mezzo alla devastazione urbana delle periferie… creiamo spazi di autonomia e distanza dal potere. Il cammino è quello di smettere di essere complici; per dirla con John Holloway, costruiamo crepe nel muro del capitalismo e del pensiero dominante. Data questa premessa, la prima pratica messa in atto per non ammalarsi e per non ammalare è quella della creazione di una “équipe militante”. Intendo con questo concetto la capacità dell’équipe di misurarsi non solo con i problemi ma anche con le cause che hanno portato alla defi nizione di tali problemi e la capacità di mettere in campo spazi e luoghi di discussione per la soluzione degli stessi. Ciò che conta non è la professionalità di chi arriva nel quartiere con la soluzione ma la capacità di fare incontrare la gente che vive il problema in prima persona. La fatica che va fatta non è quella di chiudersi nelle segrete stanze tra pochi illuminati per trovare soluzioni tecniche ma è invece scendere in strada per parlare con la gente, offrire spazi e luoghi di incontro e socialità. Solitamente le associazioni e le ong operano invece riproducendo il potere dello Stato: offrendo soluzioni, rappresentando, togliendo potere alle comunità, sottraendo momenti di reale democrazia e discussione. Spesso la gente viene chiamata solo per sostenere l’idea dell’associazione, per aderire a un programma pensato fuori dalle strade polverose della realtà che la gente vive. Nella pratica quotidiana della CdB si è cercato di vivere questo metodo di équipe militante. Da un lato, cercando di fare formazione tra gli operatori alternando momenti esperienziali a momenti di studio più teorici; dall’altro, costruendo momenti di incontro e confronto con gli abitanti del quartiere come per esempio: • la costituzione di un comitato per la gestione e manutenzione della villetta comunale; • assemblee bimensili aperte a tutti centrate sulle varie problematiche del quartiere (trasporto scolastico, spazzatura, mancanza di fogne…); • momenti di socialità attraverso feste e cene. L’idea dell’équipe militante è il contesto e la cornice entro la quale tutte le attività della Casa del Bambino vanno inserite e pensate: l’obiettivo e l’orizzonte di ogni attività è cioè il coinvolgimento attivo delle persone, dai bambini agli adulti, dai genitori agli operatori. Da questo punto di vista quindi deve essere chiaro che non è tanto importante il risultato finale di un’attività ma il metodo con cui viene costruita, il processo di trasformazione che mette in opera, i possibili nuovi mondi che lascia intravedere. La bravura dell’operatore militante non è quella di raccogliere in maniera ossessiva ed anaffettiva le frequenze statistiche, ma quella di cogliere ed esplicitare i nuovi possibili mondi che nascono dopo un gioco, un’assemblea una cena di quartiere. Tra le varie attività messe in atto, vorrei sottolinearne alcune: • Villetta comunale. Si sono messe in campo diverse attività al fine di riqualificare e riappropriarsi dello spazio verde antistante il Centro. Le azioni messe in campo si possono così sintetizzare: Pratiche 301 Quattro 302 • Manutenzione della villetta attraverso il coinvolgimento della gente del quartiere. • Costituzione di un Comitato di quartiere che possa garantire il rispetto delle regole, gli orari di apertura e chiusura e la definizione di eventi da realizzare in Villetta. • Individuazione all’interno della Villetta e realizzazione di uno spaziogiochi per i bambini. • Organizzazione di eventi e sagre anche destinate ai turisti estivi. Il progetto che ci si propone è la costituzione di un’aula didattica per bambini all’aria aperta. Rifacendosi al pensiero teorico della scuola attiva di Celestin Freinet, della Scuola-Città del Pestalozzi, ci si pone l’obiettivo di costruire una didattica all’aria aperta sfruttando le occasioni che la Villetta offre ai bambini. In questo modo si possono raggiungere, tra gli altri, due importanti obiettivi: il primo, aiutare i bambini ad apprendere in una maniera che è al tempo stesso divertente e vicina alla loro “natura” e il secondo, educare i bambini alla cura del territorio, proponendo un senso di appartenenza comunitaria veramente importante in un territorio come quello di Castel Volturno dove non ci può essere futuro se le nuove generazioni non saranno abituate a rispettare l’ambiente e la legalità. L’aula didattica può anche diventare uno strumento per le scuole del territorio offrendo laboratori di geografia, fisica e matematica. Rugby. L’associazione sportiva Castel Volturno Rugby nasce nel novembre 2012 e ha come soci fondatori un gruppo di persone appassionate a questo sport. L’input iniziale lo dà la Casa del Bambino. Il gruppo degli operatori ha iniziato a vedere la valenza educativa dello sport e del rugby in particolare nel contrasto alla dispersione scolastica e al generale degrado che si rischia di vivere in questo territorio. Già agli inizi del 2012 abbiamo realizzato numerose dimostrazioni organizzate durante le attività di piazza della Casa del Bambino. In Autunno i primi allenamenti della neonata società sono stati organizzati su un terreno auto-finanziato e auto-gestito retrostante al centro educativo che sopperisce alla mancanza dello stadio comunale. La Federazione Campania Rugby ha messo a disposizione un istruttore regionale che ha dato una grossa mano sia nelle dimostrazioni nelle piazze che nel primo periodo degli allenamenti. Attualmente l’allenatore è un educatore di Castel Volturno. I bambini e i pre-adolescenti, inizialmente incuriositi, hanno cominciato ad allenarsi e a poco a poco si è andata formando la squadra dei Pirati (nome scelto dal gruppo di bambini). Il primo “concentramento” è stato organizzato il 2 maggio a Scampia in occasione dell’evento “Mediterraneo Antirazzista”. Successivamente abbiamo partecipato a diversi appuntamenti in giro per la Campania. La società ha organizzato due tornei di “beach rugby” intitolati al famoso pirata Edward Teach meglio conosciuto con il nome di battaglia Barbanera! I tornei sono stati giocati sulle spiagge di Pinetamare e Destra Volturno e hanno visto la partecipazione di almeno 150 bambini. La scelta del rugby è connotata da due postulati fondamentali: il valore dello sport in sè e il riconoscimento della specifica valenza educativa di questo sport. Tra i tanti valori del rugby, vorrei sottolineare quelli che più ritengo importanti nel nostro contesto specifico: • regole: le numerose regole del Rugby e soprattutto la loro scoperta da parte dei bambini, aiutano a passare dal caos all’ordine, dall’impossibilità di giocare al divertimento; • andare avanti guardando indietro: nel Rugby non si può giocare se non si guarda indietro e, ancor di più, per avanzare è necessario passare la palla a chi sta dietro. Nel Rugby non si può vincere da soli; • aggressività: il rugby è un gioco aggressivo ma non violento; la rabbia va messa in gioco, va vissuta e non repressa; • rispetto: nel Rugby il rispetto di sè e degli altri è un elemento fondamentale. Una scorrettezza nei confronti dell’avversario è una mancanza di lealtà anche verso la propria squadra. • terzo Tempo: le ostilità cessano sul campo, la rabbia e l’aggressività si sfogano durante la partita, poi tutto finisce e si lascia spazio allo stare insieme. Giornalino “La Crepa”. Comunicare insieme è un momento importantissimo per i bambini, gli operatori e gli abitanti del quartiere. L’idea di “ritornare” al giornalino, alla carta stampata, alla fatica di una redazione è sembrata quasi ovvia in un contesto come quello di Destra Volturno. Il giornalino obbliga a pensare, confrontarsi, uscire per strada per la distribuzione; il giornalino permette a grandi e piccoli di ritrovarsi e creare insieme uno strumento che permetta un percorso di consapevolezza a diversi livelli: • i bambini possono utilizzarlo come strumento didattico per l’approfondimento di alcune tematiche e per la scrittura. Diventa una cosa “bella” che si può toccare, sfogliare e anche esibire. A Destra Volturno costruire una cosa bella ha un valore rivoluzionario; • per gli abitanti del quartiere diventa un modo per restare informati sui temi scottanti del quartiere, sulle iniziative che stanno bollendo in pentola e soprattutto diventa occasione per porsi delle domande che posso aprire a pratiche emancipatorie personali e collettive. Stop Biocidio. Partecipare alla costruzione locale del movimento “Stop Biocidio” è stato una tappa fondamentale. Gli operatori della Cdb si sono adoperati per costruire un comitato locale che partecipasse alla lotta con- Pratiche 303 