Come far passare un Mammut attraverso una porta (senza tirarla giù)

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Come far passare un Mammut attraverso una porta (senza tirarla giù)
centro territoriale mammut
come far passare
un mammut
attraverso una porta
(senza tirarla giù)
corpo, scuola e città
alla ricerca di una didattica salutare
a cura di
Giovanni Zoppoli
& Alessandra Tagliavini
edizioni del
a Piero Colacicchi.
Maestro e amico che sanamente
si occupò di campi rom, malattia mentale e carcere
tre. sperimentazioni. le porte
sommario
1. il mito del mammut
premessa • grazia honegger fresco
9
introduzione
11
mappa • alessandra di fenza e alessandra tagliavini
91
scAttiva. incontri per una scuola attiva • alessandra tagliavini 100
mappa generale di ricerca
104
2. porta del carcere
uno. da dove siamo partiti
da dove siamo partiti
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la porta eterna • maurizio braucci
il mito della caverna e il carcere • elvira quagliarella
una quinta nella caverna di platone • tonino stornaiuolo
115
118
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3. porta dell’aula: tra estetica e sostanza
due. il contesto
dove porta quella porta • rosaria pica
la scuola che esce dalla scuola • alessandra tagliavini
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1. ecosistema
box • ciro minichini
giro d’italia tra veleni e antidoti • enzo ferrara
saluti da castel volturno • filippo mondini
condomini • giovanni zoppoli
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39
43
2. città
la città dei bambini • alessandra di fenza
la dittatura della sicurezza • luca lambertini
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3. carcere
il carcere come luogo comune • dario stefano dell’aquila
carcere e territorio • fabrizio valletti sj
la porta del carcere • alunni della “virgilio 4”
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59
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4. e a scuola? scuola e salute
sana e robusta costituzione • vincenzo esposito
disegno dei bambini ed etnopsichiatria • giulia valerio
la scuola scende in campo • daniela iennaco
aiuto / sgarrupo • daniela izzo
66
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71
75
5. valutazione. dentro e fuori la scuola
radici di valutazione
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4. porta rom e migranti
una città piccola piccola • yasmine accardo
un’aula che raccoglie il mondo intero • clementina gambocci
teatro magia • giovanni zoppoli
campo scuola • argentina dragutinovic
porte di conoscenza • yasmine accardo
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140
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147
149
5. porta universo
un museo dei bambini a scampia • riccardo dalisi
giocare con i numeri • marisa damiano
tutti in cerchio • rossana sanges
la mia esperienza • carmela de lucia
storie: luci caverne geni euridici
158
160
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6. in piazza
osservazioni in piazza • chiara ciccarelli
il cerchio • nadia vembacher
l’orto
i viaggi di … • tonino stornaiuolo
adolescenti tra bici, strada e breakdance • chiara ciccarelli
193
200
203
204
208
7. in viaggio
il mammutbus • giovanni zoppoli
231
fare scuola con i giornali • alessandra di fenza
235
orfeo ed euridice sul soffitto della scuola • tonino stornaiuolo 238
quattro. radici per una didattica della salute
1. teorie
zanotti bianco, il maestro che cura • mirko grasso,
la scuola come luogo di rispecchiamento • franco lorenzoni
sulla porta del mito • giulia valerio
scuole d’esclusione, scuole d’eccezione • giuseppe ferraro
bellezza e cura nella scuola viva • sara honegger
il bosco come aula • raniero regni
per una pedagogia del corpo • ivano gamelli
non chiamatela arteterapia • margherita bellini
a scuola di notte • margherita bellini e marco pollano
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2. pratiche gemelle
educazione e artigianato • marco carsetti
pirati nella casa del bambino • filippo mondini
fare biciclette, fare educazione, fare città • giulio vannucci
corpo e pedagogia • claudia cannavacciuolo
il circolo “la gru” e la salute • aldo bifulco
mobilità critica • claudio caccavale
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298
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309
312
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cinque. conclusioni (provvisorie)
per una scuola salutare
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profili:
albert bandura
piero colacicchi • francesca saudino
ovide decroly
ivan illich • luigi monti
paul le boech
maria montessori • grazia fresco
rudolf steiner
bibliografia
243
154
198
286
64
228
89
328
premessa
Cari Amici,
vete intrapreso una strada non facile, ma preziosa non solo per
il vostro lavoro a Scampia, ma anche per dare coraggio a tutti quelli
che in tante altre zone della nostra bella quanto disastrata penisola sono alla
ricerca di soluzioni, contatti, invenzioni per star meglio nel lavoro quotidiano
con bambini e con ragazzi. Oggi sono in troppi a ricorrere a sistemi aggressivi
per ottenere da loro attenzione e risultati, ma quanto ci vuole per capire che
violenza genera solo violenza?
I nostri figli e allievi chiedono di essere ascoltati, di trovare cose davvero
interessanti da fare, di poter creare, inventare, partecipare. Per rinnovare la
scuola occorre rovesciarla da cima a fondo, persuadendo gli adulti a non assumere più il solito ruolo di padre-padrone o peggio da giudice/misuratore,
pronto a rivestire i panni di insindacabile accusatore, per diventare guida
prudente e delicata, con una robusta preparazione professionale, allo scopo di
trovare fonti di ispirazione in ambiti diversi.
L’attuale didattica, scarnita a furia di circolari e leggi insulse, ridotta a
esercizi dati solo per individuare i vincenti e i perdenti, non risponde più alle
esigenze di giovanissimi in un mondo in continuo e rapidissimo cambiamento. Il curioso è che, per procedere a passo sicuro verso il futuro non si può non
ricorrere a voci del passato, lontane e vicine – dalla Grecia antica (Sofocle?
Socrate?) al Rinascimento (Vittorino da Feltre, Tommaso Campanella o, non
ultimo, Giordano Bruno?) e poi i contributi dei secoli seguenti fino all’ultimo da poco concluso con la “mia” amata Montessori, ma anche Ferrière e
tutte le feconde proposte dell’educazione attiva, Freinet, Freire, Freud. Non
bisogna stancarsi di leggere, tornando sempre direttamente agli scritti originari, non contentarsi del “sentito dire”. Altro grande nutrimento si trova nella
grande poesia e nel teatro, antico e moderno, con le sue grida di libertà che
ha così di frequente espresso. La buona didattica nasce da menti ben nutrite,
che continuino ad alimentarsi dei pensieri e delle opere di uomini e donne che
hanno segnato passaggi luminosi, a volte senza nemmeno saperlo, nella storia
dell’umanità.
Ho letto in questi giorni un libro appena uscito che mi ha commosso e rallegrato: il diario di un maestro in una piccola scuola umbra, che – dopo il
lavoro in classe – legge e riflette, cerca soluzioni, si accorda con i colleghi e con
i genitori, esce spesso con i suoi allievi perché si possano immergere in mondi
– dagli Uffizi di Firenze al Guggenheim di Venezia ad esempio - solitamente
considerati “difficili” a livello di Primaria. Mi riferisco a I bambini pensano
grande di Franco Lorenzoni, amico vostro e mio, con esperienze così prossime
A
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alle vostre, che nelle sue pagine (edite da Sellerio) rivela la massima fiducia
verso di loro e insieme la capacità di tradurre in termini semplici, ma corretti
il pensiero complesso degli adulti. Bisogna innamorarsi dei propri allievi, dal
nido alla secondaria, come spinta iniziale per realizzare un buon lavoro in
cui anche un adulto senta di crescere, grazie anche al piacere che i loro occhi
e il gusto di impegnarsi esprimono. Questo, da quando avete cominciato a
Scampia nel 2007, avete saputo dimostrarlo in vari modi, attraverso il coraggioso giornale “Il Barrito del Mammut”, i vostri opuscoli, il “librone” che ha
preceduto questo (Come partorire un Mammut, Marotta&Cafiero 2011), gli
incontri di formazione, i nodi che avete intessuto in varie regioni, discutendo,
instaurando contatti in ogni direzione.
Ora proponete un passo ulteriore: far emergere l’intreccio tra scuola, territorio e salute, di rado presi in considerazione insieme (anche se, a livello di
primaria, si trovano molti spunti nei testi di Mario Lodi: altri diari significativi!). È urgente ormai una riflessione collettiva su di essi, una rinnovata
sensibilità che riguarda da vicino ciascuno di noi.
Grazia Honegger Fresco,
10
Castellanza (VA)
8 dicembre 2014
introduzione
Q
uesto librone è il proseguimento di un esperimento di scrittura
collettiva iniziato ormai otto anni fa con “Il Barrito del Mammut”, il
giornale cartaceo e on-line del nostro centro territoriale.
Il lavoro di “mungitura della realtà” portato avanti in diciotto mesi di ricerca-azione tra Scampia e il resto d’Italia trova spazio nelle pagine che seguono
grazie alle voci di bambini, ragazzi, maestri, medici, psicologi, professori universitari, preti, artisti, scrittori, attivisti sociali e culturali.
È stato un tempo prezioso e noi che c’eravamo dentro ce ne siamo resi conto.
Sapevamo che era un tempo “finale”, la coda del nostro pachiderma, dove
potevamo esprimere al meglio quanto imparato a essere e a fare nei sette anni
precedenti. Non ce lo dicevamo, eppure sapevamo che questo sarebbe stato un
tempo eccezionale, dove con sorpresa e meraviglia di operatori e “utenti” le
cose riuscivano finalmente bene e con una fluidità mai viste prima. Forse, scalzando sdolcinature e ipocrisie, la parola che sintetizza meglio questi 18 mesi è
commovente, nel senso più autentico della parola. È stato un “mettere appassionatamente in movimento”, un agitarsi insieme e in profondità di mamme,
bambini, ragazzi ma anche di tutti quei pezzi di città normalmente distanti,
come la stampa cittadina. Abbiamo insomma avuto la fortuna di vivere un
tempo privilegiato. Forse è sempre così quando una collettività casuale come
la nostra sperimenta, più o meno consapevolmente, una sacca di resistenza
con complicità profonda. Una complicità implicita, ma forte al punto da tenere unite persone molto diverse e distanti.
Non possiamo sapere cosa resterà di giornate tanto intense, né rientra nelle
nostre possibilità proseguire il lavoro oltre le condizioni materiali che ci sono
date. Questo libro è parte di quello che possiamo fare qui e oggi: restituire
attraverso la scrittura quanto abbiamo imparato dalle esperienze e dalle riflessioni di mesi. In verità se qualcosa abbiamo imparato lo dobbiamo anche
a questo libro, alla tensione di ricerca che ha accompagnato ciascuna delle
giornate e degli operatori anche in funzione della scrittura che ne avremmo
dovuto trarre. Esperimento ulteriore di equilibrio tra narrazione autentica e
narcisismo burocratico-spettacolare. Ma anche prova della necessità di una
letteratura pedagogica che sia frutto di un’esperienza diretta di apprendimento, anziché lettera imbalsamata che priva alunni piccoli e grandi della possibilità di viverla veramente, una reale esperienza di apprendimento.
L’impianto del testo è quello consolidato in questi anni con il lavoro del
Barrito. Partiamo dall’analisi dei contesti in cui le sperimentazioni sono avve-
11
nute, per poi fornire un racconto a più voci di tali sperimentazioni, corredato
da qualche elemento di “oggettività”, sempre frutto di un lavoro di ricerca, anche attraverso gli scritti di chi ha partecipato da lontano, perché in città o con
ruoli diversi, al lavoro di questi mesi. Vi proponiamo poi il bagaglio di teorie e
pratiche di cui ci siamo nutriti, un bagaglio costruito a partire dalle necessità
contingenti di lettura della realtà.
A differenza del precedente Come partorire un Mammut, questo testo
ha un tema specifico: il rapporto che lega didattica e salute. Tema nato da
una accalorata quanto allarmata riunione tra maestre e operatori intorno
all’emergenza rifiuti in Campania e alle difficoltà di una scuola che se ne cade
a pezzi. Centrare il tema non è sempre stato facile perché il rischio di scivoloni verso la spettacolarità della catastrofe o la cialtroneria medicamentosa era
sempre in agguato. Ma anche perché ormai pensare a un tipo di scuola che
basa il suo quotidiano su benessere e salute (di alunni e insegnanti) sembra
qualcosa lontano anni luce. Noi ci abbiamo provato e quelle che troverete sono
forse solo le prime abbozzate riflessioni, frutto del tentativo di rimettere in
moto una scuola generatrice di salute.
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uno. da dove siamo partiti
P
resentiamo in apertura una versione aggiornata di quello che abbiamo chiamato “metodo Mammut”, ovvero il nostro personale modo,
messo a punto attraverso il lavoro sul campo, di organizzare l’intervento educativo e sociale; l’insieme dei metodi, dei temi, degli strumenti, degli stati
d’animo che hanno accompagnato il lavoro di questi anni e che fungono da
cornice di senso delle pagine che state per leggere. Da questo modo di procedere
è nata anche la domanda – sul rapporto tra didattica e salute – a cui questo
“rapporto di fine ricerca” tenta di offrire qualche risposta.
quesiti fonte
Il Mammut è partito nel 2007 come ricerca-azione tra operatori provenienti
da differenti regioni italiane, intorno a tre domande:
1) sulle possibilità di dar vita a una cellula sociale efficace e al tempo stesso
ancorata e coerente ai valori di partenza del gruppo;
2) sulle possibilità di recuperare spazi pubblici di città a partire dalle pratiche della pedagogia attiva e della partecipazione sociale;
3) sulla possibilità di costruire una scuola nuova per adolescenti.
Tre nuclei di indagine che hanno trovato sintesi in una nuova domanda:
4) sulle possibilità di costruire una scuola generatrice di salute per persone
e territori. Quella di cui daremo conto nel capitolo conclusivo di questa
ricerca.
Tutte le esperienze e le riflessioni di questi anni, anche quelle contenute
in questo libro, hanno avuto la finalità di sperimentare e convalidare ipotesi di cambiamento relative ai nuclei d’indagine sopra enunciati.
In questi ultimi due anni abbiamo messo alla prova il metodo di ricercaazione descritto in Come partorire un Mammut (senza rimanere schiacciati
sotto). L’abbiamo fatto tanto a Scampia quanto nelle altre occasioni di formazione realizzate in giro per l’Italia, lavorando con altre équipe, spesso
assai diverse tra loro e da noi. In tutte queste circostanze ci sono sembrate
evidenti alcune costanti che cercheremo di riassumere.
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sulla metodologia di ricerca
Impostare un lavoro di ricerca-azione in maniera rigorosa aiuta prima di
tutto l’azione e la solidità dell’équipe. Fare ricerca significa per noi partire
dai temi “caldi”, dai nodi problematici del nostro lavoro, scovando le risonanze con quelle vicende che ci riguardano nell’intimità, nel tentativo di
far evolvere insieme sfera personale e sfera professionale.
Le tappe del “metodo Mammut” sono andate definendosi in questi termini:
Uno
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a) analisi condivisa del contesto in cui si opera
Analisi che deve essere fatta dall’intero gruppo, in maniera dinamica,
affinché l’équipe sia sempre pronta a cogliere mutamenti piccoli o grandi
in ciò che lo circonda. Strumenti e approcci dell’antropologia, della sociologia e della psicologia sono indispensabili per procedere in questa prima
fase. Analisi del contesto che per i gruppi che lavorano nel terzo settore
risulta fortemente compromessa da due ordini fattori: l’intreccio perverso tra l’esigenza di presentare un quadro tragico del contesto (ai fini di
“toccare” il possibile finanziatore) e i tratti caratteriali del “salvatore” che
spesso connotano (secondo la descrizione del “triangolo drammatico” di
Karpman) chi fa il nostro lavoro.
Con la progressiva riduzione dei finanziamenti pubblici, la possibilità di
mettere in campo azioni sociali sta ancora di più nella capacità di attirare
risorse. Lo Stato, il popolo della rete, le aziende, i semplici cittadini sembrano ormai disposti a metter mano al portafogli solo in caso di “tragedia”.
Da qui l’obbligo per chi in un’organizzazione del terzo settore è preposto al
reperimento di risorse di calcare la mano sull’elemento tragico del contesto
in cui vorrebbe far confluire i finanziamenti.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, quello costituito dal tratto caratteriale corrispondente al “salvatore”, non possiamo che rimandare, per
ragioni di spazio, alla letteratura afferente alla psicologia della Gestalt, dove
bene viene messa in evidenza la necessità per chi si occupa di relazioni di
aiuto di uscire dal triangolo vittima-salvatore-carnefice. Triangolo rientrante nel più generale schema dei “giochi” descritti da Eric Berne, invito
ad acquisire almeno la consapevolezza delle ragnatele di cui si è co-tessitori.
Il primo scoglio per un lavoro di ricerca-azione sta appunto nel superamento di questa pericolosa sovrapposizione tra esigenze di marketing
dell’organizzazione e tratti caratteriali degli operatori che vi lavorano. Scegliere di formarsi attorno ad un modello di ricerca-azione come quello da
noi sperimentato con il Mammut, significa decidere di mettere in discussione entrambi gli aspetti. Essendo disposti anche a correre il rischio di
rinunciare alla propria azienda o al lavoro di educatore. Sull’altro piatto
della bilancia la possibilità di una crescita autentica, tanto della propria organizzazione quanto dei membri che la compongono, con azioni di gran
lunga più efficaci e in grado generare relazioni più autentiche e sane con i
destinatari dell’intervento.
Altro elemento di criticità è costituito dall’immersione totale nel “fare”
e la delega del “pensare” (dell’analisi e della critica) ai fantomatici “esperti”. Adottare un modo di fare ricerca come quello che abbiamo vissuto in
questi anni con il Mammut vuol dire infatti prima di tutto affrontare il
proprio rapporto con la scrittura. Ogni volta che abbiamo messo maestre/i
o educatori/trici di fronte a una richiesta di scrittura abbiamo riscontrato
qualcosa di molto simile a un vero e proprio blocco, le cui radici erano
rintracciabili nel passato scolastico. Un passato quanto mai “attuale” nella
vita di queste persone, dove la costante è la valenza che alla scrittura viene
ancora data dalla collettività: la capacità di scrivere, di “prendere la parola”, richiama in maniera diretta quanto diremo in seguito su giudizio e
valutazione e rimane prerogativa di pochi eletti. Con criteri selettivi legati
più che all’effettivo saper scrivere al mercato (un mercato dell’editoria che
sta collassando) e al grado di affiliazione con il mondo accademico. Chi fa
il maestro o l’educatore non rientra generalmente in quei “pochi” (salvo
fenomeni da baraccone mediatico). Il nostro fare ricerca è dovuto passare
perciò prima di tutto attraverso un serrato lavoro di empowerment, nel
recupero della possibilità di scrittura come facoltà “normale” dell’essere
umano, non necessariamente legato alla gloria né a intelligenza e genialità
eccezionali.
Difficoltà oggettive risiedono poi nel doppio ruolo di “attore” e “scrittore” della realtà, con le tante implicazioni anche rispetto agli “utenti” e ai
poteri forti dei territori in cui si opera. Eppure il lavoro che abbiamo portato avanti negli otto anni di Mammut conferma che attrezzandosi opportunamente per affrontare queste e altre criticità, la possibilità che hanno i
soggetti coinvolti in processi educativi (bimbi, ragazzi, insegnanti, educatori che siano) di mettere a fuoco un’analisi di contesto lucida e veritiera
sono sorprendenti. Proprio perché basate sulla conoscenza diretta di realtà
complesse, e sull’esperienza in prima persona.
Rifuggendo le trappole e i blocchi di cui sopra, il lavoro di analisi del
contesto e scrittura collettiva a opera di insegnanti e educatori si dimostra
perciò tra le ultime possibilità di fornire una versione dei fatti aderente alla
realtà anche in contesti marginali. Sappiamo quanto bisogno ce n’è, visto il
vuoto lasciato da chi – giornalista, ricercatore sociale o antropologo – riusciva un tempo a dedicare le dovute energie al racconto della “città”.
Metodi
17
Uno
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b) le domande
Focalizzare bene le i nodi critici che interessano davvero all’intera équipe. La pedagogia attiva insegna che perché ci sia reale apprendimento è
necessario partire da ciò che incuriosisce e interessa veramente. E questo
vale tanto per chi apprende che per chi insegna.
Mentre nelle sperimentazioni messe in campo con i bambini e i ragazzi
le domande nascevano dagli aspetti più svariati dell’esperienza, in quelle con gli operatori (noi compresi) l’interesse a cui abbiamo dato spazio
nasceva dalla necessità di evolvere situazioni di lavoro difficili. Da quelle
criticità capaci di stimolare intellettualmente, ma che poi difficilmente si
riuscivano a superare nel concreto. In questa direzione la ricerca-azione ha
mostrato tutta la sua efficacia: fare ricerca implica prendere una certa distanza e mettersi a osservare la realtà (anche quella nella quale si è impantanati) da angolature differenti. Fare ricerca in questo senso ha acquisito per
noi anche un valore “terapeutico”, supervisione di gruppo senza un super
visore guru.
c) la mappa
L’azione successiva consiste nel trasformare le domande di partenza in
ipotesi da verificare, e da queste articolare una mappa di ricerca fatta di
obiettivi realizzabili attraverso azioni da mettere in campo. Anche in questo caso si tratta di una mappa sempre in evoluzione, come sottolineeremo
nelle pagine dedicate al “Mito del Mammut”. Più che uno schema tecnico
è necessaria una postura ben precisa perché si possa lavorare a una mappa di ricerca. Serve cioè un’ incrollabile resistenza nel procedere attraverso
prove ed errori; quello che alcuni chiamano ragionamento scientifico, altri
filosofico, altri ancora “cadendo s’impara”. Nel nostro “metodo” la mappa
non è qualcosa di lontano dal contesto, di astratto e teorico. Al contrario
ha senso se è una filiazione diretta del contesto e rimane rotta per chi vi naviga. L’importanza data alla serendipità fa meglio capire il senso che diamo
alla parola mappa: un’attenzione orientata che permette di scoprire anche
ciò che non si sta cercando. Sempre che si conservino adesione alla realtà e
apertura di sguardo.
d) sistema di monitoraggio
Anche questa fase è tutt’altro che facile. Consiste nell’osservare, il più
oggettivamente possibile, tutti quegli elementi che confermano o smentiscono le nostre ipotesi di partenza. La letteratura in materia è quanto mai
vasta, ma forse la possibilità che questa fase risulti efficace sta ancora una
volta nell’autenticità. Autenticità delle domande da cui ha preso le mosse la
nostra ricerca-azione, prima di tutto, della loro aderenza alle persone e al
contesto in cui si interviene. In questo caso vale quanto alcuni approcci (in
particolare quello montessoriano) ci hanno insegnato relativamente all’autovalutazione: non c’è nessuno più severo dell’alunno stesso nel valutare
la propria prestazione. Sempre che sia messo nel giusto clima e che abbia
a disposizione gli strumenti adeguati, come avremo modo di evidenziare
nelle pagine dedicate alla “valutazione”.
Clima e strumenti di autovalutazione costituiscono quindi gli ingredienti principali per questa fase. Ricordandosi ancora una volta che l’educazione è un’arte e non un calcolo matematico, e che il ruolo prevalente e
definitivo spetta in ultima istanza a quella che Betty Edwards definisce la
“funzione destra” del cervello, basata su intuito e percezione globale. Diari di bordo, griglie osservative, indicatori quantitativi, ma anche “tracce
grigie” come disegni, mostre, feste di piazza sono alcuni degli strumenti
affinati negli ultimi due anni della nostra ricerca ai fini di una valutazione effettiva. Attenti il più possibile a non lasciarci distrarre dalle invadenti
richieste della rendicontazione burocratica e della società dello spettacolo.
e) condivisione
L’importanza di finalizzare il proprio percorso di ricerca alla realizzazione di un “prodotto finale” è stata un’altra acquisizione di questi anni.
Sapevamo bene che la cosa più importante era il percorso, ma abbiamo
meglio messo a fuoco quanto importante fosse anche il prodotto. Non il
prodotto in sé, per carità. Rimangono da evitare, perché nocive oltre che di
cattivo gusto, la stragrande maggioranza delle orribili recite e saggi di fine
o metà anno, tentativi degli adulti di scimmiottare l’industria dell’intrattenimento televisivo, senza possederne i mezzi, il guizzo artistico e le professionalità necessarie. Così come sarebbe opportuno non rendersi complici
delle parate di fine progetto in ossequio a richieste di bandi o di finanziatori particolarmente narcisisti.
Parliamo piuttosto dell’importanza che abbiamo imparato a dare a quel
tipo di prodotto da cui nasce una tensione positiva del percorso, nella consapevolezza che i propri frutti verranno assaporati anche da altri. Le feste legate ai cicli astronomici, le premiazioni e le giornate conclusive del
Mito e dei concorsi del MammutBus, la realizzazione di un libro (come nel
percorso “STAR - Strategy To Advocate Roma integration in Italy”, con il
Comune di Napoli, o “Lenti a contatto”, con la Ong Intervita) o di un cdrom (come con Casa in piazzetta di Pistoia) e gli altri “prodotti” di cui parleremo nel resto del libro: fattori fondamentali per la qualità del percorso
stesso, nonché doverose restituzioni alle comunità di riferimento.
f) riprogrammazione
Il bello di questo lavoro è che non finisce mai, ma sempre si evolve a
contatto con quanto di reale e attuale c’è. Se una mappa è autentica non
Metodi
19
Uno
può che generarne una nuova ogni volta che, al termine di un percorso, la
si rivede con il gruppo, a partire da una visione del contesto di riferimento
rinnovata, aggiornata e corretta.
Tra le difficoltà principali di procedere con questa metodologia ci sono
quelle legate alla scarsità di risorse. Già in precedenza abbiamo messo in
luce quanto difficile possa essere per un operatore preso dal “fare” trovare tempo ed energie per osservare, trascrivere, riflettere e trarre astrazioni
teoriche dal proprio intervento. In questi anni di crisi aggiungiamo una
considerazione ovvia: un operatore che non abbia un contratto che vada
oltre i sei mesi, costretto a fare almeno due lavori e in cerca costante di
opportunità occupazionali più solide non si trova certo nelle condizioni
migliori per svolgere un’attività di ricerca come quella che abbiamo tratteggiato finora.
Ma questo ha a che fare con la prima delle nostre domande, quella sulla
possibilità di dare vita a una cellula sociale efficace (e sostenibile) e ancorata ai valori di partenza del gruppo.
1) sulla cellula sociale
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Questa domanda racchiude gran parte delle istanze intorno a cui, otto
anni fa, si è coagulato il nostro gruppo di lavoro: la costruzione di un’organizzazione davvero incisiva ma non lontana dai valori che ci avevano
animato fino ad allora. Erano quelli anni in cui molti di noi uscivano da
esperienze dispendiose, in termini di tempo e di energie, e poco efficaci, in
termini di risultati. Anni però in cui sembrava ancora possibile la scommessa di un intervento sociale capace di generare benessere e, al tempo
stesso, di garantire condizioni lavorative dignitose a chi ci si dedicava.
In questi otto anni abbiamo probabilmente assistito a una rivoluzione
copernicana del nostro welfare, con una quantità incalcolabile di morti e
feriti lasciati sul campo. Su questi temi la nostra ricerca si è arricchita grazie
ai percorsi di formazione realizzati con gruppi che operano in diverse parti
d’Italia, e al decisivo contributo della rete de “Gli asini”, la rivista pedagogica all’interno della cui area va collocata l’intera esperienza Mammut.
Rinviamo perciò ai molti articoli che su questa rivista hanno riportato considerazioni nostre e dei tantissimi attivisti che sulla crisi del sociale hanno
detto la propria attraverso pagine capaci di coraggio e respiro internazionale.
Se ci voltiamo indietro e osserviamo l’esperienza del Mammut di questi
anni ci sentiamo di considerarla un’anomalia di sistema. Una felice (dal
nostro punto di vista, ovviamente) convergenza di coincidenze pubbliche
e private, che hanno permesso alle nostre avventurose sperimentazioni pedagogiche di esistere tra le pieghe di un sistema che ne era strutturalmente
refrattario. Se non ci fossimo incaponiti sin dall’inizio, il progetto Centro
territoriale Mammut (partito con un importante finanziamento regionale)
sarebbe probabilmente morto già dopo il primo anno di attività. Dando
così ragione alla stampa scandalistica e ai tanti “competitor” più anziani,
quelli che avevano gridato allo scandalo per un finanziamento affidato a
degli sconosciuti; conferma di un sistema “chiuso” e intimamente disposto
allo spreco piuttosto che all’innovazione.
Invece il Mammut ha costituito in questi otto anni di esistenza un’effettiva cellula sociale, capace di equilibrio tra efficacia e radicamento valoriale. Sappiamo quanto queste parole possano suonare autoreferenziali,
ma abbiamo prestato attenzione, senza narcisismi ma nemmeno tendenze
autolesioniste, ai risultati ottenuti, a cui offrono riscontro, tra l’altro, fonti
diverse e autorevoli. Del resto l’impianto di ricerca sopra descritto, in cui
le griglie osservative e i diari di bordo di questi anni risuonano ricche di
“prove”, ha dimostrato un incremento di efficacia ed efficienza (siamo passati ad esempio dagli oltre venti operatori remunerati del primo anno ai soli
cinque dell’ottavo, arrivando in molti casi a triplicare la quantità di attività
svolte e di persone coinvolte, con miglioramenti significativi anche nella
qualità dell’intervento stesso).
È stato forse proprio a causa della “crisi” che la sperimentazione del
Mammut ha potuto fare leva su disponibilità istituzionali prima insperabili
(oltre che su quella di operatori innamorati del proprio progetto). Ma alla
fine i nodi vengono al pettine e la decisione di preservare nei valori originari, in primis la possibilità di riservare ai lavoratori, tutti, un trattamento economico dignitoso, presenta il suo salatissimo, insostenibile, conto.
All’ottavo anno di attività è diventato cioè impossibile sostenere il costo
di un’organizzazione basata su garanzie economiche e giuridiche minime
per i propri lavoratori. Il ritardo con cui avvengono i pagamenti da parte
degli enti pubblici, il sistema sui cui si reggono i bandi pubblici di finanziamento (che prevede ad esempio notevoli capacità di anticipare grandi
quantità di denaro per l’ente vincitore) tra l’altro di nuovo vinti “al ribasso”, l’inasprimento della conflittualità tra associazioni per la riduzione delle risorse, l’imprevedibilità di un terzo settore al collasso sono solo alcuni
dei fattori che ci hanno costretto a scegliere costantemente tra un normale
trattamento economico dei lavoratori e la solidità finanziaria dell’organizzazione. Per otto anni siamo riusciti più o meno a conciliare queste due
cose, pagando pesanti costi, non solo a livello di fatica personale. Oltre non
abbiamo voluto andare, convinti che il compromesso avesse superato una
soglia inaccettabile.
Siamo arrivati nudi alla meta, proprio nel momento in cui le due esigenze della nostra cellula sociale (efficacia e ancoraggio ai valori di partenza)
sembravano non essere più conciliabili. E ad aiutarci è stato ancora una
Metodi
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Uno
22
volta il nostro lavoro sui miti, quelli di passaggio a cui abbiamo lavorato
negli ultimi due anni. Dopo le decine di racconti di morte e risurrezione
rivisitati con bambini e maestri non potevamo non aver imparato la lezione: per rinascere è necessario lasciar morire quello che è già morto e non
rimanerci attaccati. Dunque ancora una volta una scelta di fondo, quella di
cui parleremo tra poco.
Eppure a Napoli, in questo inverno 2014, sembra essere tornata una parvenza di normalità nel bilancio comunale e anche il sociale ha ricominciato
a girare. Rispetto al picco minimo di qualche mese fa, il welfare comincia risalire la china. Almeno rispetto agli ultimi anni in cui le associazioni
avevano iniziato a non presentarsi nemmeno più ai bandi comunali: più
di una volta i tempi di assegnazione da parte del Comune superavano la
scadenza stessa del bando, per non parlare dei pagamenti che arrivavano a
distanza anche di cinque anni. Se la Regione rimane latitante, oggi almeno
i pagamenti comunali vengono effettuati di nuovo nell’arco di un anno, e
questo, alla luce del recente passato, sembra già molto.
Ma è successo anche a Napoli quello che sta accadendo nel resto d’Italia.
La ripartenza è legata ad un ulteriore abbassamento del sistema di garanzie
giuridiche e del trattamento economico riservato agli operatori, a fronte di
una mole di lavoro crescente e, nella sostanza, difficilmente realizzabile,
concentrato più sulle esigenze del controllo e del contenimento sociale che
sullo sviluppo e la crescita delle persone e delle comunità in cui vivono.
Abbiamo verificato sulla nostra pelle che la possibilità reali per le organizzazione di andare avanti risiedono in un nutrito ufficio amministrativo
interno, capace di prodezze finanziarie, e di un buon ufficio marketing che
sappia intercettare fondi (oltre che clientele politiche, secondo meccanismi
di vecchia data). Mentre sempre meno valore hanno le effettive capacità e
qualità del lavoro deli operatori. Del resto è un cane se si morde la coda:
se non si riescono a fare contratti al di là dei sei mesi, che utilità ha per
l’azienda investire in formazione? Ed è forse questa la nota che lascia più
avviliti (e che mina maggiormente la qualità dell’intervento). È ormai radicato tra gli operatori il senso di rabbia e frustrazione di chi sa di non
poter vedere migliorata la propria posizione lavorativa, e non solo perchè
le organizzazioni sindacali che abbiano davvero preso a cuore le sorti di
questa categoria (esiste una categoria “educatori” specificamente tutelata
in quanto tale?) costituiscono un’assoluta rarità. Un sindacalismo senza
sindacato potremmo definirlo, che porta spesso a situazioni davvero tristi,
dove l’identificazione con la vittima è realizzata a pieno, oltre che a livello
psicologico, anche per le condizioni economiche oggettive nelle quali molti
di questi operatori sono venuti a trovarsi (e dove a resistere sembra solo la
fasulla convinzione di una “superiorità sociale” conseguente alla propria
posizione da educatore rispetto all’educando).
Ragionamento questo che rimanda a dissertazioni di portata più ampia
sul mercato del lavoro in generale, potendo noi limitarci soltanto a registrare quanto osservato nella nostra piccola esperienza da Mammut. In ciascuna delle regioni italiane nelle quali abbiamo lavorato, abbiamo incontrato
quasi sempre un settore pubblico che riesce a mantenere il proprio sociale
grazie alla programmazione sistematica di condizioni lavorative infime per
quegli operatori che riceveranno incarichi nei servizi esternalizzati. Se fino
a qualche tempo fa basare l’esistenza economica della propria organizzazione su precarietà e trattamento economico-giuridico poco favorevoli per
il lavoratore sembravano prerogative del “privato”, oggi non è più così.
Le speranze che molti di noi avevano riposto in questa crisi, e cioè nelle
possibilità di cambiare le pratiche e la cultura del welfare mantenendo però
la sua tensione universalistica, si sono rivelate al momento caduche. Con
grande tristezza abbiamo assistito spesso a un sociale ridotto al mero accattonaggio istituzionale, lacchè dei potenti (per usare le parole di Goffredo
Fofi), con la prevalente preoccupazione di un’immagine da curare all’eccesso ai fini della commercializzazione del proprio prodotto e con spese di
struttura che si mangiano ogni possibilità di intervento qualitativamente
alto. In molti casi abbiamo avuto la sensazione di essere finiti in una situazione dove il sociale sta piano piano per essere sostituito dai meccanismi
peggiori della cooperazione internazionale nelle mani di poche ONG (vedi
a riguardo il bell’articolo di Domenico Chirico Le multinazionali del bene,
in “Lo Straniero” n.160, ottobre 2013). All’uscita dal tunnel (che è ancora piuttosto lungo) si intravede la possibilità di sopravvivere se si diventa
bravi a rendicontare e a vendere il proprio prodotto, disposti a sacrificare
la maggior parte delle energie e del tempo della propria organizzazione al
soddisfacimento di procedure burocratiche kafkiane o al tentativo di far
coincidere il lavoro educativo con quello di una fabbrica di produzione in
serie.
Tornando a noi, per la nostra scelta di rinascita non ci è restato che guardare a quanto rimasto al di fuori di tutto questo. E cioè, esattamente come
facemmo otto anni fa, ripartire da valori e spinte ideali e pendere spunto
da quelli che ci sembrano nascenti modelli organizzativi post-centro sociale, ma anche post-azienda terzosettoriale. Come la biblioteca di quartiere
“Booq” di Palermo, dove l’aggregazione nasce dalla consapevolezza e necessità di unire sforzi e energie ai fini del miglioramento della vita individuale e collettiva).
Organizzazioni senza più assistiti né assistenti, basate sulla convivialità
proprio come suggeriva Illich un bel po’ di anni fa. Ed è a questa possibilità
che stiamo rivolgendo attualmente i nostri sforzi, naturale evoluzione di
quello che è stato il nostro progetto.
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Presa coscienza del fatto che non esiste più un pubblico che possa star
dietro a sperimentazioni come quella realizzata dal Mammut negli anni
passati, abbiamo cercato di trovare una soluzione nuova, con le parti di
città (anche dentro alle istituzioni) non ancora annientate dalle dinamiche terzosettoriali più nefaste. Con gli adulti, i ragazzi, i bambini e le altre
persone del quartiere che in questi anni si sono aggregate al Mammut, abbiamo deciso di avviare l’esperimento di una nuova cellula sociale. Privata
del carattere di “servizio” pubblico, ma potenziata dalla natura di luogo
aperto, basato sul mutuo aiuto e sulla realizzazione di passioni e talenti,
caratteristiche che da sempre fanno parte della nostra “scuola”. Ed è stato
bello trovare proprio nei gruppi di breaker e writer un nuovo nucleo di
ripartenza. Una via del tutto aperta, visto che nel momento in cui scriviamo non riusciamo ad azzardare ipotesi sulla sua realizzabilità, ma solo
a condividere quanto fertile e interessante si sta mostrando questo nuovo
tentativo, anche solo dal punto di vista teorico. Durante le riunioni con
mamme, ragazzi, assessori, funzionari, Sindaco… di cui questo tentativo è
costituito, ci rimbombava nella testa l’eco dei dibattiti tra anarchismo e statalismo, tra fiducia assoluta e sfiducia nera nello spontaneismo e nell’autorganizzazione. Intuiamo che questo tentativo potrà andare a buon fine solo
se i cittadini e i politici che vi stanno partecipando riusciranno a assumersi
il proprio pezzo di responsabilità, e con essa tutti i rischi che comporta. Si
tratta ancora una volta di avere un’idea di città a cui tendere, sganciandosi
però dall’ideologia che ingabbia, dall’assistenzialismo e dalla vigliaccheria
istituzionale. Non potendo che rimandare i nostri lettori ai futuri numeri
del Barrito, ci accontentiamo per il momento di condividere la bellezza e la
forza di questa nuova avventura.
Il “Centro ricerche Mammut” e i suoi servizi (il MammutBus, la rivista
“Il Barrito del Mammut” e le altre proposte didattiche, formative e per il
tempo libero messe a punto in questi anni) costituiscono infine il tentativo
di proseguire la nostra sperimentazione anche sul piano professionale, nella
convinzione che una base nomade mette al riparo da molti dei mali riservati agli stanziali. Un centro territoriale stabile e dall’offerta diversificata non
può che essere “servizio pubblico”, specie in quartieri cosiddetti “difficili”.
Degli ingenti costi fissi e non “imprenditorializzabili” propri di un servizio
pubblico può farsi carico solo il pubblico. L’organizzazione preposta alla
gestione professionale del centro deve cioè potersi dedicare pienamente al
suo compito, nella tranquillità di contare su una struttura finanziaria certa,
frutto di una volontà ferma da parte delle istituzioni locali. Cosa che del
resto ancora avviene in molti settori pubblici.
Ed è per questo che la nostra sperimentazione di cellula sociale segue ora
due possibilità:
• l’attualizzazione dell’attivismo di base pre-terzosettoriale, come possi-
bilità di mantenere un presidio di senso nei locali di Scampia dove finora ha
avuto sede il Centro territoriale Mammut;
• proseguire la sperimentazione professionale, ampliandola e sganciandola dal bisogno di una struttura pesante, attraverso un tentativo itinerante
di costruzione di una scuola “fuori classe”.
Andare in giro e intrecciare la propria ricerca con quella di gruppi a loro
volta “in ricerca” non ha bisogno di strutture pachidermiche, potendo al
limite basarsi anche sulla totale gratuità. Fare rete vera e permettere di toccare con mano la possibilità di vivere strade e piazze (anche facendo scuola
e senza ansie securitarie) sono del resto le due vere priorità che la nostra ricerca ci consegna. E a noi piace pensare che con un MammutBus ci si possa
lavorare meglio. Continuando a farne esperienza di scrittura collettiva.
Considerazioni tutte che tracciano la strada per un ritorno a una critica
sociale ancor più serrata. E portandoci a casa una importante consapevolezza, che poi è il nocciolo della nostra scelta di rinascita: non vale la pena
sprecare la propria esistenza per dimostrare quanto le istituzioni facciano
schifo. Prima di tutto perché non ce n’è bisogno, e poi perché per noi lasciare in giro semi di utopia rimane la cosa più bella e utile che si possa fare,
anche continuando a cercarne la possibilità tra le pieghe (momentanee) di
un sistema istituzionale in cui seminare fertili anomalie.
In questi anni abbiamo capito fin troppo bene quanto importante possa
essere non far coincidere la propria esistenza con quella di un progetto. Per
il bene di entrambi, perché viene il momento in cui bisogna decidere quale
delle due sacrificare, e tanto la psicologia quanto l’economia offrono al riguardo indicazioni chiare sulla necessità di non identificarsi con il proprio
lavoro e tantomeno con l’ente che lo attua.
Se è infatti evidente che il problema non sta (solo) nella scarsità di fondi per il sociale e per la ricerca ma prima di tutto nel modo in cui i soldi
vengono spesi, è altrettanto evidente che di risorse per il sociale forse non
ce ne sarebbe così tanto bisogno se venissero prese decisioni radicalmente
diverse su ciascuna delle voci alla base dell’organizzazione di uno Stato, a
partire da quelle di bilancio generale (di Stato, Regioni e Comuni), oltre
che del mercato del lavoro, delle politiche migratorie, di quelle sanitarie,
scolastiche, della pubblica amministrazione. È anche per questo che vale la
pena continuare a lottare sui temi di base della giustizia sociale. Possibilmente in maniera efficace.
2) e 3) sulle possibilità di recuperare spazi pubblici e realizzare una
scuola per adolescenti
Affrontiamo insieme queste due domande perché ognuna delle sperimentazioni messe in campo in questi anni ha forgiato un metodo basato
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sull’intreccio tra “fare scuola” e “fare città”. Già nelle pagine in cui abbiamo parlato della situazione attuale di Piazza Giovanni Paolo II, dove il
Mammut ha avuto la sua sede, abbiamo avuto modo di soffermarci sull’argomento.
Essere passati dalla difficoltà estrema nel convincere le scuole anche solo
a fare laboratori all’interno delle proprie aule, all’impossibilità di soddisfare le richieste di tutte le insegnanti che volevano venire a fare lezione
nella piazza di Scampia, la dice lunga sulla strada percorsa in questi anni.
L’intero Mito VII edizione di cui parleremo nel seguito di questo testo, è
frutto del coinvolgimento delle maestre nel lavoro di recupero della piazza
e di altri spazi cittadini.
Focalizzare l’attenzione sugli spazi pubblici possiede molti aspetti positivi di cui abbiamo scritto e parlato spesso, ma anche aspetti fortemente
negativi. Ad esempio la difficoltà a far percepire uno spazio davvero come
“pubblico”. Il meccanismo appropriativo scatta molto facilmente e chi si
prende cura di un giardino, di una strada, di locali abbandonati fa presto a
considerarli suoi. La confusione tra spazio proprio e spazio di tutti è tanta,
e i molti anni di retorica istituzionale e accademica sull’argomento non
hanno migliorato i termini della questione. Basta guardare ai tantissimi
progetti urbanistici e didattici in cui il cattivo gusto e la dubbia professionalità degli adulti viene camuffata attraverso inesistenti progetti di partecipazione urbana.
Occuparsi di carcere, migranti, scuola, inquinamento ambientale (non
in astratto ma a partire da vissuti personali e oggetti esterni ben identificati) ci ha invece permesso di compiere uno scatto importante. Di certo in
questi casi la possibilità di verificare il proprio lavoro è meno immediata e
oggettivabile di quando ci si concentra sulla trasformazione di uno spazio
fisico. Eppure il grado di coinvolgimento e la potenzialità trasformatrice
riscontrate sull’ordinario scolastico subiscono un salto di qualità notevole.
Certamente ha aiutato questa impresa lo sfondo integratore scelto lo scorso
anno per tutti i nostri interventi, quello della “porta”. A conferma di uno
degli aspetti centrali del nostro metodo: l’utilizzo di miti e archetipi come
scenari simbolici del cambiamento sociale.
L’altro elemento che a questo punto ci sembra decisivo ai fini di una
scuola per adolescenti efficace sta nel viaggio. “Corridoio” fu il nome dato
alla sperimentazione iniziale del Mammut nell’area adolescenti. Si basava
su progetti individualizzati e viaggi fuori regione nelle città dove avevamo
organizzato una rete di supporto. Tutti i questi percorsi (che negli otto anni
hanno coinvolto oltre 100 minori tra viaggi individuali e di gruppo) hanno
confermato la potenza educativa del viaggio. La verifica effettuata sul lungo
periodo con ciascuno dei partecipanti, ci ha permesso di toccare con mano
quanto l’esperienza di spaesamento che avevano vissuto avesse contribuito
a una svolta decisiva nella loro vita. Se il viaggio rimane importante in una
scuola per i bambini, dalla nostra ricerca è risultato un elemento indispensabile in una scuola per adolescenti. Che forse proprio sul viaggio andrebbe
re-impostata.
Quando nella festa d’autunno 2014 del Mammut abbiamo visto radicalmente cambiati i ragazzi che solo un paio d’anni fa venivano a buttare
pietre, a spaventare i più piccoli, a distruggere auto e altri beni nostri o del
gruppo, abbiamo capito quale valore possa assumere un intervento sociale
basato sulla trasformazione di uno spazio pubblico. Quei ragazzi, insieme
a molti altri, sono diventati uno dei fattori che ci hanno consentito di lavorare in quel luogo, difendendo noi e le attività portate avanti e facendosi
veicolo di contagio dei valori in cui crediamo con altri coetanei del quartiere. E questo vale soprattutto per chi ha conosciuto il carcere, con un attaccamento e un’affezione al Mammut che ci ha lasciati pieni di meraviglia.
Aver investito così tanto su quest’area, nella ferma convinzione di dover
creare autonomia e non dipendenza, permette oggi al nostro progetto di
centro territoriale di continuare a vivere attraverso un normale ricambio
generazionale. Ma anche questo rimanda alle riflessione fatte sulla cellula
sociale: restituire spazi al quartiere, in primis ai suoi giovani, non è possibile se l’organizzazione fa la scelta di occuparli stabilmente, per motivi di
economia aziendale o altra ideologia.
Di certo si tratta di processi lunghi, i risultati più significativi abbiamo
cominciato a vederli dopo sette anni. Risultati estendibili un po’ all’intero quartiere. Sappiamo bene che il Mammut ha solo una piccola parte
del merito, ma quello che è avvenuto negli spazi pubblici di Scampia nei
vent’anni in cui vi abbiamo operato è probabilmente il cambiamento più
evidente. Quanto leggerete di Aldo Bifulco sul lavoro del circolo La Gru a
Scampia è un apice di questo cambiamento, con un numero molto alto di
spazi recuperati dai semplici cittadini. Più in generale sono le strade stesse a essere cambiate: non si percepisce più come cosa normale la grande
quantità di siringhe e di persone che, barcollando, andavano a iniettarsi
eroina nel quartiere. Lo spazio pubblico è diventato un fattore aggregante
formidabile, che coltiva e nutre quanto di buono già c’è (a partire dal Gridas, lo storico e vivissimo centro sociale di Scampia). Da questo punto di
vista è stato fondamentale collocarsi in un contesto di quartiere, al servizio
di quelle spinte e di quelle organizzazioni sociali che avevano radici negli
stessi nostri valori.
(g.z.)
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due. il contesto
A
ncora una volta partiamo dal contesto, dal mare in cui è immersa ciascuna delle azioni e riflessioni di cui daremo conto nel seguito
di questo libro. Se c’è un aspetto del “metodo mammut” che ha ricevuto solo
conferme in ciascuna delle sperimentazioni messe in campo tra nord, sud e
centro Italia (isole comprese) è l’assoluta necessità di partire dal contesto in
cui il nostro intervento educativo è inserito. E la conferma dell’importanza di
farsi orecchio e mettere da parte narcisismi e ansie d’intervento, perché possa avvenire un ascolto autentico. Purtroppo abbiamo verificato anche quanto
questa prassi sia stata messa in soffitta da chi si occupa di educazione e sociale,
e come l’analisi di contesto sia diventata uno dei tanti copia/ incolla funzionali
alla scrittura di bandi e progetti. A uscirne svilite non sono solo le pratiche,
ma anche le analisi sociali sempre più basate sulle testimonianze di gruppi di
attivisti e “imprenditori” sociali, inclini a dare una versione piuttosto monca,
quando non faziosa, della realtà. È anche in ragione di ciò che forse “scuola” e
“salute” sono diventate categorie sempre più distanti.
Gli scritti di questo librone ci dicono che non solo è ancora necessario, ma
anche possibile proseguire il lavoro dei gruppi di base (i primi che ci vengono in
mente: l’Associazione risveglio Napoli, alcuni cattolici del dissenso, l’Associazione italiana per l’educazione demografica, la Mensa dei bambini proletari,
ecc.) che negli anni ‘60 e ‘70 facevano intervento sociale praticando inchiesta
sociale, proprio grazie ad una radicata presenza sul campo. Chi volesse seguire
ancora questa strada potrebbe avvalersi oggi dei tanti contributi che la ricerca antropologica e sociale ha prodotto negli ultimi cinquant’anni, riuscendo
magari a potenziare la salute del proprio territorio proprio a partire da una
normale giornata di scuola.
O consideriamo il contesto come punto di partenza e di arrivo di ogni nostra
azione educativa o dobbiamo accettare che il ruolo esercitato nei confronti dei
nostri “assistiti” non vada oltre le soglie del controllo e del recupero spicciolo
alla società prevalente.
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1. ecosistema
biblio-sitografia minimale
a cura di Ciro Minichini
M
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olto si è scritto e girato sul disastro ambientale in Campania a cavallo tra i due secoli, tanto che molti di noi si sono chiesti come mai gli
abitanti di questa regione non siano ancora fuggiti tutti via.
Una delle ragioni della mancata fuga sta forse nel fatto che in nessun’altra
parte del paese è possibile sentirsi davvero al “sicuro”. Enzo Ferrara, nel suo
“Giro in Italia tra veleni e antidoti”, ricostruisce per noi un quadro quanto
mai realistico.
Del resto rimane accesso il dibattito sull’effettiva nocività per la salute delle
sostanze dannose sotterrate o disperse nell’ambiente. Oltre agli immancabili
sciacalli (in politica come nei media), molte sono state le voci critiche da parte
degli imprenditori agricoli piccoli e grandi, ridotti a volte sul lastrico, prima di
tutto per le già delicate condizioni dell’agricoltura campana e poi perché finiti
nell’occhio del ciclone mediatico. Più di una volta questi imprenditori si sono
difesi producendo test e analisi sui propri prodotti agricoli effettivamente “in
ordine”, malgrado le sostanze inquinanti presenti nel sottosuolo in cui erano
cresciuti.
La percezione di “sentirsi in pericolo” ha indubbiamente fatto un salto molto grande in questi ultimi anni in Campania. E molti dati epidemiologici sembrano confermare che non solo di “percezione” si tratterebbe. E a riguardo c’è
ormai una letteratura molta vasta, a volte anche lucida e onesta. Anche per
questo non aggiungiamo altro materiale a quello già circolante su dati e analisi, riportando solo una scheda sintetica in cui Ciro Minichini ha mappato
materiali utili a farsi un’idea della reale situazione ambientale.
Riportiamo infine una normale giornata condominiale su vicende di quotidiano inquinamento da cui si capisce quanto sia proprio il rapporto intimo
con la terra ad essere stato minato da questi anni di sciagurata incuria per il
creato.
1) Roberta Pirastu et al. (a cura di), SENTIERI – Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento: RISULTATI, Epidemiol Prev
2011; 35 (5-6) Suppl. 4: 1-204
http://www.epiprev.it/sites/default/files/EP2011Sentieri2_lr_bis.pdf
Si tratta di uno studio condotto da diverse strutture impegnate nella ricerca in ambito
epidemiologico, che ha riguardato l’analisi delle cause di mortalità in 44 degli allora 57 siti
di interesse nazionale per le bonifiche, in Italia; cioè quelle parti di territorio nazionale
per le quali, negli anni, è stato riconosciuto un quadro di contaminazione ambientale tale
da essere considerate aree ad alto rischio sanitario, per essere caratterizzate dalla presenza
di grandi poli industriali attivi o dismessi, o per inglobare zone di smaltimento di rifiuti
industriali e/o pericolosi.
2) Un aggiornamento di questo studio, che si è concentrato sullo studio dell’incidenza
oncologica nei 18 siti di interesse nazionale per le bonifiche ricadenti in territori serviti
per i quali fosse disponibile un registro tumori, è il seguente:
Roberta Pirastu et al. (a cura di), SENTIERI - Studio epidemiologico nazionale dei territori
e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento: MORTALITÀ, INCIDENZA ONCOLOGICA E RICOVERI OSPEDALIERI, Epidemiol Prev 2014; 38 (2) Suppl. 1: 1-170
http://www.epiprev.it/materiali/2014/EP2/S1/EPv38i2S1_SENTIERIind.pdf
3) Il sito dell’associazione A Sud contiene molte pubblicazioni e il riferimento a diverse
iniziative legate alla documentazione di conflitti sorti intorno a questioni di carattere
ambientale (in particolare, si tratta dei prodotti del lavoro del Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali)
http://asud.net
4) Vi si trova anche un documento che riassume i passaggi salienti di quella che è stata
identificata come “crisi dei rifiuti” in Campania, in cui ci si focalizza su diversi aspetti,
da quelli epidemiologici, a quelli politici, a quelli economici, a quelli sociali.
box
lucie greyl et al., la crisi dei rifiuti in campania, italia, cdca 2009
http://asud.net/wp-content/uploads/2013/07/Rifiuti-in-Campania-definitivo.pdf
giro d’italia fra veleni e antidoti
sui movimenti in difesa dell’ambiente e della salute
di Enzo Ferrara
L
Due
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a costruzione di uno spazio adeguato e su grande scala per un dibattito pubblico sull’ambiente e sul suo stato di salute non è semplice;
l’attuale fase di sviluppo della sensibilità ecologica in Italia è dominata dal
moltiplicarsi di una miriade di movimenti locali sorti per contestare singoli
aspetti dell’industrializzazione e delle infrastrutture che ne garantiscono il
funzionamento. La spinta all’azione ha a che fare con le preoccupazioni per
la salute e l’ambiente legate a condizioni di rischio innegabili causate dei
progetti contestati. Per la loro soluzione, a fronte dell’incisività delle mobilitazioni localizzate, si osserva la marginalità delle organizzazioni nazionali
tradizionali. La geografia della contestazione dell’impatto industriale è difficilissima da tracciare per la sua estrema frammentazione. Vanno considerati anche aspetti psicologici, in quanto una comunità colpita diventa autoreferenziale anche per difendersi. La vicenda di Seveso, i rifiuti a Napoli
e altre esperienze simili hanno insegnato che c’è anche uno stigma sociale,
un pregiudizio di colpa, che si aggiunge al carico di angosce di chi è colpito
nel proprio territorio, nella propria salute.
piccolo inventario ambientalista
A volte la mobilitazione è circoscritta a singoli quartieri, in alcuni casi è
ridotta a un unico attivista che regge l’intera rete utilizzando i social network. “Un sommario Giro d’Italia fra veleni e antidoti” abbiamo provato
a tracciarlo con Pier Paolo Poggio presidente della Fondazione Luigi Micheletti di Brescia, con Gemma Beretta presidente del Circolo Legambiente
Laura Conti di Seveso, con Fulvio Aurora vicepresidente di Medicina Democratica e con Marino Ruzzenenti, attivista e studioso di storia dell’ambiente presso la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia.
“Alcune realtà hanno grande rilevanza su scala nazionale – spiega Marino Ruzzenenti – innanzitutto il coordinamento nazionale dei siti contaminati, costituitosi a Brescia nel 2013 dopo che l’allora ministro per l’ambiente, Corrado Clini – attualmente agli arresti domiciliari con l’accusa di
peculato per il progetto New Eden in Iraq – aveva declassato 18 aree sulle
71 censite, riducendo a 57 i Siti di Interesse Nazionale (SIN) per la bonifica.
Rimangono fra i SIN l’amiantifera di Balangero e gli ex stabilimenti Eternit
di Casale Monferrato in Piemonte, le industrie Caffaro di Brescia, il sito di
Cengio Val Bormida in Liguria, le aree del litorale vesuviano in Campania,
le zone industriali di Porto Torres in Sardegna, il bacino idrografico del
fiume Sacco nel Lazio, Taranto e Manfredonia in Puglia, Gela e Priolo in
Sicilia. Sempre di rilievo nazionale, c’è l’associazione Peacelink di Taranto
che da tempo immemorabile, con caparbietà e competenza, si batte contro
l’inquinamento dell’Ilva; a Taranto operano anche altre associazioni, come
Taranto Sociale e il Comitato Cittadini Lavoratori Liberi e Pensanti. Più a
nord, in Abruzzo vicino a Pescara c’è il sito di Bussi sul Tirino, una delle
più grandi discariche abusive di sostanze tossiche e pericolose mai trovate
in Italia e in Europa, a causa della quale il forum abruzzese dei movimenti
per l’acqua ha sollevato il problema dell’inquinamento della falda da tetracloruro di carbonio. A Colleferro, nel Lazio, c’è la Rete per la tutela della
Valle del Sacco contaminata dai residui delle industria chimiche e degli
armamenti. In Lombardia, c’è il Coordinamento dei comitati ambientalisti
Lombardia, particolarmente impegnato contro le trivellazioni e lo stoccaggio di metano, contro il mega inceneritore di Brescia di proprietà della A2A
e attento alla vicenda del SIN Caffaro. Poi, c’è Ambiente Brescia e, sempre
in Lombardia, la rete Insieme per uno sviluppo sostenibile.” Gemma Beretta spiega che a questa rete aderiscono Legambiente, il WWF, alcuni gruppi
politici locali che si rifanno all’area ambientalista o della sinistra ecologista,
e numerose associazioni locali, “tutte interessate alla difesa del territorio
dell’hinterland milanese e accomunate dalla preoccupazione per il progetto della Pedemontana, una nuova autostrada in costruzione nell’area nord
di Milano, che dovrebbe collegare la provincia di Milano con le province di
Varese e Bergamo, oltre che con gli aeroporti di Malpensa e Orio al Serio”.
Altro esempio di associazionismo in Lombardia è la Rete dei cittadini
reattivi che si batte per conservare terra, cielo e acqua puliti per tutti.
“A Seveso in particolare – spiega Gemma Beretta – siamo preoccupati
perché il tracciato autostradale della Pedemontana passerebbe proprio attraverso il Bosco delle Querce, un’oasi naturale che conserva la memoria
dell’incidente dell’ICMESA del 1976 ma che è anche il luogo dove sono seppellite le diossine fuoriuscite a causa di quell’incidente, non sappiamo cosa
accadrebbe se i lavori andassero a dissotterrarle”.
Mantenere la rete non è semplice perché ogni comitato, caratterizzato
da una forte impronta sul proprio territorio, fa fatica a uscire dai propri
confini.
“Siamo anche attenti alla rete dei SIN, nella quale abbiamo un rappresentante – continua Gemma Beretta – invece non abbiamo riferimenti politici né sul piano politico parlamentare nazionale, né al di fuori dei territori di nostro interesse. Abbiamo legami, anche forti, ma sul piano personale
con alcuni uomini e donne della politica parlamentare, con qualcuno delle
varie aree che fanno riferimento alla sinistra, sono però casi singoli”.
Eco
Sistemi
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Due
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Proseguendo l’inventario, Marino Ruzzenenti segnala a Vicenza il Movimento di salvaguardia dell’ambiente e il Movimento contro l’allargamento della basi militari. A La Spezia e Vado Ligure, i comitati di cittadini contro le centrali a carbone, come “Spezia via dal carbone”. A Casale
Monserrato, in provincia di Alessandria, l’Associazione Familiari e Vittime
dell’Amianto (AFEVA) e l’Associazione Italiana Esposti Amianto (AIEA)
con i loro importanti e forti contatti internazionali, da Ban Asbestos Italia
e Coordinamento nazionale Amianto a Ban Asbestos Francia, allo svizzero
Comité d’aide e d’orientation des victimes de l’amiante (CAOVA) a Ban
Asbestos Spagna. A Trieste, c’è l’associazione Nosmog, impegnata contro
l’inquinamento dell’acciaieria di Servola.
Scendendo verso Sud, va ricordata l’associazione A Sud che si occupa
dei problemi ambientali con ampio respiro, partendo da quelli connessi
all’estrazione di petrolio in Val D’Agri in Basilicata. Poi in Puglia, l’associazione Brindisi bene comune e le associazioni ambientaliste di Manfredonia. In Sardegna, i comitati contro le basi militari, come Gettiamo le basi,
impegnato nella vicenda di grave inquinamento del poligono di Quirra, il
Comitato di azione, protezione e sostenibilità ambientale per il nord Sardegna (C.A.P.S.A. – No Chimica Verde/No Inceneritore) di Porto Torres,
il Movimento per il lavoro, l’ambiente e i diritti di Sassari. In Basilicata
l’associazione antinucleare di Scanzano Jonico, Scanziamo le scorie, che
ha condotto vittoriosamente la lotta contro il sito unico di stoccaggio dei
rifiuti nucleari. In Calabria, la rete per la difesa del territorio Difendiamo
la Calabria, oltre all’organizzazione impegnata nel processo contro la Marlane di Praia a Mare per i morti da contaminazione per l’uso di coloranti
e il trattamento di rifiuti, Sindacato dei lavoratori autorganizzati intercategoriale (SLAI_COBAS). Non vanno dimenticati i comitati veneti per la
memoria del Vajont.
azione e comunicazione
In molte di queste realtà, oltre al radicalismo e al localismo dei comitati
accusati, infatti, di sindrome Nimby, spiccano la diffidenza verso i professionisti della politica e il tentativo di pratica della democrazia partecipativa,
con tutte le contraddizioni che ciò comporta. Hanno come comune denominatore la contestazione di singole manifestazioni dell’industrialismo,
impianti produttivi o infrastrutture di funzionamento della macchina
industriale. Mentre la classe politica senza distinzioni punta sulla reindustrializzazione quale unica via per la crescita e l’uscita dalla crisi economica, alcuni comitati riescono a dimostrare che decisioni spacciate per strategiche e per la cui realizzazione si agita lo stato di eccezione – il cantiere TAV
di Chiomonte in Val di Susa, come la discarica di Chiaiano in Campania
sono stati dichiarati siti strategici di interesse nazionale, difesi dall’esercito
– sono, in realtà, prive di razionalità e prodotto non di un sapere superiore
ma della volontà di “non sapere” salita fino al governo. “Invece di incarnare
il bene comune mascherano malamente interessi particolari, spesso illegali,
quando non schiettamente criminali”, così ha spiegato Pier Paolo Poggio.
“Diversamente da quel che sostengono i critici e la generalità dei media, i
comitati di contestazione dell’industrialismo nell’era della globalizzazione
non hanno posizioni luddiste – spiega Poggio – al contrario, facendo uscire
dall’apatia le popolazioni, i comitati si impegnano a fondo nello studio dei
problemi, si documentano, coinvolgono esperti, tecnici, scienziati. Credo
che non ci sia un osservatorio adeguato per cogliere il fenomeno per intero,
però un elemento caratterizza fortemente l’Italia in questi anni: il venir
meno delle grandi organizzazioni ambientaliste nella capacità di cogliere le
situazioni per tempo e diventare un referente necessario, in modo che tutte
queste situazioni locali assumano importanza, rilievo politico, culturale e
di comunicazione su scala nazionale. È la questione principale, con vantaggi e svantaggi”. Secondo Poggio, la mancanza di un riferimento per l’opinione pubblica e la mancanza di peso del mondo ambientalista sono aspetti negativi. “La situazione attuale può garantire i pochi e puri, però è un
dato di fatto: ci sono numerose situazioni di fermento, di grande interesse
sociale e culturale, ma pochissime diventano questioni nazionali anche per
un problema di comunicazione. Ed è un peccato perché, avendolo vissuto,
posso dire che quarant’anni fa non c’era niente di tutto ciò anche se c’erano
già forme di aggressione fortissima al territorio. Però non c’era questa presa
di coscienza che adesso c’è. Certo è minoritaria – prosegue Poggio – non
sto dicendo che sia la scelta della maggioranza, però ci sono tante minoranze ognuna delle quali a me sembra autoreferenziale. Potrebbe essere un
giudizio moralistico il mio. I motivi per cui le diverse parti non si tengono
assieme magari sono altri e si potrebbe tentare di approfondire”.
“Il caso dell’ILVA di Taranto, per esempio, è importante – spiega Poggio – ma il rilievo dato a situazioni simili serve anche per oscurare tante
altre realtà che meriterebbero un’attenzione eguale. Ciò non avviene. Di
grandi opere che stanno creando problemi rilevanti ce ne sono molte e in
ogni situazione ci sono comitati, gruppi che si oppongono, lottano ma in
situazione di quasi totale isolamento. Questo significa, banalmente, che per
come è fatta la comunicazione può passare anche ciò che è non omologato,
purché spettacolarizzabile. Deve accadere il grande guaio per accendere i
riflettori che comunque durano pochissimo”.
Un altro elemento importante, secondo Poggio, è il fatto che tutto il filone del ripensamento dell’agricoltura e dell’alimentazione ha sì una sua
visibilità però meriterebbe analisi che al momento nessuno sembra in grado di sviluppare. Questi movimenti difendono il bene comune, il quale in
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passato per eccellenza era la terra. In questo ambito la prospettiva, talvolta
fumosa, della decrescita, assume contorni concreti, indicando una dinamica di possibile fuoriuscita dall’eredità tossica dell’industrialismo. Però si
osserva anche un disaccoppiamento forte fra il livello della partecipazione
emotiva e razionale di molte persone ai problemi di inquinamento, occupazione, degrado del proprio territorio e i loro comportamenti quotidiani.
Per esempio, un fenomeno che fino a poco tempo fa era quasi residuale,
quello dei Gas, i Gruppi di acquisto solidale, si è rivitalizzato: si osservano
e si creano nuove forze in continuazione, però non si vede e quasi rimane
sommerso come un mondo a parte cosa stia succedendo nelle campagne,
quali trasformazioni siano in corso. Non c’è la capacità di tenere assieme
questi movimenti su scala che non sia locale o localissima, eppure tutti
hanno un loro significato non dissimile da quello di tante altre esperienze
del passato molto più radicali. E neppure si riesce su scala più ampia a mettere assieme, per una volta, chi lavora la terra e chi usufruisce dei prodotti
della terra con atteggiamento critico.
Secondo Poggio, quello che abbiamo di fronte non è un panorama desolato. Possiamo parlare di un’enorme frantumazione delle iniziative su scala
nazionale, dove manca un minimo di circolazione anche solo delle idee in
comune, il che è paradossale rispetto alla enorme disponibilità degli strumenti di comunicazione.
Secondo Fulvio Aurora ciò che più demoralizza ed è segno dei tempi è
l’assenza di sostegno da parte di istituzioni, accademie, sindacati. “Quando
ci costituiamo parte civile assieme ai movimenti per i risarcimenti, come
nel processo Eternit – spiega Aurora – per i disastri da inquinamento o
per la difesa del sistema sanitario nazionale, come nel caso del processo in
corso a Torino contro Stamina Foundation che ha millantato progetti di
ricerca per la cura del cancro con cellule staminali, siamo quasi sempre soli,
non sostenuti da agenzie, amministrazioni o confederazioni, che oltretutto
sovente patteggiano per uscire dal processo con un indennizzo. Ma noi ci
battiamo anche per rivendicare il diritto alla salute e a un ambiente pulito,
i risarcimenti servono per le bonifiche, per la cura dei malati, per il sostegno dei parenti di chi ha perso la vita o la capacità lavorativa. Abbiamo una
estrema sfiducia nell’istituzione pubblica, politica, sindacale, scientifica,
culturale, che ti chiede partecipazione, sostegno alle proprie iniziative ma
appena vede la possibilità di un compromesso con il potere non ti ascolta
più. Abbiamo problemi legati ai temi della salute anche nella gestione del
servizio sanitario”. Negli ospedali lombardi, infatti, l’obiezione di coscienza sull’aborto, sulla legge 194, è praticata dall’ottanta per cento dei medici.
Ci sono ospedali dove i medici sono tutti obiettori. Secondo Aurora si tratta di una questione ideologica ed è un fatto: anche chi non sarebbe obiettore lo diventa, per non restare isolato sia per la carriera sia per il lavoro,
perché chi pratica aborti in queste condizioni va a finire che fa solo quello,
non è una situazione sostenibile. “Cerchiamo di capire come si stia trasformando il concetto di sanità, cosa diventa, cosa vuol dire oggi – aggiunge
Aurora – Medicina Democratica è un movimento di lotta per la salute nato
a Milano ma diffuso in tutta Italia. A Matera, per esempio, ci occupiamo
di amianto e malattie da asbesto, legate agli ex impianti Anic-EniChem di
Pisticci Scalo e seguiamo il processo dell’ILVA di Taranto pur non avendo
nessun gruppo attivo sul territorio”.
Anche Medicina Democratica ha peculiarità molto legate ai territori. “Ci
sono zone che si occupano prevalentemente della questione ambientale –
racconta Aurora – per esempio a Brescia c’è la grossa questione della Caffaro che ha seminato ovunque PCB e diossine e c’è anche l’inceneritore.
Facciamo inoltre un lavoro di carattere scientifico che va avanti da anni.
Il principale attivista di Brescia, Marino Ruzzenenti – socio di Medicina
Democratica – ha prodotto un libro notevole sulla questione della diossina
(Un secolo di cloro e PCB. Storia delle industrie Caffaro di Brescia, Jaca Book,
Milano 2001). Siamo arrivati a fare un paragone con Taranto, chiedendoci
come mai non ci sia un giudice anche a Brescia”.
“Medicina Democratica ha un gruppo consistente in Toscana, che lavora
particolarmente sulla salute nei luoghi di lavoro. C’è uno sportello che si
occupa di questo tema cercando di coniugare i problemi di salute dei lavoratori intesa in senso tradizionale – la malattia professionale provocata da
usura, trauma, contaminazione – con le questioni di carattere psicologico:
lo stress, il mobbing, seguite in quasi tutta la Toscana. Poi c’è il gruppo di
Milano che prevalentemente si occupa di sanità e segue le vicende del discorso pubblico e privato sull’assistenza che la regione Lombardia tende ad
affrontare con posizioni prevalentemente ideologiche, come per la vicenda
della legge 194 sull’interruzione di gravidanza”.
“Sulla questione ambientale, anche Medicina Democratica partecipa al
coordinamento dei SIN partito da Brescia ma che tocca varie parti d’Italia.
A noi interessano molto la Valle del Sacco, nel Lazio, dove ci sono questioni
legate all’industria militare, che hanno analogie con quelle delle servitù
militari in Sardegna e con gli effetti sulla salute delle popolazioni della zona
e dei militari colpiti. Collaboriamo anche con ISDE, l’Associazione dei medici per l’ambiente (International Society of Doctors for the Environment)
che è forte all’interno delle strutture sanitarie e che è stata diretta a lungo
da Renzo Tomatis”.
per conservare la memoria
Un ultimo tema importante in questo Giro d’Italia dei veleni e degli
antidoti è legato all’archivio di avvenimenti, testi e testimonianze, anche
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molto significativi, che fotografano situazioni problematiche ma che quando termina il ciclo di lotta sembra spariscano nel nulla. Spiega ancora Pier
Paolo Poggio: “Non è così perché le questioni ambientali non sono risolte,
sono state tombate. I rischi per salute e ambiente restano lì dov’erano se
il problema non è affrontato alla radice. Intendo soprattutto le forme di
inquinamento territoriale, i problemi di Seveso, dell’Acna di Cengio non
sono state mai risolte interamente, però non se ne parla più. Si potrebbe
fare il confronto con il modo in cui si parla, pochissimo e a singhiozzo,
dei problemi dell’amianto: anche in questo caso sta succedendo che alcuni
gruppi ci si sono dedicati come se avessero la missione di occuparsene solo
loro, mentre tutto il resto della società sembra potersene disinteressare, salvo sobbalzare per eclatanti fatti di cronaca. Il clima mi sembra questo. Non
è che queste lotte non ci siano, ci sono e numerose e in certi casi intelligenti
e determinate. Ogni movimento fa cose degnissime al proprio interno ma
raramente c’è la possibilità di ricostruire in modo approfondito e dettagliato queste vicende. Oltretutto, se queste proseguono ognuna restando
imbozzolata nella propria piccola realtà, i grandi attori continueranno ad
avere buon gioco nel combattere o ignorare ogni fermento. In un paese che
tutti i momenti ti dicono essere fragile, semi-disastrato dall’inquinamento,
dalle infiltrazioni della camorra, della mafia, ogni volta superata l’emergenza è come se nulla fosse stato. Anche per questo, la Fondazione Micheletti si è data un ruolo principalmente di documentazione storica, perché è
necessario che restino e si trasmettano alcune memorie in forma collettiva
e perché queste vicende hanno rilevanza storica”.
“E se anche questo discorso fosse solo teorico, astratto, discutibile nel
caso dei fenomeni di cui stiamo parlando, di aggressione all’ambiente, è
sicuro che faremo i conti con le conseguenze sulla salute degli Italiani su
tempi lunghi, lunghissimi, soprattutto se non ne conserviamo memoria. È
un esercizio elementare quello a cui ci dedichiamo ma chi sta conducendo
una lotta non ha tempo né interesse immediato ad archiviare la propria
storia e a mantenerne la traccia anche se la ricchezza delle informazioni in
tempo reale è insostituibile. Poi, dopo a ritroso potremo recuperare informazioni sui danni magari attraverso l’utilizzo dei dati statistici che sono sì
in grado di trovare correlazioni, perché quell’anno lì in tale posto è successo il tale fatto. Però ci vuole anche tutto il resto e il contesto. A Brescia vorremmo tentare di creare qualcosa che ancora non esiste in Italia: una scuola
di storici attenti al rapporto fra tecnica, industria e ambiente. Questa è la
missione che ci siamo dati. Non ci siamo ancora arrivati vogliamo fornire
però i materiali di base. E in questo senso le situazioni minute a noi interessano quanto i grandi fatti. Penso per esempio che sia tempo di raccogliere
l’archivio delle lotte in Val di Susa, mi sembra giusto e forse ovvio: ci sono
una miriade di attestazioni che altrimenti verranno cancellate”.
saluti da castel volturno. una cartolina
di Filippo Mondini
N
on si può compiere un’analisi del contesto di Castel Volturno ragionando a compartimenti stagni, come se i disagi e le opportunità che ne nascono – immigrazione, camorra, ambiente, integrazioneinterazione, condizioni di lavoro, urbanistica – possano essere scomposti
e risolti o raccolte separatamente. È difficile trovare la causa scatenante del
degrado. Alcuni vi trovano le origini nel bradisismo di Pozzuoli degli anni
’80, quando gli sfollati sono stati accolti nelle seconde case della riviera Domitia. Altri, tra cui Mario Luise (Dal fiume al mare. Un lungo viaggio tra gli
spaesati di Castelvolturno, Edizioni Scientifiche Italiane 2001), sottolineano
come a Castel Volturno sia mancata una programmazione capace di gestire
la corsa dalle campagne alla costa e come questa mancanza sia stata la causa di un sistema di abusivismo e di clientele, fatto di legami tra Camorra,
imprenditori e Stato, che perdura tutt’oggi: il caso della famiglia Coppola
è esemplare.
Possiamo però dire che Castel Volturno è comunque un non-luogo funzionale al sistema capitalistico, è uno spazio che può essere paragonato
alle Bantustan del Sud Africa dell’Apartheid: bacini di forza lavoro a basso
prezzo, cloaca della grande industria che vede la possibilità di smaltire rifiuti a basso costo, città invivibile dove è possibile concentrare un numero
altissimo di immigrati irregolari, dormitorio per chi non può più permettersi una casa a Napoli o a Caserta: zona grigia dove è difficile stabilire con
certezza che cosa è la legalità. Nel sistema capitalistico non può non esistere
una Castel Volturno che funzioni come valvola di sfogo. La città diventa
anche un’ottima vetrina per le operazioni dello Stato (che quando vuole
mostrare la sua presenza si inventa il “modello Caserta”) e per le associazioni che qui crescono come funghi. I missionari Comboniani, che hanno
nel loro carisma quello di stare con “i più poveri e abbandonati”, hanno
scelto non a caso di operare a Castel Volturno.
Castel Volturno è quindi una realtà complessa che come tale non va
semplificata ma analizzata. Di seguito si cercherà di dare rilievo alle questioni essenziali e maggiormente problematiche, tentando di evidenziarne
le caratteristiche principali ma tenendo sempre presente che questi temi
non sono tra loro isolati ma vanno tutti compresi partendo dall’idea di
Castel Volturno come “cloaca del Sistema”. Era necessario creare questo
degrado per avere una zona franca dove poter gestire in pace i propri interessi criminosi.
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camorra
Due
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1. vedi
Daniela De
Crescenzo,
Confessioni
di un killer,
L’ancora del
Mediterraneo
2012)
2. Casalesi:
un patto tra
casertani e africani, Il Mattino
del 20 agosto
2008),
Castel Volturno non ha una Camorra locale ma subisce l’influenza di
quella Casalese, soprattutto della famiglia Bidognetti. Gigi Di Fiore (L’impero. Traffici, storie e segreti dell’occulta e potente mafia dei Casalesi, Rizzoli
2008) sottolinea anche l’influenza delle famiglie Luise-Morrone, satelliti
dei Casalesi. Recentemente, fino al suo arresto, Peppe Setola ha tentato di
affermare il suo dominio sul litorale domitio.
Il business della Camorra su Castel Volturno è legato soprattutto ai rifiuti e il paese diventa luogo di nascondiglio per latitanti e bacino di manovalanza per azioni criminali. Oreste Spagnuolo, pentito di Camorra,
afferma che tutto il litorale domitio paga la tangente a Zagaria ma visto gli
imminenti lavori al Villaggio Coppola, Setola e i suoi hanno scatenato la
guerra per ritagliarsi una fetta consistente di guadagno1. Il legame tra la camorra e il Comune – commissariato diverse volte per infiltrazioni mafiose
– sembra consolidato: sempre Spagnuolo dichiara che Scalzone era un loro
“burattino” mentre Nuzzo era facilmente ricattabile.
Come evidenziato da Rosaria Capacchione2, esistono sicuramente rapporti di affari sulla prostituzione e sulla droga tra la camorra e la mafia
nigeriana. La convivenza chiaramente viene imposta a suon di polvere da
sparo: dal 1986 al 1990 ci sono stati 16 tra omicidi e ferimenti di africani e
albanesi. Il 23 aprile 1990 la prima strage di immigrati, a Pescopagano: 5
morti e 7 feriti, i bersagli dovevano essere alcuni spacciatori nigeriani e tanzaniani. Scopo della strage era dare un avvertimento alla mafia nigeriana e
farla allontanare dal litorale.
È facile sentire la gente di Castel Volturno lamentarsi per il fatto che il
paese non è neanche riuscito ad esprimere una propria famiglia camorrista: è come se la gente si sentisse abbandonata perfino dalla camorra.
immigrazione
Negli ultimi trent’anni il numero di immigrati presenti sul territorio
è aumentato notevolmente e, da luogo di villeggiatura, Castel Volturno è
passata ad essere una città tra le più sature di manodopera extracomunitaria. Non a caso Fabio Amato definisce la provincia di Caserta come una
delle province più “nere” d’Italia3.
Gli immigrati dell’Africa sub-sahariana costituiscono, infatti, una parte rilevante della popolazione straniera residente a Castel Volturno. Ciò è
dato dalla vasta possibilità di occasioni di lavoro temporanee e precarie
che offre l’economia locale. Le opportunità di lavoro vengono offerte da
chi cerca lavoro a basso costo (lavori in campagna, giardiniere, muratore)
che raccolgono i migranti presso i “Kalifoo ground” – letteralmente “terre-
no dove trovare i kalifoo”, schiavi a giornata, come vengono etichettati in
Libia gli immigrati in transito verso l’Italia – ossia punti della città dove si
incontrano i migranti per lavorare a giornata: 10/12 ore di lavoro nei campi
o nei cantieri per 24 euro al giorno. Nell’area di Castel Volturno i maggiori
“Kalifoo Ground” sono a Giugliano, Licola, Aversa, Villa Literno, Cancello
Arnone, Arzano, Pianura.
Possiamo quindi affermare che questo comune è un punto di riferimento per gli africani perché permette di vivere in una condizione di “galleggiamento”, ossia di irregolarità, ma anche di recuperare le reti di connessione con i paesi di partenza.
La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Nigeria
con il 35,5% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dal Ghana
(10,1%) e dall’Ucraina (7,0%). A questi si deve aggiungere il numero di migranti irregolari, difficile da stimare.
I settori economici di impiego sono l’artigianato, l’agricoltura, il commercio e l’edilizia.
Prendendo spunto da una definizione di Sayad 4, gli immigrati di Castel
Volturno sono visti solo ed esclusivamente come “forza-lavoro provvisoria,
temporanea e in transito”: devono lavorare ma al tempo stesso devono sparire dagli spazi di vita sociale locale. Danno fastidio ma sono anche quelli
che mantengono l’economia locale, in particolare quella degli affitti, e consentono a molte imprese di sopravvivere grazie al basso costo del lavoro
immigrato.
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genocidio ambientale
È in atto un vero e proprio genocidio ambientale. Il comune di Castel
Volturno è l’unico della Campania ad avere avuto, nel 2008, la tipizzazione
delle matrici ambientali, e le criticità di questo monitoraggio coincidono
con i siti indicati dal pentito Di Caterino. Nel 2006 il rapporto di sintesi
dello studio epidemiologico pone Castel Volturno in “area di rischio 5”, il
livello massimo.
Un recente congresso dell’Ordine dei Geologi della Campania tenutosi a
Castel Volturno ha evidenziato come di fatto le bonifiche siano impossibili
proprio per la quantità e la complessità delle sostanze: l’unica soluzione
sarebbe quella di fare di questo territorio una zona “no food” e destinare le
aree agricole ad altri tipi di economia.
Pietro Comba, responsabile del dipartimento di Epidemiologia Ambientale dell’ISS, riferendosi a uno studio che analizza i dati ambientali e le
percentuali di mortalità di 196 comuni nelle province di Caserta e Napoli,
commissionato dal Dipartimento della Protezione civile e realizzato, tra
gli altri, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, afferma che “lo studio
3. Dal sud del
Sahara verso il
Mediterraneo,
in “Meridione.
Sud e nord del
mondo”, vol. 2
del 2010).
4. La doppia
assenza,
Raffaello
Cortina Editore
2002
ha rilevato percentuali del 9% in più per gli uomini e del 12% in più per le
donne del rischio di morire di tumore e 84% in più di possibilità di far nascere un bambino con malformazioni congenite, se si risiede nei comuni di
Acerra, Aversa, Bacoli, Caivano, Castel Volturno, Giugliano in Campania,
Marcianise e Villa Literno” 5.
Lo stesso studio rileva come, oltre a questi otto, anche in altri comuni
“della provincia di Napoli e Caserta esiste in media un incremento del 2%
della mortalità ed un eccesso del 4% di malformazioni dell’apparato urogenitale e nervoso per la popolazione residente nelle zone maggiormente
interessate da pratiche illegali di smaltimento e incenerimento di rifiuti solidi urbani e pericolosi.”
Due
42
5. www.
protezionecivile.gov.it/
resources/cms/
documents/
Studio_di_correlazione.pdf.
A Castel Volturno la prassi consueta è quella della rappresentanza. La
società civile corre il rischio di essere un ostacolo più che un enzima di
trasformazione e cambiamento. Badiou afferma che la politica comincia
quando non si vuole rappresentare le vittime ma quando si rimane al fianco di quegli eventi in cui le vittime affermano se stesse. È incoraggiante in
questo senso la nascita di comitati di cittadini che si impegnano nella lotta
contro il biocidio e per il diritto alla vita.
condomini
di Giovanni Zoppoli
È
sabato pomeriggio e un papà gioca col suo bambino di tre anni nel
cortile di casa. Il rapporto con la terra, qualcosa che possa collegare
con le radici e con il ciclo della natura, osservare un seme che diventa frutto: cose fondamentali diventate impossibili in una vita tra i palazzi. Oggi
l’orto in giardino, sul terrazzo, in cassetta diventano abitudine sempre più
diffusa. E anche questi papà e figlio stanno coltivando il loro orto in cassetta. Finita la stagione dei pomodori è arrivata quella di friarielli, lattuga
e altre piante invernali. Il contenuto della cassetta va mescolato, rimestato,
quello che sta sopra deve andare sotto per accogliere al meglio i nuovi semi,
proprio come si farebbe con un terreno in campagna aperta. E così i due ne
approfittano per divertirsi, mettono le mani nel terreno, ci ficcano tutte le
dita, la mano, il braccio… si fanno quasi la doccia con questo terreno.
Di fronte c’è solo il vecchio loto in mezzo a cumuli di terreno e ammassi
di materiali di risulta. Sono diversi mesi ormai che nel palazzo i condomini
fanno lavori di ristrutturazione e per tutta l’estate in quel cortile c’è stato
solo un monticello nero fatto dell’ex copertura del tetto e degli altri materiali di risulta. Oltre il cortile palazzi, palazzi, palazzi, qualche gabbiano e
un colombo. Siamo a Materdei, quartiere napoletano sempre più in.
Papà e figlio hanno quasi finito. Hanno cambiato la plastica che riveste
le pareti della cassetta e sparso i semi. È a quel punto che al papà torna in
mente un’immagine appena vista: quando era andato a prendere le cassette
con le vecchie piante di pomodoro, accanto ha notato degli strani tubi. Il
papà è un po’ paranoico e torna a vedere. È tempo di emergenza ambientale
in Campania, sui principali media è esplosa la questione dei rifiuti (finalmente di quelli tossici sotterrati e disseminati un po’ dappertutto) e il papà
ha accentuato i suoi tratti ipocondriaci. Guarda i tubi, ne conta almeno una
decina e dalle sezioni spezzate non ha dubbi: è eternit, amianto. Accanto
a tutti i materiali di scarto dei lavori di questi mesi, anche questi tubi di
amianto. Cercando di dissimulare lo spavento il papà torna da suo figlio,
lo accompagna a casa e lo mette a mollo nella vaschetta da bagno. Il papà
chiama il suo amico ricercatore in fisica, che appena vede i tubi conferma la
sua ipotesi. Il giorno dopo quando va all’Università l’amico fisico fa vedere
ai colleghi le foto di quei tubi e tutti confermano che si tratta di amianto. Il
papà è sempre più in preda al panico e non sa che fare. È assalito da pensieri
angosciosi. Cosa hanno respirato lui, la compagna e il figlio in tutti questi
mesi? Che può essere rimasto delle polveri sottili nel terreno di quelle cas-
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sette di pomodori così vicine ai tubi di amianto spezzati? Andarcene tutti
via di casa? Denunciare alla polizia l’accaduto? Chiamare il proprietario
e avvertirlo? Intanto si informa sulle conseguenze legali di un atto come
questo. Il codice penale parla chiaro: galera, ammende pecuniarie… Insomma c’è da passarsela brutta per un reato così.
Alla fine decide di chiamare il proprietario e di avvisarlo della scoperta. Il proprietario di casa è rispettabile avvocato del Vomero, un signore
perbene, sciolto, simpatico. Dice di non saperne niente di questi tubi, che
di sicuro sono di Pvc e che se mai ci fossero tubi di amianto nel cortile lui
non ne saprebbe niente. Papà e mamma chiamano un tecnico che in via
amichevole verifica che questi tubi sono proprio di amianto.
Avuto il responso certo del tecnico il papà avvisa il proprietario con un
sms: “è amianto”. Quello gli risponde “no”. Il papà è al lavoro e appena due
ore dopo quel messaggio riceve una telefonata allarmata dalla sua compagna: “Un camioncino va via veloce dal cancello e al posto dei tubi in eternit
ne sono comparsi degli altri in Pvc”. La madre ha gridato a quel furgone
di fermarsi, di non permettersi di andare via. Ha il figlio in braccio che
è appena tornato dall’asilo e non sa cosa stia succedendo. Il furgoncino
ovviamente non sente nemmeno quelle urla e scappa a tutto gas. Quando
riceve la telefonata il papà sta andando a una manifestazione delle Terre
dei fuochi, una delle tante che finalmente in questi giorni ha cominciato a
invadere le vie dei comuni martoriati tra Napoli e Caserta. Cambia strada e
va a prendere figlio e compagna. Intanto dal cellulare chiama il proprietario, lo avvisa dell’accaduto. L’avvocato fa il cavilloso, dice che lui ha subito
avvisato il direttore dei lavori, i suoi tubi erano di Pvc. Il papà non può che
urlargli VERGOGNA! E abbassare il telefono. La madre intanto ha chiamato la polizia, ma che può fare ormai la polizia? Ah ci sono anche le foto?
Bene bene. Sì venite a fare la denuncia, ma noi che possiamo fare ormai? I
tubi se li sono portati? Sì verremo ma… Le cassette con friarielli e lattuga
rimangono incredule e solitarie a guardare i nuovi tubi di Pvc.