Quattro 304 tro il biocidio. Questo processo ha dato la possibilità a molti cittadini di partecipare e confrontarsi su temi di vitale importanza. Il comitato locale ha partecipato alle varie manifestazioni regionali e localmente è stata organizzata una manifestazione con gli studenti delle scuole superiori. Quello che rimane come pratica e come metodo è l’assemblea settimanale aperta a tutti. Con i bambini si è lavorato molto su questo tema partendo da un’amara constatazione: la quotidianità dei bambini è fatta di degrado e morte e questa violenza diventa la normalità. Lo sforzo educativo è stato prima di tutto quello di creare consapevolezza rispetto al fatto che il degrado e la morte non sono la normalità. Una via piena di rifiuti, una villetta dove è impossibile entrare per l’erba alta, non sono la normalità. La cosa più importante è stata dunque quella di creare, almeno a livello mentale, il bisogno di un’alternativa, lo spazio per fare nascere la possibilità di un’alternativa. fare biciclette, fare educazione, fare città di Giulio Vannucci L a Ciclofficina di Casa in Piazzetta apre i battenti a Pistoia nell’autunno del 2011. Non nasce dal nulla, ma da azioni e ricerche che hanno portato l’Associazione Arcobaleno a strutturare, negli anni, un percorso con un gruppo cangiante di adolescenti che abbiamo già tentato di sintetizzare in Come partorire un mammut (e non rimanere schiacciati sotto), a cui rimandiamo per un breve racconto. La Ciclofficina dunque non è “da sola” in città, ma fa parte di un unico progetto (culturale, sociale e quindi per forza politico) che vede negli adolescenti una forza reattiva cittadina, tanto in grado di portare cambiamento quanto bisognosa di un percorso in cui riconoscersi. È uno dei tasselli, tra i quali il più vicino (geograficamente e idealmente) è una sala prove che noi chiamiamo “popolare” (ma altri sarebbero da citare), che è un luogo aperto che lavora tramite l’impatto e lo scavo in una passione (quella per la musica) lontano da modelli televisivi. Non è possibile raccontare tutto in poco spazio, ma è necessario ribadire come la Ciclofficina non sia un’esperienza isolata o nata “per le biciclette”. E che il tentativo è quello di abbandonare la prospettiva del “sociale per il sociale”, cercando invece un percorso di scavo in competenze e passioni. La Ciclofficina è una ciclofficina popolare, un luogo di formazione al lavoro per adolescenti, una “bicicletteria” in cui si recuperano vecchi rottami, destinati al ferro vecchio. È aperta tre volte a settimana (il martedì dalle 18.30 alle 22.30, il mercoledì dalle 9.30 alle 13.00 e il giovedì dalle 15.00 alle 19.30) ed è sostenuta economicamente da un’Azienda Pubblica di Servizi alla Persona e dall’Amministrazione comunale. Le ciclofficine popolari e le città Non è questa la sede in cui sviscerare una realtà così diversificata e in divenire come quella delle ciclofficine popolari: basterà ricordare che negli ultimi quindici anni, in Europa, un fenomeno che era solo minoritario e resistente sta lentamente prendendo piede in modo sempre più ampio. Con la crescita esponenziale dell’uso della bicicletta (con numeri risibili se confrontati con quelli delle automobili, ma comunque in crescita) è evidentemente nata l’esigenza di luoghi e contesti in cui permettere a tutti un accesso diretto al proprio mezzo di trasporto, diffondendone contemporaneamente l’uso e la conoscenza. È sufficiente leggere alcuni statuti (o manifesti) di qualche ciclofficina popolare in Europa per capire che si tratta di situazioni molto simili tra loro, e che c’è un fi lo rosso che lega tutte le realtà di questo tipo, a prescindere che si trovino a Parigi, Berlino o Rimini. Nelle ciclofficine in genere si mettono a disposizione attrezzi e competenze, Pratiche 305 Quattro 306 non si paga che una piccola offerta per i pezzi e per le spese, si può rimettere a posto la propria bicicletta con l’aiuto dichi sa, e a volte è addirittura possibile creare un proprio mezzo assemblando pezzi destinati al ferro vecchio. Spesso e volentieri si organizzano manifestazioni ed eventi legati alla promozione della mobilità sostenibile. Sono luoghi aperti e orizzontali, ma assolutamente partigiani. Alla domanda “per quale idea di città si è deciso di spendersi?” la risposta è chiara: con meno macchine, meno cara, più giusta. Con le strade un po’ più libere. Certo, è necessario guardarsi bene da ogni mitizzazione e sapere i grossi limiti di tutte queste esperienze, primo tra tutti un frequente ideologizzarsi del discorso o una faticosa “ciclo-retorica”, che permette di accontentarsi del proprio fronte come fosse l’unica prospettiva di azione politica rimasta. Tuttavia si deve riconoscere che nelle ciclofficine popolari si lavora (non a scopo di lucro) per una città diversa, promuovendo degli stili di vita volti senz’altro al cambiamento. La Ciclofficina di Casa in Piazzetta, una volta a settimana (appunto il martedì) si trasforma in laboratorio cittadino di ciclomeccanica: tutti, senza limiti di età, possono venire e usare attrezzi e competenze di chi la gestisce. E Piazzetta Santo Stefano, dopo i numeri davvero bassi del primo anno, ogni settimana si trasforma per una sera in un luogo affollato di persone molto eterogenee tra di loro, intente a aggiustare, smontare, capire. Una piccola comunità, forse. Il cui ruolo politico assume in qualche frangente una dimensione davvero cittadina, non solo per quanto riguarda un tessuto sociale che anima (e da cui è animata), ma per un dialogo diretto che intercorre con l’Amministrazione Comunale. Si tratta del fronte più culturale, senza dubbio, in cui la Ciclofficina si assume un ruolo di studio e approfondimento sui temi della mobilità sostenibile. Un lavoro culturale senza il quale altrimenti sarebbe facile finire per fare da “testimonial” alla bicicletta, ma senza un pensiero strutturato. Perciò, con l’aiuto dell’Amministrazione stessa, la Ciclofficina ha organizzato due giornate pubbliche sulla mobilità sostenibile, a cui hanno partecipato esperti e studiosi delle questioni della mobilità pubblica (così come della città, o della partecipazione) e il Sindaco di Pistoia, nella ricerca di un dialogo che serva a entrambi. Sono piccole manifestazioni, che però rendono il progetto della Ciclofficina un luogo di elaborazione del pensiero, di educazione diffusa e di diffusione di temi e problematiche che sono davvero in grado (in potenza) di mutare l’utilizzo degli spazi urbani. Un contesto educativo La Ciclofficina, due volte a settimana, è aperta esclusivamente agli adolescenti, con cui in precedenza sono stati negoziati tempi, modi e obiettivi della presenza. Spesso il primo “aggancio” avviene nel quartiere in cui abitano, o grazie al passaparola tra coetanei. Qualche volta i Servizi Sociali chiedono una mano, per esempio per alcuni percorsi di messa alla prova che necessitano delle attività di formazione. Non si sta mai in troppi in Officina contemporaneamente, a meno che non si tratti di laboratori specifici, magari a tema: si deve avere il tempo di concentrarsi, di capire a fondo le cose, di chiedere, di provare. La situazione ideale, addirittura, prevedrebbe, per le prime volte, un rapporto uno a uno (con chi ne sa un po’ di più), anche se le urgenze, le situazioni, i clienti, fanno spesso saltare qualunque tipo di piano. Ma è il contesto a richiedere calma e concentrazione, nessuna motivazione estrinseca se non il luogo stesso. L’impatto con una vera officina (benché comunque sia un luogo protetto) genera varie reazioni, perché si tratta di un contesto non lavorativo (non si viene pagati), ma in cui i compiti sono chiari e inaggirabili: si devono riparare biciclette o assemblarne di nuove e perfettamente funzionanti, senza approssimazioni. Non si deve sbagliare perché la bicicletta è un mezzo di trasporto, e ci sono delle persone sopra che altrimenti rischiano molto. Si deve imparare quali sono gli attrezzi giusti per alcune azioni specifiche, una buona serie di nomi di oggetti, e qualche passaggio senza il quale le biciclette non si possono aggiustare. Chi sa insegna a chi non sa, non ci sono voti, né prove di verifica, ma un continuo aggiustare il tiro, scoprire strategie e inventarne di nuove. La bicicletta non è un oggetto neutro. Nessuno oggetto lo è, in nessun contesto, ma la bici (per le mille ragioni che abbiamo detto, e per altre mille) è davvero densa di implicazioni. È un manufatto tecnologico, molto complesso, ma comunque avvicinabile, comprensibile. Imparare a smontare la propria bicicletta significa fare dell’artigianato, cioè utilizzare il proprio pensiero al servizio delle proprie mani, una scoperta che dopo anni di frustrazione scolastica può regalare soddisfazioni mai sperimentate prima. Voglia di fare, di studiare, addirittura. Vedere un mezzo distrutto riprendere vita e velocità grazie al proprio lavoro è impagabile (lo spiega bene Sennet nell’Uomo artigiano), oltre ad essere un’esperienza (proprio dal punto di vista pedagogico) senza pari. Non è un caso se da Dewey a Mialaret si parla proprio di apprendimento nelle “officine” e non di “laboratori”, portando esempi di lavoro vero e proprio, e non di “workshop” (che pure ben vengano, quando ben fatti!). Ma la differenza è sostanziale, perché nelle officine succedono delle cose, c’è confronto con la realtà: si deve creare una bicicletta che dovrà necessariamente funzionare, perché verrà utilizzata. Che è esattamente il contrario di ciò che accade a scuola, dove non succede niente, il corpo e le mani sono abolite, e il risultato finale sono “discipline”, nozioni fini a sé stesse che restano nel limbo del “studia perché è importante”. Ci sono ormai infiniti studi e ricerche di come l’apprendimento avvenga in modo qualitativamente migliore, se mediato dalle mani. Perfino l’Accademia ci sta arrivando, aggiornandosi. Pratiche 307 Passare un pomeriggio a combattere contro una catena, un cambio o un movimento di centro, tentando di capire quale sia il problema e quali strumenti servano per affrontarlo è tanto lontano da “la mamma ha sei uova e ne usa il 40% per il dolce della colazione” quanto altrettanto bisognoso di matematica - e di forza fisica per usarla. corpo e pedagogia di Claudia Cannavacciuolo corsi di aggiornamento per educatori che ho tenuto tra il 1994 e il 2000 presso scuole di vario ordine e grado hanno avuto come metodo prevalente il movimento del corpo con la musica come mezzo consapevole di espressione. Sono venuti in palestra a danzare, giocare, drammatizzare emozioni e sentimenti insegnanti abituati a stare in cattedra, con tanto di registro, programmi da portare a termine, voti, consigli di classe, promozioni, bocciature. La sfida è stata proporre il lavoro a docenti delle scuole medie e superiori. Docenti che non avevano a che fare con bambini, ma con adolescenti fino alla maturità. Docenti che non usavano il gioco come mezzo didattico, come si fa nella scuola materna ed elementare. Docenti concentrati sulla matematica o sull’inglese, o sulla fi losofia. Le prime esperienze qui a Bolzano mi hanno messa di fronte a uomini e donne che, nonostante fosse stato loro indicato di presentarsi con abiti comodi, sono arrivati in giacca e cravatta, calze di nylon, scarpe col tacco e con tanto di blocco per gli appunti. La prima volta abbiamo fatto quel che si poteva. Le signore hanno tolto le scarpe e, nonostante la gonna, hanno cominciato a “ballare”. Gli uomini hanno provato a mettersi un po’ più comodi. Lo sconcerto iniziale è stato tanto, ma dopo due giorni in cui i protagonisti sono stati la musica, il movimento del corpo, la possibilità di esprimersi in libertà, simulando, recitando, drammatizzando situazioni e scenette, hanno sciolto la rigidità iniziale. È andata meglio le volte successive. Anzi, quello che era iniziato come un esperimento è diventata un’abitudine. Per sei anni attraverso corsi, seminari, proposte di aggiornamenti si sono iscritti a partecipare docenti, educatori, personale della scuola che hanno preso gusto a permettere al corpo di “educare”. I docenti più affezionati hanno scritto al loro provveditorato (in tedesco!) chiedendo di inserire questi corsi tra gli aggiornamenti curricolari. Il filo conduttore è stato la messa in gioco del proprio corpo. La sfida era fare con gli educatori, attraverso il metodo socratico della maieutica, ciò che ogni vero educatore si prefigge di fare con il mondo in crescita che gli si para davanti: allievi, figli, adulti in formazione. Ovvero educare, suscitare consapevolezze, “far uscire” ciò che sta nascosto dentro. È stata una sfida ed una scoperta. Di anno in anno il numero di docenti che si iscrivevano ai corsi aumentava e sorprendenti sono stati i feedback che raccoglievo. I Quattro 308 Pratiche 309 Quattro 310 Le prime domande erano: come possiamo utilizzare quello che ci proponi con i nostri ragazzi? Non sono bambini, dobbiamo insegnare una materia, non possiamo metter su la musica e danzare. E via via venivano fuori le sorprese. Una volta il corso di aggiornamento proposto aveva ad esempio come tema: il corpo, il tempo e lo spazio. Tra le altre cose, abbiamo • ascoltato e poi danzato musiche con ritmi differenti: lenti, veloci, velocissimi; • attraversato lo spazio in vario modo: in diagonale, saltando, strusciando i piedi, singolarmente e in coppie o in gruppi, aprendo e chiudendo varchi; • sperimentato la camminata del cieco o del vecchio, bendati o guidati da un compagno, in silenzio o con una musica adeguata da sfondo; • inventato movimenti inusuali, di attrazione/repulsione, centrifugo/ centripeto, gravità/leggerezza, contatto/ritirata; • sperimentato diversi modi di respirare; • fatto rilassamenti e visualizzazioni. Qualche mese dopo ho ricevuto una telefonata da una insegnante di lettere. Mi ha raccontato di aver portato un registratore in classe, di aver scelto due musiche con differenti ritmi come sottofondo, di aver chiesto ai ragazzi di chiudere gli occhi e di aver proposto loro l’ascolto di un brano per due volte, leggendo con due velocità differenti. Era entusiasta del risultato: i ragazzi erano stati coinvolti e avevano ascoltato con grande concentrazione il brano al punto da memorizzarlo con estrema facilità. Il metodo era sempre incentrato sull’uso consapevole del movimento del corpo, sull’ascolto della musica, sui ritmi, i suoni, le pause, i silenzi, sulla drammatizzazione con tecniche teatrali di situazioni insolite. Lo scopo era, come in ogni evento artistico: 1. liberare energia trattenuta, liberando al tempo stesso un potenziale creativo sconosciuto a se stessi; 2. riequilibrare le dimensioni ordinarie dell’essere umano: fisica, affettiva, mentale; 3. rendere più armonioso il funzionamento dello strumento umano; 4. entrare in contatto con una dimensione di conoscenza diversa da quella ordinaria: il sogno, ad esempio; 5. addentrarsi nei luoghi della fantasia e renderla visibile. Lo sapevano bene gli antichi. La danza, i ritmi, i movimenti consapevoli del corpo e della respirazione erano i mezzi ordinari per entrare in contatto con una realtà di cui siamo solo una piccola parte. Alcune popolazioni sono ancora in possesso di questa conoscenza e dei metodi per accedervi. Alcune danze le abbiamo ereditate, altre possiamo ancora crearle, con l’intento di recuperare quell’innocenza, senso di scoperta e di stupore che ci permette di accedere alla dimensione creativa che è in ognuno. In pratica, attraverso la simulazione, abbiamo permesso al corpo adulto di giocare come da bambini, scoprire nuove potenzialità espressive. Questo ci può permettere di uscire da quell’automatismo che chiamiamo erroneamente spontaneità e che non è altro che un meccanismo consolidatosi nel corso del tempo attraverso abitudini di azioni/reazioni e di pensieri, e potersi sorprendere di se stessi accedendo ad un gesto veramente autentico, libero. Se la vita è il dispiegarsi continuo di energie contenute potenzialmente nel progetto fin dalla nascita (dna?), se l’educazione si prefigge di insegnare la maniera di convivere, di trasmettere un patrimonio culturale ma soprattutto di aiutare ognuno a scoprire ed essere se stesso con maggiore consapevolezza, questo vale innanzitutto per l’educatore. Pratiche 311 il circolo “la gru” e la salute di Aldo Bifulco B Quattro 312 onificare un’aiuola, creare con i bambini e le maestre un giardino didattico e prendersene cura per anni, riqualificare piccoli spazi pubblici con giovani e adulti del territorio nel segno della “bellezza” e piantare alberi con gioia… sono queste alcune azioni che caratterizzano da sempre la vita del Circolo “la Gru” di Scampia, anche se negli ultimi anni queste operazioni hanno avuto un’impennata per la sensibilità cresciuta sul territorio e per la collaborazione con altri gruppi che costituiscono una delle reti di Scampia. L’ultimo progetto appena avviato è la creazione, con le associazioni, le scuole e i cittadini, del “corridoio delle farfalle” che partirà da via Monterosa per portarsi verso Melito e verso Piscinola. Se questo è il nostro specifico, come circolo ambientalista ci siamo occupati con altri gruppi anche delle varie