Difficile raccontare qualcosa in terza persona, quando la terza persona
sei tu e la rabbia ancora ti pervade. Un’ordinaria giornata campana, come
ce ne sono tante, ma vissuta sulla propria pelle rende ancora più amari
i perché di una terra in rovina. Malgrado le migliaia di manifestanti che
invadono le strade, la gente che conta continua a costruire imperturbabile
il presente come ha imparato a farlo in questi anni di immonda stupidità
collettiva.
Sono passati ormai due mesi da quella giornata. Nel mio cortile condominiale le cose sono cambiate con una rapidità impressionante: in pochi
giorni hanno terminato i lavori e messo tutto a posto; gli altri condomini ci
guardano con un misto di riconoscenza e diffidenza; il proprietario ormai
comunica con me solo via raccomandata. Ovviamente la vicenda condo-
miniale è rimasta nel più assoluto “privato”, essendo per noi impossibile
dedicare tempo incalcolabile al nobile fine dell’accertamento dei fatti e delle responsabilità di quanto accaduto.
Ma qualcosa è cambiato, almeno al di fuori del piccolo condominio. La
notizia “rifiuti tossici nella Regione Campania” è deflagrata ed ora è come
se vivessimo in una fase 3. “L’acqua pubblica di ventuno Comuni è costretta
in condotte realizzate con cemento amianto. Tutto certificato dalle mappe dell’Ambito Territoriale Ottimale (Ato2). Una buona parte dei 113 chilometri totali di vecchie e pericolose condotte si snodano lungo i monti
del Matese, i pendii del vulcano di Roccamonfina e del Montemaggiore.
I sindaci appaiono impotenti e rassegnati davanti al problema. Soldi che
non ha il consorzio idrico e nemmeno i municipi (...) I Comuni interessati dalla presenza di condotte con l’amianto sono Conca della Campania,
Tora e Piccilli, Marzano Appio, Galluccio, Roccamonfina, Caianello, Alife, Capriati e Volturno, Fontegreca, Gallo Matese, Dragoni, Baia e Latina,
Bellona, Grazianise, Carinola, Casapulla, Portico di Caserta, Casagiove,
Macerata Campana e Villaricca”. Così scrive l’edizione napoletana del Corriere della Sera del 21 dicembre 2013. A fronte di questa e delle moltissime
altre notizie che in questi mesi hanno riempito, oltre al web, anche le prime pagine dei principali quotidiani locali, i miei tubicini di amianto sono
davvero un’inezia. La stessa proporzione c’è tra l’angoscia (probabilmente
sproposita) che mi assalì davanti a quei tubi, e il panico che si è scatenato
in questi giorni in tutta la regione. Il papà di un bambino che conosco fa il
fruttivendolo a Giugliano: ha dovuto chiudere perchè nessuno voleva più
comprare la verdura da lui. Il mio amico affermato imprenditore agricolo
sul Vesuvio se la sta passando davvero brutta: molti dei suoi clienti del nord
Italia e del resto d’Europa da lui non vogliono comprare più niente. I dati
parlano chiaro e basta leggere i quotidiani locali di questi giorni per scoprire le conseguenze che le notizie sull’ambiente stanno avendo sull’agricoltura campana. Notizie ovviamente non di rado false e su cui sono piombati
sciacalli vecchi e nuovi dell’informazione, vendendo spesso vere e proprie
bufale. L’Espresso ad esempio, nel cercare di cavalcare la una notizia priva
di validità scientifica che vedeva gli americani gridare all’allarme per l’acqua inquinata di Napoli, sono addirittura riusciti a risollevare un po’ l’immagine del sindaco De Magistris (che ha potuto fare finalmente una figura
decente smascherando la mala informazione del settimanale).
La fase 3 di cui parlavo non è insomma meno paradossale delle precedenti. Né della prima, quella in cui nel territorio della Campania si sversava
di tutto e tutti sapevano ma nessuno (tra chi aveva il potere di farlo) faceva
niente. La fase 2 quando tutti hanno cominciato a fare a gara per denunciare quanto spacciata fosse la situazione in Campania, mettendo in evidenza
quanto non solo i rifiuti sotterrati, ma anche l’inquinamento elettroma-
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gnetico, il wi-fi di computer e modem, gli impianti di aereazione di intere
università e parti consistenti di edifici scolastici fossero costruiti in eternit.
Insomma, quanto ormai non ci fosse più scampo alla morte prematura di
tutti e non solo in Campania.
La fase 3 è quella in cui si sa tutto (e anche di più) ma niente cambia. Non
ci sono soldi per le bonifiche efficaci e quindi le bonifiche non cominciano. Chi deve fare i lavori di muratura in condominio o in appartamento,
per risparmiare, continua a rivolgersi a ditte che smaltiranno i rifiuti in
maniera balorda. A Scampia, come nel resto dell’area nord di Napoli, la
sera continua ad alzarsi il fumo degli incendi di copertoni (smaltiti in questo modo) che rendono l’aria irrespirabile. Non ci sono mai stati così tanti
controlli sui generi alimentari campani, ma ora nessuno ne vuole più. Situazioni estreme come quella del campo rom comunale di Giugliano (vero
luogo di sterminio per la sua ubicazione tra fonti inquinanti) non vengono
nemmeno messe in discussione. Nelle terre dei fuochi ci vengono ormai
tutti e tutti i giorni, politici di governo e di opposizione. Ma poi sembra che
la risposta sia sempre la stessa: servirebbero troppi soldi e poi nessuno ci
crede che qua qualcosa potrà essere bonificato. Il movimento di protesta è
molto cresciuto e ha anche già cominciato a dividersi.
L’impressione è insomma che siccome la situazione è davvero troppo
catastrofica per poter fare qualcosa, la via sia quella di tornare alla fase 1: si
sa, ma è meglio che facciamo finta di niente.
L’unica speranza sta nel livello di consapevolezza diffuso, soprattutto tra
chi non ha ancora raggiunto la maggiore età. Rispetto a vent’anni fa l’attenzione di chi oggi vive in Campania ha fatto su questi temi un enorme balzo
in avanti. Anche durante il primo incontro di ScAttiva del 2013, la giornata
seminariale organizzata dal Mammut di Scampia a inizio settembre, i molti insegnanti, medici, psicologici e operatori sociali presenti sembravano
tutti d’accordo sull’assoluta necessità di occuparsi in maniera urgente della
questione ambientale. Più volte in quell’occasione si è parlato di quanto
fosse triste e assurdo che le campagne venissero ormai ritenute luoghi di
pericolo per la salute, molto più della città, per i rifiuti del sottosuolo. Subito dopo il terreno portatore di malattia, quella mattina fu la scuola a essere
additata come altro luogo capace di nuocere gravemente alla salute. Oltre al
quotidiano esercito di reclusi dietro a un banco, ogni giorno il malessere di
insegnanti, genitori e altri lavoratori della scuola si riversa massicciamente
su bambini e ragazzi che si pretenderebbe di educare. Un paio di giorni
fa una maestra riprendeva in maniera durissima una bambina di seconda
elementare perché a suo dire stava seduta in modo sbilenco dietro al banco:
“Ma non lo capisci? Lo sai perché ti punisco? Lo sai che se continui a
sederti in quel modo l’anca ti entra e tu non potrai più avere figli? Mai più!”
Non sono a conoscenza di studi sulle connessioni tra anca rientrata per
seduta sbilenca e fertilità femminile, ma è evidente che il problema serio ce
l’aveva la maestra. E i 30 alunni costretti ad essere in suo pugno 5 giorni alla
settimana, per nove mesi, per 5 anni?
Se sulla nocività del terreno c’è ormai molta consapevolezza, su quanto
la scuola possa incidere sulla salute molto meno. Ed è proprio intorno a
questo argomento che abbiamo fatto ricerca con le scuole e le associazioni
che quest’anno hanno partecipato al gioco di teatro-quartiere “Il Mito del
Mammut”: sulla possibilità di trasformare scuola e territorio in luoghi che
potenziano la salute invece della malattia. La strada è lunga e l’argomento
evidentemente ostico, anche perché il rischio di incagliarsi negli ultimi ritrovati del terrorismo salutista e dello psicologismo da quattro soldi è sempre dietro l’angolo. Ipocondria e inglesismi della valutazione come Pes, Bes
e bestialità affini, sono il primo ostacolo perché davvero possa cambiare
qualcosa nell’ordinario scolastico. Ma ancora una volta non possiamo che
scegliere di provarci, se l’alternativa è far finta di niente o andare solo alla
ricerca del marcio.
Eco
Sistemi
47
2. la città
la città dei bambini
inchiesta su salute e città
di Alessandra Di Fenza
R
Due
48
estringiamo il campo ed entriamo nelle “porte” scelte per questa nostra
seconda avventura Mammut (che ricordiamo sono state: carcere, aula,
migranti-rom, ecosistema).
Durante il giro fatto a settembre 2013 in occasione del seminario ScAttiva –
incontri conviviali per la scuola attiva tra le scuole partecipanti al Mito del
Mammut abbiamo deciso insieme su cosa concentrare la nostra ricerca. Nelle
pagine che seguono le considerazioni dei bambini si incrociano con quelle di
un gesuita e di un attivista fornito di intelligenza per darci un quadro d’insieme del carcere, istituzione totale per eccellenza, eccesso estremo che faremmo
bene a leggere non come isola, anomalia del sistema, ma come lente d’ingrandimento rispetto a quanto avviene normalmente. Anche a scuola.
Il contributo bolognese di Luca Lambertini mostra come sia piuttosto l’intera città a rivelarsi un “carcere globale”, con sbarre fatte di paure e mille normative sulla sicurezza che alla lunga si rivelano un boomerang per qualsiasi
autentica sperimentazione di liberazione. Dell’asfissia burocratica e legislativa
di una “scuola della paura” troverete traccia anche nei racconti “Aiuto/Sgarrupo” riportati nei capitoli successivi: la tutela della salute e della sicurezza
a scuola diventa il terreno di fobie e nevrosi collettive, facendosi a sua volta
causa di malessere e malattia. Oltre che di una pessima scuola.
Indicatori mobili di tutto questo “gli stranieri” e il modo in cui la città riesce a rapportarsi con la loro presenza: Yasmine Accardo ce ne fa un racconto
appassionato.
Anche su rom e migranti abbonda la letteratura e non manca quella di
buona qualità. È sotto gli occhi di tutti la stupidità e la mala fede che in tutta
Europa fa di rom e migranti un insostituibile oggetto di speculazione politica,
alimentata dall’indisponibilità della base, di destra o sinistra che sia, a capire
in maniera autonoma i termini reali della questione.
All’ottusa criminalizzazione a destra di rom e migranti come causa di ogni
male corrisponde a sinistra la criminalizzazione ad oltranza di chiunque osi
far rilevare le “ombre” della presenza migrante. Intanto i cittadini di periferia
continuano a respirare i fumi da smaltimento abusivo di copertoni e materiali
tossici, anche ad opera di pochi rom e migranti assoldati a basso prezzo. E una
cittadina immigrata muore perché non adeguatamente accettata al pronto
soccorso dell’ospedale di Pozzuoli dove si era recata per un malore.
Le nostre porte ci fanno entrare insomma in un “luogo-mosaico”, frutto
dell’interdipendenza tra ciascuna delle etichette che la nostra ricerca ha tentato di mettere in discussione: carcere, scuola, migranti, rom e ecosistema.
L
e frasi riportate sono il frutto di un’inchiesta realizzata con i bambini e le
bambine dell’area nord di Napoli sul tema “salute e città”, tratte dai racconti della II edizione dei Concorsi di MammutBus: “Una giornata salutare
ovvero quel giorno in cui a scuola o in città sono stato bene o male”.
in città
Città
La mia città la voglio colorata e con i fiori. (II E, I.C. 58° “J.K. Kennedy”)
A noi bambini piace giocare all’aria aperta, invece a Chiaiano vogliono
aprire un’altra discarica! (V A, I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”)
Arrivata alla Villa Comunale c’erano delle siringhe e papà le ha raccolte
per non farmi far male. All’inizio mi sono spaventata poi ero felice. (Sara,
II A, 5° Circolo Didattico “Eugenio Montale”)
Il giorno che mi sono sentito proprio bene è stato quando sono salito
su un cavallo alto e ho cavalcato piano. (Pasquale, V B, I.C. 28° “Giovanni
xxiii – Aliotta”)
Sulle strade ci sono tanti fossi e molte macchine, biciclette e motorini ci
sbattono dentro. (Roberta, III D, I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”)
Dal balcone di casa di mia nonna ho visto un signore che dalla sua auto
abbandonava i rifiuti per strada. (Desirée, III D, I.C. 28 “Giovanni xxiii –
Aliotta”)
Che bello viaggiare con il camper con tutta la famiglia. Al mare ho scoperto sotto la sabbia dei denti di pesce antico. (Luigi, III D, I.C. 28 “Giovanni xxiii – Aliotta”)
Un giorno salutare per me è stato quando il 15 gennaio sono andata allo
stadio con tutta la famiglia e mi sono divertita tantissimo. (Giulia, III D,
I.C. 28 “Giovanni xxiii – Aliotta”)
49
Dentro all’ascensore del mio palazzo fumano le sigarette e io mi sento
male. (Pietro II A, 5° Circolo Didattico “Eugenio Montale”)
Sto male quando sento fumare, sto bene quando il prato è fiorito. (Ilaria
II E, I.C. 58° “J.K. Kennedy”)
Invece di usare prodotti naturali si usano prodotti chimici che fanno
male alle piante e a noi che le mangiamo. (Gaia III D, I.C. 28° “Giovanni
xxiii – Aliotta”)
La mia città può diventare migliore se le persone iniziano a rispettarsi.
(Samanta II B, 5° Circolo Didattico “Eugenio Montale”)
a scuola
Quel giorno sono stata felice perché ho visto i delfini che nuotavano.
(Patrizia V B, I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”)
Due
Andare in palestra mi fa stare bene, qualche tempo fa ho imparato il
flic flac, un esercizio della ginnastica artistica molto difficile, ed ero molto
contenta. (Tiziana V B, I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”)
Quando mamma e papà ridono, se sono dispiaciuta mi sento meglio!
(Loredana II A, 5° Circolo Didattico “Eugenio Montale”)
Quando incendiano i rifiuti si forma un fumo nero. Io l’ho una volta
l’ho respirato è mi è venuta la febbre. (Christian Leone III A, I.C. “Ilaria
Alpi – Carlo Levi”)
50
A Scampia ci sono le immondizie ma pure fiori di tutte le specie e farfalle
bellissime. (Angela III A, I.C. “Ilaria Alpi – Carlo Levi”)
Non mi piace che chiamano la mia città la terra dei fuochi e che le persone si ammalano. (Lucia III A, I.C. “Ilaria Alpi – Carlo Levi”)
Mi chiamo Riccardo e abito nel campo rom. Il Mio campo viene trattato
come una discarica, le persone arrivano e buttano l’immondizia: televisori,
lavatrici, mobili, frigoriferi. (Riccardo III A, I.C. “Ilaria Alpi – Carlo Levi”)
I camorristi per motivi economici hanno fatto trasportare dal nord al
sud tutti i rifiuti tossici. Ora la terra è contaminata, l’aria puzzolente e infetta. (Desiree V F, I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”)
Chiaiano era famoso per essere il paese delle ciliegie e nel mese di giugno
si organizzava una grande festa. Ora questa festa non si fa più! (Ilenia V F,
I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”)
Sto male quando buttano la spazzatura per terra. Sto bene quando vado
in palestra. (Martina - Gabriella II E, I.C. 58°“J.K. Kennedy”)
Quel giorno a scuola sono stato proprio bene perché ho festeggiato il
mio onomastico, abbiamo mangiato tutti insieme e riso tanto. (Emanuele
V B, I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”)
Ricordo che ero molto felice di andare in prima elementare perchè avrei
conosciuto nuovi amici e imparato nuove cose. (Antonio V B I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”)
Città
È stato bello partecipare con la scuola al carnevale di quartiere, noi come
carro abbiamo portato l’orto mobile. (Francesco III B, 5° Circolo Didattico
“Eugenio Montale”)
A scuola io e Camillo abbiamo preparato i cartelloni da portare alla manifestazione contro la discarica. Il giorno dopo ci siamo andati e mi sono
molto divertita perché abbiamo potuto dire quello che vogliamo. (Clelia
I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”)
Il 22 febbraio la mia classe ha vinto il premio “Il presepe in bottiglia”. Per
ritirarlo siamo usciti in metropolitana. A Toledo, con Tonino, Carmine e
Alessandro, ci siamo mangiati una pizzetta in attesa della maestra e degli
altri compagni. (Pasquale III D, I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”)
Il 7 Marzo la mia scuola ha organizzato un flash mob contro la violenza
sulle donne, abbiamo ballato, preparato i cartelloni, percorso le strade del
quartiere fino al Comune. Sono stata bene. (Simona, Salvatore, Antonio,
5 F)
51
la dittatura della sicurezza
di Luca Lambertini
L
Due
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a storia che qui racconto velocemente e per sommi capi non ha propriamente a che fare con sperimentazioni didattiche e lavoro educativo, ma
mi sembra esemplifichi bene il corto circuito che si è creato attorno agli
spazi pubblici urbani in questi ultimi anni e aiuti alcune riflessioni che
probabilmente suoneranno familiari, addirittura banali, a chiunque si sia
misurato con problemi di questo tipo.
Nel parco di un quartiere periferico della città di Bologna, esposto come
tutti al rischio di diventare un grande quartiere dormitorio, era sopravvissuto fino a un paio di anni fa un piccolo chiosco. Il chiosco era un luogo
importante: esisteva da molti anni, era stato realizzato negli anni ‘80 dagli
abitanti della zona per rivitalizzare una piccola area verde che si trovava
a ridosso del fiume Reno. Il parchetto era uno dei pochi allora presenti
in quest’area, caratterizzata dalla presenza di stabilimenti industriali e artigianali disseminati nel tessuto urbano del quartiere. Per questo era (ed
è ancora) tanto caro ai residenti, che lo frequentavano numerosi e con il
tempo hanno cominciato a prendersene cura.
Da allora le aree a ridosso del fiume Reno hanno subito notevoli cambiamenti: con la chiusura delle numerose attività industriali e artigianali della
zona, le grandi aree vuote sono diventate riparo per le prime massicce ondate migratorie. Dall’inizio degli anni 2000 tutta la zona sarebbe diventata
famosa per le estese baraccopoli in cui trovavano un primo riparo i tanti
immigrati (provenienti soprattutto dalla Romania) che arrivavano in città
per lavorare (quasi sempre in nero) nei numerosi cantieri aperti negli anni
della grande ubriacatura edilizia. Proprio in quegli anni l’attività del chiosco si è ampliata: da un piccolo bar di pochi metri quadrati si è trasformato
in una piccola attività ristorativa, dove magiare tigelle e crescentine a prezzi
accessibili.
Successivamente la zona in cui si trova il parchetto ha subito altri cambiamenti. Nei vuoti lasciati dalle fabbriche sono stati costruiti nuovi palazzoni residenziali, mentre il “sindaco sceriffo” ha condotto una lotta senza
quartiere agli accampamenti, sgomberando a più riprese gli insediamenti
più grossi e costringendo i suoi abitanti a inventarsi tanti piccoli rifugi improvvisati e ancor più provvisori in giro per il quartiere e la città.
Ma per i cittadini, il parco e il chiosco avevano mantenuto intatto il
loro valore e quella era una delle poche aree verdi attrezzate con giochi per
bambini e dove poter cenare con gli amici, ritrovarsi per un gelato o bere
qualcosa nei mesi estivi. Uno dei rarissimi luoghi del quartiere frequentato
da bambini, giovani e anziani, famiglie italiane e di origine straniera, dove
insomma tutti andavano volentieri e si incontravano “alla pari”. Un luogo
di incontro e di senso in una periferia che, come tante, negli anni aveva
visto il progressivo diradarsi dell’antico tessuto sociale, che si era formato
attorno ai luoghi di lavoro (le fabbriche) e l’impegno pubblico e politico (il
quartiere era considerato una “roccaforte rossa”).
La “crisi” (a oggi irreversibile) è cominciata un paio d’anni fa, quando a
ridosso del parco, proprio dietro il chiosco e l’area giochi, si è trasferita una
coppia che, confondendo come spesso accade, uno spazio pubblico con il
proprio giardino di casa, ha cominciato una lotta senza quartiere ai frequentatori del parco (clienti del chiosco e frequentatori del parco giochi),
rei di fare rumore e baccano (degrado?) anche la sera e di non garantirgli la
dovuta quiete. Purtroppo il conflitto si è allargato in poco tempo, coinvolgendo anche i gestori del chiosco e i frequentatori “storici” dell’area. Ben
presto sono cominciati gli interventi di vigili urbani e forze dell’ordine,
convocati dai contendenti. L’unico risultato di questi primi sopralluoghi
è stata la scoperta che molti dei giochi presenti non rientravano nelle normative più recenti sulla sicurezza e piano piano sono stati smantellati. Ma i
giochi non sono stati le uniche vittime della contesa: gli agguerriti avvocati
delle parti ben presto hanno scoperto che l’allargamento del chiosco era
avvenuta con alcune scorrettezze dal punto di vista urbanistico e che anche
il chiosco risultava quindi abusivo. Anche questo è stato, quindi, costretto
a chiudere e poi demolito.
Nel frattempo le forze politiche locali non sono restate ferme a guardare,
regalandoci un dibattito spesso fuori fuoco e autoreferenziale: fin dall’inizio della vicenda a difesa del cittadino vittima di tanto degrado sono intervenuti gli attenti difensori della legalità e dell’ordine pubblico, così come i
nuovi movimenti con attivisti pronti a schierarsi a fianco del cittadino vessato dalle voci dei bambini e dalle chiacchiere dei frequentatori del parco.
Quando è poi emerso l’abuso edilizio allora il caso è diventato cittadino,
con video inchieste di denuncia stile “striscia la notizia” e astuti complottisti che individuavano in questa vicenda oscure trame di potere... insomma è stata una vicenda che ha tenuto banco per qualche tempo, senza che
nessuno però ne cogliesse l’effettiva portata: la distruzione di un luogo
importante e significativo per tutti gli abitanti del quartiere, che si stava
compiendo sotto gli occhi di tutti. Solo in pochi hanno colto la gravità di
quanto stava accadendo.
Il triste epilogo è stata la distruzione di uno spazio pubblico, effettivamente “di tutti”, a causa di usi privatistici del luogo (lotta al degrado e
abusi edilizi) che sono entrati in conflitto tra loro. Quello che resta è la
constatazione di quanto sarà difficile ora cercare di ricostruire in quel luogo qualcosa di sensato.
Città
53
Due
54
In quel luogo alcuni decenni fa un gruppo di cittadini si era impegnato
per rendere uno spazio pubblico più vivibile e accogliente per tutti, e questo è probabilmente l’ABC, l’essenza del fantomatico “lavoro di comunità”
di cui oggi tanto si parla e si ragiona: prendersi cura assieme dei luoghi in
cui si abita, delle persone in difficoltà, della crescita e dell’educazione di
bambini e ragazzi. Abbiamo visto quanto oggi sia facile distruggere quanto realizzato in passato con quei metodi. E questo è un primo indice di
quanto possa essere mutata (in peggio) la possibilità di lavorare sullo spazio pubblico.
Gli spazi pubblici sono infatti gravati da una serie di vincoli normativi
che negli anni si sono stratificati e che, pur essendo nati per promuoverne
l’uso, il presidio e la valorizzazione, hanno finito per strangolarli. I giochi e
le attrezzature di un’area verde, per restare nell’ambito della nostra storia,
devono rispettare precise norme relative a materiali, metodi di montaggio, manutenzione che li rendono difficilmente sostenibili per enti locali
sempre più senza risorse e non possono essere presi in carico dai cittadini,
sempre per via del groviglio di vincoli da rispettare. Sui giochi nei parchi
pubblici a Bologna tira una brutta aria da quando nel 2008 un bambino
morì (dopo mesi di coma) dopo la caduta da un’altalena che si è rotta mentre la usava. Da allora le preoccupazioni sulle aree gioco sono lievitate con
la conseguenza (aggravata poi dai bilanci sempre più risicati degli enti locali) che i giochi nei parchi si sono molto diradati e, in caso anche di piccole
rotture, restano chiusi e inagibili per mesi.
Se poi si volesse allargare il campo ad altre attività che sono caratteristiche del lavoro di quartiere e di vicinato come la musica o il cibo allora
la giungla dei vincoli diventerebbe ancor più inestricabile. Per realizzare
una piccola festa di quartiere è necessario infatti procurarsi certificazioni
di ogni tipo (gli impianti, l’impatto acustico, il corretto montaggio delle
strutture, ecc.) e coinvolgere (e pagare profumatamente!) numerosi professionisti e tecnici. Oltre a dover allestire luoghi idonei con la normativa
igienica e sulla sicurezza (bagni, cucine, magazzini, spogliatoi, ecc.).
Tutto questo non rende impossibile realizzare iniziative di trasformazione (anche temporanea) degli spazi, ma rende il tutto estremamente costoso
e complicato, e spesso allunga terribilmente i tempi di realizzazione. Con
il risultato che gli unici a poter organizzare iniziative negli spazi pubblici
sono soggetti imprenditoriali e commerciali, che traggono da quelle iniziative le risorse necessarie per poter affrontare tutti gli oneri e le procedure
previste.
Oggi è quindi chiaro che organizzare iniziative di vicinato, su piccola
scala, coinvolgendo le persone del luogo, rispettando tutti i vincoli normativi è praticamente impossibile. Diventa così necessario capire che margine
di abusivismo (e quindi di rischio) le persone coinvolte sono disposte ad
assumersi, che grado di adattabilità hanno alle pratiche burocratiche e ai
burocrati, quanta parte delle proprie energie sono disposti a sottrarre ai
progetti per dedicarle alle procedure e allo studio delle norme.
In un simile scenario, capita sempre più frequentemente di incontrare
persone e gruppi che abbandonano lo spazio pubblico, che battono in ritirata, che decidono di agire le loro pratiche in contesti privati, cercando
poi, nei casi migliori, di rendere pubblica, cioè aperta a tutti, la fruibilità
dei progetti.
Un simile corto circuito dovrà arrivare prima o poi a un punto di rottura, a un acme che renderà evidente quanto sia urgente e importante un
radicale ripensamento delle norme che riguardano gli spazi e i beni pubblici: come si può chiedere ai cittadini di tornare a occuparsi di questi se le
norme e le burocrazie che li regolano lo rendono impossibile?
Alcuni piccoli segnali di questo cominciano già a vedersi: a Bologna
ad esempio è stato emanato un regolamento comunale in grado di snellire alcune procedure per aiutare i cittadini che intendono partecipare alla
manutenzione e rivitalizzazione degli spazi urbani. Anche se al contempo
i comitati antidegrado hanno ottenuto un regolamento sull’impatto acustico delle attività all’aperto che rende ancor più difficile e complesso organizzare anche piccoli eventi di quartiere, come piccoli concerti o cinema
estivi all’aperto.
Forse l’unica speranza è che la rivendicazione di poter organizzare piccoli eventi negli spazi pubblici anche per piccoli gruppi di cittadini senza grandi fondi a disposizione diventi anche rivendicazione politica. Cioè
che queste associazioni o gruppi informali, che sono ormai tanti, inizino a
porre questi problemi, tutt’altro che secondari, all’attenzione di chi amministra le città costringendoli a confrontarsi con loro e con le loro istanze.
Città
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3. carcere
il carcere come luogo comune
alcune figure sociali e hanno determinato una forte crescita di ingressi nel
sistema penitenziario. Non appena vi sono state modifiche a queste norme
e si è reso più semplice il ricorso a misure alternative alla detenzione, vi
è stata una inversione di tendenza. È un luogo comune dunque ritenere
che vi sia una correlazione diretta tra aumento di reati e aumento della
popolazione detenuta. Sono le scelte politiche che determinano le dinamiche
di ingresso in carcere senza che vi sia alcuna correlazione con l’andamento
dei reati.
di Dario Stefano Dell’Aquila
A
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metà tra i luoghi invisibili agli occhi si colloca il carcere. La parola
“carcere” (il cui etimo significa appunto nascondere) è forse una delle più lette o ascoltate, nei racconti della cronaca quotidiana, e allo stesso
tempo il “carcere” come luogo fisico è noto solo a quanti vi sono detenuti
e a quanti (operatori penitenziari, agenti, figure civili) vi lavorano. Questo
rende il carcere, oggi, in un tempo in cui nulla sfugge all’occhio di una telecamera, allo stesso tempo un luogo noto e sconosciuto. Forse è per questo
che spesso lo riempiamo di luoghi comuni. Non è un limite della nostra
epoca, da sempre, dalle sue origini, sul carcere si producono gli stessi inesorabili discorsi. Deve essere un luogo di punizione o deve essere un luogo
di redenzione, bisogna proteggere la società o occorre rieducare, questi i
poli di un discorso che non contiene molte variabili. Inutile dire che, nel
discorso sociale, pesa molto di più l’opinione collettiva che invoca sempre
più carcere, sempre più cattivi da mandare in cella, e che disegna il nostro
sistema penale come “sostanzialmente” lassista.
Quanto c’è di vero in tutto ciò? Questa pagina non offre abbastanza
spazio, se non per qualche spunto che andrebbe approfondito. Procedo
per punti sintetici, confidando nella pazienza di chi legge, promettendo in
cambio brevità.
Uno. Negli ultimi vent’anni il numero di detenuti è progressivamente cresciuto, raddoppiando in pochissimo tempo, tra il 1990 e il 2000 si è
passati da 25mila a 50mila presenze. Poi una crescita inarrestabile fino ad
arrivare a quota 70mila (su una capienza di 48mila), infine una lieve ma
costante inversione che ha riportato il numero dei detenuti a circa 54mila
unità. Che cosa è successo? Presto detto: contrariamente a quanto si possa
pensare, la criminalità organizzata pesa pochissimo, meno del 10 per cento. Il 60 per cento della popolazione detenuta è composta da immigrati o
tossicodipendenti ed entra in carcere principalmente per violazione delle
norme sul possesso di sostanze psicotrope (droga). La legge Bossi-Fini e la
Fini-Giovanardi hanno avuto un forte impatto nella criminalizzazione di
Due. Le carceri italiane, quelle campane in particolare, sono tutto tranne
che alberghi a 5 stelle. Negli ultimi quattordici anni si sono registrati, nelle
carceri italiane, 2.364 morti, tra cui 842 suicidi, e, dato sempre poco diffuso,
migliaia di episodi di tentati suicidi (1.067 nel 2013) e di autolesionismo,
ovvero di persone che tagliano il proprio corpo per protestare (6.092 nel
2013). Si muore per cure mancate, episodi di violenza mai chiariti, disperazione, solitudine, in celle talmente affollate che a Poggioreale, ad esempio,
si arriva a una densità di 16 persone per stanza, con i letti a castello impilati
per tre.
Tre. Opinione comunque è che i migranti che commettono reati la
facciano sempre franca. Nulla di più falso, non solo sono tra i più colpiti dall’azione penale, spesso per reati di relativo allarme sociale, come la
vendita di merce contraffatta, ma scontano la detenzione in condizioni di
assoluta povertà e assenza di aiuto esterno. Ancora oggi, nonostante questa
presenza straniera sia consolidata da decine di anni, non vi è un servizio di
mediazione culturale strutturato nelle carceri italiane, gli operatori penitenziari che hanno delle competenze linguistiche o di mediazione le hanno
acquisite solo per spirito di coscienza personale.
Quattro. Il carcere non lo sconta solo il condannato (o il detenuto in
attesa di giudizio) ma tutta la sua famiglia. Le file interminabili che cominciano alle 6 del mattino dinnanzi il carcere di Poggioreale, le perquisizioni
fisiche anche per i bambini, i trasferimenti improvvisi senza motivazioni,
la sospensione di ogni dimensione affettiva rendono l’esperienza detentiva
dolorosa non solo per chi ha commesso un reato ma anche per tutti i suoi
cari.
Cinque. Ancora oggi il nostro sistema penitenziario è costruito su una
razionalità “maschile” che rende la detenzione femminile ancora più dura.
Così come è dura per le mamme con bambini che sino a tre anni possono far loro compagnia “dietro le sbarre”. Si, avete letto bene. Nonostante
il credo comunque alimentato da molti film, una mamma con bambini
Carcere
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piccoli finisce in carcere e ancora oggi non vi sono luoghi alternativi che
consentano di conciliare l’esigenza di sicurezza con la tutela di un minore
costretto a vivere una esperienza traumatica.
Due
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In queste condizioni sperare che il carcere possa essere un luogo che
consente un reinserimento sociale è pura utopia. Negli ultimi anni le risorse dedicate alla parte sociale del trattamento penitenziario sono divenute
prossime ai centesimi.
È già molto se oggi, e solo per lo sforzo volontario e solitario di una parte
del mondo penitenziario che non si è arreso ad una condizione di brutalità,
si riesce a garantire una condizione detentiva che non determini inumanità e situazioni degradanti. Questa consapevolezza non deve affievolire
la volontà di chi decide di lavorare in carcere, anzi deve rendere più forti.
La consapevolezza che il carcere deve essere un luogo comune, un luogo
di tutti. Un luogo in cui non vi siano solo persone private della libertà,
ma operatori sociali, volontari, associazioni e semplici cittadini che devono
certo rendere meno pesanti le condizioni di chi è recluso, ma che sappiano
ogni giorno interrogarsi sulla sua necessità e sulle possibili alternative. Per
farlo è necessario però abbattere, uno per uno, tutti i luoghi comuni che
disegnano per gli uomini solo un orizzonte di sbarre.
carcere e territorio
di Fabrizio Valletti S.J.
dal mio arrivo a Napoli nel 2001 che frequento sia il Centro Penitenziario di Secondigliano sia la Casa Circondariale di Poggioreale. Ma
è soprattutto girando fra le famiglie del quartiere che ho preso più contatto
con la realtà della detenzione con tutte le sue connessioni sociali, culturali
e familiari. Quando lavoravo nelle città della Toscana e dell’Emilia Romagna, visitando i locali istituti di pena, emergeva la presenza preponderante
di ristretti provenienti dal Mezzogiorno d’Italia, dalla Campania e in particolare dalla provincia di Napoli. La inquietante domanda del perché una
tale percentuale di problemi giudiziari sia concentrata in un particolare
territorio, ha trovato chiara risposta proprio abitando la periferia napoletana e frequentando altre realtà come quelle dei Quartieri spagnoli, dei quartieri della Sanità, di Forcella e delle altre periferie cittadine.
La scorsa estate, durante un’attività di animazione nel quartiere, uno
bambino era stato punto da una vespa. Lo accompagnai a casa. La nonna
ci accolse chiedendomi se potevo visitare il marito che era a Poggioreale.
Arrivarono presto la mamma del bambino con la sorella. Il discorso anche
per loro era lo stesso… i loro uomini erano uno ad Ariano Irpino e l’altro
a Carinola, istituti di pena campani un po’ più confortevoli di quelli del
capoluogo. Di fronte a situazioni come queste si concentrano diverse domande sulle cause di un fenomeno così grave e diffuso. Ci si chiede anche
quale processo sociale e civile potrebbe sollevare tante famiglie da una condanna che non investe solo il colpevole di un reato, ma gran parte dei suoi
parenti più vicini.
Nella storia di vita di molti ristretti emerge una situazione di sofferenza
che risale all’infanzia. È esperienza comune nel quartiere di Secondigliano
la fragilità e la povertà culturale di molte famiglie. Rappresentano un’eccezione quelle che hanno affrontato con continuità l’istruzione. Se ne deduce
che non è diffusa l’esperienza di un equilibrato sviluppo di responsabilità,
come anche la possibilità di affermarsi come persone libere in un clima di
legalità. Il racconto del passato che molti ristretti mi confidano non rivela la
coscienza di che danno e sofferenza un reato possa aver provocato alle vittime, quasi che la nebbia del vivere senza libertà abbia offuscato la capacità
di cogliere il mondo intorno a sé.
La condizione stessa di ristretto – di chi cioè è costretto a vivere in luoghi
promiscui, senza spazio e aria, senza occupazione lavorativa, con rare possibilità di distrazione – rende la coscienza ancora più chiusa nella propria
sofferenza, senza la capacità di entrare in discussione con le ragioni del pro-
È
Carcere
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Due
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prio operare. Anche la mancanza di basi culturali o di esperienze lavorative
regolari restringe ancora di più l’orizzonte di un pensiero che tutt’al più si
esercita nelle dinamiche della pena, dei percorsi giudiziari, nella serie dei
processi affrontati o da vivere, di possibili alternative… tutti argomenti di
cui i ristretti rivelano una competenza aggiornata, acuta e vigile.
Dal racconto che i responsabili di reato hanno spesso affidato al mio
ascolto ho potuto verificare che i colpevoli di azioni illegali sono spesso
anche vittime di un sistema giudiziario lento, tanto complesso che è quasi
impossibile capirne i meccanismi. Per la maggior parte dei casi il percorso
della difesa, delle cause e dei processi è molto costoso e ritenuto ingiusto. È
una sequenza spesso interminabile di confronti con giudici e avvocati, tribunali e carceri da raggiungere anche con lunghi viaggi, alleviata da poche
possibilità di incontro con gli educatori, gli psicologi e gli assistenti sociali.
Chi ne soffre in maniera speso disumana sono i familiari che con molti
sacrifici cercano di essere puntuali ai colloqui settimanali.
Il solo essere spettatori esterni della procedura con la quale i familiari si
preparano ai colloqui, suscita un senso di ribellione a cui purtroppo non
c’è rimedio, per i meccanismi perversi delle lunghe attese, delle perquisizioni, del tempo che richiede ogni piccolo spostamento. Sono le occasioni
in cui soprattutto le donne mostrano la capacità di soddisfare le esigenze
dei loro congiunti ristretti. Donne che nel tempo di libertà dei loro uomini
hanno spesso subito abbandoni e infedeltà, umiliazioni e violenze, ma dal
momento che il carcere ha significato separazione e lontananza, diventano
capaci di trasformarsi in tante “penelopi”, fedeli e costanti nel provvedere
alla biancheria e al cibo. Cibo che si trasforma immancabilmente in “sapore di famiglia” per ogni ristretto.
Il percorso che l’ordinamento penitenziario dovrebbe offrire ai detenuti,
nel dovere costituzionale di favorire la rieducazione e il reinserimento sociale, si rivela spesso inadeguato per la carenza di opportunità formative.
Tanto da consolidare spesso la mentalità malavitosa. I meccanismi di relazioni che il carcere offre non presentano l’acquisizione di una coscienza
libera e non sono in grado di rafforzare quelle inclinazioni positive che anche un responsabile di reati spesso può esprimere. Alla base del sistema c’è
l’assidua presenza della “sorveglianza” che accompagna ogni azione, ogni
problema, ogni necessità dei ristretti. Quanto può essere richiesto per le
esigenze anche più elementari va formalizzato con la compilazione scritta
di domande sottoposte all’approvazione degli ispettori di ogni reparto. È
un meccanismo di dipendenza che rende gli individui sospettosi, passivi,
rinchiusi nella sofferenza di un tempo dilatato, di uno spazio invalicabile.
Anche il migliore agente di polizia penitenziaria, il migliore educatore,
il migliore direttore di Istituto non potranno abbattere il muro di gomma
che rende la detenzione una esperienza di fatto disumanizzante.
È chiaro che ci possono essere delle eccezioni, e spesso lodevoli. Anche al
Centro penitenziario di Secondigliano e a Poggioreale è possibile avere una
attività lavorativa, come anche esperienze di studio generalizzate e organizzate, in collegamento con le istituzioni scolastiche del territorio. Spesso
sono realizzati dei laboratori di creatività e di espressione, come anche dei
progetti di formazione al lavoro.
Si può vivere all’interno delle carceri anche un’esperienza di vita religiosa favorita dalla presenza di ministri di culto di varie espressioni di fede.
Prevalente è l’azione dei cappellani per i cattolici, spesso coadiuvati da volontari impegnati anche per far fronte a esigenze di assistenza elementare.
I volontari, previsti dall’ordinamento penitenziario, sono delle figure
importanti che fanno da cerniera fra “il dentro e il fuori” delle carceri.
Sono previste due possibilità di intervento dei volontari: quelli impegnati
in singoli progetti anche di breve durata (con il cosiddetto art. 17) o quelli
che svolgono un permanente servizio di assistente volontario (art. 78).
L’importanza di queste figure non solo si rivela efficace per le iniziative
culturali, religiose, ricreative che sono organizzate all’interno della struttura, ma possono essere il vero volano di una relazione che si può e si deve
stabilire con la società civile e con il territorio esterno all’istituto di pena.
Primo fra tutti il contatto con quelle famiglie che soffrono la separazione
dai propri congiunti spesso ristretti da anni.
Su questa traccia di riflessioni nasce l’interrogativo se in un territorio
come Scampia, che soffre per una densità notevole di popolazione coinvolta nella illegalità, ci sia una coscienza culturale, sociale e politica per tutto
ciò che comporta la presenza di uno o più detenuti nella propria famiglia.
Che sia un problema culturale lo rivelano per esempio i tanti casi di
bambini che nelle scuole del quartiere risentono di una situazione familiare
poco serena, condizionata dagli obblighi che vivono coloro che, soprattutto donne, hanno congiunti ristretti, da visitare e da sostenere col faticoso
appuntamento dei colloqui. L’organizzazione malavitosa a cui alcuni detenuti appartengono aiuta economicamente le loro famiglie, con il risultato
che un legame di illegalità si perpetua nella cultura dei familiari e ciò che è
peggio nella crescita dei figli.
Della risonanza problematica sul piano educativo che il carcere determina nei bambini del nostro quartiere sono testimoni gli insegnanti che
hanno in classe figli di detenuti. Alcuni hanno affrontato il problema con
determinazione elaborando percorsi didattici appropriati. O gli educatori
che, nei centri di aggregazione e di animazione sportiva, cercano di diradare nell’ animo dei figli dei detenuti le tante suggestioni di aggressività, di
violenza, di dolore, di cui il loro immaginario è ingombro. Sono interessanti le sperimentazioni in atto e lodevoli le iniziative intraprese soprattutto a livello di volontariato.
Carcere
61
Due
62
Alle esigenze più generali dovrebbero dare attenzione i servizi sociali
presenti nel territorio. Purtroppo dispongono di poche risorse per alleggerire il carico di molte famiglie. Quello che risalta nell’analisi delle responsabilità sociali e politiche è la totale assenza di amministratori che elaborino
un ancor minimo progetto che favorisca un rapporto efficiente ed efficace
fra società civile e istituzione penitenziaria.
Si tratta di prevedere che nel percorso di esecuzione della pena il ristretto
possa godere di permessi, di occasioni di semi libertà per il lavoro esterno, di detenzione domiciliare, di tutte quelle forme di misure alternative,
possibili solo se nella società si attivano forme di accoglienza e di reinserimento civile.
È anche un problema di educazione dei cittadini, spesso renitenti a riconoscere l’importanza che i detenuti abbiano una riduzione dei tempi di
pena e quindi una libertà anticipata. Non si può mantenere una strategia
dello struzzo alimentata da solidi pregiudizi, rinforzati da episodi che hanno visto detenuti compiere dei reati mentre godevano della semi-libertà o
di un permesso premio.
A tale proposito può essere interessante incrementare quelle esperienze
che hanno visto studenti delle scuole del quartiere entrare nel Centro Penitenziario di Secondigliano e prendere contatto diretto con la realtà del
carcere ed elaborare una adeguata conoscenza del fenomeno.
A Poggioreale è stata interessante l’iniziativa del “Premio Napoli” che
ha affidato a dei ristretti la lettura di alcuni romanzi e di alcuni saggi in
concorso.
Sono soprattutto le iniziative di carattere artistico ad avere valore formativo e a permettere a chi vi partecipa, siano esterni come detenuti, di elevare
le capacità di comprensione e di riscatto da ogni forma di mala società.
Per il quartiere Scampia la scommessa è del tutto aperta, se pure con
piccoli interventi, e c’è da sperare che si moltiplichino le occasioni che permettano, soprattutto a chi ha pagato il conto con la giustizia, di reinserirsi,
famiglie comprese, in un contesto favorevole e costruttivo.
la porta del carcere
degli alunni della VB della “Virgilio 4” – docente Elvira Quagliarella
Per me in una piccola stanza non possono stare in 10 detenuti.
I detenuti quando si devono lavare non hanno l’acqua calda.
Quando andavo a trovare mio padre aspettavo sei, sette ore prima di
entrare. L’attesa è interminabile.
Le persone quando vanno a trovare i loro parenti in carcere, fanno la fi la
e si prendono pure a botte. I bambini si spaventano. Vi giuro che è terribile.
Carcere
I carcerati anche se hanno sbagliato non devono vivere in condizioni
disumane.
Una volta usciti dal carcere è difficile reinserirsi nella società perché nessuno ti vuole. Anche trovare lavoro è quasi impossibile.
63
Nelle celle c’è un bagno comune per tante persone.
Per andare a trovare mio zio al colloquio, mia zia con i figli deve arrivare
fino in Calabria.
I cuscini sono duri e pure le coperte, i letti freddi e ti manca il calore
della famiglia.
Quando andavo a trovare mio padre e lo vedevo mi mettevo a piangere,
perché si capiva che non stava bene.
All’inizio del colloqui le famiglie si salutano e si abbracciano con i detenuti ma la guardia suona subito il campanello per far capire che non si
possono abbracciare.
paul le bohec (1921-2009)
P
edagogista francese, ha proseguito e attualizzato molti dei contenuti del suo maestro
Celestine Freinet, dando nuove possibilità anche alle intuizioni di Decroly e di altri
autori della pedagogia attiva.
Tra i suoi testi principali Leggere e scrivere col metodo naturale (Junior 2006),
un utilissimo manuale teorico-pratico in cui Le Bohec parla anche della possibilità di
una letto-scrittura capace di potenziare la salute. “Quindi, alla fine, la scrittura è uno
strumento per una miglior qualità di vita. Ma perché i bambini dovrebbero
esserne frustrati? Essi possono accedervi fin dall’inizio della scuola
profili
primaria, in particolare se si utilizza il metodo naturale di ‘scrilettura’ che si fonda sulla natura dell’essere umano, sull’espressione-creazione e
sulla natura della lingua”, scrive in un articolo dal titolo La lettura non ha primaria
importanza del 2004.
Tra le ragioni che hanno reso fondamentale l’opera di Paul Le Bohec anche ai fini delle
sperimentazioni Mammut contenute in questo libro, vi sono i suoi studi sugli stadi dello
sviluppo infantile e i parallelismi tra disegno e attività di letto-scrittura, che fondano
l’intero processo di apprendimento sui portati affettivi del singolo partecipante, piccolo o
grande che sia.
Affettività ed emozioni trovano così piena cittadinanza nella scuola, a prescindere dal
bene, dal male, dal merito e dal giudizio, facendosi anzi materia prima indispensabile,
trasversale a ogni ambito disciplinare, dentro e fuori dall’aula, in italiano come nelle
materie scientifiche, come Le Bohec mostra in maniera chiarissima in un altro suo titolo
fondamentale: Il testo libero di matematica. Un modo creativo di insegnare/imparare
la matematica (La Nuova Italia 1995).
Nelle pratiche e nelle opere del pedagogista francese troviamo, infine, molti spunti
importanti sul lavoro con gli adulti, avendo esercitato ruoli rilevanti come formatore
all’interno del tentativo compiuto dalla cooperazione europea di innovare la didattica a
partire dal corpo insegnante.
4. e a scuola? scuola e salute
O
ggi di educazione alla salute si parla probabilmente con frequenza e consapevolezza molto maggiori che in passato, con avanguardie regionali
come quella lombarda (vedi. scuolapromuovesalute.it/ebook/#p=1) afferente
al network europeo Schools for Health in Europe - She (http://www.schoolsfor-health.eu/she-network).
Come spesso capita nella nostra scuola, i buoni propositi sembrano limitarsi
però alla trasmissione di concetti astratti, distanti dalla vita reale e scollegati
dall’esperienza. Mentre si predicano cambiamenti di stili di vita improntati su
movimento e natura, si continua a costringere bambini e ragazzi di ogni età
nello spazio ristretto di banchi e aule per intere giornate. E lontani sembrano
i tempi in cui la salute e il funzionamento psicofisico determinavano il modo
effettivo in cui studiare la matematica, l’italiano e le altre materie curriculari.
Ancora una volta insomma la salute come materia a parte. Perché la scuola è
e pare debba rimanere a essere sofferenza.
Prima di raccontarvi i modi con cui abbiamo cercato di ricominciare a ragionare in positivo su questi argomenti, alcune riflessioni sulla salute a scuola.
Oltre all’iper normativismo securitario a cui abbiamo già fatto cenno con il
concorso “Aiuto/Sgarrupo” e di cui stavolta ci racconta una maestra, riportiamo le riflessioni della psicoterapeuta junghiana Giulia Valerio sulla psicologia
che regge la candela alle redivive “classi speciali”. Vecchi stratagemmi a cui
presidi e insegnanti rifanno il trucco, circondati dalle rovine di una scuola che
cade a pezzi e dai pezzi di una società senza più alcuna tutela.
Infine il frutto del lavoro di ricerca-azione svolto per l’ong WeWorld – Intervita, tra Piemonte, Lombardia, Lazio, Campania, Sicilia sul tema della dispersione scolastica. Seppure in contesti tanto diversi, la valutazione è sempre
risultata elemento centrale ai fini dell’abbandono scolastico, perché capace di
creare seri danni alla salute psicofisica di adulti e bambini. Chi voglia ripensare davvero a una scuola salutare dovrà probabilmente ripartire proprio dal
ripensamento radicale del modo in cui fare valutazione.
65
sana e robusta Costituzione
di Vincenzo Esposito.
Incontro con Giovanni Zoppoli e Alessandra Tagliavini
V
Due
incenzo Esposito è un medico chirurgo e omeopata napoletano che in
questi anni ha condiviso con noi un importante pezzo di strada nella
ricerca di una scuola salutare, realizzando tra l’altro un ambulatorio medico
nei locali del Centro Mammut.
Di seguito uno stralcio del volantino usato per pubblicizzare quell’iniziativa: “È in quest’ottica che avviamo un ambulatorio popolare e gratuito a Scampia, tenendo lontana ogni volontà di sostituirci al sistema medico pubblico e
di tapparne i buchi. Obiettivo di questa nuova attività del Mammut è quella
di produrre cultura della salute pubblica, a partire dal miglioramento della
vita di ciascun individuo e producendo consapevolezza collettiva su economie
e politiche locali, nazionali e internazionali che minano la vita del pianeta e
di chi lo abita”.
A lui dobbiamo molto, anche per essersi preso cura della nostra salute individuale. Gli abbiamo rivolto alcune domande sul tema “Stato e salute”.
66
In Campania, più che nel resto d’Italia, mass media e movimenti dal basso
hanno urlato l’allarme salute, per adulti e bambini. Ritieni che la situazioni
sia davvero grave (di più che in passato e in altri posti d’Italia)? Se sì, per quali
motivi? Quali sono i dati più significativi rispetto alla gravità della situazione?
Lo stato di salute della popolazione è gravemente compromesso in tutta
Italia senza sostanziali differenze. La salute è definita come una condizione
di benessere psico-fisico individuale di interesse collettivo e la Costituzione italiana lo sancisce all’articolo 32, ma essa è stata inapplicata su tutto il
territorio nazionale indistintamente; il fatto che al sud le cose siano nettamente peggiori è un luogo comune mediatico.
Proprio l’applicazione del principio costituzionale avrebbe permesso attraverso il raggiungimento di uno standard nazionale di non trovarci con
una frantumazione politica territoriale quale quella attuale. Oggi la gravità
è determinata proprio da una deliberata scelta di gestione non unitaria della tutela della salute della collettività nazionale.
Non sono le cosiddette nuove patologie ad aggravare la situazione ma la
gestione non collettiva dello strumento sanitario: dagli anni ‘70 in poi si è
giocato sulla dicotomia pubblico-privato.
La salute è un bene individuale che va assicurato e sostenuto nell’interesse della collettività, in questo senso essa è un diritto di cittadinanza.
La dicotomia pubblico-privato è stata in realtà un modo ipocrita in cui
stato-impresa privata e privato sociale sono entrati per nascondere (da parte di alcuni in maniera consapevole, da parte di altri inconsapevolmente
per difetto di analisi) il fatto che c’era da perseguire un obiettivo strategico:
“usare” la sanità pubblica in tutte le sue articolazioni finanziarie, amministrative e professionali come un grosso fondo di denaro e di forza lavoro per
produrre malattia, quindi creare bisogni per assicurarsi un indotto senza
rischio di esaurimento.
Sarebbe troppo lungo, in questa sede, esaminare in dettaglio tutti i passaggi, ed è inutile dire che l’articolo 32 della Costituzione è stato strappato:
oggi il dato unico grave è che la salute è un diritto individuale che può
essere assicurato dal censo della persona.
Questo punto di arrivo è grave per due motivi: non è giusto rispetto alla
Carta Internazionale dei Diritti Umani ed è stupido perché se non garantisci il singolo non garantisci la collettività (per es. Ebola non guarda in
faccia a nessuno).
Scuola
Quali sono gli elementi di maggiore mutamento, in particolare per la salute
dei bambini, in questi ultimi 40 anni a Napoli?
La mancanza di una struttura familiare stabile. La non conoscenza e il
non interesse delle coppie genitoriali naturali a capire la struttura relazionale della triade fisiologica padre–madre–bambino e prendere atto delle
correzioni che si possono fare entro i primi tre anni di vita.
Quali sono i fattori sociali e ambientali che in questo momento incidono
più negativamente sulla salute dei bambini? Potresti dirci qualcosa di più in
particolare sull’inquinamento elettromagnetico, anche legato all’uso di nuove
tecnologie (specie quando nessuna attenzione viene fatta ad eventuali conseguenze sui bambini)?
I campi elettromagnetici deformano il citoscheletro cellulare per cui influiscono sulla efficienza della risposta dei sistemi di regolazione (linfaticoendocrino-neurovegetativo) che sono peraltro integrati fra loro.
67
disegno dei bambini ed etnopsichiatria
di Giulia Valerio
D
Due
1. Erny P.,
L’enfant et son
milieu en Afrique noire, Essai
sul l’éducation
traditionnelle,
Paris Payot 1972;
Ethnologie de
l’education,
L’Harmattan
2000; L’enfant
dans la pensée
traditionelle de
l’Afrique noire,
L’Harmattan
2000: Les premiers pas dans
la vie de l’enfant d’Afrique
noire, L’école
1972.
2. T. Nathan è
stato il fondatore del primo
consultorio
etnopsichiatrico nel 1973
all’ospedale
a anni con alcuni amici vado regolarmente in Mali, nel paese dei
Dogon, popolo celebre per la ricchezza della cultura orale e per il
livello della loro civiltà, in cui saggezza religiosa, ospitalità, capacità di cura
e senso della vita si intrecciano, richiamando ormai da quasi un secolo antropologi, etnologi, etnopsichiatri, pedagogisti, infermieri, medici, turisti,
malati in cerca di guarigione e studiosi assetati di alterità.
Ci siamo trovati di fronte a un modo radicalmente altro di vivere, di
concepire la vita, la storia e la società, e in questo spaesamento abbiamo
deciso di approfondire alcune nostre ipotesi, e di accostarci alla loro pedagogia, ai loro sistemi di “costruzione” dell’essere umano e di educazione di
bambini e bambine. Ci siamo dolorosamente accorti di come siamo soliti
raccontare e affrontare la diversità con i nostri sistemi di coscienza, le nostre prospettive e le nostre nosografie.
Un piccolo esempio: un esperto psicologo dell’età evolutiva, vedendo
come i bambini dogon disegnano gli alberi, ebbe (secondo lui) la prova
della loro arretratezza: radici esposte, cattiva collocazione nello spazio e
così via; tutta la batteria dei test proiettivi fatti (si dovrebbe dire “somministrati”) nelle nostre istituzioni li avrebbe schedati come arretrati, se non
parzialmente psicotici.
Una piccola parte di noi non si arrese, poiché intuimmo che ci trovavamo di fronte a una diversa forma di coscienza, e riconoscevamo stilemi e
astrazioni antichi e ricchi di altri sensi e significati. Per un mese abbiamo
lavorato nella scuola elementare del villaggio di Kamba, sull’altopiano, a
circa 15 chilometri da Sangha e a 25 da Bandiagara, capoluogo della regione
(e abbiamo imparato tantissimo). La strada di collegamento è una pista in
arenaria rossa, spesso allagata durante la stagione delle piogge e dissestata
nella stagione secca. Vi convergono i 10 villaggi limitrofi, e tutti giungono
a piedi, alcuni facendo chilometri di falesia anche 4 volte al giorno. Ma la
scuola, poiché non è obbligatoria (per le carenze delle strutture) è vissuta
come una gioia, e gli alunni accorrono vestiti a festa ogni giorno, riuniti in
classi numerosissime (un centinaio in prima, poi intorno alla quarantina).
Spesso un maestro copre due classi.
Nonostante il libro di testo (al singolare perché ce n’è uno solo per il
maestro) imiti quelli europei, quindi con una linea in basso per la terra,
uno spazio vuoto in cui camminano gli esseri viventi e una linea sopra
per il cielo (e solo allora mi accorsi dell’assurdità di questa rappresentazione) bambini e bambine disegnavano ponendo persone e oggetti in tondo.
Avevano in sé una rappresentazione del cosmo straordinaria, non indoeuropea, capace di tenere insieme spiriti e esseri umani, spesso rappresentati
simbolicamente, basata sulla circolarità e il nutrimento, fino alla stupenda
raffigurazione del cielo, rotondo come la terra, in cui sono compresenti
tutti i cieli possibili: diurno, notturno, stellato, nuvoloso, rosato quando il
giorno nasce e tramonta.
Questa esperienza inaugurò l’approfondimento della pedagogia africana, molto avanzata e complessa, cui studiosi come Erny hanno dedicato interessantissimi studi1, sulla quale si è basata una commissione ministeriale
maliana per studiare programmi scolastici non ispirati soltanto alla cultura
scritta occidentale, ma basati sulla “pedagogia convergente”, per liberare la
scolarizzazione dalle violenze di chi l’aveva imposta: i coloni e i missionari,
che per secoli cercarono di sradicare i bambini dalle loro famiglie, dalla
lingua madre, dalla religione e dalla cultura che li avevano messi al mondo.
Da allora, e grazie all’etnopsichiatria, ci siamo accorti della violenza dei
nostri sistemi di cura e di presa in carico, in cui imponiamo un lessico
scientifico che, come scrive Nathan2, è basato su termini che nella lingua
corrente sono insulti (come “isterica”, “nevrotico”, “autistico” divenuti
epiteti del litigio). Queste definizioni cronicizzano la malattia attraverso
trattamenti medicalizzati e sintetici, e segnano una marginalità e un “difetto” di cui cercare i colpevoli nei familiari stretti. Diagnosticare un essere
in evoluzione significa fissarlo ad uno stadio preciso, e non cogliere più il
processo dinamico evolutivo né la straordinaria flessibilità e resilienza dei
primi dieci o dodici anni di vita.
I disordini psichici nei minori sono il segno e il sintomo del disagio della
civiltà in cui vivono: come piccoli radar, assorbono e segnalano ciò che
è scomposto ed in pezzi, frammentato o esplosivo, e tutte le lacerazioni
dell’ordine naturale di cui avrebbe bisogno una crescita armoniosa. Per
questi motivi tanti sistemi terapeutici (a cui anche quello etnoclinico si
ispira) accolgono in équipe un gruppo di persone, familiari, amici, insegnanti e assistenti sociali, in quanto piccola rappresentazione del sistema
in cui il minore abita e vive. Il bambino o la bambina stanno al centro e
disegnano, giocano, mentre il cerchio di adulti prende in esame il problema che viene dichiarato attraverso di lui. Uno per uno, tutti i partecipanti
si presentano, ricchi delle loro esperienze di vita, e tutti ugualmente adatti
ad accogliere e prendere in cura quel disordine e quel male, dai genitori ai
fratelli, dai terapeuti agli amici, dalle figure istituzionali agli operatori. Il
bambino o la bambina, anche quelli abitati da disordini molto gravi, assumono un atteggiamento composto, poiché la cintura che li accoglie si fa
carico delle loro schegge e dei loro silenzi.
Non si cercano responsabilità, che gravano e opprimono, ma si costruiscono collegamenti e si riparano smagliature tra le molte realtà presenti,
Scuola
Avicenna di
Bobigny (oggi
diretto da M.-R.
Moro) e nel
1993 ha aperto il
Centre Deveureux all’Università Paris
VIII. È autore
di T. Nathan e
I. Stengers, Medici e stregoni,
Bollati Boringhieri 1996;
Non siamo
soli al mondo,
Bollati Boringhieri 2003;
La follia degli
altri, Ponte alle
Grazie 1990;
L’influence qui
guérit, Odile
Jacob 2000; T.
Nathan e P.
Pichot, Quale
avvenire per la
psichiatria e la
psicoterapia?,
Colibrì 1998.
Due
70
mostrando come si può ricomporre, costruire e ricostruire, cercando di
mettere ordine nelle stanze abitate, troppo spesso in conflitto.
Il bambino e la bambina per molte altre culture sono loro stessi ponti tra
generazioni, e portano in sé il sapere degli antenati che ci hanno preceduti:
non una tabula rasa da riempire, ma un essere da accompagnare, ascoltare
e imparare a capire. E, dato importantissimo, mai da offendere, perché si
offende la vita stessa, quella visibile e quella invisibile che ci fonda e da cui
proveniamo. Ospite d’onore per gli anni della sua formazione, il bambino
inaugura tutte le cerimonie di semina e di fertilità, poiché è germoglio vivente, protettore della vita ed esperto di soglie, di passaggi, di ingressi.
La nostra psicologia, scienza che ha messo i primi anni di vita al centro
della costruzione della persona, si rivela un’arma a doppio taglio: se da un
lato può aiutare a comprendere i disagi della psiche e offrire strumenti di
cura e letture dei profondi moti dell’inconscio, dall’altro, se si affretta a
codificare e risolvere i problemi, rivela di essere, come scriveva il sociologo
Anders, un “agente segreto del sistema”, o, secondo Foucault, un “garante
della festa sociale”, a cui non tutti devono essere invitati.
la scuola scende in campo
di Daniela Iennaco
Si può cambiare la scuola. È duro, difficile, faticoso, rischioso,
ma possibile e, se è possibile, allora diventa un dovere.
Gianni Rodari
L
a prima supplenza in una scuola media mi è arrivata inaspettatamente lo scorso anno, in una delle scuole cosiddette a rischio e soggette a
dispersione scolastica. Uscivo da un periodo di grande soddisfazione professionale in ambito sociale e culturale, nello stesso territorio in cui ho insegnato e dove per 12 anni ho svolto e svolgo tutt’ora attività di volontariato.
Ho lavorato nelle scuole superiori delle periferie napoletane e nella scuola di italiano L2 (Scuola Mammut di Italiano per Tutti - Smit) del Centro
territoriale Mammut tra Scampia-Napoli e Castel Volturno, in provincia di
Caserta, esperienze che mi hanno dato molto in termini di scambio interculturale, didattica e apprendimento.
Il territorio di Scampia, a nord di Napoli, lo conosco molto bene così
come metà della platea scolastica della scuola e le loro famiglie.
L’I.C. “Alpi – Levi” è noto per la vicinanza di uno dei più longevi insediamenti abusivi, in cui vivono tutt’oggi i rom, circa 700 persone tra bambini e adulti. I campi rom di via Cupa Perillo sono abitati da circa 60 nuclei
familiari allocati in diversi insediamenti di fortuna sprovvisti dei servizi
minimi di vivibilità e tra i quali risultano essere presenti più di 300 minori.
La scuola accoglie una platea molto eterogenea che comprende bambini e
ragazzi provenienti dai rioni adiacenti (lotto P, lotto G e, un po’ più distante, le Vele) luoghi abbandonati dalle istituzioni, altrettanto abusivi, frutto
di un’urbanizzazione mai compiuta.
È una scuola che oltre ad essere Istituto Comprensivo, ha anche il CTP
(Centro Territoriale Permanente) educazione degli adulti e la sezione distaccata del Carcere di Secondigliano. Anche qui come in altre scuole del
quartiere un’alta percentuale di ragazzi hanno uno o più componenti del
nucleo familiare in carcere o agli arresti domiciliari.
La comunità rom presente sul territorio da circa trent’anni vive lo stesso
vissuto di disagio di chi vive le periferie delle grandi città; la problematica
si acuisce soprattutto per la mancanza di documenti, di un lavoro legale o
l’opportunità di accedervi.
Numerosi sono stati negli anni i progetti di scolarizzazione finanziati
ad hoc per i rom, dal Comune di Napoli; comprendono attività di accompagnamento, inserimento scolastico, attività pomeridiane e curricolari,
Scuola
71
Due
72
accompagnamento sanitario, risoluzioni di problematiche giuridiche. La
spesa pubblica per una loro più efficace scolarizzazione non è destinata alle
scuole per il miglioramento dell’offerta formativa ma divisa tra associazioni no-profit/cooperative e imprese di trasporto per l’accompagnamento
(per una panoramica delle politiche pubbliche citate si rimanda a Rom in
comune. Studio sul Comune di Napoli e i rom che ci vivono, Barrito del Mammut edizioni 2012)
Ho lavorato anche come mediatrice culturale per un’associazione locale;
gli interventi di mediazione, rientrano nei progetti di scolarizzazione sopracitati e sono rivolti alle famiglie degli inadempienti all’obbligo scolastico
e ai bambini con gravi problemi di frequenza, ma nel tempo hanno prodotto risultati parzialmente positivi ed efficaci. Le assistenti sociali dopo aver
segnalato i bambini inadempienti tramite ods (modello per la segnalazione
dell’evasione scolastica), in particolare nella scuola primaria, provano una
certa difficoltà e diffidenza ad accedere al campo per segnalare l’evasione
scolastica di minori rom, se non in presenza di associazioni del territorio,
confidando nel loro lavoro di mediazione.
Nell’anno 2012-2013 i rom iscritti risultavano essere 91 alla media Carlo
Levi e 73 alla primaria Ilaria Alpi (dati raccolti dalla scuola).
Alcuni colleghi insegnanti non sono mai stati in un campo rom e hanno
scarsi contatti con le famiglie, a questo si aggiungono anche le partenze
continue di alcune famiglie che per lunghi periodo ritornano nel paese di
origine per cui accade che molti bambini/ragazzi risultano iscritti ma non
frequentanti.
Le politiche sono troppo spesso scollegate, la scuola isolata. I piani e gli
ambiti di intervento istituzionali quali risultati hanno generato e prodotto?
Alla segregazione abitativa a cui sono costretti a vivere i rom in primis
ma anche tanti ragazzi napoletani corrisponde molto spesso una segregazione fisica e mentale, che genera malessere diffuso che si ripercuote inevitabilmente anche a scuola. Manca soprattutto un lavoro di relazione;
la scuola è una macchina burocratica troppo carica ed inefficiente, che si
perde nei meandri di leggi, circolari, norme, piuttosto che concentrarsi su
come generare benessere e salute, si lavora in un perenne stato di emergenza, tempi ristretti, scadenzari, mancanza di personale.
ricerca-azione
In questo contesto pieno di contraddizioni c’è però una notevole vitalità
pedagogica, che rende il territorio di Scampia ricco di esperienze: dallo
storico centro sociale Gridas, fondato e animato da Felice e Mirella Pignataro, alle attuali realtà territoriali che lavorano con una grande sinergia. Un
terreno fertile da cui ogni insegnante può attingere metodologie e pratiche
di una pedagogia/didattica attiva, sperimentando così dentro e fuori l’aula,
azioni vive e capaci di confrontarsi con il contesto.
Ho aderito perciò con grande entusiasmo al percorso di ricerca del
Mammut, una delle realtà più interessanti, non solo a livello locale, centro
di sperimentazione pedagogica e di relazioni vitali.
In maniera trasversale ed itinerante, abbiamo lavorato sulla macro domanda:
Come possiamo migliorare la scuola perché da potenziatrice di malessere e
disturbi psico-fisici si trasformi in luogo di potenziamento della salute individuale e collettiva?
Provando a lavorare dentro e fuori l’aula con le mie classi, una prima e due
seconde medie, ho cercato di coinvolgere anche altri ragazzi della scuola sia
in orario curricolare che extra, partecipando a momenti di manifestazioni
volte alla riappropriazione degli spazi pubblici nel quartiere, provando a
lavorare sul loro immaginario, attraverso un lavoro di inchiesta territoriale,
dalla lettura condivisa di storie e racconti del quartiere, all’esplorazione dei
luoghi conosciuti o sconosciuti ai ragazzi. Un lavoro collaudato anche negli
anni passati (ad esempio con il Progetto viaggio nella memoria per, realizzato insieme all’associazione “chi rom e… chi no”), che si è esplicato nella
scoperta del territorio, della sua storia, a partire dall’etimologia della parola
Scampia che rimanda ad un passato di fertili campagne, la trasformazione
di spazi anonimi in luoghi di socialità e crescita collettiva, fino ad arrivare
a conoscere la storia migrante dei suoi abitanti, rom e napoletani, entrambi
accomunati da un viaggio che li ha portati fin qui.
Nel tempo si è generato in loro un senso di benessere psico-fisico nel
vivere o semplicemente conoscere i luoghi del quartiere, hanno provato a
trasformarli con delle piccole azioni positive, vivendoli, giocandoci. Attraverso una didattica interdisciplinare, con un linguaggio semplice, i ragazzi
hanno affrontato tematiche e materie quali scienze, ecologia, antropologia,
urbanistica, letteratura, scienze motorie. Il momento collettivo di condivisone del percorso è stata la partecipazione alla Mediterranea Antirazzista,
una manifestazione sportiva, artistica e culturale, che da tre anni fa tappa
anche a Napoli, organizzata con l’appoggio del Comitato Spazio Pubblico,
una rete di associazioni, singoli, cittadini che opera da anni sul territorio.
Un momento di aggregazione multiculturale in cui si promuovono le
relazioni tra gli abitanti della città, superando le dicotomie centro/periferia, inclusione/esclusione. Uscire insieme dal ghetto fisico e mentale nel
quale tutti noi ci sentiamo rinchiusi e vivere la strada, la piazza, in relazione
autentica, bambini, ragazzi e adulti di altri rioni e città. I ragazzi sono stati
coinvolti in maniera attiva nell’organizzazione delle giornate, dopo una lettura condivisa del comunicato stampa dell’evento, autonomamente si sono
divisi in sottogruppi, hanno diffuso la notizia agli altri compagni di scuola,
Scuola
73
in un lavoro cooperativo che è continuato anche a casa attraverso telefonate
e social network.
I ragazzi hanno partecipato ai tornei di calcio scegliendo come nome
della squadra “Carlo Levi Scampia”; il senso di appartenenza alla scuola è
fortemente radicato. Per molti di loro rappresenta un punto di riferimento,
un luogo dove rifugiarsi, dove mettere un po’ di distanza con le situazioni,
a volte soffocanti, che subiscono ogni giorno in famiglia, nel rione o nel
campo rom. Da questa esperienza, i ragazzi sono riusciti a trasformare la
competizione in cooperazione, a “fare squadra”, a condividere culture altre, sentendosi parte del tutto, vivendo quei luoghi come fonte di benessere.
Due
aiuto/sgarrupo
di Daniela Izzo
Q
uello che segue è il racconto di una maestra di scuola elementare scritto
per la II edizione del concorso MammutBus “Giornalista per un mese”,
dove a partire dal detto napoletano “vaco p’aiuto e trovo sgarrupo” (cerco
aiuto e trovo difficoltà ulteriori) abbiamo cercato di stimolare una riflessione
collettiva, che fosse anche un’inchiesta territoriale, attorno al tema della relazione d’aiuto. La saggezza popolare ha anticipato di molti secoli psicologia
e altre scienze sociali mettendo in risalto il lato ombra che può celarsi dietro
a chi offre protezione e conforto: lo “sgarrupo”, ovvero il danno ulteriore alla
situazione che si pretendeva di migliorare.
Tra i miti e le favole che abbiamo trovato più belli nei laboratori condotti
intorno all’argomento (come per le strade della cittadina sannita Airola (BN)
agli inizi di settembre con il MammutBus), c’è “La città”, racconto di Armin Greder, edito da Orecchio Acerbo. Oltre a quelle che troverete nel pezzo
di Alessandra Di Fenza nella parte terza1, con un racconto più dettagliato di
quanto abbiamo portato e raccolto nelle scuole attraverso questo concorso.
Tema centrale quello della relazione d’aiuto rispetto alla nostra ricerca sulla salute. Tanto se lo si guarda dall’angolatura delle professioni deputate alla
cura (il medico come l’educatore), quanto se ad essere messo sotto osservazione
è il legislatore che deve fornire un quadro normativo di riferimento alla salute
collettiva.
Anche a seguito dei 500 racconti arrivati alla redazione del Barrito con questo concorso, entrambi gli aspetti avrebbero oggi bisogno di molta più attenzione. Se da un lato gli operatori sociali sono quelli più a rischio rispetto alla
capacità di prestare una relazione chi sia davvero utile anche per il destinatario (per tanti motivi, tra i quali i tagli economici, tante volte messi in risalto
in questo librone), dall’altro le mille norme a tutela (di sicurezza, salute…) si
rivelano spesso un boomerang. Ostacolo più che aiuto per una scuola salutare,
finendo spesso per dimostrarsi controproducente la montagna di normative
imposte a scuole e associazioni. E in questo anche il sindacato fa la sua parte…
L’aneddoto che leggerete ricorderà qualcosa di spiacevole a molte mamme
e papà di Napoli e delle altre città che versano in condizioni analoghe. Ai genitori napoletani che hanno un figlio nella scuola materna pubblica non è
difficile che capiti di dover lasciare qualsiasi cosa e precipitarsi a scuola perché
il proprio bambino non è riuscito in tempo ad andare in bagno per fare cacca
o pipì. “Buon giorno, è la segreteria della scuola X, dovreste venire a prendere
vostro figlio Y perché si è fatto la cacca sotto e il personale ATA non è autorizzato a cambiarlo, né le maestre riescono a farlo”. Capita così che per un misto
Scuola
75
1. Fare scuola
con i giornali, p.
di norme sindacali, paure di abuso ai danni del minore e scarsità di personale
(una maestra sola con 23 bambini), un bambino di 3 anni sia costretto ad
aspettare nel corridoio (solo con i propri escrementi) l’arrivo del familiare che
arriverà in soccorso.
Due
76
È una storia che non ho mai avuto il coraggio di raccontare, quella in cui
il mio tentativo di essere d’aiuto si trasforma in un autentico “sgarrupo”,
avvenuta, curiosamente, proprio nel mio primo giorno da insegnante.
Ebbene, nel lontano 1999/2000 entrai in ruolo nella scuola dell'infanzia;
la notizia dello scorrimento della graduatoria improvvisa mi catapultò dalla strada, in quanto ero agente di commercio, in una classe numerosissima
di piccoli dai 3 ai 5 anni, presso l'85° Circolo Didattico “Rione Berlingieri”.
La gioia era mista a timore, in quanto, pur essendo mamma ed innamorata
dei bambini, immaginavo la difficoltà di gestione di un gruppo tanto numeroso, considerato che tanti bimbi insieme li avevo visti solo alle recite di
mio figlio. Ma questo lavoro mi riempiva d'orgoglio e a tutti i costi volevo
farcela! Piena di entusiasmo e buona volontà mi rimboccai le maniche e
via, partii per l'avventura più emozionante della mia vita durata quattro
anni.
Ricordo precisamente la classe che mi fu affidata, la disposizione dei
banchetti, i cartelloni sulle pareti con i nomi dei piccoli, addirittura la luminosità scarsa per l'esposizione a settentrione. I piccoli arrivavano a flotte
intorno alle 9:00 accompagnati dalle loro mamme, ancor più rumorose dei
figli per l'ansia del distacco. Ho sempre detto e continuo a dire, pur non
insegnando più nella scuola dell'infanzia, che i pianti dei bambini sono lo
specchio delle ansie nascoste ed immotivate delle mamme. Noi maestre
attendevamo i bimbi sull'uscio e, se tutto andava bene, tra un bacino ed un
abbraccio riuscivamo a portare i bambini dentro la classe due-tre per volta.
Ma il bello doveva ancora arrivare!
Terminata l'accoglienza, cominciavano, o meglio, incalzavano i pianti
dei più piccoli; sembrava un contagio: piangeva uno, poi iniziava il secondo
poi il terzo fino ad orchestra completa. Ma il contagio non interessava solo
il pianto, bensì anche il vomito, purtroppo protagonista della mia storia.
Se un bimbo vomitava, forse gli odori, forse le immagini, provocavano la
medesima reazione a catena negli altri.
Una delle tante Circolari interne per la gestione della scuola prevedeva di
condurre i bambini prossimi al vomito direttamente ai servizi, in modo da
non influenzare gli equilibri precari degli altri piccoli. Il bambino accompagnato dalla maestra fuori la classe doveva essere poi gestito dal personale
ATA. Io tirai un sospiro di sollievo, poiché confesso di avere sempre avuto
una spiccata ”sensibilità”, per non parlare di intolleranza, verso gli odori
del vomito.
La Circolare, accolta da tutti piacevolmente, non aveva però considerato
che i bimbi erano tanti ed il personale poco, per cui quel giorno toccò a me
condurre L. E. direttamente alla vasca. Appoggiai una mano sulla fronte
del piccolo E. come si è soliti fare e mi chinai con lui verso la vasca. Forse la
vicinanza, forse il nitido scorrere del liquido che ricordava il latte inacidito,
non percepii l'arrivo fulmineo, immediato ed inaspettato del mio liquido,
che a cascata finì direttamente sulla testina del piccolo. Mi sentii quasi svenire; non sono mai riuscita a capire se per il mio malore o per ciò che avevo
provocato! Una scena agghiacciante, vomito ovunque, non sapevo se ridere
o piangere.
Immediatamente chiamai i soccorsi per pulire il bambino, di certo non
avrei potuto dire alla mamma che la testina del suo angioletto era stata bersaglio di un mio conato di vomito. Per cui ci organizzammo con salviettine
imbevute, disinfettanti e quant'altro; per l'abbigliamento non fu possibile
recuperare nulla. Purtroppo il mio tentativo di aiuto si trasformò in un
vero e proprio “sgarrupo” per quel piccolino che incontro spesso e saluto
ancora oggi con affetto. Non nascondo che ogni volta che lo incontro mi
chiedo se lui abbia conservato ricordi di quel giorno: io non ne ho mai fatto
parola, lui, per fortuna, nemmeno. Che l'abbia rimosso? Non lo so, ma se
dovesse leggere questa storia sulle pagine di un giornale credo proprio che
il nostro “sgarrupato” primo giorno di scuola potrebbe riaffiorargli nella
memoria. E non sarebbero piacevoli ricordi!
Scuola
77
5. valutazione dentro e fuori la scuola
N
Due
elle pagine che seguono abbiamo cercato di condensare le riflessioni
prodotte nel lavoro svolto per conto dell’ong WeWorld – Intervita tra il
2013 e il 2015, all’interno del programma di contrasto alla dispersione scolastica
Frequenza200. Il lavoro di ricerca e formazione che il Mammut ha condotto
con diversi gruppi di educatori nelle città di Milano, Torino, Roma, Napoli e
Palermo ha portato alla realizzazione di tre numeri del quaderno di approfondimento pedagogico “Lenti a contatto” (ed. Marotta&Cafiero, Napoli 2014).
Quelli che pubblichiamo sono stralci tratti dal secondo numero di questo quaderno e dal sito web di Frequenza 200, frutto del lavoro di riflessione e ricerca
che con ciascuno dei gruppi abbiamo condotto sul tema della valutazione.
radici di valutazione
78
di Giovanni Zoppoli
Queste le domande da cui siamo partiti:
1) Come dotarsi di un sistema valutativo capace di comparare processi e prodotti educativi anche tra paesi diversi e di ovviare al turn over eccessivo di
docenti, realizzando però una valutazione efficace?
2) Come evitare che il lassismo valutativo del docente “compagnone” generi
demotivazione negli alunni più diligenti?
3) Come procedere a una valutazione efficace dell’insegnante, essendo spesso
determinante la paura di quest’ultimo nel vedersi valutato negativamente
in seguito all’insuccesso scolastico dei propri alunni?
“Valutazione” quindi come tema generatore di riflessioni, perché assolutamente centrale in ogni relazione educativa, ma al tempo stesso punto
d’arrivo controverso degli stili e degli approcci pedagogici che ha alle spalle.
Viaggiando tra esperienze e teorie al nostro gruppo di ricerca è presto
saltato agli occhi che prima ancora che parlare di strumenti, percorsi, indicatori, tracce... è necessario parlare dei “climi” adottati dal maestro/edu-
catore. Non è raro infatti venire in contatto con esperienze pedagogiche
orgogliose di rifarsi a dottrine di pensiero innovative e “democratiche”,
che magari fanno anche uso degli strumenti valutativi consigliati da queste
dottrine (quelli dell’autovalutazione montessoriana piuttosto che indici di
ultima generazione), che però vivono, e fanno vivere, le giornate di scuola
in un clima di giudizio e prestazione identico a quello delle scuole più arretrate e autoritarie.
campo della valutazione
Il campo oggetto della nostra indagine attorno al tema della valutazione è quello dei processi educativi in senso lato. Senza forzare le inevitabili
differenze, abbiamo ritenuto opportuno tenere insieme la valutazione di
progetti pubblici e privati di tipo socio-pedagogico con quella dei processi
di apprendimento a scuola.
In primo luogo perché gli educatori impegnati in “Frequenza 200” si
sentissero nella stessa barca con gli educandi dispersi (scolastici), cercando
sulla propria pelle modalità di valutazione efficaci ma non nocive e che
potessero andar bene anche agli alunni di una normale classe scolastica.
In secondo luogo perché il nostro modo di intendere l’intervento sociale, qualsiasi intervento sociale, ha come presupposto la volontà di apprendimento e quindi di ricerca da parte di tutti i soggetti coinvolti.
Definito il campo d’indagine abbiamo così cominciato ad addentrarci
nelle problematiche che i singoli educatori (di Milano, Napoli e Palermo)
incontravano sul campo giorno per giorno. Dando vita alle nuove domande di ricerca sopra riportate.
Fornendo spunti teorici e pratici perché queste difficoltà potessero venire esplorate nel gruppo di discussione e, successivamente, affrontate sul
campo, ha cominciato così a prendere forma il quadro teorico in cui porre
le radici per una valutazione condivisa.
quadro teorico
Mettere al centro l’interesse genuino, quello che appartiene solo ad alunno e maestro in carne ossa nell’unicità del contesto dove si sono incontrati,
tenere fermo al centro del processo educativo e di apprendimento questo
interesse contingente, far coincidere lo stesso processo di insegnamento/
apprendimento con l’appagamento di questa sete/curiosità è probabilmente il nucleo centrale di chi ha cercato di cambiare la scuola nell’ottica della pedagogia attiva. Qualcosa di analogo è successo nella ricerca sociale e
antropologica, dove ricercatori come Malinowsky e Lewin hanno attuato
Valutare
79
Due
80
la propria rivoluzione mettendo in crisi il modello di ricerca basato sulla
passività dell’oggetto di studio, collaudando possibilità di ricerca in cui i
bambini, i ragazzi, gli adulti e le intere collettività oggetto d’indagine fossero il più possibile coinvolte e consapevoli della ricerca messa in campo.
Facendo della ricerca uno strumento di cambiamento sociale immediato.
Eredità fatta propria da molti gruppi di base che nella pratica dell’inchiesta
sociale degli anni ’70 hanno saputo coniugare operatività sul campo e ricerca socio antropologica.
Se l’educazione, come afferma Dewey non è una scienza ma un’arte, che
si serve di molti diversi approcci (così come l’arte di costruire i ponti si
serve di diverse scienze fisiche e chimiche) anche nell’ambito “valutazione”
sarà necessario prendere in considerazione i contributi di variegati campi
della conoscenza (restando però al singolo educatore la responsabilità di
creare i propri ponti con gli educandi che si troverà davanti).
Con i gruppi coinvolti nella ricerca abbiamo cominciato ad addentrarci
in alcuni di questi ambiti, cominciando a far prendere forma al comune
bagaglio teorico su cui incentrare un sistema di valutazione condiviso.
Vi riportiamo di seguito la sconfinata mappa emersa dai nostri incontri,
come mare magnum utile da navigare per ragionare attorno al tema e mettere in campo azioni migliori.
psicologia e filosofia
Se fine ultimo della scuola è l’individuo nella sua interezza, l’approccio
pedagogico che scegliamo è quello capace di connettersi con le parti più
profonde ed autentiche della persona. Per questo la psicologia fornisce contributi indispensabili al nostro tema, prima di tutto perché l’educatore sia
consapevole dei propri agiti ed eviti di riprodurre “copioni” e proiezioni sue
proprie che nulla hanno a che vedere con l’esperienza di apprendimento.
della sua provenienza socio-culturale, siano in grado di influenzare il
percorso scolastico degli anni avvenire. Il marchio diventa cioè una sorta di condanna indelebile a seguire “il destino” che a quel marchio è abbinato. Studi più aggiornati sull’etichettamento e sulla grande varietà di
terminologia oggi utilizzata dalla psicologia applicata alla scuola (come
Bes) costituiscono un campo di indagine molto utile.
• alexander lowen. Gli studi del padre della bionergetica sul narcisismo,
assieme a quelli di altri psicologi di stampo psicanalitico, permettono
di entrare nei meccanismi della ricerca di consenso alla base di molte
relazioni (comprese quelle educative). Anche prima che questa ricerca di
consenso diventi patologica, ritenere imprescindibile soddisfare l’aspettative del genitore (o del suo sostituto docente, educatore o altro) è un
meccanismo che mina il processo di apprendimento, oltre alla salute
psico-fisica dell’individuo.
• lucio dalla seta. Lo psicologo junghiano permette di approfondire e attualizzare questo filone, rendendo ancora più evidente quanto nefasta
possa essere qualsiasi relazione basata sul senso di colpa. Nel suo Debellare il senso di colpa (Marsilio 2010), che verrà di seguito approfondito,
l’autore allarga il ragionamento all’ambito filosofico, collegandosi al più
generale tema del libero arbitrio.
• augusto boal. Molto importanti ci sono sembrati gli studi dell’iniziatore del “teatro dell’oppresso” (e continuatore della pedagogia della liberazione di Freire) sul “poliziotto interno” e sul rapporto con l’autorità
interna/esterna.
Ci siamo soffermati a parlare anche degli approcci della psicologia della
Gestalt e del sentimento di inadeguatezza, come dell’importanza di dare
frustrazioni perché indispensabili al processo di crescita.
sociologia dei gruppi
Molti, al riguardo, sono gli autori preziosi. Tra questi:
• albert bandura. È tra i principali autori della social cognition. Con il
suo lavoro sull’autoefficacia ha messo bene in evidenza che tra efficacia
percepita e rendimento c’è un nesso importante, essendo molto difficile
ottenere buoni risultati da qualcuno che non si sente capace. Gi studi di
Bandura si spingono oltre, arrivando ad indagare le correlazioni tra percezione di efficacia e danni per la salute psicofisica. (Autoefficacia: teoria
e applicazioni, Erickson 2000)
• “effetto pigmalione”. Gli studi di R. Rosenthal e L.Jacobson (del 1974)
sulla “profezia che si auto avvera”, hanno evidenziato sin dal secolo scorso quanto le idee che gli insegnanti si fanno su un alunno, anche in virtù
Molto utili ci sono sembrati anche molti dei contributi della sociologia
dei gruppi come quelli della psicologia sociale, in particolare su ruoli, status, aspettative e stili di conduzione (o leadership) cooperativi/competitivi.
sociologia urbana
Urbanistica e sociologia urbana permettono di analizzare con maggiore
“scientificità” l’incidenza del contesto anche sui processi di apprendimento. Casa, palazzo, quartiere e città in cui si vive hanno un ruolo determinate su ciascuno degli aspetti della crescita. L’assetto urbanistico come fattore
determinante ai fini dell’indagine pedagogica.
Valutare
81
La partecipazione urbana è stata più volta presa in considerazione anche
come esempio significativo di manipolazione del consenso.
pedagogia generale
È questo l’ambito più evidentemente connesso con i temi del nostro studio. L’apporto di autori del secolo scorso come Maria Montessori e i suoi
studi sull’autovalutazione rimangono le basi per un ragionamento efficace
su pedagogia attiva e valutazione a scuola.
Ecco che interrogarsi su marketing e libero arbitrio diventa una necessità per chi vuole ottenere qualche risultato nella didattica in situazioni
marginali.
Concorrenza e competitività infine, come elementi cardine dei sistemi
economici prevalenti, non possono non avere ripercussioni sugli stili di
apprendimento e quindi sul tema della valutazione. Chi vuole realizzare
interventi pedagogici tesi alla cooperazione non può tralasciare questo fondamentale dato di contesto.
diritto
pedagogia sperimentale
Due
Determinante risulta ai nostri fini la conoscenza dei molti modelli di
ricerca-azione che cercano di ricomporre la frattura tra ricerca quantitativa
e qualitativa.
economia
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L’economia si è dimostrata utile almeno quanto l’urbanistica per comprendere il contesto e la sua incidenza sui processi di apprendimento. La
necessità di valutare “i risultati” senza troppi fronzoli e margini di errori
propria all’analisi economica applicata a processi produttivi ha del resto già
influenzato la ricerca pedagogica sul tema. Portando talvolta ad eccedere
nell’utilizzo dei criteri tradizionalmente utilizzati per valutare la produttività industriale; e altre volte a dimenticarsi invece gli spunti pur preziosi
che questa materia può fornire a operatori e ricercatori in ambito didattico
e sociale.