forme di inquinamento, della raccolta differenziata, dei roghi tossici. Ebbene se tutto questo “fa star bene o meglio” chi opera e chi vive la realtà territoriale…allora abbiamo la sensazione di trovarci all’interno del concetto di “salute” in una sua accezione più ampia. C’è un campo dell’attività del Circolo dove questo legame è più chiaro, più evidente. La creazione di orti, per esempio nel carcere, al TAN, ma soprattutto all’interno del Centro diurno la “Gatta blu” presente nel Centro di salute mentale di Scampia. Anche se il nostro agire è privo di qualsiasi velleità terapeutica abbiamo la consapevolezza che il nostro progetto abbia avuto un impatto sulle problematiche della salute “mentale”. Stiamo parlando del progetto “Napoli in un orto” che è la trasposizione di un libro in un programma operativo all’interno della “Gatta blu”, facendo interagire pazienti e soggetti esterni, non tutti appartenenti al Circolo. Un libro fatto di racconti, ricette, uno schedario scientifico di ortaggi, un calendario speciale che privilegia i prodotti stagionali… un libro, come qualcuno ha scritto, “che bagna il proprio inchiostro tra le radici e il sapore della nuda terra.” Momento fondamentale è stato l’incontro mensile culturale-conviviale aperto al pubblico, nel quale saperi, memorie, poesia, cucina si sono fusi insieme, per concludersi con un momento conviviale consumando il pasto cucinato da operatori e pazienti anche con gli ortaggi prodotti nel piccolo orto. Mangiare è certamente un fatto naturale, ma ad un atto così semplice sono connessi molti sentimenti e, talvolta, anche qualche ossessione. In genere desideri ed emozioni, personali e comunitarie, accompagnano il consumo di un cibo. Ma la frenesia e la fretta di una vita convulsa, la solitudi- ne di un modello sospettoso ed avaro, ma soprattutto, la dieta occidentale fatta di cibi industriali e raffinati, con prevalenza di carne, grassi e zuccheri aggiunti, hanno creato un forte contrasto tra alimentazione e salute. Abbiamo perduto questa semplice ed elementare consapevolezza. Eppure già Ippocrate affermava: che il cibo sia la tua unica medicina! E recenti studi confermano che le malattie più frequenti e deleterie che affliggono il mondo occidentale si possono prevenire con una sana e accorta alimentazione. Verdura e frutta sono state per lungo tempo allontanate dalle abitudini alimentari della popolazione occidentale e si fa fatica a trovare qualche bambino o qualche giovane che guardi con simpatia a questi alimenti essenziali. Infine una sapiente e ben orchestrata pubblicità, l’atmosfera che circonda i cibi industriali che Pollan definisce sostituti pseudo alimentari, la loro preparazione e le modalità di offerta, la loro accurata collocazione nei templi del consumo moderno, i supermercati, divenuti luoghi del tempo libero, hanno determinato una diseducazione del gusto, privilegiando solo parte delle nostre papille gustative, e facendo prevalere aspetti marginali ma accattivanti nelle scelte alimentari. E sempre Pollan nel suo più recente libro afferma: “Non mangiate niente che la vostra bisnonna non riconoscerebbe come cibo. I cibi odierni vengono progettati a tavolino, con il preciso scopo di farci comprare e mangiare di più, facendo leva su alcuni automatismi evoluzionistici: la nostra preferenza innata per il dolce, il grasso, il salato”. Un aspetto fondamentale del nostro progetto è stato il principio della stagionalità sostenuto particolarmente dalla dottoressa Rosa Orfitelli che ci ha accompagnato durante gli incontri mensili. Rispettare la stagionalità dei prodotti della terra non è una delle tante mode più o meno in voga del guru di turno, è il ritorno alle radici, è preservare la memoria del proprio popolo, è tornare al “senso” delle cose, al rispetto della natura e dell’altro, è rispetto per il proprio corpo che racconta ciò di cui ha bisogno ad un popolo di sordi profondi. Ricordare cosa la stagione offre è non perdersi nel delirio di onnipotenza del globale, che appiattisce mente e anima: devi innanzitutto consumare, e velocemente, perché è vietato fermarsi e pensare. Ricordare la stagionalità dei prodotti è un atto di amore e rispetto verso se stessi per poter cambiare qualcosa anche per le generazioni future e riprendere il senso vero delle cose con cura, dei doni ricevuti e gratitudine verso madre terra. Pratiche 313 mobilità critica di Claudio Caccavale L Quattro 314 www.cicloverdi. it/ www.napolibikefestival.it/ www.facebook. com/groups/ www.bikesharingnapoli.it/ Segnaliamo anche www. bicizen.it/ e il libro del suo promotore Alfredo Bellini ‘Happy Bike, pedalando verso la felicità’ a Ciclofficina Popolare “Massimo Troisi” (cpmt) è nata nel novembre del 2008 e si trova all’interno del Laboratorio occupato sperimentiamo kulture antagoniste (L.O. Ska) nei pressi di Piazza del Gesù, a Napoli. Come altre realtà che si sono diffuse in Italia, anch’essa nasce dall’esperienza della Critical Mass (cm), il movimento “globale” che ha avuto origine a San Francisco nel 1992 e si è poi esteso nel resto del mondo, ovunque vi fosse il bisogno, da parte dei ciclisti, di riconquistare il diritto ad avere il proprio spazio vitale in strada e, più in generale, di riaffermare il ruolo positivo che la bicicletta, mezzo che coniuga benissimo vantaggi per l’individuo e per la società, poteva avere e che purtroppo non le veniva riconosciuto a causa di una imperante quanto distruttiva cultura della motorizzazione. A Napoli la cm sorge tra il 2006 e il 2007. In seguito allo storico appuntamento della Ciemmona romana e alla conoscenza di questi nuovi spazi pratico-sociali che sono per l’appunto le ciclofficine (Roma è la città che ne conta di più, non a caso) un gruppo di appassionati ciclisti urbani, sull’onda della crescente partecipazione alla cm locale, decide di aprirne una sul territorio. Dunque, cosa si fa esattamente nella cpmt? L’intento è quello di una qualunque ciclofficina (popolare): essere un spazio autogestito dove si mettono a disposizione conoscenze e attrezzi per riparare la propria bicicletta o costruirsene una partendo da altre recuperate, oppure semplicemente dove farsi una chiacchierata e conoscere altre persone accomunate dalla passione per la bici. Spesso, trattandosi di un posto in pieno centro storico frequentato da universitari, sono persone che non possono permettersi un’auto o uno scooter e che hanno una reale necessità di muoversi su due ruote per raggiungere il luogo di studio o di lavoro; oppure altri hanno recuperato una vecchia bici in cantina, oppure ancora gliene hanno regalata o ne hanno comprata una usata e non sanno come aggiustarla. Così, la cpmt nel tempo si è offerta come open space dove si incontrano abilità meccanica e socialità: tra gli attivisti c’è chi è più bravo nel riparare e chi nel tessere nuove relazioni, così tendono a delinearsi dei ruoli che ognuno è pronto a ricoprire all’occorrenza. Importantissimo, in quanto soggetto che agisce per una mobilità urbana nuova, è stato anche il relazionarsi con le diverse realtà preesistenti, in primis l’Associazione Cicloverdi fiab, impegnate da tempo in battaglie simili, anche sul versante istituzionale. Il binomio CM-ciclofficina, che come s’è detto è un fatto frequente in Italia, è rimasto indissolubile anche qui a Napoli, in quanto gli attivisti core dell’una lo erano anche dell’altra: dopo alcuni anni di raduni in piazza Plebiscito, la CM successivamente è sempre partita dalla strada su cui si affaccia la cpmt, questo anche grazie del prestito bici che la ciclofficina offre ai partecipanti. Ciò, nel tempo, ha rafforzato l’immagine e il valore sociale di entrambe. La nostra soddisfazione è vedere che a Napoli (così ricca di salite e discese da sembrare impossibile diffondere una cultura e un uso quotidiano della bicicletta) questo mezzo sembra essere entrato, nel bene e nel male, nell’orizzonte culturale della città; e pur non sapendo con esattezza quale sia stato il contributo della cpmt o della cm abbiamo ben impressi nella memoria le allegre chiacchierate in bici, i sorrisi di chi tornava a pedalare dopo tanto tempo, il piacere di ritrovarsi tra amici vecchi e nuovi ogni martedì sera a lubrificare catene, stringere pedali, riparare una camera d’aria bucata… e la gente che ci guardava allibita e divertita quando ci vedeva passare in massa per le strade. Questo sono state la cpmt e la CM, e speriamo lo saranno ancora! Il movimento cittadino napoletano nato intorno alla cm e cpmt ha fortificato ed incoraggiato chi già era impegnato nella promozione ed uso della