Le tecniche di marketing e le esigenze di standardizzazione della produzione di massa in particolare, sono ambiti di conoscenza importanti per
addentrarci nei meccanismi della manipolazione del consenso (in collegamento anche con quanto detto sopra sul narcisismo di Lowen e sul libero
arbitrio).
I forti collegamenti tra motivazione all’apprendimento e dispersione
scolastica sono stati da più parti messi in evidenza. Il diverso approccio
rispetto all’istruzione di migranti appena arrivati in Italia rispetto a quelli di più vecchio insediamento e, ancora di più, rispetto alla popolazione
autoctona, porta a risultati molto diversi anche in termini di abbandono
e rendimento scolastico. Il valore attribuito alla cultura piuttosto che ad
oggetti simbolo pompati dal mercato (telefonini, abiti, macchine, moto...)
non solo dal singolo studente, ma anche dalla collettività di cui fa parte,
rivestono insomma un ruolo determinante anche rispetto alla possibilità
di conseguire buoni risultati a scuola.
Il diritto costituzionale, quello penale e la filosofia del diritto sono probabilmente le branche di studi giuridici che maggiormente hanno da dire
a chi va facendosi domande attorno alla valutazione in ambito pedagogico.
Analizzare il sistema giudiziario consente di avere uno sguardo ulteriore
sul fenomeno della dispersione scolastica, e non solo per le tante correlazioni tra popolazione carceraria e livello di istruzione.
L’abbondante letteratura giuridica in materia dei “delitti e delle pene” va
interrogandosi probabilmente da molto più tempo attorno agli stessi quesiti di chi oggi fa ricerca in ambito educativo, permettendo forse di fare
qualche passo in più rispetto a Pavlov e al suo cane che, malgrado le tante
sofisticate teorizzazioni pedagogiche, ancora sembrano dettare le linee guida nella quotidianità effettiva delle classi scolastiche italiane.
letteratura
Scrittori come Tolstoj, Dostoevskij, Kafka dicono, a chi sa leggerli, le
cose fondamentali su questo tema, permettendo di viaggiare nei meandri
dell’animo umano di fronte ai temi della giustizia di ogni luogo e tempo.
Abbiamo utilizzato un breve scritto di Kafka sulla porta come incipit della giornata di lavoro col gruppo Frequenza200 di Palermo, sperimentando
insieme la potenza evocativa di un materiale tanto prezioso.
Anche la letteratura sacra gioca un ruolo fondamentale sul tema. Non
solo rispetto ai convincimenti profondi individuali e collettivi sedimentanti nel corso dei secoli, ma anche per quanto ha ancora da dire a chi cerca
modi adeguati per lavorare attorno al tema (come ben messo in evidenza
nel libro di Lucio Della Seta di cui parliamo in seguito). Le parole del Vangelo sulla capacità di prevedere il tempo che arriva da segni molto semplici,
o sulla bontà degli alberi che si riconosce dai frutti offrono probabilmente
molti più suggerimenti rispetto alle sconfi nate dissertazioni su indicatori e
temi affini di specialisti poco collegati con la vita sul campo.
Valutare
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scienze fisico-biologiche
Due
Fondamentale è il contributo metodologico delle “scienze dure”, che,
con le dovute differenze, possono fornire utili contributi anche alle scienze
umane e sociali.
Il metodo della ricerca che andiamo costruendo è basato su molte analogie con quello della ricerca scientifica, come nei campi della fisica e della biologia. Diventa però fondamentale appropriarsi anche dei contributi
di chi, come Kundt e Foyeraben, ha messo in crisi lo stesso concetto di
scientificità e di metodo pure in questi campi della ricerca. Concetti come
trasferibilità, comparabilità, ripetibilità tanto cari alla pedagogia di oggi,
dovrebbero perciò trovare il giusto ridimensionamento. Anche quando riferiti ai processi di valutazione.
medicina
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Molti i punti di contatto con la scienza medica. Prima di tutto per i pesanti risvolti che climi e processi valutativi possono avere sulla salute di studenti e operatori (come visto anche in Bandura), tanto in positivo quanto
in negativo. Ma anche perché le scienze mediche hanno molto da suggerire
alla valutazione in educazione dal punto di vista metodologico. I sistemi
di misurazione e diagnosi, assieme all’animato dibattito tra i fautori di approcci olistici e specialistici, tra chi centra l’attenzione sulla malattia e chi
sul sintomo, sull’importanza di non far coincidere il malato con la sua malattia... sono solo alcuni degli argomenti con assonanze importanti con la
valutazione in pedagogia.
docimologia
Nel rivisitare rapidamente ambiti e principali (controverse) correnti della scienza che si occupa dello specifico valutazione, sono state anche condivise le tendenze più attuali della docimologia, più o meno convergenti
verso la necessità di ritenere il momento valutazione interno al processo di
apprendimento e dove l’alunno sia parte attiva e consapevole. Durante le
giornate di formazione e ricerca che hanno portato all’elaborazione di questo secondo numero di “Lenti a contatto”, l’attenzione dei gruppi è stata focalizzata sul modello di ricerca-azione anche rispetto al tema valutazione,
ovvero verso un modello in cui l’intero processo ruota attorno ad un’ipotesi da verificare con la conseguente necessità di raccogliere “prove” credibili.
Nella metodologia prospettata, il processo di valutazione si inserisce
perciò in questo schema, comprendendo operatori e alunni, pur nella diversità di elaborazione cognitiva e di ruoli.
In entrambi i casi il punto critico, quello da evitare, è la fuga versa l’appagamento dell’aspettativa esterna: spesso la raccolta di prove e il monitoraggio efficace vengono cioè invalidati, o annullati del tutto, dall’ansia di
prestazione verso un genitore o il suo sostituto (il professore, il mercato, il
finanziatore, il superiore gerarchico...) .
Emerge pertanto la necessità di dotarsi di sistemi di monitoraggio e valutazione efficaci, non in ottemperanza a richieste esterne, ma perché la
propria azione abbia un senso.
In un sistema del genere diventa proprio lo studente il valutatore più severo e rigoroso di sé stesso. A patto però che avvenga un’autentica presa in
carico del percorso di ricerca da parte dell’alunno, evitando manipolazioni
e falsità da parte del conduttore.
Essendo probabilmente preferibili, anche ai fini di una crescita armoniosa, processi di valutazione autoritari (ovviamente nei dovuti limiti) a
quelli manipolativi o eccessivamente lassisti.
Chiunque sia impegnato in un percorso di apprendimento deve cioè poter sapere se e dove sta “sbagliando”. Tutta la differenza sta tra chi intende
la scuola come sistema di punizione attorno a questo sbaglio (inevitabile)
e chi invece fa dello “sbaglio” il punto di partenza più fecondo perché il
suo discente possa avanzare in maniera autonoma nel percorso di crescita
e conoscenza. In ogni caso non consentire a chi sta imparando di capire se
ha fatto un errore somiglia molto all’atto sadico del maestro autoritario e
giustiziere.
Assieme alla priorità di liberare il clima di classe da “colpa” e “competitività”, riaffidando la titolarità del processo di verifica/ valutazione all’alunno, nel nostro giro di incontro tra Palermo e Milano siamo stati tutti d’accordo su un punto: se la valutazione manca, il processo di apprendimento/
ricerca fallisce e rischia di fare grossi danni.
sulla valutazione, per una pedagogia dell’errore
È cioè proprio “valutando la sua valutazione” che è possibile comprendere meglio la metodologia adottata da un gruppo (sia esso una scuola pubblica o un’associazione privata) ed eventualmente tentare di modificarla.
L’argomento apre questioni assai complesse, in primo luogo perché impone di trovare l’equilibrio tra due esigenze in apparenza conciliabili come
l’acqua con l’olio:
1) la necessità di processi formalizzati e standardizzati per poter procedere ad una valutazione comparabile e intellegibile,
2) l’effettiva, sostanziale, veritiera valutazione di processi e prodotti.
Con i gruppi di Frequenza 200 abbiamo ragionato attorno a questi e a
molti altri punti caldi, sempre a partire dall’importante gamma di espe-
Valutare
85
Due
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rienze di cui i gruppi stessi erano portatori. Esperienze differenti per tipologia di operatori, ragazzi e docenti destinatari, ma soprattutto per i contesti territoriali da cui queste esperienze educative nascevano. Le grida di
un bimbo picchiato dal padre perché non vuole andare a scuola, e all’uscita
dal centro educativo trovare un tavolo con una dozzina di uomini, donne
e bambini a cavare polpa dai ricci, in un borgo disastrato e fermo al dopoguerra; donne e ragazzi mal messi che frugano in mezzo agli avanzi di
frutta e verdura, insieme ai colombi e a qualche altro uccello, fotografati da
un ragazzo e una ragazza radical con macchina digitale, nel breve intervallo tra la fine di uno dei mercati più grandi d’Europa e l’arrivo di macchine
pulitrici efficientissime dotate di idranti dallo spruzzo potente; la desolazione di stradoni e palazzoni di una periferia che sembra immensa, deserta
e tutta uguale tanto da inghiottirti nel vuoto… sono alcune delle scene di
questi mesi, che fanno da cornice a questo lavoro sulla valutazione almeno
quanto le parole di Montessori e Freinet. Ogni processo educativo nasce,
cresce e muore all’interno in una determinata strada, quartiere, città e a
questa rimane indissolubilmente legata. Per questo mettere in comunicazione persone di differenti città può costituire un incidente che provoca il
cambiamento, anche nella vita del singolo educando.
Durante i nostri incontri di ricerca abbiamo esaminato decine di casi
di successo e insuccesso scolastico in qualche modo collegati al tema della
valutazione, cercando di “estrarre” dagli educatori partecipanti basi teoriche e soluzioni pratiche adottate dalle rispettive équipe nell’affrontare tali
temi. I primi risultati di questo percorso sono contenuti nel secondo numero della rivista pedagogica “Lenti a contatto”, strumento di comunicazione che il gruppo di ricerca si è dato. La nostra “arte di costruire ponti”
– per dirla con Dewey – ha preso in rassegna l’apporto di molte scienze.
Antropologia, filosofia, psicologia, pedagogia, fisica e biologia, medicina,
economia, medicina, letteratura, sociologia e urbanistica, teologia, diritto:
tra tutti questi campi ha spaziato la nostra indagine, cercando di uscire da
una impasse gravosa. Infatti con una scuola sempre più in crisi e la riflessione culturale ferma al dilemma “Invalsi sì/Invalsi no” (fuori dai denti mi
schiero senza dubbi per un netto Invalsi no! e per mille ragioni), il tema
della valutazione non può essere più lasciato nelle mani di docimologia e
ragionamenti a compartimenti stagni.
Rimandando a chi avesse la voglia e la pazienza di approfondire il nostro
viaggio gnoseologico ad una lettura di “Lenti a contatto”, cerchiamo di seguito di riportare alcuni dei punti salienti emersi dal nostro ragionamento
collettivo, proponendoli come base per una nuova pedagogia dell’errore:
• l’ingrediente fondamentale per una valutazione efficace rimane la relazione e il clima di classe. Il bagaglio umano, culturale e la fi losofia che sta
alle spalle del maestro, rimane cioè l’elemento primario in cui si colloca anche il processo valutativo. A poco servono strumenti e tecnologie raffinate,
moderne o nostalgiche, se il clima d’aula non è adeguato;
• come già detto l’approccio pedagogico a cui noi facciamo riferimento
ha le sue radici nella pedagogia attiva e nella ricerca-azione, pur rispettando altri stili e modalità d’insegnamento parimenti efficaci e rispettosi della
natura umana;
• dare la possibilità ad uno studente di comprendere se e dove qualcosa
non va nel suo percorso di apprendimento è tra le cose più importanti
del percorso stesso. Per questo è addirittura preferibile il vecchio giudizio autoritario al lassismo senza argini del moderno maestro amicone.
Altrettanto nocive ci sono sembrate le modalità falsamente partecipative,
quelle in cui all’alunno viene data l’illusione di avere un margine decisionale all’interno di un processo valutativo nel quale invece tutto era già stato
deciso dai “grandi”;
• la modalità di valutazione adottata può essere considerata uno dei
principali responsabili della disaffezione alla scuola, e quindi anche della
dispersione scolastica. Molti sono gli autori (A.Bandura e L. Della Seta,
tanto per citarne due) che mettono bene in luce quanto nella vita psicologica di ciascun individuo occupi un ruolo determinante “il giudizio” altrui. Vivere in un contesto sociale basato sulla paura del giudizio, come
ancora oggi è la scuola in molti casi, può risultare nocivo per la stessa salute
psico-fisica di adulti e bambini. La fuga è una delle risposte possibili e,
sotto alcuni aspetti, più “salutari”, specie quando l’alunno si trova in una
delle fasi evolutive in cui il giudizio assume un’importanza ancora maggiore. Non è forse un caso che proprio alle medie il fenomeno dispersione
cominci ad assumere dimensioni più importanti;
• di qui la necessità di cambiare il modo di fare valutazione, tanto nella
scuola, quanto nell’extra scuola che dovrebbe supportarla;
• punti principali su cui basare un processo di valutazione dovrebbero
quindi essere:
a) dirigenti scolastici e altri responsabili dell’organizzazione educativa,
insegnanti e educatori dovrebbero partire da un lavoro in profondità su di
sé relativamente al proprio rapporto con colpa e giudizio, dotandosi degli
aiuti necessari, e senza abbassare mai la guardia su questo argomento fino
al momento della pensione;
b) la scuola dovrebbe basarsi sull’errore, ovvero sulla libertà autentica
di sbagliare per poi imparare dal proprio errore. L’intero sistema educativo
sembra, invece, esistere perché nessuno sbagli e per perseguire chi ha sbagliato. Bisognerebbe cioè spezzare il circolo perverso (messo in luce anche
nel già citato numero di “Lenti a contatto”) e ancora molto forte tra sistema
valutativo a scuola e sistema carcerario;
Valutare
87
Due
88
c) risulta pertanto indispensabile recuperare la funzione amorevole del
maestro come guida e regista del processo educativo, mettendo da parte
pulsioni persecutorie e sadiche. Aprendosi ad un simile atteggiamento non
risulterà difficile trovare gli strumenti più utili, attingendo anche a letteratura e prassi internazionali del passato e del presente. Sarebbe importante
riuscire a farlo malgrado alla scuola, e ancora di più al privato sociale, manchino troppo spesso le condizioni minime di serenità strutturale;
d) in una metodologia che si ispira al modello di ragionamento scientifico-filosofico, il processo di valutazione si basa sempre sul ruolo attivo e
la responsabilità ultima di chi apprende; sull’attenzione posta su prodotti
e processi di apprendimento e mai sul soggetto che apprende; sulla produzione di “prove” credibili da discutere con la comunità di apprendimento;
e) andrebbe perciò messa al bando, e senza troppi fronzoli, quell’infinta gamma di strumenti e modalità valutative (a partire da buona parte dei
documenti di programmazione didattica e progettazione sociale ancora
oggi basati sul copia incolla), funzionali solo a convincere il valutatore della propria bravura. Sarebbe, insomma, ora di riconoscere questi strumenti
come, oltre che nocivi, inutili e addirittura controproducenti ai fini della
valutazione e dello stesso processo di apprendimento.
A lasciar stupiti la maggior parte di noi è stata la consapevolezza che
molte di queste indicazioni fossero già contenute in studi autorevoli, leggi,
direttive, circolari d’Istituto, oltre che nei manuali per diventare docente ed
educatore. Ed è forse anche grazie a questo che qualcosa sta cominciando a
cambiare. Ma il clima generale e i dati sulla disaffezione scolastica riscontrati in ciascuna delle città partecipanti alla ricerca pongono un interrogativo imbarazzante: come mai siamo ancora a questo punto?
Forse è solo e ancora una questione di scelta. Procedere ad una valutazione efficace e rispettosa della natura umana comporta il rischio di rimanere
isolati e succubi del “giudizio” prevalente, chiamandoci al difficile compito
di dar conto prima di tutto alla nostra coscienza e all’etica professionale.
Anche a costo di rinunciare al nostro lavoro, da ministro, sottosegretario o
maestro che sia. Forse solo così qualche studente in meno rinuncerebbe al
proprio, di “lavoro”.
rudolf steiner (1861 – 1925)
È
certamente il più eclettico tra gli autori contemplati in questi nostri profili. I suoi
molteplici studi e interessi per i campi dello spirito, della scienza, della lettura
e dell’arte lo portarono a mettere a punto quel complesso sistema teorico chiamato
“antroposofia”. Teorie, oggi, ancora ampiamente praticate in pedagogia, ma anche in altri
ambiti come la medicina e l’agricoltura.
Questo complesso sistema teorico, frutto di una tensione volta a gettare ponti tra
conoscenza spirituale e scientifica, ha molti risvolti utili alla nostra dissertazione
su didattica e salute. Non a caso quello di Steiner è uno dei pochi
profili
approcci in cui esiste una branca specifica chiamata “pedagogia
curativa”. Steiner ne parla in un ciclo di conferenze tenuto a Dornach, Svizzera, nel
1924, a partire da casi come quello del ragazzo idrocefalo Otto Specht, la cui educazione
gli venne affidata quando Steiner era uno ancora studente ventitreenne di Vienna. Steiner
descrive il modo in cui riuscì a curare quel ragazzo, facendosi assegnare anche compiti
educativi e grazie al fatto di aver instaurato un rapporto affettivo sincero con il ragazzo
e di fiducia con la mamma. Attraverso l’utilizzo di tecniche didattiche e terapeutiche,
Steiner riuscì a far diventare medico quel ragazzo in cui nessuno riponeva inizialmente
alcuna speranza di successo scolastico.
Molte sono le scuole che in tutto il mondo ancora oggi ispirano la propria prassi agli
insegnamenti di Steiner. E anche in questo caso non mancano di certo critiche più o
meno severe al suo approccio. Non azzardiamo valutazioni sulle scuole steineriane (ne
conosciamo alcune ottime, altre pessime, e come sempre ci sembra che a fare la differenza
siano gli insegnanti che ci lavorano), ma di certo ci sembra che questo autore abbia ancora
moltissime cose da dire. Soprattutto sull’esistenza di nessi profondi tra scuola e salute (del
corpo e dell’anima).
tre. sperimentazioni: le porte
1. il mito del mammut
P
orta universo è il titolo della settima edizione del gioco di teatro-quartiere che ha accompagnato l’intera avventura del Centro territoriale
Mammut. Alcune di queste edizioni non hanno trovato spazio nei racconti
raccolti in questa pubblicazione, ad esempio quella dal titolo “Hapy hour a
Scampia” del 2013 (e basato sul mito del Dio egizio Hapy, che per un anno ha
accompagnato i tempi di piena e di magra di un terzo settore sempre più in
crisi).
Il Mito è un percorso difficilmente raccontabile a parole e per questo proviamo a farlo con un albero che visualizza le molte tappe di un “marchingegno” a
cui abbiamo imparato a voler bene per la sua preziosità quasi magica. La settima edizione è durata più delle altre, 18 mesi fitti di attività. Alibabà, il mito
di Er di Platone, Giano Bifronte, Ofreo e Euridice, Proserpina, la fiaba zigana
Dio che creò il mondo con l’aiuto del diavolo, quella indiana Madre luna e
padre lupo e molte altre ci hanno accompagnato in questo percorso.
il mito del mammut: mappa
di Alessandra Di Fenza e Alessandra Tagliavini
1. avvio. scAttiva al museo archeologico di napoli
l 9 settembre 2013 presso la Sala Conferenze del Servizio educativo del
Museo Archeologico Nazionale di Napoli si è tenuta la seconda edizione di Scattiva– incontri conviviali per una scuola attiva, una bella occasione
di confronto e condivisione teorica dei percorsi svolti da docenti, ricercatori e educatori quotidianamente impegnati sul campo.
Al termine della giornata è stata elaborata la domanda – ipotesi intorno a
cui intessere la mappa di ricerca1 della VII edizione de Il Mito del Mammut.
Il 14 ottobre 2013 tutti i partecipanti alla ricerca si sono incontrati nei locali del Centro territoriale Mammut in piazza Giovanni Paolo II di Scam-
I
91
1. Vedi scAttiva.
Incontri
conviviali per
una scuola
attiva, p. 100 ss.
pia. Il gruppo, a partire dall’ipotesi generale, ha elaborato le sottodomande e
l’intera mappa di lavoro. Con gli insegnanti e gli educatori iscritti si è poi
proceduto ad incontri individuali nella sede Mammut, estraendo la mappa
di ricerca specifica per ciascuna organizzazione. Accanto ai nodi didattici,
ogni insegnante ha definito lo spazio e/o servizio da modificare.
Tre
festa ottobre
Il 24 ottobre 2013 si è tenuta in piazza Giovanni Paolo II la festa d’autunno, come occasione di condivisione della programmazione dell’anno con le
componenti generazionali che frequentano il Mammut. L’organizzazione di
una kermesse di piazza attorno ai temi della porta e dei miti di passaggio,
ha portato alla realizzazione di una delle giornate più colorate e partecipate
della storia del centro. Per la prima volta la piazza è sembrata “piccola”, e un
ulteriore importante tassello è stato aggiunto all’intreccio metodologico
tra gioco, didattica e recupero di spazi urbani abbandonati.
2. le azioni
92
• laboratorio “lancio” presso le agenzie educative iscritte
Come concordato con gli insegnanti, l’équipe Mammut si è recata in ciascuna delle classi iscritte al gioco a condurre le giornate di laboratorio per dare
il via alla VII edizione del Mito.
La proiezione del video dell’anno precedente si è rivelata ancora uno
strumento molto efficace ai fini della restituzione di senso e dello stimolo
motivazionale per alunni e insegnanti.
Ciascuna delle giornate-lancio è durata 2 ore circa, prevedendo oltre alla
proiezione del video “Hapy Hour a Scampia” (realizzato da Figli del Bronx
come video racconto della giornata conclusiva del Mito VI edizione ispirata
al vuoto fertile e alla divinità egizia del Nilo, Hapy):
• circle time finalizzato all’estrazione della mappa di ricerca del gruppo
classe attorno alle domande: “Quando stai bene a scuola?”, “Che cosa andrebbe secondo te cambiato?” (spazi e servizi);
• scrittura autobiografica attorno al tema della porta;
• racconto teatrale della storia di Alibabà e i 40 ladroni;
• cerchio di capitalizzazione.
A seguito degli incontri con i bambini, l’équipe è riuscita a definire la
mappa di ricerca iniziale attorno a cui ciascun/a insegnante ha ricollocato
in seguito la propria partecipazione.
tappe:
• 7 novembre I.C. 28 “Giovanni xxiii- Aliotta”
• 12 novembre I.C. 58° “J.F. Kennedy”
•
•
•
•
24 ottobre 5° Circolo Didattico “Eugenio Montale” succursale
25 ottobre I.C. “Virgilio 4”
29 ottobre I.C. “Ilaria Alpi – Carlo Levi”
31 ottobre 5° Circolo Didattico “Eugenio Montale”
• laboratori mito nei locali del mammut (‘a scuola col mammut’)
Nel mese di novembre 2013 le classi partecipanti al Mito del Mammut
hanno cominciato i laboratori realizzati in sede, conclusi a dicembre con i
laboratori di verifica
tappe:
• 21 novembre, 27 novembre 2013, 3 dicembre 2014 - 5° Circolo didattico “E.
Montale” (maestra Rossana Sanges)
• 25 novembre, 30 aprile 2013, 26 novembre 2014 - 5° Circolo didattico “E.
Montale” (maestra Marisa Damiano)
• 2 dicembre, 9 dicembre, 16 dicembre 2013 - I.C. “Ilaria Alpi – Carlo Levi”
• 15 gennaio 2014, 29 gennaio 2014 – I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”
• 3 febbraio, 10 febbraio, 24 febbraio, 10 aprile 2014 – I.C. “Virgilio 4”
• 19 Marzo, 2 aprile, 28 maggio, 12 novembre 2014 – I.C. 58° “J.F. Kennedy”
• laboratori in sede
La festa d’ottobre ha segnato l’inizio dei laboratori in sede. Le attività per
i bambini dai 6 ai 10 anni si sono svolte tutti i martedì e giovedì, tra attività
di “doposcuola” e laboratori di carattere più spiccatamente teatrale.
• Laboratorio ‘A BiCicletta: uno spazio aperto a tutti i ragazzi e le ragazze
dagli 11 anni in su, all’interno del quale si lavora intorno alla conoscenza
della ciclo-meccanica.
• Ciclofficina: uno spazio aperto a tutti (bambini, ragazzi, adulti) in cui
si aggiustano le biciclette.
• MammutBreak: laboratorio composto da un gruppo variegato (per
provenienza sociale, culturale, economica) di bambini e ragazzi intorno al comune interesse per la breakdance.
• laboratori in carcere
La realizzazione del laboratorio di teatro con i detenuti del Carcere di
Secondigliano condotto da Maurizio Braucci, con il supporto di Linda
Martinelli e Giuseppe Carbone, è stata l’occasione per mettere in campo
un’altra azione sul tema della “porta”: la possibilità di creare elementi di di
connessione tra esterno ed interno del carcere. Il laboratorio si è concluso
il 27 giugno 2014 con uno spettacolo realizzato all’interno dell’istituto di
Secondigliano.
Mito
93
laboratorio di teatro magia e il genio eir ascòl
Come da metodologia Mammut è stato proprio lui, il genio fuggitivo, a
fare da sfondo integratore al percorso svoltosi all’interno di una classe dell’
Istituto Comprensivo “Ilaria Alpi – Carlo Levi” con il supporto dell’équipe
Mammut: lo scopo dell’iniziativa era quello di sperimentare ancora una
volta modalità innovative per una scuola salutare (tecnicamente il tema era
sulla dispersione scolastica), in particolare con bambini e bambine rom.
•
laboratorio teatrale e spettacolo “i viaggi di gulliver”
Durante il periodo finale dell’anno, terminata la scuola, i bambini che
avevano preso parte ai laboratori pomeridiani fin da settembre, sono stati
coinvolti in un laboratorio teatrale guidato dall’operatore Mammut Tonino
Stornaiuolo e da Gianni Vastarella. Grazie anche al rapporto educativo instaurato nei mesi precedenti e alla grande preparazione teatrale conseguita
negli anni di partecipazione ai progetti “Punta Corsara e Arrevuoto” dalle
due guide, il percorso si è rivelato molto valido. Portando alla realizzazione
di uno spettacolo finale nell’auditorium di Scampia. Tra i molti effetti
positivi, la grande partecipazione dei genitori che hanno preso parte attiva
alla preparazione dello spettacolo (ad esempio nel ruolo di costumisti).
•
Tre
94
a)
tappe intermedie di piazza e di strada
miti di luce
20 dicembre 2013 piazza Giovanni Paolo II. Come ogni anno abbiamo
festeggiato l’avanzare della luce con la festa interculturale dei Miti di Luce.
Grande partecipazione di bimbi e famiglie del quartiere. I bambini, in preparazione alla festa, hanno lavorato sull’ “Albero della Nascita”. Il percorso si è rivelato molto interessante poiché ha permesso di lavorare sul tema
del parto e della venuta al mondo di ciascuno.
carnevale
Nel febbraio 2014 il Centro Mammut ha partecipato alla 32ma edizione
del Carnevale di quartiere promosso dalla Associazione Culturale Gridas
(Gruppo Risveglio dal Sonno) con l’Accrocchio “Porta-fortuna” realizzato
durante i laboratori pomeridiani con i bambini e i ragazzi delle scuole del
quartiere. Il tema che faceva da sfondo alla festa è stato la Porta: le porte
aperte che creano incontri e relazioni, le porte che negano spazi e le maschere che permettono di superarle e accedervi, in primis la porta della
Villa Comunale di Scampia che dà sulla piazza “Giovanni Paolo II” e che
sarebbe l’accesso più logico se si volesse realmente favorire la fruizione della
villa da parte dei cittadini. Il tutto realizzato con i ragazzini delle scuole 5°
Circolo didattico “E. Montale”, I.C. “Ilaria Alpi - Carlo Levi” e I.C. “Vir-
gilio 4” di Scampia, I.C. 28° “Giovanni xxiii-Aliotta” di Chiaiano e con gli
adolescenti e i più grandi che frequentano il Centro.
festa di primavera: festa di piazza stagionale aperta al quartiere
Il 20 marzo è stata organizzata una grande festa tra le colonne della
piazza e l’interno della sede, coinvolgendo attivamente genitori e bambini che facevano parte del gruppo Mammut e allargando l’invito all’intero
quartiere. Diversi i momenti e le aree: si iniziava con un’accoglienza dove i
bambini si iscrivevano ai giochi e le attività della giornata. C’era uno spazio
di gioco libero, attrezzato con i giochi in legno della tradizione popolare.
All’interno del MammutBus, il nostro camper magico, i bambini entravano e su un biglietto potevano scrivere cosa avevano “seminato” in inverno e
cosa stavano raccogliendo ora. Usciti dal MammutBus sceglievano tra vari
tipi di semi disponibili quello che preferivano e lo piantavano all’interno
di un guscio di uovo che, con po’ di terra, diventava un semenzaio fertile.
Infine in un momento della giornata all’interno della stanza grande del
Mammut si poteva ascoltare il racconto teatralizzato del Mito di Proserpina. Durante tutta questa prima fase di attività, il gruppo mamme era
parallelamente impegnato a impastare gnocchi, cuocere e preparare sugo
e bruschette che tutti hanno potuto gustare. Come augurio primaverile,
Argentina ha preparato della uova decorate e colorate con colori naturali com’è tradizione della cultura rom. Come ogni festa del Mammut, era
aperta per tutto il tempo la ciclofficina per eventuali riparazioni di biciclette, il tappeto per la breakdance e tanta musica.
convegno ‘le porte del carcere’
Il giorno 10 aprile 2014 il Centro Mammut in collaborazione con l’Istituto Comprensivo “Virgilio 4” ha organizzato una giornata di studio dal
titolo La porta del carcere per riflettere sul tema del carcere e per creare un
confronto e uno scambio tra chi ha lavorato sulle “porte del carcere”, allo
scopo di fornire ulteriori elementi per la comunicazione interno/esterno.
L’idea di organizzare questo incontro è nata tra le mura di un’aula scolastica a partire dai vissuti di tanti bambini che hanno genitori detenuti, nel
tentativo di raccogliere idee e materiali sul miglioramento del sistema carcerario e delle sue radici (anche nel mondo della scuola).
mito in piazza alla ricerca del genio eir ascòl
“Il Mito del Mammut” è il gioco didattico di teatro-quartiere ideato nel
2007 con lo scopo di proporre nuovi modi di lavorare alla didattica ordinaria
portando insegnanti, educatori e alunni per le strade della città e mostrando
tutte le possibilità didattiche e formative che esse possiedono. Nell’edizione
2013/14, attorno all’archetipo della “porta” e ai miti di passaggio dei 5 Con-
Mito
95
Tre
96
tinenti (tra cui: il mito di Er, quello della caverna di Platone, di Orfeo e
Euridice, la fiaba zigana “Dio che creò il mondo con l’aiuto del Diavolo”,
di Alibabà e i 40 ladroni, di Giano Bifronte) sono stati coinvolti oltre 2.000
bambini e un centinaio di ragazzi, dentro e fuori dalle aule scolastiche di
Scampia, Monterosa, Chiaiano, del centro storico e di Castel Volturno
(Ce). Anche quest’anno il recupero di spazi abbandonati si è intrecciato
con il miglioramento di una quotidianità scolastica ancora troppe volte
connotata da abbandono scolastico e malessere generalizzato.
concorso “aiuto / sgarrupo”
Ottobre – novembre 2014. La II edizione del concorso “Giornalista per
un mese” ha avuto come tema “aiuto / sgarrupo, cerco aiuto e trovo difficoltà” per una riflessione collettiva intorno alla relazione d’aiuto. Destinatari
sono stati i bambini e le bambine dai sei ai dieci anni e agli insegnanti di
scuola primaria.
festa d’estate
Mercoledì 23 luglio 2014, in piazza Giovanni Paolo II, si è tenuta, come
ogni anno, la festa d’estate al Mammut. Il cancello della Villa comunale di
Scampia che dà su piazza Giovanni Paolo II rimane chiuso? Il Mammut l’ha
presa alla larga e ha lanciato il percorso ginnico “I viaggi di Gulliver attorno
alla Villa”. Mostre di pittura e fotografia, video, concerti musicali, street
art, cena conviviale e la seconda edizione del circuito/gioco di strada per
bambini “MammutBusPark”: come ogni anno il Centro territoriale Mammut festeggia l’estate portando in piazza i frutti dell’anno di lavoro con
bambini, ragazzi, insegnanti e adulti italiani, rom e migranti.
In particolare la festa è stata l’occasione per lanciare il percorso ginnico
d’autore “I viaggi di Gulliver attorno alla Villa” (e per raccogliere i fondi
necessari alla sua istallazione negli spazi urbani interessati): nove tavole
disegnate dall’artista Luca Dalisi, come proposta di sport all’aria aperta attraverso la celeberrima storia di Gulliver, in un percorso atletico che chi
vorrà potrà realizzare attorno al parco pubblico di Scampia ancora sottoutilizzato anche a causa della difficile accessibilità.
Di seguito riportiamo le indicazioni rispetto alle quattro “porte” a cui
hanno lavorato le/gli insegnanti nel corso dei 18 mesi di ricerca-azione:
b) mammutBus e i concorsi
concorso “miti luce”
Dicembre 2013. Il Centro territoriale ha bandito il concorso: “Storie di
Luce intorno al camper” rivolto ai bambini della scuola primaria. I bambini hanno scritto un mito a partire dalle suggestioni raccolte nel MammutBus.
concorso “una giornata salutare”
Marzo-aprile 2014 Il quotidiano Il Mattino e il Centro Ricerche Mammut presentano un concorso di scrittura per le scuole primarie dell’area
nord di Napoli. Tema del concorso è: come la tua scuola e la tua città possono fare bene o male alla salute.
3. le porte
• carcere: maestra Elvira Quagliarella dell’I.C. “Virgilio 4”. Spazio prescelto: porta carcere. Nodi critici: geometria, solidi, fonti di energia; valutazione (premio/punizione, giudizio)
• immigrazione e rom: Clementina Gambocci dell’I.C. “Ilaria Alpi – Carlo
Levi”. Spazio prescelto: aula. Nodi critici: ecologia sociale, alterità, ecosistema.
• immigrazione e rom: Yasmine Accardo della scuola di Italiano L2 (lingua seconda) “APS Garibaldi 101”. Servizio prescelto: scuola per adulti.
Nodi critici: conoscenza reciproca, porta tra scuola diurna e serale per
italiani e scuola di italiano per stranieri
• aula: Marco Mailler e Raffaele Mosella del Cpia “Ilaria Alpi – Carlo Levi”.
Spazio prescelto: aula che esce dalla scuola. Nodi critici: alterità, incontro tra scuola e cittadini, relazione interculturale, educativa, intergenerazionale, Italiano L2 (lingua seconda) come lingua veicolare per la didattica curriculare
• aula: Rosaria Pica dell’I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”. Spazio prescelto: aula scolastica. Nodi critici: porte della storia, aula funzionale
all’insegnamento curriculare, regole, norme sicurezza e antincendio vs
didattica attiva
• universo: Carmela De Lucia dell’I.C. 58° “J. F. Kennedy”. Spazio prescelto:
aiuola del cortile esterno. Nodi critici: astronomia, osservazione delle
piante
• universo: Rossana Sanges del 5° Circolo Didattico ”Eugenio Montale”.
Spazio prescelto: spazio verde davanti al cancello della scuola. Nodi critici: alterità, astronomia, geometria, equilibrio e fisica
• universo: Marisa Damiano del 5° Circolo didattico ”Eugenio Montale”.
Spazio prescelto: spazio verde davanti al cancello della scuola. Nodi critici: autostima dei bambini e delle bambine, matematica intesa come
numeri, misure e conti.
Mito
97
scAttiva.
incontri conviviali per una scuola attiva
di Alessandra Tagliavini
A
Tre
100
lla sua VII edizione, il Mito del Mammut ha coinvolto le maestre e
le insegnanti dei Cpia che hanno aderito all’iniziativa non solo nella sperimentazione didattica con i propri gruppi classe, ma anche e a pieno titolo come ricercatrici attraverso ScAttiva – incontri conviviali per una
scuola attiva, valido strumento capace di fornire ancor più vigore ad una
delle principali finalità della ricerca Mammut, ovvero produrre circolarità
e condivisione di informazioni tra chi lavora sul campo, e di dimostrare la
possibilità che tale modalità di formazione consente, ovvero non dipendere
da un “esperto” e dall’intervento spot di un esterno, ma basarsi sulla permanenza di chi lavora quotidianamente in un determinato contesto.
Ciascuna ha realizzato il proprio percorso, con il supporto dell’équipe
Mammut, a partire dallo sfondo integratore della “porta”, l’archetipo che ci
ha aiutato a riflettere e lavorare sui temi della trasformazione, del passaggio,
del trapasso. Abbiamo così conosciuto la “porta” aula che esce dalla scuola
per incontrare il territorio come nel caso del Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti – Cpia “Ilaria Alpi–Carlo Levi” che da Scampia è andato
a tenere lezioni a Castel Volturno, in provincia di Caserta; le “porte” della
vita che raccontano il passaggio dalla quinta elementare alla prima media,
ma anche quelle della storia all’I.C. 28° “Giovanni xxiii-Aliotta” di Chiaiano; la “porta” migranti-rom relativa alla questione dell’alterità e dell’intolleranza attraverso lo studio della cooperazione tra sistemi e dell’ecologia
sociale come nel caso dell’I.C. “Ilaria Alpi–Carlo Levi” sito nei pressi del
campo rom di Scampia; le “porte” su mondi chiusi e poco comunicanti
come quelli tra gli studenti dei corsi serali e diurni e per adulti stranieri,
e tra persone di diversa provenienza geografica, alla “Leonardo da Vinci”
del centro storico in collaborazione con “Aps Garibaldi 101”; la “porta” carcere per riflettere sulla valutazione intesa sempre più come sistema di punizione/premiazione, nonché per contribuire ad una elaborazione del vissuto di famiglie, bambini e detenuti sulla distanza carcere-mondo all’I.C.
“Virgilio 4”; “porte” interiori che si aprono sulla matematica, l’universo e
l’astronomia, come al 5° C.D. “E. Montale” e all’I.C. 58° “J. F. Kennedy”, per
narrare di ponti invisibili che collegano persone e parti della città, uscendo
da isolamento e disistima di sé.
Il mio compito, in sintonia con l’azione generale dell’équipe Mammut, è
stato quello di supportare la singola insegnante nel proprio lavoro attorno
alla mappa di ricerca a cominciare dalla quella generale nata nel corso del
primo incontro ScAttiva del 9 settembre 2013, poi sviluppata collettivamente in sotto-domande il mese successivo in occasione del secondo appuntamento. L’ipotesi di lavoro/ domanda di ricerca è stata:
Territorio e scuola possono trasformarsi in luoghi generatori/potenziatori di
salute realizzando in maniera sostanziale, e non formale, valori e metodologie
della pedagogia attiva ed esercitando un ruolo di centro territoriale che potenzi cooperazione e spirito di comunità anche con chi è straniero?
Nel corso dei diciotto mesi ho incontrato le maestre e gli insegnanti individualmente sia nei locali del Mammut sia nelle aule delle scuole.
Tali incontri settimanali o quindicinali sono consistiti in attività di
consulenza e supporto didattico-educativo, oltre che di raccolta dei dati e
dei risultati utili a sviluppare le mappe di ricerca di ciascun insegnante e
quindi del Mito nel suo insieme, risultati conseguiti in termini di incisività
sull’ordinario didattico, di implementazione delle modalità di lavoro cooperativo interscolastico ed evoluzione dell’intera metodologia di lavoro.
Incontri tesi, dunque, a sostenere sotto ogni aspetto il lavoro, rinforzando
da una parte gli elementi propri della scuola attiva, dall’altra portando gradualmente ad una relazione con il resto delle insegnanti coinvolte: la necessità di scegliere una collega con cui intessere una relazione di aiuto per
vincere il mitico gioco ha consentito di passare dal rapporto individuale a
quello duale per arrivare a quello del grande gruppo nelle altre giornate di
approfondimento ScAttiva.
Abbiamo iniziato con la definizione dello scenario di partenza che ha
individuato chi fossero alunni e alunne, il rione, quali e quante relazioni
tra genitori alunni docenti, tra colleghe; criticità e potenzialità; quali “porte” aprire e su quali affacci. Per proseguire con l’ideazione di una ipotesi
di lavoro e la scelta dello spazio pubblico/servizio da migliorare: chi ha
scelto l’aula scolastica, chi l’aiuola nel cortile, chi lo spazio verde davanti
all’istituto, chi ancora il servizio scuola stesso per adulti migranti. Il lavoro
ha previsto, poi, lo stabilire obiettivi di mutamento didattici, educativi, di
sistema e un certo numero di azioni da mettere in campo per il conseguimento di tali obiettivi; abbiamo ragionato su come strutturare una griglia
di osservazione davvero utile al nostro lavoro, al di là della burocrazia, infine su quali indicatori potessero risultare utili per verificare se tale cambiamento fosse avvenuto o meno; ci siamo date un ritmo per il monitoraggio,
discusso di tracce e fonti di verifica; infine, abbiamo buttato giù qualche
riferimento teorico e di pratiche affini che potessero animare il percorso.
Regolarmente, abbiamo rivisto insieme quegli indicatori, li abbiamo
commentati, integrati, riempiti di vita vera, ricordando piccoli o grandi
Mito
101
Tre
102
episodi significativi avvenuti in classe o durante un laboratorio del Mito,
le azioni messe in campo fino a quel momento. È in questo modo che abbiamo riconosciuto poco alla volta in quelle schedine chiamate “diario di
bordo” di cui eravamo tutti dotati, équipe Mammut e maestre, non solo
meri foglietti da riempire con inchiostro di colore blu o nero, ma strumenti
per annotare gli accadimenti e le scoperte di quei giorni; che quel contesto
era stato tratteggiato da loro per una loro utilità (pur sempre comune), da
aggiornare di tanto in tanto; che quegli indicatori avrebbero dovuto essere
cambiati, integrati, cancellati se poco utili ai fini della ricerca. Una ricerca
che prima di tutto era funzionale a guardare al proprio contesto di azione
in modo nuovo, più intelligente, cioè potenziato nel leggere la realtà. Capace di incastonare quei laboratori mitici, fatti in aula o nei cortili delle
scuole grazie al MammutBus, quelle chiacchierate settimanali all’interno
della didattica ordinaria, a vantaggio e arricchimento di tutti. Mai come un
qualcosa in più, di estraneo.
L’attività è proseguita di pari passo con lo svolgersi dei laboratori mattutini del Mito del Mammut a scuola come al Centro, i cui ingredienti sono
stati tra gli altri il Mito di Er, Alibabà e i quaranta ladroni, Romeo e Giulietta, Orfeo ed Euridice, il mito della Caverna di Platone, Non ti pago di
Eduardo, Proserpina, il Lupo e la luna; le feste stagionali e il carnevale del
Gridas; la ricerca del Genio Eir Ascòl; i concorsi di inchiesta MammutBus,
la ciclofficina e la breakdance a cui partecipavano alcuni bimbi delle scuole
iscritte.
Per quanto riguarda gli incontri collettivi, essi hanno fornito numerosi
spunti di riflessione e di verifica del lavoro svolto: il modello di formazione
e ricerca basato su una cornice collettiva di senso da cui ciascuno parte e
verso cui torna nel proprio lavoro personale; il forte affiancamento individuale realizzato grazie alla presenza di una facilitatrice; l’affiancamento sul
campo durante le giornate laboratoriali condotte dagli operatori Mammut
in aula e nei locali del centro territoriale con l’intero gruppo classe; il lavoro con i bambini e le bambine che le maestre inviavano al Mammut nel
laboratorio pomeridiano, si sono rivelati elementi di un modello vincente.
Durante la giornata di verifica del 31 luglio 2014 l’équipe ha fissato le
priorità su cui concentrare il lavoro per il restante periodo di ricerca: tutte
le attività messe in campo sono state destinate al lavoro di scrittura collettiva del rapporto di ricerca e alla relativa pubblicazione. Maestre, bambini,
ragazzi e operatori sono stati parte attiva in questa scrittura, com’è nello
stile del nostro centro ispirato a modalità di ricerca-azione nate attorno al
lavoro di autori come Lewin e Dewey. È stata proprio la “scrittura” lo sfondo integratore dei mesi successivi, cercando di raccogliere materiali importanti, supportati da una buona scientificità, sulla possibilità di trasformare
scuola e territorio in luoghi capaci di generare salute anziché malattia.
Ma chi ha vinto il percorso? In maniera diversa, tutti. Persino la scuola
per migranti Asnada di Milano e MetisAfrica di Verona, che a distanza
hanno fornito preziosi suggerimenti ai concorrenti. Tra le consegne de Il
Mito del Mammut vi era, infatti, l’elemento gioco, ovvero la necessità di
scegliere, insieme con la classe, il percorso di un’altra scuola partecipante
a cui dare il proprio contributo: il gioco, dunque, ha compreso certamente un aspetto competitivo ma anche collaborativo poiché avrebbe vinto la
classe in grado di dare il migliore apporto al percorso di un’altra.
Così è stato quando Rossana ha raccontato degli indiani d’America e
del cerchio della vita ai bimbi della classe di Carmela; oppure quando Yasmine ha spedito alcune lettere per posta tradizionale alle classi di Rosaria,
Rossana e Carmela, lettere scritte a mano su tematiche legate alle piante e
alla coltivazione dai suoi allievi stranieri; quando Carmela ha tenuto un
laboratorio presso le classi di Clementina sul Mito di Teseo e Arianna; infine, quando Rosaria e la sua classe hanno preparato e regalato ai bimbi di
Carmela un plastico sui giardini pensili di Babilonia.
La restituzione del lavoro fatto (e di senso) ai compagni e al quartiere è
stata realizzata a maggio grazie a momenti di socializzazione a cui hanno
preso parte non solo le classi dell’istituto ma anche genitori e gli altri partecipanti al gioco: se la classe della maestra Rossana ha costruito con Giovanni uno xilofono ad acqua nello spazio verde antistante la scuola, suonato, nei suoi alti e bassi colorati, da bimbi e mamme, la maestra Carmela
e la sua seconda E hanno abbellito lo spazio-aiuola del cortile interno dove
solitamente gli adulti si fermano in attesa dei figli e delle figlie, mentre le
mamme appendevano al muro di fronte i cartelloni con le storie che hanno
accompagnato il percorso; Yasmine e alcuni alunni hanno guidato la classe
di Carmela e le mamme tra le porte della città, tra un mercato africano e
i silenzi tuareg; Rosaria ha aperto la sua aula dipinta di nuovo alla scuola, mentre Clementina ha creato un bellissimo cerchio che ha ripercorso
le tappe più significative dell’anno; Elvira, dulcis in fundo, ha concluso il
cammino con la rappresentazione dello spettacolo teatrale ideato da Maurizio Braucci nel carcere di Secondigliano: Le maestre sono state, possiamo
dire, attente e vigili portinaie, capaci, come Giano Bifronte, di guardare al
futuro e al passato, verso l’esterno (il contesto) e l’interno (di ciascuno dei
bimbi che le hanno accompagnate, e di loro stesse).
Mito
103
mappa generale di ricerca
R
Tre
104
iportiamo di seguito alcuni elementi che ci sono stati utili a capire se il
lavoro di questo ultimo anno e mezzo ha contribuito realmente al cambiamento desiderato. Tali riscontri sono il frutto del processo di monitoraggio che ha caratterizzato anche questa esperienza di ricerca-azione. Questi i
passaggi principali, come raccontato in precedenza con ScAttiva, incontri di
scuola attiva:
1) a seguito degli incontri con maestre, alunni ed educatori coinvolti nel percorso, abbiamo elaborato la mappa di ricerca-azione. Per la precisione
una collettiva e otto specifiche per ognuna delle maestre partecipanti. Nella
mappa erano indicate sia le domande attorno a cui avrebbe lavorato l’intero gruppo, che gli obiettivi, gli indicatori e le azioni da mettere in campo
per realizzare tali obiettivi;
2) tutte le maestre, gli insegnanti e gli educatori coinvolti ne Il Mito del Mammut potevano contare su una griglia di osservazione, ovvero un diario di
bordo, attraverso cui osservare e registrare l’esperienza svolta nelle scuole,
nei locali del Centro Mammut o negli altri luoghi in cui il Mito del Mammut si svolgeva;
3) al termine di ogni fase di lavoro (in concomitanza con i momenti di socializzazione di piazza: festa d’autunno, di primavera, d’estate) abbiamo messo
in campo attività di verifica, in cui l’attenzione nostra e dei bambini era
orientata ad osservare e registrare elementi rilevanti ai fini delle domande
e degli obiettivi contenuti nella mappa, secondo gli indicatori che ciascun
sottogruppo si era dato;
4) da giugno a novembre 2014, tanto le maestre, quanto gli alunni e gli educatori coinvolti, sono stati impegnati in un lavoro di scrittura collettiva
orientata da obiettivi, domande e indicatori della mappa di ricerca-azione.
In ciascun momento di lavoro abbiamo sempre tenuto presente la giusta
importanza da attribuire a mappa di ricerca e indicatori preordinati: semplicemente una bussola per orientare rotta e osservazione. Molta attenzione è
stata posta a non ingabbiare il presente e il fluire libero dell’esperienza (a partire da intuizione, immaginazione, passione): qualsiasi indicatore, obiettivo o
domanda ulteriore fosse nata durante la singola esperienza avrebbe ricevuto
la più calda delle accoglienze.
Troverete alcuni esempi di tali indicatori e tracce di lavoro in coda a ciascuna sperimentazione, nelle parti 1-6 del presente capitolo. Non sempre siamo
riusciti a compilare il diario di bordo a fine giornata di lavoro (compito essenziale!). Ma di sicuro siamo riusciti ad ottenerne molti e di ottima qualità.
Registrando una differenza positiva e di dimensioni notevoli rispetto alla pre-
cedente ricerca raccontata in Come partorire un Mammut (e non rimanere
schiacciati sotto), Marotta&Cafiero, 2011.
domanda di lavoro/ipotesi:
Territorio e scuola possono trasformarsi in luoghi generatori/potenziatori
di salute individuale e collettiva, realizzando in maniera sostanziale, e non
formale, valori e metodologie della pedagogia attiva ed esercitando un ruolo
di centro territoriale che potenzi cooperazione e spirito di comunità anche con
chi è straniero?
domande generali di ricerca:
a) Come si può sviluppare consapevolezza sulla connessione ecologica e interculturale, modificando atteggiamenti e comportamenti individuali e collettivi attraverso le azioni di un centro territoriale?
b) Ricerca e burocrazia possono essere utili a migliorare l’intervento sul
campo?
Mito
obiettivi di mutamento generali:
a) realizzare percorsi di scuola attiva utili a potenziare la salute individuale e collettiva;
b) migliorare l’efficacia e la piacevolezza dei percorsi di apprendimento
curriculare;
c) produrre un documento di ricerca, con basi teorico/pratiche rigorose,
sulla validità di approcci e metodologie.
sotto-domande
1) Come permettere alla maestra o al maestro “in ricerca” di uscire dal
proprio isolamento?
Obiettivi:
a) incrementare qualitativamente e quantitativamente le interazioni positive tra insegnanti;
b) far diventare patrimonio diffuso le specificità/eccellenze di singole scuole/classi.
Azioni:
a) quelle de Il Mito del Mammut 2013/14 e in particolare il lavoro sull’aula realizzato dalla maestra Rosaria Pica dell’Istituto Comprensivo 28°
105
“Giovanni xxiii-Aliotta” a Chiaiano e la competizione basata sul miglior contributo reciproco nel gioco Il Mito del Mammut;
b) incontri ScAttiva e convegno finale;
c) pubblicazione finale di ricerca e Barrito on-line;
d) percorsi MammutBus.
Tre
106
Indicatori:
a) numero di episodi in cui le insegnanti comunicano (implicitamente o
esplicitamente) di aver incrementato il contatto con altri insegnanti;
b) numeri di episodi in cui si rileva questo incremento;
c) miglioramento delle relazioni interpersonali (minori episodi di scontro,
disciplina migliore anche in assenza della maestra “cattiva”);
d) incremento di episodi in cui le insegnanti fruiscono del patrimonio di
altre scuole/classi.
2) Come può la scuola non essere più un luogo in cui si genera insuccesso, dove nessuno abbia più la sensazione di essere chiuso in un
“carcere” da cui ha voglia di evadere, dove la fase di valutazione sia
efficace e non dannosa e castrante? Come interrompere la connessione tra la “cattiva” scuola e il carcere, contribuendo ad aprire la
porta del carcere al resto del mondo?
Obiettivi:
a) sviluppare una riflessione efficace sul tema “valutazione”;
b) produrre riflessioni sul sistema punizione/premiazione e su scuola e carcere;
c) sviluppare cultura e realizzare percorsi sulla capacità di muoversi con
consapevolezza dentro e fuori dalle istituzioni:
• migliorare la dinamicità delle classi nel dialogo tra “dentro e fuori” la
scuola;
• favorire il contatto tra migranti e autoctoni, riducendo “scontro” e pregiudizio;
• sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi di apertura al mondo del
carcere e di altre istituzioni totali (aula scolastica compresa);
• contribuire ad una elaborazione del vissuto di famiglie, bambini e detenuti sulla distanza tra istituzioni totali (aula compresa) e il mondo.
Azioni:
a) quelle de Il Mito del Mammut e in particolare le azioni della maestra
Quagliarella all’ Istituto Comprensivo “Virgilio 4”, del percorso con
l’Istituto Comprensivo “Ilaria Alpi-Carlo Levi” a Castel Volturno e del
percorso “Aps Garibaldi 101”;
b) laboratorio guidato da Maurizio Braucci in carcere e con alunni presso
l’I.C. “Virgilio 4”;
c) seminario su carcere e valutazione;
d) numero di “Lenti a contatto” con la Ong Intervita.
Indicatori:
a) numero di scambi interno/esterno tra istituzioni totali (o quasi) e resto
del mondo;
b) maggiore serenità nei bambini nel parlare della permanenza loro o di
parenti in istituzioni più o meno totali;
c) numero di scambi/incontri sul tema valutazione;
d) numero di volte in cui si comunica in classe rispetto al tema istituzioni
totali e su entrata/uscita;
e) numero di episodi in cui le insegnanti e gli alunni percepiscono di avere
un migliore rapporto con la valutazione;
f) numero di episodi in cui migliora l’efficacia della valutazione in presenza
di un differente approccio a questo tema;
g) minori interventi delle insegnanti per richiamare i bambini rispetto alle
regole.
3) Come ridurre il fenomeno della dispersione e dell’abbandono scolastico?
Obiettivi:
migliorare quantità e qualità della presenza a scuola di alunni e insegnanti.
Azioni:
a) le azioni de “Il Mito del Mammut” in raccordo con le azioni MammutBus e il progetto PON F3 su Teatro magia;
b) incontri ScAttiva e convegno finale.
Indicatori:
a) incremento della presenza nelle classi coinvolte e nei laboratori pomeridiani;
b) episodi in cui si rileva un incremento del benessere a scuola;
c) miglioramento delle prestazioni scolastiche.
4) Come ridurre la distanza tra enunciati e pratiche di base?
Obiettivi:
provocare consapevolezza a scuola sulla distanza tra enunciati e pratiche
base;
Mito
107
Azioni:
a) quelle de “Il Mito del Mammut”;
b) incontri ScAttiva e convegno finale.
Indicatori:
a) episodi in cui a scuola si rilevano i principali elementi caratterizzanti la
scuola attiva;
b) episodi in cui a scuola insegnanti e alunni parlano della distanza tra termini proposti, enuncianti ed esperienze effettivamente messe in campo;
c) numero di materiali autoprodotti a scuola.
d) episodi in cui si riscontra un sistema “valutativo” più aderente alla pedagogia attiva.
Tre
5) Come fare in modo che la psicologia sia davvero di aiuto nel lavoro
pedagogico, nella scuola e nel sociale?
Obiettivi:
favorire processi in cui la psicologia dia effettivamente un supporto al lavoro pedagogico, alla scuola e al sociale.
108
Azioni:
a) quelle de “Il Mito del Mammut”;
b) incontri ScAttiva e convegno finale.
Indicatori:
a) numero di episodi in cui a scuola si rilevano elementi in cui la psicologia
favorisce azioni di senso e supporto al lavoro pedagogico, nella scuola e
nel sociale;
b) incremento qualitativo prestazione servizio sanitario pubblico a seguito
di azioni riconducibili al Mito del Mammut.
6) Come incidere su apprendimento e sviluppo psicosociale quando
l’alunno ha alle spalle una famiglia molto problematica? E quando
in classe delle elementari ci sono più alunni pluribocciati? Come rispondere a questo e altre situazioni problematiche senza attivare
percorsi di segregazione e classi speciali?
Obiettivi:
favorire lo sviluppo psicosociale dei bambini/ragazzi, evitando il ricorso
alla costituzione di classi speciali e a percorsi di segregazione.
Azioni:
a) quelle de “Il Mito del Mammut”, in particolare i percorsi presso “Virgilio
4”, “Alpi-Levi” (sia a Scampia che a Castel Volturno), “Garibaldi 101”;
b) azioni in rete con il MammutBus e il progetto di Teatro Magia del Pon
F3.
Indicatori:
a) numero di episodi in cui gli allievi percepiscono un miglioramento, in
termini di apprendimento come di sviluppo psicosociale, grazie al percorso intrapreso;
b) numero di episodi in cui gli insegnanti riconoscono tale miglioramento
nei propri alunni;
c) incremento del numero di episodi di partecipazione attiva di famiglie
considerate problematiche;
d)incremento del numero di episodi effettiva triangolazione famiglia/
scuola/sociale.
Mito
7) Come fare in modo che i genitori (e gli allievi) accettino che la scuola non serva solo a insegnare a leggere e a scrivere?
Obiettivi:
creare consapevolezza nei genitori (come negli alunni) che la scuola è molto di più di un luogo dove si impara a leggere a scrivere.
Azioni:
a) quelle de Il Mito del Mammut;
b) concorsi MammutBus;
c) condivisioni dei lavori finali realizzati nell’ambito de Il Mito del Mammut.
Indicatori:
a) numero di episodi in cui i genitori (e gli allievi) riconoscono che la scuola non serve solo ad insegnare/apprendere a leggere a scrivere;
b) incremento della partecipazione dei genitori ai percorsi scolastici, anche
al Mammut.
8) come possiamo migliorare i territori perché da potenziatoti di malessere e malattia psico-fisica si trasformino in luoghi di potenziamento
della salute individuale e collettiva? come può la scuola incidere sul
grave inquinamento di acqua, aria e terra come nel caso di bagnoli
e delle cosiddette “terre dei fuochi”? come possiamo trasformare
aule grigie e pareti rovinate in luoghi pulsanti vita, calore e bellezza?
109
Tre
110
Obiettivi:
a) aumentare la consapevolezza del pensiero e la conoscenza critica sul
tema;
b) migliorare il contatto tra alunni e genitori e l’ambiente, facendone percepire l’interconnessione;
c) produrre consapevolezza su interconnessione ecologia/didattica;
d) favorire conoscenza e consapevolezza sulla connessione tra alimentazione e regni animale/vegetale;
e) miglioramento della salute dei partecipanti alle attività de “Il Mito del
Mammut”
f) mutamento stili di vita;
g) miglioramento nelle porzioni di territorio coinvolte nelle progettualità
“Mito del Mammut”.
Azioni:
a) quelle de Il Mito del Mammut e in particolare i percorsi delle scuole: “Ilaria Alpi- Carlo Levi” a Scampia; I.C. 58° “J.F. Kennedy” del rione Monterosa; 28° Circolo Didattico “Giovanni xxiii – Aliotta” di Chiaiano;
b) ciclofficina del Mammut e intrecci con le attività nelle scuole;
c) proposta bici a scuola;
d) documento inchiesta partecipata da presentare a istituzioni nazionali e
internazionali su danni alla salute per terreno, aria, acqua;
e) aumentare la massa critica (anche web e giornali) su questi temi;
f) azioni in rete con il Comitato Spazio Pubblico di Scampia;
g) laboratorio di astronomia con la maestra Carmela De Lucia presso l’I.C.
58° “J.F. Kennedy”.
Indicatori:
a) diminuzione di episodi conflittuali con l’ecosistema;
b) aumento della relazione tra alunni (prestarsi oggetti, specificare);
c) numero di volte in cui gli alunni non buttano la carta per terra ma usano
il cestino;
d) numero di volte in cui gli alunni non buttano rifiuti per terra ma fanno
la differenziata;
e) minori interventi delle insegnanti per richiamare i bambini rispetto alle
regole;
f) numero di soggetti allergici (insegnanti e alunni) che migliorano;
g) più azioni dei genitori a tutela dello spazio aiuola e in generale degli spazi
pubblici;
h) più tempo trascorso bene nello spazio scelto per trasformazione;
i) documenti d’inchiesta e incontri pubblici sul tema; approfondimento e
denuncia;
j) numero delle persone che partecipano agli incontri;
k) numero delle azioni che si generano indipendentemente dalla presenza
Mammut;
l) riduzione percentuale di fattori inquinanti;
m) numero di risposte positive sulla percezione individuale rispetto alla
propria interdipendenza con l’ecosistema;
n) modificazioni visibili negli spazi oggetto di trasformazione rilevate nelle
giornate di condivisione nel mese di maggio 2014.
9) come possiamo migliorare la scuola perché, da potenziatrice di malessere e malattia psico-fisica, si trasformi in luogo di potenziamento della salute individuale e collettiva?
Obiettivi:
a) produrre analisi e consapevolezza relativamente al tema in oggetto;
b) miglioramento della salute psico-fisica dei partecipanti alle attività del
Centro Mammut;
c) mutamento di stile nella conduzione delle giornate a scuola;
d) miglioramento di alcune porzioni di territorio coinvolte;
e) maggiore consapevolezza rispetto alla connessione con l’ecosistema;
f) favorire un impatto sull’opinione pubblica relativamente alla ricerca animata all’interno de “Il Mito del Mammut”;
h) costruzione opinione pubblica (web, giornali);
i) raccolta dati, immagini, aneddotica e consegna a Bruxelles (Commissione Europea o Parlamento Europeo) di una relazione finale.
Azioni:
a) quelle de “Il Mito del Mammut”, in particolare i percorsi di “Garibaldi
101” e I.C. 58° “J.F. Kennedy”;
b) produrre un’inchiesta sul tema che denunci i danni provenienti da una
“didattica nociva” e da elementi di psicologia/pedagogia mal interpretati
e praticati;
c) laboratorio/formazione sull’astronomia con la maestra Carmela De Lucia presso l’I.C. 58° “J.F. Kennedy” nel rione Monterosa;
d) laboratorio/formazione sul rapporto ambiente-didattica con la maestra
Rosaria Pica dell’I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta” di Chiaiano;
e) concorsi MammutBus in collaborazione con il quotidiano “Il Mattino”.
Indicatori:
a) numero di documenti di inchiesta e di incontri pubblici (di approfondimento e di denuncia) sul tema;
b) numero di persone che partecipano agli incontri;
c) numero di azioni realizzate indipendentemente dalla presenza Mammut;
Mito
111
d) riduzione percentuale di fattori e sintomi di malessere psico-fisico legati
alla presenza a scuola;
e) numero di risposte positive sulla percezione individuale rispetto alla
propria interdipendenza con l’ecosistema a partire da esperienze scolastiche;
f) numero di episodi in cui si rileva un miglioramento nella didattica in
connessione al miglioramento di consapevolezza sul tema e/o salute dei
partecipanti;
g) incremento qualitativo di prestazioni del servizio sanitario pubblico a
seguito di azioni riconducibili al Mito:
Tre
112
10) Come la scuola può potenziare lo sviluppo di una maggiore consapevolezza sull’interconnessione tra vita individuale e contesto
ambientale?
Obiettivi:
a) produrre analisi e conoscenze sul tema, tanto negli aspetti psicologici
che in quelli economici;
b) produrre una modificazione negli atteggiamenti e nei comportamenti
delle persone coinvolte nel percorso “Il Mito del Mammut”;
c) favorire la frequenza scolastica di migranti (grandi e piccoli), aumentando e stabilizzando la loro presenza;
d) favorire il contatto tra migranti e tra migranti e autoctoni, riducendo
frizioni e pregiudizi;
e) migliorare il contatto tra alunni (conoscenza, scambio culturale e personale);
f) migliorare il contatto tra famiglie di diversa provenienza;
g) migliorare la permanenza in aula di alunni e docenti;
h) migliorare l’apprendimento effettivo degli studenti, almeno della lingua
italiana L2;
i) favorire il ragionamento sulla lingua italiana come lingua veicolare;
j) potenziare associazioni locali di migranti.
Azioni:
quelle de “Il Mito del Mammut”, e in particolare dei percorsi dell’“Ilaria
Alpi – Carlo Levi” sia a Scampia che a Castel Volturno, e dell’associazione “Aps Garibaldi 101”.
Indicatori:
a) numero di episodi in cui si rileva un effettivo incontro tra gruppi di
diversa provenienza;
b) numero di episodi in cui si riscontrano modalità di stare insieme agli
“altri” senza pregiudizio;
c) diminuzione di episodi conflittuali;
d) aumento nella relazione tra alunni (per esempio prestarsi oggetti, incontrarsi dopo la scuola, ecc. );
e) numero di volte in cui gli alunni non buttano la carta per terra ma usano
il cestino;
f) numero di volte in cui gli alunni fanno la differenziata;
g) minori interventi delle insegnanti per richiamare i bambini rispetto alle
regole;
h) decremento nel numero di “evasioni” in aula (telefonino, uscite dal cerchi o aula) in presenza di migranti;
i) percentuale di tempo di fuga/permanenza attorno all’orario di inizio e
chiusura della lezione;
j) aumento percentuale di espressioni e commenti/condivisioni tra alunni
e insegnanti;
k) numero di test linguistici superati;
l) numero di volte in cui si realizzano materiali, discussioni, ragionamenti
sul tema della lingua italiana come lingua veicolare;
m) numero di insegnanti che conoscono l’esperienza di scuola “Fuori porta”, ne parlano in modo positivo e chiedono come si è realizzato (anche
in consiglio di classe);
n) numero di Cpia che organizzerà un percorso simile a quello realizzato
dalla “Alpi-Levi”;
o) rapporto tra numero di alunni iscritti e numero di alunni frequentanti;
p) numero di episodi positivi che riportano le associazioni di migranti aderenti al “Mito del Mammut”.
11) Ricerca e burocrazia possono essere utili a migliorare intervento sul
campo?
Obiettivi
a) produrre materiale utile all’elaborazione dell’esperienza;
b) produrre materiale utile all’elaborazione del testo conclusivo della ricerca;
b) migliorare l’efficacia ai fini della documentazione per Comune e altri
finanziatori;
c) migliorare l’intervento sul campo;
d) migliorare professionalità e “umanità” dei membri dell’équipe Mammut;
Azioni:
a)quelle de “Il Mito del Mammut”;
Mito
113
b) compilazione quotidiana dei diari di bordo con formato condiviso;
c) documentazione video ad opera di un operatore a questo destinato;
d) compilazione di altri documenti di ricerca;
e) riunione mensile d’équipe destinata alla ricerca;
f) supervisione psicologica;
g) redazione di documenti finalizzati alla comunicazione esterna (articoli,
foto racconti) con scadenze e individuazione di responsabilità specifiche
tra i membri dell’équipe;
Tre
Indicatori:
a) costanza nella compilazione dei diari di bordo;
b) qualità e quantità dei documenti di racconto e ricerca prodotti;
c) quantità e qualità delle “prove” su cui contare nel momento di verifica
conclusiva attorno alla validazione dell’ipotesi;
d) numero di episodi da cui si evince facilità e soddisfazione da parte di
membri équipe e dell’utenza a seguito dell’elaborazione dei documenti
di ricerca e di adempimento burocratico;
e) miglioramento delle azioni sul campo rilevabili anche grazie agli indicatori relativi alle altre domande;
f) episodi e comunicazioni relative al miglioramento professionale ed
“umano” dei membri dell’équipe.
2. la porta del carcere
È
forse proprio questa la “porta” dove abbiamo raccolto maggiori prove
sulla possibilità di una scuola della salute a-terapeutica, dove un buon
utilizzo del mito può dare risultati importanti. Tonino Stornaiuolo, teatrante
ed educatore dell’équipe Mammut, ci fa entrare nella caverna di Platone come
possibilità di uscita dalle catene del carcere, subite indirettamente dai figli e
famigliari dei detenuti. Possibilità resa tale solo dall’incontro con una maestra capace di farsi regista tra scuola e territorio, carcere incluso. Il racconto
di Maurizio Braucci completa il quadro, dando conto del tentativo di tenere
insieme tutti i pezzi di una realtà che restituisce, meglio di altre, il reale stato
di salute di una società. Se i risultati sul mutamento del servizio su cui la classe
di Elvira Quagliarella aveva scelto di concentrare i suoi sforzi, il carcere, non
sono facilmente quantificabili, risulta non di meno evidente il valore di questa
esperienza ai fini del miglioramento dell’esperienza scolastica. Anche in merito alla fantomatica “dispersione”.
115
la porta eterna. i bambini e il carcere
di Maurizio Braucci
Q
uando lavoriamo con gli adolescenti, in centro o in periferia che sia,
data la tipologia sociale di una parte dei nostri ragazzi, il carcere è per
noi un tema ricorrente. Che sia per droga o per furto o altro, qualcuno dei
“nostri” ragazzini ci è finito ma più spesso ci ha a che fare attraverso qualcuno dei suoi familiari. Così, l’aldiquà del nostro lavoro con gli adolescenti è spesso il carcere, un pianeta che oggi non è più troppo ignoto, anche
se spesso ci si dimentica che è anche luogo emblematico di un territorio
e di una società, che lo rappresenta. Oggi gli istituti penitenziari stanno
cambiando innanzitutto nella destinazione: stiamo passando, abbastanza
velocemente, a una configurazione che vede le carceri divise in tre categorie di base: massima sicurezza, per i boss e gli affini; alta sicurezza, per
gli affiliati; e quelli normali con le varie aree per la tossicodipendenza e la
psicopatologie e i reparti sanitari. Sembrerebbe un efficace organigramma, ma chiaramente il pianeta carcere è pieno di condizioni disumane e
a volte aguzzine, come testimoniano i casi delle morti per tortura o per
Tre
116
mancata assistenza medica. Nel carcere conta molto lo staff dirigenziale, è a
sua discrezione infatti il miglioramento e la fornitura di percorsi formativi,
chiaramente nei limiti legislativi e finanziari. Il carcere è anche un pianeta
economico che nutre molte attività di ditte e associazioni che vi forniscono merci, servizi e formazioni, non sempre in maniera chiara ed efficace
però. In carcere entri a lavorarci con un progetto educativo solo se accetti
le regole carcerarie, che significano controllo e limitazione negli spazi e nei
movimenti, per questo non tutti gli operatori accettano o possono sostenere queste condizioni coercitive. Fino a dieci anni fa anni partecipavo a un
laboratorio multimediale in un carcere a custodia attenuata – l’unico tipo
di carcere, fino a qualche anno fa, per i reati connessi alla tossicodipendenza – e solo due anni fa ho ripreso delle attività (teatrali) con alcuni detenuti
del carcere di Secondigliano ad alta sicurezza.
Anche qui la presenza di una buona direzione è stata la premessa per
poterci lavorare. Dopo un laboratorio teatrale, in tempi strettissimi, finanziato dalla scuola locale Carlo Levi, abbiamo creato, io e la coreografa
Linda Martinelli, un piccolo spettacolo sulla differenza tra la piccola manovalanza e i boss della criminalità organizzata. Il titolo era “Rosencrantz
e Guildenstern sono in carcere” ed aveva per attori dei detenuti per reati secondari nel sistema criminale (qui sarebbe troppo lunga da spiegare
l’epopea di tanti arrestati, spesso per spaccio, con l’aggravante di reato per
associazione mafiosa). Sull’onda di questa esperienza di teatro – che nei
detenuti stava servendo a iniziare un percorso di percezione del sé inserito
nelle dinamiche di potere criminale, ma che abbiamo dovuto interrompere
per mancanza di fondi e perché la scuola puntava a percorsi più visibili e
spettacolari – sull’onda di questa esperienza, dicevo, abbiamo cercato altre
maniere per continuare. È stato il Centro territoriale Mammut, con cui c’è
una consolidata collaborazione, a fornirci uno spunto importante che fa
ritornare questo scritto alla sua premessa, cioè al rapporto tra i bambini e il
carcere. Lavorando acutamente sul territorio, il gruppo del Mammut ha incontrato l’esperienza dell’insegnante elementare Elvira Quagliarella, molto
avanzata nel metodo educativo, che ha sottoposto al Mammut il problema
degli alunni della sua classe, non pochi, che avevano i genitori in carcere. Il
Mammut mi ha contattato e insieme abbiamo discusso questo fenomeno.
Ci è sembrato emblematico degli effetti della grande repressione che c’è
stata a Scampia negli ultimi anni – l’effetto Gomorra per capirci – e che ha
portato tanti bambini a vivere indirettamente il carcere, nelle assenze dei
genitori, nelle visite o nelle telefonate in carcere.
Il progetto, durato purtroppo solo tre mesi, è partito da un laboratorio
nella scuola della maestra Quagliarella, la Virgilio 4, condotto da Tonino
Stornaiuolo e che ha sollecitato i bambini a immaginare liberamente l’aldilà di una porta chiusa, prima con dei disegni e poi con una scena teatrale
in cui, a turno e per coppie, gli alunni si confrontavano materialmente con
una porta serrata. Il risultato è stato una libera associazione di desideri e timori, spesso fantasiosamente offerti, davanti all’obiettivo della telecamera
di Claudia Brignone, che è diventato un video dal titolo “La porta”. La finalità è stata unica e chiara: liberare i ragazzini dalla vergogna e dall’imbarazzo per la condizione dei loro familiari e fare in modo che i loro compagni
accogliessero la loro sofferenza senza pregiudizi.
Nel mentre, io e Linda, accompagnati dal regista Pino Carbone, abbiamo lavorato nel carcere di Secondigliano con un gruppo di 15 detenuti sul
tema delle relazioni con l’esterno, ottenendone una concerie di immagini e situazioni, anche qui fatte di desideri e paure che andavano dal cibo
alla morte, di sé e dei propri cari, vissuti dentro le sbarre. Inoltre, usando
gli esercizi e le verbalizzazioni teatrali, abbiamo aperto un confronto tra
i bambini e i detenuti, offrendo a questi ultimi le immagini create dagli
alunni della Virgilio 4 e suscitando in loro una prevedibile commozione e
un sentito bisogno di parlarne all’esterno. Il risultato finale è stato un breve
spettacolo, “La porta eterna”, servito tra l’altro come base per una riflessione sulle responsabilità dei detenuti verso gli altri, e soprattutto verso i
bambini. Non è stato un grande spettacolo – avevamo alla sinistra del palco la proiezione del video fatto dai ragazzini, in modo che la porta chiusa
venisse a dividere loro dai detenuti – ma ci ha fatto capire per una seconda
volta le potenzialità, per i detenuti, di un percorso teatrale di riflessione sulla propria condizione. La nostra ambizione non era soltanto spettacolare,
anche se il poco tempo a disposizione ci ha comunque imposto un lavoro
esteticamente rarefatto, ma diretta a osservare con sensibilità i fenomeni
che riguardavano quel particolare gruppo e a metterli a fuoco e in scena,
per elevare il livello di consapevolezza e di autocritica.
Carcere
117
il mito della caverna e il carcere
di Elvira Quagliarella, maestra alla scuola primaria I.C. “Virgilio 4”
descrizione del contesto
a scuola in cui lavoro da 30 anni e più è nel quartiere Scampia, nella
periferia Nord di Napoli. Accoglie in sé una platea proveniente dalle
cosiddette “Vele” (lotto LM ) e dai “Sette Palazzi” (Comparto H) nonché
dal lotto G e da case di edilizia economica e popolare abitate da famiglie
particolarmente svantaggiate, con basso livello socio-economico e culturale. Tale platea scolastica, inoltre, è soggetta ad un continuo fenomeno di
fluttuazione dovuto al progressivo sgombero delle “Vele” ed alla immediata e continua rioccupazione delle stesse da parte di nuovi nuclei familiari
fortemente disagiati, perlopiù provenienti dall’hinterland partenopeo.
La povertà economica è pari a quella culturale: la maggior parte dei nostri ragazzi vive la propria quotidianità nei confini del rione, che oltre a
strade immense e palazzoni grigi offre ben poco: la parrocchia, la piscina
comunale, alcune strutture sportive (Scuola Calcio Arci Scampia, la Palestra del maestro Maddaloni), ampi spazi verdi, ovviamente vandalizzati e
abbandonati, dunque, nella maggior parte dei casi, impraticabili. Unici baluardi alcune Associazioni che lavorano nel quartiere, tra cui il Centro territoriale Mammut, il centro sociale Gridas e altre ancora. La strada e le sue
leggi sono, assai spesso, l’unica “palestra” dove i giovani si formano. Molto
alto risulta, ovviamente, il tasso di illegalità: lo spaccio di sostanze stupefacenti è altissimo ed è oramai diventato, grazie alla totale assenza delle
istituzioni, la principale fonte di reddito per le famiglie dei nostri alunni.
Un’altissima percentuale di ragazzi ha uno o più componenti del nucleo
familiare in carcere o in stato di latitanza o, al meglio, agli arresti domiciliari. Sovente si tratta del capofamiglia o dei fratelli maggiori. Le madri, se
non implicate esse stesse in organizzazioni criminali, sono spesso assenti,
impegnate quasi sempre in lavoro nero, pertanto, lontane da casa per molte
ore della giornata.
Bambini e adolescenti vivono quotidianamente la strada, frequentano compagnie di ragazzi, molto spesso, più grandi di età che fanno della
“trasgressione” la regola prima della comunità. Qui trova terreno fertile la
diffusione delle droghe, che, attraverso lo spaccio, assicura guadagni rapidi e facili, per poi risolversi in un doppio laccio mortale per i giovani: da
un lato la carcerazione, dall’altro la tossicodipendenza. Alta è, inoltre, la
percentuale dei ragazzi con componenti familiari deceduti, vittime di malattie, omicidi, incidenti sul lavoro, portatori di handicap. Molte famiglie
L
Tre
118
vivono continui stravolgimenti nel loro assetto, si fondono e si frantumano
repentinamente, consegnando ai ragazzi l’ardua impresa di riconoscere ed
accettare nuovi padri, madri, sorelle e fratelli mai visti prima e che, forse,
di lì a poco, non rivedranno più.
Sembra quasi essere un mondo a sé, che si chiude a riccio su se stesso, un
microcosmo dove persino i miti dei ragazzi sono figli “indigeni”, prodotti
da una subcultura che appare mille miglia distante da quella di altre realtà
giovanili, cittadine e non. Qui l’eccezione diventa regola, il caso la “normalità”, la realtà completamente trasfigurata.
La mia classe era formata da 24 alunni (9 femmine e 15 maschi) sino al
novembre 2013; successivamente due bambini sono andati via, in seguito
a tristi e drammatiche vicissitudini del nucleo familiare. All’interno del
gruppo-classe vi erano ben 9 alunni che avevano ripetuto la classe per una,
due e anche tre volte adducendo come motivazione la loro semi inadempienza e lo scarso profitto scolastico. Si trattava di bambini provenienti
prevalentemente dai Sette palazzi, dalle Vele e dalle abitazioni assegnate da
pochi anni agli abitanti delle Vele in via Gobetti. Già da tempo ero a conoscenza del fatto che la maggior parte dei bambini frequentanti la mia classe
aveva uno dei due genitori in stato di detenzione o agli arresti domiciliari,
oltre che zii, cugini e quant’altro in situazioni analoghe. Tutti bambini che
avevano alle spalle situazioni familiari alquanto problematiche, bambini
che si erano affollati nella mia classe nel corso di 5 anni perché bocciati o
rifiutati dalla scuola. Bambini demotivati, angosciati, spenti.
L’ipotesi principale intorno alla quale si era andata articolando la mappa
di ricerca del Mito del Mammut (VII edizione) era stata tradotta in questo
modo: come trasformare la scuola e il territorio in luoghi che generano salute
anziché malattia? L’ imprevedibilità della ricerca, come afferma Giovanni, ha fatto sì che, durante il primo incontro tra gli amici del Mammut e
i bambini della mia classe, nel novembre 2013, emergesse uno dei nuclei
principali del nostro lavoro. L’archetipo della porta, all’interno della mia
classe, è diventato in quell’occasione uno spunto di riflessione intorno al
tema della “detenzione”.
Nei tre incontri che si sono tenuti presso la sede del Mammut ho visto la
presenza e la partecipazione attiva ed entusiasta dell’intero gruppo-classe.
Allo stesso modo, negli incontri avvenuti a scuola, i bambini, all’interno
del cerchio che puntualmente costituivamo, riuscivano, quasi sempre, a
raccontare e meditare collettivamente. Ho visto ciascuno di loro farsi coraggio, prima uno, poi l’altro, poi l’altro ancora, cercavano di liberarsi di
quel peso insostenibile che portavano dentro, spesso anche per un’imposizione dei familiari. Insieme, sia durante gli incontri con i nostri amici, sia
dopo, abbiamo ragionato sulle tante ingiustizie che si annidano attorno
Carcere
119
Tre
120
alla Porta del carcere proponendo di fare di quella porta uno dei contesti
da trasformare attraverso il Mito del Mammut.
L’entrata del carcere si è rivelata, per molti versi, simile al passaggio in un
aldilà, forse, ancora più inspiegabile della morte. Attraverso racconti autobiografici e miti classici, come quello della “Caverna” di Platone si è cercato
di lavorare attorno a questo tratto doloroso della vita individuale di molti
bambini, tentando di migliorare tanto il loro benessere psicofisico quanto
l’apprendimento scolastico. Ecco, quindi, la scelta del “mito della Caverna”
di Platone attraverso la lettura, la rappresentazione grafica, la narrazione
con le ombre cinesi. Dentro il buio, fuori la luce, dentro le catene, fuori la
libertà. Questo percorso intrapreso con i bambini è andato a integrarsi con
il laboratorio teatrale condotto nel carcere di Secondigliano da Maurizio
Braucci che, a sua volta, ha tenuto all’interno della scuola due incontri con
i bambini della classe. Altro momento molto intenso e significativo è stato
quello della visione del film Il loro Natale di Gaetano Di Vaio. Qui sono
venute fuori emozioni forti e i bambini, attraverso un processo di identificazione (quasi catartico, direi) con i protagonisti del film, hanno esplicitato
emozioni e sentimenti autentici, pulsanti, “quelli che fanno sballare programmi e produzioni standardizzate”. Purtroppo accade che, troppo spesso, il nostro sistema scolastico insegni a mettere da parte emozioni e stati
d’animo. Come ci hanno insegnato alcuni grandi maestri come Freinet,
compito della scuola sarebbe proprio quello di partire da questa “materia
viva” (appunto emozioni e sentimenti) per dare ai bambini strumenti e
possibilità di apprendimento vero. Io ci provo da sempre, ma questa volta ancora di più, cercando con il mio lavoro di aumentare la motivazione
intrinseca, connettendo la didattica all’esperienza, tramutando la competizione in cooperazione, promuovendo attività laboratoriali, superando le
barriere della classe, facendo respirare loro all’interno della scuola un clima
sereno, facendo sì che anche e soprattutto l’errore costituisse per tutto il
gruppo un’occasione di crescita. Scuola, quindi, non più come un “carcere
da cui si ha voglia di evadere” ma un luogo accogliente in cui ritrovarsi
per stare insieme, per condividere insieme ansie e paure, ma anche gioie
e sorrisi, un luogo trasformato in un’officina operosa dove nessuno giudica e punisce ma dove tutti condividono e rispettano le stesse regole, dove
gli alunni vedono nella “maestra” una figura autorevole e non autoritaria,
dove si insegna ai bambini “a sconfiggere i draghi” (Chesterton), non ad
averne paura!
considerazioni
Pur avendo intrapreso con grande entusiasmo e convinzione questo percorso che, giorno dopo giorno, mi conduceva a smantellare tutte quelle
impalcature che rendevano proprio la scuola il principale fattore di condizionamento negativo, nella misura in cui si andavano sistematicamente
a stabilire le condizioni che incentivavano lo svantaggio iniziale anziché
ridurlo, mi rendevo conto ogni giorno di più di essere su una nave di cui io
ero il capitano! Venivo osservata da molti con un misto di curiosità, sconcerto, a volte disappunto: troppo permissiva, troppo affettuosa, troppo “rivoluzionaria”, troppo comprensiva, troppo autonoma nelle scelte e nelle
decisioni; poco autoritaria, poco attenta al rispetto della disciplina, poco
attenta ad impartire il sapere e a svolgere in tempo il programma (!) Intanto, dalle mie osservazioni appariva sempre più evidente che questo “modo
nuovo di fare scuola” stava ottenendo una ricaduta sui ragazzi notevole, sia
in relazione alla frequenza scolastica e al grave problema dell’abbandono,
sia in merito agli apprendimenti.
Carcere
100%
90%
80%
70%
60%
50%
121
40%
30%
20%
10%
sett.
ott.
nov.
dic.
gen.
feb.
mar.
apr.
mag.
frequenza scolastica del gruppo classe
italiano
matematica
scienze
storia/geogr
inglese
10
8
6
4
2
sett. / mag.
sett. / mag.
sett. / mag.
rendimento scolastico nelle diverse discipline
classe v b scuola primaria ics “virgilio 4”, a.s. 2013–14
sett. / mag.
sett. / mag.
Ordinate e
ascisse:
grafico
frequenza:
mesi del
calendario
scolastico
2013⁄2014,
percentuale di
frequenza degli
alunni.
grafico
rendimento:
materie curriculari, voti dei
suoi alunni
Aumento della riflessione sul
carcere e sulla valutazione
Realizzazione del seminario sul
carcere, tenuto presso l’Istituto
Comprensivo “Virgilio 4” ad
aprile 2014.
Visione a scuola del film “Il loro
Natale” e discussione finale.
Produzione di disegni da parte
di alunni e alunne sul tema
carcere e città.
Commento della maestra
Quagliarella: “gli alunni e le
alunne hanno sviluppato un
buon senso critico (discussioni
spontanee e guidate) portando
motivazioni a supporto o
detrazione della tesi”.
Riduzione percentuale di
fattori e sintomi di malessere
psico-fisico legati alla
presenza a scuola (maestra)
Aumento di benessere
psico-fisico e della frequenza
scolastica di alunni e alunne
Commento della maestra
Quagliarella “Ora mi
piace lavorare sui solidi”,
miglioramento anche per i
bambini (cfr. quaderni e voti)
Sblocco emotivo/incremento
percentuale costante nella
frequenza scolastica tra
settembre 2013 (40%) e maggio
2014 (quasi il 100%)
La valutazione viene fatta sul
e in gruppo, questo produce
benessere sia per la maestra
che per gli alunni e alunne:
il bambino più capace aiuta
spontaneamente l’altro in
difficoltà. Nessuno si sente
additato, l’errore non è causa di
insuccesso o demotivazione.
Incremento percentuale del
gruppo classe in italiano: a
settembre 2013 la percentuale di
rendimento era al 5% mentre a
maggio 2014 era pari al 7%.
di Tonino Stornaiuolo
Incremento percentuale del
gruppo classe in scienze: a
settembre 2013 la percentuale di
rendimento era al 6% mentre a
maggio 2014 era pari all’ 9%.
Incremento percentuale del
gruppo classe in storia e
geografia: a settembre 2013 la
percentuale di rendimento era
al 4% mentre a maggio 2014 era
pari all’ 7%.
Incremento percentuale del
gruppo classe in matematica: a
settembre 2013 la percentuale di
rendimento era al 5% mentre a
maggio 2014 era pari all’8%.
Incremento percentuale del
gruppo classe in inglese: a
settembre 2013 la percentuale di
rendimento era al 6% mentre a
maggio 2014 era pari all’ 9%.
Commento della maestra
Quagliarella: “prima non
mangiavano insieme/ora sì”.
Almeno la metà dei bambini,
dice la maestra, ora sono felici.
Prima molto meno. Vari episodi
riscontrati di accasamento, la
chiamano mamma per sbaglio.
griglia indicatori
i. c. “virgilio 4”, classe v
Docente: Elvira Quagliarella
una quinta nella caverna di platone
Alcuni alunni si sono
trasformati, riporta la maestra:
dall’inizio dell’anno ha visto
aumentare motivazione,
frequenza scolastica, il
piacere nel venire a scuola.
Il musical “L’isola che c’è”
ha ulteriormente favorito
l’incremento del rendimento
scolastico, grazie alla
piacevolezza del momento.
ggi abbiamo fatto il primo incontro con la 5°A dell’Istituto Comprensivo “Virgilio 4”. Nei primi incontri, quando andavamo a conoscere le
classi che avrebbero partecipato, chiedevamo a ogni insegnate e bambino
di scegliere “una porta chiusa che avrebbero voluto aprire. Qualcosa che
avrebbero voluto cambiare”. La classe della maestra Elvira Quagliarella decise che la porta su cui avrebbe lavorato sarebbe stato il carcere.
La classe è composta da 22 alunni. Mentre sono al Mammut a sistemare,
sento delle voci da fuori, mi affaccio e vedo i bambini attraversare la piazza
vuota che dalle Vele porta al Mammut, sotto la pioggia e senza ombrelli.
Entrano e iniziano a guardarsi introno, a scoprire questo posto di cui tanto
avevano sentito parlare. Com’è nostra consuetudine, prepariamo il cartellone delle presenze. Sono tutti presi da questo momento, rispetto alle altre
scuole e ai nostri bambini, risulta un momento molto interessante, sono
tutti in cerchio, a terra: si guardano negli specchietti, disegnano generalmente il loro viso o e poi scrivono come si sentono. Elvira ci tiene subito
a sottolineare una cosa: la sua classe, di lunedì, conta sempre un massimo
di 12-13 alunni su 22, questa mattina ce ne sono 21. Mi segno subito questo
dato, molto importante per noi e per le nostre domande di ricerca.
Iniziamo facendo dei giochi in cerchio, scambi di scosse, di energia e
di riflessi; i bambini si divertono molto e sono molto partecipi. Dopo decidono di esplorare il Mammut e vanno nella mediateca, la stanza dove
teniamo i giochi e i libri. Giovanni ed Elvira li seguono, fanno la merenda
e poi un po’ di gioco libero. Nel frattempo io, Nadia e Davide allestiamo la
sala grande per il racconto teatrale.
Ogni volta che una classe viene al Mammut e iniziamo un percorso,
usiamo sempre una storia che faccia da sfondo e da input iniziale, legata
all’argomento su cui la classe dovrà lavorare. Questa volta abbiamo scelto
il mito della caverna di Paltone. Mentre noi tre continuiamo a sistemare
e ad organizzarci per le ombre cinesi, Giovanni si è spostato nella stanza
“officina” con i bambini, e fa disegnare loro un biglietto che varrà come ingresso per lo spettacolo. Devono disegnare una porta per loro importante,
che vorrebbero aprire e che attualmente è chiusa. Tutto è pronto, i bambini
entrano e si siedono. C’è un po’ di concitazione, la stanza che loro hanno
lasciato prima si è un po’ trasformata, ci sono le luci soffuse, un telo bianco
illuminato da una forte luce rossa e io ho indossato dei vestiti particolari.
Inizio la storia in questo bel clima. Nadia ogni tanto passa degli oggetti
creando le ombre sul telo. Gli sguardi dei bambini sono attenti, diretti a me
O
Carcere
123
e alle ombre; le orecchie seguono attentamente la storia. Quando mi avvio
verso la fine del racconto, loro sono ancora lì, in silenzio, e aspettano che
gli dica una parola conclusiva. Allora mi viene da improvvisare un finale
aperto: “ancora oggi, nessuno ha mai saputo se quell’uomo è uscito dalla
caverna o è rimasto dentro, insieme agli amici”.
Tre
124
Finito il racconto li invito a mettersi in cerchio e iniziamo una discussione sulla storia. Ognuno dice la parte del racconto che più l’ha colpito,
poi Giovanni rivolge una domanda a tutti: “Secondo voi, che doveva fare?
Uscire o restare con gli amici? Voi cosa gli consigliereste o cosa fareste?”
A questo punto inizia un lungo e interessante confronto tra i bambini. I
primi sono tutti dell’idea di restare: dentro ci sono gli amici, gli affetti. Poi
pian piano uno prende coraggio e dice: “Io uscirei. Fuori ho visto la vera
vita e tante cose belle” e iniziano a discutere. Si dicono tra loro che uscire
non sarebbe giusto, non si lasciano gli amici così, senza motivo. “Sì, ma ha
provato a dirglielo agli amici, non gli hanno creduto, se ne deve andare”.
Alessandro dice in tutta franchezza: “A me nun me ne fotte, io vado fuori, ce sta ’o sole, tutto il mondo che ho scoperto. Se non vogliono venire so’
fatti loro, io me ne vado”, e qualcuno gli risponde: “Allora sei un infame,
gli infami fanno così”.
Dopo le discussioni sull’uscire o meno, cercano di capire la situazione:
ma come hanno fatto a mangiare per anni lì dentro se erano rinchiusi fin
da quando erano bambini? Sono nudi? E soprattutto: se esce come fa a
vivere se non sa leggere e scrivere e quindi non può lavorare? Il discorso e
gli interrogativi vanno avanti per un bel po’, finché Giovanni non sintetizza
il tutto scrivendo le domande principali su tre foglietti, gli dice che queste
sono domande irrisolte, domande che da millenni nessuno ha mai sciolto e
che loro, per la settimana successiva, dovranno indagare e portare al gruppo le proprie scoperte.
In tutta questa lunga discussione non hanno mai preso voce le ragazze.
Le ragazze della classe “fanno gruppetto” e tendono a non partecipare a
questo tipo di discussioni o ad alcuni giochi che proponiamo. Dicono che
si mettono “scuorno”, si nascondono dietro le compagne e non commentano, non dicono mai la propria idea. È come se si sentissero già donne,
troppo grandi per fare giochi che considerano da bambini, ma allo stesso
tempo insicure e timorosissime del giudizio degli altri nei confronti della
loro opinione o dei loro disegni. Questa cosa l’avevo notata anche quando
eravamo noi ad andare a scuola, ma ora sembra prendere sempre più corpo.
Le vedo agghindate, truccate, pronte a mostrare sicurezza se qualcuno fa
loro qualcosa; ma anche a nascondersi appena vengono chiamate in causa. Sono molto affettuose, sempre pronte ad abbracciarmi, ma allo stesso
tempo sembrano schive, guardano tutto con sospetto, come se qualcuno
dicesse loro o facesse chissà cosa. Come se fossero bambine già donne o
donne mai state bambine.
Lascio da parte questi pensieri che mi frullano in testa, e con i bambini
iniziamo a metterci in movimento con dei giochi teatrali. Con un po’ di
musica chiedo loro di muoversi nello spazio: ad un suono di tammorra devono fare un gesto, a due suoni un altro gesto e a tre suoni un altro ancora.
Ora anche le ragazze partecipano, sempre a loro modo, senza scomporsi.
Nascoste dal gruppo, si lasciano andare, non si sentono al centro dell’attenzione.
Cambio gioco e chiedo a ognuno di attraversare la stanza inventandosi
una propria speciale camminata e stando molto attenti alle camminate degli altri: nel secondo giro dovranno copiare la camminata di un compagno
o di una compagna e ricordarsi anche a quale compagno/a apparteneva
quella camminata. Qui di nuovo le bambine tendono a mettersi fuori, non
reggono il fatto di dover camminare in un modo strano, buffo e divertente,
con tutti gli altri che le guardano. Proprio non ci riescono.
Finito questo gioco, ci spostiamo di nuovo nella stanza “officina” per
l’ultima fase della giornata. Dovranno disegnare con le tempere una delle scene che più è piaciuta della storia della caverna. In molti tendono a
fare il cielo stellato che l’uomo della storia ha visto la prima volta uscendo
dalla caverna; qualcun altro la scena degli uomini incatenati e qualcuno
rimane molto tempo a sperimentare i colori e la varie tonalità che possono
comporre. Infine tutti tornano con i propri disegni nella stanza “grande” e
ognuno mostra la propria opera al gruppo. Anche qui le ragazze non vorrebbero mostrare quello che hanno prodotto, tendono sempre a dire che
i loro disegni sono brutti, ma alla fine ciascuno riesce a mostrarli e quasi
tutti a raccontare la scena che hanno scelto.
Intanto si sta facendo tardi, il preside della scuola chiama la maestra e le
dice che devono tornare; lui e due bidelli sono dall’altra parte della piazza
ad aspettarli per riportarli a scuola. Ci lasciano e si incamminano di nuovo
sotto la pioggia. Li guardo allontanarsi, girare la testa ogni tanto e salutarci fino alla fine. Rientro e sistemo di nuovo le stanze, mentre in testa mi
girano ancora le loro voci, i loro confronti nel cerchio, quei discorsi così
interessanti che un congresso di fi losofi non avrebbe saputo far meglio e i
miei perché sulle bambine, sul come mai sono così restie a lasciarsi andare,
a divertirsi come fanno i loro amici e come farebbe qualsiasi bambina di
dieci anni…
Carcere
125
3. porta dell’aula: tra estetica e sostanza
È
126
proprio dall’aula che bisogna partire per una “scuola nuova”. Il lavoro di
questi anni ce l’ha detto con chiarezza. Anche l’estetica conta, ma cambiare l’aula significa prima di tutto disporsi spazialmente a un modo nuovo
di essere in relazione. Nella sperimentazione con la maestra Rosaria Pica ci
abbiamo provato, mentre la maestra Carmela De Lucia ci ha sorpresi con la
rivoluzione dello spazio che ha condotto in autonomia. Ma la nostra dissertazione sulla necessità di un modo nuovo d’intendere l’aula è argomento trasversale a ogni pagina di questo libro. Specie quando la città riesce a mostrarsi
come vera “aula”.
In ognuno dei nostri incontri con i bambini delle classi a cui andavamo
a proporre la partecipazione al Mito, la “porta” sulla cui apertura volevano
lavorare quasi tutti è la porta della scuola. Abbiamo provato ad aprirla anche
grazie alla determinazione di due insegnanti del Cpia, che hanno voluto ritrovare un senso al proprio lavoro serale con i migranti. Anche a costo di mettere
di tasca propria le spese per la benzina e il tempo necessario a percorrere 40
km, da Napoli a Castel Volturno, due giorni a settimana: una delle esperienze
del Mito in cui la scuola è uscita dal suo edificio per incontrare i migranti nei
loro luoghi di vita e ritrovare una propria ragione d’essere.
dove porta quella porta
achitettura e vita di una classe di chiaiano
di Rosaria Pica, maestra della scuola primaria “Giovanni xxiii – Aliotta”
L
o scorso anno scolastico ho partecipato al Mito del Mammut VII edizione con la classe V dell’Istituto Comprensivo 28 “Giovanni xxiii Aliotta” di Chiaiano, l’ultimo quartiere dell’area nord di Napoli. Si trova in
un punto strategico, urbanisticamente parlando, perché è vicino alle zone
di confine di Mugnano e Marano, un’area immersa nel verde, fino a quando, una trentina di anni fa hanno costruito le cosiddette palazzine, edifici nati in conseguenza del boom demografico, disseminati su il territorio
compreso tra Marianella e Chiaiano.
Anche la scuola ha subito recentemente una trasformazione importante:
dal vecchio edificio scolastico situato nella zona storica di Chiaiano vicino
al Comune, ci siamo trasferiti in una scuola nuova, una mega struttura
realizzata una decina di anni fa; un ambiente enorme, molto bello e accogliente ma forse poco adatto, per come è strutturato, a bambini piccoli.
È composta da due edifici distaccati: nel primo ci sono gli uffici della segreteria, la dirigenza e una serie di servizi di cui la scuola è fornita, (tra
cui una palestra grande e il laboratorio multimediale); il secondo, che si
raggiunge attraverso un cortile, quindi all’aperto, raccoglie le classi della
scuola dell’infanzia e, da un po’ di tempo, delle prime e delle seconde. In
questo secondo edificio si verificano di frequente atti vandalici; ogni tanto
troviamo le aule aperte e gli armadietti sfondati. Strutturalmente il padiglione B, rispetto al padiglione A dove era ubicata prima la mia classe V, ha
delle problematiche logistiche.
Come dicevo, la scuola è nuova e vedendola per la prima volta dà una
sensazione di accoglienza e di benessere. Grazie alla volontà della dirigente
e al frutto di alcuni progetti finalizzati a questo scopo, siamo riusciti poi nel
tempo a effettuare alcuni abbellimenti: murales all’ingresso e alle pareti
lavori che le classi realizzano grazie ad attività curriculari e a progetti con
associazioni.
Col passare del tempo però la scuola necessitava di manutenzione: alcune aule erano malandate, altre avrebbero dovuto essere ristrutturate. Io ho
avuto in assegnazione un’aula che non era stata mai ripristinata, quindi veramente malmessa, a partire dalle pareti che presentavano un colore un po’
cupo o erano state imbrattate; in altri punti avevamo affisso dei pannelli di
compensato per coprire scempi vari. Detto ciò, si capisce come mai, quando ho deciso di partecipare al Mito del Mammut con lo sfondo narrativo
della “porta”, intesa come idea di passaggio, e subito dopo aver riflettuto su
come tale tematica potesse essere inserita all’interno della didattica ordinaria, io abbia pensato all’aula come luogo progettuale da trasformare: questa
nuova aula che ci era stata data in consegna era tra l’altro più piccola rispetto alla precedente e di conseguenza i movimenti dei bambini molto più
sacrificati. È utile ricordare, poi che il gruppo classe, eterogeneo dal punto
di vista dell’estrazione sociale, passava molti pomeriggi a scuola essendo
questa a tempo pieno con quaranta ore di attività didattiche settimanali e
aveva in me il punto di riferimento principale, avendo cambiato ogni anno,
dalla prima alla quinta classe, l’insegnante di matematica.
L’aula, dunque, rappresentava il luogo migliore per il nostro intervento
trasformativo, sia perché i bambini ci hanno passato la maggior parte del
loro tempo negli ultimi tre anni, sia perché era lo spazio più facilmente visibile dove operare una trasformazione, e il lavoro sarebbe stato facilmente
documentabile attraverso foto e altro. Si trattava di renderla accogliente, un
luogo dove eravamo noi a decidere cosa fare, a partire dall’immaginario del
gruppo, e dove stavamo bene nel farlo. Siamo così partiti da un progetto
Aula
127
Tre
128
di trasformazione, supportati dalla dirigente. “Cosa non ti piace?” “Cosa
cambieresti?”: queste le domande che abbiamo posto ai bambini e a noi
stesse.
Dopo i primi laboratori con Tonino e Nadia, l’aula è stata ritinteggiata e questo primo passo ha fatto sì che i bambini si incuriosissero per il
percorso e introiettassero una cosa importante: se si crede fermamente in
qualcosa, sostenuti da una valida motivazione, e se si chiede con determinazione, forse il cambiamento può avvenire. L’ambiente più pulito ha trasmesso un certo benessere, una condizione più tranquilla per apprendere.
Questa affermazione non è supportata da una misurazione scientifica ma è
così, lo dico perché l’ho vissuto: tutti ci siamo presi cura dell’aula, facendo
attenzione a non sporcarla, a tenerla sistemata, avendo sviluppato un certo
senso di accasamento. Questo prima non avveniva. Questa piccola cosa ha
favorito un clima più sereno
Durante le ore di laboratorio, l’aula si è trasformata completamente, in
base alle esigenze: i banchi sono stati accostati alle pareti, si è creata una
situazione da circle time, abbiamo giocato e parlato, ci si è confrontati tra
pari e con gli operatori. Questo i bambini lo hanno apprezzato tantissimo.
Non che non fossero abituati, ma sicuramente per una questione tecnica di
spostamenti e di incastri di ore questa modalità di “fare scuola” avveniva
meno frequentemente.
La simbologia utilizzata, l’uso di miti e leggende si sono dimostrati ottimi alleati alla mia didattica, poiché hanno affascinato i miei alunni e si
sono ben inseriti nel mio modo di fare geo-storia, un ambito disciplinare
che amo molto. La storia insegnata così non si dimentica facilmente. Se è
vero che lo sfondo integratore mi ha permesso di dare spazio alla fantasia,
procedendo anche con lavori di scrittura creativa (è nata infatti la filastrocca “Dove porta quella porta”) è anche vero che indubbiamente, non è stato sempre facile portare avanti questa esperienza, in lotta come siamo noi
insegnanti contro il tempo per concludere il programma, soprattutto in
quinta. Una esperienza arricchente anche per me in quanto mi ha permesso di rapportarmi con colleghe di realtà e scuole diverse dalla mia, condividendo un pezzo di strada insieme.
La “porta” ci ha condotto avanti e indietro nel tempo della nostra vita:
da quando gli alunni sono nati, a quando sono entrati nella porta della
scuola dell’infanzia e in quella della scuola primaria per giungere ad una
porta semiaperta che è quella che loro stavano per varcare verso la scuola
media, con tutta l’ansia, i timori e le novità che questo passaggio comporta.
Ancora indietro sulla linea del tempo, attraverso la storia, come la porta
dei Leoni di Micene e del Cavallo di Troia, le porte di Roma, quella della
piramide ovvero l’accesso all’aldilà degli Egiziani, infine la porta di Ishtar a
Babilonia che era una delle meraviglie del monto antico.
Il tutto si è chiuso con tre eventi: la realizzazione di un murales, che i
bambini hanno realizzato in collaborazione con gli operatori Mammut e
una collega, riportando tutti gli elementi del percorso svolto sul dorso del
MammutBus, che ci ha accompagnati lungo il viaggio; una mostra aperta
ai genitori e alla scuola guidata dagli alunni stessi; uno spettacolo teatrale
sulle porte della vita e della storia. Infine, abbiamo varcato la soglia della
scuola media attraversando un tunnel di cartapesta e cantando la canzone
di Gigliola Cinquetti “Alle porte del sole, ai confini del mare”.
Aula
129
Miglioramento dello spazio
oggetto di trasformazione
(aula scolastica)
Realizzazione di un mural sul
tema delle porte della vita e della
storia.
Migliore apprendimento
curriculare storia
Commento della maestra Pica
“Ai miei alunni e alunne piace di
più la storia raccontata con l’uso
di miti, attraverso le ricerche e
gli approfondimenti, i percorsi
di storia animata, laboratori
teatrali; se la ricordano meglio
(confrontare voti e interventi).
Aumento percentuale di
fattori e sintomi di benessere
psico-fisico legati alla
presenza a scuola (maestra)
la scuola che esce dalla scuola
Commento della maestra Pica:
dopo che alunni e alunne hanno
avuto l’aula ritinteggiata hanno
cambiato atteggiamento. “Ce la
posso fare… se vedo i risultati”,
dicono. Ciò influisce anche
sull’impegno verso lo studio.
L’
Commento di un’alunna del
gruppo classe che fa lezione
nella stessa aula che lo scorso
anno la maestra Pica aveva
in dotazione: la ferma per i
corridoi e le esprime felicità per
un’aula così bella.
Una alunna asmatica
sicuramente riceve giovamento
dal fatto che le pareti dell’aula
siano pulite (meno allergeni).
Ciò detto non può “provare”
che l’alunna stia meglio solo per
questo fattore, immaginando la
presenza di più fattori.
L’aula è diventata laboratorio,
ovvero spazio modificabile in
base all’esigenza. Per gli alunni
e le alunne, che frequentano
a tempo pieno, questo ha
significato non sentirsi in
gabbia ma vivere l’aula con
piacevolezza. Commento della
maestra Pica.
Commento della maestra
Pica: maggiore armonia tra
insegnanti e alunni/e: un
ambiente più pulito e accogliente
ha migliorato i rapporti tra i
soggetti.
Incremento nella cura dell’aula
in autonomia: dopo i laboratori
le alunne puliscono i banchi e
per terra, tutti stanno attenti a
non sporcare il muro tinteggiato.
Rispetto all’ambiente
circostante, è stato organizzata
una manifestazione contro il
nuovo inceneritore.
griglia indicatori
i.c. “giovanni XXIII – aliotta”, classe v
luogo prescelto: aula scolastica
docente: Rosaria Pica
di Alessandra Tagliavini
articolo che segue si interrompe proprio laddove ha avuto inizio la sperimentazione sulla “scuola che esce dalla scuola”, coraggiosamente messa
in campo lo scorso anno a Castel Volturno dal Cpia “Alpi-Levi” di Scampia.
Forse sono state radici molto colorate e profonde a permettere esiti sorprendenti (prima di tutto per noi) all’esperienza portata avanti principalmente dai
due docenti che per un anno intero hanno svolto le proprie lezioni all’interno
dei locali dell’associazione Miriam Makeba a Castel Volturno. In una serata
di inizio estate organizzata dai comboniani presso la sede dell’associazione, i
due docenti, insieme ad una quindicina degli studenti che avevano frequentato le loro lezioni, hanno raccontato, con commozione, quanto senso avesse
riacquistato il proprio lavoro di insegnanti proprio grazie a quella decisione
scomoda di percorre oltre 40 km di macchina per fare scuola. Dal racconto dei
due insegnanti, il motivo del successo scolastico dell’impresa non sembrava attribuibile tanto ad un cambiamento radicale nel modo di fare lezione, quanto
alla passione per la riscoperta di un mestiere utile a sé e agli altri. (g.z.)
Aula
131
Prima il muro era il mare, adesso il documento. Sarà, non lo so.
Alì, 21 giugno 2012
E
ro a Napoli da un paio d’anni quando Yacoubou Ibrahim mi disse
che alcuni suoi conoscenti provenienti dall’Africa francofona avevano intenzione di fare un corso di lingua italiana. Erano parecchi, vivevano tra Varcaturo e Castel Volturno ma si spostavano quotidianamente su
Scampia in cerca di lavoro. Un qualsiasi lavoro, in nero naturalmente, per
pochi euro al giorno, ma sempre lavoro era. Giovanni d’altra parte, mentre
camminavamo in via Cirillo verso Piazza Garibaldi, mi sollecitò a riprendere in mano un’area tanto cara al Compare: sai che bello poter intrecciare
quest’aspetto al lavoro educativo del centro! Una piacevole sfida, come ebbi
a puntualizzare con Mario durante una supervisione di équipe.
Mi sembrò in effetti divertente, angosciante, irritante quel giorno in cui
andammo a Licola Mare per incontrare il referente della comunità beninese, il signor Toure. Pioveva a dirotto e il nostro primo “mammutpullmino” aveva i tergicristalli rotti. Visitammo, Yacoub e io, appartamenti più o
meno decorosi, parlammo con tante persone, tanti odori, tante aspettative.
Insieme decidemmo di crearla questa occasione. Occasione anche per i cittadini della zona di Scampia, che conoscevano ’o niro soltanto attraverso
Tre
132
stereotipi ed etichette date dalla non conoscenza diretta delle persone, nella
maggior parte delle volte. Occasione per me – che avevo interesse verso il
tema dei confini, delle migrazioni e dell’alterità così come dell’insegnamento/apprendimento di una lingua straniera e seconda – da quando ero io la
studentessa di lingue straniere o “morte”, e dopo, ai tempi dell’università,
quando studiavo letterature anglofone e, tra la consegna di un cappotto e
l’altro in un locale Arci, di notte mi sperimentavo con alunni-avventori di
colore attraverso l’alfabetizzazione informatica. Infine avevo da poco sperimentato io stessa la condizione di “straniera”, nel mio soggiorno ad Addis
Abeba, pur di lusso e per scelta (il che può fare la differenza) e, perché no,
anche qui a Napoli. Lingua, spostamenti, relazioni, ricerca pedagogica. E
tanto altro, compresa l’occasione, per noi tutti, di affrontare tematiche ancora aperte.
Iniziammo al 5° Circolo Didattico, grazie al progetto “Scuole Aperte” per
il quale la maestra Rossana ci aprì le porte di un’aula al piano terra. Dopo
aver delineato il contesto di partenza, Luca ed io passammo ad articolare
le domande di ricerca su cui focalizzare la nostra attenzione, che erano sia
sul contesto che di ordine educativo, didattico e linguistico. Attraverso le
riunioni di coordinamento, si strutturavano poi le azioni in collaborazione
e in linea con le altre aree del centro, ovvero l’Area bambini e l’Area adolescenti, e con quelle trasversali sullo spazio pubblico, partecipando alle feste
e ai momenti di intreccio col territorio (carnevale e feste stagionali).
Grande entusiasmo, volontari che mischiavano competenze e vocazioni
diverse. Ricordo bene ancora oggi i loro nomi: Baky, Zed, Kone, Wasiu,
Naomi e Laziz, Swala furono i primissimi alunni. Insieme, e col supporto
di Chiara della scuola di Nonantola e degli Asinitas nei nostri ricchi incontri a Nazzano, sperimentammo i materiali Montessori, la famiglia del
nome e del verbo, ma pure il metodo naturale, il cerchio narrativo e l’uso
potente del disegno, ottimo compagno di strada che usciva dai pennarelli
sapienti di Luca. Segno e disegno confluivano, infatti, in una magica combinazione, rendendo gli incontri più immediati, accoglienti, caldi. Credo
che se incontrassi Anita per strada e le chiedessi del topo di campagna e
del topo di città, visualizzerebbe subito il banchetto disegnato da Luca e
successivamente la storia.
L’utilizzo dello sfondo integratore, identificato all’inizio di ciascun anno,
si è dimostrato uno strumento malleabile ed efficace da cui trarre pratiche
educative: il viaggio, il suono e la trasformazione della città, l’attraversamento del paesaggio (interno ed esterno), il castello.
In quei quattro anni, grazie ad esso, abbiamo lavorato su questioni politiche (Robin Hood è un ladro oppure no? La politica e lo sceriffo, il potere
buono o malamente e i suoi simboli, il sindaco di Hamelin, l’accoglienza,
il Permesso di soggiorno, la guerra); sociali (Gulliver e il viaggio, la mi-
grazione, l’alterità, la comunità, il lavoro); personali, emotive ed affettive
(l’abbandono della propria terra, il sé l’io incappucciato l’identità, l’unione
che fa la forza); didattiche (morfosintassi, lessico, ecc.); abbiamo utilizzato
il territorio come aula, intrecciando didattica e inchiesta sotto la cura di
Rita, antropologa portoghese che ha condiviso con noi tre mesi di ricerca
sul campo.
La mappa di ricerca ci guidavano e ci sorreggeva quando il fare prevaleva
sul riflettere, o quando si era incerti su come procedere. Ci forniva elementi
su cui posare le forze, per capire se si stava andando verso il cambiamento
desiderato oppure no.
Dopo il primo anno a Scampia, con la problematica dell’autobus che
non passava e il desiderio di fare più scuola, in sede di verifica con gli allievi
ci fu chiesto di avvinarci al luogo dove essi risiedevano e fu così che incontrammo Filippo e Padre Antonio, che ci ospitarono per un anno presso
la Casa del Bambino dei comboniani sulla via Domitia. Il cartellone delle
presenze, il testo libero o a tema, il racconto e l’uso del colore, uniti ai laboratori manuali diedero forma e sostanza agli incontri, articolati tra lavoro
individuale collettivo e di gruppo e scanditi dai riti di apertura e chiusura,
di solito giochi e canti.
Lavorammo sulla questione del giudizio e dell’errore, il senso del gruppo. Ma il vero accasamento ci parve di averlo conquistato quando la scuola,
che aveva il nome di Scuola Mammut di Italiano per Tutti – Smit, si trasferì di nuovo a Scampia, presso il Centro Mammut. Credo che un contributo vero a questa decisione la diede Livia, amica e docente universitaria,
quando sollevò un dubbio rispetto alla ubicazione della scuola. A Castel
Volturno era, secondo lei, poco esposta all’“altro”; al Mammut avrebbe invece goduto di una mescolanza che poteva dare salute e potenza tanto alle
azioni della scuola che a quelle del centro territoriale. Anche Padre Antonio era dell’idea che avrebbe fatto solo bene, a quei giovani, uscire da quel
territorio, per viverne un altro, diverso, in un viaggio che forniva la giusta
distanza alle piccinerie del luogo.
Così Steven e David da ex allievi divennero “mediatori”, uno per la parte
francofona e l’altro per quella anglofona. Accoglienza, mediateca, lingua,
comunità furono i temi di quel terzo anno. Da un numero che si attestava
sui 15 partecipanti stabili, si arrivò a 50, il che ci pose di fronte a una serie
di domande rispetto a questo incremento, oltre che sulla qualità dell’intervento stesso, anche in termini di provenienza geografica dei partecipanti.
Certamente frequentavano anche i rifugiati della vicino Chiaiano, ma cosa
faceva sì che tutti i 50 frequentassero regolarmente fino a giugno le attività?
Sicuramente il ruolo dei mediatori fu centrale, ma pure l’offerta Mammut:
accanto agli incontri di lingua infatti furono proposti un percorso di alfabetizzazione informatica con il quale si rafforzava la scrittura e la lettura,
Aula
133
Tre
134
per trascrivere i compiti o le storie, la ricerca in rete per piccole inchieste o
la ricerca del lavoro, la mail e facebook per restare in contatto con parenti
e amici vicini e lontani, sotto la guida di Alfredo; il percorso di disegno e il
suo tentativo di far esprimere i partecipanti con un altro linguaggio, molto
utile per leggere il mondo attraverso occhi diversi; il tutto ricondotto, poi,
alla parte didattica, animata da me e Livia Velleca.
Per tre volte a settimana, tutte quelle persone raggiungevano il Centro
per studiare, confrontarsi o come base di incontro per poi andare al mercato del venerdì in piccoli gruppi o a casa dell’una o dell’altra, per stare semplicemente insieme. Questo fu utile anche per tentare una ipotesi rispetto
alla domanda sulle “due città” (quella del “popolo” e quella dei “borghesi”,
qui estesa anche a ghanesi e nigeriani, ucraine e “africane”, rifugiati e migranti). Il corso di cucina avvicinò donne del Vomero e di Scampia, non
senza uno scudo di stereotipi all’inizio, donne “africane” e rom, e tutte si
sono mescolate, non solo per il piacere di imparare ricette succulente, ma
anche per preparare il pranzo ai bambini del Mammut che dopo le attività mattutine accorrevano affamati al tavolo, apparecchiato, sparecchiato
e curato per la comunità intera. Rivelandosi ancora una volta, il pranzo,
un’ottima occasione di conoscenza, scambio, convivialità, proprio come
avevamo verificato nel corso del primo anno, quando la maestra Rossana come Alberto l’architetto preparavano pentoloni di sugo per tutti, prima di iniziare la scuola. Il Mondiale antirazzista, con la squadra di calcio
femminile guidata da Lia, amica del Mammut, fu l’ennesima possibilità di
indagare e sperimentare un modo sincero di fare gruppo. Sicuramente i
tacchi delle giocatrici non ressero il confronto con i tacchetti della squadra
avversaria, ma fu bello e divertente, chissà se Mister Piccolo, organizzatore
dell’evento, ha mai saputo quanto quel giorno è ancora impresso nella memoria di ciascuna delle “atlete” Smit che vi presero parte.
Dal punto di vista metodologico, cercammo di spingerci sempre più
all’interno del metodo naturale, utilizzammo molto il teatro, il materiale
vivo e incandescente portato quotidianamente dai partecipanti su cui si
costruiva parte della lezione, che aveva sì un canovaccio e un obiettivo didattico, ma che cercava di tenere dentro sempre le urgenze, le storie, i dubbi
delle persone con cui ci univamo. La correzione è stata sempre collettiva,
senza trascurare gli apprendimenti di ciascuno, così come la discussione
iniziale in cerchio che “dava il la” al resto. Tutto per noi era occasione per
fare scuola: la costruzione di un carro di Carnevale, i momenti individuali in mediateca che le persone frequentavano anche senza dover per forza
“fare lezione”, la cucina, il computer, l’incontro casuale con i bambini, i
ragazzi e le mamme Mammut. Tutto concorreva alla creazione di una prospettiva diversa, era pensato per animare nessi tra persone di età, provenienza geografica e culturale differenti.
E venne giugno, momento in cui abbiamo socializzato il percorso con
valutatori di calibro, come Mirella del Gridas, Marco, Aldo, Ciro, in qualità
di rappresentanti del territorio.
Il quarto anno, l’ultimo, fu molto diverso. La verifica e riprogrammazione non ebbero un seguito, essendo venute meno risorse energetiche e
monetarie, Luca andò a insegnare alle superiori. Tornammo ad essere un
gruppetto di dieci persone, tre volontari, Rita come enzima della ricerca
antropologica. Continuarono le gite per il territorio, momenti di aula nel
parco cittadino. Poi, a febbraio, il Mammut chiuse per un po’ e in suo soccorso giunsero subito gli insegnanti del Cpia “Alpi-Levi”, che avevamo nel
frattempo ritrovato grazie a Yasmine della “Garibaldi 101”, vera creatrice
di incontri. La Smit entrava così in una scuola pubblica, con in dotazione
un’aula, una certificazione finale dello Stato per coloro che avessero concluso positivamente il percorso che dava accesso alla licenza media. Marco
e Raffaele ci aiutarono a fornire loro il primo certificato, il diploma! Contemporaneamente si avviarono, grazie alla tenacia di Alfredo e Annamaria,
percorsi di accompagnamento al lavoro e di regolarizzazione che videro
altri intrecci: Giovanni Marino e Padre Edoardo, Assunta e Mimmo, Paola
e sua mamma Gabriella, Gino e Giovanni. Persone che si sono date da fare
per mesi interi, strepitose energie umane che si sono mobilitate per portare
a termine (ma sono ancora in essere fortunatamente) percorsi educativi
personalizzati: Michel, David, Annor, Hassan e Frank hanno ora un documento e un lavoro, alcuni anche una comunità italiana di riferimento.
Penso a Frank quando veniva a scuola e stava quasi sempre con la testa tra
le mani, preoccupato, angosciato, e ora, a distanza di due anni, che parla
italiano con sicurezza e immediatezza. Il sesto, che chiameremo Anthony,
avrebbe avuto bisogno di più sostegno forse, ma non è ancora detta l’ultima parola per fortuna.
Oggi la Smit si è di nuovo trasformata, da quell’incontro, nato da una
emergenza logistica, si è creata una esperienza interessante che ha visto lo
scorso anno gli insegnanti della “Alpi-Levi” uscire permanentemente dalla
scuola per andare incontro agli allievi, sulla via Domitia.
Aula
135
Numero di episodi in cui si
riconosce che la scuola non
serve solo ad apprendere a
leggere a scrivere
Riduzione percentuale di
fattori e sintomi di malessere
psico-fisico legati alla
presenza a scuola
Decremento nelle “evasioni”
in aula diminuite (telefonino,
uscite dal cerchi o aula)
4. porta rom e migranti
Numerose discussioni
partecipate rispetto a tematiche
storiche e di “educazione civica”.
Entrambi gli insegnanti
dichiarano che l’esperienza
non solo è stata positiva
e soddisfacente, ma li ha
“ricompensati” di anni di
frustrazione.
Gli insegnanti rilevano una
partecipazione attiva degli
alunni e delle alunne.
N
Tutta gli studenti e studentesse
frequentanti (con un supporto
fattivo degli insegnanti e della
Dirigente scolastica) hanno
ottenuto il diploma di scuola
media, documento ritenuto
dai partecipanti come molto
importante anche ai fini sociali.
Frequenza stabile di circa 10
persone.
ei racconti che seguono rom e migranti si fanno ciceroni di nuove e inesplorate possibilità di vivere la città e la scuola. Se da una parte i migranti aprono le porte del centro città ai bambini di periferia grazie al lavoro
della scuola d’Italiano della “Aps Garibaldi 101”, dall’altra “ facciamo magie”
con i bambini rom: i molti terreni d’indagine del filone didattica e prestigitazione a cui stiamo lavorando da tempo, si arricchiscono di possibilità e nuove
domande nel lavoro portato avanti con i bambini rom alloggiati alle spalle della scuola in cui lavora la maestra Clementina Gambocci, l’I.C. “Ilaria
Alpi – Carlo Levi”. Per fortuna con loro siamo riusciti a non fare un percorso
speciale, trasformando un nucleo da tenere fuori dalla classe, in “ fuoriclasse”
dell’innovazione scolastica utile a tutti. Ed è forse stata questa la vera magia.
Il piccolo nucleo di ragazzini del campo rom ha fatto da padrone di casa nella
giornata del Mito in piazza Giovanni Paolo II, dove a cercare Il “Genio Eir
Ascòl” c’erano altri 300 bambini.
137
una città piccola piccola
di Yasmine Accardo, insegnante presso “Aps Garibaldi 101”
N
griglia indicatori
cpia “ilaria alpi-carlo levi”/ smit a castel volturno
servizio prescelto: servizio scuola
operatori: Marco Mailler e Raffaele Mosella
apoli è una città piccola piccola. Dove si vive, tutti, l’uno sull’altro.
Qualche volta ci si stupisce di trovare il braccio del vicino sopra la
testa, mentre sta cercando di prendere il pane. Come se avesse i super poteri
dell’uomo gomma. Appena c’è uno spazio libero, subito si riempie. Così
qualcuno riesce a riprendere fiato e qualcun’altro si ritroverà incastrato, e
salirà su qualcun’altro ancora per ricadere in uno spazio un po’ più libero.
Perché tutti immancabilmente devono stare proprio lì. La città mercurio,
liquida ma a forma di sfera. E, quando qualcuno ci si stacca, si porta necessariamente dietro, un pezzo di questa sfera con tutte le persone dentro. È
impossibile togliersi di dosso gli altri. È attraversata per questo da ondate
furiose di perfetta convivenza e di scomposta intolleranza. E di molto rumore.
Se un gigante stregone si avvicinasse per provare a capire questo rumore
cos’è e da dove viene riuscirebbe forse a vedere le strade piene di buchi e
tazzine rotte, forcine per capelli, vestiti multifiori rovesciati, cellulari rotti.
Tre
138
E scarpe, scarpe, scarpe in movimento continuo e delirante. Se poi provasse ad avvicinarsi un poco, facendo molta attenzione a non caderci dentro,
vedrebbe che tra gomiti incrociati e capelli spezzati, si distingue qualcuno.
Qualcuno con una borsa a tracolla che si ferma, si piega, afferra una forcina con i brillantini e la gira davanti agli occhi. Disegna nell’aria il corpo
di una donna. E lui, il gigante, resterebbe a guardare questo qualcuno e
riceverebbe un pugno in piena faccia. Senza capire da dove viene. Ma non
riuscirebbe ancora a capire cos’è quel rumore.
Allora un po’ stordito ci riproverebbe e scorgerebbe stavolta una donna
con una lunga gonna ed un fazzoletto in testa che, con un carrello di cartone, fa il giro, guarda per terra, nei cassonetti; ci si arrampica e ci scava dentro con un lungo pezzo di ferro, come una maga che mescola gli ingredienti
e poi… tira fuori un braccialetto. Girando un po’ lo sguardo s’accorgerebbe
di Ahmed che osserva la donna ammirato. Proverebbe ad avvicinarsi... ma
riceverebbe un calcio proprio dritto in pancia. Chissà chi sarà stato!?
Così piegato in due e l’occhio pesto il gigante si rimetterebbe a guardare,
soprattutto perché tutto quel frastuono è strano e poi che lingua è? E scoprirebbe l’odore che viene da quel carnaio. Ed anche quello ma cos’è? Da
dove viene?
E finalmente deciderebbe di farsi piccolo piccolo ed entrare. Perché deve
assolutamente scoprire da dove viene quel rumore e chi è tutta quella gente.
Seguirebbe molte persone in cammino verso il piazzale antistante l’hotel
Cavour. Ne vedrebbe altre arrampicate su bancarelle piene di colori. Vedrebbe un gran sciamare di braccia che salutano, spingono, insultano o che
sistemano la propria mercanzia sul selciato. In un unico suono di voci...
Le bes Ahmed? ... alhamdulillah adam! Ça va… c’est le prix. Come on guys.
Dobro... uagliòò. Cundureje.
Finalmente incontrerebbe Fatima che passa con il suo carrello di bibite
calde, assaggerebbe un po’ di quel liquido rosso e profumato e così accogliente che gli scenderebbero le lacrime pian piano. Quella bevanda che
acchiapperebbe tutti i suoni e li legherebbe insieme: Salam aleikum!
Questo gigante scoprirebbe il senso e la provenienza di quel rumore così
assordante e terribile ma così caldo e vero. Il suono delle genti insieme, che
trasformano questa città in un unico corpo.
Il suono delle storie dei migranti appena arrivati appoggiati al gomito di
Pemba che ascolta tutto e riporterà i racconti nel campo dove l’aspettano i
bimbi scalzi ed inzaccherati di fango. Il campo rom. Dove ad ondate ognuno aggiungerà altri elementi alle storie arricchendole e costruendone un
canto che si spargerà nelle metropolitane scassate della città. Le storie che
si attaccheranno sotto le scarpe dei signori bene e si intrufoleranno nelle
borse delle donne improfumate per ricomparire tra le mani dei bimbi nelle
case alte, nei vasci e nei centri occupati. Case illuminate, forse. Bimbi che
chiederanno: papà ma da dove viene quest’odore? … sarà la metropolitana
credo.
Sì la metro. La metro. E sarà ancora una volta il rumore nel mercato di
piazza Garibaldi che ricorderà a quel bambino l’odore che porta addosso il
padre ogni volta che torna. E sarà stupito di trovarlo nei colori del vestito di
Omar, che si compra il balsamo di karitè dalle mani di Rhokaya. Ed ancora
di trovarlo nella corsa di Alex il monello senza scarpe che sta andando con
la sua fisarmonica a guadagnarsi la giornata.
Questo gigante, che si è fatto piccolo, allora piangerà davvero, perché la
mano cui sta stretto stretto è quella di suo padre. E quel rumore viene dal
suo petto, che è quello di tutta la città.
235 mila migranti vivono in tutta la Campania, solo a Napoli sono oltre
50 mila, molti vivono qui da oltre venti anni e pare che vogliano restare.
Eppure le difficoltà sono davvero enormi. Difficilissimo trovare lavoro, fin
troppo spesso sottopagato se non di vera e propria schiavitù (18 ore di lavoro pesante nelle campagne o nell’industria tessile a 5 euro al giorno, voi
come lo chiamate?). Se pensiamo, poi, che per un migrante è indispensabile avere un contratto di lavoro per poter mantenere il permesso di soggiorno, molti di noi si domanderebbero: “Ma perché a Napoli fanno contratti di
lavoro?” Senza documento il migrante potrebbe essere direttamente spedito in un Cie, un carcere per migranti, appunto. Un carcere per chi non
ha commesso alcun reato se non quello di non avere un documento, che
magari ha perso perché dopo sette anni di lavoro è stato licenziato e non
ha più trovato nulla, o che non ha mai avuto perché schiavizzato da qualche imprenditore. Difficile anche pagare un affitto o sfuggire alle politiche
scellerate che costruiscono campi e muri intorno alle persone, perché sono
rom e devono stare tutti insieme belli segregati. Così il costruttore di turno
e gli assessori “amici” possono anche guadagnarsi qualche centinaio di migliaio di euro en passant. Per non parlare di chi è appena sbarcato che farà
la ricchezza della camorra più, diciamo così, d’elite, che si guadagnerà con
il minimo sforzo almeno una ventina d’euro al giorno a persona. Persona
che resterà persino senza scarpe.
Eppure vogliono restare. Nonostante anni ed anni di sfruttamento ed
angherie e qualcuno che continua a dirgli che sono “stranieri” e si sente in
diritto di bastonarli.
Certo che questa città è proprio un mistero! Ed è in questo mistero che
abbiamo trovato l’enorme forza degli incontri e la bellezza che questi incontri creano. Quella bellezza che combatte contro le storture e gli abusi
ogni giorno, senza lasciare macerie ma strie di colori e suoni.
Aula
139
un’aula che raccoglie il mondo intero
di Clementina Gambocci, maestra della scuola “Ilaria Alpi – Carlo Levi”
P
Tre
140
uò una scuola attraverso una metodologia attiva trasformarsi in un
potenziatore di salute? Può esercitare sul territorio, dove opera, un
ruolo educante che favorisca la cooperazione e lo spirito di una comunità
che nel suo interno vede la presenza di abitanti rom?
Una bella domanda per una risposta che, se fosse positiva, potrebbe risolvere il problema di un luogo martoriato dalla presenza di roghi che immettono nell’aria sostanze nocive per tutti gli abitanti di Scampia e nello
stesso tempo dovrebbe favorire la nascita di condizioni ideali per l’integrazione degli alunni rom.
Il plesso della scuola dove insegno, Istituto Comprensivo “Alpi-Levi”,
è situato a ridosso di un campo rom e, proprio per questa sua locazione,
conta il maggior numero di alunni rom iscritti e frequentanti sul territorio. Una percentuale abbastanza alta che si aggira intorno al quaranta percento, arrivando, in alcune sezioni di scuola primaria, a superare anche il
cinquanta. Nelle mie due classi, tra maschi e femmine, sono iscritti sedici
alunni rom; sono presenti anche due bambine di colore di cui una nata
da un solo genitore di origine straniera, l’altra da entrambi i genitori non
italiani e un altro bambino di madre polacca. Le mie classi rappresentano
quindi l’espressione più originale della società multiculturale che il mondo
moderno sempre più insistentemente ci propone, un modello composto da
etnie diverse con usi e costumi propri con bagagli di esperienze che spesso
generano elementi di contrasto e di conflitto tali da rendere difficile ogni
possibilità di condivisione di valori.
Sono classi particolari, dunque, e, per la loro composizione variegata,
penso che meglio di tante altre possano attribuirsi la definizione di comunità democratica: un laboratorio dove sperimentare modelli di vita in
comune per superare insieme, nel rispetto delle diversità, il contrasto che
inevitabilmente si genera dall’incontro di etnie diverse. Se non sono particolarmente evidenti problemi di accettazione e di socializzazione tra i
bambini all’interno delle mie classi, non posso affermare che tale clima sia
presente anche tra gli adulti. S’ignorano vicendevolmente e qualche volta
non mancano, tra gli uni e gli altri, affermazioni colorite di rifiuto e di
disprezzo. Se nell’immaginario collettivo il bambino straniero (africano,
cinese, brasiliano, russo) intenerisce ed induce alla carezza, la visione del
bambino rom resta ancorata all’idea del “ladro, sporco e accattone”. Eppure in questi anni ho maturato la convinzione che i bambini non avessero pregiudizi innati nei confronti del diverso, ma accogliessero il pensiero
dell’adulto, positivo o negativo che fosse. In questo clima, sereno solo a
metà, è nata la mia esperienza con il Mammut. Ho conosciuto Giovanni,
Alessandra, Tonino e altri e la loro proposta di scuola attiva ha destato in
me molta curiosità.
La possibilità di far partecipare i miei alunni a un laboratorio fuori dalla
scuola mi è sembrata molto accattivante soprattutto per bambini che per
motivi economici non partecipano a visite guidate. Insieme alle mie colleghe abbiamo svolto degli incontri alla sede del Mammut in piazza Giovanni Paolo II. È stata un’esperienza gioiosa per tutti i bambini che hanno
mostrato chiaramente di essere più propositivi e originali in situazioni di
maggiore autonomia e libertà. Gli incontri hanno offerto innanzitutto la
possibilità di azzerare il divario, per conoscenze e abilità, esistente tra bambini rom e italiani scegliendo come canale di comunicazione il pensiero
“filosofico”, la parola e la libera espressione artistica. Durante gli incontri
anche gli alunni più timidi e impacciati sono intervenuti apportando il loro
contributo.
Lo sfondo sul quale si è intessuto il nostro percorso non ha escluso gli
argomenti della programmazione didattica che le docenti delle classi terze
avevano previsto nella fase iniziale dell’anno scolastico: la salute e la tutela dell’ambiente. Il viaggio si è dipanato attraverso i miti di creazione del
mondo delle varie civiltà antiche e uno in particolare della letteratura rom.
Il confronto tra scienza e immaginazione popolare ha offerto l’input ai
bambini per creare loro stessi un mito nel quale ognuno doveva raccontare con le parole scritte ma anche con le immagini e, in alcuni casi solo
con esse, un racconto per spiegare come nacque la Terra. Poi il percorso si
è sviluppato attraverso la conoscenza delle piante e degli animali e delle
relazioni che intercorrono fra organismi viventi e ambienti, individuando
l’adattamento all’ambiente come forma di competizione per garantire la
sopravvivenza, stabilendo l’ipotesi che esista un rapporto che lega disponibilità delle risorse ambientali e esseri viventi e discriminando le cause naturali da quelle antropiche che hanno provocato l’estinzione degli animali.
Un equilibrio necessario che permette la vita del nostro pianeta. È così che
gli alunni hanno maturato la convinzione che se il mondo (e gli abitanti
che contiene) deve essere salvato è necessario mantenere questo equilibrio.
Oltre ai miti e ai racconti “visivi”, gli alunni hanno preparato un gioco
dell’eco-logia: un percorso da seguire, una serie di caselle disegnate dagli
alunni stessi con fiori, piante, animali, comportamenti a tutela dell’ambiente e disastri ambientali con punti da assegnare o da perdere prima di
raggiungere la casella dell’arrivo. Infine il percorso si è concluso con un
racconto inventato dagli alunni dal titolo “Scampilianda”. È la storia di un
luogo fantastico, dove ognuno si rispetta ed è felice perché ognuno ha il suo
ruolo necessario per la comunità. Quando interviene l’interesse di qualcu-
Aula
141
Tre
no, l’equilibrio si frantuma con tristi conseguenze per Scampilianda. L’ottimismo innato dei bambini ha voluto trovare un epilogo felice alla storia:
l’intervento dei più piccoli favorirà il rientro della normalità e Scampilianda ritornerà a essere un’oasi felice.
Ma quali sono i risultati raggiunti? A dir la verità i roghi sono rimasti.
Solo le nuove generazioni, sulla base delle conoscenze acquisite, potranno
spegnere per sempre questo scempio. Ma i cambiamenti bisogna saperli
vedere.
Nel frattempo però un alunno, Christian, mi ha raccontato di essere stato nel campo rom per giocare con Angelo, il suo migliore amico e dopo si è
incontrato con Mitat. Questa è stata l’esperienza in assoluto più inaspettata
che mi potesse capitare: un bambino italiano che gioca in un campo rom.
Illusioni e speranze? Forse, ma questo piccolo “fatto” è sicuro.
Numero di episodi da cui si
evince una migliore relazione
tra bambini italiani e non
italiani
Numero di risposte
positive sulla percezione
individuale rispetto alla
propria interdipendenza con
l’ecosistema a partire da
esperienze scolastiche
Riduzione percentuale di
fattori e sintomi di malessere
psico-fisico legati alla
presenza a scuola (alunni e
alunne)
• un bambino italiano è andato
a giocare al campo rom con il
suo amichetto
• maggiore rispetto per gli
animali
• Incremento qualitativa e
quantitativa dei partecipanti a
fine percorso Pon F3 “Genio Eir
Ascòl”
• tutti i bambini che avevano
partecipato al Pon F3 “Genio
Eir Ascòl” sono venuti, con
le mamme e senza nessun
bisogno di accompagnamento/
sollecitazione nel campo da
parte della mediatrice culturale,
alla giornata finale del percorso.
A inizio percorso (durato due
mesi) la maggior parte dei
bambini iscritti a scuola non
voleva venire e la mediatrice
interna al campo dovette faticare
parecchio per convincerli
• la mattina in cui abbiamo
presentato il Pon F3 all’intera
scolaresca, a voler partecipare
erano anche i bambini non rom.
Il messaggio era passato: veniva
offerto un percorso di “lusso”,
non un’alternativa per alunni
“di serie B”.
• Anche a fine percorso erano
ancora di più i bambini, anche
non rom, che chiedevano di
partecipare.
• i compagni di scuola non rom
hanno guardato al percorso
fatto dai rom come a qualcosa di
appetibile anche per loro
• I bambini rom si sono sentiti
protagonisti e padroni di casa
nel percorso di teatro magia “Il
Genio Eir Ascòl”, anche rispetto
agli alunni provenienti dalle
altre scuole che partecipavano
a “Il Mito del Mammut” nella
giornata di piazza di maggio
2014.
• produzione critica e
consapevole sui temi ambientali
nei racconti “Giornata salutare”,
anche da parte dei bambini rom
• riflessione e risoluzione
di gruppo a problematiche
ambientali attraverso tecniche
di fabulazione e comunicazione
teatrale.
griglia indicatori
i.c. “ilaria alpi – carlo levi”, classe iii a e b
luogo prescelto: aula
docente: Clementina Gambocci
Incremento di episodi in cui
le insegnanti fruiscono del
patrimonio di altre scuole/
classi.
Numero di episodi in cui le
insegnanti percepiscono un
minor isolamento rispetto
alla scuola e alle colleghe
(anche di altre scuole)
Realizzazione dell’intreccio con
la maestra De Lucia sul mito di
Arianna.
teatro magia
una ricerca contro l’abbandono scolastico
con i bambini rom e non rom di scampia
di Giovanni Zoppoli
erché quasi il 17% dei ragazzi con meno di 16 anni in Campania abbandona la scuola? E perché per i rom che abitano nei campi la percentuale di abbandono a Napoli supera addirittura il 50%?
Ci sono molti modi per interrogarsi attorno a questi argomenti. C’è chi
attribuisce il dato al contesto di provenienza (quartieri disagiati, genitori
in carcere, vita da campo rom, povertà); chi invece a motivazioni di natura
psicologica, chi alla globalizzazione, chi a fattori genetici, chi alla presenza
di un vulcano in quiescenza…
Per rispondere a questa difficile domanda noi abbiamo scelto di dare
avvio ad un’impresa senza precedenti: la ricerca del Genio Eir Ascòl.
Con una quindicina di bambini abitanti nel campo rom di Cupa Perrillo
(Scampia) che hanno fatto da nucleo centrale della ricerca, siamo partiti a
febbraio dalla scuola primaria “Ilaria Alpi” arrivando a contagiare le altre
scuole primarie dell’area nord di Napoli.
L’incontro con la magia inizia, tre alla volta, all’interno della pancia del
camper che il Mammut ha adibito a ludobus. Le quattro classi al completo
(quelle in cui erano iscritti i bambini rom e che la scuola aveva indicato
come partecipanti alle attività del Pon F3) entrano nel camper dove cose
inspiegabili accadono in un clima incantato mentre i propri compagni giocano all’esterno, nel cortile della scuola dove il camper è parcheggiato, con
i giochi in legno della tradizione popolare, le costruzioni, le tempere e altri
materiali. Non prima però di aver fatto il biglietto in classe: il disegno di
una cosa inspiegabile “capitata proprio a te”.
Quella prima mattina si è conclusa con tutti i bambini (rom e non rom)
delle quattro classi, entusiasti della “scuola di magia” che stava per cominciare. Tutti avrebbero voluto partecipare al percorso pomeridiano, anche se
purtroppo di posto ce n’era al massimo per una ventina (e i posti erano stati
già quasi tutti assegnati ai bambini rom). Quello che rischiava di essere un
percorso ghettizzante (cioè per soli rom) era diventato un percorso di “prestigio” a cui tutti ambivano prendere parte.
Ne sono seguiti pomeriggi incandescenti, tra campo e scuola, dove le
mille difficoltà non sono però mai riuscite a prendere il sopravvento sul
mare di meraviglia e bellezza.
Abbiamo continuato a interrogarci su cosa fosse la magia con frutta e ortaggi trasformati per incanto in colori con cui inondare il foglio bianco da
P
Tre
144
sottoparato; con la creazione di una tavolozza infinita di tonalità a partire
da tre soli colori; con spugne che diventano punti di luce sul lenzuolo bianco del cantastorie… Tutto per dare materia alle scene dell’immaginazione,
quelle partorite dell’incontro di noi adulti e loro bambini, in un gioco di
entrata e uscita dal colore anche grazie ai giochi teatrali e alla simulazione
di situazioni di vita.
La magia così non è stata solo quella dei trucchi di prestigio che ci siamo
prima insegnati l’un l’altro e che poi abbiamo approfondito grazie a un professionista venuto a tenere alcune lezioni. La magia è consistita piuttosto in
quel viaggio all’interno dell’immaginario e nelle scene, tracciate su carta,
che ne abbiamo tratto, “messe in vita” tra il caos e l’estremo ordine della
curiosità che si accende. I trucchi di prestigio, gli inganni dell’illusionista –
così come ci ha insegnato il nostro maestro Bustrik – sono diventati possibilità di svelamento del vero che c’è in ognuno, al di là di stereotipi positivi
e negativi, nella meravigliosa banalità dell’essere se stessi che si scoperchia
avanti a uno stupore autentico.
Il tuffo nei quadri di Manet degli apprendisti della nostra scuola di pittoteatro-magia (che dovevano prima proseguire il racconto letto nei quadri
con tempere e acquerelli e poi diventarne i registi attraverso una messa in
scena teatrale) è stato uno dei momenti più belli del percorso.
E il Genio Eir Ascòl che c’entra? Ebbene come da metodologia Mammut
è stato proprio lui, il genio fuggitivo, a fare da sfondo integratore a tutto il
nostro percorso: la storia di un genio fuggito da scuola perché non ci trovava più la magia e che era nostro compito ritrovare. La pittura, il teatro, il
gioco, l’apprendimento di trucchi di prestigio, il racconto di eventi inspiegabili accaduti a ciascuno di noi e perfino una caccia al tesoro in piazza
con altri 200 bambini sono stati tutti “mezzi” per il comune obiettivo di
far tornare il Genio Eir Ascòl, riaccendendo la capacità di fare “magie” per
bambini e maestre.
Il capovolgimento di relazione che sperimentiamo tutte le volte che i
bambini iscritti al nostro doposcuola pomeridiano vengono al Mammut,
nella mattina con l’intera classe (diventando per una mattina “gli esperti”
e “i padroni da casa”) è diventato ancora più potente in questo percorso
all’ “Ilaria Alpi-Carlo Levi”: la maggiore padronanza acquisita dai bambini
rom con la magia li ha fatti sentire per una volta “padroni di casa”, tanto
nell’incontro con gli altri compagni non rom della propria classe, quanto
con le altre centinaia di coetanei intervenuti nella caccia al tesoro del Mito
in piazza Giovanni Paolo II.
Ed è stato proprio grazie al Mito del Mammut (il gioco didattico giunto
alla sua settima edizione) che il percorso ha potuto avere un retroterra di
senso ben più forte di quello di un Pon di 2 mesi. La mappa di ricerca sviluppata con la maestra tutor (insegnante della maggior parte dei bambini
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145
rom partecipanti) era partita fin dal settembre 2013, inserendosi nella ricerca cooperativa che il centro territoriale sta conducendo.
Tre
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Il percorso ha fornito un’ulteriore conferma alle nostre fondamenta pedagogiche:
1) abbandono e dispersione scolastici non si combattano con progetti
speciali, ma migliorando la scuola di tutti;
2) la centralità nel processo di riavvicinamento all’apprendimento sta
nel desiderio, nella voglia di andare a scuola. L’accettazione incondizionata
e il partire dall’interesse contingente di alunno e maestro nella loro unicità rimangono i migliori presupposti perché nessuno, alunno o maestro di
qualsiasi provenienza, abbia più voglia di fuggire dalla scuola;
3) l’immensa fertilità e il clima positivo che nasce dalla compresenza di
bambini rom e non rom scema tristemente se una delle due componenti
viene a mancare.
Ne è nata una storia scritta insieme, fatta di cadute da bicicletta, mostri
ingannatori, nonne carnevalesche e “genio detector” per vedere se il Genio
Eir Ascòl ha fatto ritorno. Anche perché la caccia al tesoro del 14 maggio
si è conclusa con un nulla di fatto e al momento ci sono altri 200 bambini
in cerca del genio. Alla ricerca del Genio Eir Ascòl è appunto il titolo della
mostra e del video racconto proiettato all’Istituto Comprensivo “Ilaria Alpi
– Carlo Levi” il 29 maggio 2014, proseguimento del gioco di entrata/uscita
dall’immaginario cominciata con verdura e ortaggi e proseguita con la telecamera di una paziente video maker che ha partecipato a tutti gli incontri
del percorso. Rendere visibili le storie che nascono dentro di noi e diventare
capaci di entrarci ed uscirne assieme a chi ci sta intorno per modificare noi
e il mondo di cui siamo parte: c’è magia più grande? Di questo non possiamo che essere grati ai bimbi rom che ce ne hanno dato ancora una volta
la possibilità.
campo scuola
di Argentina Dragutinovic. Incontro con Alessandra Di Fenza
M
i chiamo Argentina Dragutinovic, lavoro al Centro territoriale
Mammut da quando ha aperto: erano passati solo tre mesi dall’assegnazione della sede e io ero già li, era l’estate del 2007. Mi occupo della
sede e di tutto quello di cui c’è bisogno. La mia passione è la cucina e spesso
ho preparato dei piatti romanes in occasione delle feste. In primavera ho
realizzato un laboratorio di pittura e di decorazione di uova con mamme e
bambini così come si preparano per la nostra Pasqua.
Quest’anno il Mammut mi ha chiesto di collaborare per la realizzazione
di un progetto pomeridiano a scuola, un progetto interculturale, contro
l’abbandono scolastico. Una volta a settimana mi facevo il giro dei campi
per avvisare i genitori e i bambini che c’era un laboratorio di teatro-magia
che serviva a fare scuola divertendosi.
Inizialmente i bambini non volevano venire forse perché credevano di
ritrovare la stessa scuola del mattino, alcuni genitori invece pensavano che
era una cosa che non serviva. Piano piano i bambini si sono appassionati
al percorso e invece di inseguirli per la baracche, erano loro ad aspettare
me, e mi aspettavano anche un’ora prima. Erano una ventina e venivano da
campi di diverse provenienze e religioni: cristiano-ortodossi, mussulmani, evangelici. Roberto, Sara, Svenco, Sabrina, Gelco non vedevano l’ora di
trovare ”Il Genio Eir Ascòl”, questo genio arabo era un grande mago che
era scappato da scuola perché lì non stava bene, e il compito dei bambini
era ritrovarlo facendo tornare la magia, sperimentandosi con i trucchi, la
pittura e il teatro. E sono andati a scuola pure il giorno di San Giorgio, una
festa religiosa in cui si cucinano maiali, pecore e si preparano i piatti della
tradizione come le sarme (verze ripiene di carne e riso), peperoni ripieni,
insalate e dolci, c’è musica e si sta in famiglia.
In quest’occasione la maestra si è lamentata con noi operatori del fatto
che i bambini venivano di più al pomeriggio che alla mattina. Ed è stato
un peccato che Vanessa, del mio campo, abbia rinunciato a venire perché
aveva paura della scuola: è riuscita a partecipare al laboratorio solo due
volte, nonostante la mia presenza. Vanessa è abituata a vivere liberamente
e se vede un albero di prugne non resiste e gli corre incontro e si arrampica
anche se il bidello la sgrida. Diciamo la verità, gli alberi di prugne sono una
passione per tutti bimbi rom e più le prugne sono acerbe e più gli piacciono.
Era molto complicato accompagnare i bambini a scuola, nel cortile c’era
una albero di prugne bello grande… e io ero lì a rincorrerli e i figli del
custode proprio non mandavano giù queste incursioni. In realtà sembrava
Aula
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Tre
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alla ricerca
del genio
eir ascòl
che non fossimo ben accolti perché anche quando i bambini si comportavano bene avevano qualcosa da ridire. Anche l’utilizzo dei bagni sembrava
un po’ complicato perché le pulizie terminavano prima che noi iniziassimo
e quindi avevamo il fiato sul collo perché non si poteva sporcare. Il Genio
Eir Ascòl sembrava proprio aver ragione! Anche perché per arrivare a scuola d’estate a piedi, scavalcando cumuli e cumuli di immondizia, con la puzza e i topi che corrono vicino, non è proprio semplice… d’inverno invece ci
sono le pozzanghere e devi combattere con il freddo e il fango. I bambini ce
l’hanno messa tutta per far tornare la magia, vedevano il genio comparire
e poi scomparire tra nuvole o dietro il colonnato, dietro il paesaggio di un
disegno o in un trucco riuscito bene. È stata organizzata pure una Caccia
al tesoro che ha coinvolto anche gli altri bambini delle scuole del quartiere,
tutti alla ricerca del Genio Eir Ascòl… che però non è stato ancora trovato!
Durante l’ultima giornata del progetto, è stata allestita una mostra dei
racconti, delle pitture fatte dai bambini ed stato proiettato il video che parla
delpercorso del Genio Eir Ascòl. Le magie hanno preso forma con i trucchi e i colori, e alla domanda “secondo voi tornerà il Genio Eir Ascòl”, i
bambini hanno risposto di sì! E io ci credo perché sono venuti numerosi e
accompagnati dalle mamme nonostante io non fossi andata a prenderli e il
cancello della scuola fosse chiuso… e non perché erano venuti in anticipo
ma perché si erano dimenticati di aprirlo... sarà stato il Genio?
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porte di conoscenza
di Yasmine Accardo
la didattica
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o sempre detestato le porte. Ho sempre avuto l’impressione che ce ne
fossero troppe. Porte che si aprono e si chiudono. Porte che sbattono.
Porte che cigolano. Troppe e di troppi tipi. La porta del bagno. La porta dello studio del medico. La porta dell’ascensore. E poi la porta della percezione. La porta dell’aldilà. Questo mondo mi sembrava un libro di legno in cui
andavo a sbattere con la testa troppo spesso. A volte risolvevo guardando
attraverso il buco della serratura o collezionando chiavi e serrature di ogni
tipo. Poi ho smesso di pensarci e semplicemente mi stupivo quando vedevo
una porta chiusa. “To’, sono ancora qui?”
Così quando sono entrata in questo gioco sapevo solo una cosa: che porte non volevo vederne e per questo avrei lottato e molto. Non ero sola questa volta. C’erano i miei alunni! Ovviamente sapere che c’era una porta da
affrontare mi ha reso più energica. La didattica, o come vogliam chiamarla,
è consistita in questo: le porte dovevamo oltrepassarle, studiarle con attenzione, ridere di loro o piangere per loro. Romperci il naso camminando
nella notte a braccia distese. O disegnarvi un trompe l’oeil.
Poi, ad un certo punto ci siamo seduti sotto la porta ed è stato rincuorante. Era lì e quello che ci offriva erano storie, storie che dovevamo ricordare e storie che volevamo raccontare. Abbiamo smesso di lottare e ci
siamo rilassati. La corsa per superare, aprire o chiudere porte si è arrestata.
Abbiamo cambiato la forma delle porte: le abbiam rese liquide o di creta o
della “materia dei sogni”. Allora abbiamo cominciato il gioco: quando siamo usciti dalla didattica e abbiamo oliato la sua porta cigolante per andare
a farci un giro.
com’è cominciata
Siamo arrivati da poco. La porta è ancora aperta e aspetta che qualcuno
decida che siamo abbastanza, che non c’è più spazio e si può quindi iniziare. Qualcuno fa capolino: Enzo ha lo sportello per le vertenze di lavoro ed è
impegnatissimo ma passa sempre a darci un saluto: “La maestra è arrivata
puntuale?”, “Cosa ha combinato oggi?”, “Siete pronti oggi?”
Joy “grande” si aggiusta sulla sedia, sorride in silenzio. Joy “piccola” ride,
si alza e con i pugni ai fianchi dice:
“Noi siamo sempre pronti! Vero Yasmine?”
Aula
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Tre
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Sara la guarda un po’ stupefatta, si aggiusta i capelli, gira indietro la testa
e si reimmerge nel suo vocabolario cinese-italiano, appuntandosi qualcosa.
Oresta alza il braccio e fa ciao.
Da fuori arriva il chiacchiericcio delle persone che cercano gli avvocati o
che salutano Wioletta prima di entrare. Wioletta è un po’ il nostro “capotreno”: è lei che fischia l’inizio e la fine della lezione.
Poi la porta viene chiusa, ma già sa che i soliti ritardatari la disturberanno ancora.
Ecco appunto Mustapha, Aliou e Cheikh.
“Forza ragazzi che cominciamo!”. Indico la porta e a bruciapelo chiedo:
“Cosa fa questa porta?”
Trenta teste si girano in simultanea, con un sussurro che schiaffeggia
Alì, rimasto fermo a guardare davanti a sé con i suoi occhi azzurri e le
rughe immobili in un deserto silenzioso e molto distante. Alì è sordo, lui
ascolta il vento delle parole degli altri.
“Dorme”, risponde Aliou. “Ma tu pensi sempre dormire, eh?”, ribatte
Joy, “Quella apre la scuola!” Ridono tutti. Sara scuote la testa. “Ok ragazzi
facciamo un bel disegno di una porta.”
Ecco, è cominciata così, tra le incertezze e i dubbi miei e di tutti i partecipanti, che non sapendo proprio che farsene di quella porta o cosa dirne,
copiavano dall’amico o dal vicino di banco, sperando di non sbagliare. Perché è questa la prima parola che imparano: sbagliare.
Il posto sbagliato, il nome sbagliato, il paese sbagliato, il giorno sbagliato, il documento sbagliato. Come uomo sono una sbaglio. E se una cosa ha
fatto quella porta sorniona è stato “sbattersi in faccia” a questa brutta parola. E quando Ziahul ha aperto la porta per presentarsi e dire il suo nome,
abbiamo tutti imparato a pronunciare ZI AA HUL e non Giovanni come
lo chiamano qui a piazza Garibaldi. Così anche lui si è ricordato come si
chiamava. E che il suo nome non era uno sbaglio.
Visto che era un gioco e non sapevamo dove ci avrebbe portato, quel
giorno in classe venivano tutti, anche solo per qualche minuto. Quando
la porta del salone si chiudeva il mondo esterno del raggiro non poteva
entrare. Così Sara, che era sempre molto restìa a parlare del suo mondo,
un bel giorno arrivò alla lavagna per disegnare la sua “porta indifferente”
e dire: “Questa è la porta del ristorante dei miei genitori” e lei disegnata in
un angolo a studiare. Indifferente, appunto.
Con noi in classe c’è sempre stato Davide, che voleva organizzare uno
spettacolo insieme alla classe e ci ha molto aiutato a buttare fuori energie
e risorse. È grazie a lui e alle giornate di laboratorio teatrale che abbiamo
potuto ascoltare la luminosa voce di Joy “grande” ed il “tenore” Saiful. La
porta del teatro ha trasformato Joy da bruco in farfalla. Sono aumentati i
dibattiti sui temi proposti. Le parole si prendevano a cazzotti, combatteva-
no per uscire anche se imperfette e lacere, ma piene, finalmente, di senso.
La paura di sbagliare era scomparsa.
le storie-porta
Un giorno Davide ha portato in classe il racconto del leone (un racconto
africano) che ha immediatamente coinvolto Mustapha, ragazzo energico e
di carattere, ma che ancora non partecipava troppo ai nostri incontri. Così
il nuovo Mustapha-leone è diventato il vero leader della classe, portandoci
storie, disegni, attività fino a proporsi come rappresentante, inscenando
anche un discorso di insediamento sull’uguaglianza tra i popoli, e a regalarci una sorpresa meravigliosa durante “la gita delle porte” che organizzammo con i bambini della scuola “Kennedy”. Il momento delle storieporta, in cui ognuno era invitato a portare una leggenda del proprio paese
(che avesse all’interno il significato di “porta/passaggio”), è stato uno dei
più significativi.
Abbiamo viaggiato insieme in luoghi mai visti, ascoltato la poesia di Fatima e Rhokaya sulla potenza del cuore dell’africa, dei racconti degli avi.
In questo frangente Mbaye, anziano commerciante con notevoli difficoltà
di vista, che non aveva mai parlato prima, si è buttato nella mischia della
conversazione e ci ha descritto piante e loro potere curativo. Fortificata la
porta interna, eravamo pronti ad aprire la porta esterna.
Decisi allora di cambiare luogo: potevamo andare in una scuola media superiore in cui avremmo incontrato quel mondo con cui dovevamo
confrontarci, un mondo indifferente e ostile. Quel mondo che i migranti
sfioravano ogni giorno e da cui erano spesso guardati con diffidenza e disprezzo. Da qui avremmo cominciato anche a costruire le basi per un ponte
con i bimbi con cui condividevamo il gioco e che ancora non conoscevamo. Cominciammo a lavorare sui prodotti dei singoli paesi: Ilnaz ci parlò
dello zafferano dell’Iran, Mustapha del mango; Sara era ormai lanciata nei
racconti della Cina e ci illustrò non solo la coltivazione del bambù ma ci
raccontò una storia che poi disegnò alla lavagna: la leggenda dei dieci soli.
Per alcuni ascoltare la leggenda cinese fu motivo di riso; ne parlammo insieme, cercando di trovare paragoni tra una storia e l’altra e uscirono fuori
gli djin del deserto, come le imprese dei giganti. “Meraviglie e storie sono
tante e questo è bello”, dissero Fatima e Rokhaya. Assaporammo infine i
dolcetti iraniani che Ilnez portò a scuola per farci assaggiare qualcosa della
cucina iraniana.
Visto che alcune classi di bimbi erano impegnate nello studio della coltivazione, decidemmo di mandar loro dei consigli. Ilnaz, Mustapha e Sara
mandarono le loro lettere e i bimbi risposero chiedendo altre storie. Non
contenti, pensammo di organizzare la “gita delle porte” e Mustapha, Sofia-
Aula
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Tre
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ne, Ahmed, Fatima, Rhokaya, Mohamed organizzarono le storie e il percorso da fare tra le porte di piazza Garibaldi. Mustapha mostrò ai bimbi
come si veste un guerriero. Bimbi e mamme assaggiarono i dolcetti bengalesi di Lima. E seguirono la voce del vento, unico amico dei tuareg durante
le traversate del deserto.
Il cambio di scuola però non fu del tutto felice. Ricordo un episodio
piuttosto grave che capitò dopo l’arrivo nella nuova scuola. Il mercoledì
era stato dedicato al laboratorio teatrale con Davide; nella stessa scuola c’è
un Ctp con cui collaboriamo per somministrare ai migranti l’esame per la
certificazione A2 e con cui avremmo voluto creare una comunicazione tra
le classi sul tema della porta. E invece la porta rimase chiusa. Venne imposto ai partecipanti di seguire la lezione A2, pena l’impossibilità di sostenere l’esame. Anziché una possibilità ulteriore di approfondimento e uso
dell’italiano, il laboratorio fu considerato un ostacolo. Così un insegnante
venne in classe dicendo: “voi non potete stare qui, dovete fare l’A2 e se non
raggiungete le presenze non potrete sostenere l’esame”. La cosa peggiore fu
la reazione di alcuni partecipanti che, presi dal panico, smisero di seguire il
laboratorio per sedersi nei banchi A2. Ci arrabbiammo e protestammo, ma
ormai il guaio era fatto: la paura dello sbaglio era stata reintrodotta. Altro
che unione delle forze e condivisione!
Nella stessa scuola i miei studenti hanno raccontato storie e difficoltà
di vita alle classi del mattino, incontrando quegli adolescenti ai quali cui i
Ndemba e Mohamed fecero poi da guida nel mercato di piazza Garibaldi e
nella moschea. La visita alla moschea deve averli un po’ turbati, perché se
ne scapparono dopo poco e non riuscimmo più a parlarne. La scuola era al
termine. Le ultime interrogazioni incombevano e non c’era più tempo. Un
piccolo lavoro di inchiesta sullo sfruttamento del lavoro e sulla prostituzione è stato però fatto da alcuni adolescenti, che hanno preparato un breve
video e ci han chiesto di tornare presto per incrociare più storie. Con la
scuola è stato difficile cominciare, sono molte le scadenze che classi e professori devono rispettare e questo ha tolto tempo e fiato alla nostra piccola
azione sulle “porte”. Ma ovviamente non ci arrendiamo.
Aumento nell’interazione tra
scuola serale, corso di italiano
L2 e corso diurno
Riduzione percentuale di
fattori e sintomi di malessere
psico-fisico legati alla
presenza a scuola
Numero di episodi di
“didattica salutare”:
Realizzazione di una inchiesta
da parte degli studenti del corso
diurno dell’Itis “Leonardo da
Vinci” attraverso il centro storico
con il supporto dell’insegnante
Accardo e si uno studente della
scuola di Italiano L2 “Garibaldi
101”; realizzazione di interviste
degli studenti del diurno ai
ragazzi della scuola di Italiano
L2.
L’insegnante Accardo avverte
forte disagio ogni volta che i
suoi studenti sono prelevati
dalla classe per essere portati in
un’altra stanza, da colleghi del
diurno, al fine di seguire il corso
di Italiano L2, livello A2.
L’insegnante sente di essere
esautorata ogni volta.
Realizzazione del percorso
teatrale ad opera di Davide Iodice
all’interno della classe di Italiano
L2, che ha portato affiatamento
e buon clima di classe favorendo
anche l’apprendimento
curriculare.
Da quando quegli stessi sei
alunni hanno iniziato il corso
A2, hanno perduto motivazione
allo studio della lingua e non
frequentano più la classe della
“Garibaldi 101”.
Cooperazione con le maestre
De Lucia, Sanges e Pica.
Il gruppo classe, costituito da
studenti non italiani, è infastidito
dall’interruzione e dalla
separazione dai colleghi.
griglia indicatori
“aps garibaldi 101”
in collaborazione con scuola itis “leonardo da vinci”
operatrice: Yasmine Accardo
per piero
di Francesca Saudino
S
ono settimane che mi chiedono di scrivere un articolo in ricordo di Piero Colacicchi,
perché ero molto legata a lui e insieme abbiamo fondato “OsservAzione” (centro
di ricerca e azione contro la discriminazione di rom e sinti), ma ogni volta che ci
penso mi distraggo subito e mi occupo di altre cose. Mi sono resa conto che sfuggo a
questo impegno perché in realtà mi rifiuto di pensare che Piero non ci sia più. Per me
è sempre lì, nella casa in via dell’Osservatorio a Firenze, in mezzo al verde,
con i suoi innumerevoli libri e con il suo computer che scrive
profili
e fa battute sarcastiche su ogni cosa. Ogni volta che ci penso
sento nelle orecchie la sua voce che mi canzona: “e dai Francè e che ci vuole a
scrivere, mica ho fatto niente di particolare io?!!” Be’, insomma, uno che ha vissuto in
Italia e in America, che si è immerso nei temi più intricati e densi del nostro mondo,
dalla psichiatria, al carcere, alla questione dei rom, il tutto facendo il professore di
scultura all’Accademia di Belle Arti… Se ci penso mi assale un senso di soggezione
e non riesco a continuare. Ci vorrebbe almeno un anno di lavoro per approfondire
tutti i temi e rendere giustizia della straordinaria vita di Piero. Ora provo a cominciare
ma non posso che limitarmi a un ricordo di amicizia. Anche perché Piero, per la sua
discrezione, non ha mai sbandierato ai quatto venti tutto quello che ha fatto, detto e
scritto nella vita. Mai. Per saperne dovevi andare a scavare da solo, oppure chiedere e
insistere affinché raccontasse.
Comincio da poco fa, dalle ultime volte che ci siamo sentiti e soprattutto dalle ultime
mail che ci siamo scambiati. Dopo la sua morte, ad agosto, mi sono tuffata a rileggere
avidamente le nostre comunicazioni e, ripensandoci, il tono di Piero negli ultimi mesi
era, da un lato come al solito, leggero e canzonatorio, ma dall’altro molto intenso,
come se sentisse l’urgenza di sintetizzarmi dei concetti fondamentali delle sue idee e
una strada per continuare, anche senza di lui.
A marzo di quest’anno, dopo essere stata alla Commissione straordinaria per la
tutela dei diritti umani del Senato, per relazionare in rappresentanza di un gruppo di
associazioni sul caso dei rom di Giugliano in Campania, sistemati a vivere in mezzo
alle discariche tossiche, gli mandai un link per poter ascoltare tutta la registrazione
dell’audizione.
Fu entusiasta e mi riferì di aver ascoltato tutta la registrazione due volte. Quello che
lo faceva più felice era il confronto con gli anni in cui aveva iniziato ad interessarsi
delle faccende dei rom, la fine degli anni ottanta, ma anche solo con gli esordi di
Osservazione, l’associazione fondata insieme, nel 2005.
All’epoca, infatti, interessarsi dei rom era questione di carità o al limite un affare di
tutela culturale, di studio di una cultura completamente “altra”; interessarsi dei rom
e della questione politica che ruota intorno alla loro condizione, dei diritti dei rom
come persone, invece e prima che della loro cultura, contrastare le scelte istituzionali
discriminatorie e proporre soluzioni diverse era appannaggio di pochi, tra cui Piero,
che senza sosta provavano a contagiare settori istituzionali e non con un ragionamento
più articolato.
Quello che Piero raccontava di quando aveva iniziato ad interessarsi della questione
era che chi aveva cominciato a interfacciarsi alla questione rom, anche in buona fede,
aveva sbagliato strada pensando che i rom fossero semplicemente della povera gente
da aiutare e che loro stessi volessero, ad esempio, vivere nei campi sosta, poi divenuti
i cosiddetti campi nomadi. Ciò che l’aveva convinto del contrario erano stati gli stessi
rom, le persone in carne ed ossa. Semplicemente conoscendole, chiacchierando,
spogliandosi dei preconcetti, infatti, si era reso conto che per la maggior parte
dei casi, per esempio, la vita in un campo non era affatto una
profili
questione culturale, che tutti i rom stranieri provenienti dall’area
della ex Yugoslavia vivevano in città e in case in muratura normalissime,
lavoravano come chiunque altro ecc. Di qui, da questa conoscenza delle persone,
Piero si è battuto senza sosta contro la politica dei campi per rom adottata da quasi
tutte le amministrazioni locali, le quali, partendo dall’assunto che queste persone
fossero nomadi, ovvero non stanziali, e nascondendosi dietro la foglia di fico della
tutela culturale, hanno legittimato e legalizzato la creazione di luoghi generatori di
marginalità e segregazione. Luoghi di sospensione del diritto, come Piero ci ha sempre
insegnato, promotori di uno stato di eccezione che ha portato alla fine degli anni 2000,
nel 2008, addirittura alla cosiddetta “emergenza nomadi” con legge dello Stato. Per
fortuna dichiarata illegittima dal Consiglio di Stato nel 2011.
È proprio sulle battaglie contro i campi nomadi che ci incontrammo, alla fine degli
anni 90, quando noi, il Com.p.a.re., un gruppo di studenti attivisti, ci imbattevamo
a Napoli in omologhe questioni rispetto ai rom di Scampia e sbattevamo contro un
muro istituzionale, e anche associativo, che ci additava come giovani ideologici. Piero
e la sua esperienza furono linfa vitale, perché ci aiutarono a pensare che non era da
pazzi ritenere che fosse una scelta sbagliata e discriminatoria sistemare 800 persone in
un luogo isolato dietro un carcere a vivere in container di lamiera.
Soprattutto perché, grazie al lavoro di Piero e degli altri, la Toscana aveva fatto passi
avanti, aveva già messo su un progetto sperimentale, il Guarlone, per poche famiglie
in una zona collegata con la città, aveva iniziato a sistemare l’inserimento nell’edilizia
pubblica e sopratutto aveva dichiarato la volontà di superare i mega campi per rom, in
considerazione dei cattivi risultati ottenuti in base all’esperienza fatta.
Purtroppo a Napoli i tempi non erano ancora maturi (e probabilmente non lo sono
ancora dopo tanti anni) il mega campo di Secondigliano fu costruito come soluzione
temporanea ed è ancora lì, dopo 15 anni e se ne progettano altri.
Molto prima di imbattersi nelle questioni rom, Piero si era interessato di psichiatria.
C’è una bellissima intervista fi lmata di Christian Brogi (http://www.osservazione.org/
it/2_43/addio-caro-piero.htm) in cui Piero racconta dell’esperienza al manicomio San
Salvi di Firenze dove, nel 1964, aveva dato vita, insieme ad altre professionalità, ad un
laboratorio sperimentale di ceramica, e dell’impatto “rivoluzionario” che portò in quel
contesto l’intervento di Giorgio Antonucci, punto di riferimento dell’antipsichiatria
in Italia, allora agli esordi della sua carriera. L’approccio di Antonucci gli permise di
comprendere che c’era un modo per guardare la questione psichiatrica completamente
diverso da quello ordinario. Infatti, mentre la psichiatria tradizionale partiva da
posizioni pregiudiziali e da un’ideologia medica completamente astratta e repressiva,
Antonucci metteva in discussione radicalmente l’idea stessa del malato psichiatrico e
la necessità della psichiatria.
In uno scambio con Dacia Maraini che gli chiedeva: “In che consiste questo
metodo nuovo per quanto riguarda i cosiddetti malati psichici?” Giorgio Antonucci
rispondeva: “Per me significa che i malati mentali non esistono e la psichiatria va
completamente eliminata.”
profili
Quello che Piero aveva messo a fuoco da quell’incontro che
ha segnato la sua vita era che l’approccio psichiatrico, che si fondava su
un’ideologia intrisa di pregiudizi e soprattutto repressiva, generava naturalmente
un’escalation di repressione e ribellione, sempre più aspra, con la ovvia vittoria del
più forte sul più debole. L’umiliazione subita dalle persone, infatti, perché rinchiuse
in manicomio e sedate con psicofarmaci, messe da parte e non accolte, produceva
una reazione, giusta o giustificabile, di ribellione, nuovamente repressa e ancora più
duramente. Sono sicura che quello che più addolorava Piero e lo muoveva all’azione,
al di la di tutti i proclami, era proprio la sofferenza delle persone umiliate e, insieme, il
fallimento di quel tipo di approccio.
Facendo un parallelo tra psichiatria e razzismo, Piero diceva che entrambi hanno
sempre usato pretesti per costruire il pregiudizio con cui poi opprimono. E che uno dei
pregiudizi più forti è stato proprio quello di rifiutare chi non accetta di “stare fermo”,
che ha prodotto il concetto di “ebreo errante”, di “nomade” e, in ambito psichiatrico,
di “agitato”, concetti ottocenteschi che hanno alla base le stesse idee e anche gli
stessi teorizzatori. Cesare Lombroso, per esempio, scriveva allo stesso modo di rom
– o zingari, come dicevano loro – di persone ricoverate in ospedali psichiatrici e di
delinquenti. Non a caso, un altro importante capitolo dell’impegno militante di Piero
è avvenuto nelle carceri della Toscana.
E sui temi di cui stiamo parlando – carcere, razzismo, minoranze – non si può non
ricordare il saggio che Piero ha scritto per accompagnare l’edizione italiana del volume
di John Dos Passos sull’esecuzione degli anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo
Vanzetti nel 1927 in America (John Dos Passos, Davanti alla sedia elettrica, edizioni
Spartaco, 2007).
Piero ha vissuto negli Stati Uniti, conosceva dal profondo certe dinamiche. Nel
saggio mette in evidenza, ancora una volta, quanto abbiano influito, sulla condanna
dei due anarchici, soprattutto i pregiudizi – italiani, immigrati, anarchici, rossi – più di
una valutazione giuridica puntuale degli elementi di colpevolezza. E quanto il carcere
e tutto il sistema penale rappresentino una lente di ingrandimento dei valori di una
società
Piero affida proprio alle parole di Bartolomeo Vanzetti, riportate in uno scritto
preparato per autodifendersi, una prima sintesi: «Il fatto che io vivessi in una comunità
di italiani e che in quel giorno, a quell’ora, in quel preciso minuto mi trovassi tra loro a
vendere le anguille e i pesci che mi avevano ordinato, proprio questo al processo mi fu
estremamente contrario: poiché spinse tutti quegli italiani a testimoniare in mio favore. E
fu proprio il fatto che si trattasse di italiani ciò che indusse i giurati americani, carichi di
pregiudizi razziali, religiosi, politici ed economici, pieni di odio contro tutti gli italiani e i
democratici intransigenti, a non volere, a non poter credere, alle loro parole».
Secondo Piero, “un importante indicatore delle condizioni dei nuovi immigrati in paesi
stranieri – dei livelli di accoglienza, della forza dei pregiudizi, dei conflitti – è proprio il
carcere, inteso non solo come periodo di internamento, ma come percorso complessivo
che inizia dalla condizione di sospetto, prosegue attraverso il processo
profili
e finisce con la fine della pena, o con l’uccisione.” Nel periodo in cui
Sacco e Vanzetti furono condannati le carceri americane erano piene di
italiani e, ai loro danni, si registra una percentuale altissima di esecuzioni capitali. Nel
solo 1912, Piero ci riferisce citando due saggi di Scott Christianson docente universitario
a New York, “su un totale di 15 esecuzioni, 10 furono quelle eseguite su italiani. E questo
a fronte di una popolazione di italiani che in tutti gli Stati Uniti contava, all’epoca, poco
più di 800.000 persone”.
Per questi aspetti il racconto non può non riportare l’attenzione, come Piero fa, a
quello che accadde oggi, alle condanne in America, ora ai danni di nuovi facili bersagli,
ma anche alle condizioni degli immigrati in Italia, alla vulnerabilità e al rischio di
subire più di altri il perverso meccanismo del sistema penale: “Negli Stati Uniti di oggi,
le condanne, le carcerazioni e le esecuzioni riguardano principalmente bianchi poveri, neri
e persone di recente immigrazione oltre che, recentemente, musulmani, perché in tutti i
suoi tribunali sono ancora in funzione gli stessi meccanismi. E ciò avviene anche in Italia,
aggiungiamo noi, ricordando ancora il rapporto di Antigone – senza, fortunatamente,
l’orrore della condanna a morte”.
Mi preme sottolineare che, anche sul tema delle carceri, Piero non era solo un teorico,
al contrario, l’analisi gli serviva per tuffarsi nella pratica con più vigore, nello sforzo
costante della relazione umana, dei passi fatti dalle persone in carne ed ossa, con il
contatto reale a partire dall’accettazione e dalla pulizia da idee pregiudiziali. E tanto è
stato il suo lavoro pratico anche in questo luogo si segregazione.
Per tornare alla mail che Piero mi ha spedito in privato, a marzo di quest’anno,
voglio regalare ai lettori di questo libro l’ultima frase di sintesi. L’ho fissa in mente, è
molto dura ma molto efficace e riassume quello che Piero ci ha sempre invitato a fare:
“Poche chiacchiere e poche teorie: la merda puzza e chiunque ci caschi dentro, se non gli
si da una mano, affoga: ecco qual è sempre stato per me il motto con cui ho visto l’attività
di OsservAzione”.