bicicletta, come i ciclisti urbani e cicloescursionisti dell’Ass. Cicloverdi fiab. E ha dato vita a numerose esperienze che si sono delineate in base alle diverse sensibilità personali ed idee. Alcuni gruppi hanno anche scelto di lavorare con le istituzioni per promuovere ed istituzionalizzare una cultura della mobilità sostenibile. Sono nate così: • L’Ass. Napoli Pedala promotrice del Napoli Bike Festival • SpaccaNapoli Bike • Il Bike sharing a Napoli Senza avere pretesa di esaustività, consapevoli del vasto e variegato mondo delle ciclofficine popolari e dei ciclisti urbani (con tutto il desiderio di continuare a scoprirlo), segnaliamo chi abbiamo già scoperto e che, come noi, promuove e utilizza la ciclomeccanica e la bicicletta in una dimensione pedagogica ed educativa: • La Ciclofficina popolare di Castellamare di Stabia • Ciclofficina – progetto educativo sperimentale, Rimini • Ciclofficina di Casa in Piazzetta, Pistoia (di cui potete leggere un approfondimento nell’articolo di Giulio Vannucci) • Ciclofficina Sociale ‘Guglielmo Marconi’ nata all’interno dell’IISS “Guglielmo Marconi” di Bari. Pratiche 315 ed. Marotta& Cafiero 2014. www.facebook. com/ciclofficinapopolareraffaeleviviani spaccanapoli bike/?fref=ts [email protected] ciclofficinainpiazzetta@ gmail.com [email protected] cinque. conclusioni (provvisorie) per una scuola salutare Q uella descritta in queste pagine non può che considerarsi una partenza, appena abbozzata, verso la costruzione di una scuola salutare. Sgombrato il campo da suggestioni new age, la premessa di questa impresa risiede nella ridefinizione del concetto stesso di salute. Compito che rimanda ai campi della filosofia e della medicina, mentre a noi basta chiarire che ci piacerebbe che questo termine corrispondesse alla ricerca di equilibri capaci di armonizzare il rapporto tra uomo e ambiente, nutrendo le potenzialità evolutive di entrambi. Una scuola della salute è oggi più necessaria che mai, anche per gli aspetti che esulano e superano i limiti della nostra ricerca: forse mai come in quest’epoca storica stiamo vivendo un parallelo annientamento della natura tanto dentro che all’esterno dell’essere umano. Ben visibile nello strappo tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori la scuola, tra quanto di “naturale” rimane in una giornata scolastica e la deturpazione di terra, acqua e aria circostanti. Se dovessero scattare repentine resistenze legate alle infinite dissertazioni su cosa sia “natura” e cosa “cultura”, consigliamo di trascorrere qualche ora nelle terre tra Napoli e Caserta o in una delle scuole in cui abbiamo lavorato a Scampia, in cui non si riusciva a respirare per i fumi che si erano accumulati nelle aule e in corridoio a seguito della combustione di rifiuti all’aria aperta. La scuola di oggi (come ogni altra organizzazione sociale) non può che ripartire da quel che rimane di questa natura (inquinata, violata, deturpata – ma qualcosa ancora rimane!). E questo non può che riguardare anche la didattica. Uno dei primi terreni da bonificare sarà l’impianto base di questa nostra scuola della salute. Bisognerà prima di tutto ripulirlo dalle ansie e dalla paura cronica prodotte da procedure burocratiche, norme sulla sicurezza e rigidità individuali (come abbiamo raccontato nelle pagine dedicate al concorso “Aiuto/Sgarrupo”). Ma anche dalle cialtronerie di molti “progetti” basati su esigenze di marketing, piacioneria dei formatori e proselitismo spicciolo più che sui bisogni reali degli studenti. Un grumo di sostanze tossiche – iperprotettività, ansie e isterie – volte a controllare e manipolare l’altro, anziché liberarlo e renderlo autonomo. 317 Riportando la nostra dissertazione all’ambito scolastico, ci siamo divertiti a compilare un ipotetico dizionario per una scuola salutare del XXI secolo. Ecco una bozza da cui partire. Cinque 318 dove Avendo messo alla prova le teorie dei pedagogisti della scuola attiva (a partire da Decroly) e di altri pensatori di riferimento (come gli urbanisti Giovanni Michelucci e Colin Ward, ma anche di scrittori come Pasolini) sappiamo che il luogo dove è possibile fare esperienza vera di scuola sta all’esterno dell’edificio scolastico: è qui che va collocata l’aula didattica autentica. Una scuola della salute non può che tenerne conto quando programma i luoghi dove svolgere quotidianamente (e non una o due volte all’anno) le proprie attività. Lo spazio diventa elemento fondamentale, come l’attenzione a non tarpare nessuna possibilità all’imprevisto quando si va alla scoperta di qualcosa. Ma anche la disposizione di ogni elemento del “set” quando la lezione avviene al chiuso di una casa-aula. Parlano chiaro al riguardo le sperimentazioni riportate dalle maestre Carmela De Lucia e Rosaria Pica, o quanto scritto da Franco Lorenzoni e Sara Honegger: cura e bellezza, da non confondersi con retorica ed estetica senza anima, sono ingredienti indispensabili. come Se è vero che non c’è reale apprendimento senza esperienza e che compito della scuola è favorire sin da piccoli l’incontro con la società, una scuola della salute non può che fondare la propria ragion d’essere sul mettere gli alunni nella possibilità di compiere queste esperienze, creando le condizioni e fornendo gli strumenti perché ciascuno riesca a imparare dai propri errori. Oltre alla scelta del “dove”, sarà perciò indispensabile prestare molta attenzione ai tanti elementi del “come”. Per una migliore definizione di questa voce guarda anche a quanto riportato nelle voci che seguono. Ma soprattutto, guarda bene in faccia chi hai di fronte quando cominci una nuova relazione educativa. valutazione Una scuola della salute passa innanzitutto per il cambiamento radicale del proprio modo di valutare. Prima di tutto svincolandosi dalla catena persecutoria del giudizio: preside-maestra-alunno-genitore. E anche su questo argomento rimandiamo a quanto precedentemente riportato delle considerazioni frutto del lavoro di questi anni in giro per l’Italia, con “Lenti a contatto” ma anche con il Mito e gli altri percorsi della scuola Mammut per formatori. potere Cambiare il sistema di valutazione significa rivedere radicalmente la concezione di potere e autorità all’interno della scuola, mostrando l’inattualità di forme di relazione ferme praticamente all’epoca pre-fascista. E non ci riferiamo solo al modo in cui a scuola vengono prese decisioni amministrative e strutturali, ma anche e prima di tutto al modo di concepire l’apprendimento: non sta più in piedi il metodo verticistico, frontale, con un adulto che dispensa sapere e saggezza e gli alunni che ingurgitano. Che questo sistema non regga più, è sotto gli occhi di tutti. Non solo perché insalubre e funzionale a una struttura sociale manipolatoria, ma perché in un mondo in cui l’autorità tradizionale è colata a picco non è possibile che questa resista solo a scuola. Il crollo radicale di frequenza e motivazione che si registra un po’ ovunque nelle scuola medie inferiori ne è forse una conseguenza diretta: appena un essere umano è nelle condizioni per farlo, non avendo più vincoli sociali forti, si ribella a un mondo anacronistico come quello della scuola e se ne fugge lontano. L’altra faccia della medaglia, ugualmente indicativa della crisi di una scuola di impostazione nella sostanza ancora gentiliana, è l’atteggiamento di quei genitori iperprotettivi che prendono la scuola come terreno di scontro con gli insegnanti e che magari mandano il proprio avvocato al ricevimento dei genitori. Quello che serve è insomma un nuovo equilibrio tra stili di conduzione lassisti e stili autoritari, prima di tutto nella modalità di fare lezione. Contributi importanti del passato come quelli della Scuola di Francoforte insieme ai più recenti elaborati della psicologia sociale potrebbero dare un notevole apporto ad una migliore definizione di questa voce. ruoli Ancora una volta tutto comincia da un coraggioso quanto costante lavoro su di sé e dal tentativo di dare nuova dignità al ruolo di insegnante e operatore sociale. Anche attraverso modalità di ricerca come quelle proposte in queste pagine. Perché è anche nella frustrazione per lo status del proprio ruolo sociale che va ricercata la radice di un sistema tanto crudele e castrante nei confronti di bambini e ragazzi (oltre che degli insegnanti e degli operatori stessi). Nelle giornate di ScAttiva (il percorso di ricerca-azione raccontato da Alessandra Tagliavini) abbiamo visto che questo è possibile, a partire da una condivisione autentica di entusiasmo e interessi, condivisione in grado