5. porta universo
N
on si apre nessuna porta finché non si scoprono quelle attraverso cui
ognuno di noi è collegato al resto del creato. La “conversione ecologica”
analizzata e vissuta da Alex Langer, come le “compresenze di morti e viventi”
di Aldo Capitini sono lontane da divenire esperienza di massa, ma se è possibile sperimentarne qualche fugace segmento, a noi è sembrato di esserci riusciti
in alcuni momenti di questa settima edizione del Mito del Mammut. Le creazioni matematiche e Eduardo De Filippo ci hanno addirittura permesso un
viaggio oltre i confini della terra. Tenendo ancora una volta insieme scuola e
natura, grazie anche ai ricordi di piante delle madri e a un maestro artigiano.
un museo dei bambini a scampia
di Riccardo Dalisi
158
V
enti bambini completamente ipnotizzati attorno a un tavolo a guardare
un signore dai capelli bianchi con berretto e cappotto che fa schizzi e
macchie di colore, ritagli e collage. Il signore non dice una parola, fa solo gesti,
consegna sorrisi assieme a fogli e matite, e i bimbi cominciano a disegnare
anche loro, contagiati dal tratto di quel signore che sembra riversarsi sui loro
fogli. Tutto senza una parola. Nella nostra officina Mammut di maestri ne
sono passati tanti, ma questa forse è la prima volta che la comunicazione con
i bambini non si è servita nemmeno di una parola. È stato così che Riccardo
Dalisi, artista, docente universitario e designer ci ha stupito per davvero. Per
oltre due anni ci ha accompagnato con la sua arte generosa e gratuita in molti
dei percorsi con bambini e ragazzi, donandoci opere e insegnamenti. È stato
suo l’input dato alle maestre partecipanti al Mito del Mammut – VII edizione sui disegni necessari a realizzare l’opera collettiva “Porta Universo”. E
sempre con lui abbiamo tentato nel giugno 2014 di lanciare l’idea di un Museo
del bambino in una delle Vele di Scampia, assieme alle altre associazioni del
Comitato spazio Pubblico. Quelle che pubblichiamo di seguito sono le parole
che Riccardo scrisse per accompagnare quella giornata.
U
n museo dei bambini è una sfida per l’adulto in quanto mette in campo temi che riguardano la logica della poesia da una parte e la logica
del razionale dall’altra. Questo conflitto, del resto, vive solo nell’adulto. E il
museo del bambini vuole mostrare anche questo aspetto.
Durante un incontro a Scampia sono stato sfidato nel disegno dai bambini. Ho mostrato come disegnavo i cavalli e subito si sono messi all’opera.
I loro cavalli sono belli e affascinanti, assorbono in sé l’immagine dei cavalli preistorici rupestri e quelli di qualche artista del ‘900. Forse più belli,
formidabili, curiosi, assurdi. Mostreremo i loro e i miei cavalli insieme.
Mostreremo anche altri disegni di artisti “adulti” in cerca dello spirito infantile che permane in tutti noi, così come si tentò di fare negli anni
’70 con la Global Tools, una contro-scuola-laboratorio in cui il movimento
radicale italiano cercò di convogliare una visione diversa e più libera della
ricerca sull’espressione grafico-pittorica.
Con l’esposizione dei risultati progressivi dei laboratori a cui daremo vita, il museo vuole porre sul tappeto il grande tema pedagogico del
rapporto con i piccoli affrontando con loro temi non consueti come, ad
esempio, il design. Mi piace ricordare la sediolina per un cece che disegnò
una bambina al Rione Traiano negli anni ’70 e che fu ridisegnata da Andy
Warhol, Joseph Beuys, Ettore Sottssas, Enzo Mari, Alessandro Mendini,
Umberto Eco e altri. Vien su l’idea di una sorta di Bauhaus dei bambini
e questo per la molteplicità e la qualità delle iniziative da mettere insieme
in un unico obbiettivo fondatore. Un nuovo modo di intendere il lavorare
creativamente con l’infanzia aprendone, come è da fare, ancor più il ventaglio di prospettive, lasciandosi guidare da loro, dalla loro piena disponibilità e ispirandoci anche alle loro naturali attitudini, all’innata spinta a
sperimentarsi nel mondo, a modellarlo entro il bisogno di immaginazione
che si incontra specularmente col bisogno del mondo di un contributo di
fiabesca qualità della vita.
I bambini possono aiutarci a riscoprire il valore del magico, della fiaba
in tutto ciò di cui giornalmente ci alimentiamo. Quel valore magico è stato
messo troppo sistematicamente da parte dalla moderna idealità razionale,
dal dominio della pura logica ed oggi dalle funzioni e dalla illusorietà del
virtuale dominante, a sua volta dominato dall’economia di mercato.
Ci si potrà così rincontrare, rivalorizzandolo, con il mondo infantile
messo troppo spesso a parcheggio davanti alla televisione. Rincontrarlo
quindi sul piano creativo. E, d’altro canto, da tante parti si avverte il bisogno di legare bellezza e giustizia, il mondo emozionale e quello razionale.
Se ne sente il bisogno culturale e operativo. Disgiungere l’“educazione alla
giustizia” dal sentire, dalle emozioni e dalla loro espressione, isolare e circoscrivere i mondi in cui il bambino vive è a nostro parere un errore. Come
dice il filosofo James Hillman nel libro La giustizia di Afrodite, l’amore e la
bellezza sono indissolubilmente legati alla giustizia.
Universi
159
giocare con i numeri
di Marisa Damiano, maestra della scuola “Eugenio Montale”
L
Tre
160
avorare, o meglio, insegnare a Scampia è difficile sia perché qui i bambini si sentono “diversi”, meno “importanti”, sia perché il background
socio-culturale è mediamente piuttosto ostico. Bisogna insegnare ai bambini prima di tutto ad aver fiducia in se stessi, incoraggiandoli costantemente, perché crescono nella convinzione di essere inferiori ai bambini di
Napoli. Ma Scampia è un quartiere di Napoli! I mass media e gli stessi napoletani etichettano questo quartiere facendolo apparire agli occhi di tutti
un mondo a parte, una parte della città da cui stare lontano e i bambini che
abitano qui si confrontano quotidianamente con l’altra faccia della medaglia “dell’Oro di Napoli” introiettando la sensazione di vivere nel Bronx.
In questo contesto, la scuola può diventare un laboratorio in cui sperimentare una rappresentazione della città e delle differenze che l’attraversano opposta a quella maggioritaria. Una rappresentazione che parte proprio
dai bambini.
In classe penso di poter dire che ognuno ha trovato il modo di esprimere
le sue potenzialità e integrarle con quelle degli altri in modo da sviluppare
anche un senso d’interdipendenza e d i appartenenza al gruppo. È importante che ognuno abbia la possibilità di esprimere ed affermare la propria
originalità e creatività facendo in modo che le differenze siano vissute come
complementari e non come inconciliabili.
Il livello culturale delle famiglie è abbastanza omogeneo (fatto salvo per
quello di due o tre bimbi che brillano per intelligenza e per propensione
all’astrazione) e si riflette sia nel lessico che nei comportamenti iniziali dei
piccoli; ma questi ultimi, avendo ormai cambiato il loro approccio nei confronti degli “altri”, hanno sapientemente guidato i genitori verso la loro
visione ottimistica ed altruistica del mondo. I genitori hanno imparato a
essere più fiduciosi e si lasciano consigliare da me poiché hanno capito che
non sono qui per giudicare ma per insegnare ai loro figli non solo la storia,
la geografia o l’italiano ma soprattutto ad avere stima in se stessi, a crescere
con la consapevolezza di poter fare qualsiasi cosa, a non lasciarsi influenzare dei luoghi comuni, a considerarsi parte del mondo. Un mondo tutt’altro
che perfetto, ma non solo al sud, non solo a Napoli e soprattutto non solo
a Scampia.
La dinamica di gruppo è fondamentale al fine dell’apprendimento, senza
la creazione di una relazione di classe positiva si rivela inutile ogni tentativo. Inizialmente l’approccio dei bambini alle varie materie è spesso caratterizzato da un fondo di paura: paura di non farcela, di non essere all’altezza,
di sbagliare. Pian piano però capiscono che l’errore aiuta a crescere e che
tutti possiamo farcela se aggiungiamo alla ricetta determinazione, metodo
e forza di volontà; se poi ci lasciamo aiutare dai compagni e dall’insegnante
è ancora più facile. Per incoraggiarli e far sentire loro il mio supporto ho
appeso, alla parete, una scritta creata con il loro aiuto che dice:
“Siete bravi, non abbiate paura”.
La matematica è stata quest’anno l’ostacolo più ostico: non solo non ne
capivano l’utilità, ma ne provavano in un certo senso timore. La domanda
comune era: “Maestra, ma a che ci serve?”. La mia risposta è sempre stata:
“La matematica è vita! La usate quotidianamente, anche quando non ve ne
accorgete”. La matematica non è fatta solo di numeri, problemi, formule,
operazioni, ma è logica, razionalità, è l’uso potenziato delle facoltà della
mente per risolvere i piccoli e i grandi problemi di tutti i giorni. Partendo
dal presupposto dell’applicabilità della matematica nel quotidiano abbiamo svolto attività che potessero “avvicinare” i bambini ai concetti matematici più difficili.
La visione di alcune parti della commedia Non ti pago di Eduardo De
Filippo, dove i numeri sono al centro della storia (che prende le mosse da
una vincita al lotto, gioco popolare inventato dai Borboni e caro ai napoletani che a tutt’oggi amano interrogare la smorfia per interpretare sogni ed
eventi), ha fatto in modo che ai bambini fosse più chiara la funzione ludica
dei numeri, e quindi della matematica.
Il numero come espressione di concetti astratti ma anche espressione
artistica: i bambini si sono divertiti a disegnare e colorare un numero a loro
scelta che per loro significasse qualcosa o descrivesse qualcosa di familiare.
Qualcuno ha disegnato un 5 dicendo che gli ricordava il naso, la bocca ed
il mento di un parente, altri hanno aggiunto connotati umani al panciuto
signor 8 e cosi via. È stato bello osservarli mentre utilizzando la loro fantasia e creatività inventavano, tutti insieme, buffe storie sui numeri che prendevano vita diventando, a loro discrezione, dispettosi, simpatici o nervosi.
Per comprendere praticamente come i numeri potessero diventare gioco, abbiamo giocato con le tipiche carte napoletane. Un gioco apparentemente semplicissimo come “l’asso piglia tutto”, risulta invece un potenziale contenitore di ragionamenti logico-matematici. Poter vincere attraverso
nozioni scolastiche (in questo contesto matematiche) stimola poi ulteriormente i bambini all’apprendimento, oltre a sviluppare in loro una sana
competizione.
Attraverso il gioco i piccoli apprendono anche il rispetto delle regole, del
sapersi comportare e relazionare con gli altri bambini, siano essi compagni
di squadra o momentanei avversari, capendo in questo modo che non importa di quale squadra si faccia parte: la “sfida” inizia e finisce con il gioco
Universi
161
e dopo si torna tutti amici. Sono questi argomenti che mi stanno particolarmente a cuore visto il quartiere in cui i miei alunni crescono e vivono.
Tre
Insomma ho cercato di dar vita a un insegnamento quotidiano della matematica basato sul divertimento. Naturalmente la scuola non può e non
deve diventare una ludoteca, ma può sempre insegnare divertendo ed è
questo che ho cercato di fare: insegnare con il sorriso, con la praticità e con
il gioco, perché credo fortemente che sia dal gioco, dall’uso delle mani e dal
sorriso che il bambino apprenderà veramente.
Ho intrapreso, e continuo, questo tipo di insegnamento anche grazie al
supporto del Mammut, dove i bambini si trovano in ambienti più familiari
e dove possono dare piena libertà alla loro fantasia giocando con i numeri,
ma soprattutto diventando in prima persona parte attiva del gioco. Gli incontri al Mammut sono infatti percepiti dagli alunni come momenti ludici
che “nascondono” un apprendimento vero e pratico, che per tale motivo
resterà, io penso, impresso a lungo nelle mani e nella mente dei bambini.
Incremento episodi in cui
le insegnanti fruiscono del
patrimonio di altre scuole/
classi.
Numero episodi in cui le
insegnanti percepiscono un
minor isolamento rispetto
alla scuola e alle colleghe
(anche di altre scuole)
Aumento del nr. di bambini
che esprimono “amore” per
la matematica
Riduzione percentuale di
fattori e sintomi di malessere
psico-fisico legati alla
presenza a scuola (alunne e
alunni)
La maestra si sente meno
isolata, dichiarando di vedere
migliorata la relazione e l’intesa
con le altre insegnanti.
-maggiore confidenza degli
alunni nei confronti dei numeri;
- i bambini legano i numeri a
portati affettivi e immaginativi;
- chiedono alla maestra più
compiti di matematica rispetto a
quelli assegnati;
- la maestra usa molti degli
strumenti suggeriti durante
il percorso Mammut anche
durante le normali giornate a
scuola.
- i bambini esprimono benessere
durante le ore di matematica
- molti dei comportamenti più
esuberanti e divergenti hanno
trovato adeguata canalizzazione
anche grazie al sistema narrativo
e di creazione matematica
avviati nel percorso col Centro
Mammut.
griglia indicatori
5° circolo didattico “eugenio montale” classe: II B
servizio prescelto: giardinetto davanti al cancello della scuola
Insegnante: Marisa Damiano
tutti in cerchio
di Rossana Sanges, maestra della scuola “Eugenio Montale”
Sull’Isola dei bambini,
anche se si trova sotto l’Orsa Maggiore,
splende sempre la Croce del Sud.
Fabrizia Ramondino L’isola dei bambini
Tre
164
L
a mia ombra misura sette piedi di Samuele – dice Ciro ad alta voce, così
da consentire a Giovanni di registrare la misurazione effettuata. Altre
voci si sentono per registrare la – misura delle ombre.
È un mercoledì di novembre quando nella piazza Giovanni Paolo II, che
io amo chiamare ancora “Piazza dei quattro venti”, viene effettuata la misurazione delle ombre.
Gli alunni si dispongono a coppie di due e, con minuzia e precisione,
piede dopo piede, attenti a non sbagliare e ripetendo più volte per essere
precisi, misurano l’ombra che il sole traccia sul selciato.
Sembra un gioco e nel vederli così impegnati le poche persone che passano di lì, sorridono, forse ricordando quando anche loro andavano a scuola. È ancora una piazza non molto frequentata, ma ci sono voluti anni e
molto impegno perché la si sentisse un luogo di incontro. E naturalmente
i bambini sono quelli che ci riescono meglio. Hanno fatto talmente tante
esperienze in questi due anni nella piazza e nel centro del Mammut, che
portano con loro non pochi ricordi.
La voce di Mattia è lontana ma chiara - Maestra il sole si muove!
– No, Mattia, il Sole non si muove, sei tu che non stai fermo un attimo!
Anche per me le esperienze che facciamo insieme nascono come un gioco, ma poi mi accorgo di quanto sono importanti per tutti noi, anche per
gli educatori mammuttiani.
Così ricordandomi del saluto al sole, che spesso facevo quando ero più
giovane, propongo loro di fermarsi per mettersi in cerchio. Nella grande
Piazza il cerchio disegna tutte le nostre ombre che si sovrappongono e che
si sfiorano sinuose. Ricordo ai bambini che abbiamo studiato già che non è
il sole a muoversi ma è la terra che gira intorno al sole e inizio a raccontare
di quando Nonno Sole si è incontrato con nonna Luna e hanno dato vita a
Padre Cielo e Madre Terra. È un racconto affascinante tratto dalla mitologia degli Amerindiani.
Il racconto mitologico serve per evocare interesse, per trasportare i bambini in un passato lontano e immaginifico, ma pieno di verità. Poi chiedo
loro di staccare le mani dal cerchio e di disporsi con il viso verso il sole che
campeggia caldo e riscalda la fredda mattinata. Sono le 11 e i bambini si
muovono al comando delle mie parole con semplicità e senza incertezze,
come se avessero fatto già mille volte questo esercizio e invece, è la prima
volta ed è un attimo che dura ore… Vederli impegnati, divertiti, felici, contenti di aver trascorso una giornata diversa fuori dalle pareti scolastiche
non solo mi rende soddisfatta, ma anche consapevole che se non si parte
dalle esperienze di vita l’apprendimento non ha valore, è asettico, nozionistico.
Abbiamo lavorato per molte settimane su questa esperienza, scrivendo
e descrivendo, contando e misurando, cantando e conversando e i giorni
freddi di novembre non ci sono sembrati tristi, perché ogni giorno il sole,
che aveva riscaldato i nostri cuori nella piazza quella mattina, riscaldava le
nostre anime comunitarie e ci infondeva l’energia necessaria per imparare
da noi stessi le cose della vita.
Gli amici del Mammut mi hanno insegnato a essere una migliore educatrice, a scoprire che senza entusiasmo per ciò che si fa, senza amore per
questa professione non è possibile trasferire ai bambini che proprio questa
è la carta vincente per vivere la vita comune. Tonino con le sue storie mitologiche, Alessandra con i suoi riti sugli elementi, e Giovanni mago incantatore fanno alta educazione e donano a tutti con sorrisi e divertimenti i
migliori metodi per apprendere la vita.
Le evocazioni di ciò che si è ascoltato interagiscono con l’esperienza
di quello che si è fisicamente vissuto, mettendo insieme ascolto e azione,
“azionando l’ascolto” che, pur essendo perché esperienza di chi racconta,
viene elaborato creativamente attraverso “il fare”.
Il dialogo che si crea dentro ogni individuo attraverso i principi dell’ascolto attivo di Rogers e Gordon, attiva la presa di coscienza del proprio stile di
apprendimento, delle proprie capacità e della naturale attenzione verso il
gruppo, visto che tutti i componenti partecipano alle attività.
I luoghi dell’apprendimento diventano vari: aula ma anche strada, piazza, come naturalmente avviene nel corso della nostra vita e infine i tempi
non sono compressi come quelli scolastici, ormai ridotti al lumicino. Ma si
attivano anche durante le ore che non si trascorrono nell’edificio scolastico.
Tutto questo non viene dall’improvvisazione di alcuni giovani educatori, né dalle nostre esclusive creatività. È immerso nelle esperienze di grandi
pedagogisti, donne e uomini che hanno creduto nel potere dell’educazione,
in una scuola di esperienze educative che a Napoli non ha eguali, che viene
da lontano e che nel nome di Fabrizia Ramondino o Felice Pignataro si
ritrova insieme in un mutuo-aiuto di kropotkiniana memoria.
Universi
165
Aumento numero di alunni
e alunne che migliorano le
competenze/conoscenze,
in particolare rispetto ad
astronomia ed ecologia;
maggiore interesse verso
geometria, equilibrio e fisica
(del suono ma non solo)
Riduzione percentuale di
fattori e sintomi di malessere
psico-fisico legati alla
presenza a scuola (alunne e
alunni)
I bambini e le bambine
hanno dimostrato maggiore
dimestichezza e familiarità con
la scrittura e la teatralizzazione
di storie; hanno dimostrato di
aver interiorizzato elementi
di ecologia e astronomia,
riportando molti episodi in cui
questi elementi ritornavano
anche nella vita extrascòlastica
(es. in vacanza).
Alunno Y: considerato Bes
(Bisogni educativi speciali),
è migliorato tanto rispetto al
rendimento scolastico quanto
alle problematiche sociali e
comportamentali registrate
a inizio percorso. Oltre
alla partecipazione anche
ai laboratori pomeridiani
presso il Centro Mammut, al
miglioramento ha contribuito il
percorso di cura medica che sua
madre ha potuto esperire grazie
all’ambulatorio di medicina
integrata gratuito tenuto dal
dottor Vincenzo Esposito presso
il centro Mammut stesso.
Esempio di regia educativa da
parte dell’équipe di lavoro,
che ha tenuto dentro ciascuno
degli attori in causa: alunno,
insegnante, genitore e medico.
Nello scarabocchio musicale
i bambini ricordavano le
differenze tra suoni acuti e
alti e riuscivano a compiere
collegamenti rilevanti senza
difficoltà tra suono e colore. In
quell’occasione abbiamo potuto
verificare sensibili progressi sulla
percezione del suono e della luce
come onde.
La maestra lavora sui punti di
forza degli alunni e delle alunne,
questo dà loro forza e fiducia
in se stessi, cosa che risulta
nelle dinamiche di gruppo e
individualmente nel rapporto
con la scuola e la maestra
(rapporto empowerment/
rendimento).
griglia indicatori
5° circolo didattico “eugenio montale”, classe: III B
servizio prescelto: giardinetto davanti alla scuola
insegnante: Rossana Sanges
la mia esperienza
di Carmela De Lucia, maestra della scuola “J.F. Kennedy”
Uno dei compiti dell’educazione è quello di aiutare a trasformare
un’interdipendenza di fatto in una solidarietà in cui si entri
liberamente. A tale scopo, essa deve mettere in grado di capire se stessi
e di capire gli altri attraverso una migliore comprensione del mondo.
Episodi in cui a scuola si
rilevano i principali elementi
caratterizzanti la scuola
attiva
• Cooperazione con la maestra
De Lucia, con l’insegnante
Accardo
• Utilizzo di Miti e storie,
cerchio, valutazione “salutare”,
lo sfondo integratore centrato
sul tema della Porta, lavoro
sugli indiani d’America: lavoro
didattico che ha tenuto insieme
le diverse dimensione della
persona (cognitiva, corporea,
affettiva).
Numero di genitori che
percepiscono la scuola in un
modo diverso dallo standard
Lavoro di cura rispetto
alla triangolazione scuolafamiglia-territorio (non ultima
la giornata di restituzione
collettiva dove sono intervenute
anche le mamme).
Mamme, papà e nonne
partecipano alla progettazione
dello spazio da trasformare
nell’ambito de “Il Mito del
Mammut”.
Jacques Delors, Nell’educazione un tesoro
M
i chiamo Carmela De Lucia, sono una docente di scuola primaria e
insegno in una realtà, Scampia, che nell’accezione comune è considerata “a rischio”, “difficile”. Non voglio tediarvi con la lista dei luoghi
comuni su questo quartiere, ma anzi posso affermare, alla luce del mio
percorso, che si può fare scuola a Scampia e che forse è bene sfatare qualche
mito su questo territorio, se si ha rispetto dell’altro, chiunque esso sia, e
della sua cultura di appartenenza. Il rispetto del sapere popolare allora richiama al rispetto del tessuto culturale. Il contesto locale degli educandi è il
punto di partenza per capire come essi stanno costruendo il loro mondo. Il
loro mondo “in ultima analisi è la prima inevitabile miniatura del mondo
stesso” (Paulo Freire, Pedagogia della speranza, EGA 2008).
La ricerca-azione alla quale ho partecipato e che mi ha permesso di sperimentare una collaborazione fattiva sia con il Centro territoriale Mammut, sia con altri insegnanti ha dato alla mia quotidianità di docente supporto e inventiva, riuscendo a smuovere quei freni e quei blocchi che spesso
accompagnano chi fa il mio mestiere.
Le domande di partenza sono state: la scuola può generare benessere?
Può essere una palestra di creatività e di salute mentale e fisica?
Insieme ad alcuni amici ho provato ad andare in questa direzione e posso affermare che ciò è possibile. E provo a spiegarvi perché.
Sono un’insegnante “prevalente” di una terza elementare, composta da
18 alunni, di cui uno con certificazione di Disturbo specifico dell’apprendimento, l’unico che ancora presenta difficoltà nella lettura e nella scrittura
autonoma.
Sin dal primo incontro ho cercato di instaurare un rapporto fattivo e
diretto con i genitori dei miei alunni, ho chiesto la loro collaborazione, che
è risultata fondamentale per lo svolgimento della ricerca, che partendo da
un’ipotesi generale, il rapporto tra didattica e benessere psico-fisico, si è
snodata in diverse tematiche, affrontate dai vari componenti del gruppo
di ricerca.
Universi
167
Tre
168
In particolare abbiamo deciso di vagliare questa ipotesi: può uno spazio
aiuola diventare una porta tra comunità interne ed esterne alla scuola, facendosi specchio del cielo e dei suoi mutamenti? (L’aiuola a cui mi riferisco
è quello spazio nel cortile interno della scuola che abbiamo deciso di migliorare nell’ambito della sperimentazione giocosa e didattica denominata
Il Mito del Mammut.)
Il cielo, la scuola, i mutamenti, lo spazio… tutte parole che all’inizio mi
sono sembrate sconnesse, ma soprattutto “fuorvianti” e lontane dalla mia
programmazione, i miei obiettivi specifici, lo sviluppo delle competenze
dei miei alunni.
Questa confusione è durata solo un po’, perché quotidianamente ho
iniziato a cogliere le connessioni e ho capito che il “fare scuola” si snoda
in piccoli passi e piccoli “tentativi”, che dovevo demolire consuetudini e
abitudini sbagliate e aprirmi allo spazio esterno, sia mentalmente che fisicamente, collaborando con le realtà territoriali presenti nel quartiere.
Abbiamo iniziato prima a stravolgere lo spazio fisico dell’aula, la cattedra al muro, i banchi uniti per formare un unico tavolo di lavoro, la flessibilità dei posti e dei compagni, la complicità delle scelte… e tutto questo ci
ha portati a sentirci un gruppo che quotidianamente e democraticamente
prendeva decisioni su comportamenti e attività. Poi siamo diventati vagabondi: l’aula non era più uno spazio chiuso, ma una realtà che si materializzava ogni qualvolta si presentava una situazione di apprendimento, ovvero
aula-giardino, aula-cortile, aula-piazza, aula-porta della città, aula-centro
territoriale e via di seguito.
Come afferma Ivan Illich, “è fuori della scuola che ognuno impara a
vivere. Si impara a parlare, a pensare, ad amare, a sentire, a giocare, a bestemmiare, a far politica e a lavorare, senza l’intervento di un insegnante.”
I miei alunni hanno sperimentato attività manuali, quale il giardinaggio, la costruzione di mattonelle, la realizzazione di un calendario murale
coinvolgente ed evocativo di emozioni ed esperienze, passeggiate nei mercatini stranieri della città, momenti di gioco, momenti di osservazioni e
riflessioni.
In questo anno di ricerca-azione con il Mammut, ci sono stati dei percorsi bellissimi e intensi come: la visita guidata ad alcune piazze della nostra
città sotto la guida degli alunni della scuola serale di Yasmine; il “momento
del fare” condotto da Alberto che ci ha aiutato a comporre un mosaico su
una parete della nostra aiuola, le varie osservazioni-rilevazione del tempo e
del cielo, i bellissimi racconti delle mamme sui ricordi della loro infanzia,
il momento corale della rappresentazione del mito di Proserpina, i cerchi
fatti alla fine di ogni giornata laboratoriale.
Non sono mancati i momenti di condivisione e di sintesi con gli operatori del Mammut, il confronto e le interviste di Alessandra, le riprese di
Claudia, le drammatizzazioni di Tonino, la disponibilità di Chiara ed Alessandra e l’atteggiamento non giudicante di Giovanni e la sua maestria nel
condurre il gruppo sia come maestro che come giullare e tanti altri.
Tutte queste attività hanno dato mordente al mio lavoro didattico e
mi hanno consentito di osservare i miei bambini in attività che se svolte
tradizionalmente non mi avrebbero permesso di cogliere certe sfumature
di sensazioni, sentimenti e percezioni. I ritmi della scuola lasciano spesso
poco spazio alla riflessione, alla visione multi speculare di chi ti è di fronte
e dei suoi reali bisogni.
Non vorrei peccare di presunzione, ma anch’io mi sono vista sotto una
luce diversa, quella dello sguardo assorto e interessato dei miei alunni, che
si perdevano nei miei racconti e nelle mie lezioni. Sì, lezioni perché questi
momenti sono risultati molto vantaggiosi nelle attività “curriculari” dove
l’apprendimento veniva richiamato al suo ruolo istituzionale, ma sempre
scevro da dogmatismi e categorizzazioni.
Infatti ci siamo sentiti in salute, abbiamo avvertito il benessere, del fare e
del pensare, lo star bene nel gruppo e fuori dal gruppo, e anche quei compiti istituzionali sono risultati meno banali e più proficui.
Le relazioni all’interno della classe sono state e sono in crescendo, in
modo particolare un bambino che mi chiedeva aiuto e comprensione attraverso atteggiamenti di aggressività di ritrosia, ha modificato il suo comportamento. Oggi è meno aggressivo, sopporta le frustrazioni e dopo un
rimprovero accetta il confronto e il punto di vista dell’altro, ma ciò che è
evidente sorride e “sta bene” a scuola.
I genitori, poi, hanno accompagnato sia fisicamente che moralmente
questa nostra esperienza, si sono dati da fare per essere al nostro fianco,
hanno collaborato alla stesura dei cartelloni, sono venuti al centro e hanno
raccontato le loro storie, le loro emozioni.
La pedagogia è scesa dalla cattedra, ha preso sembianze umane, come
in un mito greco tutto si è umanizzato dando spazio al fare, al vedere, al
sentire, al capire. Ma soprattutto al cambiamento creativo e alla costruzione di un percorso verso l’acquisizione del pensiero divergente, del pensiero
creativo, del benessere fisico e mentale di tutti gli attori in gioco.
Universi
169
Numero di episodi in cui i
genitori riconoscono che
la scuola non serve solo ad
insegnare/ apprendere a
leggere a scrivere
Miglioramento prestazioni
scolastiche/ episodi in cui
si rileva un incremento del
benessere a scuola
• Maggiore fiducia accordata
alla maestra da parte delle
mamme, rispetto al suo non
utilizzo del voto e a molte altre
sue.
Nelle giornate di verifica, i
bambini dimostravano di
aver interiorizzato elementi
di ecologia e astronomia,
riportando molti episodi in cui
questi elementi ritornavano
anche nella vita extrascòlastica
(es. durante le vacanza).
• Maggiore partecipazione
alle azioni collettive delle
mamme (condivisione delle
azioni rientranti ne “Il Mito del
Mammut”, cartelloni da loro
realizzati in cui si narra del mito
di Proserpina, partecipazione al
laboratorio al Centro Mammut).
• L’insegnante dà
appuntamento alle mamme
nello spazio aiuola per eventuali
comunicazioni.
La bambina Y, disgrafica,
migliora anche grazie al
lavoro svolto nei pomeriggi al
Mammut. Ciò le conferisce
maggior autostima.
Momenti di osservazione dello
spazio esterno e riflessione
critica.
griglia indicatori
i.c. “j. f. kennedy”, classe II E
luogo prescelto: aiuola nel cortile della scuola
docente: Carmela De Lucia
Incremento episodi in cui
le insegnanti fruiscono del
patrimonio di altre scuole/
classi. N° episodi in cui le
insegnanti percepiscono un
minor isolamento rispetto
alla scuola e alle colleghe
(anche di altre scuole)
Riduzione percentuale di
fattori e sintomi di malessere
psico-fisico legati alla
presenza a scuola (maestra)
Riduzione percentuale di
fattori e sintomi di malessere
psico-fisico legati alla
presenza a scuola (alunne e
alunni)
• utilizzo dell’aula diffusa
al Centro Mammut come
nello spazio aiuola durante il
laboratorio condotto da Alberto
Ippolito a maggio 2014 dove si
è ragionato su: cemento – usi e
composizione, che vuol dire?
realizzazione di mattonelle e
abbellimenti da esterno;
• cooperazione con le maestre
Gambocci e Sanges, con
l’insegnante Accardo;
• utilizzo di Miti e storie,
elementi di filosofia per
bambini;
• diario quotidiano sul come ci
si sente e si sta a scuola.
La maestra prova maggiore
autostima, si sente più sicura e
meno isolata rispetto al contesto
sia scolastico che relazionale e
professionale
L’alunno X a inizio percorso
era molto irrequieto e sembrava
molto spesso “irraggiungibile”,
ma soprattutto chiuso nella
roccaforte delle sue convinzioni
e di atteggiamenti aggressivi.
A fine percorso è cambiato positivamente il suo rapporto con
il gruppo classe e con gli adulti,
si è aperto al dialogo, si distrae
meno, è più concentrato nelle
prestazioni; con i compagni è
diventato collaborativo, e non
ama più prendersi gioco dei più
deboli. Il suo rendimento scolastico è migliorato.
Oggi è meno aggressivo, sopporta le frustrazioni e dopo un
rimprovero accetta il confronto
e il punto di vista dell’altro, ma
ciò che è evidente sorride e “sta
bene” a scuola.
L’insegnante dichiara che il
benessere che prova nello stare in
quella scuola, con la sua classe, è
trasferito nella pratica didattica,
restituendo motivazione,
interesse e partecipazione.
Il clima relazionale è diventato
positivo. I bambini accettano
i compiti e sono diventati
più critici nei confronti di
episodi di disturbo del percorso
apprenditivo. Di conseguenza la
docente riceve da loro continue
conforme rispetto al fatto che il
suo fare scuola li coinvolge e che
non è semplice trasmissione di
saperi, ma un dare e un avere
continuo, dove molto spesso il
piano di scambio è interconnesso
e gli oggetti non sono le
competenze ma le conoscenze,
viste come chiavi di osservazione
dello spazio-realtà e dello spazio
del vissuto quotidiano e di
esplicitazioni di emozioni, di
sentimenti e di riflessioni.
In generale il gruppo classe
ha potenziato “qualità della
presenza e frequenza scolastica”,
aumentando il grado di benessere collettivo: non c’è rivalità
finalizzata a se stessa, ma solo
voglia di emergere per far sentire
la propria voce e partecipare al
processo di crescita, che non è
mai del singolo ma di tutti.
La classe si è compattata, il tono
è sempre fondato sul “cogito”,
sulla continua valutazione, rivalutazione e riflessione sulla strada che si sta percorrendo; ogni
incrocio diventa un ventaglio di
possibilità, un avvistamento di
nuovi orizzonti e di rinnovate
visioni. Spesso ci si confronta
solo per capire se si è sulla strada
giusta, se quello che si fa va bene
ed è stimolante.
indicatore extra
È l’ultima giornata di questo ciclo al Mammut e mentre i bambini stanno
disegnando pezzi della propria storia facciamo quattro chiacchiere con la maestra Marisa.
Tre
– Ma insomma Marisa, tutto questo lavoro ti è servito a qualcosa?
– Sono dei mostri!!! Non vedi? Quanto fa 24 x 4?
Subito una voce: 96!
– Vedi? Ti premetto che in questa zona sono in genere bravi con la matematica. E io in matematica me la cavo piuttosto bene. Ma quello che è
successo con loro è che affrontano la matematica con gioia. Senza paure
e con gioia. Negli altri progetti in genere questo scatta per qualcuno e per
qualcun altro no. Ma qua invece è qualcosa di comune a tutti. Gli do per
compiti tre addizioni e loro dicono: ma così poco?!
Ho quattro tirocinanti in questo momento. Loro mi dicono: “Ma come
è possibile che questi sono così bravi?!”
Anna non sapeva niente di matematica e guarda ora:
“com’è la matematica?” chiede ad Anna la maestra Marisa.
“Bella!”. Risponde lei pronta.
– Visto? Non dicono facile. Dicono bella.
incontro lancio
de il mito del mammut
percorso per ogni scuola
ingredienti: proiettore, dvd,
fogli, pennarelli, giochi, canti,
storia di Alì Babà e i quaranta
ladroni
programmazione
10.30 - 10.45 giochi e canto
10.45 - 11.10 proiezione del
video su Hapy Hour/cerchio
presentazione su “cos’è Il Mito
del Mammut”?
• cerchio: inchiesta territoriale
su spazi e servizi pubblici da
trasformare
11.10 - 11.30 biglietto/racconto
autobiografico: un momento
in cui sono stato bene o
male a scuola. I partecipanti
devono disegnare e scrivere un
aneddoto su foglietto, avranno
così il biglietto per partecipare
al racconto teatrale che segue.
11.30 - 12,00 • racconto teatrale
Alì Babà e i quaranta ladroni
• consegna: disegna una porta
che vorresti aprire + parola
magica per aprire questa porta
12,00 - 12,30 • cerchio chiusura
con gioco, canto, ballo e parola
magica del disegno
indicatori
• Raffronto biglietti “sto bene
sto male”
• Numero e qualità dei
partecipanti
• Mutamento di spazi e servizi
Carmela De Lucia – I. C. 58° “J.
F. Kennedy”
scheda:
scuole al mammut
sede: mammut
tappa 1: 19 Marzo 2014
Nr. insegnati: 1
Nr. partecipanti: 18
Ingredienti: giochi di
presentazione; Mito di
Proserpina; tempere, fogli e
pennelli; pennarelli.
Struttura laboratorio:
9,00-9,40 Accoglienza:
cartellone, giochi, canti e balli;
9,40 - 10,00 uscita dal centro
Mammut e misurazione
dell’ombra;
10,00 - 10,20 rientro, confronto
tra la misurazione dell’ombra e
l’ipotesi su come cambierà nel
prossimo incontro
10,20 - 10,45 merenda e gioco
libero nella mediateca
10,45-11,00 realizzazione
biglietto: racconto su una
pianta che ti è rimasta impressa
e perché
11,00 - 11,25 racconto del Mito
di Proserpina
11,25 - 11,45 cerchio di
confronto sul Mito di
Proserpina
11,45 - 12,15 disegno della scena
che è piaciuta di più
12.15 - 12,30 saluti
tappa: 26 Marzo
Nr. insegnati: 1
Nr. partecipanti: 18
ingredienti: giochi all’aperto;
creta; pittura; pennelli
9,00 - 9,25 Accoglienza e giochi
9,25 - 9,55 Misurazione ombra
e discussione su come e perché
sia variata
9,55 - 10,20 Merenda e gioco
libero
10,20 - 11,00 Arrivo delle
mamme che raccontano le loro
storie legate alle piante
11,00 - 11, 15 Disegno con pittura
di una delle scene delle storie
delle mamme
11,15 - 11, 35 Gioco libero
11,35 - 12,20 Creazione vasi
e mattonelle di creta su cui
incidere la scena del disegno
fatto la scorsa volta sul Mito di
Proserpina
12,20 - 12,30 Che lascio e che
porto, saluti
tappa: 2 aprile
Nr. insegnati: 1
Nr. partecipanti: 18
Ingredienti: giochi di gruppo;
giochi all’aperto, pittura vasi
9,00 - 9,40 Accoglienza e giochi
9,40 - 10,15 Misurazione
dell’ombra e verifica delle
ipotesi/ tesi fatte nel secondo
incontro dopo la prima
variazione
10,15 – 10,50 Merenda e gioco
libero
10,50 – 11,40 Pittura dei vasi e
delle mattonelle
11,40 – 12,05 Cerchio sul
resoconto del percorso al
Mammut
12,05 – 12,15 Che lascio e che
porto
12,15 - 12,30 giochi di saluto
28 Maggio. Giornata di
condivisione finale
Nella giornata di condivisione
del percorso Mammut, i
bambini hanno recuperato
le mattonelle che avevano
dipinto e, con l’aiuto di Alberto
Ippolito, le hanno attaccate al
muro esterno vicino allo spazio
aiuola della scuola. Sono poi
arrivate le mamme che, insieme
ai bambini, hanno affisso sul
muro esterno d’ingresso, dei
cartelloni realizzati da ciascuna
di loro a casa con il proprio
figlio o figlia. Ogni cartellone
rappresentava una scena
della storia che aveva fatto da
sfondo integratore al percorso:
il Mito di Proserpina. Per
fi nire, Tonino ha raccontato a
mamme e bambini, seduti sui
gradini di uscita della scuola, la
storia di Orfeo ed Euridice.
Elvira Quagliarella – I.C.
”Virgilio 4”
tappa 1: 3 febbraio
Nr. insegnati: 1
Nr. partecipanti: 21
Ingredienti: giochi di gruppo;
fogli; pennarelli, pittura,
pennelli, Mito della Caverna di
Platone; teli e ritagli oggetti per
ombre cinesi, lampada.
9,00 - 9,30 Accoglienza e gioco
9,30 - 10,00 Merenda e gioco
libero
10,00 -10,45 Biglietto su “una
porta chiusa che vorrei aprire”
10,45 - 11,05 Racconto “La
caverna di Platone” con ombre
cinesi
11,05 - 11,25 Cerchio di
discussione sulla storia e
sul fatto se sia giusto restare
“dentro” la caverna con gli
amici o uscire fuori lasciandoli
11,25 - 11,55 Disegno con pittura
di un momento della storia che
gli era piaciuto
11,55 - 12,15 Condivisione dei
disegni in cerchio
12,15 - 12,30 Saluti e rito
chiusura
tappa 2: 10 febbraio
Nr. insegnati: 1
Nr. partecipanti: 21
Ingredienti: sacco contenente
oggetti, giochi all’aperto,
esperimento scientifico
(ghiaccio, acqua calda, fi l di
ferro)
9,00 - 9,20 Accoglienza e giochi
in cerchio
9,20 - 9,45 Gioco tatto e
sensazione (toccare qualcosa
che c’era in un sacchetto e
senza sapere cosa fosse provare
a dire colore, a cosa serve e una
parole che ti viene in mente)
9,45 - 10,15 Merenda e gioco
libero fuori
10,15 – 10,40 Esperimenti su
solido liquido e gassoso:
ghiaccio, acqua calda, fi l di
ferro, fuoco.
10,40 - 10,55 Divisione in 3
gruppi (solidi, liquidi e gassosi)
per sfida e giochi a squadre
10,55 - 11,20 Divisione in 3
stanze, ogni gruppo ha la stessa
consegna: siete in una stanza,
la porta è bloccata, il tetto pian
piano si abbassa, fuori dalla
porta c’è una persona che può
aiutarvi ma non sa che voi siete
bloccati dentro e per di più
è sordo, cieco e muta. Come
far capire a questa persona di
aprire le porta e salvarci? (uso
degli esperimenti fatti prima o
di ipotesi di passaggi di stati)
11,20 - 11,30 Cerchio su soluzioni
trovate
11,30 - 12,00 Giochi teatrali
12,00 - 12,20 Condivisione
disegni fatti nel primo incontro
su storia caverna. Restare o
scappare?
12,20 - 12,30 Che lascio e che
porto; rito chiusura
tappa: 24 febbraio
Nr. insegnati: 1
Nr. partecipanti: 21
Ingredienti: giochi a squadra,
musica, giochi teatrali
9,00 - 9,30 Accoglienza e giochi
fuori dal Mammut a squadre
9,30-10,30 Visualizzazione della
propria “caverna”. Il posto
buio da dove uscire; chi e cosa
vogliono fuori e/o dentro.
Sdraiati a terra con musica
e poca luce, viene chiesto di
immaginarsi nella caverna e
cosa loro avrebbero fatto. Dopo
la visualizzazione, viene chiesto
di dire una parola chiave del
“viaggio” che avevano fatto
(libertà, morte, paura, buio,
nonno, papà, sbarre)
10,30 - 10,50 Disegno della
visualizzazione
10,50 - 11,30 Merenda e gioco
libero sotto le colonne
11,30 - 11,55 Cerchio su
condivisione disegni
11,55 - 12,10 Che porto e che
lascio
12,10 - 12,30 Condivisione
dell’esperienza e saluti
10 Aprile. Giornata di
condivisione finale: tavola
rotonda “La porta del carcere”
Indicatori: tasso dispersione
prima e dopo l’esperienza;
benessere degli alunni e delle
maestre; sblocco didattico
diretto (quello fatto con noi su
liquidi solidi ecc.) e indiretto
(grazie allo sblocco emotivo
conseguente ai laboratori).
Miglioramento servizio
carcere: rielaborazione
individuale e di gruppo delle
tematiche interiori relative ai
propri familiari detenuti.
Rosaria Pica - I.C. 28°
“Giovanni xxiii- Aliotta”
incontro lancio:
Giovedì 7 novembre
tappa: 15 gennaio (2 ore)
Nr. insegnati: 1
Nr. partecipanti: 20
Ingredienti: giochi teatrali
10,00 - 10,20 Cerchio iniziale
su cosa sia il Mammut e sul
perché si faccia a scuola e non
in sede
10,20 – 10,50 Giochi teatrali di
movimento con classe liberata
dai banchi
10,50 - 11,05 Cerchio su cosa non
dovesse mancare nel mural
che avremmo realizzato sulla
parete della classe
11,05 – 11,15 Che titolo darebbero
a dei libri da disegnare nel
mural?
11,15 - 11,45 Gioco su movimento
con sedia
11,45 - 12,00 Rito di chiusura
tappa: 29 gennaio (2 ore)
Nr. insegnati: 1
Nr. partecipanti: 20
Ingredienti: giochi teatrali,
fogli e pennarelli
10,00 - 10,30 Giochi
movimento/teatrali con classe
libera dai banchi
10,30-11,00 Divisione in 3 gruppi
e gioco: indovina il codice
segreto dell’altra squadra;
perché si fermano e partono
tutti insieme, qual è il loro
codice segreto?
11,00 - 11,30 Teatralizzazione:
imitare un personaggio
storico/mitologico, studiato
o meno, che gli altri gruppi
devono indovinare
11,30 – 11,45 Riprendere ciò che
desideravano comparisse nel
mural e farne una bozza su
foglio con pennarelli
11.45 - 12,00 Cerchio su “quale
classe aiutiamo?
12,00 - 12.10 Cerchio fi nale e
saluto
indicatori:
Miglioramento aula
Miglioramento auto-efficacia
per modificazione verificata
dell’aula con conseguente
maggiore fiducia nel
cambiamento possibile
Miglioramento didattica e
frequenza scolastica
Mutamento modo di utilizzare
l’aula
Rossana Sanges - 5° Circolo
Didattico “E. Montale”
incontro lancio:
giovedì 24 ottobre
tappa: 21 novembre
Nr. insegnati:1
Nr. partecipanti: 20
Ingredienti: saluto al sole, Mito
Orfeo e Euridice, bende, gioco
libero, musica, giochi teatrali
9,30 - 10,00 Misurazione ombra
e saluto al sole
10,00 - 10,15 Cerchio: se e come
cambia l’ombra al prossimo
incontro
10,15 - 10, 40 Merenda
10,40 - 11,00 Cerchio: un buio
che hanno vissuto, “quella volta
che improvvisamente tutto
si è fatto buio e…” scritto e
disegnato
11,00 - 11,20 Racconto di Orfeo
e Euridice
11,20 - 11,35 Corsa bendati
e gridare cosa si prova
(emozione)
11,35 – 12,10 Gioco libero
12,10 – 12,40 Sperimentazione
su suoni acuti e bassi tramite
giochi movimento/teatrali
12,40 – 12,55 Rito di chiusura
12,55 - 13,00 Saluti
tappa: 27 novembre
Nr. insegnati: 1
Nr. partecipanti: 20
Ingredienti: saluto al sole,
gioco libero, storia del creatore
di colori, giochi teatrali,
strumenti per la sperimentare
di suoni
9,30 - 10,00 Accoglienza e
giochi
10,00 - 10,15 Misurazione ombra
e saluto al sole
10,15 - 10,35 Cerchio su
variazione dell’ombra e ipotesi
del perché sia cambiata
10,35 - 11,00 Gioco libero sotto
le colonne
11,00 - 11,15 Merenda
11.15 – 11,30 Cerchio “chi ti salva
dal tuo momento di buio”
11,30 – 11,45 Storia del creatore
dei colori
11,45 – 12,10 Strumenti per
sperimentazione suoni alti
e bassi con giochi (bottiglie
acqua riempite sempre meno,
tappi, corde, latte) stop/ go a
secondo dei suoni percepiti
12,10 – 12,35 Colore associato
al suono. Bendati sentendo
una musica dovevano usare il
colore che loro ritenevano più
adatto ad un suono basso alto
12,35 – 12,45 Cerchio
condivisione disegni usciti
12,45 - 13,00 Rito saluto
indicatori:
Connessione con Natura in vita
di tutti i giorni
Acquisizione modalità
ragionamento scientifico
fi losofico in classe e fuori classe
Modificazione stili di vita verso
maggiore eco-compatibilità
Miglioramento porzioni
territorio scelte all’inizio
Clementina Gambocci - I.C.
Ilaria Alpi
tappa 1: 2 dicembre
Nr. insegnati: 2
Nr. partecipanti: 23
Ingredienti: pennarelli, fogli,
giochi, storia di Dio e Diavolo,
tempere, pennelli
9,00 - 9,30 Accoglienza e giochi
9,30 - 9,45 Biglietto per storia
9,45 - 10,20 Merenda e gioco
libero
10,20 - 10,35 Storia del dio e
diavolo che lo aiutò a creare il
mondo
10,35 - 10,50 Cerchio su “voi
siete mai stati ingannati?”
10,50 - 11, 20 Gioco libero
11,20 - 11,45 Disegno scena
storia e del loro ingannatore
11.45 - 12,00 Rito chiusura
tappa 2: 9 dicembre
Nr. insegnati: 2
Nr. partecipanti: 23
Ingredienti: storia lupo e luna,
pittura, fogli, pennelli, giochi
MammutBus
9,00 - 9,30 Accoglienza
9,30 - 10,05 MammutBus per
concorso
10,05 - 10,25 “Storia del lupo e
la luna”
10,25 - 10,40 Merenda
10,40 – 11,05 Gioco libero
11,05 – 11,25 Disegno “Storia del
lupo e la luna” con pittura
11,25 – 11,40 Condivisione
disegni
11,40 – 11,50 Che lascio e che
porto
11,50 - 12,00 Rito di chiusura
tappa: 16 dicembre
Nr. insegnati: 2
Nr. partecipanti: 25
Ingredienti: tempere, fogli,
pennelli, Dvd Avatar, giochi
teatrali
9,00 - 9,30 Accoglienza
9,30 - 9.45 Merenda
9.45 - 10 Caratteristiche
specifiche dell’ingannatore
disegnate
10,00 - 10.15 Caratteristiche
ingannatore teatralizzate
10.15 - 10.50 Gioco libero
10.50 - 11.10 Proiezione scena
Avatar
11,10 - 11,30 Discussione su
avatar e su rapporto natura/
uomo
11,30 – 11,45 Giochi di
movimento su natura
11,45 - 12,00 Rito chiusura e
saluti
incontri mammutbus
il genio eir ascòl
concorsi mammutbus
• un incontro laboratoriale
di 1 ora con tutte le scuole
partecipanti al mito,
riguardante il concorso
“storie di luce attorno al
camper”
Ingredienti: tempere, pennelli,
ortaggi, trucchi di magia,
video, telecamera, oggetti
travestimento, quadri famosi.
partecipanti: 22
insegnanti 1
ingredienti: MammutBus,
fogli, musica, pennarelli
Tappe: 7 incontri da febbraio
a marzo tutti i lunedì dalle ore
15.00 - 18.00
un incontro lancio - un
incontro chiusura
indicatori:
miglioramento stato di
benessere psicofisico
Frequenza
Maggiore dialogo tra rom e
napoletani
Premiazione MammutBus
di 2 h con le classi vincitrici
del concorso presso la scuola
primaria 5° C.D. “Eugenio
Montale”: classe II A e III B
scuola “Eugenio Montale” n.
38 bambini/e + 2 maestre; I.C.
28° “Giovanni xxiii-Aliotta”
n. 2 bambini + 1 maestra; V
B elementare I.C. “Virgilio
4” + 1 maestra n. 22 bambini;
giornalisti de “Il Mattino” n.
2 + Dirigente Scolastico della
scuola “Eugenio Montale”
• un incontro laboratoriale
di 2 h con tutte le classi
partecipanti a il mito del
mammut riguardante il
concorso mammutbus “una
giornata salutare”:
ingredienti: MammutBus,
fogli, pennarelli, musica
• un incontro laboratoriale
di 3 h con tutte le classi
partecipanti a il mito del
mammut riguardante il
concorso mammutbus
“aiuto/sgarrupo”:
ingredienti: video caccia
al tesoro mammut,
racconto romeo e giulietta,
MammutBus, musica, oggetti
storia, giochi MammutBus
storie
luci caverne
geni euridici
alla ricerca del genio eir ascòl
2. Succede che...
Genio Eir Ascòl stava andando sulla bici,
quando all’improvviso escono 2 mostri:
uno dalla conchiglia e l’altro dal tamburo
che aveva comprato al mercato e che era
un tamburo incantato.
Il mostro esce indossando la maschera
da amico Antonio e così lo inganna.
Il mostro ha rotto la ruota della bicicletta,
il genio è caduto e ha perso la memoria.
E siccome stava troppo lontano
non è più riuscito a tornare a scuola.
L’unica cosa che ricordava è che a scuola
c’erano tutti i suoi compagni che lo volevano
picchiare perché lui era il più forte,
il più genio, il più intelligente.
3. Il genio fugge dalla scuola con...
... con una palla argentata che si accendeva
con bacchetta magica e faceva uscire fumo luminoso.
... con un carro e una corda magica che quando
finiva la strada e c’era un precipizio lei,
la corda, diventava la strada.
... con una conchiglia che quando si girava
diventava una barca e ci usciva anche il mare da dentro.
... con una bicicletta che dove passava
aveva il potere di far crescere fiori.
6. Il genio detector
Sarà tornato il genio?
Questo non lo sappiamo, ma ci
è comparso uno strano apparecchio:
il genio detector, serve a misurare
il livello di magia e a vedere
se il Genio Eir Ascòl è arrivato
dentro al suo palloncino da viaggio.
“Come mai Euridice non lo
aiuta, guidandolo con la voce e
ricordandogli di non girarsi perché
lei è ancora dentro gli inferi? È giusto
che Orfeo non ami più nessun’altra
donna dopo aver perso per sempre la
sua? Zeus non poteva far risorgere la
sua amata?”
orfeo ed euridice
sul soffitto
“Ma Orfeo dove ha trovato
il coraggio di affrontare
l’inferno? Se il loro amore
era così bello, perché nessun
dio li ha aiutati?”
“E poi: ma una volta che Orfeo muore,
ucciso dalle Baccanti, va all’inferno e
quindi rivede Euridice o va in paradiso
e neanche dopo la morte la può
riabbracciare?”
“E se dovessimo continuare noi la storia,
Orfeo lo faremmo finire in paradiso,
beato ma solo, o all’inferno
ma in compagnia
del suo grande amore?”
“E... dove si trova
la costellazione della Lira?”
“A me nun me ne fotte, io vado fuori,
ce sta ’o sole, tutto il mondo
che ho scoperto. Se non vogliono venire
so’ fatti loro, io me ne vado!”
“Ma come hanno fatto a mangiare
per anni lì dentro se erano rinchiusi fin da
quando erano bambini? Sono nudi? “
“E soprattutto: se esce come fa
a vivere se non sa leggere e scrivere
e quindi non può lavorare?”
6. in piazza
dalla caverna
“Ancora oggi,
nessuno ha mai saputo
se quell’uomo
è uscito dalla caverna
o è rimasto dentro,
insieme agli amici...”
I
l lavoro sulla spazio pubblico ha molti vantaggi, primo tra tutti l’impossibilità di mentire a sé stessi e agli altri. E Piazza Giovanni Paolo II, se
paragonata a come l’abbiamo trovata otto anni fa, la dice lunga della strada
fatta sin qua. Se dal punto di vista materiale non è cambiato niente (niente di
tutto quanto avevamo suggerito al Comune di costruire è stato costruito e la
piazza rimane un ammasso spoglio di cemento), nessuno potrà dire lo stesso
per quanto riguarda le relazioni. Attraverso il presidio umano e la bonifica
dell’immaginario a cui abbiamo lavorato in questi anni, la piazza delle siringhe e della droga è diventata punto di riferimento importante per molti
cittadini, napoletani e non. Vi proponiamo alcune “istantanee” della piazza,
dentro e fuori al Mammut.
osservazioni in piazza
di Chiara Ciccarelli
una calda serata di luglio. Ore 22.30. Il laboratorio break è appena
finito, i ragazzi sono andati via. Mi preparo per andare anche io. Oggi
sono venuta senza macchina, quindi ritorno a casa a piedi. Attraversare la
piazza mi dà modo di osservarla, viverla e riflettere su come nel tempo sia
cambiata.
Ma facciamo un passo indietro.
Era il 2007 quando nelle nostre riunioni con le urbaniste Federica Palestino e Gilda Berruti si discuteva dell’importanza di scegliere dei punti
di osservazione dei luoghi su cui avevamo deciso di provocare un cambiamento; le osservazioni andavano ripetute nel tempo, sempre dagli stessi
angoli di visuale, annotate per iscritto e con foto.
È così che abbiamo cominciato a osservare quella che ben presto sarebbe
diventata la “nostra” piazza. Era stata consegnata ai cittadini solo un anno
prima, dopo essere stata a lungo un mega cantiere e una “stanza del buco
a cielo aperto”. All’epoca, benché fosse stata ripulita e “decorata” da un
maestoso colonnato bianco restava un “non luogo” frequentato solo da tossicodipendenti che si andavano a fare; in terra solo sangue e siringhe. Aveva
un nome anonimo, piazza dei Grandi Eventi, che ben presto decidemmo di
È
Racconti e domande dei bambini
delle scuole “Ilaria Alpi – Carlo Levi” e “Virgilio 4”
di Scampia e “Giovanni xxiii – Aliotta” di Chiaiano.
193
Tre
194
trasformare in “piazza dei Grandi Venti” dopo la ventata di energie portate
dalla Parata Par Tot di Bologna e da tutte le persone con cui costruimmo la
prima azione di piazza organizzata dal nascente Comitato Spazio Pubblico
di Scampia (http://comitatospaziopubblico.blogspot.it).
Nel novembre 2009 è il Cardinale Sepe insieme al Sindaco Iervolino a
ribattezzare ufficialmente la piazza dandogli un nome illustre,”Giovanni
Paolo II”, il Papa che nel 1990 venne in visita a Scampia e celebrò la messa
proprio lì, sulla collina della Villa Comunale che affaccia sulla piazza.
Mese dopo mese, anno dopo anno, le azioni nella piazza si sono susseguite, tra le cacce al tesoro del Mito, le iniziative realizzate insieme al
Comitato Spazio Pubblico, i concerti di Sfreno organizzati con i giovani,
le feste stagionali, i laboratori, le lotte con il Comune perché la rendesse
realmente pedonale limitando l’accesso a macchine e motorini.
Nel tempo il nostro presidio quotidiano ha fatto sentire questo spazio
più sicuro, vivo e da vivere, da giocare, percorrere a piedi e in bici, da colorare con murales. Gradualmente la piazza è cominciata a diventare un
luogo d’incontro non più per tossicodipendenti ma per tutte le famiglie e
i ragazzi che frequentavano il Mammut, e per le altre associazioni, gruppi
o chiese che ad utilizzarla hanno iniziato a provarci gusto. Gradualmente
abbiamo osservato come il nostro lavoro, insieme a quello del Comitato
spazio pubblico, stava trasformando l’immaginario e la rappresentazione
di questo luogo.
Ma è nel giugno 2014 che siamo stati testimoni di un’importante processo che ha segnato il conferimento di una nuova identità alla piazza. È come
se quel 27 giugno migliaia di persone del quartiere e della città si fossero
rese conto che quella piazza esisteva. In quel giorno si celebrava in piazza
il funerale di Ciro Esposito, il giovane tifoso napoletano ferito a Roma il 3
maggio 2014 prima della finale di Coppa Napoli-Roma.
Ciro era di Scampia ed è qui che dal 25 giugno, giorno della sua morte,
tutti i suoi amici hanno iniziato a radunarsi, proprio sul tetto del Mammut.
E con il passare delle ore si sono visti arrivare gruppi ultrà da tutte le parti
della città e da altre città italiane ed europee.
È stato affascinante osservare il comportamento di questi gruppi: silenziosi, compiti, anche se di una presenza imponente, fermi ad aspettare l’arrivo di Ciro previsto per il giorno dopo.
Per noi quel 25 giugno era un mercoledì normale, o quasi…
All’ora di pranzo vediamo la task force del Comune di Napoli capitanata dalla dottoressa Guidi, assessore dell’VIII municipalità, che compie
un sopralluogo nella piazza. Il responsabile del cerimoniale del comune di
Napoli, Sergio Mancini, che conosco bene, mi dice che il funerale di Ciro si
farà in piazza e che di certo avremmo dovuto prestare la corrente (naturalmente così è stato anche se nessuno ce lo ha chiesto ufficialmente).
Noi intanto ci prepariamo per la ciclofficina, pensiamo di farla fuori,
ma poi capiamo che è meglio stare dentro. Il clima, intorno a noi, è strano.
Tutte queste persone che arrivano. Visi stravolti. È successo qualcosa di
grosso…
Il pomeriggio va avanti, la ciclofficina è molto affollata. Alle sette comincia il laboratorio di break. A un tratto Genny, il fotografo, chiede di
abbassare la musica. Improvvisamente mi rendo conto che siamo al centro
di un tornado e che questa faccenda ci riguarda da vicino. Ricordo una sensazione simile quando mia nonna mi chiedeva di abbassare il volume della
tv ogni volta che moriva qualcuno del palazzo. Uso le stesse parole con i
ragazzi che fanno break quando gli chiedo di abbassare la voce. Non tutti mi capiscono. D’altronde anche io quando ero piccola non capivo bene
questa cosa.
Giovedì 26 giugno. Il corpo di Ciro è ancora a Roma per l’autopsia. La
tensione emotiva è alta ma il clima pacato e triste. Noi intanto regaliamo
metri e metri di un telone bianco che i ragazzi in piazza usano per fare gli
striscioni; ne avevamo un bel po’ per le nostre attività. In principio è Tonino, un caro amico nostro e di Ciro, a chiedercelo. Poi la voce nel quartiere
si diffonde e in un movimentato pomeriggio di laboratori con i bimbi vengono ragazzi da tutti i rioni a chiederci pezzi di striscione.
A un tratto arriva in piazza anche “Genny ’a Carogna” a capo di un
gruppo di circa venti motorini, Davide e Tonino raccontano la scena: è
davvero molto forte.
Il quartiere si riempie di striscioni, ogni rione il suo. In piazza c’è molto
movimento; gli amici di Ciro, su indicazione della famiglia, cominciamo
a metter dei nastri azzurri tra i pali della luce. Qualcuno mi dice che è una
richiesta del papà di Ciro: il funerale di suo figlio deve essere una festa,
come quando vince il Napoli.
Il 27 mattina siamo tutti impegnati al carcere di Secondigliano dove
Maurizio Braucci ha il debutto dello spettacolo del laboratorio teatrale,
percorso parallelo a quello della maestra Quagliarella dei suoi bambini sulle porte del carcere.
Torniamo all’ora di pranzo. La piazza comincia ad esser sempre più piena di persone e di striscioni in ogni angolo. Sento l’esigenza di mettere un
biglietto fuori dalla porta del Mammut, un semplice “Ciao Ciro” mi sembra doveroso.
Intanto tanta gente bussa per andare in bagno. Un caro amico di Ciro
mi affida delle bandiere che la famiglia ha chiesto di fare. C’è scritto: “Ciao
Ciro, fratello Partenopeo”, molti i ragazzini e signore bussano per averle.
Sentiamo una forte pressione. Scegliamo di chiudere e di stare in piazza.
Anche noi vogliamo partecipare come tutti. Certo, la piazza così piena non
l’avevamo vista mai. Migliaia di persone di diverse classi sociali, quartieri,
Piazza
195
Tre
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città, mondi, sono intervenuti per dare l’ultimo saluto a questo giovane di
29 anni morto di una morte folle. Televisioni e giornali da tutto il mondo.
Scampia, grazie al coraggio e alla dignità della famiglia Esposito, si fa onore, esempio di civiltà e rispetto.
Ad un tratto sorge una targa toponomastica, sostituisce la precedente e
rinomina la Piazza. Sciarpe del Napoli e di altre tifoserie insieme a pupazzi
ed altri simboli colorano l’asta che sorregge il marmo con la scritta: Piazza
Ciro Esposito.
Nel salutarmi, Vittorio Passeggio, fondatore dello storico Comitato Vele
che si batte da anni per la riqualifica del quartiere, mi dice con soddisfazione che ora avevamo nuovamente una piazza laica. Ma poco dopo scopro
con sorpresa che la targa non era stata messa dal comune ma dagli amici
di Ciro.
La giornata volge al termine. In serata un silenzio che impressiona.
Nei giorni a seguire diversi movimenti in piazza: il 1 luglio Ozon disegna
sul muro il volto di Ciro. Il muro scelto è quello più ampio dove Raro (un
writer del quartiere) aveva fatto una grande scritta per contestare l’assedio
mediatico che da sempre Scampia subisce: NO PHOTO. Il muro era stato
accuratamente imbiancato per il giorno del funerale dagli amici di Ciro.
Il viso di Ciro prende vita, poche sere dopo, davanti a un centinaio di
persone, tra cui il fratello e la fidanzata.
Io sono lì a guardare; Tonino mi vuole presentare Pasquale, il fratello di
Ciro. Sono un po’ imbarazzata, ma quando Pasquale mi dice che ci conoscevamo, che la sua bambina in passato aveva frequentato il Mammut ogni
imbarazzo scivola via. Pasquale mi parla a lungo, io lo ascolto.
Nella serata successiva accanto al volto contornato da un azzurro Napoli
compare una scritta: “Scampia non vuole vendetta, solo giustizia per Ciro”.
Il dipinto sul muro ben presto diventa motivo di attrazione e frequentazione della piazza. Molte persone vi entrano con la macchina o motorini
per fermarsi a guardarlo. È come se fosse diventato un luogo di culto. Un
santuario.
Il 3 luglio il gruppo Area Nord degli ultrà decidono di fare una scritta per
Ciro: “Fino a quando avrò fiato non sarai dimenticato”, loro sono davvero
i suoi amici. Scelgono un muro in cui non coprono dei disegni fatti recentemente dai writer del quartiere. Leggo questa scelta come una forma di
rispetto per i ragazzi.
Torno così a quella calda serata di luglio, quando attraversavo a piedi la
piazza. Rimango affascinata nell’osservare la sua composizione. Dal colonnato guardando sulla destra c’è un gruppetto di giovani che si riuniscono
per fumare insieme, sono lì ogni sera, spesso gli prestiamo il pallone. Sulla
sinistra invece un gruppo di macchine, sotto le scalinate in una zona buia,
un cerchio perfetto di adulti, saranno più di cinquanta, tutti in piedi, solo
uomini; la riconosco, è una riunione degli ultrà, le ho viste spesso a Piscinola. Sono gli ultra di Scampia e dintorni, per la prima volta si riuniscono
in piazza, parlano ordinatamente uno alla volata e si ascoltano con attenzione.
In fondo alle scale dove c’è l’enorme scritta CIRO VIVE, tra una mega
lettera e un’altra c’è un altro cerchio, stavolta un gruppo di religiosi, con
l’amico gesuita Sergio Sala. Discutono di non so che cosa. Vedo arrivare,
poi, altre 4 macchine; parcheggiano davanti alle scalinate lunghe; escono
circa una ventina di ragazzi e ragazze, una persona tira fuori una torta,
un’altra un pallone, aprono il cofano della macchina da cui esce una musica latino americana e cominciano a ballare. Guardo verso il cancello chiuso
della villa comunale di Scampia, li c’è un signore con due bambine intenti a
guardare le rane, in questi giorni ce ne sono tantissime e sono piccolissime,
forse vengono dal laghetto della Villa. Intanto sotto al dipinto del volto di
Ciro un gruppetto di persone scatta qualche foto con il flash.
La piazza è diversa dal solito, sembra una piazza vera. (Certo, ho la sensazione che la proposta di mettere i paletti, che sono stati rimossi, per non
far entrare le auto, risulta alquanto anacronistica). Non so quanto durerà,
ma sembra che Scampia abbia trovato la sua piazza e il suo eroe.
Piazza
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ovide decroly
edico, psichiatra e pedagogista belga, nato a Renaix nel 1871 e morto a Uccle nel
1932. È indubbiamente tra le figure più importanti ai fini di questa nostra dissertazione sui temi della didattica e della salute, essendo tra gli iniziatori di molte delle sperimentazioni metodologiche del movimento delle “scuole nuove” a cui anche il Mammut
si è nutrito.
Per la rivoluzione che apportò al modo di fare scuola dei suoi tempi. A partire da una
critica radicale alla scuola esistente (prima di tutto per l’insofferenza con cui
la subì in prima persona alle superiori), sviluppò un approccio del
profili
tutto nuovo alla didattica ordinaria, basandosi proprio sulle sue conoscenze mediche e psicologiche.
Il motivo per cui le riflessioni di Decroly ci interessano sta proprio in questo: si tratta di
un metodo d’insegnamento basato sullo studio del funzionamento psicofisico della persona. Studio e lavoro sul campo che portò teorie pedagogiche e psicologiche (di Spencer,
Darwin, Dewey ma anche della ancora giovane psicologia della Gestalt) a farsi “scuola
nuova” per bambini e adolescenti.
Quella di Decroly è una modalità di insegnamento/apprendimento basato sui concetti
di “centri d’interesse” e “approccio globale” alla conoscenza, approccio che non si riduce
mai a ricettine, ma che è basato sul radicale cambiamento della giornata scolastica. Tanto
nell’attività accademica (nel 1920 diventa docente di psicologia infantile all’Università di
Bruxelles), quanto nella sua “École de l’Ermitage” fondata nel 1907, Decroly delinea quella
che ancora oggi, a distanza di cent’anni, sarebbe una vera e propria rivoluzione, la vera
riforma della scuola che aspettiamo da anni. Tra i principali punti di questa nuova scuola:
M
• integrità dello sviluppo. La vita scolastica deve basarsi su uno sviluppo integrato
della persona, prendendo in considerazione e coltivando ciascuno degli aspetti da cui è
composta la sua personalità;
• ambiente. La scuola non si fa nell’aula, ma là dove scorre la vita vera. L’importanza
della campagna, dell’esperienza in natura e in città è centrale in tutta la sua opera. Teorie
che trovano realizzazione tanto ne “L’ecole pour enfants irreguliers” fondata nel 1901 in
aperta campagna, quanto nella “Scuola dell’Ermitage”, fondata nel 1907 a Ixelles e poi
trasferita ai margini del bosco della Cambre à Uccle. Nella scuola di Decroly l’aula come
luogo di apprendimento viene sostituita dall’ambiente esterno, luogo di vita reale dove
l’allievo può sviluppare e nutrire ciascuno degli aspetti della sua personalità, e favorire
l’adattamento ambientale e sociale. Una delle funzioni della scuola deve essere proprio
quella di sviluppare il necessario adattamento all’ambiente: un monito che oggi, in epoca
di grande ubriacatura per le scuole parentali, mette in guardia dalle isole felici, che alimentano forme di alienazione sin da piccolissimi;
• individualizzazione e non specialità del processo di insegnamento/apprendimento.
Avendo lavorato molto con i bambini portatori di problematiche specifiche, Decroly è fermo nel sostenere che non esistono due diversi tipi di scuola: quella per disabili e quella per
non disabili. Ma che l’educazione è un processo unico e semmai ad esistere sono infiniti
tipi di scuola: il processo formativo è basato sull’unicità dell’alunno e deve perciò farsi percorso individualizzato, facendo in modo che ciascuno possa trarre il massimo profitto dal
processo educativo in cui è coinvolto.
Decroly è insomma un pioniere, iniziatore di un approccio integrato alla scuola della
salute, che tiene insieme e riduce a unità ricerche e azioni sul “come”, sul “dove” e sul
“quando” insegnare/ imparare cosa a chi. Anche se non mancano critiche severe (anche in questo nostro librone ne abbiamo riportate alcune) e aspetti
profili
ormai superati della sua teoria, il messaggio e l’impianto teorico
del medico e pedagogista belga rimangono quanto mai attuali e necessari. E,
ahinoi, in buona parte disattesi.
cerchio di condivisione
di Nadia Vembacher
E
Tre
200
siste un cerchio magico al Mammut. È un cerchio dove non esiste giudizio e dove si possono scoprire nuove cose del mondo e delle persone. Esiste
una sola regola: parlare uno alla volta e ascoltare cosa hanno da dire gli altri.
Imparare ad ascoltare gli altri risulta difficile anche per gli adulti, forse proprio
perché da bambini non hanno mai potuto sperimentare il cerchio magico che
noi invece conosciamo molto bene…
In questo cerchio tutti riusciamo a guardarci negli occhi, possiamo diventare scienziati o filosofi, oppure possiamo semplicemente raccontare cosa pensiamo di quello che ci accade nella nostra vita.
Una volta ci siamo domandati cosa succedesse alla terra quando vengono i
terremoti, da cosa derivassero, cosa provocassero. E cosa abbiamo provato noi
quando ci siamo accorti che la terra tremava…
Il cerchio magico si nutre di curiosità, passione, interesse, domande e intuizioni. Occhi che si intrecciano e si rivolgono parole senza necessariamente
utilizzare il linguaggio verbale.
Abbiamo parlato di un certo Platone che aveva scovato una caverna con
dei bambini incatenati che non potevano fare altro che vedere delle ombre,
credendo che fosse la realtà. E poi abbiamo continuato a parlare del fatto che
Platone sapeva che uno di loro era riuscito a uscire e che dopo molte difficoltà
dovute al fatto di non essere abituato alla luce del sole aveva poi visto cosa c'era
fuori dalla caverna. Abbiamo parlato di cosa potesse fare il bambino una volta
tornato nella caverna e aver detto agli altri cosa aveva visto. Abbiamo capito
che non è facile decidere di abbandonare gli amici e la vita in condivisione
nella caverna per vedere il mondo là fuori.
Abbiamo parlato di Orfeo che scendeva all’inferno per amore. Voleva ritrovare la sua amata, morta forse ingiustamente.
Abbiamo scoperto che il mondo forse è stato creato dalla collaborazione tra
dio ed il diavolo, e un’altra volta ancora abbiamo discusso dell’unione che si
era creata tra lupo e luna…
Abbiamo potuto scoprire storie che molti degli adulti neppure conoscono e
che dovrebbero imparare ad ascoltare per poter riflettere, come abbiamo fatto
noi in cerchio, su tanti dubbi e domande che sono sempre un po’ irrisolte o
troppo velocemente archiviate.
Il cerchio magico ha contenuto anche molti pianti, oltre ai sorrisi e alle domande. Ma noi possiamo sempre scegliere cosa lasciare in quel cerchio e cosa
portare via.
Il cerchio di condivisione è uno dei modi in cui si può fare pedagogia
alternativa/attiva, mettendo in discussione le regolari modalità didattiche
che nelle scuole vengono portate avanti e spesso date per scontate. Usufruire di altri modi di comunicare con i bambini, ricercare attraverso la condivisione, l’intimità, la creatività, un linguaggio che possa comunicare con il
loro, senza filtri né schemi mentali già strutturati e articolati.
Attraverso il cerchio stiamo sperimentando una chiara messa in discussione della visione gerarchica, dualistica, verticistica che solitamente si presuppone nel rapporto tra adulti e bambini, o tra gli stessi bambini. Siamo
tutti sullo stesso livello, siamo tutti disposti a mettere noi stessi dentro quel
cerchio, e non delle proiezioni falsate che recitano una parte. Si tenta di sradicare queste modalità che spesso fanno già parte della cultura mediatica
di cui sono figli i bambini contemporanei. Si riesce in questo modo a parlare delle questioni più diverse, stimolo continuo per arricchire conoscenze
e curiosità di tutti; da ciò si possono ottenere discussioni fi losofiche che i
più noti intellettuali del nostro tempo invidierebbero.
La condivisione è lo strumento chiave di tale approccio educativo perché
determina la possibilità del confronto, una varietà di prospettive messe in
campo, la costruzione di rapporti di fiducia e la creazione di un racconto
mai unico ma molteplice, caratterizzato dalla voce di tutti.
In questo modo si riesce a comprendere una delle regole fondamentali
del cerchio, o meglio l’unica regola che lo caratterizza. Ascoltare gli altri.
Grazie a questo teorema di base ci si rende conto di quanto si possa imparare dal racconto di un altro. Le esperienze di tutti vengono poste al centro del cerchio per essere condivise e conservate. Spesso il rito iniziale o
conclusivo di tale cerchio innesca una sorta di protezione per il contenuto
del cerchio stesso, come se si potesse comprendere che quello che è stato
condiviso lì, sarà qualcosa che solo con quelle persone e in quel momento
ha avuto senso dire e ascoltare.
Ridare importanza al qui ed ora con dei rituali che riescano poi a collegare il trascorso con gli accadimenti futuri, fa sì che si protragga un filo
conduttore tra presente, passato e futuro, in modo tale da avere una memoria storica delle esperienze formative, proiettate verso una ripetizione che
può essere variabile, ma che solo vivendo il presente riesce ad innescarsi.
Attraverso tali meccanismi è possibile quindi andare oltre l’insegnamento che l’adulto impartisce al bambino, fondato sui meccanismi di premiazione o punizione o sulla valutazione quantitativa di ciò che non può
essere quantificato.
Il bambino non può essere valutato con un numero, né messo a paragone con gli altri come se si trattasse di una competizione volta a conseguire
il riconoscimento dall’adulto. La competizione sana volge alla scoperta dei
propri limiti e del proprio sé piuttosto che alla costruzione di un personag-
Piazza
201
Tre
202
gio che soddisfi i bisogni e le richieste dell’adulto giudicante. Per generare
un reale flusso di fiducia il cerchio necessita di assenza di giudizio, che
permette ai bambini di raccontare ed esprimersi, che permette all’adulto di
raccontare miti, fiabe, canzoni che rappresentano un modo di guardare il
mondo e la realtà.
Le tematiche che attraverso un approccio maieutico possono essere intraprese sono molteplici e sono di carattere tanto scientifico quanto umanistico; si possono approfondire temi che con termini specifici e tecnici,
non accoglierebbero niente altro che esclusione e disinteresse.
La filosofia del bambino è legata all’immaginazione, la quale permette
una libertà d’espressione capace di raggiungere ogni ambito conoscitivo e
ogni nuova forma percettiva. Come Socrate ci ha insegnato, la pratica della
conoscenza è dialettica, ossia è un dialogo continuo che non presuppone
un maestro e un discepolo, ma piuttosto mette al centro la qualità di una
discussione esistente tra due soggetti, che confluisce verso un obiettivo comune.
Il bene comune del cerchio di condivisione è la fiducia e l’ascolto, che va
custodito come la pratica più pregiata e ricca in una didattica stimolante,
senza la quale il maestro/insegnante non può avvalersi della pretesa di insegnare alcunché a nessuno.
l’orto
a cura dell’équipe Mammut
L’
orto nel giardino antistante al Mammut ha costituito l’altra grande
“porta” dell’incontro con la natura. L’esperienza di quest’anno è iniziata a dicembre 2013, in concomitanza con la festa dei miti di luce, quando
ai molti partecipanti abbiamo chiesto di sotterrare un seme e un proprio
desiderio da affidare alla terra fertile. La nuova semina è poi avvenuta nella
festa di primavera, all’interno di uova/semenzai e racconti autobiografici.
Arrivati all’estate, ha sorpreso un po’ tutti quanto gli ortaggi e i girasoli
che vi avevamo seminato fossero stati rispettati dall’intero quartiere, senza subire nemmeno un’incursione durante tutto il periodo di permanenza
dell’orto. Sorpresa anche per la cura e la meraviglia con cui mamme, bimbi e ragazzi si sono dedicati all’orto. Trattando con insperata delicatezza e
spirito comunitario i fiori e i frutti che le piante di zucchine, pomodori,
peperoncini e i girasoli avevano prodotto.
Sul grande potere educativo che l’orto ha rivestito, il racconto di un episodio avvenuto durante la festa d’estate. Giovanni, uno dei ragazzini più
incontrollabili del gruppo, aveva cominciato da alcuni giorni a prendersi
cura dell’orto, innaffiandolo e togliendo erbacce infestanti. Durante la festa
mi chiede di poter recintare un pezzetto di terra accanto all’orto Mammut
per coltivare un ulteriore piccolo orticello con i suoi amici. Non impiego
molto a fargli capire che ogni stagione ha il suo momento e che seminare pomodori ad agosto non corrisponde ai tempi della natura. In questo,
come in moltissimi altri episodi, abbiamo potuto verificare quanto un orto
di “comunità” come quello del Mammut possa valere più di mille lezioni
sull’interconnessione ecologica.
L’esperienza dell’orto ha rivestito una grande importanza anche nel percorso formativo dei ragazzi partecipanti al percorso formativo “Giocatori di strada” del MammutBus. Chi di loro ha partecipato al tirocinio sul
campo, ha imparato una modalità efficace di animazione di spazi pubblici,
entrata a far parte del bagaglio del gruppo.
Piazza
203
i viaggi di…
di Tonino Stornaiuolo
L
Tre
204
o sfondo narrativo del periodo è stata la storia di Gulliver, attorno a cui i
bambini di Scampia hanno lavorato durante i laboratori tenuti presso il
Centro Mammut nella rielaborazione della trama per calarla sulle situazioni
di vita di ciascuno. Ne è uscito il lavoro teatrale “I viaggi di…” messo in scena
il 4 giugno 2014 all’auditorium di Scampia e il canovaccio per lo spettacolo di
strada che ha fatto da ossatura allo scambio con i bambini di Nocera Umbra e
paesi limitrofi. Gulliver, viaggiatore tra mondi strani e densi di pericoli ma anche di grandi possibilità di meraviglia e crescita, è stato un’ottima porta tanto
per coinvolgere genitori e territorio di Scampia, quanto per facilitare l’incontro
con bambini “altri”, come quelli incontrati durante le giornate in Umbria. Il
MammutBus si è trasformato per l’occasione in un teatro mobile, formidabile
strumento narrativo.
Il lavoro su Gulliver, infine, è divenuto un percorso di viaggio attorno alla
Villa Comunale di Scampia, grazie alle tavole inventate con i bambini durante le giornate estive denominate “Il villaggio” e disegnate da un artista del
fumetto affermato come Luca Dalisi. Raccolta in nove tavole d’autore, la storia inventata con i bambini è cioè diventata un percorso ginnico, installabile
attorno al perimetro della villa comunale.
Visto che quest'anno la parola chiave dei nostri percorsi è stata “la porta”
sotto i suoi molteplici punti di vista, da quello fisico a quello psicologico,
si è pensato a quale testo potesse essere appropriato per il nostro tema. E
quale miglior porta se non quella del viaggio? Quale miglior viaggio se non
quello di Gulliver?
In un primo momento è stata raccontata la trama della storia ai bambini,
dopodiché si è dato tutto “in pasto” alla loro creatività, spontaneità e realtà
per vedere cosa ne sarebbe uscito. In un cerchio di condivisione, ognuno
si è messo nei panni di Gulliver e ha pensato a quale sarebbe stata l'isola
ideale nel quale naufragare. La prima isola è stata quella dei bambini. Ecco
che viene fuori un governo fatto di soli bambini, loro anche le leggi: non
si va a letto prima di mezzanotte, le maestre sono tra i banchi, nel carrello
della spesa ci vanno i grandi, il parlamento è ugualmente formato da soli
bambini e via così, tante altre leggi che gli stessi si sono inventati.
Messo in scena e tornati poi in cerchio per decidere come chiudere questo mondo, si sono chiesti: ma in un mondo fatto di soli bambini, chi ci
insegna a portare la bici? Chi ci cucina da mangiare? Chi ci racconta le favole e ci coccola? E così si è deciso che il nostro Gulliver lasciasse quell'isola
riportando i bambini alle proprie famiglie, perché un posto fatto di soli
bambini non funziona, come non funzionava quello da cui Gulliver veniva,
il mondo reale, perché è fatto solo di adulti che decidono per tutti.
Finito di mettere in scena questo primo viaggio, ci si interroga di nuovo
su un possibile nuovo mondo da scoprire. Viene fuori quello degli animali,
in particolare degli asini. Asini un po' speciali, che parlano e sono dotati di
grande intelligenza, proprio come gli essere umani. Ma anche qui qualcosa
non va. Proprio come gli umani, gli asini si fanno la guerra gli uni contro
gli altri e per un motivo ben preciso: le orecchie. Proprio da un cerchio di
discussione con i bambini viene fuori questa idea: “se gli asini sono come
gli uomini e si credono tanto intelligenti, allora si fanno anche la guerra, gli
uomini fanno così!”.
Si decide quindi di mettere in scena un gruppo di asini dalle orecchie
lunghe e uno dalle orecchie corte che si ammazzano quotidianamente perché ognuno si crede superiore all'amico/nemico. Ma in tutto questo vi è
una particolarità: questi asini così come si ammazzano, rinascono! È questa la loro sventura: tutti i giorni si ammazzano gli uni con gli altri per
poi rinascere poco dopo. I bambini decidono che Gulliver anche da qui va
via e cercano poi di pensare ad un mondo finalmente bello dove Gulliver
resti contento. E allora ci chiediamo: deve essere un posto bello, “ci devono
essere i bambini” dice Serena “ma anche gli adulti “ risponde Mattia, “e
allora anche piante e animali” subentra Emanuele “ sì ma questo è il nostro mondo normale e tanto bello non è” spegne gli entusiasmi Espedito.
Provo allora a suggerire loro “è un posto dove ci sono tutte queste cose,
ma stanno bene insieme, dove si prendono le decisioni insieme e nessuno
vuole prevaricare l'altro. Un posto dove c'è armonia tra bambini, adulti,
piante e animali”. Ed ecco Lino che spalanca gli occhi contento e suggerisce “il Mammut!! Al Mammut si deve risvegliare Gulliver, perché qua
c'è l'armonia”. Tutti i bambini a questo punto si schierano con Lino, “Ha
ragione, noi al Mammut stiamo bene, starà bene anche Gulliver” e così ci
inventiamo quello che sarà il nostro ultimo mondo dello spettacolo: Gulliver che si risveglia nella piazza di Scampia, osserva le vele, le colonne e
infine il Mammut, vede i bambini stare insieme agli adulti tutti felici e vede
anche un orto e un cane. Decide finalmente di restare. Ma poi ci ripensa.
Resta ma non a lungo perché a Gulliver piace viaggiare e raccontare. Vuole
raccontare in giro per il mondo ciò che di bello ha trovato al Mammut.
È stato proprio qualche giorno prima dello spettacolo che la storia di
Gulliver ha preso vita anche in noi. L'armonia c'era nelle prove, ma a questo
punto mancavano i vestiti di scena. Come fare? Ecco che corrono in nostro
aiuto le mamme, che allestiscono una sartoria per un giorno al Mammut e
tagliano e cuciono vestiti, orecchie e giacche. Ora è tutto pronto per andare
in scena.
Piazza
205
C'è molta gente in teatro, le loro famiglie hanno delle facce serene prima dell’inizio. Parte la musica e inizia lo spettacolo. Non un applauso di
troppo, non una voce di un genitore che chiama il proprio figlio, non un
cellulare che suona. Sono tutti rapiti dalla storia, presi e trascinati sulla
barca di Gulliver.
Tre
“Ho ancora le allucinazioni, sono sulla terra ferma e dietro di me
vedo ancora le vele.
Come è grande questa piazza, ma è deserta.
C’è solo un cancello giallo che dà su un parco, ma è chiuso.
E quello cos’è?
Sembra un tempio antico con quelle colonne enormi.
Li sotto c’è qualcuno, sento delle voci.
Ma sono bambini. Sembrano felici.
Ci sono anche degli adulti,
Ci sono le loro mamma e i loro papà.
Sono tutti insieme.
Vedo un cane che gioca con loro spensierato, chissà come si chiamerà.
Sono tutti intorno ad un orto: zucchine, pomodori, basilico
e bellissimi fiori di girasole.
Che bel posto, finalmente ho trovato un luogo dove regna l’armonia tra tutti.
Ho deciso, resto qui.
Si è fatto buio, quante stelle che ci sono questa notte.
Ho deciso che anche da qui ripartirò.
È un posto bellissimo, ma a me piace viaggiare.
Ciò che conta è il viaggio, non la meta.
L’arrivo per me non è altro che un nuovo punto di partenza.
Se ho trovato un posto così bello, vorrà dire che c’è ne saranno altri.
Pochi, ma ci sono.
E da quei pochi a pochi tenterò di cucire un filo per legarle tutte.
Ad ognuno che scoprirò racconterò di quelle che ho visto
prima di arrivare da loro.
Sarà un viaggio lungo e faticoso.
Ma la rotta sembra quella buona.”
(Monologo finale dello spettacolo del nostro Gulliver)
Piazza
207
adolescenti tra bici, strada e breakdance
di Chiara Ciccarelli
un’officina di biciclette
“C
Tre
208
1. Francesco Sivo
ed io siamo i
responsabili del
laboratorio bici e
della Ciclofficina.
Con noi Luca
Giaccio, prezioso
volontario.
hia’ ma hai capito? Si è bucata un’altra volta la ruota! Ma come è possibile? Ieri abbiamo messo una camera d’aria nuova!”, è Andrea, dodici anni, al telefono. Ci confrontiamo sulla cosa, poi gli chiedo se vuole
fare extra per aggiustarla, visto che bisogna aspettare ben sei giorni prima
del giorno delle biciclette al Mammut; mi risponde di no, può aspettare,
aveva chiamato solo per dirmelo. Sono stupita, sul viso un sorriso e uno
strano senso di soddisfazione, mi colpisce la passione e l’importanza con
cui Andrea mi racconta delle vicissitudini della sua bici. Quasi mi fa ridere
questa storia che ora ci si telefona per una bucatura… Mi torna alla mente
uno dei primi giorni in cui Andrea è venuto al Mammut, un anno fa. Era
con Enzo, un coetaneo dalle mille energie, sfrontato e coraggioso, cavallo
pazzo, leader nel gruppetto della Vela Bianca, “lui se la sa vedere, è in grado
di difendere i compagni”. Questo gruppetto è composto da ragazzini molto
poveri e i loro genitori si arrangiano come possono con umili lavori. Enzo
lo incontro sempre in strada, con il padre a raccogliere il ferro, a volte lo
vedo in giro con il suo carrozzino anche a mezzanotte. Sembra senza regole, mi affascina il suo modo di affrontare i problemi, non si perde d’animo
di fronte a niente e in modo veloce trova sempre una soluzione, anche se
precaria. La prima volta che venne al Laboratorio bici, insieme ad Andrea,
io e Francesco, con uno sguardo d’intesa, capimmo subito che dovevamo
sfoderare le nostre armi migliori per dare una buona impostazione al rapporto fin dall’inizio1.
Quel giorno sono i primi ad arrivare al laboratorio, noi siamo molto
accoglienti ma non esitiamo a dare anche dei limiti comunicando chiaramente ciò che può avvenire e ciò che non può avvenire in quello spazio.
Enzo è tosto, Andrea meno. Finita questa contrattazione iniziale ci applichiamo nello smontare una catena di una bici del Mammut che stavamo
aggiustando, Enzo vuole fare da solo, è un vulcano, ha proposte e soluzioni
per vari problemi, è molto bravo. Per lui la catena si smonta con giravite e
martello, noi gli proponiamo invece un attrezzo tecnico: lo smagliacatena.
Non accetta, ritiene più efficace il suo: “L’ho fatto mille volte con mio padre!
Io smonto tutto!”, accettiamo di imparare il suo metodo ma rilanciamo,
proponendogli di capire anche il nostro. Non sembra molto interessato alla
proposta, la snobba un po’, lui già sa fare e ha già le sue strategie. Accogliamo. Riesce ad aprire la catena e a rimontarla anche se danneggiandola un
po’. Mentre armeggiamo con le bici Enzo commenta: “ma è tutto importante qui!”; mi rendo conto che un po’ presa dall’ansia di questa relazione
così articolata ho ripetuto quella parola decine di volte su più argomenti:
era importante avere rispetto, era importante ascoltarsi, era importante che
le bici del Mammut restassero tali in modo da far sì che tutti ci potessero
giocare, era importante capire come funzionava lo smagliacatena. Sì, c’erano un sacco di cose importanti, e la prima era che in quel momento stavamo lì a fare una cosa insieme. Mi rendo conto di aver un po’ esagerato e ci
facciamo una risata insieme.
Il tempo sembra essere scaduto, Enzo si muove ancora più velocemente,
e decide di andare via. Andrea resta, ha la sua bici da aggiustare. La stanza
intanto si popola. Andrea deve fare una bucatura ma sembra non riuscire
a stare concentrato più di cinque minuti di fi la, prova a delegare, si distrae,
poi piano piano insieme ci riusciamo.
Andrea è diventato uno dei frequentatori più stabili, la sua capacità di
concentrarsi è aumentata e si è sperimentato in imprese davvero complicate per far funzionare quella sua bici diroccata, sembra aver acquisito coraggio e autostima, ora non ripete a bassa voce il corretto procedimento per
le varie riparazioni, ma aiuta i compagni a farle. Enzo invece ha avuto una
presenza più discontinua, con il suo carisma è sempre venuto a chiedere
qualcosa in più degli altri (aggiustare la bici in un giorno diverso o qualche
pezzo di ricambio per un amico in difficoltà) ma non è mai più venuto
come quel primo giorno.
In uno degli ultimi incontri prima dell’estate viene con gli amici, è affettuoso e ha voglia di fare, ma anche di confrontarsi. Un amico lo chiama
perché ha un problema alla catena, si deve aprire, viene da me e mi chiede:
“Ma dove sta quel coso per aprire la catena?”. Dopo quel primo giorno non
avevamo mai più parlato dello smagliacatena, ora mi sembrava che Enzo
avesse avuto il tempo di maturare fiducia e capacità di accogliere qualcosa
di nuovo da aggiungere ai suoi preziosi saperi che tanto lo fanno sentire
sicuro.
Nella stessa giornata osservo Marta che con fare esperto è alla ricerca
di spugna e scotch telato, ha una sella di un amico da aggiustare… Ormai
prassi acquisita senza passare per gli adulti: per aggiustare una sella si sa,
un po’ di spugna e un scotch te la mettono a nuovo!
…Oggi per Vincenzo e Giovanni, è la prima volta, anche se è luglio e
il nostro anno sta per finire, siamo pronti ad accoglierli nel nostro gruppo. Sono venuti con le loro mamme, hanno fatto prima l’iscrizione e poi
hanno cominciato a frequentare, in genere il processo è inverso. Inizia la
ciclofficina, mostro loro come si ripara una bucatura. Subito si integrano
bene nel gruppo, loro vanno a scuola, sono seguiti dalle famiglie e hanno
una buona capacità di concentrazione.
Piazza
209
Tre
210
Il pedale di Martina si è rotto, non ne abbiamo uno nuovo da sostituire e
neanche uno vecchio da adattare. Vincenzo e Giovanni iniziano a discutere
del problema con Giaccio e Martina, trovano una soluzione: costruire un
pedale di legno! Ma un legno adatto non c’è nella nostra officina. Giaccio,
non si perde d’animo: in pochi istanti in sella a bici e monopattini sfrecciano via nel quartiere alla ricerca del legno giusto, tornando vittoriosi con il
legno tra le mani! In breve tempo, fanno la sagoma del pedale, la segano, la
levigano e ci fanno anche le decorazioni. Missione compiuta. Martina ha
il suo nuovo pedale, unico nel suo genere! Lei, otto anni, elemento molto
positivo nel gruppo per la sua disponibilità, generosità e voglia di fare, è
sorpresa dal movimento cooperativo che si è attivato intorno al suo pedale.
Per tutti grande soddisfazione vederla andar via felice pedalando sulla sua
bici! A fine giornata due commenti mi ritornano alla mente, quello di Giaccio che mi dice: in un pomeriggio Vincenzo e Giovanni hanno visto cosa è il
Mammut: biciclette, passeggiate nel quartiere, riciclo di materiali e possibilità
di creare e inventarsi soluzioni ai problemi!; e quello di Vincenzo e Giovanni
che prima di salutarmi mi dicono: Ah, ma qui non è come a scuola, qui in
poco tempo abbiamo imparato un sacco di cose.
Emiliano (9 anni) arriva con suo fratello minore e un amico, guidati
da Mimmo (11 anni), loro vengono dalle Case dei Puffi – come gli abitanti
hanno ribattezzato il Lotto P, rione molto difficile del quartiere – con le
loro bici su cui trasportano pezzi di altre bici per aggiustarli. Vederli venire
in questo modo è uno spettacolo!
Non sono i primi ad arrivare, tra gli altri già sono in Ciclofficina due fratelli, Flavio e Roberto, che invece abitano nei parchi, quelli dove si sta tranquilli. I fratelli condividono una BMX rossa lucente, è veramente bella. Alla
vista di Emiliano, Roberto mi dice in privato che pochi giorni prima quel
bambino aveva provato a rubargli la bici, ma lui era riuscito a divincolarsi
e scappare. Invito Roberto a darci una mano a fare il check-up della bici di
Emiliano, i ragazzi cominciano a fare insieme, poi introduco l’argomento
del tentato furto, Emiliano non ha molte parole e non sa dire perché lo ha
fatto. A giornata conclusa resto con la sensazione che sia avvenuto qualcosa
di importante oggi, il fatto che Roberto non abbia avuto paura di parlare,
ed Emiliano che è stato ad ascoltare… Checco arriva con il suo papà, attendono il loro turno, mentre i nomi di Chiara, Francesco e Giaccio, riecheggiano nella stanza. Oggi è un giorno bello, pieno e movimentato con un
sacco di bici da aggiustare. Chiediamo al signor Ciro, papà di Checco, se sa
aggiustare le bici: un po’ ne capisce, lo invitiamo a mettersi al nostro fianco,
ora ci sono due mani in più per tutti!
Da quel giorno tutti i genitori che accompagnano i più piccoli sono coinvolti attivamente nell’esperienza, questo attiva un circuito virtuoso, dove il
sostegno arriva anche dalle nonne che accompagnano i nipoti e che, stando
a guardare danno anche qualche suggerimento. Goran ha la bici rotta e
non riesce a portarla al Mammut. Giaccio prende la valigetta degli attrezzi
e va al campo rom, dove abita Goran. La settimana dopo alla Ciclofficina
viene una famiglia di rom: mamma, papà e i tre bimbi, che hanno le bici
da aggiustare. Ci cimentiamo insieme. Il canale è aperto; da quel giorno
numerosi sono stati i ragazzini rom che sono venuti in ciclofficina.
Oggi rompiamo lo schema: il laboratorio si fa in giro per il quartiere.
Ognuno deve pensare ad un posto del quartiere in cui è successo qualcosa
di importante nella sua vita. Poi, definito l’itinerario, a turno si è guida del
gruppo, alla ricerca del luogo che racconta di sé, per condividere la propria storia con gli altri. Ora per tutti tanti luoghi hanno assunto significati
emotivi, arricchendosi dei racconti autobiografici dei membri del nostro
gruppo. La giornata ci lascia la consapevolezza di come la passione per gli
apprendimenti passa anche attraverso la rottura dello schema quotidiano
che rischia di portare alla monotonia. La passione per gli apprendimenti
passa attraverso il corpo, il cuore, le emozioni, la propria storia.
“Manue’ fa’ tu!”, ‘‘No, lassa fa’ a Chiara”, “Ma chell’è femmena, non ‘o
sape fa!”, “Ma che?!, Chiara ccà è ‘o mast’!”. È quando ho ascoltato queste
parole che ho compreso la necessità di sforzarmi acquistare competenze
ciclomeccaniche. Mi hanno dato la spinta ad imparare per smontare i ruoli
precostituiti del maschile e femminile molto riduttivi e rigidi che vanno
per la maggiore nel quartiere. Non lo scopro quel giorno quanto sia importante che chi fa lavoro educativo spenda il suo tempo anche nel dedicarsi a
al fare, a capire fino in fondo e a sperimentare su di se ciò che propone agli
altri. Maestro e artigiano.
Ascolto un’interessante discussione tra Aniello e Guido, sulle Vele e i
loro abitanti. Guido dice che lì ci vive solo povera gente, sporca che fa schifo.
Aniello invita Guido a guardarlo e gli dice che anche lui vive nelle Vele
e che non è né sporco né povero, quindi nelle vele ’c’è anche gente come
quelle del Bakù (rione di Guido); continua dicendo che è vero che ci sono
quelli sporchi e poveri, ma loro sono nella Vela Bianca, lui invece è nella
Vela Blu. La discussione è veramente appassionante e l’averla ascoltata ci
ha dato modo anche di riflettere sull’argomento e sul tema dell’esclusione/
inclusione e delle città nelle città.
Piazza
211
diario di bordo laboratorio bici/ciclofficina1
11 giugno 2014
di Francesco Sivo
Tre
212
2. Il mercoledì,
giornata
delle bici al
Mammut, è
strutturato in
due tempi: dalle
15.00 alle 17.00
c’è il laboratorio
bici, rivolto
ai ragazzi e le
ragazze dagli
11 anni in su;
dalle 17.00
alle 19.30 c’è
la Cicofficina
aperta a tutte
le età bambini
e adulti (dalla
primavera in
poi abbiamo
La giornata di oggi sarà dedicata alla creazione, insieme ai ragazzi, di
uno striscione da mettere in piazza2 nella parte da dove entrano le auto. In
particolare, l’idea ci è venuta dopo due cose successe in settimana: mercoledì
scorso, al termine della ciclofficina Pasquale fu investito (lievemente e senza
farsi male) da un auto che entrava in piazza; lunedì al Mammut c’è stato un
incontro molto bello nell’ambito di un progetto europeo dove si è data parola
ai ragazzi/e ascoltando le loro idee ed opinioni su diversi temi come la scuola,
la città, il futuro.
L’idea dello striscione ci sembra buona per diversi motivi: diamo un elemento di novità al laboratorio, lavoriamo con i colori e le idee, è occasione di
riflessione sullo spazio pubblico, cerchiamo di influenzare lo spazio esterno al
Mammut, ma anche i nostri pensieri e il quartiere in cui viviamo, trasmettendo un messaggio. Nella riunione di programmazione io e Chiara decidiamo
di iniziare con la lettura della frase scritta fuori al mammut in alto che dice
“Scampia non vuole un deserto, vuole una piazza. Restituiamo le strade ai
bambini”, frase di elicitazione, per poi avvicinarsi, piano piano, al tema striscione. Prepariamo l’officina con il tavolo centrale, i pennarelli ed i fogli.
Arrivano i ragazzi/e, firmano sul diario di bordo, poi Chiara fa una breve
introduzione al laboratorio della giornata. Usciamo fuori e facciamo leggere
la frase. Quando rientriamo chiediamo loro di scrivere su dei foglietti colorati
tutto quello che la frase gli fa pensare. Dopo i primi attimi di rodaggio, escono
delle cose bellissime che mi sorprendono molto perché colgono perfettamente
il significato della frase scritta fuori. Poi Chiara lancia un altro input: scrivete
sui foglietti che cosa vi fa pensare l’espressione “spazio pubblico”. Anche questa
volta resto sorpreso dalle risposte dei ragazzi. In particolare il gruppo del Bakù
mostra una grande maturità e conoscenza del mondo. Poi riportiamo tutte le
loro idee e pensieri su un foglio A3. Chiara a questo punto si allontana un attimo per fare l’iscrizione ai ragazzi, fuori durante tutto il tempo ci sono le mamme dei ragazzi del Bakù che aspettano3 . Restiamo nella stanza con i ragazzi
io e Giaccio. Chiediamo loro di fare un disegno su un foglio A4, la loro idea
di striscione da mettere in piazza, con frasi e disegni. Così i ragazzi iniziano
a scrivere: spazio pubblico, spazio pedonale, per bambini, vietato l’entrata
alle auto e fanno disegni di divieto alle auto e moto. Poi io faccio notare loro
che tutti hanno fatto disegni sulle cose che non si possono fare nella piazza, così
gli chiedo di disegnare adesso cosa si può fare nella piazza e così loro su un altro
foglio A4 scrivono e disegnano robe del tipo: è possibile giocare con il pallone,
entrare con le bici, i monopattini, fare picnic, fare foto etc.
Nel frattempo si sono fatte le cinque e fuori i ragazzi iniziano ad aumentare, da molto tempo c’è il gruppetto della Vela Bianca che pazientemente ha
aspettato fuori l’inizio della ciclofficina, poi c’è Checco, il piccolo Francesco
con la nonna e sicuramente qualcun altro ancora.
Io, cercando di non perdere la buona atmosfera che si è creata durante il
laboratorio dico a Chiara che, se pensa sia meglio, può andare nella stanza
grande in fondo con il gruppetto del laboratorio a continuare a lavorare allo
striscione, io starò in officina a lavorare sulle bici, ce la farò da solo! Chiara
così chiede al gruppetto del laboratorio che cosa preferisce fare ma loro preferiscono aggiustare le proprie bici adesso. Così il laboratorio è rimandato alla
prossima settimana, del resto, con il senno di poi, da solo sarebbe stato molto
difficile gestire il momento della ciclofficina.
Mi dedico subito alla bici di Francesco, 7 anni, che sembra sia quella al momento più inguaiata. Dedicherò molto tempo a questa bici, quasi assentandomi dal resto. Ad un certo punto mi guardo intorno e vedo l’officina invasa da
ragazzini e Chiara e Giaccio in mezzo alle loro richieste di attenzione ed aiuto.
A me toccano sempre le bici con più problemi e questo da una parte è un problema perché mi tiene concentrato su di una sola bici, mentre potrei fungere
anche io da jolly; a volte mi sono accorto che Giaccio e Chiara erano proprio
sommersi dai ragazzi e che le mie energie avrebbero potuto essere impiegate
meglio… ma del resto quando una bici è complicata da sistemare è complicata
e non c’è niente da fare4 . Verso la fine della giornata esco fuori dall’officina,
mi siedo vicino alla nonna di Francesco che è stata seduta sulla panca di legno
tutto il pomeriggio ad assistere alla ciclofficina, mi dice: “ma che pazienza che
avete si vede proprio che ci tenete”.
Piazza
213
separato le
giornate di
Ciclofficina e
Laboratorio
visto l’aumento
del numero dei
partecipanti).
3. Piazza
Giovanni Paolo
II di Scampia,
dove è la sede
del Centro
territoriale
Mammut.
diario di bordo/scheda laboratorio bici
sabato 12 luglio 2014
di Chiara Ciccarelli
Tre
214
4. Spesso è
capitato che i
ragazzi/e hanno
cominciato a
frequentare
prima il laboratorio e poi, su
nostre sollecitazioni, i genitori
sono venuti a
fare l’iscrizione.
Questo passaggio è molto
importante in
quanto rinsalda
un patto di partecipazione e dà
forza alla scelta
dei ragazzi di
esserci,
Ore 10.30. Oggi i ragazzi hanno molta voglia. Essere stati convocati apposta
in questa giornata inconsueta (sabato mattina) ha dato al fatto una certa
importanza. Hanno sentito anche l’importanza che noi abbiamo dato a
questi due ultimi incontri incentrati solo sull’apprendimento della meccanica
della bicicletta, per potere fare sintesi degli apprendimenti costruiti nel corso
dell’anno. Ritornano Marta e Giorgio che non venivano da un po’, per una
volta il mio sms è stato utile, o forse più utile è stato il passaparola tra i ragazzi.
Sono tutti della Vela Bianca. Sono 3 ragazze e 6 ragazzi.
Dopo aver condiviso lo scopo di questi ultimi incontri di laboratorio e definito l’obiettivo di dover ripetere gli apprendimenti base (struttura della bici
con tutte le sue componenti e ruota) ci dividiamo in sottogruppi:
1) Disegno della bicicletta: sotto la guida di Giaccio
2) Smontaggio dei pezzi della bici: sotto la guida di Francesco
3) Vocabolario: sotto la guida di Chiara
Il laboratorio procede in una quiete che solo il sabato mattina si può avere.
Stiamo molto bene. C’è chi fa le foto, chi scrive, chi disegna, chi smonta. Ci si
parla tra i diversi gruppi e quello dello smontaggio e del vocabolario procedono
parallelamente. I ragazzi del secondo e terzo gruppo poi si alternano nei compiti. Nella seconda parte della mattinata, forse per stanchezza, ci sentiamo un
po’ meno efficienti della prima, anche se il momento resta bello.
Ci salutiamo verso le 13.20, anche se non abbiamo finito i vari lavori. Ci
diamo appuntamento alla settimana prossima.
note:
La presenza di figure come Mara (8 anni) che manifesta reale interesse e
curiosità per le proposte fatte è molto positiva. Molto emozionante osservare i
grandi progressi fatti da questo gruppetto della Vela Bianca, al principio visti
come un gruppo indistinto, confusionario, caratterizzato da grande avidità e
bisogno di “possedere”. Oggi visti come legittimi frequentatori di questo spazio, che hanno saputo usare con passione e interesse prendendosi il meglio che
aveva da offrire loro.
Resta la difficoltà di far integrare gruppi provenienti da vari rioni se vengono in gruppo e non singolarmente. Molto buono separare il laboratorio dalla
ciclofficina e il lavoro in sottogruppi con guide adulte.
Così si può realmente lavorare!
… Diari di bordo… preziose tracce e memorie di esperienze.
Aiutano a capire, ad evolversi, a registrare il cambiamento.
Nelle ultime giornate ci siamo resi conto che i ragazzi/e hanno imparato
molte più cose di quello che pensavamo. Ora si muovono nell’officina con
sicurezza, hanno acquisito una buona padronanza di diverse conoscenze
di ciclomeccanica, hanno ben interiorizzato la cultura del riciclo e riuso
dei materiali (in molti casi già di per sé ben sviluppata); spontaneamente
si aiutano tra loro, danno meno conto all’estetica e più alla funzionalità
delle loro bici, si pongono creativamente verso i problemi, mostrando determinazione nella capacità di trovare soluzioni, e soprattutto ora usano
più spesso la bici e non solo per giocare. C’è chi lo fa per andare a scuola,
chi per andare a lavoro, chi per muoversi quotidianamente; nel quartiere,
poi, è visibilmente aumentato l’uso della bicicletta.
Molti sono stati i ragazzi e le ragazze che sono passati nella nostra officina, ne abbiamo contati circa cinquanta, ognuno c’è stato per il tempo che
ha scelto di starci. Ognuno si è preso ciò che è riuscito a prendersi e ha interiorizzato a modo suo gli apprendimenti sperimentati nel corso dell’anno
e ha contribuito attivamente a creare questa esperienza. Incoraggiandoci a
pensare a come poter sviluppare ancora meglio questo spazio di sperimentazione e conoscenza.
Piazza
215
il corpo, la musica, il ballo. tra breakdance e hip hop
Rispetto, famiglia, corpo, amicizia, salute, solidarietà, felicità, bello, cultura, amore, gruppo, comprensione, valori, responsabilità, libertà, legami,
condivisione, certezze, luogo d’incontro, rifugio, breakdance, vero, tranquillo,
impegno, ricordi, progetti, biciclette, casa, bimbi felici, produttivo, hip hop,
carnevale, colori, formazione, possibilità, scambio, porte della crescita, prime
esperienze.
Queste sono solo alcune delle parole scritte alla richiesta di raccontare il
Mammut in cinque parole nella riunione di riprogrammazione fatta con i
ragazzi e ragazze del laboratorio di breakdance, o più comunemente detto
black dance, dai tanti bambini e ragazzi del quartiere che vi partecipano
affascinati dalle acrobazie dei più grandi.
A settembre 2014 le riunioni del laboratorio break sono state due: quella
con il gruppo dei giovani adulti (composto anche da ragazzi che non fanno
break ma praticano altre discipline dell’hip hop) e quella con gli adolescenti ormai gruppo stabile del laboratorio.
Il primo gruppo è composto dai ragazzi con cui, sette anni fa, abbiamo
realizzato le prime sperimentazioni all’interno del Progetto Corridoio1. Tra
approfondendo intimità,
relazione e
coinvolgimento
delle famiglie.
5. Nel gruppo
di lavoro io
sono quello che
ha maggiori
competenze in
ciclomeccanica.
Tre
216
questi qualcuno scrive2 : “Il Mammut mi ha fatto viaggiare. Credo che sia
una componente fondamentale nella mia vita il saper di poter lasciare tutto e
andare via, tornare in patria e poter mettere in pratica ciò che ho vissuto per
migliorare me e l’ambiente che mi circonda. Quest’ultimo punto – il saper
di poter agire sul posto dove vivo per renderlo migliore – è un altro regalo del
Mammut”; “Quando siamo partiti per Firenze abbiamo cominciato a viaggiare insieme”, “Le prime esperienze al Gridas7 mi hanno dato la possibilità
di vedere un’altra realtà sociale”. Ed è composto anche da quelli che si sono
aggiunti poco dopo, quando, nel febbraio del 2009, il Mammut si è stabilizzato nella sua sede, in cui ben presto ha avuto inizio il laboratorio di
breakdance. Ecco qualche altra “traccia”: “I ragazzi a cui abbiamo insegnato
a ballare la break hanno cominciato a farlo fuori dal Mammut confrontandosi con altri contesti, come le Jam, i battle”; “Nel Mammut ho incontrato
il primo libro interessante, il primo libro che sono riuscito a leggere, thanks
kiara!”, “Un giorno che assistevo all’allenamento di break entrò un bambino
‘estraneo’, sono rimasto colpito dall’atteggiamento dei presenti nell’accogliere
in modo naturale quel bambino, quel modo usato mi ha insegnato molte cose”.
Il secondo gruppo, quello degli adolescenti invece scrive: “Mi ricordo il
primo giorno in cui sono venuto al Mammut fu molto emozionante mi sono
sentito subito a mio agio come se già ne facessi parte, sono stato accolto molto
bene da tutti”, “Un momento in cui ho sentito che il Mammut era importante è quando ho visto che tutti erano disposti a cedere qualcosa di proprio
ad un’altra persona. Ho imparato la condivisione del sapere e della felicità”,
“Quando ho cominciato a ballare la break il Mammut è stato importante perché luogo di apprendimento”, “Nel momento in cui, entrando nel mammut,
ho notato che non era solo un luogo per allenarsi ma era un posto neutro da
ogni tipo di razzismo, nessuno giudica nessuno, siamo una sola famiglia che
condividiamo la stessa passione”, “Quando siamo andati insieme al PUB73, e,
imparata la strada, abbiamo cominciato a ballare lì nel tempo della chiusura
del Mammut”, “Credo che ogni giorno si possa imparare qualcosa dal Mammut anche inconsapevolmente quindi il mio episodio è quello di tutti i giorni”.
Nel ricordare un momento bello dell’anno qualcuno scrive: “Quando
sono cominciati a venire anche gli altri breaker da altre parti della città”, “Ai
battle tutti insieme, iscrivendoci come un unico gruppo il Mammut Flava”.
Alla domanda su proposte, idee, prospettive, Francesco scrive: “Diventare allenatore di break”. Francesco ha 15 anni e a scuola non ci riesce più
ad andare, si è fermato in prima media, benché sia serio, diligente, molto
competente, sa scrivere e leggere bene, è molto veloce negli apprendimenti,
riesce bene in tutto quello in cui si impegna. A scuola, però, proprio no,
dice che si scoccia. Il laboratorio di break per lui è stata una vera e propria
rivelazione, la sua iniziale curiosità è diventata ben presto passione e determinazione, in poco tempo ha imparato acrobazie e passi difficili. Frequen-
ta anche la ciclofficina, anche lì è molto bravo. La possibilità di farlo tornare
a scuola aiutandolo a riconoscersi, e far riconoscere le sue competenze, è
un obiettivo chiaro per il nostro lavoro, ma il suo desiderio di diventare
allenatore di break mi apre visioni e prospettive, forse proprio quelle che
Francesco sente che gli sono state aperte nel confronto con tante esperienze
al Mammut.
Oggi il laboratorio di break è molto affollato e alcune ragazze mi hanno
chiesto di occupare anche le altre stanze oltre il salone, per poter provare
i passi, per poter lavorare a superare la vergogna di non sapere fare come
gli altri. Sono sostenute dai compagni che non esitano a spendersi, con pazienza e passione, per insegnare ciò che sanno. Si sente molta energia. Un
giovane adulto che fa il volontario mi dice: “Non sai in queste stanze quanta Hip Hop c’è…”.
Questa frase qualche anno fa non avrebbe significato nulla per me, ora
invece mi emoziona e mi fa capire che la rotta è giusta. In molte occasioni
lui e tanti altri, mi hanno raccontato cosa ha voluto dire per loro il mondo dell’hip hop. La possibilità di confrontarsi con altro, qualcosa di bello.
La possibilità di imparare a conoscere un mondo diverso rispetto a quello
delle file di tossicodipendenti in attesa di comprare una dose, visto dalla
finestra di casa. “Sì, l’hip hop mi ha salvato la vita! Quei pantaloni larghi,
mi hanno cominciato a far sentire diverso dagli altri del mio rione ma appartenente ad un’altra famiglia”, sì, quella dove ci si saluta ogni volta con
quel movimento di mani che sembra un gioco, ma che invece per chi ne è
dentro è condivisione e rievocazione dei principi fondamentali di questo
mondo: pace, rispetto e fratellanza.
Anche se gli stili e il modo di vivere l’hip hop sono tanti, ognuno dei
ragazzi si è avvicinato a questo mondo in modo diverso, con diverse motivazioni e provenendo da situazioni sociali e famigliari differenti, chi da
contesti più poveri e difficili, chi da contesti più benestanti, sani, sereni.
Una delle caratteristiche più importanti del Mammut è che qui si confrontano vari modi di vivere l’hip hop all’interno di un “contenitore” che a
sua volta veicola ideali, etica e la sua visione del mondo. Miscela davvero interessante, caratterizzata dalla presenza di tante diversità che si confrontano tra loro, arricchendosi reciprocamente definendo nuovi codici comuni.
Il laboratorio breakdance è ormai un’esperienza consolidata da anni. Nel
tempo si è sviluppata e ha assunto una sua forma specifica, sintesi di tutte
le tracce e i contenuti lasciati dai tanti ragazzi e ragazze che sono passati e
hanno contribuito a creare questo spazio di espressione libero, legato alla
breakdance ma più in generale al mondo dell’hip hop. I ragazzi lo sanno
bene che questa non è una palestra o semplicemente un luogo per allenarsi, il Mammut è altro. Ed è per questo che i più grandi che ora insegnano
nelle palestre la disciplina della breakdance invitano i loro alunni a venire
Piazza
217
6. Luglio 2007.
Per saperne di
più vedi Come
partorire un
mammut (e
non rimanere
schiacciati sotto), a cura di G.
Zoppoli,
Marotta&Cafiero
2011, scaricabile
anche dal sito
www.mammut
napoli.org.
anche al Mammut: “lì sì che si capisce davvero che cos’è la break, il valore
dell’incontro, il rapporto con la strada e la contaminazione con gli altri, il
confronto con diversi stili, ognuno il suo, frutto di una ricerca personale”;
“lì si viene a contatto con una dimensione a 360° dell’hip hop perché c’è chi
fa rap, chi disegna, chi fa il DJ”.
L’incontro con la cultura hip hop è stato fondamentale all’interno della nostra riflessione su “una scuola per adolescenti”. Ha aperto visuali, ha
allargato immaginari, in primis agli adulti/educatori e poi di conseguenza
a tutti i ragazzi e le ragazze che s’incontrano ormai da cinque anni tra le
mura del Centro territoriale Mammut, condividendo stesse passioni e interessi, esprimendo curiosità e conquistando conoscenze.
Tre
218
7. Ad ognuno
dei ragazzi/e
è stato chiesto
di scrivere:
‘Racconta un
episodio in cui
senti di aver imparato qualcosa
al mammut o in
cui hai sentito
che il mammut
era importante
per te’.
diario di bordo laboratorio breakdance
16 dicembre 2013
Oggi è un giorno speciale! A Napoli c’e’ Tom, un ospite venuto da lontano,
uno dei membri della Universal Zulu Nation organizzazione mondiale che ha
come scopo la diffusione dei principi etici, ideali e anche della tecnica relativa
alle diverse discipline e dell’hip hop. Nel fine settimana ha svolto un workshop
nell’Auditorium occupato “Carlo e Valerio Verbania”. È ospitato dai ragazzi di
“Stonage” che hanno una sede a Soccavo. Gabriele, la guida di questo gruppo,
ha organizzato la sua venuta. Salvatore, che quest’anno si sta dedicando come
non mai al laboratorio di break del Mammut, ha insistito con Gabriele per far
passare Tom anche dal Mammut.
Nel corso dei mesi molti breaker adulti hanno cominciato a frequentare il
Mammut, su fb hanno costituito un gruppo che si chiama Mammut Flava.
Lo spazio del Mammut è molto apprezzato da questi giovani, alcuni commentano con Salvatore che il nostro sembra un po’ un centro di aggregazione
giovanile su modello europeo, un’esperienza a metà tra il centro sociale e quegli
spazi gestiti in modo più formale. La presenza di giovani provenienti da diverse zone della città e della provincia rappresenta un ottimo contesto educante
per i più piccoli, che confrontandosi con un gruppo variegato e composito non
solo stanno imparando vari stili di break ma stanno avendo occasione di confrontarsi con diversi adulti in una dimensione relazionale e di apprendimento
basata sulla passione, lo scambio e l’informalità. Osservo una grande crescita
da parte dei più piccoli, soprattutto Francesco, che dando molta soddisfazione
ai suoi maestri, per la sua capacità di apprendimento rapida ed intuitiva, sta
istaurando delle relazioni importanti con molti ragazzi più grandi.
L’arrivo di Tom è atteso con ansia da tutti, per l’occasione anche i piccoli
si trattengono fino a tardi. Tra i breaker napoletani si sparge la voce che Tom
è al Mammut e tutti accorrono, arrivano Dalila e Andrea, Lorenzo da San
Giovanni a Teduccio, che porta anche i dolcini della pasticceria dove lavora,
e molti altri. Il clima è bello ed emozionante e noi facciamo gli onori di casa
come meglio possiamo: regaliamo sorrisi, racconti, passi di break e una maglietta del mammut a Tom, lui felice ci ricambia con i suoi racconti e i suoi
passi.
A fine serata, poi, io faccio da guida per arrivare da Scampia a Soccavo
dove c’è l’associazione in cui è ospitato Tom.
Piazza
219
8. Gridas
– Gruppo
risveglio dal
sonno - www.
felicepignataro.
org.
Storico centro
sociale del quartiere, per noi
radice e fonte
di ispirazione,
parte della rete
con cui condividiamo molte
delle nostre
azioni.
conclusioni
Tre
220
Sfogliando le pagine dei tanti diari di bordo, degli appunti delle riunioni
di verifica e di riprogrammazione, mi accorgo di quante evoluzioni, quante
graduali conquiste in questi anni, e di come le domande/problemi delle
nostre “mappe di ricerca” sono naturalmente mutate nel tempo. Domande
che hanno trovato riposte e soluzioni nel fare quotidiano e nella possibilità
di sviluppare insieme un pensiero educativo, a partire dallo sforzo di noi
educatori di tenere nella propria mente i tanti ragazzi e ragazze con cui
stiamo crescendo in un continuo scambio reciproco, e di cui abbiamo il
privilegio di osservare crescita ed evoluzione nel tempo. Tenerli nella mente
insieme agli ideali, l’etica, la visione del mondo che dà spazio al nostro e al
loro desiderio di ricerca e cambiamento.
La complessità della situazione, la ricchezza del gruppo e il suo essere
variegato e composito, la mescolanza delle diverse identità e componenti: il corpo, le bici, i sapere, le passioni, la manualità, il ragionamento, gli
apprendimenti, il ballo ci pongono continuamente di fronte a imprevisti e
necessità di ridefinirsi rispetto agli accadimenti.
Di fronte alla nostra domanda di ricerca – territorio e scuola possono trasformarsi in luoghi generatori/potenziatori di salute individuale e collettiva? –
osservando gli indicatori qualitativi e quantitativi raccolti ci è sembrato che
le azioni messe in campo con gli adolescenti abbiano rappresentato contesti
sani e generatori di benessere, strumenti per conquistare e diffondere una
visione critica e complessa del mondo, in una “postura” di continua ricerca, attraverso cui poter ripensare il modo di fare educazione e di fare città.
Ringraziamenti:
Ringrazio Francesco Sivo e Luca Giaccio, compagni di biciclette, per la generosità, la passione e l’amore con cui hanno costruito insieme a me questa
esperienza.
Ringraziamo Mario Schiano per la sua presenza e i suoi regali.
Ringraziamo i membri della Ciclofficina Popolare di Napoli ‘Massimo
Troisi’ promotori anche della Critical Mass napoletana, SpaccaNapoli Bike,
l’Associazione Cicloverdi FIAB, Napoli Pedala/Napoli Bike Festival, che ci
hanno incoraggiato e sostenuto, in particolare ringraziamo Eduardo Lubrano per la sua diponibilità e Claudio Caccavale, ciclomeccanico appassionato,
senza il suo supporto non saremmo arrivati dove siamo!
Ringraziamo i giovani della UNS Crew, ma in particolare Domenico Tranzi e Salvatore Riccardi che si sono dedicati con desiderio e passione al Laboratorio di break.
inquadramento metodologico
area adolescenti e giovani:
Il contesto del Mammut rivolto ai preadolescenti, adolescenti e giovani adulti, si pone
l’obiettivo di essere un’esperienza-ponte tra scuola, famiglia, quartiere e resto del mondo.
La pedagogia attiva è alla base della nostra metodologia e i seguenti principi guidano
le azioni:
• ruolo attivo dei ragazzi: nessuno di loro è considerato utente passivo, ma ognuno
contribuisce attivamente alla creazione del proprio percorso di crescita e contribuisce alla
vita del Centro, assumendo un ruolo preciso nell’organizzazione;
• educazione informale e peer education è alla base della creazione dei contesti
educativi proposti, in cui si da spazio a passioni, curiosità ed attitudini di ognuno;
• la visione di città come aula diffusa: la città e le sue strade, le sue piazze, così
come le altre città, sono contesti di sperimentazione e apprendimento privilegiati. L’uscita
dal proprio quartiere, il confronto con altre esperienze, l’essere portatori di specifiche competenze nella condivisione di progetti comuni sono occasioni di crescita preziose.
Le esperienze maturate in questi anni ci hanno dato precise indicazioni sulla necessità
di creare contesti di apprendimento chiari e definiti, basati sull’esperienza e sul fare, caratterizzati da flessibilità ma allo stesso tempo da una cura e da un rigore metodologico che
svolge la funzione di contenitore stabile all’interno del quale accompagnare un processo
di crescita.
Ciò nasce dalla consapevolezza che in questa fascia d’età i ragazzi e le ragazze manifestano una certa difficoltà a mantenere continuità nella presenza e a concentrarsi sul
lavoro, la proposta fatta ha quindi lo scopo di stimolare la motivazione e l’auto-responsabilizzazione dei ragazzi che devono scegliere di partecipare all’esperienza in base ai loro
interessi, bisogni, desideri, attitudini, curiosità.
Il confronto con un contesto di apprendimento che ha un sistema di regole ben strutturato ma che non richiede obbligatorietà rappresenta un’esperienza inconsueta e fertile per
i ragazzi.
laboratorio bici ABCicletta e ciclofficina mammut
La bicicletta con tutte le sue porte è lo sfondo integratore dell’esperienza proposta.
caratteristiche:
scheda tecnica
La scelta di utilizzare la bicicletta come centro delle nostre attività nasce dalla consapevolezza degli effetti benefici sulla salute psicofisica dell’individuo e dalla presa di
coscienza di tutte le possibilità educative offerte da questo mezzo a diversi livelli: dal micro (individuo, lavoro sul corpo, manualità, ingegno, cooperazione, confronto, curiosità,
capacità di risolvere problemi, concentrazione, abilità manuali, autonomia, autostima
acquisizione di competenze spendibili in diversi contesti) al macro (gruppo/collettività/
società, ecologia, inquinamento, fruibilità di strade, città, mobilità sostenibile, visione
critica del mondo).
La bicicletta è anche primo mezzo di sperimentazione autonoma con cui cominciare a
scoprire il mondo liberamente.
organizzazione degli spazi e dei tempi
La proposta si articola in due diversi modi con spazi, tempi e modalità specifiche: il
Laboratorio ABCicletta e la Ciclofficina. Nel corso dell’anno siamo venuti in contatto con
almeno 60 persone tra bambini, adolescenti e adulti.
1) laboratorio ABCicletta:
È uno spazio aperto all’interno del quale si lavora intorno alla conoscenza della ciclomeccanica e si stimola lo sviluppo di una cultura ecologica legata alla bicicletta e alla mobilità sostenibile declinata in tutti i suoi vari aspetti. Si svolge una volta a settimana per
due ore. Si rivolge a ragazzi e ragazze dagli 11 anni in su, senza escludere la possibilità che
qualcuno anche con qualche anno in meno possa manifestare una passione ed attitudine
particolare e quindi entrare a far parte del laboratorio.
struttura tipo del laboratorio:
1) Accoglienza con disegno bici e firma sul diario di bordo
2) Cerchio in cui si condivide il programma della giornate e le esigenze del gruppo
3) Sperimentazioni pratiche di apprendimenti di ciclomeccanica attraverso vari strumenti, tra cui anche uscite
4) Merenda (prevalentemente frutta)
5) Cerchio di condivisione finale in cui si condividono apprendimenti, scoperte, conquiste
ed emozioni della giornata per poi scriverle ed appenderle al diario di bordo collettivo
appeso al muro
ingredienti:
Ambiente sufficientemente ampio
Stabilità dello spazio e del tempo
Spazio che può conservare le tracce dell’esperienza anche sui muri
Attrezzi base di un officina di ciclo-meccanica (uso della panoplia)
Manuale di ciclo-meccanica
Bici su cui poter sperimentare
Pezzi di bici smontati da poter studiare
Diario di bordo giornaliero sul modello del “giornale murale”
Programmazione
Diari di bordo degli operatori
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Intreccio con altre esperienze della struttura di cui fa parte
Intreccio con altre esperienze cittadine e nazionali della rete
alcuni strumenti di lavoro:
• Cerchio di condivisione
• Sperimentazioni pratiche: nei primi incontri siamo partiti da un approccio molto
pratico e diretto, dove ognuno smontando e rimontando una bicicletta ha cominciato a
scoprirne tutti i segreti
• Graduale ricerca e connessione tra attrezzi e parti delle bici, dando anche molto
spazio al gioco
• Lavoro di archiviazione dei pezzi di ricambio
• Lavoro sulla terminologia: il vocabolario della bicicletta
• Giochi collettivi con pezzi di bici (ad esempio “cerca l’intruso”)
• Lavoro volto alla creazione di un manuale di ciclomeccanica
• Lavoro sull’identità del gruppo: creare elementi distintivi del gruppo, come ad esempio dipingere le bici comuni con lo stesso stile
• Utilizzo di vari linguaggi espressivi: pittura, disegno, costruzione di storie e/o fumetti in cui la bicicletta è protagonista
• Utilizzo collettivo della macchina fotografica per documentare la giornata attraverso
lo sguardo dei ragazzi
• Passeggiate in bicicletta nel quartiere: Es. Laboratorio sulla biografia dei luoghi:
connessione tra luoghi del quartiere e biografie personali
• Passeggiata in bicicletta per partecipare ad iniziative organizzate da altre associazioni e/o gruppi
• Scambi culturali e gite in bicicletta in città volti all’uscita dal rione e dal quartiere
(quindi conoscenza della città e partecipazione alla vita cittadina, attraverso passeggiate
in bici e confronto con atre esperienze come le Critical Mass)
• Ciclofficina itinerante nel quartiere
• Diario di bordo murale collettivo, in cui poter condividere apprendimenti, novità,
conquiste della giornata ma anche le emozioni ad essa connesse
• Riunioni di programmazione e verifica degli operatori
• Scambio di pratiche tra esperienze simili
• Uno sguardo alla città: lavoro di rete per creare occasioni di incontro, scambio, contatto con altre realtà
• Uso degli spazi pubblici in una dimensione partecipata e collettiva, azioni di riqualifica sullo spazio pubblico attraverso l’uso della bici
caratteristiche metodologiche:
• Lo spazio del laboratorio è stato pensato in un’ottica montessoriana: attrezzi e materiali sono facilmente accessibili il che favorisce l’autonomia dei ragazzi nella loro gestione
e nell’organizzazione del lavoro.
• Il ruolo degli adulti è quello di favorire l’esperienza di apprendimento, privilegiando
soprattutto autonomia, sperimentazione pratica, ragionamento, creatività e capacità di
problem solving dei ragazzi, stimolando cooperazione e apprendimento tra pari.
• Struttura flessibile rispetto ai tempi di partecipazione e alle frequenze: non vi è l’obbligo di dover partecipare a tutto il ciclo del laboratorio, ma vige la regola che nel tempo
che si sceglie di stare all’interno del laboratorio ci si concentra sul lavoro, si partecipa e si è
disponibili a mettere a deposizione le proprie competenze per aiutare gli altri.
• Osservare i diversi stili di apprendimento mettendo in campo azioni che possano
sostenere ognuno nelle sue caratteristiche.
2)
ciclofficina
Condivide i principi delle ciclofficine popolari. È uno spazio aperto a tutti: bambini, adolescenti adulti, in cui si aggiustano insieme le biciclette gratuitamente, si creano
nuove biciclette assemblando i pezzi, si effettua il prestito delle bici. Si svolge una volta
a settimana per tre ore.
struttura tipo del laboratorio:
1) Accoglienza con disegno bici e firma sul diario di bordo
2) Cerchio in cui si condividono le problematiche delle diverse bici da aggiustare e si
definisce insieme un programma di lavoro
3) Si aggiustano le bici in una dimensione cooperativa dove ci si aiuta reciprocamente
con il sostegno degli adulti
4) Prima di andar via ognuno appunta le conquiste della giornata sul diario di bordo
murale
ingredienti:
• Ambiente sufficientemente ampio
• Stabilità dello spazio e del tempo
• Spazio che può conservare le tracce dell’esperienza anche sui muri
• Attrezzi base di un officina di ciclo-meccanica (uso della panoplia)
• Manuale di ciclo-meccanica
• Pezzi di ricambio
• Diario di bordo giornaliero sul modello del “giornale murale”
• Diari di bordo degli operatori
alcuni strumenti di lavoro:
• Riutilizzo e riciclo di materiali
• Inserimento nel movimento cittadino che sostiene l’uso della bicicletta contribuendo
a creare una rete dei soggetti (meccanici di biciclette) che con le biciclette lavorano ogni
giorno e con il tentativo di “rimettere in marcia” le moltissime bici che sono abbandonate
negli androni dei palazzi o nei garage
caratteristiche metodologiche:
•
La regola base è che le bici si aggiustano insieme, il proprietario non è considerato
un utente passivo destinatario di un servizio, ma partecipante attivo che insieme ai ciclomeccanici del Mammut acquisisce consapevolezza del problema della propria bici e si
sperimenta nel poterlo risolvere in autonomia.
• Questo spazio è utile per il quartiere, in quanto offre la possibilità di aggiustare bici
gratuitamente.
• Creazione in cui si crea una relazione privilegiata con i ragazzi e le ragazze con
cui è più difficile entrare in contatto: il fare insieme, l’affidamento, la cooperazione crea
un’occasione di scambio importante e possibilità di instaurare relazioni significative, in
cui i ragazzi si confrontano con adulti attenti e accoglienti che spingono verso l’autonomia
e l’acquisizione di competenze senza accettare deleghe (“ fai tu, io non lo so fare”), stimolando autostima e rinforzo di capacità personali.
• La Ciclofficina prevede anche la realizzazione di prestiti gratuiti delle biciclette di
lunga durata. Questa offerta si propone l’obiettivo di promuovere l’utilizzo della bicicletta
e di diffusione di una cultura della mobilità sostenibile, molto importante in un quartiere
di periferia come Scampia dove, come in tanti altri quartieri metropolitani, il motorino
rappresenta uno status e strumento di definizione della propria identità. Il prestito rappresenta anche un modo per avere un patrimonio comune (un bene comune da curare
insieme che può essere utilizzato liberamente, e rappresenta un modo per “tirare dentro”
anche chi non ha la bicicletta).
annotazioni interessanti:
Interessante osservare come la sperimentazione abbia rappresentato un lavoro trasversale sul tema dell’identità di genere e le pari opportunità. Per i ragazzi confrontarsi con
un operatrice di sesso femminile che ha competenze in ciclo-meccanica sorprende molto,
in quanto il fatto che una donna riesca a risolvere problemi di meccanica non corrisponde
alla loro rappresentazione della figura femminile. Allo stesso tempo per le ragazze la presenza di una donna ciclo-meccanica rappresenta un forte stimolo, che dà coraggio e incentiva a provarci, aiutando ad allargare immaginari ed anche la possibilità di ripensarsi
in modo diverso rispetto al modello culturale che la società propone. Questo ci è sembrato
quindi un importante modo per smontare i ruoli precostituiti legati al maschile e al femminile e poter offrire stimoli di riflessione e confronto con modelli culturali diversi.
La proposta educativa fatta si inserisce in un contesto di rete allargata cittadina che
negli ultimi anni sta portando avanti a Napoli un importante lavoro di diffusione della
cultura della bicicletta e la diffusione dei valori ad essa connessa. Tale rete rappresenta
per noi un supporto importante sia per le attività in sede sia perché ci offre opportunità
di rientrare in contesti allargati legati al mondo della bicicletta in cui i ragazzi si possono
confrontare.
laboratorio breakdance / hip hop
Il laboratorio di Breakdance si svolge stabilmente tre volte a settimana accoglie un gruppo di circa 30 ragazzi e ragazze: di età compresa tra i 6 e i 25 anni (ragazzi che sono all’interno o all’esterno dei circuiti scolastici). Il laboratorio prevede la presenza di un educatore
con funzione di regia educativa, e di giovani volontari esperti di breakdance che insegnano
ai meno esperi tale disciplina.
A fianco ai laboratori ci sono le giornate di allenamento di break autogestite completamente dai giovani più grandi che da anni frequentano il Mammut e hanno le chiavi della
sede.
caratteristiche:
• Entrambe le esperienze si basano sull’apprendimento tra pari e sull’educazione informale, in un continuo e reciproco scambio di competenze, passioni e valori, laddove non
vi è un unico soggetto che detiene il ruolo di “maestro” ma questa funzione è distribuita
tra tutti quelli che hanno sviluppato maggiori competenze. Vi è quindi una continua alternanza di ruoli e spesso accade che un piccolo insegni ad un grande perché ne sa di più.
• Il gruppo è misto per provenienza, sociale, culturale, economica, di genere ed anche
età (6 – 26 anni): la passione comune travalica la distanza generazionale. Tutti i membri
del gruppo sono concentrati su un obiettivo comune: esprimersi ed aiutare i compagni a
trovare il loro canale di espressione, trasmettendo valori e competenze.
• Creazione di un ambiente educante in cui sentirsi riconosciuti e poter riconoscere,
arricchito dagli stimoli degli educatori del centro e da un senso di appartenenza ad una
fertile e stimolante comunità territoriale più ampia, composta da bambini, famiglie, giovani e migranti.
• Legame e scambi con la cultura hip hop, che rappresenta uno dei linguaggi più
sviluppati tra i giovani nelle periferie delle metropoli e non solo. Le sue quattro discipline: writing, rap, dj, breakdance, appassionano e coinvolgono. Nella cultura hip hop il
rapporto con la strada, la possibilità di poterla esplorare, vivere, conoscere, trasformare,
“cantare”, “ballare” è una caratteristica fondante. Vivere la strada in modo sano e costruttivo imparandone limiti e potenzialità, esprimendo costanza e volontà per imparare,
approfondire e crescere nella propria specifica disciplina. Ogni disciplina è caratterizzata da prove estremamente difficili, che richiedono dedizione e passione affinché si possa
diventare competenti. Ognuna richiede studio, rigore e volontà ferrea, ma soprattutto il
piacere, il desiderio di scambiare competenze, di imparare da un pari e al contempo insegnare qualcosa in cui si è più bravi, in un continuo e reciproco scambio. Il conflitto, la
competizione, è una caratteristica dell’hip hop, questo viene vissuto in una dimensione
costruttiva volto all’evoluzione, e si esprime nei passi di break, nelle rime del rap, e nei
colori di un muro che prima era grigio.
Il gruppo, la crew, rappresenta un aspetto centrale dell’esperienza condivisa, il gruppofamiglia di appartenenza, organizzazione valoriale, che va a corrispondere ai bisogni pro-
pri del periodo adolescenziale, quando vi è la necessità di aggregarsi con i coetanei ed identificarsi in altri gruppi ed esperienze che possano supplire alla propria famiglia. Si tratta
di un contesto educante, basato sull’educazione informale, sull’apprendimento tra pari e
su linguaggi e gerghi da cui spesso gli adulti sono esclusi, ma che quando si cominciano a
comprendere esprimono tutta la loro potenzialità. Si imparano a leggere i muri della città,
si impara a capire chi ci è passato, come si sentiva e che cosa sia successo, si impara a non
avere paura di fronte a un battle (=battaglia) che, per quanto possa avere un sapore di
guerra diventa show in cui osservare i miglioramenti di chi si mette in gioco.
ingredienti:
•
•
•
•
•
Spazio ampio con possibilità di uso bagno, con acqua calda.
Strumentazione musicale.
Peer education.
I principi dell’educazione informale.
Presenza di chi ha un ruolo di maestro: (che condivide le stesse esigenze degli alunni:
allenarsi e continuare ad imparare).
• Presenza di chi ha un ruolo educativo.
• Creare spazi di pensiero condiviso e riflessione sull’esperienza attraverso cerchi di
condivisione e riunioni di verifica e riprogrammazione.
• Sostenere la cultura dello scambio di competenze anche con i più piccoli, in un contesto in cui è la competenza che fa diventare maestri anche i più giovani.
• Favorire la creazione di progetti comuni collegati con la struttura: preparare esibizioni collettive per le feste del Mammut, ecc.
• Partecipazione attiva alla vita del centro.
• Uscite collettive: partecipazione a jam, battle, eventi legati al mondo dell’ hip hop.
• Contaminazione con tutte le discipline dell’hip hop.
• Sostegno alla nascita di processi spontanei di autonomia e contatto con altre esperienze (ad esempio, insegnare la strada per recarsi in un locale o in un parco pubblico dove
ci sono altri ragazzi che ballano).
• Apertura e contatto con altre realtà giovanili (locali e nazionali) che condividono la
stessa passione.
• Viaggi.
• Uso degli spazio pubblici in una dimensione partecipata e collettiva.
montessori a scampia
di Grazia Honegger Fresco
L
a voce di Maria Montessori può avere posto fra le molte evocate dai coraggiosi educatori del Mammut a Scampia, in quella piazza dallo strano colonnato che si richiama
forse a ben altre strutture dell’antichità, sotto il quale si apre una forte, bella iniziativa:
appunto quella del Mammut.
Montessori oggi è un nome all’improvviso invocato da tanti genitori della piccola e
media borghesia, scontenti di come la scuola assilla i suoi giovani “clienti” – una
scuola-azienda, no? – inaugurata da ministre del recente passato
profili
che nessuno rimpiange.
Eppure Montessori ha cominciato a occuparsi di ragazzini poverissimi, chiamati nel tempo oligofrenici (di “piccola mente”), deficienti, deboli mentali, disabili, ai suoi
tempi chiusi in manicomio con gli adulti. Lei li portò fuori di lì, e per due anni lavorò a
lungo e direttamente con loro – il mio solo titolo in pedagogia, disse poi – tanto da condurli a una licenza di scuola elementare, felicemente conclusa. E questo la fece riflettere
sullo “spreco d’infanzia” dei cosiddetti sani.
Circa dieci anni più tardi per una serie di circostanze positive, su proposta dell’ Istituto
dei Beni Stabili, creò per i piccoli tra i due anni e mezzo e i sei, a San Lorenzo (il quartiere allora più malfamato nella Roma del primo Novecento) la prima Casa dei Bambini.
Venne fuori per caso, dal suo desiderio di osservare il comportamento dei bambini più
piccoli, lasciati liberi di scegliere tra diverse attività molto semplici: i materiali sensoriali
che lei aveva già usato con i ragazzini salvati dal manicomio, incluse le lettere smerigliate
come base per la conoscenza dell’alfabeto, tavoli e sedie leggeri perché i piccoli potessero
spostarli secondo loro necessità, le pulizie dell’ambiente e poco altro. Bambini poverissimi,
privi di giochi e di protezione, lì riuniti perché non rovinassero muri e scale appena messi
in ordine.
Ed è lì che – osservandoli – Maria nota una piccolina di quasi tre anni alle prese con
un incastro in legno contenente forme diverse, simile ai vecchi contenitori dei pesi per le
bilance a due piatti. Dentro e fuori, dentro e fuori, dieci venti quaranta volte la bambina li
estrae e li rimette dentro, totalmente concentrata tanto da non essere minimamente distolta malgrado il rumore intorno. Lei la sposta insieme al suo incastro e la piccola continua,
sempre totalmente assorta, finché smette con aria soddisfatta,
Una capacità così elevata di “polarizzare l’attenzione” fu una vera scoperta e l’inizio
di tutto: un potere mentale mai considerato nei più piccoli; un modo di agire – dentro e
fuori ripetuto, assurdo in apparenza e così diverso da quelli osservabili in età successive – lo
riscontrò poi in altri bambini.
Quelli che si erano appassionati tanto alle lettere a tre anni, ai quattro o a cinque cominciavano a scrivere e a leggere spontaneamente senza alcun intervento “didattico”, e
ancora, in un ambiente in cui la giovane maestra che li seguiva aveva il compito di osser-
vare intervenendo il meno possibile, senza gridare né ricorrere a premi o a castighi, ecco la
metamorfosi inaspettata: in principio aggressivi o timidi, si mostravano dopo poco tempo
socievoli, tranquilli, ordinati.
“I nostri maestri”, disse lei ammirata di fronte al fenomeno di una socievolezza del
tutto nuova, nata dalla coesione creatasi spontaneamente grazie al clima nonviolento di
quella situazione ambientale, modesta eppure rivelatrice.
Il fenomeno – alle stesse condizioni – si ripeté ovunque, in altre piccole Case dei Bambini nei condomini di San Lorenzo, come in seguito in quelle aperte nei quartieri residenziali, nei palazzi degli aristocratici, a Milano negli edifici eretti dalla Società Umanitaria
per le famiglie operaie, così come a San Lorenzo aveva fatto l’Istituto dei Beni Stabili, oltre
che in altre zone di campagna umbre o lombarde. Nel giro di pochi anni in Olanda,
Inghilterra, Russia, Stati Uniti, ovunque gli adulti capivano come
profili
cambiare atteggiamento verso i bambini, il fenomeno si ripeteva.
A poco a poco si cominciarono a delineare i criteri base del lavoro:
• spazzare via ogni pretesa didattica del tipo “Ti insegno io adulto che cosa e come imparare”, ma mettere al centro il bambino come protagonista, riconoscendolo sapiente
costruttore di se stesso, capace di autocorreggersi, di riordinare, di aiutare spontaneamente o di consolare il compagno in difficoltà, di aderire alle richieste di un adulto paziente, non più padre-padrone e tanto meno giudice, ma guida, affettuoso osservatore
che mostra come fare questo o quello, parlando poco, dato che le sue mani con gesti lenti
sono tanto più efficaci;
• disporre tutti gli oggetti ad altezza di bambino perché ciascuno possa scegliere e adoperare ciò che lo interessa, per il tempo che gli occorre, rimettendolo poi a posto. È il
principio della libera scelta;
• di conseguenza occorre che, in partenza, l’adulto prepari l’ambiente – accogliente,
armonioso, tutto utilizzabile, anche con attività di lavaggio vere, con attrezzi veri anche
se di dimensioni ridotte e oggetti frangibili – piatti, bicchieri, vasetti per i fiori ecc. – che
suggeriscono con la loro stessa fragilità un modo garbato di adoperarli;
• l’importanza di mettere insieme grandi e piccoli dai tre ai sei anni più o meno, maschi e femmine insieme, ricchi e poveri, più sono mescolati, tanto più ampie saranno le
esperienze tra loro;
• l’importanza di disporre oggetti corrispondenti ai diversi livelli di sviluppo e l’attenzione al gusto di “ fare da solo” che anche più piccoli manifestano (alla conquista
dell’indipendenza);
• l’importanza di materiali corrispondenti agli interessi sensoriali della prima infanzia:
appaiare gli uguali, riconoscere i simili (graduare) per grandezza, colore, suono, forma,
peso, superficie, odore, sapore, per formarsi mentalmente le basi ai concetti basilari
della realtà ambientale;
• l’importanza di lasciar loro sperimentare le tante attività domestiche o di vita pratica;
• il valore dell’accesso precoce alle lettere smerigliate senza alcuna pretesa di ri-
sultati, permettendo a ciascuno di giungere secondo i propri tempi all’esplosione della
scrittura e della lettura;
• l’importanza di consentire tante attività individuali per favorire concentrazione e indipendenza, riducendo al massimo le lezioni frontali dominate dall’adulto, avendo
constatato che solo le prime, basate sulla libera scelta e sul rispetto dei ritmi personali,
conducono a un clima di sana comunità e al rispetto reciproco, certo non raggiungibile
con prediche e sgridate di vario tipo.
Nel giro di pochi anni questa modalità conquistò maestri e genitori in diverse regioni
del mondo, tanto che Maria lasciò la professione medica e si dedicò, attraverso corsi e congressi, a raccontare le cose che nel 1907 aveva constatato e come si potevano realizzare
ovunque, a patto che gli adulti si “convertissero” a un diverso modo di
profili
mettersi in relazione con i bambini, portatori di nuovo.
Oggi la scuola italiana è ancora quella di impronta ottocentesca con molte riforme che
risultano false, non avendo rinunziato al dominio sui più giovani con il ricatto dei voti, dei
premi e le gare, anziché sul rispetto e la fiducia. Montessori propone una riforma non costosa in termini di denaro, ma faticosa per gli adulti in quanto deve partire da loro la persuasione per un cambiamento totale dei propri gesti e delle parole da usare per non ferire.
Gli amici del Mammut, ben consapevoli di tutte le sofferenze che una società malata
infligge ai suoi figli, sono sulla buona strada per costruire una scuola diversa, dai piccoli
ai grandi, una via di ascolto in cui ambiente interno delle classi e ambiente esterno, finalmente sani assicurino uno sviluppo altrettanto sano a bambini e ragazzi con cui loro
vengono a contatto.
Napoli, città di grandi tradizioni, di cultura e di un linguaggio popolare davvero notevoli, potrebbe diventare con la sua vivacità nuovo punto di riferimento educativo per i
docenti dell’intero paese.
7. in viaggio
il mammutBus
di Giovanni Zoppoli
al settembre 2013 il Mammut ha messo su quattro ruote la sua sperimentazione pedagogica. Come tentativo di salvarla dai meccanismi
del finanziamento pubblico, ma anche della becera impresa “finto sociale”.
Assieme ad un gruppo di adolescenti provenienti dai diversi quartieri
napoletani e a nostri amici storici (Cecco e Nicola con la mitica falegnameria “Fagioli” di Pistoia e il romano Claudio Tosi del Cemea) abbiamo
riadattato un vecchio camper Ford, trasformandolo in ludobus o, come
preferiamo chiamarlo, in centro territoriale mobile.
Così la ricerca e le inchieste pedagogiche del Centro Mammut si sono
fatte ancora più itineranti, raccogliendo e seminando scoperte e meraviglie
in giro per l’Italia. Al servizio di chi nelle diverse città ha deciso di non esser
solo “un’anima bella” ma anche catalizzatore di denuncia e critica sociale.
Il MammutBus, al di là del sogno fricchettone del pedagogista viaggiante, si è rivelato uno strumento davvero potente. Prima di tutto perché ci
ha permesso di coinvolgere un numero alto di bambini (oltre 100 in una
mattinata) e in maniera non superficiale. Nelle nostre mattinate nelle scuole, proprio grazie al novello camper, siamo riusciti a bypassare le infinite
difficoltà burocratiche dell’uscita da scuola. Senza troppe difficoltà abbiamo potuto, infatti, produrre un ragionamento collettivo sul dentro e fuori
aula, permettendo ai bambini di vivere il proprio cortile e trovare nel nostro camper un’aula ulteriore, dove avvenivano cose inaspettate e magiche.
Il MammutBus è stato, insomma, uno dei più importanti mezzi con cui
lavorare sulla “porta” della scuola.
Oltre che negli istituti di Scampia, molti altri sono stati i luoghi in cui
abbiamo sperimentato questo strumento, tra questi Sassuolo (MO), con gli
educatori del comprensorio ceramico partecipanti a una formazione Mammut; Nocera Umbra e altri luoghi visitati dal terremoto, dove è avvenuto
un bellissimo scambio tra bambini e ragazzi napoletani e quelli umbri; Airola, paese sannita dove i giochi popolari in legno non li avevano mai visti
e in una mattinata di piazza hanno davvero fatto faville; nel dicembre 2014
a Santangelo dei Lombardi, all’interno di un magnifico castello nell’ambi-
D
231
to di un percorso fatto con i rifugiati politici dello Sprar e i bambini della
scuola primaria locale.
Due le principali caratteristiche dei nostri percorsi messi in campo col
MammutBus:
• Il cambiamento. Non ci sono se né ma: un buon intervento per noi deve
produrre da subito una qualche modificazione visibile, tanto nella normale
giornata a scuola, quanto negli spazi della città a cui l’azione si rivolge.
• I nostri sono percorsi di scrittura collettiva, tesi a fare inchiesta di
territorio intrecciando ecologia e urbanistica con gli approcci propri della
ricerca antropologica, sociologica e letteraria.
Luoghi dell’intervento sono stati:
Tre
232
1) in aula e androni scolastici
Finalità:
• migliorare il grado di benessere e motivazione di insegnanti e alunni nel
proprio ordinario, diminuendo così anche tassi di dispersione e abbandono scolastico;
• migliorare lo stato di salute di persone e territori coinvolti nell’intervento.
a) con gli alunni: momenti d’aula con l’intero gruppo di alunni si alternano
con uscite in cortile e interazioni teatrali e artistiche attorno al camper
parcheggiato nell’androne scolastico. Dove lo spazio o il servizio pubblico su cui il gruppo classe ha deciso di lavorare non fosse all’interno del
cortile scolastico, il percorso prevede i necessari sopralluoghi.
Fanno parte di questi percorsi scambi con altre scuole collocate in
un’area socialmente più agiata della stessa città.
b) Con gli insegnanti: attraverso incontri con l’intero gruppo delle insegnanti partecipanti e colloqui individualizzati con ciascuna di loro, gli
operatori Mammut forniscono un supporto psicopedagogico durante
l’intero arco del percorso.
2) nei rioni e campi rom
Bambini e ragazzi che hanno partecipano in questi anni alle attività
Mammut si fanno da tramite per promuovere le attività del Mammut in
rioni, campi rom e altri luoghi della città considerati inaccessibili.
Attraverso i giochi dell’antica tradizione popolare, la ciclofficina, le narrazione teatrale, le cino-proiezioni di palazzo, il giardinaggio e altri strumenti capaci di catturare con immediatezza anche i più reticenti a laboratori strutturati, si avviano percorsi di cittadinanza responsabile migliorando competenze e conoscenze psicosociali e didattiche degli abitanti.
3) in piazze e strade
Piazze e strade della città diventano luoghi di realizzazione di momenti
di unione, come la caccia al tesoro de Il Mito del Mammut che si svolge nel
maggio 2014 e coinvolge oltre 300 bambini.
Mensilmente il MammutBus porta in piazza Giovanni Paolo II di Scampia i suoi percorsi ludici e le attività da bibliobus, continuando così il lavoro
di presidio e recupero.
alcuni strumenti specifici messi a punto attraverso il mammutBus:
• Sostegno pedagogico. Incontri collettivi e individualizzati con insegnanti ed educatori. Promuovendo un lavoro su di sé, a partire dalla ricerca di un collegamento dei propri temi di vita con le difficoltà incontrate su
campo, si supporta la professionalità del richiedente fornendo conoscenze
e strumenti propri della pedagogia attiva e della ricerca-azione.
• MammutBuspark. Kermesse di piazza, consistente in un circuito dove
le postazioni sono i giochi della tradizione popolare, tutte collegate da un
comune sfondo integratore funzionale agli obiettivi territoriali.
• Caccia al tesoro. Azione di teatro-quartiere, possibilità di intrecciare
apprendimento curriculare con miti e leggende intercontinentali nella riappropriazione di spazi pubblici abbandonati.
• Concorsi del MammutBus. Concorsi letterari in tandem con quotidiani locali rivolti a restituire un ruolo di cittadinanza attiva ai bambini
e alle bambine. A partire da un racconto teatrale avente ad oggetto miti e
leggende, viene dato un input di scrittura agli alunni delle scuole materne
e primarie. Scrittura che verrà sviluppata tra l’aula e il cortile della scuola,
tra dentro e fuori il camper. Il vincitore diventa giornalista per un mese sul
quotidiano locale.
• Il piccione viaggiatore. Percorsi/scambio tra gruppi di pari distanti geograficamente. Lo scambio avviene attraverso un gioco a distanza (che fa
molto poco uso della rete web) che termina con un incontro sul territorio
di appartenenza di uno dei gruppi partecipanti al percorso.
• Il pitto teatro magia. Percorsi di apprendimento scientifico e di riflessione filosofica. A partire dai giochi di prestigio e da un approccio proprio
della peer education, spaziando tra pensiero magico infantile e scoperta
di nessi e leggi scientifiche, il percorso si avvale dell’utilizzo di tecniche
teatrali e pittoriche.
• Il Mito del Mammut. Intreccio di ciascuno degli strumenti Mammut
come modalità di cooperazione educativa e di empowerment territoriale
tra diverse tipologie di enti, anche distanti geograficamente.
• Scrittura collettiva. Quasi tutti i percorsi MammutBus finiscono per
Viaggi
233
Tre
essere lavori di scrittura collettiva, diventando anche prodotti editoriali
diffusi nei normali canali di distribuzione.
fare scuola con i giornali
Altri strumenti utilizzati all’interno dei percorsi MammutBus: grandi
giochi in legno della tradizione popolare, il circolo narrativo, la ciclofficina,
la panoplia di piazza, il biglietto, la banca, l’ufficio postale, disegnare con la
parte destra del cervello, la falegnameria, l’atelier di pittura, il cielo in terra,
a che gioco giochiamo?/tra gioco e relazione d’aiuto, la serigrafia artigianale,
la lettura animata, cinema di palazzo.
di Alessandra Di Fenza
i concorsi del mammutbus
C
on un fi lo per stendere i panni e il nostro camper MammutBus, attrezzato con giochi della tradizione popolare, andiamo in giro per la città a
raccogliere storie e racconti.
Anche oggi i bambini e le bambine ci aspettano insieme ai loro maestri.
Abbiamo una proposta: gli chiederemo di partecipare alla terza edizione
dei concorsi del MammutBus e di contribuire alla nostra piccola inchiesta
su scuola e salute, scrivendo un proprio racconto.
In palio anche la possibilità di diventare “giornalista per un mese” sul
quotidiano più importante della nostra città: “Il Mattino”. La scadenza del
concorso è il 10 novembre 2014.
Questa volta partiremo dal detto napoletano “vaco p’aiuto e trovo sgarrupo” (cerco aiuto e trovo difficoltà) per una riflessione collettiva attorno
alla relazione d’aiuto. Entrati in classe, raccontiamo ai bambini “Romeo
e Giulietta” di William Shakespeare. Fra Lorenzo, per difendere l’amore
avversato dalla società, finisce per offrirci la più grande storia di sgarrupo
che la letteratura abbia mai suggerito.
Durante la narrazione c’è silenzio, i bambini sono assorti ed emozionati,
la storia d’amore li prende come i contrasti tra Montecchi e Capuleti. La
Verona medievale non è poi tanto diversa dalle città attuali, dalle urla in
piazza quando accade qualcosa di grave, dalle lotte tra gruppi che si contendono il potere.
Dopo il racconto chiediamo ai bambini di pescare tra i propri ricordi
un’esperienza reale in cui un aiuto ha portato difficoltà e di farsi venire in
mente tutti i particolari della vicenda compresi i riferimenti spazio-temporali. Il ricordo diventa così il biglietto per entrare nella pancia del MammutBus. Si esce dall’aula e si continua a fare scuola giù nel cortile, proprio
dov’è parcheggiato il nostro camper.
A cinque alla volta si sale a bordo mentre gli altri corrono, saltano e giocano. I corpi si muovono e si riscaldano tra corse e giri di ruote in attesa
del proprio turno. Qualcosa di magico e misterioso li attende: oggetti illuminati da candele suggeriscono nella penombra l’ispirazione di una nuova
storia da inventare o richiamano alla mente particolari di una storia già
vissuta.
Nelle giornate di aiuto/sgarrupo il nostro camper è custode degli oggetti
della storia di Romeo e Giulietta che si possono scorgere soltanto con una
lanterna e poi, guardando bene, e per incanto, si possono anche ritrovare
Viaggi
235
oggetti che raccontano della nostra storia mentre una musica medievale ci
fa andare dietro nel tempo.
Una volta usciti, con colori e pittura i bambini sono chiamati a ultimare
la loro opera. E infine nel grande cerchio, se ne discute insieme, alla ricerca
di nessi, analogie e ammissibilità delle prove, come allenamento a modalità
di pensiero scientifico e filosofico.
Il concorso questa volta è rivolto anche agli insegnanti delle scuole materne ed elementari. Chi vuole scrivere, deve far riferimento ad un episodio
di aiuto/sgarrupo avvenuto a scuola e riportare i dati identificativi della
norma (legge, circolare ministeriale, direttiva, …) che proponendosi di tutelare e promuovere la salute ha invece dato vita ad un episodio dannoso
per la didattica e/o la salute psicofisica di alunni e docenti.
Tre
236
“Chi frequenta la scuola sa che oggi la domanda/muro che più spesso ci si
sente fare è: “e se si fa male”? Mentre nessuno sembra più chiedersi “e se si fa
bene”? Del resto la percezione che molti bambini hanno di trovarsi ingabbiati
è talvolta più vera che mai, in un equilibrio tra protezione e spinta all’esplorazione (elementi entrambi indispensabili per una crescita sana) sbilanciato
verso le ansie da protezione.
Così anche a Napoli molti dei danni causati alla salute psicofisica di bambini e ragazzi, più che da abbandono e incuria, sono frutto di atteggiamenti
fobici verso gli spazi pubblici o non controllabili direttamente o indirettamente
dai genitori.” (Stralcio del bando del nostro concorso)
A mano a mano che i bambini e le insegnanti scendono dalle classi il
nostro filo dei panni si riempie di racconti e di disegni colorando e trasformando lo spazio con qualcosa che prima non c’era. Raccontando la città in
cui si vive, contribuendo a cambiare quello che non va.
Nei primi viaggi di MammutBus (Dicembre 2013) abbiamo chiesto ai
bambini di ricercare, tra buio e luce, quale storia mitica si nascondesse
dietro gli oggetti trovati nel camper. Ne dovevano scegliere uno soltanto,
ricordandone tutti i particolari. Un cristallo, un ramo, una conchiglia, una
pigna profumata, un ferro di cavallo, una lira, tutti custodi di una storia. In
palio la narrazione del mito di Orfeo ed Euridice.
Nel secondo concorso (Marzo-Aprile 2014) realizzato sempre in collaborazione con il quotidiano “Il Mattino” abbiamo proposto ai bambini di
raccontare come e perché “la scuola e la città possono fare bene o male alla
salute”.
Abbiamo richiesto, inoltre, di portare “prove attendibili, tracce di quello che ci volevano far conoscere”. Raccontare quello che vedevano, nella
maniera più autentica possibile, senza lagne, con la voglia di denunciare
prepotenze e ingiustizie per il desiderio di contribuire a migliorare la città.
In questo modo, come suggerisce la pedagogia attiva, la salute non diventa materia a sé, slegata dalla vita quotidiana, dentro e fuori dall’aula, ma
è la stessa didattica che ne diventa alleata giovandosene a sua volta.
Bambini e ragazzi sono perfettamente capaci di capire se un’esperienza
fa loro bene o male, hanno solo bisogno di trovare l’ambiente adatto, il
loro campo di giochi per sprigionare quello che sono e che pensano. Poi
si liberano e cominciano a inventare, a costruire. Fanno gruppo, si confrontano: criticano, apprezzano, ascoltano più di quanto possano fare gli
adulti. A noi il compito di raccogliere, di ordinare la loro creazione, di restituire l’importanza e il valore di quello che portano, e di provare insieme a
trasformare la scuola e la città in luoghi in cui si sta bene, e da cui nessuno
vuole fuggire. Insieme, con la consapevolezza che in quello che abbiamo
creato, i bambini si riconoscano e siano convinti che è proprio la loro opera, il loro edificio quello che hanno costruito.
Viaggi
orfeo ed euridice sul soffitto della scuola
di Tonino Stornaiuolo
L
Tre
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e note di Let her go di Passenger suonano la sveglia, è ora di alzarsi.
Stamattina si va a “premiare” i vincitori del concorso del MammuBus.
Il MammutBus è un camper che abbiamo trasformato in un “centro territoriale vagante”, che ogni volta ci divertiamo a trasformare in qualcosa di
nuovo a seconda di ciò che faremo con i bambini. L’ultima volta avevamo
oscurato completamente l’interno, lasciando solo delle piccole lucine a intermittenza che permettessero ai bambini di muoversi e di cercare degli oggetti: il loro compito era di entrare nel buio del MammutBus, scovare degli
oggetti e scegliere quelli che per loro erano più funzionali alla scrittura di
un storia “mitica”. Di chi erano quelle cose? Chi era passato di lì? Chi aveva
usato quell’oggetto e perché era finito proprio lì?
Da questo viaggio in sei metri quadrati uscirono circa 150 storie “mitiche”, tutte fantasiose e misteriose. Avevamo scelto di lavorare con solo
dieci classi perché i tempi non ci avrebbero permesso di fare di più. Finito
tutto avremmo raccolto i testi e scelto i vincitori di questo primo concorso
MammutBus. In palio c’era il racconto di una storia. Ricordo che quando
dicemmo ai bambini qual era il premio si esaltarono ancora di più: morivano dalla voglia di sentirsi raccontare delle fiabe.
I bambini non conoscono più le fiabe o le storie mitologiche. Elsa Morante direbbe che gli Infelici Molti pensano ad altro piuttosto che ai Felici
Pochi e al loro bisogno di sentire, prima di abbandonarsi al sonno, una voce
che sussurri di grandi amori, caverne, fuochi, villaggi e draghi.
Appena accendo l’auto, da una stazione su cui la radio era sintonizzata
parte Happy di Pahrrell Williams. Alle 9.30 ho appuntamento con Nadia
per essere alle 10.30 a scuola. Arrivo alla metro, aspetto Nadia e andiamo al
Mammut per prendere tutto quello che ci servirà: dei fogli bianchi su cui i
bambini, dopo aver ascoltato la storia, disegneranno la loro scena preferita;
pennarelli; il pc e le casse per mettere la musica durante la storia; il proietta-stelle. Appunto, il proietta-stelle. Rivoltiamo sotto sopra il Mammut,
ma non riusciamo a trovarlo; in passato, in circostanze simili, è stato molto
utile. Ci ricordiamo che qualcuno dei nostri colleghi sabato è andato con
il MammutBus a Benevento. Forse se lo sono portati con loro ed è rimasto
nel camper? Chiamiamo Chiara che ci dice di averlo preso e che Alessandro
l’aveva messo da qualche parte nel MammutBus. Andiamo al parcheggio
e per fortuna il camper è aperto; entriamo e dopo aver scavato un po’, riusciamo a trovarlo.
Ora che abbiamo tutto possiamo andare a scuola. Arriviamo a Chiaiano, I.C. 28° “Giovanni xxiii – Aliotta”. È una scuola particolarmente bella,
Giovanni dice sempre quando veniamo qui “mi sembra di essere di nuovo
a Bolzano in questa scuola”; è molto curata, sono sempre tutti accoglienti e
niente è lasciato al caso. Ma Giovanni oggi non c’è, Bolzano è lontana molti
chilometri e qui vicino c’è una discarica che ci ricorda che siamo nella periferia napoletana. Ma la scuola resta bellissima.
Entriamo e andiamo in classe, accolti dai bambini con urla, abbracci e
baci. Anche la maestra ci accoglie con affetto; è una maestra molto brava,
tra quelle con cui si riesce a lavorare meglio e io personalmente la stimo
molto per come lavora e per il rapporto che ha con i suoi bambini. Dopo
aver salutato tutti, diciamo ai bambini che saremmo scesi al piano di sotto,
per preparare la stanza, e che saremmo tornati a chiamarli nel giro di 15 minuti. Scendiamo nella stanza destinata all’incontro con i bambini: sembra
un mix tra biblioteca, sala insegnanti e aula magna. Come il resto, anche
questa stanza è tenuta molto bene. Iniziamo a preparare tutto con cura.
Oscuriamo le finestre, dirigiamo solo una piccola lampada nel punto in
cui io racconterò la storia. Nadia intanto sistema le musiche e le casse e io
preparo le sedie per i bambini.
Dal Mammut ci siamo portati un po’ di oggetti per abbellire e rendere
accogliete e magico il luogo in cui incontrare i bambini. È molto importante per noi la cura degli spazi, la situazione in cui si svolge un racconto:
spesso si perde più tempo a preparare e sistemare con cura la sala e gli oggetti che con il racconto in sé.
Tutto è pronto, si può andare a chiamare la classe. I bambini scendono e
si accomodano piano piano sulle sedie messe in semicerchio, mentre nella
stanza si diffonde una musica e una luce soffusa. Sono tutti subito molto rapiti dalla situazione, parlano poco e rimangono in attesa della storia.
Oggi racconteremo il mito di Orfeo ed Euridice. Erano stati gli stessi bambini a sceglierla. Eravamo andati in classe una settimana prima dicendogli
che potevano scegliere tra Orfeo ed Euridice oppure La caverna di Platone e
loro avevano deciso così, a sensazione, che era meglio la prima.
Sono tutti attenti, si crea subito un’atmosfera che facilita il racconto.
Riempio la narrazione di particolari, di suoni, di gesti e movimenti che
catturano e fanno entrare sempre più i bambini nella storia. Io mi sento
molto bene e sento che i bambini partecipano con me a una storia che amo
molto. Nel finale, quando proietto nel buio le stelle sul soffitto, stanno tutti
lì, immobili, per lunghi minuti, a guardare le stelle, nessuno stacca gli occhi dal soffitto. Sono costretto io, dopo qualche minuto, a interrompere la
proiezione altrimenti non so quanto ancora bambini e maestre avrebbero
guardato un soffitto bianco dipinto di stelle finte, immagini fantastiche
come le ombre della caverna di Platone. E un po’ penso a noi, a quanto non
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Tre
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siamo più abituati a guardare le stelle, quelle vere, quelle che, “collegando i
puntini” compongono immagini infinite.
Mentre racconto sono tutti attenti e mi torna in mente il ricordo di qualche settimana fa, quando durante la festa del Mammut, mentre raccontavo
la stessa storia, dalle casse dell’impianto stereo della piazza partirono brani
latino americani e un gruppo di ragazzine prese dall’irrefrenabile voglia di
ballare corsero via facendo un gran rumore e rompendo la magia che si era
creata. Ricordo che volevo interrompere il racconto, fermare tutto e prendermela con quelle quattro disgraziate che avevano infastidito me e il resto
della platea. Volevo urlare il mio fastidio e dirgli che forse avrebbe fatto meglio loro ascoltare la storia struggente di Orfeo ed Euridice, piuttosto che
sculettare a destra e sinistra. Ma poi mi trattenni, respirai a fondo e continuai a raccontare. Il resto dei bambini era lì, in silenzio, che aspettava di
sapere cosa avrebbe fatto Orfeo, con la sua lira, tra le fiamme dell’inferno.
Oggi per fortuna i latinoamericani mi hanno risparmiato e tutto si è
concluso nel migliore dei modi. Finito il racconto ci mettiamo in cerchio
e iniziamo a discutere tutti insieme sulla storia. I bambini fremono e tutti hanno da dire qualcosa. La prima domanda viene da un bambino che
ci chiede: perché Orfeo ha resistito tutto quel tempo senza girarsi e come
uno stupido si gira proprio alla fine? Non abbiamo neanche il tempo di
aprire bocca che gli altri compagni di classe iniziano una discussione tra
loro. Qualcuno sostiene che Orfeo era convinto che anche lei oramai fosse
fuori, qualcun’altro che non ha resistito più e si è voluto girare, una bambina afferma che l’amore è troppo forte e non si può contenere. Questa
stessa bambina poi esprime un dubbio: ma cos’ha fatto di male Euridice
per meritarsi l’inferno? E anche in questo caso sono gli stessi bambini a
rispondere: forse aveva fatto qualcosa che noi nella storia non sapevamo,
forse non doveva andarsene da sola prima di sposarsi; ma la più condivisa
tra le risposte sembra quella di un bambino convinto che chi viene morso
da un serpente va all’inferno.
E via di seguito con altre domande secondo la stessa dinamica; chiedono
a noi, ma cercano da soli la risposta: Orfeo dove ha trovato il coraggio di
affrontare l’inferno? Se il loro amore era così bello, perché nessun dio li ha
aiutati? Come mai Euridice non lo aiuta, guidandolo con la voce e ricordandogli di non girarsi perché lei è ancora dentro gli inferi? È giusto che
Orfeo non ami più nessun’altra donna dopo aver perso per sempre la sua?
Zeus non poteva far risorgere la sua amata? Dove si trova la costellazione
della Lira? E poi la domanda su cui restiamo più tempo ad interrogarci tutti, formulata da una bambina che fino a quel momento non aveva ancora
parlato: ma una volta che Orfeo muore, ucciso dalle Baccanti, va all’inferno e quindi rivede Euridice o va in paradiso e neanche dopo la morte
la può riabbracciare? Qui iniziamo una lunga discussione che coinvolge
pienamente anche noi e la maestra. Quindi arriviamo a porci una domanda
finale alla quale chiediamo di rispondere individualmente: se dovessimo
continuare noi la storia, Orfeo lo faremmo finire in paradiso, beato ma
solo, o all’inferno ma in compagnia del suo grande amore? Fioccano le
risposte e le interpretazioni. La maggior parte dei bambini opta per l’inferno: non fa niente se si soffre; il fatto che avrà la sua amata vicino allevia
tutte le sofferenze. In pochi scelgono il paradiso, spiegando che anche se
sarà triste all’inizio, dopo un po’ passerà perché vivrà in un luogo bello e
privo della sofferenza. Due bambini ci colpiscono per l’originalità delle loro
interpretazioni. Il primo è un bambino che ci dice che se dovesse finire in
paradiso, lui stesso scenderebbe all’inferno pur di riprendersi l’amata; proverebbe a rapirla o a chiedere un favore a Zeus, ma non la lascerebbe sola.
Una bambina invece ci spiega che secondo lei Orfeo andrà in paradiso, ma
poi chiederà ad Ade di prendere lui negli inferi e di lasciare andare Euridice.
Chiudiamo con questa idea il cerchio e torniamo in classe a disegnare.
Diamo ad ogni bambino un foglio bianco su cui dovrà disegnare la scena
della storia che più gli è piaciuta. Mentre loro sono intenti a disegnare, la
maestra condivide con me e Nadia il piacere di questa giornata. Ripercorriamo insieme a lei alcune domande, risposte e conclusioni dei bambini
(che Nadia si era appuntata durante la discussione). Sorridiamo e giriamo tra i banchi per vedere come procedono i nuovi racconti. Quando tutti
hanno finito ognuno mostra agli altri il proprio disegno spiegando a tutta
la classe che scena ha voluto rappresentare e perché. Anche in questa fase
di condivisione tutti si divertono ad ascoltare i propri compagni e ripercorrono la storia tramite i loro disegni. Alla fine sembra che non manchi
nessun momento cruciale della storia. Su un disegno c’è rappresentato il
momento in cui Orfeo si gira sulla soglia dell’inferno. E dietro i due amanti, il dio Hermes, che Ade aveva mandato per controllare che Orfeo non si
girasse. Quando vedo questo disegno mi viene in mente un rilievo custodito nel Museo Archeologico di Napoli, una copia, di età augustea, da un
originale greco. Le posizioni e il movimento della scena sono molto simili.
Dico questo ai bambini che sembrano molto curiosi di vederlo, la maestra
mi anticipa e dal suo cellulare scarica la foto dell’opera e la mostra a tutti,
passando tra i banchi. L’autore del disegno è ovviamente felicissimo e chiede alla maestra di portarli qualche volta in gita al museo. Tentiamo tutti
insieme di strappare una promessa alla maestra, che sorridendo dice che
proverà a organizzare.
Per noi è arrivato il momento di andare. Salutiamo i bambini e la maestra portandoci dentro tutte le domande dei bambini e negli occhi i loro
disegni. Lasciamo la scuola più “pesanti” di quando siamo arrivati. Nel tragitto che ci porta dalla scuola alla metro io e Nadia ripercorriamo la bella
giornata. Ci interrompe la metro che la deve riportare a casa. Io passo dal
Viaggi
241
Mammut a lasciare tutto il materiale della giornata e poi torno a casa. Dallo
stereo della macchina parte la solita musica, ma stavolta spengo subito. La
musica che voglio ascoltare ancora per un po’ è quella dei bambini e delle
loro supposizioni, e quella di Orfeo e della sua lira, che ovunque sia finito, inferno o paradiso, sono sicuro continui a suonare. Come dovrebbero
cantare le mamma e i papà ai loro bambini la sera prima di andare a letto.
Quella sera ho provato a guardare le stelle. Non si vedevano bene, troppe luci, troppi fumi. Forse erano davvero più belle quelle sul soffitto della
scuola.
Tre
albert bandura
sicologo canadese nato ad Alberta nel 1925, è tra gli iniziatori della social cognition.
Bandura è un autore importante per la nostra ricerca su didattica e salute, perché
i suoi studi sull’autoefficacia rimangono un caposaldo anche relativamente alle ferite
profonde che interazioni scolastiche negative possono lasciare in bimbi e ragazzi.
Bandura analizza i nessi tra reazioni fisiologiche e capacità di relazionarsi all’ambiente,
dando centralità allo sviluppo del locus of control interno rispetto alla possibilità di
controllare gli eventi.
Interpretare positivamente i segnali del nostro corpo e riuscire
profili
a mettere in campo risposte efficaci anche davanti a eventi molto
stressanti, sarebbe strettamente correlata alla convinzione di riuscire a essere più o
meno efficaci. Convinzione che è appunto frutto (anche) delle interazioni sociali, ovvero
di un ambito in cui un ruolo molto importante è occupato dalla scuola e, in particolare,
da climi e sistemi di valutazione messi in campo.
Quella di Bandura è insomma una delle prime produzioni in cui meglio vengono
dimostrati i nessi tra un certo tipo di relazioni (anche educative e didattiche) e gli stati di
salute fisica, oltre che psichica. Arrivando a fornire contributi importanti su metodologie
di insegnamento e apprendimento efficaci, capaci di potenziare lo stato di salute personale
e sociale. Tra questi le basi della peer education, oggi tanto in voga e che anche nelle
sperimentazioni Mammut ha trovato grande spazio.
P
quattro.
per una didattica della salute
1. teorie
Q
uelle che seguono sono alcune delle radici teoriche alla base delle
riflessioni e delle azioni esposte sin qui. Il lavoro e il pensiero di chi ci ha
preceduto e quello di maestri a noi contemporanei che riportiamo in questa
sezione ci auguriamo possano diventare un fertilizzante potente come lo è stato per noi. Nonché monito di possibilità collaudate e suggerite da tempo, ma
purtroppo in buona parte ancora inattuate.
245
zanotti bianco, il maestro che cura
di Mirko Grasso
C’era un tempo in cui il maestro sapeva prendersi cura dei suoi alunni. Non
dei singoli pezzi, ma dell’insieme; senza intendere la medicina come stregoneria nelle mani di pochi eletti.
(g.z.)
U
mberto Zanotti Bianco (1889-1963) è stato il più attivo animatore
dell’Associazione nazionale degli interessi del mezzogiorno d’Italia
(Animi) fondata nel 1910 dopo il terremoto di Messina con l’obiettivo di
intervenire in nome del progresso civile nei luoghi e nei settori della vita
sociale (l’economia, la sanità, i beni culturali) in cui l’azione dello Stato era
debole o spesso assente. Per circa mezzo secolo la sua complessa opera ha
rappresentato un importante esperimento di mobilitazione diretta alla formazione culturale, all’assistenza delle popolazioni dell’Italia meridionale e
alla promozione di attività economiche.
Quattro
1. G. Malvezzi,
U. Zanotti Bianco,
L’Aspromonte
occidentale,
Libreria Editrice
Milanese 1910,
ora Nuove Edizioni Barbaro
2002.