di rompere il senso di isolamento che spesso avvolge gli animi più innovativi. Corpo Scuola Città 319 clima Su questi cambiamenti è basato il nuovo clima a cui facevamo cenno. Mentre di strumenti e percorsi per una nuova valutazione abbiamo cercato di definire qualche tratto nei capitoli precedenti, ci auguriamo che emerga nella maniera più chiara possibile da questa pubblicazione quanto inutile (oltre che dannoso) possa essere parlare di strumenti, percorsi, procedure e altri tecnicismi se non cambia il più generale clima in cui la relazione educativa avviene quotidianamente. A partire dal modo in cui la relazione stessa riesce a sbrogliare i nodi relativi alla gestione del potere. Cinque 320 cambiamenti Il primo passo sta quindi nel cambiare: - il sistema di relazione interno alla scuola, dall’autoritarismo a un esercizio sano del potere, inteso come “possibilità”, tanto da parte di chi apprende che di chi insegna; - la fonte dell’apprendimento, passando da manuali e libri di testo avulsi dalla vita, alla realtà contingente come fonte del sapere, all’interesse autentico dei singoli e del gruppo classe che incontra gli elementi dell’ambiente così com’è. Tutto il nostro discorso finisce per ridursi proprio a questo: una scuola della salute è una scuola che permette a ciascuno di esercitare il proprio potere. Di dispiegare a pieno l’insieme di potenzialità e capacità (psicofisiche) che gli derivano dal proprio modo di essere, da quanto sa e dal ruolo che occupa all’interno del gruppo. In un’ottica del genere non esistono scale gerarchiche, ma solo differenze e accordi tra pari suscettibili di cambiamenti costanti. È a partire da questo riconoscimento che può nascere una scuola della salute. no all’“ora d’aria” salutare Tutti i sistemi di insegnamento/apprendimento visitati in questo testo hanno la caratteristica di rendere concrete le spinte ideali fin qui descritte. Una scuola della salute non è quindi quella che prevede un’ora dedicata all’educazione alimentare o ad altri temi salutari. Anche in questo caso non è il travaso di concetti salutari a menti considerate vuote, magari sotto la pressione dei sensi di colpa, che possa davvero cambiare gli stili di vita delle persone. Educazione alla salute si fa permettendo a bambini e ragazzi di vivere l’intera giornata scolastica come giornata salutare. Nel profilo di Steiner abbiamo persino fatto cenno alla possibilità di una “pedagogia curativa”, di un sistema scolastico capace di incidere positivamente su patologie gravi. Nella nostra sperimentazione non abbiamo raggiunto alcun risultato nemmeno lontanamente paragonabile a questo, eppure tanto nei percor- si collettivi (come quello della maestra Elvira Quagliarella sulla porta del carcere), quanto in progetti individualizzati (come nel caso degli alunni Y e X, citati diverse volte nel testo), abbiamo avuto modo di verificare quanto l’impianto metodologico fin qua delineato possa ottenere risultati importanti sulla salute psicofisica, e quanto questi risultati possano incidere positivamente anche sul rendimento scolastico. Con un particolare importante: ciascuna di queste esperienze sono partite dall’ordinario scolastico, dalla normale lezione della maestra e non da un’“ora d’aria”. pragmatismo utopico È possibile e necessario attuare ciascuna delle spinte metodologiche sopra illustrate nel piccolo e limitassimo pezzo di strada che ci è dato di fare, senza aspettare la riforma scolastica epocale o l’arrivo di dirigenti illuminati (né tantomeno di politici locali con cui intendersi). L’importanza del qui e ora, del fare quel che ci è possibile alle condizioni date, assumendosi le proprie responsabilità, il proprio potere di cambiamento rimane l’atteggiamento fondamentale. Una scuola del benessere totale non esisterà mai, probabilmente. Ma non per questo dobbiamo rinunciare a realizzarne quelle porzioni che il presente ci consente di realizzare. strumenti Percorsi sperimentali, come l’incontro tra prestigitazione e didattica nel teatro-magia con il “Genio Eir Ascòl” e il MammutBus, hanno indicato ulteriori possibilità di coltivare interesse e realizzare capovolgimento di ruoli. Altro strumento importante sono stati “i concorsi di città”, quelli realizzati grazie alla collaborazione con il quotidiano il Mattino. Sono stati forse questi i momenti in cui abbiamo potuto maggiormente incidere sullo stato di salute di servizi come “il carcere”, producendo un’attivazione numericamente e qualitativamente rilevante tra alunni e insegnanti. Senza dimenticare mai che gli strumenti sono e restano strumenti, più o meno utili a seconda delle circostanze: quel che conta di più è lasciare aperti i canali individuali e di gruppo attraverso cui fluiscono le idee e la possibilità di concretizzazione, in base alle esigenze dello specifico contesto. L’abbiamo verificato anche quest’anno, con le insegnanti che hanno partecipato a ScAttiva. Soprattutto quando abbiamo smesso di interpretare il ruolo di supereroi, quelli a cui le insegnanti delegano la costruzione di una scuola bella, rimanendosene rinchiuse nella prigionia di una millantata incapacità-impossibilità. Per imparare a leggere, scrivere e far di conto ci si può oggi avvalere di una grande quantità di metodi e tecnologie – dal tablet alle lettere smerigliate della Montessori – in sintonia con le sensibilità e le necessità di ciascuno. Noi non possiamo che augurarci che le “e” prevalgano sulle “o” Corpo Scuola Città 321 quando c’è da scegliere gli strumenti, ponendo invece tutta l’attenzione al cambiamento del più volte menzionato clima di classe. Cinque 322 mani Una scuola della salute non può che essere basata sulla piena espressione delle potenzialità delle mani. In molti modi abbiamo verificato la grande potenza curativa che le attività manuali possono avere. Curative per le relazioni di gruppo quanto per i processi di riappacificazione con sé stessi e con il mondo adulto (scuola compresa). Nei percorsi della ciclofficina, in particolare, abbiamo verificato quanto legare la propria presenza ad un fare utile (come ci ha tante volte ripetuto il nostro Riccardo Dalisi) possa diventare calamita, anche per i ragazzi meno disposti a seguire attività strutturate, nell’attivazione motivazionale, ad esempio, di processi di letto-scrittura efficaci. cittadini Serve continuare a praticare quanto insegnato da Dewey sul rapporto tra didattica e democrazia: fare scuola significa formare i cittadini del futuro. Tenere quindi ben chiaro che poco c’entrano con una scuola salutare stucchevoli giornate in campagna o al museo, dove è chiaramente visibile il vero scopo degli organizzatori: vendere prodotti e servizi e addestrare bambini e ragazzi a diventare buoni consumatori. È proprio con l’infanzia che l’industria dello svago e del tempo libero raggiunge forse i gradi più alti di sofisticazione. Come rimane fondamentale ricordarsi quanto Maria Montessori ci ha dimostrato con le sue scuole: dobbiamo dare ogni valore e rilievo a quel che il bambino è oggi, non tanto per quello che diventerà in futuro, ma per ciò che è nel momento presente. Anche rispetto alla possibilità di incidere sull’equilibrio ecologico e all’espressione di ogni diritto di cittadinanza. Nei concorsi MammutBus è stato questo uno dei principi più difficili da far passare, perché in pochi riuscivano a scorgere il valore di una letto/scrittura della realtà ad opera dei bambini, mentre abbondavano categorizzazioni del tipo “giornalisti in erba”. medico/maestro Se per la nostra scuola della salute è importante che un maestro si faccia architetto alla maniera di Michelucci, lo è altrettanto che diventi “medico”, come quelli dei tempi di Zanotti-Bianco. Non solo perché ancora oggi non sono pochi i casi in cui i bambini vengono a scuola in condizioni igieniche e sanitarie simili a quelle del dopoguerra (e non mi riferisco solo ai campi rom, quanto ad alcuni quartieri popolari conosciuti a Palermo e Napoli), ma anche perché ancora oggi per fare scuola e educazione è necessario farsi carico della persona nella sua interezza, secondo gli approcci indicati dalla parte più consapevole della medicina moderna. Con questo non vogliamo in alcun modo essere indulgenti verso la figura di maestro santone onnisciente, curatore improvvisato e clinico del sapere. Intendiamo invece mettere di nuovo al centro della riflessione, anche pedagogica, la cura della salute (non della malattia) complessiva della persona, richiamando maestri e educatori alla necessità di assumersi il compito di cura pre-medica, intesa come potenziamento dello