2. Id., Scuola e
analfabetismo
in Calabria, ivi,
p. 77. Di estremo
interesse è l’altro
importante
scritto di Zanotti Bianco sullo
stato dell’educazione calabrese
Il martirio
della scuola in
Calabria, in
“L’Educazione
Nazionale”, V,
luglio-agosto,
1923, pp. 25-50.
Il sud diventa per Zanotti Bianco un luogo dove operare secondo un
radicalismo morale ed è per lui un banco di prova dal quale deve passare
una classe dirigente (ma anche educativa) rinnovata nei metodi di governo
e caratterizzata da un altissimo rigore etico. Nella sua poliedrica azione,
indirizzata alla costruzione della democrazia attraverso le strade della cultura, riveste un ruolo centrale il terreno dell’educazione e della formazione.
Il suo modo di intervenire nei problemi educativi ancora oggi rivela dei
tratti di stringente attualità perché vuole superare la visione conservatrice
di un sud incapace di fare emergere saperi e capacità organizzative, mirando invece, attraverso chiari, determinati e moderni progetti di riforma, a
far crescere il lievito della consapevolezza e della capacità di governarsi. Le
finalità civili della sua sorprendente azione mettono in cima alle priorità
l’educazione (culturale, ambientale, morale, umana) alla quale si può giungere solo tramite un sistema scolastico non impositivo, ma formativo nel
senso più ampio della parola.
L’azione pedagogia dell’Animi è attuata in tempi di crisi e in scenari difficilissimi quali i due nostri dopoguerra. Prima di programmare l’intervento sociale Zanotti Bianco parte da una ricognizione precisa di luoghi,
fatti e situazioni in cui intervenire. Egli nella sua prima inchiesta calabrese1, affronta la problematica scolastica traendo dati precisi da confronti tra
la situazione italiana e quella meridionale, tra quest’ultima e l’Europa: tra
nord Italia e sud, in particolare la Calabria, egli rileva un tasso di analfabetismo di circa 60 punti inferiore e lo stesso raffronto è effettuato anche con
alcuni paesi mediterranei e dell’Europa orientale che nello stesso momento
verranno da lui assimilati al Mezzogiorno d’Italia per criticità, problematicità e necessità di intervento (albanesi, armeni, russi ecc.). L’alto tasso di
analfabetismo e la quasi totale assenza di biblioteche e canali formativi collocano gli italiani del sud dietro a spagnoli, magiari, greci, russi, rumeni,
polacchi:
“Accademie e congressi non sono mancati davvero: ma furono giochi
seri con dadi falsi, che tutt’al più servirono a far rilevare l’inazione e l’impotenza del Governo a riscattare il passato, senza mai lasciare nella vita
reale alcuna traccia duratura”2.
Zanotti Bianco dedica un’ampia trattazione all’individuazione delle
cause che concorrono a mantenere alto il tasso di analfabetismo nel Mezzogiorno: l’esasperato individualismo delle classi più basse, la mancanza di
iniziative private e la quasi totale indifferenza verso la cultura da parte dei
ceti più benestanti, le condizioni disastrose delle poche scuole gravate dalla
sfiducia e dal senso di impotenza degli insegnanti verso uno stato di cose
apparentemente immutabile, l’indifferenza della politica.
Accanto al grave stato in cui vive ampia parte della popolazione lo scrittore denuncia situazioni di abbandono e miseria degli spazi destinati alla
formazione. Nella zona dell’Aspromonte occidentale i locali utilizzati per
l’istruzione sono principalmente baracche prive di servizi igienici, idonei
materiali didattici e dotazioni di cancelleria. In questo contesto l’azione
dei pochi maestri motivati è vana tanto che nella maggior parte dei casi fra
le loro fila prevale il pessimismo e l’incapacità di reagire. L’incapacità del
sistema scolastico è anche causa dell’emigrazione, dello spopolamento e
dell’abbandono continuo di queste zone. Anche questo sarà un terreno di
lavoro dell’Animi che viene efficacemente inquadrato dal giovane meridionalista3.
Le pagine finali dell’inchiesta propongono una serie di misure utili per
affrontare realisticamente alcuni bisogni urgenti: la costruzione con criteri antisismici di nuovi locali scolastici opportunamente riforniti di materiale didattico e di cancelleria, la fondazione di asili d’infanzia, scuole
serali/festive e a indirizzo speciale, la promozione di un tessuto capillare di
biblioteche popolari, l’intervento nel campo della sanità e dell’igiene: «ci
pare che dopo tanto studiare e decretare e legiferare sul problema del Mezzogiorno convenga tentare ancora un mezzo finora non usato: l’assistenza
personale, continua, ai migliori di quelle regioni nei loro bisogni e nelle
loro iniziative»4.
Il fallimento della legge Daneo-Credaro (che rendeva la scuola elementare un servizio statale e introduceva le prime norme sull’istruzione degli adulti ed agevolazioni nella contrazione di mutui da parte dei comuni
per la costruzione di nuovi ed idonei edifici scolastici) spiega il progetto
scolastico per il quale l’Associazione utilizza il metodo montessoriano fortemente collegato alle esigenze del territorio. Le scuole volute da Zanotti
Bianco, che si sviluppano in maniera sistematica e costante anche dopo
la conclusione del primo conflitto mondiale, dimostrano un’impostazione innovativa in grado di condurre azioni educative utili alle eterogenee
comunità meridionali. La fondazione di una scuola è sempre affiancata
dalla creazione di biblioteche popolari aperte anche in giorni festivi e orari
serali che spesso ospitavano momenti di riflessione e studio dei problemi
del Mezzogiorno attraverso l’intervento di meridionalisti come Salvemini,
Colajanni, Franchetti.
I luoghi dell’intervento scolastico in Calabria sono quelli già conosciuti
dalle pagine dell’inchiesta zanottiana del 1910 con un bacino territoriale di
azione in continua espansione. La realizzazione dei propositi dell’inchiesta di Zanotti Bianco si coglie anche nell’incisivo piano per l’educazione
infantile ed elementare realizzato, sin da subito, a Melicuccà, Bova Marina, Bagaladi, Mammola, Brancaleone. In questo diviene cruciale il ruolo
giocato dal maestro e dall’educatore che si trova ad agire in contesti critici
e scenari sociali complessi. Ai termini mazziniani cui guarda Zanotti Bianco, il maestro diviene l’apostolo di un metodo e di una finalità educativa
Teorie
3. Sul tema
dell’educazione
e sul nesso fra
scuola e democrazia Zanotti
Bianco ritornerà
anche nel suo
interessante
volume-inchiesta
La Basilicata,
Collezione Meridionale Editrice
1927.
4. Id., I bisogni urgenti, in
L’Aspromonte
occidentale, cit.,
p. 142.
5. E. Kanceff, La
Calabria di Hélèn
Tuzet, in E.
Kanceff, R. Rampone (a cura di),
Viaggio nel Sud,
Atti del Congresso
Internazionale
che prendono slancio dal forte legame con il sociale per cui egli deve vivere
nei pressi della scuola, dedicarsi principalmente all’insegnamento, esercitare la propria professione in orari concordati con le popolazioni rurali,
accontentarsi di una scarsa retribuzione arricchita da premi proporzionati
al numero dei successi scolastici, distribuire gratuitamente i materiali scolastici anche in orari non lavorativi. Zanotti Bianco riteneva indivisibile il
nesso tra formazione ed educazione alla bellezza, concependo la cultura
non come intrattenimento ma come leva riformatrice. A questo proposito è
utile richiamare la partecipata descrizione delle scuole calabresi stesa dalla
ricercatrice Hélèn Tuzet che nel 1928 per conto della Fondazione Rockfeller verrà inviata in Calabria e Sicilia per analizzare le strutture educative
dell’Animi:
Quattro
Viaggio nel
Sud, 22-26
maggio 1990,
Slatikine Geneve-Centro Studi
Interuniversitario di Ricerche
sul Viaggio in
Italia, Moncalieri 1995, p.
xvi. Il testo dal
quale è tratta la
citazione è stato
ripubblicato
in H. Tuzet, J.
Destrée, In Calabria durante
il fascismo, a c.
di S. Napolitano, Rubbettino,
Soveria Mannelli 2008.
6. E. Pontieri (a
c. di), Carteggio tra Giustino
Fortunato
e Umberto
Zanotti Bianco,
Collezione
Meridionale
Editrice 1972,
p. 318.
L’insieme forma una sinfonia in giallo dorato e blu regale, alla quale si armonizza persino l’uniforme invernale dei piccoli: i maschietti in giacca grigio
scura fra i capelli. I dormitori, tutti bianchi, tutti inondati di luce e di gioia,
sono ornati da mattonelle di maiolica con la spiga di Metaponto, giallo-dorata
su un fondo azzurro brillante, l’azzurro dei Della Robbia. La sala da pranzo,
ove ci vengono serviti eccellenti funghi, ha dei mobili dalle belle linee sobrie
rivestite degli stessi colori; sulle pareti delle riproduzioni del Beato Angelico e
di Benozzo Gozzoli. La villetta della direzione contiene parecchie camerette,
a metà strada tra ufficio e salotto, trasformate all’occorrenza in camere da
letto, ornate di tessuti calabresi e di belle terrecotte, raccolte con un buon gusto
attento di amatori sempre svegli, e di cui ci viene spiegata la provenienza:
ciascuna ha la sua storia. I padiglioni di legno sono stati decorati esteriormente – sempre in giallo e azzurro – da Zanotti Bianco che per il padiglione del
refettorio si è ispirato alla leggenda romanda dell’incantatore di topi5 .
In questo percorso non viene tralasciata la formazione degli adulti che
nel 1919 era stata ordinata con la creazione dell’Ente per l’istruzione degli
adulti analfabeti. Con lo stesso decreto si concretizza lo strumento legale che dà slancio ed autonomia all’opera educativa dell’Associazione alla
quale vengono assegnate come regioni di intervento anche in campo scolastico la Calabria, la Basilicata, la Sicilia, la Sardegna. L’attività scolastica
dell’Associazione raggiunge sistematicità dal 1921, con decreto legge del 28
agosto che permette l’istituzione dell’Opera contro l’analfabetismo che delega all’Animi il compito di provvedere all’istruzione degli adulti analfabeti
in Calabria, Basilicata, Sicilia, Puglia e Sardegna. Viene avviata in questo
modo la gestione di scuole serali per adulti, di corsi pomeridiani e festivi
per le donne e di alcune scuole rurali itineranti.
Per Zanotti Bianco tutti i livelli formativi possono essere gestiti da enti
privati e associazioni che devono tuttavia rivelare nella loro azione un pro-
fondo radicamento nella coscienza civile della nazione, concorrendo alla
formazione della cittadinanza grazie anche ad una maggiore efficienza (e
realismo) della macchina statale. Esprime questa convinzione a Giustino
Fortunato nei giorni in cui si preparava la riforma scolastica di Gentile:
“Io non desidero che lo Stato s’assuma direttamente, mai, la gestione degli
asili. La gestione delle scuole è un esempio di quanto sappia e possa fare:
ma desidererei che per ogni asilo esistente, e funzionante decorosamente assicurasse un rilevante sussidio fisso, che rappresentasse almeno una
quarta, una terza parte del suo bilancio normale. È questa una battaglia da
sostenere e che vinta risolverà le sorti di tutti gli asili del Mezzogiorno”6.
Il meridionalista aveva strutturato l’Animi con una chiara connotazione
culturale e politica, ma distante dalle lotte e dagli interessi di partito. Anche per questo motivo lo scontro con il fascismo prima, e con la politica
clientelare degli anni Cinquanta, è stato inevitabile in tutti i campi in cui
Zanotti Bianco ha operato. Nel 1939 pur protetta da Maria Josè di Savoia,
l’Animi verrà depotenziata e mutata in Opera Principessa Piemonte; verrà
diretta tra il 1941 e il 1943 da Gentile che a suo modo nel 1927 ne aveva difeso
la stessa esistenza dell’Animi. Qualche anno prima l’Animi aveva rinunciato alla delega per l’istruzione a causa dei rievocati contrasti con il regime
fascista culminati dopo il delitto di Giacomo Matteotti perdendo così la
gestione di 8262 scuole sparse nel luoghi più difficili di Sardegna, Sicilia,
Basilicata e Calabria7.
Confinato nel 1941 a Paestum Zanotti Bianco riprende le sue poliedriche
attività subito dopo la caduta del regime concentrandosi particolarmente
nell’opera di assistenza e soccorso alle popolazioni meridionali maggiormente colpite dal conflitto. Nel 1946 diventerà presidente della Croce Rossa
Italia e senatore a vita nel 1952; la sua attività politica sarà intensissima per
la ricostruzione del partito liberale, il federalismo europeo, la difesa del
patrimonio culturale e paesaggistico italiano minacciato dal dissennato
sviluppo urbanistico dell’Italia del miracolo economico.
Pur affrontando numerose problematiche connesse al disordinato sviluppo italiano di quegli anni Zanotti Bianco riterrà sempre centrale il
problema dell’educazione rimanendo ancorato alla sua idea di maestro che
cura anche negli anni dell’Italia repubblicana quando, in contesti sociali
e politici completamenti diversi rispetto al primo dopoguerra, e a pochi
anni dal varo della riforma della scuola media, ancora ribadiva «forse è
questa mancata permanenza dei maestri sul luogo e questa mancata libertà
nell’adattarsi alle necessità locali, che intristisce la scuola rurale»8. Di fronte al disastro della scuola pubblica nel Mezzogiorno per conto dell’Animi
nel 1950 richiederà al Parlamento la delega per l’istruzione popolare, pensando a quell’azione svolta trent’anni prima:
Teorie
7. A questo
proposito si
pubblica il
testo di Zanotti
Bianco estratto
dal suo libretto
Proteste civili,
Aldo Chicca,
Tivoli 1954,
pp. 49-54. Per
gli altri scritti
sulla scuola si
rimanda alle
indicazioni
bibliografiche
contenute in
AA. VV.,
Umberto
Zanotti Bianco
(1889-1963),
Associazione
per il Mezzogiorno, 1980, pp.
247-268.
Quattro
8. Citazione
tratta dalla
relazione di
Zanotti Bianco
al iii convegno
degli «Amici
del Mondo»,
in A. Battaglia
(a cura di),
Dibattito sulla
scuola, Laterza,
1956, p. 278
9. U. Zanotti Bianco, Il
problema della
scuola, in “Il
Ponte”, a. VI,
1950, p. 1154..
10. U. Zanotti
Bianco, Prefazione a M. Giacobbe, Diario di
una maestrina,
Laterza 1957,
p. vi.
Scrivo soltanto nella speranza di veder migliorato il presente sì triste; mi
sarà permesso, quindi, di fare da queste pagine agli uomini politici di tutti i
partiti che hanno potuto per anni seguire il lavoro disinteressato e al di fuori di
ogni spirito dell’Associazione a cui sono legato da anni di lavoro e di battaglie.
Come all’Associazione per gli Interessi del Mezzogiorno venne affidata anni
or sono la piena responsabilità della lotta contro l’analfabetismo in Sicilia,
Calabria, Basilicata e Sardegna, ottenendo risultati di cui è ancora vivo il
ricordo, propongo che il Ministero competente le affidi l’incarico – mediante
il versamento annuo di un miliardo – della costruzione di piccoli edifici scolastici per le frazioni rurali nelle zone a più alto analfabetismo del Mezzogiorno
d’Italia. Edifici a due, tre aule, con alloggio per il maestro, il cui progetto tipo,
approvato dagli uffici competenti non dovrà ogni volta tornare al loro esame,
e ciò per evitare quegli intralci che stroncano lo slancio a qualsiasi iniziativa9.
Egli temeva che la figura dell’educatore finisse schiacciata dalle implicazioni burocratiche e da astrazioni pedagogiche teoriche, come nei fatti
purtroppo avverrà. In conclusione è significativo notare che anche introducendo il celebre Diario di una maestrina (1957) di Maria Giacobbe, Zanotti
Bianco metteva in evidenza che una efficace strada educativa si poteva percorrere anche per il centrale ruolo dell’educatore che comprende il contesto
sociale e lì opera concretamente:
Più volte traversando le lande arse, i boschi di sughero dai tronchi scuoiati della Barbagia, o avvicinamento a quei solitari abitati che nel Sulcis sono
nominati furia droxius e dove in una misera scoletta una paziente maestrina
era intenta ad aprire – come poeticamente si era espresso un vecchio pastore
– l’anima lebia de sos nostros piseddos, l’anima lieve dei nostri bimbi, io mi
domandavo quale interesse potesse mai spingere la dittatura a stendere i suoi
tentacoli fino a quei miseri aggregati umani fuori dalla politica, fuori della
stessa vita! E quando per quelle solitudini, ove il silenzio non era interrotto se
non da torme di pernici spaventate e da qualche cavaliere dal costume bianco
rosso e nero, con la sua taciturna donna in groppa al cavallo, o a sera tardi –
quando le selve di lentischi diventano nere e il loro aroma più amaro- dal trillo
nostalgico di qualche grillo solitario, mi chiedevo: quale tra i nostri migliori
maestri, o tra le nostre maestre più vicine all’anima dei bimbi, saprà mai scrivere la storia della sua dura vita, sì ricca di abnegazione e di stenti in questi
ambienti chiusi, dal dialetto sì difficile e dove il suo sacrificio è per soprammercato amareggiato dalle imposizioni della dittatura?10
Anche il quel caso la risposta arrivava da una maestrina le cui pagine egli
raccomandava per capire del “Mezzogiorno tante piaghe secolari e tante
speranze”.
la scuola come luogo di rispecchiamento
di Franco Lorenzoni
Gli specchi dovrebbero riflettere un po’ di più
prima di rimandare l’immagine.
Jean Cocteau
L’
alienazione è il morbo che affligge la scuola, non c’è dubbio. Il problema è che spesso non si vede perché la si accetta, la si dà per scontata.
Quando cominciò a insegnare, Emma Castelnuovo si accorse immediatamente che i programmi di matematica non erano adatti ai ragazzi, così si
mise in ricerca e, dopo appena 4 anni, pubblicò La geometria intuitiva, un
libro pazzo che rovesciava la didattica della matematica come un calzino.
Nella prefazione del 1949 scriveva che “è necessario animare la naturale e
istintiva curiosità che hanno i ragazzi dagli 11 ai 14 anni accompagnandoli
nella scoperta delle verità matematiche, trasmettendo l’idea di averlo fatto
per se stessi”.
In quel “averlo fatto per se stessi” c’è la chiave didattica e forse anche
terapeutica per chi voglia provare a curare e prendersi cura della scuola.
Se nel presentare cultura, arte e scienza non riusciamo a dare la possibilità a bambini e ragazzi di rispecchiarsi e in qualche modo riconoscersi,
almeno qualche volta, in quelle complesse costruzioni umane, se non riusciamo a proporle come specchi capaci di farci vedere e capire qualcosa più
di noi stessi, certamente falliremo.
Lo sganciamento, il distacco tra ciò che gli adulti propongono e ciò che
passa per la testa ai ragazzi provocherà quello stato di alienazione che porta
troppi studenti alla passività scontrosa o alla fuga, che sia dentro al cellulare nascosto sotto al banco o fuori dall’edificio scuola, sentito come estraneo e in alcuni casi nemico.
Al contrario, sentirsi di casa e ritrovarsi dentro un racconto, una pittura,
una scoperta matematica, di quelle che sconvolgono la mente, come incontrare l’infinito e l’irrazionale dentro la diagonale di un quadrato, che è
la figura più rassicurante di tutta la geometria, possono aprire squarci alla
nostra sensibilità e dare parole e senso ai nostri sentimenti più segreti.
Ma per arrivare a entrare nel grande gioco del rispecchiamento c’è bisogno di lunghe manovre di avvicinamento. C’è bisogno in primo luogo
che ci si metta in gioco e che si cerchi quale musica, letteratura, scoperta
scientifica o manufatto culturale operi in noi la magia del rispecchiamento
culturale, che è l’opposto della contemplazione narcisistica di sé.
Se sono affranto dalla gelosia Otello parla proprio a me, ma dona al mio
sentimento parole e respiro, offre la possibilità di non sentirmi solo al mon-
Teorie
251
Quattro
252
do e, soprattutto, mi aiuta a comprendere che ciò che mi succede è certamente cosa unica e irripetibile per me, ma accadimenti simili son stati vissuti da altri ed altri ancora, ed è questa tensione tra l’unicità dell’esperienza
individuale e i caratteri generali della natura umana che rende possibile il
linguaggio, il dare nome a emozioni, pensieri ed esperienze; che costruisce
il terreno per la condivisione ragionata, che è qualità propriamente umana.
Nessuna ragazza o ragazzo è superficiale, checché ne pensino i suoi insegnanti. I sentimenti che prova sono potenti e profondi. Quello di cui a volte
manca sono le parole e un linguaggio capace di dare respiro e orizzonti
vasti al suo pensare se stesso e il mondo, se stesso nel mondo. A questo
dovrebbe servire la scuola – skolè – il cui nome antico pare nomini l’ozio,
il perdere tempo, il sostare sulle cose lontano da ogni utilità immediata.
Il motivo per cui vedo forti limiti a tanti progetti sullo star bene a scuola
è che viaggiano paralleli allo studio, separando la geografia delle relazioni
reciproche dalla storia e dalla fatica del conoscere.
Per anni ho condotto e promosso cerchi narrativi nelle scuole con ragazzi, insegnanti ed anche con genitori. L’idea che stava alla base di quella
pratica era che raccontare di sé, seguendo stimoli inconsueti, permetteva
di conoscersi meglio attenuando i pregiudizi. Favoriva un’autenticità e un
uscire allo scoperto attraverso la creazione di un contesto di ascolto, che
nella scuola molte volte si fatica a costruire.
Il limite di questa proposta, come di tante altre che lavorano sulle relazioni reciproche attraverso il teatro, il canto, il movimento o la scrittura
autobiografica, sta nel procedere parallelamente al lavoro duro della scuola,
che consiste nel far acquisire apprendimenti e competenze indispensabili.
Ora il nodo da sciogliere sta proprio qui. O noi pensiamo che cultura,
arte e scienza siano il luogo della conoscenza di sé e della conoscenza reciproca, o la frattura rimane, provocando fughe e ferite.
Quando decisi di fare il maestro elementare cominciai a frequentare a
Roma, con assiduità, i laboratori del Movimento di cooperazione educativa. Ci incontravamo un pomeriggio a settimana per anni, ricercando attorno a un tema che poteva essere la fiaba, la storia vista con sguardo antropologico o la matematica da imparare con le mani. Torno a questi ricordi
perché è lì che ho imparato quanto complesso, unico e irriducibile sia ogni
essere umano e quanto tempo sia necessario per provare ad avvicinarmi ad
un altro. Al centro della nostra attenzione non c’era l’oggetto della conoscenza separato e a se stante, ma la rete di relazioni che con quell’oggetto
venivamo stabilendo. Così, se passavamo intere stagioni a leggere Alce Nero
parla, ciò che via via andavamo scoprendo non erano solo elementi della
cultura dei nativi americani, ma cosa in ciascuno di noi le parole di quella
testimonianza suscitavano, perché era evidente a tutti che un testo parla
solo se chi lo incontra gli dà voce e, nel dargli voce, scopre qualcosa di sé.
Se questa manovra di avvicinamento la si fa in gruppo ci vuole molto tempo, perché a ciascuno deve essere dato il modo di condividere con gli altri
il suo singolarissimo percorso ed approccio. Ma perdere tutto quel tempo
era di fondamentale importanza perché nei modi, spesso inaspettati, con
cui ciascuno intraprendeva la difficile strada del tentare di incontrare una
cultura altra, noi ci rispecchiavamo e andavamo scoprendo, giorno dopo
giorno, al tempo stesso, tratti del carattere dei nostri compagni di ricerca e
qualcosa di più di noi stessi.
Con i ragazzi di Giove abbiamo trascorso cinque mesi della quinta elementare a cercare di entrare nella “Scuola di Atene”. Al termine di questa
lunga ricerca Marianna ha detto: “Tutti quei personaggi che abbiamo scelto
Raffaello li ha fatto veri per metà, noi li abbiamo fatti veri per l’altra metà”.
In questa frase credo ci sia il segreto di ogni relazione viva con la cultura e
mi fa tornare alla mente ciò che diceva Montaigne, quando affermava che
il discorso è metà di chi lo dice e metà di chi lo ascolta.
Noi che insegnamo non dobbiamo mai pensarci padroni della parola,
ma assumerci la responsabilità di dare a bambini e ragazzi la possibilità
di “fare vera l’altra metà” di ciò che incontrano nello studio. Altrimenti la
scuola si trasforma in un museo di mummie, di cui gli studenti non sanno
che farsene.
La cultura ha senso se può farci da specchio. Se crea in noi inquietudini e
tensioni. Arte e scienza, letteratura e matematica diventano nutrimento attraente se ci si può giocare e, in quel gioco, cercare noi stessi. Parlo di gioco
ma non è una cosa facile, perché conoscere richiede sforzi e fatica. Fatica a
volte grande per alcuni, che si può affrontare solo se chi conduce il viaggio
ha la capacità di fare intravvedere la bellezza della meta appassionandosi ad
ogni tappa del tragitto.
È la cosa più difficile da fare, ma necessaria se si vuole tentare di dare
senso al nostro abitare la scuola.
Altrimenti ha ottime ragioni Carmelo Bene, quando afferma: “La scuola, da skolé, è il corpo insegnante, confraternita laddove s’insegna e non
mai dove s’apprende. Una palestra dove ci si va a rilassare, a dispetto del
corpo insegnante: questa è la scuola. Lo studente o lo studiére è colui che
desidera: vedi che scuola e studio sono un’antitesi. Non puoi andare ad apprendere dove si insegna...”
Teorie
253
sulla porta del mito
di Giulia Valerio
C
Quattro
254
1. Aminata
Traoré, L’immaginario violato, Ponte alle
Grazie 2002.
Ministro della
cultura del Mali
nella penultima
legislatura,
figura di grande
rilievo nei forum internazionali, è autrice
di testi preziosi
quanto precisi
che analizzano
le condizioni
attuali del continente africano
alla luce
on sapiente maestria il Mammut, come altre associazioni di frontiera,
sceglie di procedere e lavorare per mesi intorno a un tema archetipico
e ad un mito, agli snodi che costituiscono le invarianti della nostra esistenza, e contengono un grande potere aggregativo e terapeutico. Ha invitato
a concentrarsi sul tema della “porta” alcuni di noi, che operiamo in realtà
complesse, in quei luoghi dove siamo chiamati a immaginare e creare nuovi modi di vivere, di esistere e di resistere.
Quando affrontiamo situazioni gravi, smagliature psichiche, lacerazioni
dovute a fattori sociali e ambientali, il nostro Io, con il suo corredo di saperi, prova un senso di impotenza che genera frustrazione e risentimento,
rischiando così di aumentare gli schieramenti e i conflitti, di aggravare le
ferite e le fragilità del contesto. Ma nelle crepe della torre che crolla, nei
vuoti e nei margini, si intravvedono nuove luci, e le ferite possono diventare
feritoie e finestre, porte che si aprono su altre possibili realtà. Per operare
questo rivolgimento, abbiamo imparato ad abbandonare il pensiero indirizzato, la mente progressiva, il linguaggio dell’interesse e di quella nuova
specie umana che è l’Homo oeconomicus, secondo quanto scrive Aminata
Traoré.1
Vi è infatti un altro modo di procedere, circolare e capace di annettere, che rispetta i tempi del profondo e tiene insieme i contrari, generando
nuove energie e possibili, impreviste configurazioni. Si tratta del linguaggio del mito, che delinea un campo, un modo di pensare, ed è capace di
inaugurare il sogno e di instaurare un nuovo tempo, differente e differito.
Jung nei Simboli della trasformazione distingue due forme del pensare: uno
indirizzato, logico, che si snoda per parole, ed ha significato più sociale che
personale: finché il nostro pensare è indirizzato, noi pensiamo per altri e
parliamo ad altri. È il linguaggio tecnico di cui si sostanzierà la scolastica,
ginnastica verbale che ha elevato la parola a significato assoluto. Questo
modo del pensiero era sconosciuto agli antichi, ed anche ad altre civiltà
attuali come quelle che appartengono all’Africa centrale.
L’altra forma riguarda il pensiero non indirizzato, il sognare ed il fantasticare, e abita un linguaggio permeato di simboli. Opera senza sforzo, a
differenza del primo, e procede spontaneamente, poiché esprime contenuti
già pronti, guidati da motivi inconsci. È un pensare che volge le spalle alla
realtà, e scioglie le tendenze soggettive le quali, considerate dal punto di
vista dell’adattamento, sono altamente improduttive. Per questo, da un lato
viene attualmente molto trascurato e dall’altro neutralizzato da accorte co-
lonizzazioni. In esso risiedono il sapere e la saggezza, non l’intelligenza,
perché davanti al nuovo, all’ignoto ed al sorgivo brancoliamo e brancoleremo sempre.2
Per i bambini e le bambine, questo linguaggio è costitutivo perché preserva e mantiene la loro capacità simbolica, che è innata e contiene un alto
potenziale terapeutico. Ci sorprendiamo sempre di fronte alle loro capacità
di entrare e uscire dal mondo del visibile e del possibile per entrare in quello abitato da esseri immaginari (ma non per questo meno reali ed efficaci) e renderseli amici, alleati, doppi indispensabili. Sanno porsi domande
sull’esistenza e trovare risposte che abbiamo perso, e ascoltano con profonda attenzione racconti che tengono dentro gioia e orrore, timore e coraggio,
prove pericolose e viaggi sorprendenti. Quello che consola – e guarisce – è
la sospensione sia del giudizio che del peso della responsabilità individuale,
che viene sciolta nella comprensione delle trame destinali e del volere del
fato e delle divinità. A differenza della favola, che veicola una morale e un
insegnamento, il mito tiene insieme bellezza e spavento: conosce la metrica dell’esistenza, e contiene i margini come se fosse semplice, con una
accettazione profonda dell’alternarsi di ordine e disordine, di catastrofi e
rinnovamenti, di morti e di rinascite.
Il tema della porta concentra in sé questa dimensione dell’esistenza,
quella iniziatica. A rischio di morire (e in realtà una parte di noi muore
e si trasforma in ogni passaggio che sia veramente tale) il protagonista del
grande viaggio deve prima o poi aprire la porta dell’ignoto, passare al di
là del suo stato e delle sue stanze, per entrare nel mondo a rovescio, al di
là dello specchio. Si perdono tutte le ricchezze, ci si trova vestiti di pelli di
animale o coperti di cenere mentre si era nati sovrani, i cavalli vanno all’indietro oppure volano, si affrontano mostri dalle molte teste, ci si innamora
di parvenze che scatenano guerra, si incontrano esseri dall’apparenza ripugnante che devono essere trattati con gentilezza per poterci schiudere
bellezze sconosciute.
Con moto dinamico, la porta costituisce sempre un invito,3 anche quando proibisce l’accesso. Proprio l’ultima stanza vietata custodisce il segreto
da svelare: la porta indica la direzione dove cercare e affrontare il mistero,
meta dell’iniziazione. Dal campo profano si entra nel mondo del sacro, di
cui le divinità guardiane conoscono i ritmi: Giano ha due volti e due sguardi, per vedere contemporaneamente al di qua e al di là, e conserva le chiavi
delle porte solstiziali, delle fasi ascendenti e discendenti dei cicli della natura, della vita e degli accadimenti del destino, soglie di dèi e di uomini, che
danno accesso alle due vie di cui Giano, come Ganesha, è maestro.
Il passaggio, spesso sorvegliato da guardiani divini o animali, mostruosi
o enigmatici, non ci lascia più come prima. Torniamo animati da una nuova visione, capaci di cercare altrove risposte impossibili, chiavi d’oro che
Teorie
255
della situazione
macroeconomica del pianeta.
A lei dobbiamo,
bene altrettanto
prezioso, la
biblioteca che
raccoglie tutte
le opere e le
testimonianze
di uno dei maggiori saggi del
nostro tempo,
Hampatè Bâ.
aprono orizzonti di senso. La porta di Scampia, magnifica arte d’amore
di tutti gli artisti, dal più piccolo al più antico, porta con sé ogni racconto
possibile, condensa non solo le speranze ma il coraggio di chi sa rimanere
sulla soglia, a testimoniare che si può ‘stare’, e continuare a schiudere nuovi
sogni. Perché sono i sogni a creare il mondo.
scuole d’esclusione, scuole d’eccezione
di Giuseppe Ferraro
S
Quattro
256
2. C. G. Jung,
Simboli della
trasformazione,
Bollati Boringhieri 2012, pp.
30 e ss.
3. J. Chevalier,
A. Gheerbrant,
Dizionario dei
simboli, vol. II,
Rizzoli 1986, pp.
240 e ss.
pesso mi accade di ripensare al perché tengo corsi di filosofia con i
bambini nelle scuole “d’eccezione” e con le persone detenute, gli ergastolani. Non ci avevo fatto caso fino a quel giorno in cui mi ritrovai sorpreso dalla domanda che qualcuno mi rivolgeva sul perché di questo rapporto. Risposi allora che i bambini sono all’inizio del percorso formativo,
i detenuti sono quelli che hanno deviato, ne sono usciti, deragliando quel
cammino. È quel passaggio da capire, se non sia proprio quel cammino a
suggerire la devianza, se non sia proprio la normalità a favorire l’esclusione.
Quando si parla d’inclusione scolastica, è sempre a un ordine che si fa
riferimento. Ci s’include in un ordine. Ci sono però quelli che ne restano
esclusi e quelli che invece si trovano poi reclusi in quell’ordine. L’ordine è
tra esclusione inclusione reclusione.
Ormai lo ripeto a ogni occasione: il grado di democrazia di un paese si
misura dallo stato delle sue carceri e delle sue scuole, quando le carceri saranno scuole e quando le scuole non saranno carceri, quel grado avrà raggiunto il
punto suo più alto.
Se faccio poi i conti con il linguaggio, con la terminologia del carcere e
della scuola, mi ritrovo con le parole “evasione”, “dispersione”, “devianza”,
“abbandono”, tutte espressioni di passioni tristi. Meno forse lo è “evasione”
nel modo in cui dovrebbe essere la scuola, al contrario, un’evasione dalla
realtà così com’è, esistente. E però la parola che più riflette carcere e scuola
è “contenimento”. La ragione penale è il contenimento. Quello che si dice
“tenere la classe” e che il carcere è il trattamento.
Si va bene a scuola, se si sta bene a scuola. Questo bene spesso manca e
chi si prodiga nell’insegnamento, i “buoni maestri”, le “buone maestre”,
spesso sono “cattivi maestri” per l’istituzione. Quel “buono” fa riferimento
non a una debolezza, i buoni non sono per niente deboli e permissivi, perché a tenere il bene ci vuole tanta fermezza da “far paura a se stessi” e certamente da dar fastidio ad altri. A dare fiducia si mette in grande difficoltà
chi la riceve, deve esserne all’altezza, gli apre dentro una scalata.
Chi fa scuola, come si dice per vocazione, è un “escluso”. Bisognerà riflettere allora sull’esclusione scolastica fino a rovesciarne la valenza e cominciare a pensare all’“ordine dell’escluso”. A ciò che ordina l’escluso, a
quel che reclama, che si ponga all’ordine dell’esclusione. Fino ad arrivare
a una critica dell’inclusione ovvero a critica della ragione normale, della
scuola normale. Si sente ripetere tanto spesso di qualcuno che si rende responsabile di azioni terribili che “era una persona normale”, tanto da pen-
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Quattro
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sare non solo che è cacciato via da quella normalità dentro cui “era”, ma
che sia proprio quella “normalità” a creare certe situazioni di assurdità di
azioni e certamente di esclusione.
L’autoesclusione è quando si compie invece una scelta, definisce un dissenso, si opera per un’altra via. Sono quelli che ci credono nella scuola che
si autoescludono da quella normalità. Seguono un ordine diverso. Bisogna
capire allora che cosa c’è nella richiesta di un ordine, quale individuazione
di articolo, di prodotto o struttura. Insomma, quale è l’ordine della scuola
da cui si può essere esclusi e quale rapporto stabilire tra segni e affezioni,
tra affetti e sentimenti, tra essere e stare, tra sapere e vivere. Bisogna capire come nelle favole, se c’è una morale della scuola o se invece non sia da
pensare a una scuola morale, una scuola dei legami. La legalità entra subito
a prendersi la parola. Prima che giuridica la legalità è fatta di legami. Le
regole senza relazioni sono vuote, le relazioni senza regole sono violente e
cieche. Le condizioni spiegano le cose, sono poi le relazioni che cambiano
le cose e le situazioni insieme alle loro condizioni. Il legame è relazione.
Ogni sentimento è un legame, non è così l’inverso, un legame non per tale
è un sentimento. Quello che è sentire è un legame che ti tocca, quando
però un legame ti costringe, diventa un laccio da cui non aspetti altro che
scioglierti. Non lo hai scelto. Non è tuo, non lo senti. La libertà è quando
ci si costringe a un sentire, non quando si costretti a sentire. La costrizione
deve essere la propria, un impegno, un dovere. Parole difficili, ma si comprendono meglio quando si coniugano alla passione, quando si riferisce a
un impegno per un obiettivo e per un fine che si sente proprio, importante.
E non c’è “proprio” più importante che non sia per altri, con altri, comune, quando a sentirsi nel proprio impegno ci sente anche partecipi di una
comunità.
La scuola deve poter essere una comunità, non riflettere, non farsi specchio della società, ma esprimere la comunità sociale e la società comune
entro la quale si può essere propriamente se stessi, partecipandovi. Nella
società non si partecipa. Si è soci. Non si è certo amici. Non ci sono legami che rimandano a un’affezione. Di società si è per interesse, per scavalcamento. Una società deve poter essere comune per non essere il campo
dell’esclusione. La scuola comune allora, la scuola dei legami. Vorrei usare
“scuola comune” invece di “scuola pubblica”, ma si capisce il punto di volta.
La scuola non è un edificio. Il termine skholé, lo ripetiamo sempre, indica un tempo. Un altro tempo, fuori dell’attualità, un tempo inattuale,
perché proprio. La scuola dà il tempo. Chi insegna dà il proprio, tutto il
proprio tempo, quello che ha vissuto, la sua storia, il tempo del suo studio,
della scuola sentita tra i banchi da bambini. Penso spesso che i più bravi
insegnanti sono quelli che danno quello da bambini hanno sempre pensato
che dovesse essere la scuola, spesso sono quelli che a scuola non “andavano
bene”, spesso la scuola è per loro un rifugio di utopia, spesso è la loro propria intimità, perché l’utopia è nell’intimità, quello è propriamente il suo
non luogo.
Chi insegna dà tutto il proprio tempo, anche quello che non ha. E i sentimenti sono fatti di tempo. Chi insegna dà sentimento, stabilisce legame,
ha i “suoi” alunni, ne soffre il distacco e ne prende la gioia a ogni nuovo
anno di scuola.
Chi insegna veramente, restituisce il proprio tempo come propriamente
dell’altro. Lo apprende nuovamente dal suo ascolto. Il sapere si restituisce.
Chi lo apprende è quando lo fa solo suo, proprio, come lo sente proprio di
chi lo parla e nella sua voce fa capire quanto ne ha passione, quanto lo sente.
Chi insegna dà tempo. Dà tutto il proprio tempo, ma dà anche all’altro, ai
ragazzi, il loro tempo. Gli dà il tempo in cui apprendono e ognuno ha i suoi
tempi di apprendimento, chi prima e chi dopo, ma in quel “prima” e in quel
“dopo” è un modo differente, un legame con se stessi e con chi insegna e
apprende insieme. Dare il proprio tempo è un’espressione di passaggio, su
di essa passa l’attivo e il passivo, quello che si dà e quello che si riceve, quello
dell’altro e il proprio. Il sapere di chi insegna è sempre deponente, come
abbiamo imparato di quei verbi del latino che erano di forma attiva e valore
passivo e viceversa. Il sapere è legame.
Si va bene a scuola, se si sta bene a scuola. Leggo però la “buona scuola”
del documento governativo attuale e non trovo gli studenti, trovo solo la
società del merito nella competizione degli insegnanti, trova l’altalena di
scuola e lavoro, come la scuola non fosse il lavoro più importante, quello
che si fa su se stessi, ma è un’altra storia. In quella “buona scuola” c’è il
mercato, c’è la società, manca la comunità.
Ma come si può pensare a una scuola comune, come arrivare a una scuola aperta insieme, una scuola del rione, della città, a una città che si fa scuola? A una comunità. Quando penso a don Milani al quale tante volte ci riferiamo, ricordo che quella era una comunità. Senza distinzione di classe e di
età. Anzi proprio per tale una comunità. Quando penso alla scuola a tempo
pieno, ricordo che quella era una scuola piena di tempo, piena di cose, la si
vive, e chi era là dava tutto il proprio tempo. Le utopie sono le eccezioni che
fanno fatica a farsi regole, ecco perché si dice che poi confermano le regole,
così le si può accantonare senza problemi, con esclusione autorizzata. Il
punto di volta è proprio l’eccezionalità.
Non parlo più di scuole a rischio, è una terminologia sociologica. Né
parlo dei casi, che a scuola non sono mai casuali. Non parlo di BES e tutto
quanto fa “specialismo”, facendo perdere quel che la scuola ha di speciale
nella vita delle persone. La scuola somiglia sempre di più a una clinica e
non a un luogo dove si fa critica. Ci sono i “casi”, le “patologie”, le “diversità”. La comunità è fatta delle singolarità.
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Quattro
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Negli anni recenti si è parlato di scuole d’eccellenza e di scuole a rischio,
dove non è possibile nemmeno la normalità delle regole dell’ordine di rito.
Anche gli ordinamenti scolastici e le stesse strutture hanno provato e provano a mettere a sistema una tale distinzione. Gli ordinamenti universitari
sono tali con la distinzione tra diploma di laurea e specialistica. La selezione è sulla linea dell’esclusione.
Nelle scuole d’eccezione non si possono fare percorsi “normali”, si possono però fare percorsi eccezionali. Le esperienze sono tantissime, bisogna
dar loro ordine, metterle in ordine, l’ordine dell’esclusione. Metterle in ordine. Non fare semplicemente rete. Cosa certo importante a ritrovarsi in forum, più importante è però fare costituire delle scuole, essere espressione di
un modo di fare scuole. È nei luoghi d’eccezione che si possono dare scuole
eccezionali. Bisogna farne sapere. Darsi una costituzione dell’escluso.
Tra le “ragioni” dell’evasione e della dispersione scolastica è la valutazione. È questa che finisce per essere come la cruna da cui passa il fi lo dell’evasione scolastica, della dispersione e dell’esclusione. La valutazione isola.
Separa. Divide. Disperde. È la medaglia al merito. Personale, individuale.
Ed è la croce di ogni insegnante come di ogni studente, una sorta di marchio o di medaglia, dipende dal voto, appunto. Può incidere nella carne e
portarsi sul corpo, si può nascondere o ostentare, dipende dal voto. E tante
volte l’insegnante deve fare i conti di voto tra quello che sente, spera, vuole,
prova, capisce e si rende conto. Poi c’è la sala dei professori, dove si fanno i
conti e ci si scontra.
Si può provare a fare altrimenti. La valutazione comune. Ognuno partecipa del proprio voto alla valutazione della classe. Ci si dà un obiettivo,
un fine. Insieme. Si farà la somma dei voti individuali, tale che sarà il contributo al lavoro comune. È un’altra la responsabilità che si attiva, altra la
solidarietà, l’avvicinamento alla consapevolezza che tra i ragazzi ci si educa
“aiutandosi”, sostenendosi a cercare di far avanzare ognuno, tra loro stessi.
Il voto sarà perciò aperto. Ognuno dovrà dire quanto pensa di meritare,
quale merito si dà in merito alla comunità, dandone le motivazioni, non
sostenendo semplicemente l’intenzione, ma rapportandosi ad altri. Accade
che il docente si trova nella condizione di dover “alzare il voto” in molti
casi.
Il passaggio è dall’essere giudicati al far parte. Bisogna raggiungere un
voto di classe. Bisogna giungere a un obiettivo e coprirlo nella sua comprensione con la partecipazione di tutti. “Fare squadra” si direbbe adesso.
Siamo in un tempo in cui con la tecnologia si stabilisce un grado di accesso
alle informazioni che non hanno una corrispondenza con la partecipazione. Ognuno può accedere a qualcosa che è disponibile a tutti e che non
mette insieme tutti, non li accomuna, si arriva ognuno isolato, mentre che
ogni ricerca, ogni conseguimento di obiettivo è comune. I dispositivi di
ricerca non sono più regolati dall’invenzione isolata, ma dal corrispondersi
informazioni e pervenire a un fine. Non basta sapere bene le cose, se poi
non si sa che cosa è bene fare. Il bene che è da fare del proprio sapere è
quello comune, ovvero il comune è il far bene. Pensare una valutazione in
questa prospettiva significa anche farla finita col merito e con l’esclusione.
Farla finita con la valutazione e con la selezione. Ognuno avrà la propria
centralità nel contributo di un centro comune.
Le scuole d’eccezione, quelle delle periferie del mondo, nei luoghi
d’esclusione, sono quelle dove la scuola s’inventa, diventa un’invenzione
comune. Sono i luoghi dove la scuola inventa se stessa e dove ci si ritrova
insieme, l’autonomia è un’autoesclusione. Quando un’esclusione dall’ordine diventa propria, si raccoglie nella propria eccezionalità, allora le scuole
d’eccezione diventano eccezionali.
Teorie
bellezza e cura nella scuola viva
di Sara Honegger
L
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a nostra prima scuoletta fu in una stanza di circa trenta metri quadri, a
ridosso della ferrovia. Eravamo ospiti di una cooperativa sociale: lo stabile non aveva riscaldamento, al mattino, quando arrivavamo, dovevamo
versare il kerosene in una stufa. Per le nove, quando iniziavano ad arrivare i
primi studenti (quasi tutti rifugiati politici), era appena tiepida. Nonostante la temperatura – e nonostante la bruttezza oggettiva del posto, che fino
a poco tempo prima ospitava gli uffici di un import-export – ci sembrava
una stanza bellissima. Era nostra. Questo ci permetteva di usarla davvero:
potevamo appendere alle pareti i lavori che facevamo con gli studenti, alcuni materiali didattici, i risultati dei laboratori, sì che dopo qualche mese era
come stare immersi in un libro di testo che avevamo scritto insieme, che
raccontava di noi, del nostro lavoro intorno e dentro la lingua. Lo spazio
era poco, gli studenti tanti: e così, durante la mattinata, era tutto un montare e smontare: togliere i tavoli al momento del cerchio, rimetterli quando
iniziavano le attività. Gli studenti ci aiutavano: avevano imparato presto
il posto di ogni cosa, sapevano dove trovare le scorte delle penne come le
tempere o le colle. Furono mesi bellissimi.
Quando dovemmo andare via da lì, trovammo ospitalità nella sala lettura di una biblioteca, chiusa due giorni alla settimana. Stavolta avevamo
il riscaldamento e anche le pulizie. Ma avevamo a nostra disposizione solo
una parete e tutto ciò che usavamo (lettere smerigliate per gli analfabeti,
alfabetari, tempere, pastelli a cera e così via) doveva essere messo via alla
fine di ogni lezione. La sala era talmente grande che potevamo allestire gli
angoli di lavoro fin dal mattino, lasciando al centro un ampio spazio vuoto
per il cerchio, momento importantissimo durante il quale ci riconoscevamo come gruppo, ci davamo il buon giorno, acquisivamo tutti presenza.
Anche qui preparavamo il tavolo della colazione e il tavolo degli strumenti,
dove ogni studente trovava quel che gli poteva servire durante la mattinata.
Ci è sempre piaciuto tenerli in ordine, questi tavoli; far sì che dicessero insieme a noi maestre: qui sei benvenuto, qui sei “pensato”. Questo ambiente
ci riguarda. Anche se solo per poche ore, è nostro. Qui siamo tutti a casa.
Come i nostri studenti, anche noi maestre siamo migranti, non abbiamo una casa stabile. La vita in biblioteca è durata due anni. Poi, ancora,
un trasloco. Una nuova stanza (una via di mezzo fra la prima e la seconda), nuove relazioni da stabilire, una nuova organizzazione da pensare. In
quest’ultima, nella quale facciamo scuola ancora adesso, non possiamo appendere alcunché alle pareti. Non ci siamo scoraggiate. Grazie a quattro
grandi pannelli, che gli studenti ci aiutano a muovere anche per creare un
po’ di intimità ai gruppi di lavoro, riusciamo lo stesso a far vivere intorno
a noi i nostri lavori, le nostre parole. Quattro pedane di legno (la stanza in
altri momenti viene usata per delle serate musicali) diventano pannelli per
appendere i materiali didattici o grandi fogli su cui scrivere. La quinta (rinforzata all’interno da assi orizzontali) la usiamo girata al contrario, come
libreria. All’ingresso dell’aula, gli studenti trovano di volta in volta a loro
disposizione una scelta di albi illustrati, i dizionari, qualche atlante, i piccoli libretti contenenti le storie loro o di studenti degli anni passati, che via via
confezioniamo in modo molto semplice per non disperdere la bellezza di
tanti racconti. Anche qui abbiamo il tavolo della colazione e il tavolo degli
attrezzi. Ma, come nella prima stanza, durante la mattina lo spazio cambia
e quindi tutti devono dare una mano per montare e smontare. Si inizia con
l’accoglienza, e quindi i tavoli sparsi nella stanza, con sopra giochi didattici
o ludici, materiali linguistici, alfabetari; si prosegue con il cerchio; si finisce
con le attività. Come il primo anno, dopo qualche giorno gli studenti (una
quarantina, fra uomini, donne di diverso statuto giuridico, ma anche due
bambini di pochi mesi) hanno compreso come funziona. Così, insieme si
allestisce, insieme si smonta. Tutti i materiali finiscono poi in un grande
armadio guardaroba, posto nel corridoio, che una signora ci ha regalato un
paio di anni fa. Ogni tanto ci piace svuotarlo e rimettere tutto in ordine:
i barattoli delle penne, i fogli divisi a seconda della loro funzione (a righe
grandi per gli analfabeti, a righe piccole per gli altri), le carte colorate, i cartoni, le veline, le crespe, i materiali di recupero che usiamo durante i laboratori, gli strumenti come le squadre, la taglierina, le pinzatrici, i diversi tipi
di colla; i giochi; le vettovaglie per la colazione; i registri, i diari di scuola,
i testi e le poesie, i libri che via via acquistiamo o portiamo da casa… C’è
tutta la nostra vita di maestre e di studenti, in quell’armadio. Averne cura
è come avere cura di noi stesse. Quando il disordine abbonda, sentiamo
che qualcosa non va, che è il momento di fermarsi, di prendersi una pausa,
di riguardare, di sistemare, di ridarsi una base per andare avanti. Così ci
prendiamo un tempo e facciamo ordine: troviamo vecchi ricordi, scopriamo cose dimenticate, buttiamo via quel che è da buttare, acquistiamo quel
che manca. Sempre poco, perché i soldi sono scarsissimi: siamo solo una
piccola associazione (asnada onlus) che sopravvive grazie a bandi e a un
impressionante sforzo volontaristico. Ma insegnare la lingua italiana è la
cosa che ci piace di più.
Nessuno degli ambienti dove fino ad ora abbiamo avuto la fortuna di
poter fare scuola risponde alla nostra “idea di scuola”: una grande stanza
per le attività comuni, stanze più piccole per le attività a gruppo, angoli
per il lavoro individuale, una bella cucina. Ma questo abbiamo e quindi
cerchiamo di trarre il meglio dalle possibilità date. Da subito abbiamo visto
Teorie
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che renderlo accogliente, funzionale, capace di rispondere a diverse esigenze e intelligenze, sosteneva il lavoro nostro e degli studenti, e così proprio
sull’ambiente abbiamo lavorato, cercando di trasformarlo in un alleato della nostra funzione educativo-didattica.
Non ho mai lavorato nella scuola pubblica, ho capito troppo tardi (rispetto a concorsi e così via) che insegnare era la mia strada. Tuttavia conosco molte scuole, pubbliche e private. E so che trasformare l’ambiente è
possibile anche in contesti burocratici e appesantiti da un’idea di scuola ottocentesca di cui, nonostante le vie indicate da grandi maestri del ‘900, non
riusciamo a disfarci. Lavorare sull’ambiente è infatti costringersi a rivedere
la propria posizione rispetto all’educazione e alla didattica; e rivedere queste, significa iniziare a porsi domande sul senso di fare scuola nel tempo che
ci è dato di vivere. Qualche esempio?
Nella Spagna rurale degli anni ’30, una neo maestra appena giunta in un
paesino poverissimo (Storia di una maestra, Sellerio 2014) prima ancora di
mettersi a insegnare (aveva una classe di ragazzini dai sei ai quindici anni)
coinvolse i più grandi nella rimbiancatura della scuola. Cercò poi almeno
una sedia per tutti. E su quel quasi niente impostò una didattica viva, così
rivoluzionaria da dare fastidio a tutti. Pochi anni prima, nel poverissimo
quartiere di San Lorenzo, a Roma, Maria Montessori iniziò con tappetini
per sedere a terra, seggioline e tavoli leggeri che i bambini potessero spostare da soli, e finì per apparecchiare la scuola come una tavola imbandita, cui
ogni bambino e ogni bambina potessero servirsi in autonomia. Nella Rimini del dopoguerra, Margherita Zoebeli trasformò delle semplici baracche di legno in luoghi a misura di bambino, piantandovi intorno alberi che
oggi svettano maestosi. E poco dopo, in un piccolo paesino della pianura
padana, il neo maestro Mario Lodi scoprì quasi subito che doveva togliere
dalla classe le cose inutili, perché i bambini avevano bisogno di muoversi
e occorreva spazio per sistemare la tipografia, la zona per la pittura libera
e per il teatro. Così tolse la cattedra e la pedana, si sedette all’altezza dei
bambini e tutta la sua didattica si trasformò.
Si dirà che sono esempi vecchi, come se vecchissimi non fossero i banchi
e le lavagne (anche nella loro versione multimediale). E allora pensiamo
alle tante scuole di Italia (www.senzazaino.it) che proprio nei nostri giorni
hanno iniziato a ripensarsi a partire dall’ambiente: dal colore alle pareti
all’acustica, dai mobili alla disposizione dei banchi o dei tavoli, dall’utilizzo
degli spazi morti (ad esempio i corridoi) alla presenza nella scuola di piante
e animali. Oppure alle sperimentazioni Montessori che stanno nascendo
in tante scuole pubbliche italiane. A dare il via al cambiamento è talvolta
il profondo malessere che vivono gli insegnanti (come per esempio quello
raccontato da Leonardo di Costanzo nel documentario La scuola). Altre
volte è lo stato degli edifici, come è accaduto a Roma, nella scuola di “Celio
Azzurro”, o a Milano, nella scuola elementare di via Brunacci. Qui, grazie
all’iniziativa di alcune maestre, il processo di ristrutturazione ha coinvolto
genitori e dirigente: un ripensamento globale di tutti gli ambienti, corridoi
inclusi, in funzione di un altro modo di fare scuola, di stare con i bambini.
Ma a dar vita al cambiamento potrebbe essere anche il desiderio di fare della scuola una calamita per il rafforzamento di un senso di comunità ormai
fragilissimo: un luogo aperto, capace di attirare non solo nuovi bambini,
ma anche i genitori, la famiglia allargata, il territorio. O una straordinaria
passione educativa, come quella di Roberta Passoni (A partire da un libro,
Edizioni Junior 2013) e di Franco Lorenzoni (I bambini pensano grande,
Sellerio 2014) nell’Umbria di oggi. Strade quindi percorribili, purché le si
voglia vedere.
Ma facciamo un passo indietro e proviamo ad avvicinarci alla nostra
scuola come fosse la prima volta.
Somiglia a una casa, a un carcere o a un ospedale? Che cos’ha intorno:
un bel giardino, un cortile di cemento, una strada trafficata? I bambini che
vi entrano vedono un ingresso vuoto e grande o si trovano in uno spazio
adatto alla loro misura? Qual è l’odore della scuola? E la temperatura? Le
aule sono fresche oppure da aprile in poi fa talmente caldo che si ha continuamente bisogno di bagnarsi la faccia? Esistono tende alle finestre per
ripararsi dal sole? I vetri sono abbastanza robusti da non far entrare il rumore delle macchine e il suono delle sirene? I corridoi sono vuoti e invitano
a correre? Cosa c’è alle pareti? E se c’è qualcosa, chi lo ha appeso? Quando?
All’altezza di chi? Interessa ancora a qualcuno? I bagni sono pensati perché
i bambini possano starvi anche da soli o i lavandini e i water sono tutti in
fila? Gli asciugamani sono vicini al lavandino o dall’altra parte della stanza,
così che cadono gocce dappertutto? Gli arredi sono tutti uguali, oppure
ogni aula ha qualcosa che la caratterizza? I banchi sono disposti verso una
sola direzione (la lavagna, la cattedra)? Ci sono scaffali dove sistemare materiali ad uso comune o l’unico oggetto, a parte i banchi e la cattedra, è il
secchio della carta straccia? Esistono luoghi dove un bambino che ne senta
il bisogno possa stare da solo? Esiste una stanza dove gli adulti possano stare da soli? Che posto hanno i bidelli all’interno della scuola? C’è una biblioteca o un angolo dove prendere un libro e magari sedersi, su un divanetto,
a leggere? Che strumenti ci sono, a parte i libri di testo, per comprendere
il mondo? C’è un armadio (o un’aula) cui tutti possano accedere dove sia
presente un binoculare o un cannocchiale? Esiste una stanza dove sedersi
in cerchio, magari per terra, su dei cuscini e un tappeto, per raccontarsi
storie o gli eventi del giorno prima? Se un bambino ha una predisposizione
alla musica, può trovare qualcosa in più del solito flauto dolce di plastica?
La mensa è una stanza grandissima? Qual è lo stato della sua acustica? Invita a mangiare in fretta, gridando sempre più forte?
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È solo l’inizio di una serie quasi infinita di domande che l’ambiente può
porre a chi si predisponga a considerarlo un importante alleato della propria funzione educativa. Non un contenitore, come per alcuni è il corpo
rispetto all’anima o alla mente, ma il primo fattore di una fertile triangolazione: maestro, ambiente, bambino. Un vero e proprio mediatore, uno
strumento capace di accogliere, interessare, calmare, guidare, coinvolgere,
al quale adulto e bambino partecipano, entrambi ricavandone sostegno.
Per il maestro/la maestra si apre la possibilità di uscire dalla scena principale (che spetta ai bambini) riservandosi il ruolo forse meno facile, ma certo
alla lunga più interessante e rispettoso, di osservatore-regista; per il bambino/la bambina, la possibilità di sviluppare le proprie potenzialità grazie
alla relazione con i compagni, la maestra o il maestro ma, soprattutto, al
libero accesso a un ambiente ricco di materiali, di strumenti. Perché, tanto
vale dirlo, solo la libertà di scelta sostiene l’innata capacità del bambino
all’attenzione, la sua straordinaria capacità di concentrazione.
Ha scritto Bertolt Brecht1 :
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1. cfr.
“Gli Asini”,
n.22 ⁄ 23, luglio/
ottobre 2014
Pace vuol dire
che non a tutti piace
lo stesso gioco…
Se è vero che i bambini non possono fare tutti la stessa cosa nello stesso
momento, e se è vero che questo ha a che fare con la pace, ovvero sia con
la possibilità di stare bene, di sentirsi compresi, accettati, e quindi predisposti a dialogare con gli altri, a concentrarsi sul proprio lavoro, sui propri
interessi, come valuto il mio modo di fare scuola? Consente ai bambini di
essere attivi o li costringe per molte ore al giorno in uno stato di passività?
Punta sul piacere (di imparare, di concentrarsi, di scoprire, di fare le cose
insieme) o, al contrario, sulla punizione? Rafforza il senso di capacità, e
quindi la prestazione e il desiderio di continuare ad apprendere, o sottolinea sempre ciò che non va? Sostiene l’attenzione e la concentrazione o le
spezza continuamente in funzione di orari e materie prestabilite dall’alto? Piacere/dispiacere, attivo/passivo, senso di capacità/incapacità, attenzione/distrazione sono modalità fondamentali di funzionamento mentale
comuni a tutti gli esseri umani: ognuno di noi ne sperimenta la verità. Il
mio modo di fare scuola ne tiene conto? E se no: la trasformazione dell’ambiente può aiutarmi nel processo di cambiamento?
Maria Montessori, che più di ogni altro ha dedicato attenzione e studio
all’ambiente e all’autonomia del bambino, li vedeva indissolubilmente legati. Per questo definì l’ambiente il primo fattore educativo. Il primo, che
ovviamente non significa l’unico, poiché la scuola è un sistema complesso.
Ma partire dall’ambiente può aiutarci, come in un gioco di domino, a rivedere, ripensare tutti gli altri. E quindi perché non provare?
Si dirà che mancano le risorse, che la scuola del XXI secolo è troppo
povera. Si potrebbe anche dire che quando ci si ama anche le nozze coi fichi
secchi vanno bene. È necessario provare a fare il meglio che si può con il
poco che si ha, contando soprattutto sulla collaborazione dei genitori e del
territorio circostante, lavorando da subito per l’apertura della scuola e la
sua centralità nel percorso educativo dei bambini, e quindi della città. Ma
da dove partire?
Si può iniziare girando per la scuola insieme ai bambini e staccando dalle pareti tutto ciò che è vecchio, malmesso, creando lo spazio per appendervi, quando sarà il momento, ciò che per noi è importante. Si può provare a
guardare i corridoi come luoghi vivi, utilizzabili anche per qualche attività
individuale, e iniziare a sistemarvi dei tavoli, creando piccoli angoli con
diverse proposte interessanti – un libro, un gioco, una ciotola con qualche
frutto, una brocca e i bicchieri per bere, un set per scrivere una lettera speciale. Ma si può anche partire dal grande ingresso, sistemandovi un “tavolo
della stagione”, dove i bambini possano sistemare cose della natura trovate
fuori. Partire dall’ingresso e dai corridoi, potrebbe essere l’occasione per
coinvolgere nella sperimentazione e nell’educazione nuova i bidelli, che nei
corridoi abitano tutto il giorno. Si può lavorare con i genitori perché smettano di comprare astucci costosissimi e allestire una cassa di classe con
cui acquistare il necessario da condividere a scuola (materiali e strumenti
di cui prendersi cura ogni giorno). Ma si può anche iniziare insieme ai
bambini, spostando i banchi di modo che possano guardarsi negli occhi e
tenendo in classe una scopa e una paletta per spazzare quando è necessario, perché curare la scuola non è solo compito dei bidelli. Si può provare a
creare nell’aula un angolo per la pittura, un altro per la lettura, così come
si può provare a stabilire dei turni per chi si occupa di temperare le matite
o controllare che i pennarelli abbiano il tappo. Sempre ai genitori, si può
chiedere aiuto per cucire delle tende e cercare qualcuno bravo a lavorare il
legno, per dar vita a una falegnameria di scuola per la produzione di scaffalature. Si può organizzare una giornata di scuola aperta per raccogliere libri
e iniziare a formare una biblioteca. Ma si può anche partire dalla mensa,
predisponendo i necessari accorgimenti per assorbire il rumore, e suddividendo lo spazio con scaffalature e piante, creando piccoli angoli dove i
bambini possano mangiare chiacchierando con calma.
Gli esempi che abbiamo proposto ci dicono che non esiste una ricetta
“ambiente” valida per tutti. Ogni scuola è diversa, non solo perché l’edificio
è diverso, ma perché unici sono gli insegnanti e i bambini che la vivono.
Allo stesso tempo, sono differenti le criticità. Accade anche quando parliamo di ambiente in senso generale: vivere a -40°, come accade in alcune zone
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Quattro
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della Russia o in Groenlandia, non è come vivere nel Niger, a ridosso del
Sahara. La condizione ambientale di partenza influisce su tutto: il lavoro,
il tipo di casa, l’abbigliamento, le relazioni fra le persone… Sapere che non
esiste un sistema/ambiente perfetto per ogni scuola, ogni maestra, ogni
bambino, potrebbe sembrare scoraggiante. Invece è forse la cosa più bella,
perché sostiene nell’educatore l’inclinazione ad esplorare, anche tenendo
conto delle mappe disegnate dagli esploratori del passato. È quindi dalle
criticità che ognuno incontra nel suo cammino, ma anche dall’osservazione e dallo studio, che è necessario partire.
L’ambiente non è però costituito solo da oggetti. Esiste, per così dire,
una temperatura di scuola data dai termosifoni, ma esiste anche una temperatura emotiva data dalle relazioni, tanto più difficili quanto mantenute
solo sul piano della parola (detta e ascoltata). Il legame fra le due temperature esiste, ma non è scontato. Se è vero che trasformare l’ambiente aiuta
a ripensare la propria didattica, il proprio modo di stare con gli allievi, a
nulla serve cambiare la disposizione dei tavoli se al centro della scena rimangono ancora la maestra o il maestro. A nulla serve sistemare alle pareti
degli scaffali ricchi di materiali, se a questi i bambini possono accedere solo
su invito diretto della maestra o del maestro. Perché l’ambiente diventi un
reale terzo – l’alleato della relazione educativa – è necessario che i bambini
possano utilizzarlo e viverlo in reale libertà, secondo le proprie attitudini, i
propri tempi. Allora la scuola diventa un luogo vivo, accogliente, personale
e, anche se povero di mezzi, bello perché capace di arricchire e arricchirsi
della vita di ognuno: un luogo dove un bambino e una bambina (ma anche
un maestro, una maestra, un bidello, una bidella) possano sentirsi pensati,
liberi di muoversi, di accedere a tutto quello che serve in autonomia, dai
fogli alla creta, dai colori ai cartoni, dai materiali più semplici a quelli più
complessi.
Un ambiente come questo è come un corpo in piena forma, che ci consente di camminare, correre, danzare, arrampicarci, saltare, scalare, riposare. La sua bellezza sta nella capacità di integrare ciò che solitamente viene
diviso: il tempo dall’apprendimento, ancora frontale, seduti; il tempo della
ginnastica e dell’intervallo, che è spesso tempo di sfogo; il tempo dei laboratori, delle tante attività che si fanno intorno, ma che non trasformano,
non cambiano il modo di fare scuola.
Una scuola può tenere insieme tutto questo, ad eccezione dello sfogo, di
cui non c’è bisogno perché non c’è stata costrizione, sostenendo la fiducia
reciproca al posto del controllo dall’alto, la collaborazione al posto della
competizione, l’attenzione al posto della distrazione.
Forse, più che attiva, dovremmo iniziare a chiamarla con il suo vero
nome: scuola viva.
il bosco come aula
di Raniero Regni, conversazione con Alessandra Tagliavini
Q
uand’è che possiamo dire che un ragazzino a scuola sia completamente preso da ciò che sta facendo, che stia sperimentando il flow?
Secondo lo psicologo Mihaly Csikszentimihaly, il flow o corrente della vita
consiste in un particolare stato di coscienza che si ottiene quando ci impegniamo davvero in una qualche attività specifica che sia alla nostra portata
e nella quale siamo presumibilmente abili. Stefano Laffi, nell’ambito di una
ricerca nella scuola media superiore, interroga i ragazzi rispetto a quando
essi sentono di vivere l’esperienza del flow, cioè quando quello che fanno
genera in loro piacere, concentrazione spontanea, tanto che anche le cose
complesse diventano semplici: le uniche cose che indicano a proposito della scuola sono gli sport. Nell’esperienza sportiva c’è una forma di mindfulness, cioè di pienezza della coscienza, del piacere; vi è quindi la coincidenza
tra la motivazione, la vocazione verso quello che si sta facendo e la concentrazione spontanea, molto evidente nel gesto atletico. Quando un atleta,
che ha lavorato tanto su un gesto, alla fine riesce a farlo? Quando c’è una
coincidenza di fattori che la scuola sembra non coltivare per niente. Nella
scuola queste esperienze di concentrazione spontanea, di piacere nel fare
un’attività, sono diventate rare perché l’ambiente scolastico è insufficiente
anche e soprattutto fisicamente.
Il bambino da zero a sei anni pensa con le mani: ha bisogno di materiali,
di concentrarsi sulle attività, e può farlo anche in un ambiente ristretto, un
piccolo giardino, un’aula, la casa stessa. L’ambiente deve essere protettivo
e permettere il dipanarsi di esperienze. Successivamente, nella scuola primaria, il bambino pensa con le gambe: tutta la psicopedagogia sostiene che
l’apprendimento è proporzionale al movimento, e le neuroscienze rinforzano
tale scoperta sostenendo che il cervello non distingue tra funzioni cognitive e funzioni motorie. Se faccio capisco: bisogna favorire la concentrazione
profonda del bambino mentre lavora, e un bambino non si può concentrare
sulle parole, ma ha bisogno di oggetti che suggeriscono delle attività; ecco
che allora lui o lei si concentra, e più si concentra più cresce, più si concentra e più sta zitto. Quel silenzio è veramente d’oro, è il musicista dei
frutti, come dice Saint-Exupéry, perché i frutti maturano in silenzio. La
mente del bambino costruisce: il potere costruttivo che le neuroscienze ci
dimostrano delle prime esperienze infantili è enorme. Il bambino costruisce quelle reti che userà da adulto, gli scaffali cognitivi e mentali che si
porterà dentro e dietro per sempre. Senza abbandonarsi alla neuro mania,
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dobbiamo prestare attenzione a quel prefisso neuro- che è importante perché porta evidenze scientifiche al potere costruttivo delle attività, al potere
psichico del movimento che Montessori aveva individuato benissimo chiamandolo mente assorbente. Il bambino pensa con le sue mani, quello che
afferra con le mani il cervello lo afferra con le reti neurali, quello che non
viene afferrato se ne va. Basta pensare che vi sono più neuroni e meno connessioni all’inizio: il cervello è un organo completamente diverso da tutti
gli altri, rispetto al fegato, ai polmoni; le cellule del cuore di un adulto sono
più numerose di quelle di un bambino, i neuroni sono di meno. Il cervello
di un bambino pesa 700 grammi e quello di un adulto un chilo e tre: che
cosa è aumentato, se le cellule all’inizio sono di più? Le connessioni. E chi
produce le connessioni? Le esperienze. L’educazione fa biologia, determina
la biologia, cioè è l’hardware che viene determinato, non il software, le cognizioni. Il bambino è cosciente ma non consapevole, come viene riportato
da Alison Gopnik, del Mit, ne Il bambino filosofo, un libro splendido che
raccoglie le recenti scoperte delle neuroscienze sulle primissime esperienze
infantili. Il bambino riceve circa diecimila informazioni al secondo con
una pienezza impressionante, e il suo cervello fa un’attività di selezione importante. Noi non sappiamo esattamente come sia la vita psichica di un
bambino piccolo, però potrebbe essere simile allo stato che l’adulto raggiunge con la meditazione come quella orientale: è cosciente di tutto ma
abbandona l’Io, la consapevolezza. In virtù del fatto che riceve tantissimi
stimoli (Montessori diceva che è oppresso da un caos pesante) il bambino
deve trovare un ambiente che lo aiuti a ordinarsi, non lo anticipi e non lo
sostituisca, semplicemente lo sostenga. Una viva e costante concentrazione
è il segreto di ogni apprendimento e di ogni insegnamento. L’attenzione va
ricercata e aiutata.
Quando parliamo di didattica salutare dal punto di vista psico-fisico,
parliamo di creare un ambiente che rispetti la vita; educare significa aiutare lo sviluppo della persona. Il bambino piccolo si sviluppa attraverso un
ambiente, delle attività, dei materiali che favoriscono la messa in ordine
del caos neurale di cui facevamo accenno in precedenza, che lo affligge
per certi aspetti, ma che ha un grande potere costruttivo. La memoria si
costruisce solo nella concentrazione. Il passaggio degli apprendimenti dalla memoria a breve termine a quella di lavoro e, da questa, alla corteccia
richiede tempo, come sottolinea il premio Nobel Eric Kandel. Ma la nostra
attenzione è una risorsa scarsa, e tutti sono a caccia per impossessarsene
(penso al marketing o alle altre mille “reti di pesca” per l’attenzione). Siamo esposti ai tanti input che la quotidianità ci scaglia addosso: le notizie, le
informazioni, le inquadrature televisive che durano zero virgola tre secondi, la navigazione sui browser e sui social network, il leggere dai cellulari
che sono sempre tra le mani degli adolescenti (e non solo). Bisogna dare
tempo al cervello di far passare i ricordi dentro al pensiero, cioè consentire
il passaggio di informazioni dall’ippocampo alla neuro-corteccia. A quel
punto i ricordi divengono parte integrante del pensiero, non vanno in una
memoria esterna come succede nel computer. Goethe diceva che il genio
è per tre quarti memoria! Quello che io chiamo pensiero, è per tre quarti
memoria. Il multitasking, tutti gli stimoli che i bambini ricevono precocemente interrompono la concentrazione. A questo proposito gli scienziati
parlano di costo dello switch, il costo cioè che si paga quando il cervello
diventa bravo ad accendere e spegnere l’attenzione da una cosa all’altra.
Quindi, è evidente che una didattica salutare rispetta questa concentrazione, la provoca, la favorisce e una volta che il bambino si concentra, non lo si
deve interrompere. Dopo un lavoro concentrato, il bambino sarà risposato,
più tranquillo perché il suo cervello è una macchina autofertilizzante: più
lavora e più si riposa. Montessori direbbe “si normalizza”, perché questo è il
vero stato normale, non l’ipermotilità e l’eccitazione continua. Se non trovano cibo per la loro mente, i bambini diventano insopportabili. E molto
spesso nelle nostre case ricche non c’è cibo per il cervello dei bambini, che
pensano con le mani.
Successivamente, in un’altra fase di sviluppo, cambia tutto. Il bambino
della primaria, che pensa con le gambe, non può stare seduto ai banchi per
cinque giorni a settimana per cinque ore: Montessori chiamava il banco,
che allora era inchiodato per terra ed era di legno, una specie di tortura
dell’animo infantile, ma anche del corpo. A quella età si va alla ricerca dei
perché, si cercano le cause, essendo in una fase dello sviluppo cognitivo superiore rispetto ai bimbi tre/sei anni. E le risposte non le può trovare dentro
a un’aula, nemmeno se dotata di Lim, la lavagna interattiva multimediale:
l’aula deve essere fuori dalla scuola, deve essere la città, la natura, il paesaggio. Per l’ecologia della mente e del corpo bisogna uscire dalla scuola.
A dar forza a tale idea, Gardner sostiene che si deve dedicare un terzo del
tempo scolastico, dalla scuola primaria fino alla superiore, a forme moderne di apprendistato. Non significa fare una visita al ceramista, al sarto, così
tanto per fare, senza averla preparata in precedenza, ma di produrre una
esperienza vera. Cioè organizzare un’uscita che corrisponda alle esigenze
degli alunni di quel momento, esponendoli alla bellezza, nella pienezza
dell’esperienza. Ogni aiuto superfluo è un ostacolo allo sviluppo: noi, invece,
dobbiamo aiutare quello sviluppo, servire la vita; pensare, come diceva Vygotskij, alla zona di sviluppo prossimale1 ; offrire, non imporre al bambino. Il
cervello delle imposizioni se ne infischia, le butta. Allora, la scuola salutare,
biodegradabile, ecocompatibile, è quella che utilizza la città come aula, facendo attenzione al come si fanno le cose e tenendo presente che la libertà e
la tecnica non sono opposte. La scuola deve essere un luogo dove si aiuta la
vita e si educa alla bellezza, avendo fiducia nel bambino: noi in realtà non
Teorie
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1. Possiamo
definire la zona
di sviluppo
prossimale come
“la distanza tra
il livello effettivo di sviluppo,
così com’è
determinato dal
problem-solving
autonomo,
e il livello di
sviluppo potenziale, così com’è
determinato
attraverso il
problem-solving
sotto la guida di
un adulto o in
collaborazione
Quattro
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con i propri
pari più capaci”
(Vygotskij, 1934)
abbiamo fiducia nel bambino, per questo lo vogliamo controllare sempre,
lo sottoponiamo a una serie di verifiche che misurano tutto ma non valutano alcunché. Perché quello che conta non può essere contato. Lo scopo
della valutazione è migliorare il curriculum, diceva Bruner: è la retroazione
che serve a migliorare l’offerta educativa.
Gardner ha scritto un libro intitolato The unschooled mind, tradotto in
italiano con “Educare al comprendere”, un libro importante che si focalizza su cosa sia la mente non scolarizzata. Chi è il bambino tra i zero e i
sei anni? Un genio, sostiene. Gli scienziati e i bambini sono i più bravi ad
imparare, eppure questi ultimi, quando entrano a scuola, sembrano incontrare tante difficoltà. Allora la domanda che si fa Gardner, facendo eco alla
Montessori, è: cosa c’è che non va nelle scuole? Il fatto che venga detto loro
“Sta’ buono, sta’ fermo, sta’ zitto”, probabilmente. Perché se è vero che imparano facendo, ne consegue che non possono imparare stando immobili.
Ugualmente, se è vero che imparano interagendo, non possono farlo stando zitti. Ecco perché i bambini devono stare fuori della scuola per un terzo
del tempo scolastico. Mettendoli a lavorare vicino a degli adulti che fanno
dei mestieri veri, portandoli dentro ad una officina per esempio, quindi
facendo mettere loro la tuta, dando loro la possibilità di sporcarsi le mani.
Poi, portarli da un fi losofo, uno storico.
Dal punto di vista del rapporto affettività e apprendimento, questo nesso
è importantissimo. Le relazioni hanno una base biologica: così come l’esperienza fa biologia sul piano cognitivo, le relazioni fanno biologia sul piano
affettivo. Questo lo abbiamo scoperto studiando gli orfani della seconda
Guerra Mondiale: essi, pur mangiando, morivano. Si pensi alle ricerche di
Spitz, Winnicot e Bowlby. Noi, infatti, siamo costruiti sin dalla nascita per
entrare in sintonia con qualcuno che si prende cura di noi; la lunga infanzia
umana è fatta a posta perché ci sia qualcuno che si curi di noi in maniera
continuativa e con affetto. Prendiamo l’esempio di un neonato: al momento della nascita, il suo cristallino è programmato dalla natura per mettere
a fuoco un oggetto che sta fermo ad una distanza di 25 centimetri; non gli
serve per cercare il seno, che è vicino. Il suo cristallino è concepito perché, mentre prende il latte, cominci un dialogo occhi a occhi con la madre.
E tale dialogo è fondamentale per la crescita tanto quanto il latte, poiché
noi siamo programmati per la relazione. In principio era la relazione. Noi
siamo abituati a segmentare lo sviluppo cognitivo (percezione, memoria,
affettività), ma in realtà, diceva Bruner, il bambino “persepensa”, noi percepiamo sentiamo e pensiamo. Rispetto agli insegnanti, essi per definizione
godono nel vedere le persone crescere, l’educatore è colui/colei che realizza
sé stesso/a nell’aiutare gli altri a realizzarsi, il suo benessere sta nella soddisfazione dei suoi studenti. Ma sono oberati dai troppi compiti, non hanno
più il tempo per essere sé stessi; l’ambiente scolastico è insopportabile an-
che per loro, perché le scuole sono brutte, “odorano di scuola”, hanno perso
ogni appeal. Nei programmi, nelle circolari, a livello linguistico, c’è una
manomissione delle parole: si pensa che cambiando le parole si cambino le
cose, secondo una concezione magica della trasformazione educativa, ma
se io cambio le leggi o i regolamenti, non automaticamente cambieranno i
comportamenti. Nell’ambito educativo questo capita ancora di più: ci sono
delle routine, delle inerzie da parte degli insegnanti che, anche per autodifesa, non recepiscono alcun tipo di indicazione, e per certi versi fanno bene.
Molti dei documenti ministeriali additano degli elementi per realizzare un
tipo di scuola come l’abbiamo delineata in precedenza, ma non specificano
gli strumenti e gli approfondimenti necessari né la formazione che dovrebbe accompagnare e implementare tali riforme. Per questo nessuno parla
più di riforma, si è capito che la scuola è irriformabile. Quindi gli insegnanti italiani, per istinto, temono che ogni novità gli sovraccarichi il tempo,
espropriandoli ancor più del controllo della loro professione. La burocrazia
è pesantissima, pensiamo alle uscite dalla scuola e alla normativa sulla sicurezza. Uno studioso della città educante come Tonucci ricordava il grande pedagogista polacco J. Korczak quando diceva: “per paura che muoiano,
gli impediamo di vivere!” Per paura della sicurezza, gli impediamo di fare
esperienza mentre rischio (contenuto ovviamente) libertà gioco e piacere
vanno insieme. Ma una scuola diversa è possibile perché le leggi rendono
sovrano il consiglio di classe che, dopo la riforma dell’autonomia, hanno la
prima e l’ultima parola in materia di scelte educative mentre gli insegnanti
continuano a trincerarsi dietro ai programmi: ebbene i programmi non
esistono più, ci sono solo indicazioni. Ci sono degli obiettivi finali, ma sui
contenuti il collegio docenti è sovrano, può operare delle scelte.
La ricerca accademica in ambito pedagogico, d’altra parte, è correa di
questo stato di cose – parlo ovviamente anche di me e contro di me – poiché è troppo spesso distante dalla pratica didattica educativa e questo è
un danno sia per l’università che per gli insegnanti. Montessori diceva che
le scienze pedagogiche sono solo il presentimento di una scienza: io leggo poco di pedagogia, molto di altre aree di interesse come, ma è solo un
esempio, nel caso di Dehaene che ne I neuroni della lettura ha demolito il
“metodo globale”, ovvero quel metodo molto in voga negli anni ’70-‘80 in
Italia che invitava i bambini a guardare alla parola nel suo insieme come
se fosse un disegno mentre il cervello non funziona «globalmente» ma
analizza lo scritto suddividendolo in componenti fino alle singole lettere.
I neuroni non funzionano così, mentre le lettere smerigliate funzionano e
benissimo. In Francia l’hanno proibito. Bisogna riavvicinare ricerca e pratica educativa.
Richard Sennet ci ricorda, infatti, che quando la mano si separa dalla
mente, chi ci rimette è la mente.
Teorie
273
per una pedagogia del corpo
ritrovare il piacere dell’azione e del movimento
di Ivano Gamelli, incontro con Alessandra Tagliavini
U
Quattro
274
na “scuola salutare”, capace di generare benessere psicofisico per insegnanti e alunni, è una scuola che sa porre al centro del suo operare il primato dell’esperienza. L’esperienza del qui e ora, l’esperienza del
sostare e al contempo del conoscere facendo, che per un bambino significa
innanzitutto uno spazio disteso per il piacere del gioco spontaneo, libero,
gratuito. Quel che invece non di rado accade nelle scuole è che purtroppo
le insegnanti della scuola dell’Infanzia, man mano che si avvicina il passaggio alla scuola Primaria, sono tutte assorbite (e anche pressate da molti
genitori) dal fatto che i bambini devono essere preparati per andare alla
scuola Primaria; quando sono alla scuola Primaria, devono essere preparati
per la scuola media... Tutto ciò genera un’ansia crescente da prestazione
che bambini e ragazzi avvertono potentemente: vanno in stress, uno stress
prestazionale che non è salutare poiché produce, appunto, l’impossibilità
di vivere l’esperienza presente.
Immagino le obiezioni che da subito possono insorgere da alcuni insegnanti, educatori, direttori didattici: i bambini giocano già e molto, noi a
scuola abbiamo altri compiti, diranno. In discussione, però, non è tanto
l’enfatizzazione del gioco genericamente inteso, quanto la possibilità di offrire al bambino una cornice (e la scuola può/deve rappresentare questa
cornice) grazie alla quale egli possa progressivamente accedere a livelli via
via più complessi di simbolizzazione. La crescita cognitiva, che ha a che
vedere con la dimensione simbolica del sapere, non può essere raggiunta
senza la mobilitazione profonda della storia del bambino, che è connessa
con l’esperienza del gioco. Da un lato la scuola ci viene calata addosso, è
un impianto istituzionale e culturale che non si modifica certo più di tanto
col mio singolo apporto di insegnante, ma dall’altro questo impianto è una
cornice, bella o brutta che sia, più o meno elastica, che ha bisogno di me,
della mia energia, della mia creatività, della mia pazienza, della mia specifica preparazione. Di me come corpo, idee ed emozioni, che le danno forma
e vita. La cornice c’è, ma il quadro sta a me dipingerlo, con dei collaboratori
più piccoli di me, che non sarà facile coordinare, ma che porteranno una
tale ricchezza di colori e sfumature, competenze e motivazioni, da affrescare la facciata di un palazzo.
Dicendo questo sto semplicemente ricordando gli assiomi del pensiero
di Jean Piaget: autore tanto conosciuto e studiato in tutte le scuole superiori e le università da coloro che diventeranno future maestre e insegnanti.
Perlopiù, a dire il vero, di Piaget si insegnano gli stadi di sviluppo dell’intelligenza del bambino, ma questi non rappresentano il cuore della sua ricerca. Oltretutto, questi stadi si sono inevitabilmente modificati nelle loro
scansioni temporali, perché le teorie invecchiano come gli individui, e il
bambino di oggi non è certamente il bambino svizzero che egli aveva di
fronte come oggetto di studio e di elaborazione delle sue teorie. Il bambino di oggi, ad esempio, accede al pensiero simbolico ben prima di quanto
avesse postulato allora Piaget.
La chiave, il focus della ricerca di Piaget risiede altrove. Egli si accorse
che quella che noi chiamiamo intelligenza o, per dirla con un tipo di linguaggio oggi in voga nella scuola, sviluppo delle competenze (tanto ci sarebbe da riflettere anche sul linguaggio utilizzato quando si parla di scuola:
nella parola competenza è contenuta la parola competizione, dunque un
retaggio di carattere aziendale e ancor prima militare…), non è altro che
la conseguenza dell’azione. L’intelligenza è un’azione interiorizzata. Il bambino, messo nella condizione di sperimentare il più liberamente possibile
attraverso il dispiegamento nel gioco di tutti i sensi, agisce sulla realtà, che
gli rimbalza dei significati destinati a diventare schemi d’azione, quindi
saperi, conoscenze. Per questa ragione, gioco-azione-intelligenza-pensiero
sono per Piaget isomorfiche, hanno la stessa forma, sono la stessa cosa.
L’apprendimento è una questione di fare. La percezione sensoriale, la
cognizione (l’elaborazione) e l’azione non avvengono, come si è a lungo
creduto - e da cui discendono i tradizionali (obsoleti) sistemi di insegnamento - in sequenza: le tre funzioni agiscono in modo simultaneo. Le moderne neuroscienze ci dicono che quando osserviamo qualcuno compiere
una qualsiasi azione si attiva in noi una zona del cervello che normalmente
si attiva quando siamo noi stessi a compiere quella medesima azione. Il
successo di ogni apprendimento è legato alla compresenza di osservazione
e azione. L’acquisizione delle conoscenze da parte di un bambino avviene attraverso un processo integrato mente-corpo, un vissuto affettivo, lo
stesso che ritroviamo nelle attività spontanee, esplorative, motorie che un
bambino o una bambina mette in atto (se non ostacolato) all’insegna del
piacere di vivere il suo corpo in relazione con gli altri, lo spazio e gli oggetti
del mondo che lo circondano.
Non si può pensare - insisto consapevolmente - a un’educazione a scuola, soprattutto nei primi anni, che prescinda dal piacere del gioco spontaneo del bambino, poiché il gioco attiva globalmente tutti i suoi bisogni:
nel gioco c’è il contesto, la relazione con l’altro, il corpo, le emozioni, il
pensiero. La scuola non può essere quel luogo frammentario e spezzettato
che troppi bambini ancora incontrano.
La scuola delle prestazioni è pensata come un luogo che si frequenta,
come un non luogo per dirla con Augé; al contrario, una scuola che recupe-
Teorie
275
Quattro
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ra la dimensione integrata del bambino diventa un luogo che si abita. Abitare significa sentirsi bene in un luogo nel quale si è visti, accolti in maniera
globale. E la misura prima e imprescindibile del riconoscimento e dell’accoglienza per ogni bambino (e ogni insegnante) è, appunto, il suo corpo. Il
corpo è sempre e ovunque a scuola, non può essere relegato in poche ore di
educazione motoria (e non solo quello dei bambini e dei ragazzi). Vivere la
scuola col corpo è pensarla come un luogo di relazioni dinamiche e affettive, con una didattica capace di dare corpo al sapere, di incontrare la disponibilità naturale dello studente ad apprendere al livello della sua sensibilità
più autentica. L’opportunità data ai bambini di vivere l’apprendimento in
maniera globale passa inevitabilmente dalla disponibilità dell’insegnante
a coltivare un proprio “sguardo corporeo” sui processi di cui è facilitatore.
L’organizzazione, la cura degli spazi non sono elementi indifferenti: la
scuola può essere un luogo bello, dove “bello” non deve immediatamente
far pensare a un costoso edificio progettato da un architetto di grido. Una
scuola bella è una scuola accogliente, disponibile a essere modificata. Molte delle difficoltà che incontrano oggi gli studenti a scuola a incorporare le
conoscenze appaiono proprio come la conseguenza inevitabile di ambienti
che costringono. Quando, invece, l’ambiente si adatta in maniera flessibile
alle esigenze espressive degli alunni, regolandone sì gli atti ma decolpevolizzandone il desiderio, ecco che allora in loro si dispiegano le potenzialità
sottese alla globalità dei tanti linguaggi e altrettanti sensi di cui sono portatori. Non è dalla volontà che scaturisce la motivazione ad apprendere, ma,
al contrario, è la motivazione a generare desiderio di conoscenza.
È interessante notare come oggi, per una serie di ragioni addotte (sicurezza, pulizia, razionalità), gli spazi educativi tendano a essere sempre più
irrigiditi. Nell’università dove insegno, non vi è un’aula che non abbia banchi e sedie inchiodate, una tendenza che si va diffondendo sempre più. Naturalmente, ci sono delle valide motivazioni da un punto di vista razionale:
i ragazzi non cadranno certo da delle sedie inchiodate, il personale addetto
alle pulizie non dovrà impiegare tanto tempo per rimettere in ordine, ecc.