stato di salute di ciascuno (più che come lotta chimica ai sintomi). Proviamo a mettere al centro della vita scolastica la domanda “e se si fa bene?”, al posto di quella inflazionata “e se si fa male?” alla ricerca di nuovi equilibri tra vigliaccheria delegante e deliri medicalizzanti. Se il maestro si assumerà questo ruolo si troverà spesso a fare i conti con un sistema sanitario allo sfascio, come quello descritto da Vincenzo Esposito. Come nel caso del bimbo di 3 anni che si era rivolto al Mammut perché a fronte di un percorso logopedico che gli era stato prescritto, era riuscito a ottenere una prima visita solo dopo tre anni. Una scuola della salute è quella che riesce a trovare la giusta interazione col sistema sanitario, assumendo anche posizioni più coraggiose nell’abbracciare battaglie salutari più attuali e rivedendo le proprie posizioni ideologiche su questioni d’altri tempi. È forse arrivato il tempo di far uscire dalla porta concezioni vetuste della salute e del medico, quelle del secolo scorso (ancora basate sulle relative epidemie e vaccinazioni), facendo spazio ad approcci più moderni come quelli della medicina integrata (la psiconeuroendocrinoimmunologia ad esempio, che molto avrebbe da dire anche alla didattica). Ancora una volta con misura e buon senso, riuscendo ad individuare i veri nemici della salute, ripartendo da inquinamento e stili di vita dettati dalla società del consumo (compreso quello di medicine e medicalizzatori). Ancora di grande attualità rimane al riguardo il contributo di Ivan Illich, anche se noi vogliamo prendere la sua serrata critica alla medicalizzazione della società, ma al tempo stesso sottolineare la fortuna e l’importanza di vivere in un’epoca dove la medicina è capace di curare e prevenire malattie in misura e modi un tempo inimmaginabili. Anche grazie a un sistema sanitario pubblico che, malgrado tutto, ancora resiste, soprattutto in alcune nicchie di eccellenza (come il Day-Surgery dell’ospedale pediatrico napoletano Santobono Pausilipon di Napoli). È anche a questo sistema e a queste nicchie che vorremmo offrire il nostro contributo di ricerca e sperimentazione. Corpo Scuola Città 323 Cinque 324 speciale Non esiste una scuola speciale o una scuola per categorie speciali. Lo diceva già Ovide Decroly. Esistono semmai infiniti percorsi, uno per ciascuno dei nostri alunni, pensati affinché ciascuno possa sviluppare appieno le proprie potenzialità. La deriva che ha preso la scuola, specie quella di periferia, nel rinforzare percorsi e classi dove vengono ammassati studenti “con difficoltà”, va avversata con ogni mezzo. Soprattutto quando nasconde percorsi speciali con etichette avvincenti quanto mendaci. Della specialità nemica di una scuola salutare fanno parte le tendenze psicologizzanti, tese a bollare e instradare in circuiti differenziali. Ci riferiamo all’uso che tanto spesso abbiamo visto fare delle categorie che rientrano nell’area dei Bes (Bisogni educativi speciali), ma anche a derive diagnostiche come quelle descritte in queste pagine da Giulia Valerio. Tanto più in un contesto sanitario dove la psicologia che serve a scuola, e fuori dalla scuola, diventa rara a causa di tagli e derive burocratiche. A queste tendenze “speciali” bisogna opporsi con tutte le forze. Prima di tutto perché alla scuola vengano forniti maggiori mezzi e strumenti (e non si abbia più bisogno di ricorrere a un insegnante di sostegno semplicemente per ridurre il rapporto insegnanti/alunni) e poi per cambiare le condizioni di contesto da cui anche il disagio scolastico trae origine. Anche per questo è così importante svolgere con continuità e cura il lavoro sul contesto a cui abbiamo dedicato le pagina iniziali. Una scuola della salute parte proprio dal non avere classi speciali ma dall’essere speciale, perché magica (come nel percorso del Genio Eir Ascòl) e perché capace di farsi adeguata alle specificità di ciascuno. Come per Freinet, Montessori, Decroly è proprio a partire dalle difficoltà degli alunni più problematici che è possibile migliorare la scuola di tutti. E non viceversa. rom I rom sono forse quelli che meglio mettono in evidenza quanto i percorsi speciali siano controproducenti. Grazie anche al contributo delle ricerche più recenti, sembra ormai assodato che i progetti di scolarizzazione per soli rom (pullmino, lezioni fuori dal gruppo classe, ecc.) sono nocivi e costituiscono nella maggior parte dei casi un inutile spreco di danaro. E benché siano le stesse strategie e raccomandazioni dei principali organismi della Comunità Europea a dirlo, scuole, istituzioni ed enti locali si ostinano a intendere la scolarizzazione per i rom ancora in questo modo, magari solo usando terminologie e strategie di marketing pedagogico più raffinate. Mentre ancora si fa fatica a comprendere che una concentrazione di persone etichettate secondo categorie elaborate dalla società prevalente (come avviene per i rom) costituisce di per sé un ghetto, anche quando la si costringe in soluzioni abitative presentate come avanguardistiche. Il problema dei rom a scuola esiste nelle sacche di emarginazione costituite dai campi in cui sono costretti a vivere, anche che li si chiami “Villaggio di solidarietà”, come nel caso del campo costruito nel 2000 tra una strada a scorrimento rapido e il carcere di Secondigliano. O come quello che sembra abbia intenzione di costruire il Comune di Napoli a Scampia al posto dell’accampamento spontaneo a Cupa Perillo. In questo caso la scuola costituisce un’importante cartina di tornasole: comunque la si chiami, ad una soluzione abitativa che concentra un gran numero di rom in una specifica area urbana corrisponderà un’altrettanto elevata concentrazione di alunni rom nella scuola più vicina a quell’area, con le derive stereotipiche messe in luce anche in ricerche come “Star”, progetto che il Compare ha svolto proprio assieme al Comune di Napoli (e pubblicata in Rom in Comune – studio sul Comune di Napoli e i rom che ci vivono, edizioni Barrito del Mammut, Napoli 2012). il creato Montessori, Steiner e molti altri maestri ispirati ci hanno insegnato che la coscienza ecologica non può nascere da inseminazioni cognitive, ma dall’esperienza del creato così com’è, senza mediazioni. Autori come Langer e Capitini ci insegnano che il rispetto per l’ambiente non passa da sensi di colpa e stili persecutori, ma dal sentirsi parte del tutto, anche in maniera laica. Ancora una volta questo non è possibile all’interno dell’aula, ma solo sperimentando la natura e le sue leggi in prima persona. Nel viaggio in Umbria e negli altri percorsi MammutBus, con la ciclofficina, con l’orto di quartiere e attraverso le tecniche di comunicazione teatrale e pittorica, ci siamo felicemente stupiti di quanto facile potesse essere riscoprire questa riconnessione ecologica proprio grazie al lavoro con i bambini. L’articolo di Lorenzoni e quello sull’astronomia del cielo di Margherita Bellini e Marco Pollano contengono indicazioni molto utili a riguardo. Un scuola della salute mette al primo posto l’esperienza della connessione ecologica, della inscindibile interdipendenza tra noi e il resto del creato. Nel piacere di condividere la sempre stupefacente scoperta che il segreto del cosmo sta nella creazione permanente prodotta da uomini e stelle insieme. Il metodo mammut per una scuola della salute Molti degli strumenti e degli approcci del metodo già esposti in Come partorire un Mammut (Marotta &Cafiero 2011) si sono rivelati utili anche ai fini di una scuola salutare. Molti di questi elementi li abbiamo già più volte sottolineati in questo libro: la scuola che esce dalla scuola e l’intreccio con lo spazio pubblico a cui abbiamo fatto ampio cenno; il viaggio e l’intui- Corpo Scuola Città 325 Cinque 326 zione della città/aula, con “stanze” corrispondenti a possibilità e necessità individuate in percorsi individualizzati come nelle sperimentazioni “Corridoio”; l’utilizzo di miti e riti che hanno continuato a rivelarsi possibilità molto potenti. Come pure l’adozione di uno spazio-aula dove non esistono banchi e il momento di riflessione/capitalizzazione cognitiva avviene in cerchio e per terra. Ha continuato a dare frutti eccellenti nelle giornate di scuola al Mammut (con le classi scolastiche che vi venivano a svolgere parti del percorso didattico) l’intreccio unitario di approcci e tecniche teatrali, pittoriche e di manipolazione, funzionali ad una struttura maieutica incentrata su circoli filosofici e ragionamenti scientifici (quella del “cadendo si impara”). Molto di quanto scritto da Margherita Bellini sull’arte-terapia, o praticato da più tempo in scuole come quelle di ispirazione steineriana, forniscono materiale teorico e pratico utile a questa possibilità. La nostra metodologia ha cominciato a prendere forme più definite anche grazie alla focalizzazione sul tema della salute, portandoci ad abbozzare modalità valide per adulti e bambini che hanno nella scrittura la loro chiave di successo. Modalità che partono dall’attivazione di sfere profonde della personalità (ma con molta attenzione a non superare i limiti di profondità…) e che coinvolge il corpo nella sua interezza, anche attraverso i linguaggi artistici, teatrali, del gioco. È questa attivazione il terreno utile alla focalizzazione individuale di interessi e bisogni, in cui nutrire curiosità e voglia di scoperta attraverso le incursioni nella vita reale, nelle sperimentazioni scientifiche, nella dialettica interna e esterna al gruppo (altri la chiamerebbero italiano, matematica, scienze, geografia). Ed è sempre l’attivazione non superficiale la base da cui partire perché archetipi antichi (i miti e le favole, appunto) e simboli personali, possano fare il proprio lavoro su blocchi e ferite rimaste sepolte nel profondo anche attraverso fabulazione e narrazioni autobiografiche. L’apprendimento (di una conoscenza) e la cura (di blocchi e ferite psicologiche) possono così procedere di pari passo. Con risultati evidenti sul benessere psicologico e la riuscita didattica (come nel caso del carcere raccontato dalla maestra Elvira Quagliarella) o di J., bimba rom che nei nostri laboratori parlava e socializzava, mentre a scuola non faceva mai sentire la sua voce e perciò veniva considerata un caso piuttosto grave (peccato che suo nonno sia scappato terrorizzato dalla richiesta anche nostra, oltre che della maestra con cui eravamo diventai complici, di mandare sua nipote da un logopedista). Esiti positivi che più di una volte ci è sembrato di riscontrate anche a livello puramente fisico, senza però avere elementi sufficienti a dimostrarne i nessi di causalità. Pochi dubbi restano sull’effetto di un modo simile di fare scuola su incremento del tasso di frequenza scolastica e motivazione endogena. Mutuando molto di quanto Bandura ha messo a fuoco rispetto ad autoeffi- cacia e salute. Ma è forse prima di tutto sulla nostra pelle di operatori che abbiamo verificato quanto i nessi tra il modo di apprendere e la salute siano strettamente correlati, e quali possibilità abbia un metodo come quello che andiamo sperimentando, in sintonia con le intuizioni della psicosomatica e della medicina integrata. In alcuni aspetti il metodo che stiamo vedendo realizzarsi attorno al Mammut ha similitudini con quanto avviene nel rapporto tra disegno e scrittura nel “metodo naturale”. Permettendo al bambino (o ragazzo, o adulto) di essere quello che è, colleghiamo una sua produzione (oltre che grafica anche pittorica, teatrale, manipolativa, ludica…) ad un apprendimento curriculare. Essendo tale produzione frutto di un portato emotivo profondo è a quel livello che l’apprendimento può mettere radici. Ma allo stesso tempo, permettendo al profondo (anche a quello rifiutato, rinnegato, dimenticato, ferito) di esprimersi in un contesto non medicalizzato, ma apparentemente finalizzato allo svolgimento di un compito (la scuola, il lavoro) migliora anche lo stato di benessere generale di chi apprende e di chi insegna. Stato di benessere frutto della risonanza con quanto fa da cornice a quest’esperienza di apprendimento/insegnamento: una storia dove possano agire archetipi in maniera autentica e il contatto con il cosmo nelle sue incarnazioni terrestri. Tra cui un gruppo di pari disposto ad accettarti così come sei e di cui sentirti compagno. Tutt’altro che prossime alla messa a punto di un “modello esportabile”, sono queste le caratteristiche comuni alle sperimentazioni raccontate in questo libro e di cui si sono giovati bambini, ragazzi e adulti a vario titolo coinvolti nelle nostre mammuttesche imprese. (g.z.) 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Antonio Bonato, Beatrice Borri, Maurizio Braucci, Ciro e Gioia del bar di fronte, Claudia Brignone, Bustric, Giuseppe Capasso, Vincenzo Caponaro, Giovanni Carbone, Pino Carbone, Peppe Carini, Marco Casale, Silvana Casertano e l’I.C. 28° “Giovanni xxiii-Aliotta”, Renato Casolaro, Valentina Cavinato, Cdr “Gatta Blu”, Maria Chiummariello, Alfredo Cicalese, il Comitato Spazio Pubblico, Francesco Cotroneo, Benedetta de Falco, Gabriella Delizzos, Gaetano Di Vaio, David Doris Doumakpé, Antonio Ferrara, p. Edoardo Fiscone, Goffredo Fofi, Aniello Galdi, Aps Garibaldi 101 e l’Itis “Leonardo da Vinci”, Luca Giaccio, Gabriella Giardina, Gianni Grasso, Paola Iaccarino Idelson, Yacoubou Ibrahim, Giordana Innocenti, Alberto Ippolito, Mirella La Magna, Martina Pignataro e il Gridas, Anna Maria Laville, Ana Rita Lopes Alves, Eduardo Lubrano, Alessandro Maffeo, Carla Mangione, Giovanni Marino, Marco Marino, Linda Martinelli, Cinzia Mastrodomenico, Mario Mastropaolo, Ciro Mattei, Olga Mautone, Mediterraneo Antirazzista, associazione MetisAfrica di Verona, Mister Piccolo e l’Arci Scampia, Federico Monga e Titta Fiore de “Il Mattino”, Gennaro Muto, Mary Osei e il centro Miriam Makeba, Vincenzo Montesano e il 5° C.D. “Eugenio Montale”, Domenico e Gaia Noviello, Steven Osedumme, Maria Federica Palestino, Patrizia Palumbo e l’associazione Dream Team, Teresa Petrucci e l’I.C. 58° “J.F. Kennedy”, Ilenia Picardi, Marco Pirone, Aurelio Raiola, Gianluca Raro, Monica Riccio, Carla Rabuffetti, Rosalba Rotondo e l’I.C. “Ilaria Alpi-Carlo Levi”, Nicola Ruganti, Sandro Saudino, Serigrafia Else, Mario Schiano, Paul Schweizer, Gianluigi Signorelli, Francesco Sivo, Andrea Sola, Lia Sommella, Annamaria Staiano, Assunta Staiano, Andreja Stevic, Claudio Tosi, UNS Crew, Ilaria Urbani, Eline, Isabelle e Mike van der Vijver, Gianni Vastarella, Vincenzo Vastarella, Livia Velleca, Nicola Villa e gli Asini, Wof Crew, Davide Zazzaro, l’VIII Municipalità del Comune di Napoli, camilla, i bambini e i ragazzi, i genitori, gli adulti, le maestre e gli insegnanti che hanno preso parte alle attività del Mammut e alla scrittura collettiva di questo libro. storie: biblio Anche il percorso dell’ultima edizione del Mito del Mammut si è dispiegato nell’intreccio trai racconti autobiografici dei bambini e i miti, le fiabe e le storie classiche che fanno ormai parte del nostro bagaglio, raccontati nella maniera più autentica possibile, senza sdolcinature, censure o edulcorazioni. Ecco la lista delle storie che abbiamo utilizzato più spesso: Alibabà e i 40 ladroni Il mito di Er e Il mito della caverna di Platone Giano Bifronte Orfeo ed Euridice Proserpina Dio che creò il mondo con l’aiuto del diavolo (fiaba zigana) Madre Luna e padre Lupo (racconto indiano) I viaggi di Gulliver di J. Swift Giulietta e Romeo di W. Shakespeare Davanti alla legge di F. Kafka annuario de “il barrito del mammut” periodico di ricerca e inchiesta pedagogica registrazione presso il tribunale di napoli n. 17 del 26 marzo 2009 direttore responsabile: annalisa vandelli issn 2281-4981 nucleo redazione: chiara ciccarelli, carmela de lucia, alessandra di fenza, clementina gambocci, elvira quagliarella, rossana sanges, tonino stornaiuolo, alessandra tagliavini, giovanni zoppoli testi di: yasmine accardo, margherita bellini, aldo bifulco, maurizio braucci, claudio caccavale, claudia cannavacciuolo, marco carsetti, chiara ciccarelli, riccardo dalisi, marisa damiano, dario stefano dell’aquila, carmela de lucia, alessandra di fenza, argentina dragutinovic, vincenzo esposito, enzo ferrara, giuseppe ferraro, grazia fresco, clementina gambocci, ivano gamelli, mirko grasso, sara honegger, daniela iennaco, daniela izzo, luca lambertini, franco lorenzoni, filippo mondini, luigi monti, ciro minichini, rosaria pica, marco pollano, elvira quagliarella, raniero regni, rossana sanges, francesca saudino, tonino stornaiuolo, alessandra tagliavini, giulia valerio, fabrizio valletti sj, giulio vannucci, nadia vembacher, giovanni zoppoli editing: luigi monti progetto grafico e disegni: luca dalisi altre immagini: i bambini e le bambine delle scuole partecipanti a ‘il mito del mammut’ redazione: piazza giovanni paolo ii, 3/6 80144 napoli tel. 081 701 1674 [email protected] www.mammutnapoli.org con il contributo di: comune di napoli, fondazione angelo affinita, fondazione mission bambini, tavola valdese – ufficio otto per mille Finito di stampare nel febbraio 2015 presso Alfa Tipografia – S. Sebastiano al Vesuvio (Na)