Ma spazi che si danno già definiti, e che non possono essere modificati,
non sono spazi accoglienti, poiché tutto ciò che è immutabile (insensibile
al contesto) è destinato a essere percepito come estraneo. I bambini, i ragazzini sono così indotti surrettiziamente a una sorta di messa a distanza,
di non riconoscimento di un simile luogo.
Il movimento a scuola fa paura. Un corpo indisciplinato, libero, è difficile da controllare, da disciplinare. Nel piacere del gioco libero il bambino
esprime la sua pulsionalità, quindi anche la sua aggressività. Se l’insegnante non è stata preparata, formata, non ha avuto la possibilità di sperimentare a sua volta un rapporto educativo con le proprie pulsioni, probabilmente
non riuscirà ad accettarle nei bambini. Ma imbrigliare il movimento vuol
dire mettere un coperchio alla dimensione vitale del bambino. Le nostre
scuole sono state, e in molti casi continuano a esserlo, luoghi caratterizzati
dalla compressione e dalla restrizione del movimento. Il monito di Maria
Montessori di non cadere nell’errore di associare a scuola ciò che è bene
con l’immobilità e ciò che è male con il movimento continua a essere più
che mai attuale.
Una didattica salutare ha a che fare con il concetto di dieta, parola greca
che non si limita al regime alimentare ma esprime ogni condizione esistenziale di cura segnata da una pratica scelta e consapevole. La scuola deve avere una sua dieta. Spesso ci si lamenta del fatto che i ragazzini non sappiano
comportarsi, non sappiano riflettere, ma la riflessività non è una qualità
che nasce e si sviluppa così come in un bambino si sviluppa la lunghezza
dei piedi o l’altezza: deve essere alimentata, stimolata, praticata. È necessaria una pratica quotidiana e ripetuta di cura che ha a che vedere con una
didattica che deve necessariamente prendere in considerazione e accogliere
tutte le dimensioni del bambino. Come ho scritto recentemente in un libricino per la scuola dal titolo A scuola in tutti i sensi, parafrasando un vecchio
filone di ricerca del Movimento di Cooperazione Educativa degli anni ’60
“A scuola con il corpo”, bisogna superare l’artificiosità delle separazioni fra
mente e corpo, parola e movimento, cognizione ed emozione, mondo della
vita e mondo dell’educazione.
In questo senso, la “Pedagogia del corpo”, disciplina che ho istituito e
che insegno all’Università di Milano Bicocca, è una necessità e una provocazione necessaria, perché quella che mediamente viene chiamata e insegnata nelle accademie come pedagogia generale di tutto tratta tranne di ciò
di cui si discute in queste pagine. Ho pensato quindici anni fa che fosse necessario parlare di pedagogia del corpo, non tanto e non solo per riflettere
su che cosa fare con i bambini nella scuola per sviluppare le loro competenze
motorie, quanto per disporre di uno spazio da cui chiedersi in che modo si
possa provare a integrare le proposte educative in una prospettiva capace
di tenere insieme tutti gli aspetti in gioco nella formazione, di cui il corpo
è lo snodo, la dimensione fondante.
Noi siamo corpo e abbiamo un corpo. Il corpo non è solo e semplicemente il corpo fisico, anatomico, ma è anche e soprattutto lo spazio che
si apre nella relazione tra me e te, una relazione definita dall’incontro di
due esperienze incarnate. Un corpo che sente, che si emoziona, che parla:
in questo senso, la parola, la voce sono anch’essi gesti, prolungamenti del
corpo.
La voce è un’altra delle dimensioni rimosse dalla pratica educativa. Eppure è lo strumento per eccellenza di un educatore, di un’insegnante. Con
la voce possiamo accarezzare, colpire, consolare, avvicinare o mettere a
distanza l’altro. Al pari di un qualsiasi altro gesto, la voce produce effetti
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Quattro
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cinestesici. Essa è connessa al contesto emozionale e affettivo. Tutto questo
è totalmente dimenticato nella formazione degli insegnanti.
I contesti scolastici sono segnati da una sorta di bulimia ipercognitiva.
I dirigenti si sentono manager. Può capitare che una giovane (o meno giovane) insegnante possa voler accogliere molte delle cose di cui qui si parla,
ma andrà probabilmente incontro a vissuti di solitudine o di contrapposizione. Con il rischio che ciò la/lo porti a omologarsi verso il basso, non
inseguendo più, pur avendone la vocazione, quel tipo di scuola che avrebbe
desiderato, non chiedendosi più “come faccio per dare il mio contributo
alla felicità di questi bambini”, ma “come faccio per sviluppare questa o
quella competenza, anche a costo di …”. Non c’è più un ambiente sociale
e culturale di supporto. Si è smarrito il senso della cooperazione tra gli
insegnanti. Prevale la dimensione prestazionale che è il vero ostacolo: il
contenere, il controllare, il competere, il dirigere, il conformare… Si tratta,
quindi, di lavorare sulla ricomposizione di passioni e idee in funzione della
destrutturazione delle rigidità che il più delle volte sono imposte, ma che
non sono funzionali al buon lavoro dell’insegnante.
L’educazione ha molto a che vedere con il ritmo. Così come nella musica
le variazioni sono fondamentali, e i silenzi lo sono ancora di più perché senza di essi non vi sarebbe musica, è fertile pensare una situazione didattica
come una composizione: non vi può essere un’unica “nota” che risuona
all’infinito. Laddove le pratiche educative sono “stonate”, o monotone, le
teste sono destinate a cadere sui banchi, come succederebbe a ciascuno di
noi nell’ascolto di un pessimo concerto. Quando la musica sa sostenere la
concentrazione, la motivazione, sa variare, sa portarci in mondi diversi,
allora siamo presenti. Lo stesso vale a scuola.
Ci sono tanti spazi nelle scuole che non sono utilizzati. I corridoi, per
esempio, possono diventare dei luoghi per il movimento in tutte le sue forme, invece di servire solo per appendere i cappotti alle pareti o, durante l’intervallo, per corse sfrenate inevitabilmente compensatorie. Per non
parlare poi degli spazi esterni: molte scuole ne hanno di bellissimi, ma non
vengono pensati come luoghi d’esperienza didattica, se non eccezionale
o ricreativa. Si studia la fotosintesi clorofilliana sui libri, ma dell’albero là
fuori nessuno se ne accorge. Si deve tornare, insomma, alla dimensione del
piacere e del gioco di cui si parlava all’inizio, declinandola in diverse forme: un laboratorio di riparazione delle biciclette (di cui in questo volume,
ad esempio, si parla) può essere un’ottima cosa, se intercetta il piacere al
coinvolgimento di bambini e ragazzi. In ciò risiede il cuore della motivazione ad apprendere. Dove oggi c’è un concetto, all’inizio c’era un’azione,
diceva Piaget. L’educazione sta nel capire qual è il concetto a cui io miro
con i bambini o ragazzi e attraversare il processo che vi conduce esperienzialmente. In tal senso la programmazione (parola che non amo), come
qualcuno ha detto, è sempre una post-programmazione: se ho in mente
di accompagnare gli alunni ad acquisire un dato concetto, quello che devo
fare, quando entro in aula, è non nominare quel concetto ma pensare a tutto il percorso esperienziale che porta ad acquisirlo. Come insegnare l’area
del triangolo? I bambini non sanno cosa sia un triangolo, allora bisogna
pensare in quale esperienza lo possono trovare. Potrà essere un’esperienza
pittorica, corporea, musicale. Le discipline servono alla conoscenza, non
sono delle icone da venerare.
Dal punto di vista metodologico, un suggerimento valido potrebbe essere quello di provare a ribaltare la sequenza con cui generalmente si affronta
qualunque apprendimento. Invece di partire dalla sua presentazione/illustrazione/spiegazione da parte dell’insegnante, porgerlo come un “problema” da risolvere senza nominare né mostrare nulla, consentendo ai bambini di esplorare globalmente ogni possibile via, anche quelle “sbagliate”
(sapere perché una soluzione è errata non è meno importante dell’individuare la risposta giusta); dopo un tempo sufficientemente lungo e a loro
affidato completamente, potendo così l’insegnante osservare le soluzioni
che via via emergeranno (l’insegnante che osserva è l’insegnante che insegna), riprendere alcuni elementi della ricerca dei bambini per suggerire
loro di svilupparle; solo alla fine aiutarli a perfezionare e a mettere a fuoco
l’apprendimento. Dal “brancolamento esperienziale” alla “tecnica” è il divenire naturale di qualunque nuova conoscenza; e non il contrario, come
spesso avviene a scuola.
Questo processo, naturalmente vale anche per l’insegnante, la quale non
deve troppo temere di non disporre di una preparazione specifica sufficientemente adeguata e collaudata. Il giocare e conoscere con il proprio
corpo non richiedono di essere “insegnati” ai bambini. Quel che conta,
almeno per cominciare, è la disponibilità a creare le condizioni e a palesare
la disponibilità ad accogliere le loro azioni e le loro scoperte, attraverso una
qualità della presenza e dello sguardo che ciascuno adulto può recuperare
nella propria memoria bambina.
Il primo consiglio valido per un’“insegnante sensibile” è, forse, quello di
cominciare a (re)agire di meno e ascoltarsi di più.
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non chiamatela arteterapia
di Margherita Bellini
D
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a sempre l’uomo danza, balla, dipinge, per celebrare, per celebrarsi,
per consolarsi, per sentire che esiste, per esprimersi, percepirsi.
Con l’avvento del positivismo, alla fine dell’800, tutte le attività che non
fossero legate direttamente a un sapere scientifico, illuministicamente inteso, sono state relegate nel mondo del frivolo, del superfluo, dell’accessorio.
Con l’inizio del ’900 e con le sperimentazioni in ambito psicoanalitico,
alcuni psicoterapeuti hanno cominciato ad accorgersi di quanto disegnare,
muoversi ed esprimersi “artisticamente” giovasse a molti pazienti malati
(pensiamo, a titolo di esempio, a Jung e ai suoi studi sui mandala).
Da queste sperimentazioni nascono, intorno agli anni ’40 del ’900 vari
tipi di arteterapia (danza, musica e arte in generale), cioè tecniche sistematizzate che attingevano a varie forme d’arte per affiancare e favorire un
percorso di cura.Sono passati gli anni e il nostro mondo avrebbe dovuto ben imparare come l’ideale dell’uomo scientifico, che servendosi della
sola ragione trasforma il mondo portandolo verso un continuo progresso,
sia fallimentare. Invece, nonostante fior di studi e fior di studiosi (Freinet,
Piaget, Montessori, Gardner, solo per citarne alcuni) abbiano dato testimonianza di come l’uomo sia un’unità psico-corporea complessa fatta di mente, corpo, emotività e sensibilità imprescindibilmente collegate, di come
l’apprendimento passi attraverso tantissimi canali diversi, non solo quelli
logico-matematici, nonostante tutto ciò all’interno delle nostre istituzioni
scolastiche si continua a trasmettere l’immagine di una realtà appiattita
sulle categorie delle scienze naturali e a promuovere una didattica frontale
e libresca.
Attività musicali, di pittura o movimento vengono tutt’oggi considerate
degli hobby, dei passatempi e acquistano dignità solo se dimostrano di veicolare la cura dei corpi e delle menti. Per questo si vive spesso la contraddizione di incontrare attività che si dichiarano esplicitamente terapeutiche
anche in contesti e per persone che malate non lo sono affatto!
Eppure la cosa spesso non crea scalpore alcuno, probabilmente perché la
concezione che dell’umano viene promossa dalla nostra società è proprio
quella di un essere carente, un essere incompleto (in un certo senso malato?). Non è forse questo il pilastro su cui si fonda il capitalismo il cui unico
obbiettivo è indurre continuamente il senso di mancanza di qualcosa per
portare a consumare sempre di più? È per questo che diventa particolarmente pericoloso il lavoro pedagogico attraverso le artiterapie senza un’attenta presa di coscienza. Innanzitutto si rischia di accondiscendere e anzi
confermare la visione consumistica della società che sarebbe esattamente
quella che esplicitamente si tenta di mettere in discussione. L’obbiettivo
stesso delle artiterapie sarebbe infatti proprio quello di promuovere un’immagine organica dell’essere umano valorizzando fortemente la sua capacità
di resilienza. La sua natura di ecosistema complesso che ha la capacità cioè
di riportarsi in equilibrio dopo aver subito un’alterazione. Il contrario di
“bisognoso di cura”! Infatti se si vogliono preparare i bambini e le bambine a inserirsi nel mondo di oggi come uomini e donne coscienti di sé e
non spaventati all’idea di produrre cambiamento non si può che aiutarli a
riscoprire questa capacità straordinaria di resilienza contro un mondo che
restituisce loro un’immagine di esseri fragili e bisognosi di qualcosa che
non possono avere se non comprandola.
Inoltre usare il termine di “terapia” a scuola non fa che aggravare la tendenza piuttosto diffusa a incasellare bambini e bambine in base alle difficoltà che hanno ad adattarsi al funzionamento della scuola stessa (i cosiddetti “disturbi specifici dell’apprendimento”, inseriti all’interno del Dsm
V, il manuale diagnostico per i disturbi mentali). Tendenza che aggrava il
fenomeno di patologizzazione delle difficoltà di insegnamento e apprendimento e la percezione secondo cui una persona con una difficoltà ha una
disabilità. In generale perciò bisogna prestare molta attenzione a parlare di
arteterapia, sia alle persone a cui si propongono le attività (che non farebbero che auto percepirsi sempre di più come malati e bisognosi di essere
“salvati”) sia alle persone coinvolte, come insegnanti e genitori, in una relazione educativa (che spesso finiscono per considerare strani, malati, inabili
i propri alunni o i propri figli pur di non mettersi in discussione come educatori e come adulti). In qualità di danza-movimento-terapeuta, ancora in
formazione, non posso però che sottolineare come le artiterapie abbiano il
grande merito di essere impegnate in un continuo riscatto delle differenze
e in un processo di valorizzazione delle diverse abilità senza discriminare
alcun canale di espressione; come all’interno dei percorsi formativi venga
dato grande spazio all’allenamento dello sguardo, senza il quale è molto
difficile, quando si è implicati in una relazione educativa, “guardare” veramente chi si ha di fronte; come infine sia richiesto un impegno personale di
presa di coscienza di sé per poter fare da specchio consapevole alle persone
con cui si lavora senza proiettare i propri problemi su di loro (attenzione
che non è richiesta in nessuna formazione universitaria).
Come uscire allora da questa impasse? Come proporre metodologie interessanti e competenze utili, senza alimentare involontariamente una visione della realtà che complica di molto l’intervento educativo? In alcune
scuole di danza-movimento-terapia si comincia a fare largo il termine di
“pedagogia a mediazione corporea” che mi sembra molto interessante. E
affiancato a questo potrebbero aggiungersi i termini di pedagogia a me-
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diazione musicale, teatrale, pittorica, ecc. Certo c’è da chiedersi se i pedagogisti tradizionali siano disposti a lasciare un po’ di spazio a queste altre
forme dell’ “educare”. Se siano disposti ad ammettere che questi ambiti di
sperimentazione siano importanti quanto l’informatica, l’inglese, la matematica ecc. e per certi versi preliminari e propedeutici alla conoscenza
“classica”.
Inoltre c’è un altro aspetto che è necessario analizzare. Credo che lo sviluppo di competenze manuali, di movimento, di espressione ed elaborazione grafico-pittorica siano necessarie per il buon sviluppo del bambino
e della bambina, e che fino a poco tempo fa, molte di queste si acquisivano
“spontaneamente” nei vari contesti di vita: per strada, quando non c’erano
giochi pronti e bisognava inventarseli; a casa, quando si imparava dagli
adulti a fare “le faccende” o quando ci si annoiava e non si avevano cartoni
animati da guardare per cui si era costretti a fantasticare col corpo e con
la mente, quando si incontravano persone dopo tanto tempo e bisognava
raccontare cosa si era fatto nei periodi di lontananza, quando si acquisiva la
capacità di descrivere immagini e scene perché non le si poteva immortalare con una foto, quando si ballava durante le feste… Credo che se oggi c’è
bisogno di trovare spazi educativi ad hoc per riempire queste lacune non
sia tanto “normale” e che se un sistema educativo convenzionale (come la
scuola) non si prende cura di questi aspetti non sia tanto “salutare”.
Messa così mi sembra che l’uso di un termine così forte come quello di
“terapia” diventi almeno provocatorio: ci aiuta a comprendere come rinnegando questi aspetti dell’essere (corpo, emotività, creatività, desiderio
di libera espressione) contribuiamo a creare grandi disagi (se non disturbi
veri e propri) nell’apprendimento e nella buona crescita dei bambini e dei
ragazzi.
Certo mi piace molto di più pensare di progettare interventi di pedagogia a mediazione corporea o musicale o pittorico-plastica piuttosto che di
danza-movimeto-musico-arte terapia. Ma mi chiedo se questo sia possibile
prima che si restituisca dignità a queste antichissime forme culturali; prima cioè che venga dato loro pieno diritto di cittadinanza nella società come
nella scuola.
Preferisco comunque rivendicare con forza l’idea che quello che fa bene
debba essere considerato in un orizzonte di normalità, mentre la cura (di
una persona malata) vada inscritta in una dimensione di eccezionalità a
cui dedicarsi con particolare attenzione e accortezza. Rivendico con forza
il diritto di ognuno di cercare il proprio equilibrio attraverso mille pratiche
di ricerca diverse. Ma mi sento di condividere la provocazione delle artiterapie quando rilevano che un uomo che non è libero di darsi alla musica, al
canto, all’espressione artistica e alla danza, se non “malato” è quantomeno
un po’ più incompleto.
a scuola di notte
di Margherita Bellini e Marco Pollano
C
i sono bambini e bambine che non sono mai stati al buio completo,
molti almeno non hanno mai sperimentato il buio all’aperto, il buio
“naturale”. Molti non sono mai stati da soli per due ore consecutive senza
il conforto della televisione o del computer, senza poter essere raggiungibili
telefonicamente, senza poter essere controllati da un adulto. Esperienze che
fino a pochi anni fa erano normali, diventano rarissime. Come mille volte abbiamo letto, questa mancanza porta inevitabili conseguenze sull’autonomia e sulla percezione del sé. Probabilmente dovremo cominciare a
guardare con occhi diversi i processi di differenziazione e di auto rappresentazione.
Ma c’è dell’altro. Il senso di vuoto ha a che fare anche con la presa di
coscienza dell’esistenza di qualcos’altro da sé e oltre sé; apre le porte alla
possibilità che ci sia qualcosa che va oltre noi, che ci prescinde ma che ci
contiene (naturalmente ci si riferisce qui a percezioni del tutto laiche, come
possono essere ad esempio la potenza della natura, la vertigine della lontananza, la comunione degli esseri nella condizione umana, ecc.).
Ecco perché ci sembra fondamentale e bellissimo (come da anni viene
fatto alla Casa-laboratorio di Cenci, e come da anni propone il gruppo di
“Pedagogia del Cielo” del Movimento di cooperazione educativa) restituire nel corso dei pochi momenti “notturni” che abbiamo a disposizione
come educatori la possibilità di fare esperienze di “tradizionale meraviglia”, come guardare un cielo stellato in silenzio e di “tradizionale paura”
(o meglio inquietudine) o come stare al buio di notte in mezzo alla natura.
Dove per “tradizionale” intendiamo qui semplicemente quelle esperienze
che ci hanno accompagnato per tutta la nostra esistenza di esseri umani.
Nel cielo notturno si possono facilmente riconoscere delle costellazioni
anche se non si è esperti e se non lo si è mai fatto prima, e molte di loro raccontano storie mitiche che vengono da antiche tradizioni tra le quali quella
greca, ricchissima di mitologia stellare. Accompagnare le osservazioni con
il racconto di questi miti bellissimi, ci aiuta ad accostarci all’antichità del
cielo, e all’antichità dell’uomo che così tanti anni fa guardava le stesse stelle.
I miti poi parlano sempre di un tempo fuori dal tempo che è un po’ quello
in cui ci si sente trasportati quando si guarda la volta celeste immersi nei
suoni della natura. E si sa, è il “non tempo” del rito che lascia addosso, al
ritorno a casa, la sensazione di essere stati in un luogo Altro che aiuterà a
vedere quello abituale con occhi diversi.
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Naturalmente per rivendicare un così alto potenziale trasformativo ci
vorrebbe una certa consuetudine con questo tipo di esperienze ma, in
mancanza di meglio, ci si accontenta di piccoli assaggi poiché in ogni caso
alzare gli occhi al cielo e cominciare a trovare un ordine seguendo le tracce
indicate da uomini vissuti migliaia di anni prima di noi è una di quelle
esperienze che risvegliano in chi ne è coinvolto la meraviglia per il mondo
vero (a discapito di quello virtuale).
Per questo durante il breve incontro-scambio che ha visto arrivare nella
sperduta e disabitata Nocera Umbra un affollatissimo MammutBus da Napoli, abbiamo pensato di andare alla ricerca delle tracce di Gulliver anche
durante l’ultima notte di permanenza dei bambini napoletani.
Fuori ha appena spiovuto. Il cielo sta schiarendo. La luna è piena. Siamo
in cerchio intorno a una manciata di candele e impariamo un canto. Un
canto sul fuoco ed un colibrì nascosto dentro. Dopo il canto si coglie un silenzio, non richiesto. Ci mettiamo scarpe e felpe, c’è una traccia da seguire
fuori: un animale strano…
Partiamo, siamo in fila. Ci dirigiamo verso il parco. Ogni tanto ci fermiamo, come per fissare un punto, per darci il tempo di farci sorprendere
da qualche dettaglio. Tutto ha un’ombra, proprio come di giorno.
Poi entriamo nel bosco, in realtà è una fitta pineta. Il sentiero è ben tracciato ma la notte qui dentro è diversa, ha cambiato colore, ha cambiato sapore. I nostri passi sono più incerti, qualcuno comincia a parlare più fitto,
qualcuno lancia la voce più in su. Quasi che l’addizione notte+silenzio dia
come inequivocabile risultato “paura”. Ci fermiamo dentro al buio cercando di non coprire con le nostre voci la voce del bosco. Poi riprendiamo a
camminare e rientriamo nella notte illuminata. C’è sollievo e soddisfazione per la prova affrontata. Saliamo fin sulla cima di una collina. La luna è
a sud. Ci giriamo verso Nord dove ci sono poche ma molto visibili stelle: la
stella polare, le sette stelle dell’Orsa Maggiore e Arturo, una stella luminosissima e arancione. Chiediamo se qualcuno conosce la sua storia, perché si
trova proprio lì, dietro alla coda dell’Orsa, quasi ad inseguirla. Allora inizia
il racconto del mito che ci parla di loro. E ne segue un altro che dal cielo ci
porta fino agi inferi per lasciarci risalire ancora più scompigliati.
Chi sa se questi bambini e queste bambine si sono dimenticati che non
si conoscevano fino a 4 giorni prima, se un po’ si sentono insieme in questa ricerca notturna di tracce, se la notte sembra loro più familiare ora che
l’hanno conosciuta più da vicino, se si sentono più familiari tra loro e con
noi.
La proposta di esperienze analoghe a quella descritta nasce dalla sensazione che per riuscire a toccare davvero bambini-e ragazzi-e di questo tempo, così pieni di suoni e di immagini, di velocità, e al contempo di inerzia
e indifferenza, bisogna trovare alleati forti, ma che agiscano con opposto
stimolo e reggano il confronto con marchingegni tecnologici, inviti pubblicitari e stimoli continui al possesso e all’eccesso non meglio identificato. E allora, ecco perché tentare di offrire loro la disarmante quiete contro
il continuo caos, la pervasiva sensazione di solitudine contro la continua
connessione virtuale.
Confrontarsi con la grandezza dello spazio (gli infiniti cieli dei pianeti e
delle stelle) e con quella del tempo (la narrazione che di quei cieli ne hanno
fatto uomini come noi in tempi così lontani) attraverso l’osservazione del
cielo, permette di dimensionare se stessi in un doppio senso: essere piccoli
e insignificanti, ed essere al contempo infiniti ed espansi come quel cielo
perché lo si contiene con gli occhi, lo si può raggiungere con l’immaginazione e se ci si lascia avvicinare, lo si può far risuonare empaticamente
nel profondo di sé (il concetto romantico di sublime non era poi troppo
diverso).
È molto difficile parlare di confronto con il cielo cercando di essere sobri, laici e asciutti: l’esperire lo spazio ha sempre qualcosa di mistico (anche
se il mistico non ha sempre a che fare con il religioso), ed il mistico ha sempre a che fare con il mistero, con la vertigine, con la sensazione di essere di
fronte all’autentico.
Ci si chiede se non si stia tentando di emulare goffamente un rito di
passaggio antico diluendo il senso del pericolo, mitigando l’impatto con
la notte. Pensiamo che in mancanza di meglio sia lecito proporre un’esperienza notturna a cui poi ogni bambino\a ragazzo\a possa dare il senso
che cerca o che ha percepito. Si tratterà non tanto di ritorno autentico alla
natura quanto piuttosto di incontro reale con lei.
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attualità di ivan illich
di Luigi Monti
P
uò risultare disturbante leggere oggi Ivan Illich, uno dei più importanti pensatori del
‘900, come risultava disturbante per molti leggerlo negli anni in cui il suo pensiero si
misurava, in presa diretta, con le contraddizioni della società del suo tempo. Era una voce
dissonante allora ed è una voce che, per ragioni diverse, suona ancor più dissonante oggi.
Conosciuto soprattutto per i pamphlet con cui negli anni ’70 criticava le istituzioni su
cui si fondavano le speranze progressiste delle democrazie uscite dalla guerra
– la scuola, la sanità, il welfare state – quello che, soprattutto “da
profili
sinistra”, si rimproverava allora a Illich era di avere uno sguardo
romantico e passatista che non teneva conto dei conflitti materiali (sociali ed
economici) delle moderne società industriali. In parole povere: troppo poco di sinistra, sia
per i comunisti che per i cattolici progressisti.
Oggi che quelle istituzioni – scuola, sanità, welfare state – stanno saltando per aria e
non per le spinte di liberazione e autopromozione auspicate da Illich, ma per l’aggressione
priva di scrupoli dei poteri finanziari, con la complicità più o meno consapevole dei governi
democraticamente eletti (socialisti compresi) e di fronte alla nostra impotenza a reagire,
le analisi di Illich possono sembrare, a una lettura superficiale, superate dalla storia e dai
processi di disgregazione sociale che dopo la sua morte, avvenuta nel 2002, hanno avuto
un’accelerazione impressionante.
Se propongo in queste pagine una sintesi del suo profilo intellettuale e biografico è perché
credo, al contrario, che la profondità della sua analisi (antropologica, filosofica e religiosa,
non soltanto economica e sociologica) avesse colto in anticipo le cause principali di tale
processo di disgregazione e disumanizzazione, i cui effetti vediamo con chiarezza solo oggi.
E perché suggeriscono un metodo di indagine ancora essenziale a chi si occupa di
educazione e intervento sociale.
anatemi
Nelle sue analisi e nei suoi scritti Illich si dedicava all’“anatema” più che al “dogma”.
Si preoccupava di decostruire, demistificare più che di fornire facili risposte ai problemi
delle società moderne. Soprattutto nella fase più militante, esercitava il carisma della
“critica” e il compito che si proponeva era quello di smontare l’impalcatura delle fragili
certezze su cui le moderne democrazie costruiscono nuovi e più sottili rapporti di dominio.
I primi scritti – Descolarizzare la società (1971), La convivialità (1973), Energia ed
equità (1974), Nemesi medica (1976) – si ricordano soprattutto per la forza interna del
ragionamento e per la coerenza della tesi che li comprendeva tutti. Tanto stringenti che li
si potrebbe riassumere con slogan quasi geometrici: la scuola rende ignoranti, gli ospedali
fanno ammalare le persone, i professionisti dell’aiuto (psicologi, assistenti sociali, ecc.) le
rendono dipendenti, l’industria dei trasporti limita la loro capacità di movimento. E via
di questo passo.
Per rintracciare una parte “costruttiva” del suo pensiero, sarebbe necessario esplorare
la sua biografia, la sua purtroppo poco documentata esperienza umana. Sono convinto
che si troverebbero lì suggestioni molto utili all’azione, alla costruzione di sperimentazioni
sociali di autogestione. Penso ai corsi di spagnolo che organizzò a New York durante
l’ondata migratoria portoricana, alla struttura organizzativa e ai metodi di insegnamento
della libera “università popolare” che fondò a Cuernavaca, ai cenacoli parauniversitari
con i quali metteva in piedi i seminari di ricerca tenuti insieme ad amici e colleghi in
giro per mezzo mondo, all’austerità anarchica del suo stile di vita e, da ultimo,
alla nobile fierezza con cui, coerentemente alle sue idee, rifiutò la
profili
medicalizzazione del tumore che negli ultimi anni di vita sfigurava
il suo volto. Anche per questo, oltre che per intuire l’origine dell’eccentricità
del suo pensiero, non è secondario fornire qualche breve cenno biografico.
la vita
Ivan Illich nasce a Vienna nel 1926 da padre dalmata cattolico e madre ebrea
tedesca. Studia in Italia fin da bambino per fuggire alle persecuzioni razziali. Si laurea
in materie scientifiche a Firenze, in filosofia e teologia a Roma e in storia medievale a
Salisburgo. Entra in seminario verso la fine della seconda guerra mondiale. È ordinato
prete nel 1951 e nello stesso anno parte per New York dove chiede che gli venga affidata la
parrocchia di un quartiere-ghetto a prevalenza portoricana. Nel ’56 diventa vice-rettore
dell’università Cattolica di Ponce, a Portorico. Inizia a tenere seminari paralleli e gruppi
di lavoro sul nuovo “colonialismo” sostenuto dalla chiesa cattolica. Viste le sue posizioni
vigorosamente contrarie al sistema dell’istruzione e all’ingerenza reazionaria della chiesa,
rinuncia all’incarico istituzionale e dopo tre anni di vagabondaggi a piedi e in pullman
per “studiare” le realtà sociali, politiche e antropologiche del Sudamerica, si stabilisce a
Cuernavaca, in Messico, dove fonda il Centro di documentazione interculturale (Cidoc).
Nato formalmente allo scopo di insegnare la lingua a giovani missionari e volontari
stranieri, il Cidoc diventa presto un baluardo contro la “crociata allo sviluppo” lanciata
in quegli anni da Kennedy e Giovanni xxiii. Oltre all’insegnamento dello spagnolo, Illich
inizia a “ formare” i giovani e motivati cooperanti dissuadendoli dall’intraprendere un
percorso istituzionale di aiuto allo sviluppo mostrando loro gli enormi danni economici
e culturali di cui si fanno inconsapevolmente portatori. E così, oltre che un efficiente e
ricchissimo archivio di documenti sulle tradizioni popolari latino-americane, il Cidoc si
trasforma in un ereticale centro di analisi e critica del mito dello sviluppo e delle istituzioni
(educative, sanitarie, economiche…) che lo sorreggono. Dai seminari di questa anomala
quanto libera “università popolare”, nascerà quella critica radicale alle istituzioni che
spingerà l’alta gerarchia vaticana a richiamare lo scomodo prete dalmata e a sottoporlo
al giudizio del Santo Uffizio. Uscito indenne dal “processo”, Illich deciderà di separare
nettamente la sua opera di intellettuale dalla funzione ecclesiastica e, senza mai rinunciare
definitivamente ai voti, non si presenterà più pubblicamente come uomo di chiesa, anche se
in privato il suo ideale di cristianesimo radicale non perderà di intensità e la sua profonda
carica spirituale rimarrà sempre alla base di tutta la sua analisi e della sua critica sociale.
contro le fabbriche del bene
Illich è stato forse il primo a portare alla ribalta questioni che oggi sono all’ordine del
giorno: le ambiguità e le perversioni delle istituzioni e delle professioni che si occupano di
educazione e cura, degli aiuti umanitari, della cooperazione allo sviluppo, del volontariato
ecc.
La caratteristica che accomuna tutti gli uomini di tutte le epoche
profili
– questo, se si dovesse sintetizzare, il fulcro da cui parte il suo
ragionamento – è lo stato di necessità cui tutti gli uomini sono sottoposti:
necessità materiali (l’esigenza di cibo, di un riparo, di cure per la malattia e il dolore...)
e necessità “spirituali” (il bisogno di relazioni umane, della cultura necessaria per far
parte di una comunità, di strumenti psicologici per far fronte alla paura della morte, del
“bello” artistico...). Ogni comunità umana ha risposto in maniera differente nel corso del
tempo perché se le necessità fondamentali sono universali, i bisogni ad esse corrispondenti
sono storici e culturali, variano cioè in relazione alle epoche e allo spazio. Oggi invece gli
strumenti che noi occidentali abbiamo inventato per farvi fronte (la scuola, la medicina,
lo stato sociale, le politiche del lavoro, il sistema dei trasporti... ) hanno omologato e
monopolizzato le possibilità di rispondere alle necessità primarie creando una dipendenza
indissolubile dai beni e dai servizi da loro prodotti.
Come la sovrapproduzione di beni materiali, anche la sovrapproduzione di servizi ha
effetti catastrofici; la prima devasta l’ambiente (consuma le risorse naturali, inquina,
polarizza le ricchezze, genera guerre...), la seconda impoverisce la cultura, logora la
libertà, isterilisce la creatività, sgretola la comunità. Il monopolio del modo di produzione
industriale (poco importa che sia gestito da privati capitalisti o da uno stato socialista)
applicato tanto ai beni materiali che ai servizi (salute, educazione, protezione sociale...)
distrugge i legami sociali, impoverisce la creatività politica e l’immaginazione sociale.
Una società, un’istituzione o uno strumento sono manipolatori quando trasformano
necessità primarie e fondamentali in beni prodotti scientificamente, industrialmente e
burocraticamente. La salute, l’istruzione, l’equilibrio psicologico, la mobilità personale, il
benessere da necessità fondamentali si trasformano prima in bisogni e poi in beni quando
sono visti soltanto come risultati di servizi o di trattamenti. Superata una certa soglia,
rotto un certo equilibrio, l’istituzione (o lo strumento) da mezzo diventa fine, da servitore
diventa despota: dapprima si rivolge contro il proprio scopo, poi minaccia di distruggere
l’intero corpo sociale. Si tratta di quelle che Illich definiva le due “soglie di mutazione”:
la prima si verifica quando il medico, l’insegnante, il terapeuta, l’educatore, l’operatore
sociale producono l’effetto opposto a quello che dicono di perseguire (la malattia il medico,
l’ignoranza l’insegnante, la nevrosi il terapeuta...), la seconda avviene quando per la loro
azione la comunità diviene incapace di provvedere autonomamente e liberamente alla
propria salute, alla propria istruzione, al proprio equilibrio psichico.
La società, le istituzioni, gli strumenti manipolatori sono alla base della moderna
povertà. Questa “aggiornata miseria”, come la definisce Illich, si traduce innanzitutto
in scarsità d’immaginazione sociale e politica perché rende gli individui incapaci di
organizzare la propria vita sulla base delle proprie esperienze personali e delle risorse
disponibili nell’ambito delle loro comunità.
Nell’ottica di Illich non esistono soluzioni intermedie: l’unica via percorribile, l’unica
possibilità di uscita consiste nell’invertire radicalmente le logiche alla base delle relazioni
umane, nel rovesciare la struttura profonda delle nostre istituzioni. Fino ad allora sarà
inutile raccontarsela: o si tenteranno esperimenti radicali destinati a una breve
e tormentata, ma fondamentale, esistenza oppure, consapevoli,
profili
disillusi e sicuramente un poco complici, non ci si può che limitare
a inventare piccoli strumenti conviviali da insinuare con astuzia e indefessa
costanza fra gli ingranaggi della megamacchina, tentando di stare nelle situazione con
rinnovata intelligenza e creatività e di prendersi cura delle persone nelle istituzioni. O
meglio, nonostante le istituzioni.
la corruzione del meglio è il peggio
Molto più attuali mi sembrano oggi i pamphlet di Illich alla luce delle riflessioni (sofferte,
faticose e molto meno tetragone degli scritti che l’hanno reso famoso) che lo hanno occupato
nell’ultimo periodo della sua ricerca sul Pervertimento del cristianesimo (questo il titolo
italiano dell’intervista pubblicata da Quodlibet che raccoglie il “testamento intellettuale”
di Illich).
Con il cristianesimo si apre una dimensione inedita dell’amore e della conoscenza.
Nella prospettiva del Vangelo è contenuta una nuova, rivoluzionaria libertà, e una fiducia
nuova nella libertà di ciascuno. Cosa fino ad allora inconcepibile, posso scegliere chi
amare, quando prima la mia libertà di amare era limitata alla comunità, alla famiglia,
alla cultura di appartenenza.
Ma nello stesso momento in cui inaugura una stagione di radicale libertà della
civiltà umana, il cristianesimo ne apre una altrettanto rivoluzionaria di alienazione
e disumanizzazione: quella corruzione dell’ottimo (che genera il peggio, secondo la
definizione di Gregorio Magno) che si verifica quando si istituzionalizza il Vangelo,
quando l’amore viene trasformato in richiesta di servizi. Nasce, insieme a questa
rivoluzionaria apertura, la tentazione di voler controllare questo nuovo tipo di amore, di
creare un’istituzione che lo garantisca, lo assicuri.
Non interessa qui la portata storico-sociologica di questo passaggio (che fa della Chiesa
il modello di tutte le istituzioni solidaristiche moderne – scuola, ospedale, stato sociale…),
né quella religioso-teologica (il “mistero del male”, che fa sostenere a Illich come la Chiesa
sia la cinghia di trasmissione di questo processo di corruzione, l’origine del Male moderno).
Interessa piuttosto il portato esistenziale di questa inquietante intuizione. Se il peggio viene
dal meglio e il meglio genera il peggio significa che la contraddizione in cui ci troviamo è
insoluta e insolubile. Significa che qualunque tentativo di “evasione”, di separazione, di
dissidenza non solo ci è impossibile, ma produce anch’esso “ideologia”. Che un “ fuori”
non esiste. Che pure noi nelle nostre pratiche non possiamo che agire nella direzione di tale
pervertimento e al tempo stesso che qualsiasi tipo di evasione (dalla scuola e dalle altre
istituzioni) è una soluzione pigra e non meno corruttrice.
vivere con speranza, senza aspettative
Siamo un’umanità che si sta pericolosamente dimostrando incapace di vivere senza fedi,
che è proprio ciò che il presente ci chiede. L’assestamento della nostra cultura e della
nostra civiltà su basi non più assolutistiche sta producendo risposte
profili
compulsive, grette, stolide, ciniche e per ciò sempre mortifere. Anche
qualora queste spinte dichiarano di perseguire altro.
È difficile capire se le crisi che stiamo vivendo siano in realtà solo “scosse d’assestamento”,
connaturate a processi di lunga durata volti – anche se noi che ne siamo immersi non ne
riconosciamo la traiettoria – a equilibri e ricomposizioni di spinte che consentiranno una
vita ancora decente alle generazioni che seguiranno.
Così come è difficile capire se il declino “qui” corrisponda a vitalità e riattivazione della
storia in altre parti del globo o se al contrario i germi di disumanizzazione esportati con
la mondializzazione comprometteranno in partenza le istanze di rivolta e liberazione dei
popoli finora esclusi dalla storia.
Ma l’ultimo vivissimo insegnamento della critica di Illich sta proprio nel rinunciare a
pretese di prevedibilità e programmazione, anche a un livello di comprensione e di analisi.
“Negli ultimi anni sono arrivato a pensare che il miglior servizio che ancora posso rendere
è quello di portare le persone ad ammettere che viviamo in un mondo fatto così… Non
cercare di umanizzare l’ospedale o la scuola, ma chiediti sempre: che cosa posso fare io,
in questo preciso momento, in questo qui e ora assolutamente unico in cui mi trovo, per
uscire da questo mondo di soddisfacimento dei bisogni e sentirmi libero di ascoltare,
sentire, intuire che cosa l’altro vuole da me, che cosa egli potrebbe immaginare, in questo
momento.”
2. pratiche gemelle
O
gni esperienza è a sé e non esistono modelli esportabili. Ma sapere che c’è
qualcuno che riesce a fare della propria scuola un’esperienza “salutare”
può confortare tutti. Spetta a ognuno la scelta delle porzioni trasferibili nel
proprio unico e irripetibile contesto.
Nei racconti che seguono, alcuni dei momenti del nostro viaggio tra le “porte”: dall’avvio con l’inchiesta condotta insieme ad alunni e maestre, ai cerchi
di discussione al Mammut e nelle scuole, ai lavori di recupero degli spazi adiacenti alle scuole che ognuna delle classi partecipanti aveva scelto di “liberare”.
Per arrivare a Gulliver, uno dei più grandi attraversatori di porte, che ha accompagnato noi e i bambini delle attività pomeridiane fino in Umbria.
educazione e artigianato
di Marco Carsetti
Il laboratorio artigianale
N
on molto tempo fa è nata Else, una casa editrice e un laboratorio
di stampa artigianale che pubblica libri fatti a mano. Questa nuova
realtà vuole essenzialmente tenere insieme il fabbricare cose, la manualità, le figure dell’infanzia, le storie. Tutto questo riunito in una lenta prassi
produttiva che culmina nella realtà oggettuale del libro illustrato stampato
in serigrafia e rilegato a mano. Solo quando il libro è finito si comincia a
provare meraviglia, stupore e intimità con l’oggetto. E questa meraviglia è
connaturata al fare. “Per qualsiasi cosa che proceda da ciò che non è a ciò
che è – diceva Platone – la causa di questo processo è sempre una creazione
(poiesis). Ed è fonte di meraviglia.” Così è per i libri e così è stato per la
nascita di Else.
Se si è trattato di un atto di creazione questo si è accordato con la potenza e l’energia scaturita dall’immaginazione e dall’ispirazione di un gruppo
di persone molto diverse tra loro. Non fu qualcosa di selvatico, cioè nato
spontaneamente, ma piuttosto un innesto. Un innesto tra due principali riferimenti, quello editoriale e quello educativo. Questo innesto ha dato vita
a qualcosa di completamente nuovo per tutti: un laboratorio artigianale. E
291
Quattro
292
le due parole che definiscono meglio questo percorso sono industriosità e
operosità.
Prima il laboratorio non c’era, e se un giorno è nato è solo perché un
gruppo di persone senza un vero libro contabile alla mano, una previsione di spesa, un cashflow (cose in ogni caso utilissime) si sono messe in
moto per apprendere un mestiere, comprare dei macchinari, affittare un
locale, dotarsi di strumenti e materiali, conquistare uno spazio pubblico a
cui rivolgere le proprie produzioni, altrimenti chiamato mercato. Questo
industriarsi riguarda quindi la creazione di un posto di lavoro nell’epoca di
maggiore demoralizzazione da assenza di posti di lavoro.
Ad oggi la storia di questa esperienza è ancora breve (tre anni) ma è un
tempo sufficiente per il suo fallimento economico come lo è per la maggior
parte dei progetti di start up di impresa, destinati statisticamente a chiudere entro il secondo anno di attività. La ragione per cui non è fallita non
riguarda un successo economico insperabile ma la determinazione a portarla avanti fino all’insostenibile. Più semplicemente, e questo è l’insostenibile, grazie al fatto che le persone che ci lavorano non si pagano, lo fanno
gratuitamente. E così l’impresa ha raggiunto un suo equilibrio tra entrate e
uscite ma senza contemplare il lavoro.
Questo equilibrio potrebbe essere considerato già un successo, ma il fatto di non riuscire a pagare il lavoro pone non il laboratorio ma le persone
in uno stato di irrealtà, di galleggiamento, di precarietà, oltre a farle restare perennemente figli fin tanto che le famiglie (i genitori) come rete di
sostegno continuano ad esistere anagraficamente ed economicamente. La
libertà ha un prezzo e lo si paga individualmente e lo pagano le famiglie.
Ma di quale tipo di libertà stiamo parlando? Qual è la libertà di cui si è
ostinatamente alla ricerca? Una libertà fondamentale: “permettersi di non
spendere tutta la propria vita nel guadagnarsela, ma guadagnarsi la vita
amandola”. “Permettersi” è il verbo chiave e non è un regalo ma un atto di
volontà. Chiunque abbia un briciolo di cervello e un minimo di possibilità,
non solo possibilità economiche ma date dall’ingegno, energia fisica e psichica, curiosità e generosità, cercherebbe in tutti modi di praticare questo
obiettivo entro certi limiti, con buon senso e senza disprezzo della fatica.
Forse ci si è scordati che vivere è un’arte e che come si fanno innumerevoli
sforzi per guadagnarsi da vivere per la propria sussistenza si potrebbero fare
altrettanti sforzi per guadagnarsi una vita più onorevole. In tale condizione, le sensazioni più forti sono da una parte quella di appartenere all’irreale
e dall’altra di essere scesi nella vita con il vestito della festa.
Si è irreali perché costituzionalmente precari e quindi in balìa. Nella sua
origine latina, balìa significa ciò che si ottiene attraverso una preghiera,
attraverso una richiesta verbale che oggi dobbiamo saper rivolgere essenzialmente a noi stessi e alle persone vicine. È una condizione di vita fragile
e avventurosa nello stesso tempo. Una sfida. A questo stato di irrealtà disobbedisce l’essere iper-realistici, persino iper-materialistici, pratici e pragmatici perché quotidianamente immersi nel lavoro artigianale autocreato
attraverso un atto di resistenza e opposizione. Opposizione alla condizione
di irrealtà in cui sembra siamo tutti caduti. Colui che possiede un mestiere
ha “l’abito di”, una potenza, una tecnica e può metterla in atto, può ordinarla, può trasformarla, può produrre, può facere de materia. Possiede
qualcosa suscettibile di essere sviluppato.
Il possesso di una capacità o abilità può in certe condizioni generare gioia che altro non è che sentimento della realtà. Quando il lavoro entra dentro
questa dimensione di gioia allora diventa il sentire in tutto il proprio essere
l’esistenza del mondo. E nel lavoro artigianale, attraverso il fabbricare cose,
c’è un passaggio al mondo reale. Ecco che la condizione insostenibile della
precarietà, di una mancata sostenibilità economica, si trasforma, attraverso l’imparare a fare bene una cosa, in una prospettiva possibile anche se
non definitivamente risolta.
Le piccole imprese artigianali sono la tendenza al ritorno alla vita semplice, la creazione di un lavoro attraverso la conquista di uno spazio e di
una tecnica per fare, il modo per ricreare volontariamente, consciamente, metodicamente le condizioni della propria esistenza. In questo la scelta
della stampa artigianale serigrafica non è stata casuale. Ci si è messi alla
ricerca non della tecnica che dà maggior rendimento, ma della tecnica che
dà maggior libertà.
La serigrafia, anche a livello professionale, è un tipo di tecnica dotata
di strumenti conviviali alla portata di tutti. È conviviale nell’accezione
che Ivan illich dava a questo termine: “Lo strumento veramente razionale risponde a tre esigenze: genera efficienza senza degradare l’autonomia
personale, non produce né schiavi né padroni, estende il raggio d’azione
personale. L’uomo ha bisogno di uno strumento con il quale lavorare, non
di un’attrezzatura che lavori al suo posto. Ha bisogno di una tecnologia che
esalti l’energia e l’immaginazione personali, non di una tecnologia che lo
asservisca e lo programmi.”
L’industrializzazione programmatica ci ha progressivamente privato di
tali strumenti e l’uomo che lavora è stato ridotto o a ingranaggio o a controllore della super macchina. In un laboratorio artigianale vi è responsabilità, invenzione, azione, perché i mezzi che si utilizzano sono per l’uomo
che ne dispone prolungamenti del proprio corpo, che trasmettono direttamente dei segni alla propria anima. E in questo risiede la vera natura del
lavoro.
Creare oggi un laboratorio artigianale, come creare una scuola, è il tentativo di bonificare un pezzetto di terra dove catastroficamente sembra non
crescere più nulla e trasformarsi in piante pilota. Dal momento che bisogna
Pratiche
293
pur avere uno scopo, che fare? Limitarci a un inventario della civiltà attuale
o provare “a fare”? È un modo per fare tutto il possibile e per “prepararsi”,
senza illusioni sull’efficacia dei nostri sforzi. Ma prepararsi a cosa?
animal laborans e homo faber
Quattro
294
La gioia che si prova quando si fa un certo lavoro non è diminuita dalla
spossatezza. Ma bisogna capirsi, anche con noi stessi, su cosa intendiamo
per lavoro. Dentro un laboratorio il lavoro diventa unione armonica “del
corpo che lavora, le mani che operano, la mente che pensa, il cuore che
sente”.
Hannah Arendt in Vita Activa, aveva distinto politicamente l’animal laborans, il corpo che lavora, dall’homo faber, le mani che operano. Dunque
l’uomo vive in due dimensioni, nell’una fabbrica cose senza sapere cosa
fa, il mondo resta fuori e tutto si chiude nel privato, si è esseri amorali,
immersi nel compito da eseguire, nell’altra, qualificata come condizione
più elevata e superiore, cessiamo di produrre e cominciamo a discutere e
giudicare, ovvero agiamo per la costruzione di una vita in comune: diventiamo esseri politici.
Il lavoro all’interno di un laboratorio artigianale produce rispetto a
questa distinzione nuove prospettive e una nuova consapevolezza. Quanto
sostenuto dalla Arendt è vero in termini generali nella produzione industriale di massa e riguarda anche la produzione industriale di beni e servizi
(sanità, scuola, assistenza sociale ecc. ecc.), ma non è vero nei luoghi di
resistenza e operosità in cui convivono dentro la persona stessa, dentro la
stessa esperienza, entrambe le dimensioni: quella di produrre cose fi nalizzate alla sussistenza e quella di produrre consapevolmente discorsi e azioni
dentro lo spazio pubblico. Anzi l’esperienza di un laboratorio artigianale di tipo editoriale, legato a tecniche di stampa artigianali, può ribaltare
tale distinzione facendo diventare le specificità dell’homo laborans guida
dell’homo faber.
Il primo infatti si domanda il come fare una cosa per portarla a termine,
il secondo si domanda il perché. Entrambi domande fondamentali, ma da
un punto di vista morale il come è più importante del perché. Un perché
valido a cui si arriva attraverso una praxis spietata, perverte il suo significato, un perché debole o sbagliato, può essere corretto da una buona pratica.
Ne L’uomo Artigiano Richard Sennet critica la sua maestra Arendt proprio in questi termini rimettendo al centro non la divisione ma l’unione di
questi due aspetti come per molti secoli è stato tipico delle attività artigianali e artistiche. Sennet ci offre infatti nel suo libro uno sguardo dall’interno del laboratorio artigianale come spazio sociale e dall’interno di ciò che
costituisce l’uomo nella dimensione di artigiano.
il lavoro gioco
“Tessi su poco ordito una fitta trama”. Nell’alleanza tra educazione e artigianato questo detto di Esiodo significa andare alla ricerca di tecniche che
ci offrono la maggiore libertà di creare, costruire un’architettura leggera
dotata di pochi ed elementari strumenti e macchinari, per poi restare in attesa dell’ospite sconosciuto: se solo accetterà l’invito sarà questi ad animare
con il suo cuore e le sue risorse interiori il luogo, a riempirlo di senso. È da
questo ordito rado che potrà svilupparsi la fitta trama di un gioco serio, in
un continuo dialogo tra l’imparare a fare una cosa a regola d’arte e la gioia
ludica.
Il lavoro-gioco è l’educazione che viene dal lavorare, dal fare insieme
cose vere, con una funzione e una utilità attraverso cui il bambino e il ragazzo possano riconoscersi come membro effettivo in seno all’ambiente di
vita, scuola, società, famiglia, ed essere riconosciuto come uomo nel pieno
delle sue forze.
Vuol dire impostare un processo di apprendimento per imparare a fare
bene una cosa, a svolgere bene un lavoro e questo è uno dei fondamenti
della cittadinanza.
Il lavoro artigianale, le varie arti utili a fabbricare oggetti fisici ci insegnano gli ostacoli, le difficoltà, le soluzioni e l’apertura di nuove strade di
ricerca. Ci insegnano l’unità tra mente e corpo, atti semplici come l’afferramento e la prensione e atti complessi come l’imparare dalla resistenza e
dall’ambiguità dei materiali che voglio trasformare, come degli strumenti
che utilizzo. Ci insegnano come gli atti fisici della ripetizione e dell’esercizio consentono alla persona di sviluppare abilità tecniche che interiorizziamo e di riconfigurare il mondo materiale attraverso un lento processo di
metamorfosi. Le difficoltà e le possibilità di fare bene le cose valgono anche
per la costruzione dei rapporti umani, ci forniscono spunti sulle tecniche
che possono aiutarci nei rapporti con gli altri. E poi il fabbricare cose ci dà
lo spunto per scoprire di sé delle abilità che non conoscevamo, l’affiorare di interessi e passioni, nuove strade e aperture, ma soprattutto ci mette
dietro, e non davanti come destinatari, del mondo oggettuale, dove le cose
si creano prima di essere consumate. Diventando artefici diventiamo più
consapevoli e capaci di giudizio critico su uno degli aspetti più incisivi della nostra educazione: i “discorsi” che subiamo dalle cose.
Inoltre tornare a un dialogo tra pratiche concrete e pensiero ci insegna
quanto è difficile, per non dire impossibile, approfondire la pratica senza la
teoria, e viceversa, possedere bene la teoria senza la pratica:
“In ogni arte v’è un gran numero di circostanze relative alla materia, agli
strumenti e alla tecnica manuale, che possono essere apprese soltanto mediante l’uso. Spetta alla pratica presentare le difficoltà e proporre i fenome-
Pratiche
295
ni; spetta alla teoria spiegare i fenomeni e togliere le difficoltà”, scrivevano
nell’Enciclopedia delle scienze, delle arti e dei mestieri Diderot e D’Alembert.
Nella pratica concreta del fare in cui ci sia manualità, strumenti di lavoro, materiale da trasformare e macchinari si possono apprendere direttamente, con l’esperienza del proprio corpo che lavora, della propria mano
che opera, del proprio cuore che sente e della mente che pensa, cose che
non riguardano solo la tecnica e il mestiere ma la propria formazione come
persona.
Quattro
296
• L’intimo nesso tra mano e testa si concretizza nell’acquisizione di abitudini di sostegno le quali creano un movimento ritmico tra soluzione e
individuazione dei problemi;
• in un lavoro artigianale è evidente che tutte le abilità anche le più
astratte nascono da pratiche concrete;
• l’intelligenza tecnica si sviluppa attraverso le facoltà dell’immaginazione;
• ciascun essere umano è dotato della capacità di fare bene almeno una
cosa, ovvero in ciascuno di noi alberga un artigiano intelligente;
• nell’artigiano c’è un’etica del ben fare, non si lascia soddisfare da un
lavoro fatto in modo passabile;
• fare un buon lavoro significa avere curiosità di ciò che è ambiguo, andarci a fondo e imparare dall’ambiguità;
• le abilità conquistate sono frutto dell’esercizio e della concentrazione;
• imparare a svolgere bene un lavoro mette gli individui in grado di governarsi e dunque di diventare dei cittadini.
E così il produrre cose materiali ci mette in una condizione di autosvelameto, è un processo in cui qualcosa di inaspettato si rivela a noi consentendoci di imparare nuove cose su noi stessi. Soprattutto imparare a fare
bene una cosa ci insegna a cooperare con gli altri e rispettare il loro lavoro,
a prestare attenzione alle caratteristiche dei materiali, a sentire il piacere di
lavorare con strumenti che diventano i prolungamenti del proprio corpo,
a difendere un luogo di lavoro prima di tutto come spazio dove si attuano
relazioni sociali e di trasmissione delle conoscenze faccia a faccia, che crea
vincoli tra le persone, uno spazio dove perdere il controllo per poi ritrovarlo. Ci insegna le qualità delle materie: elasticità, durezza, attriti, consistenza, durata, effetti dell’aria, dell’acqua, dell’umidità, del freddo, del calore,
della secchezza. Come diversi materiali interagiscono tra loro. Ci insegna
la meraviglia e l’aura, il soffio, la luminosità, che spira dalle cose che hanno
una loro unicità irripetibile.
Ci mette in grado di immaginare categorie più ampie di “bontà”. Fa nascere la curiosità di capire come le cose materiali fatte a regola d’arte pos-
sano generare valori politici e sociali all’interno dello spazio pubblico. Ci
rende cittadini.
maestri e artigiani: la mano che trema
Prima di tutto si potrebbe provare a condividere un presupposto: il fine
di chi lavora non dovrebbe essere quello di guadagnarsi da vivere o di trovare “un buon lavoro”, ma piuttosto quello di eseguire bene un certo lavoro.
Per maestri e artigiani questo dovrebbe essere alla base dell’etica del proprio operare. Prima dovrebbe venire la domanda sulla qualità del lavoro
svolto e poi quella sulla propria sussistenza. Fare ciò che è giusto fare, che
la comunità ti paghi o meno, pone la relazione tra il lavoro e il far fronte
ai mezzi di sussistenza in un’altra prospettiva. Non basta trovare il modo
di guadagnarsi da vivere fabbricando cose o insegnando. Il guadagno che
si ricava si deve poter misurare con la coscienza del servizio reso o meno
all’umanità.
Entrambi questi mestieri presuppongono infatti un’operosità consapevole e continua, e partono da domande comuni e sempre le stesse: che fare?
Come? Perché?
Come abbiamo visto sono molti gli aspetti che accomunano educazione
e artigianato, tutti tenuti insieme dal filo ininterrotto della perizia del fare.
Il fare però deve essere sostenuto dall’abito, cioè dal possesso di una capacità o abilità. E se è vero che, come scriveva San Francesco “tanto l’uomo
ha di scienza quanto opera” l’acquisizione di un’arte non è mai definitiva e
il praticarla porta sempre con sé dubbi, esitazioni, ripensamenti. L’abito è
sempre accompagnato dalla mano che trema.
Scriveva Dante: “l’artista / ch’à l’abito de l’arte ha man che trema”. Se
l’artigiano e il maestro si muovono entrambi in uno spazio di atti creativi,
l’apparente opposizione tra abito come sicurezza della tecnica e la mano
che trema ci dice anche cosa c’è alla base di questi lavori sospesi tra due impulsi contradditori e generatori: slancio e resistenza, ispirazione e critica.
Lasciamo che la mano continui a tremare, come è naturale che sia, ma
continuiamo a tessere e ritessere l’abito che sarà antico come il mondo e
nuovo come tutte le cose in divenire.
Pratiche
297
i pirati nella casa del bambino
di Filippo Mondini
L
Quattro
a Casa del Bambino dei comboniani (da ora in avanti CdB) sta diventando oramai una realtà affermata e apprezzata da diversi settori del
territorio di Castel Volturno: scuola, istituzioni, altre associazioni e famiglie. Un indicatore potente di questo risultato è la presenza sempre più numerosa di bambini “bianchi”, figli di famiglie italiane, che partecipano alle
nostre attività:
2008 2009 2010 2011
2012
2009 2010 2011
2012 2013
entrambi i genitori immigrati
25
24
23
20
33
entrambi i genitori italiani
0
0
1
3
8
un genitore immigrato
0
1
2
4
1
25
25
26
27
42
tot
298
Il metodo della CdB è quello costruito affrontando problemi che hanno
spinto verso la riflessione e la ricalibrazione degli interventi. Certo, questo
agire si deve confrontare realisticamente con l’attacco allo stato sociale e ai
diritti delle fasce più deboli. Trovare risorse per il sociale diventa una sfida
sempre più difficile.
Il documento “Welfare 2012” realizzato dal Centro territoriale Mammut
e da altre organizzazioni ha ben evidenziato come solo una piccolissima
fetta del bilancio italiano viene destinata al sistema degli aiuti direttamente
rivolti a migliorare condizioni di povertà ed emarginazione conclamate.
Il metodo della CdB nasce dalla dialettica tra riflessione-valori-prassi.
Questo consente di uscire dalla logica delle “procedure” dove senza considerare la persona si applica ad ogni problema lo stesso cliché di intervento.
È quindi centrale la domanda dell’operatore, la sua curiosità, il suo esserci.
L’operatore diventa un ricercatore sempre più consapevole mano a mano
che si lascia contaminare, che inizia a vedere la realtà in maniera sempre
più costruttiva, dove oggetto e soggetto hanno la stessa dignità, sono consustanziali. È lo stare di fronte a problemi nuovi che fa avanzare nella costruzione del modello e che rende umili e in continua tensione verso la
ricerca di una verità che non si potrà mai possedere totalmente.
Il metodo va inserito all’interno dell’orizzonte valoriale:
• Libertà: intesa come capacità dell’uomo di optare per ciò che ritiene
giusto o rifiutarlo.
• Consapevolezza: intesa come capacità dell’uomo di diventare oggetto
della propria riflessione, sviluppo cioè dell’autocoscienza e capacità di diventare sempre più complessi
• Intersoggettività: capacità di un IO e di un TU di entrare in relazione
nel rispetto delle singole soggettività.
• Responsabilità: intesa come l’onere per l’uomo di essere causa della
sua storia e delle sue azioni
Questi valori vanno coniugati nel contesto sociale in cui siamo inseriti.
L’idea di “comunità” è un’idea che ci orienta e ci guida come stella nel cielo.
Proprio qui dove sembra manchi una trama che tiene insieme le persone è
importante creare comunità, tentare cioè di essere alternativi a quella parte
di realtà che stiamo in qualche modo contrastando.
I punti centrali del metodo sono:
• Sguardo critico sul contesto, sia a livello di macrocontesto (analisi della situazione mondiale, finanziaria, economica…) che a livello del microcontesto in cui avviene l’azione educativa. A tal fine sono necessari alcuni
atteggiamenti primo tra tutti la capacità di essere in ascolto del territorio.
Secondo elemento fondamentale è quello di assumere un atteggiamento di
ricerca permanente ed il terzo è quello di basarsi su fatti concreti e non su
opinioni. Fondamentale è tenere presente la Complessità al fine di evitare
di ridurre la realtà ad una mera riduzione funzionale solo a placare l’ansia
dell’operatore. Riteniamo quindi importante lavorare sui contesti, sul contesto del bambino della famiglia, sul contesto sociale e come questo forma
e cristallizza la vita delle persone.
• “Esserci”: non siamo né idealisti (dove si dà preponderanza al soggetto) né materialisti (preponderanza all’oggetto) ma siamo costruttivisti,
dove soggetto e oggetto sono consustanziali. Assumere questa visione della
realtà orienta la prassi educativa della CdB. Da una parte c’è l’operatore
con tutto se stesso, le sue emozioni, la sua storia, la sua visione del mondo
e dall’altra c’è il bambino anch’esso portatore di una visione del mondo
e della realtà. È nell’“esserci” di queste due polarità che si gioca la crescita educativa di entrambi. Stare in relazione vuole dire quindi farsi carico
dell’altro ma senza bypassare quello che sono, costruire costantemente una
relazione dialettica dove l’altro risuona in me e fa germogliare in me reazioni particolari, permettendo ogni giorno di più di conoscermi e di aumentare la mia complessità.
• Centralità della didattica: il primo periodo della giornata alla CdB
viene impiegato facendo i compiti. Riteniamo che questa scelta sia fondamentale al fine di aiutare in maniera sempre più incisiva la famiglia nella
crescita del bambino. Fare didattica vuole dire però sviluppare sempre di
più l’autonomia del bambino, accompagnarlo cioè di fronte ai problemi che
Pratiche
299
Quattro
la vita gli pone innanzi lasciando cadere la facile tentazione di risolverglieli.
Riteniamo che sia importante aiutare il bambino a sviluppare il pensiero
critico e un atteggiamento capace di cercare e trovare le risorse per risolvere
il singolo problema. Aiutiamo il bambino a porsi domande: “come posso
fare quando non so una cosa?”; “a che risorsa posso attingere?”; “chi mi
può aiutare?”; “quali sono le mie capacità? E che cosa devo ancora imparare?”
• Attività esperienziali: le attività esperienziali occupano la seconda parte del pomeriggio alla CdB. È in questo luogo e spazio che il bambino impara facendo, mettendo in gioco non solo la razionalità ma anche il corpo,
la fantasia e le emozioni.
• Recupero di spazi: non vogliamo recuperare i bambini dalle strade ma
le strade con i bambini. Questo slogan aiuta a comprendere il nostro agire
e la nostra attenzione verso il territorio nello sforzo di riguadagnare spazi
pubblici, degradati e semplicemente marginalizzati e farli diventare “bene
comune” al servizio di tutti.
pratiche per non ammalarsi
300
Che cosa si può fare in mezzo a tutto questo per non ammalarsi? Quali
cammini di guarigione si possono proporre? Verso cosa si può camminare? Quali modelli proporre?
Non è facile rispondere a queste domande soprattutto quando sembra
che i cammini di liberazione siano tutti esauriti o condannati dalla storia.
Bisogna allora prima di tutto compiere un passaggio che possiamo definire
paradigmatico: iniziare a pensare cioè che Stato e Società non sono la stessa
cosa e che ogni cammino di trasformazione radicale e di cambiamento nasca da un “evento” che marca una rottura con lo status quo. Probabilmente
nessuno conosce la strada da percorrere ed è questa la potenzialità che dà
forza e speranza: solo il pensare insieme, nel cerchio delle nostre assemblee
può far scaturire la novità che ci fa riprendere fiato. Il cambio di paradigma
ci porta ad abbandonare l’idea che per cambiare dobbiamo avere potere:
potere statale, sociale, economico. Per cambiare basta smettere di prestare
il fianco al sistema di oppressione: leggiamo un libro, organizziamoci in
comitato contro la devastazione ambientale, facciamo un orto ribelle in
mezzo alla devastazione urbana delle periferie… creiamo spazi di autonomia e distanza dal potere. Il cammino è quello di smettere di essere complici; per dirla con John Holloway, costruiamo crepe nel muro del capitalismo
e del pensiero dominante.
Data questa premessa, la prima pratica messa in atto per non ammalarsi
e per non ammalare è quella della creazione di una “équipe militante”. Intendo con questo concetto la capacità dell’équipe di misurarsi non solo con
i problemi ma anche con le cause che hanno portato alla defi nizione di tali
problemi e la capacità di mettere in campo spazi e luoghi di discussione per
la soluzione degli stessi. Ciò che conta non è la professionalità di chi arriva
nel quartiere con la soluzione ma la capacità di fare incontrare la gente che
vive il problema in prima persona. La fatica che va fatta non è quella di
chiudersi nelle segrete stanze tra pochi illuminati per trovare soluzioni tecniche ma è invece scendere in strada per parlare con la gente, offrire spazi e
luoghi di incontro e socialità.
Solitamente le associazioni e le ong operano invece riproducendo il potere dello Stato: offrendo soluzioni, rappresentando, togliendo potere alle
comunità, sottraendo momenti di reale democrazia e discussione. Spesso
la gente viene chiamata solo per sostenere l’idea dell’associazione, per aderire a un programma pensato fuori dalle strade polverose della realtà che
la gente vive.
Nella pratica quotidiana della CdB si è cercato di vivere questo metodo
di équipe militante. Da un lato, cercando di fare formazione tra gli operatori alternando momenti esperienziali a momenti di studio più teorici;
dall’altro, costruendo momenti di incontro e confronto con gli abitanti del
quartiere come per esempio:
• la costituzione di un comitato per la gestione e manutenzione della
villetta comunale;
• assemblee bimensili aperte a tutti centrate sulle varie problematiche
del quartiere (trasporto scolastico, spazzatura, mancanza di fogne…);
• momenti di socialità attraverso feste e cene.
L’idea dell’équipe militante è il contesto e la cornice entro la quale tutte
le attività della Casa del Bambino vanno inserite e pensate: l’obiettivo e
l’orizzonte di ogni attività è cioè il coinvolgimento attivo delle persone, dai
bambini agli adulti, dai genitori agli operatori.
Da questo punto di vista quindi deve essere chiaro che non è tanto importante il risultato finale di un’attività ma il metodo con cui viene costruita, il processo di trasformazione che mette in opera, i possibili nuovi mondi
che lascia intravedere.
La bravura dell’operatore militante non è quella di raccogliere in maniera ossessiva ed anaffettiva le frequenze statistiche, ma quella di cogliere ed
esplicitare i nuovi possibili mondi che nascono dopo un gioco, un’assemblea una cena di quartiere.
Tra le varie attività messe in atto, vorrei sottolinearne alcune:
• Villetta comunale. Si sono messe in campo diverse attività al fine di riqualificare e riappropriarsi dello spazio verde antistante il Centro. Le azioni
messe in campo si possono così sintetizzare:
Pratiche
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Quattro
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• Manutenzione della villetta attraverso il coinvolgimento della gente
del quartiere.
• Costituzione di un Comitato di quartiere che possa garantire il rispetto delle regole, gli orari di apertura e chiusura e la definizione di eventi da
realizzare in Villetta.
• Individuazione all’interno della Villetta e realizzazione di uno spaziogiochi per i bambini.
• Organizzazione di eventi e sagre anche destinate ai turisti estivi.
Il progetto che ci si propone è la costituzione di un’aula didattica per
bambini all’aria aperta. Rifacendosi al pensiero teorico della scuola attiva
di Celestin Freinet, della Scuola-Città del Pestalozzi, ci si pone l’obiettivo di costruire una didattica all’aria aperta sfruttando le occasioni che la
Villetta offre ai bambini. In questo modo si possono raggiungere, tra gli
altri, due importanti obiettivi: il primo, aiutare i bambini ad apprendere
in una maniera che è al tempo stesso divertente e vicina alla loro “natura” e il secondo, educare i bambini alla cura del territorio, proponendo un
senso di appartenenza comunitaria veramente importante in un territorio
come quello di Castel Volturno dove non ci può essere futuro se le nuove
generazioni non saranno abituate a rispettare l’ambiente e la legalità. L’aula
didattica può anche diventare uno strumento per le scuole del territorio
offrendo laboratori di geografia, fisica e matematica.
Rugby. L’associazione sportiva Castel Volturno Rugby nasce nel novembre 2012 e ha come soci fondatori un gruppo di persone appassionate a
questo sport. L’input iniziale lo dà la Casa del Bambino. Il gruppo degli
operatori ha iniziato a vedere la valenza educativa dello sport e del rugby
in particolare nel contrasto alla dispersione scolastica e al generale degrado
che si rischia di vivere in questo territorio.
Già agli inizi del 2012 abbiamo realizzato numerose dimostrazioni organizzate durante le attività di piazza della Casa del Bambino. In Autunno i
primi allenamenti della neonata società sono stati organizzati su un terreno
auto-finanziato e auto-gestito retrostante al centro educativo che sopperisce alla mancanza dello stadio comunale. La Federazione Campania Rugby
ha messo a disposizione un istruttore regionale che ha dato una grossa
mano sia nelle dimostrazioni nelle piazze che nel primo periodo degli allenamenti. Attualmente l’allenatore è un educatore di Castel Volturno. I
bambini e i pre-adolescenti, inizialmente incuriositi, hanno cominciato ad
allenarsi e a poco a poco si è andata formando la squadra dei Pirati (nome
scelto dal gruppo di bambini).
Il primo “concentramento” è stato organizzato il 2 maggio a Scampia
in occasione dell’evento “Mediterraneo Antirazzista”. Successivamente
abbiamo partecipato a diversi appuntamenti in giro per la Campania. La
società ha organizzato due tornei di “beach rugby” intitolati al famoso pirata Edward Teach meglio conosciuto con il nome di battaglia Barbanera!
I tornei sono stati giocati sulle spiagge di Pinetamare e Destra Volturno e
hanno visto la partecipazione di almeno 150 bambini.
La scelta del rugby è connotata da due postulati fondamentali: il valore
dello sport in sè e il riconoscimento della specifica valenza educativa di
questo sport. Tra i tanti valori del rugby, vorrei sottolineare quelli che più
ritengo importanti nel nostro contesto specifico:
• regole: le numerose regole del Rugby e soprattutto la loro scoperta da
parte dei bambini, aiutano a passare dal caos all’ordine, dall’impossibilità
di giocare al divertimento;
• andare avanti guardando indietro: nel Rugby non si può giocare se
non si guarda indietro e, ancor di più, per avanzare è necessario passare la
palla a chi sta dietro. Nel Rugby non si può vincere da soli;
• aggressività: il rugby è un gioco aggressivo ma non violento; la rabbia
va messa in gioco, va vissuta e non repressa;
• rispetto: nel Rugby il rispetto di sè e degli altri è un elemento fondamentale. Una scorrettezza nei confronti dell’avversario è una mancanza di
lealtà anche verso la propria squadra.
• terzo Tempo: le ostilità cessano sul campo, la rabbia e l’aggressività
si sfogano durante la partita, poi tutto finisce e si lascia spazio allo stare
insieme.
Giornalino “La Crepa”. Comunicare insieme è un momento importantissimo per i bambini, gli operatori e gli abitanti del quartiere. L’idea di
“ritornare” al giornalino, alla carta stampata, alla fatica di una redazione
è sembrata quasi ovvia in un contesto come quello di Destra Volturno. Il
giornalino obbliga a pensare, confrontarsi, uscire per strada per la distribuzione; il giornalino permette a grandi e piccoli di ritrovarsi e creare insieme
uno strumento che permetta un percorso di consapevolezza a diversi livelli:
• i bambini possono utilizzarlo come strumento didattico per l’approfondimento di alcune tematiche e per la scrittura. Diventa una cosa “bella”
che si può toccare, sfogliare e anche esibire. A Destra Volturno costruire
una cosa bella ha un valore rivoluzionario;
• per gli abitanti del quartiere diventa un modo per restare informati sui
temi scottanti del quartiere, sulle iniziative che stanno bollendo in pentola
e soprattutto diventa occasione per porsi delle domande che posso aprire a
pratiche emancipatorie personali e collettive.
Stop Biocidio. Partecipare alla costruzione locale del movimento “Stop
Biocidio” è stato una tappa fondamentale. Gli operatori della Cdb si sono
adoperati per costruire un comitato locale che partecipasse alla lotta con-
Pratiche
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tro il biocidio. Questo processo ha dato la possibilità a molti cittadini di
partecipare e confrontarsi su temi di vitale importanza. Il comitato locale
ha partecipato alle varie manifestazioni regionali e localmente è stata organizzata una manifestazione con gli studenti delle scuole superiori. Quello
che rimane come pratica e come metodo è l’assemblea settimanale aperta
a tutti.
Con i bambini si è lavorato molto su questo tema partendo da un’amara
constatazione: la quotidianità dei bambini è fatta di degrado e morte e questa violenza diventa la normalità. Lo sforzo educativo è stato prima di tutto
quello di creare consapevolezza rispetto al fatto che il degrado e la morte
non sono la normalità. Una via piena di rifiuti, una villetta dove è impossibile entrare per l’erba alta, non sono la normalità. La cosa più importante è
stata dunque quella di creare, almeno a livello mentale, il bisogno di un’alternativa, lo spazio per fare nascere la possibilità di un’alternativa.
fare biciclette, fare educazione, fare città
di Giulio Vannucci
L
a Ciclofficina di Casa in Piazzetta apre i battenti a Pistoia nell’autunno
del 2011. Non nasce dal nulla, ma da azioni e ricerche che hanno portato l’Associazione Arcobaleno a strutturare, negli anni, un percorso con
un gruppo cangiante di adolescenti che abbiamo già tentato di sintetizzare
in Come partorire un mammut (e non rimanere schiacciati sotto), a cui rimandiamo per un breve racconto. La Ciclofficina dunque non è “da sola”
in città, ma fa parte di un unico progetto (culturale, sociale e quindi per
forza politico) che vede negli adolescenti una forza reattiva cittadina, tanto
in grado di portare cambiamento quanto bisognosa di un percorso in cui
riconoscersi. È uno dei tasselli, tra i quali il più vicino (geograficamente e
idealmente) è una sala prove che noi chiamiamo “popolare” (ma altri sarebbero da citare), che è un luogo aperto che lavora tramite l’impatto e lo
scavo in una passione (quella per la musica) lontano da modelli televisivi.
Non è possibile raccontare tutto in poco spazio, ma è necessario ribadire
come la Ciclofficina non sia un’esperienza isolata o nata “per le biciclette”.
E che il tentativo è quello di abbandonare la prospettiva del “sociale per il
sociale”, cercando invece un percorso di scavo in competenze e passioni.
La Ciclofficina è una ciclofficina popolare, un luogo di formazione al
lavoro per adolescenti, una “bicicletteria” in cui si recuperano vecchi rottami, destinati al ferro vecchio. È aperta tre volte a settimana (il martedì dalle
18.30 alle 22.30, il mercoledì dalle 9.30 alle 13.00 e il giovedì dalle 15.00 alle
19.30) ed è sostenuta economicamente da un’Azienda Pubblica di Servizi
alla Persona e dall’Amministrazione comunale.
Le ciclofficine popolari e le città
Non è questa la sede in cui sviscerare una realtà così diversificata e in
divenire come quella delle ciclofficine popolari: basterà ricordare che negli ultimi quindici anni, in Europa, un fenomeno che era solo minoritario
e resistente sta lentamente prendendo piede in modo sempre più ampio.
Con la crescita esponenziale dell’uso della bicicletta (con numeri risibili se
confrontati con quelli delle automobili, ma comunque in crescita) è evidentemente nata l’esigenza di luoghi e contesti in cui permettere a tutti
un accesso diretto al proprio mezzo di trasporto, diffondendone contemporaneamente l’uso e la conoscenza. È sufficiente leggere alcuni statuti (o
manifesti) di qualche ciclofficina popolare in Europa per capire che si tratta
di situazioni molto simili tra loro, e che c’è un fi lo rosso che lega tutte le
realtà di questo tipo, a prescindere che si trovino a Parigi, Berlino o Rimini.
Nelle ciclofficine in genere si mettono a disposizione attrezzi e competenze,
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non si paga che una piccola offerta per i pezzi e per le spese, si può rimettere a posto la propria bicicletta con l’aiuto dichi sa, e a volte è addirittura
possibile creare un proprio mezzo assemblando pezzi destinati al ferro vecchio. Spesso e volentieri si organizzano manifestazioni ed eventi legati alla
promozione della mobilità sostenibile. Sono luoghi aperti e orizzontali, ma
assolutamente partigiani. Alla domanda “per quale idea di città si è deciso
di spendersi?” la risposta è chiara: con meno macchine, meno cara, più
giusta. Con le strade un po’ più libere.
Certo, è necessario guardarsi bene da ogni mitizzazione e sapere i grossi
limiti di tutte queste esperienze, primo tra tutti un frequente ideologizzarsi
del discorso o una faticosa “ciclo-retorica”, che permette di accontentarsi
del proprio fronte come fosse l’unica prospettiva di azione politica rimasta.
Tuttavia si deve riconoscere che nelle ciclofficine popolari si lavora (non a
scopo di lucro) per una città diversa, promuovendo degli stili di vita volti
senz’altro al cambiamento.
La Ciclofficina di Casa in Piazzetta, una volta a settimana (appunto
il martedì) si trasforma in laboratorio cittadino di ciclomeccanica: tutti,
senza limiti di età, possono venire e usare attrezzi e competenze di chi la
gestisce. E Piazzetta Santo Stefano, dopo i numeri davvero bassi del primo
anno, ogni settimana si trasforma per una sera in un luogo affollato di
persone molto eterogenee tra di loro, intente a aggiustare, smontare, capire.
Una piccola comunità, forse. Il cui ruolo politico assume in qualche frangente una dimensione davvero cittadina, non solo per quanto riguarda un
tessuto sociale che anima (e da cui è animata), ma per un dialogo diretto
che intercorre con l’Amministrazione Comunale.
Si tratta del fronte più culturale, senza dubbio, in cui la Ciclofficina si
assume un ruolo di studio e approfondimento sui temi della mobilità sostenibile. Un lavoro culturale senza il quale altrimenti sarebbe facile finire per
fare da “testimonial” alla bicicletta, ma senza un pensiero strutturato. Perciò, con l’aiuto dell’Amministrazione stessa, la Ciclofficina ha organizzato
due giornate pubbliche sulla mobilità sostenibile, a cui hanno partecipato
esperti e studiosi delle questioni della mobilità pubblica (così come della
città, o della partecipazione) e il Sindaco di Pistoia, nella ricerca di un dialogo che serva a entrambi. Sono piccole manifestazioni, che però rendono
il progetto della Ciclofficina un luogo di elaborazione del pensiero, di educazione diffusa e di diffusione di temi e problematiche che sono davvero in
grado (in potenza) di mutare l’utilizzo degli spazi urbani.
Un contesto educativo
La Ciclofficina, due volte a settimana, è aperta esclusivamente agli adolescenti, con cui in precedenza sono stati negoziati tempi, modi e obiettivi della presenza. Spesso il primo “aggancio” avviene nel quartiere in cui
abitano, o grazie al passaparola tra coetanei. Qualche volta i Servizi Sociali
chiedono una mano, per esempio per alcuni percorsi di messa alla prova
che necessitano delle attività di formazione. Non si sta mai in troppi in Officina contemporaneamente, a meno che non si tratti di laboratori specifici,
magari a tema: si deve avere il tempo di concentrarsi, di capire a fondo le
cose, di chiedere, di provare. La situazione ideale, addirittura, prevedrebbe,
per le prime volte, un rapporto uno a uno (con chi ne sa un po’ di più),
anche se le urgenze, le situazioni, i clienti, fanno spesso saltare qualunque
tipo di piano. Ma è il contesto a richiedere calma e concentrazione, nessuna
motivazione estrinseca se non il luogo stesso.
L’impatto con una vera officina (benché comunque sia un luogo protetto) genera varie reazioni, perché si tratta di un contesto non lavorativo (non
si viene pagati), ma in cui i compiti sono chiari e inaggirabili: si devono riparare biciclette o assemblarne di nuove e perfettamente funzionanti, senza approssimazioni. Non si deve sbagliare perché la bicicletta è un mezzo
di trasporto, e ci sono delle persone sopra che altrimenti rischiano molto.
Si deve imparare quali sono gli attrezzi giusti per alcune azioni specifiche,
una buona serie di nomi di oggetti, e qualche passaggio senza il quale le
biciclette non si possono aggiustare. Chi sa insegna a chi non sa, non ci
sono voti, né prove di verifica, ma un continuo aggiustare il tiro, scoprire
strategie e inventarne di nuove.
La bicicletta non è un oggetto neutro. Nessuno oggetto lo è, in nessun contesto, ma la bici (per le mille ragioni che abbiamo detto, e per altre mille) è davvero densa di implicazioni. È un manufatto tecnologico,
molto complesso, ma comunque avvicinabile, comprensibile. Imparare a
smontare la propria bicicletta significa fare dell’artigianato, cioè utilizzare
il proprio pensiero al servizio delle proprie mani, una scoperta che dopo
anni di frustrazione scolastica può regalare soddisfazioni mai sperimentate
prima. Voglia di fare, di studiare, addirittura. Vedere un mezzo distrutto
riprendere vita e velocità grazie al proprio lavoro è impagabile (lo spiega
bene Sennet nell’Uomo artigiano), oltre ad essere un’esperienza (proprio
dal punto di vista pedagogico) senza pari. Non è un caso se da Dewey a
Mialaret si parla proprio di apprendimento nelle “officine” e non di “laboratori”, portando esempi di lavoro vero e proprio, e non di “workshop”
(che pure ben vengano, quando ben fatti!). Ma la differenza è sostanziale,
perché nelle officine succedono delle cose, c’è confronto con la realtà: si deve
creare una bicicletta che dovrà necessariamente funzionare, perché verrà
utilizzata. Che è esattamente il contrario di ciò che accade a scuola, dove
non succede niente, il corpo e le mani sono abolite, e il risultato finale sono
“discipline”, nozioni fini a sé stesse che restano nel limbo del “studia perché
è importante”. Ci sono ormai infiniti studi e ricerche di come l’apprendimento avvenga in modo qualitativamente migliore, se mediato dalle mani.
Perfino l’Accademia ci sta arrivando, aggiornandosi.
Pratiche
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Passare un pomeriggio a combattere contro una catena, un cambio o un
movimento di centro, tentando di capire quale sia il problema e quali strumenti servano per affrontarlo è tanto lontano da “la mamma ha sei uova e
ne usa il 40% per il dolce della colazione” quanto altrettanto bisognoso di
matematica - e di forza fisica per usarla.
corpo e pedagogia
di Claudia Cannavacciuolo
corsi di aggiornamento per educatori che ho tenuto tra il 1994 e il 2000
presso scuole di vario ordine e grado hanno avuto come metodo prevalente il movimento del corpo con la musica come mezzo consapevole
di espressione. Sono venuti in palestra a danzare, giocare, drammatizzare
emozioni e sentimenti insegnanti abituati a stare in cattedra, con tanto di
registro, programmi da portare a termine, voti, consigli di classe, promozioni, bocciature.
La sfida è stata proporre il lavoro a docenti delle scuole medie e superiori. Docenti che non avevano a che fare con bambini, ma con adolescenti
fino alla maturità. Docenti che non usavano il gioco come mezzo didattico,
come si fa nella scuola materna ed elementare. Docenti concentrati sulla
matematica o sull’inglese, o sulla fi losofia.
Le prime esperienze qui a Bolzano mi hanno messa di fronte a uomini
e donne che, nonostante fosse stato loro indicato di presentarsi con abiti
comodi, sono arrivati in giacca e cravatta, calze di nylon, scarpe col tacco e
con tanto di blocco per gli appunti. La prima volta abbiamo fatto quel che
si poteva. Le signore hanno tolto le scarpe e, nonostante la gonna, hanno
cominciato a “ballare”. Gli uomini hanno provato a mettersi un po’ più
comodi. Lo sconcerto iniziale è stato tanto, ma dopo due giorni in cui i
protagonisti sono stati la musica, il movimento del corpo, la possibilità di
esprimersi in libertà, simulando, recitando, drammatizzando situazioni e
scenette, hanno sciolto la rigidità iniziale.
È andata meglio le volte successive. Anzi, quello che era iniziato come
un esperimento è diventata un’abitudine. Per sei anni attraverso corsi, seminari, proposte di aggiornamenti si sono iscritti a partecipare docenti,
educatori, personale della scuola che hanno preso gusto a permettere al
corpo di “educare”. I docenti più affezionati hanno scritto al loro provveditorato (in tedesco!) chiedendo di inserire questi corsi tra gli aggiornamenti
curricolari.
Il filo conduttore è stato la messa in gioco del proprio corpo. La sfida era
fare con gli educatori, attraverso il metodo socratico della maieutica, ciò
che ogni vero educatore si prefigge di fare con il mondo in crescita che gli si
para davanti: allievi, figli, adulti in formazione. Ovvero educare, suscitare
consapevolezze, “far uscire” ciò che sta nascosto dentro.
È stata una sfida ed una scoperta. Di anno in anno il numero di docenti
che si iscrivevano ai corsi aumentava e sorprendenti sono stati i feedback
che raccoglievo.
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Le prime domande erano: come possiamo utilizzare quello che ci proponi con i nostri ragazzi? Non sono bambini, dobbiamo insegnare una materia, non possiamo metter su la musica e danzare. E via via venivano fuori
le sorprese.
Una volta il corso di aggiornamento proposto aveva ad esempio come
tema: il corpo, il tempo e lo spazio. Tra le altre cose, abbiamo
• ascoltato e poi danzato musiche con ritmi differenti: lenti, veloci, velocissimi;
• attraversato lo spazio in vario modo: in diagonale, saltando, strusciando i piedi, singolarmente e in coppie o in gruppi, aprendo e chiudendo varchi;
• sperimentato la camminata del cieco o del vecchio, bendati o guidati
da un compagno, in silenzio o con una musica adeguata da sfondo;
• inventato movimenti inusuali, di attrazione/repulsione, centrifugo/
centripeto, gravità/leggerezza, contatto/ritirata;
• sperimentato diversi modi di respirare;
• fatto rilassamenti e visualizzazioni.
Qualche mese dopo ho ricevuto una telefonata da una insegnante di lettere. Mi ha raccontato di aver portato un registratore in classe, di aver scelto
due musiche con differenti ritmi come sottofondo, di aver chiesto ai ragazzi
di chiudere gli occhi e di aver proposto loro l’ascolto di un brano per due
volte, leggendo con due velocità differenti. Era entusiasta del risultato: i
ragazzi erano stati coinvolti e avevano ascoltato con grande concentrazione
il brano al punto da memorizzarlo con estrema facilità.
Il metodo era sempre incentrato sull’uso consapevole del movimento del
corpo, sull’ascolto della musica, sui ritmi, i suoni, le pause, i silenzi, sulla
drammatizzazione con tecniche teatrali di situazioni insolite. Lo scopo era,
come in ogni evento artistico:
1. liberare energia trattenuta, liberando al tempo stesso un potenziale creativo sconosciuto a se stessi;
2. riequilibrare le dimensioni ordinarie dell’essere umano: fisica, affettiva,
mentale;
3. rendere più armonioso il funzionamento dello strumento umano;
4. entrare in contatto con una dimensione di conoscenza diversa da quella
ordinaria: il sogno, ad esempio;
5. addentrarsi nei luoghi della fantasia e renderla visibile.
Lo sapevano bene gli antichi. La danza, i ritmi, i movimenti consapevoli
del corpo e della respirazione erano i mezzi ordinari per entrare in contatto con una realtà di cui siamo solo una piccola parte. Alcune popolazioni
sono ancora in possesso di questa conoscenza e dei metodi per accedervi.
Alcune danze le abbiamo ereditate, altre possiamo ancora crearle, con l’intento di recuperare quell’innocenza, senso di scoperta e di stupore che ci
permette di accedere alla dimensione creativa che è in ognuno.
In pratica, attraverso la simulazione, abbiamo permesso al corpo adulto
di giocare come da bambini, scoprire nuove potenzialità espressive. Questo
ci può permettere di uscire da quell’automatismo che chiamiamo erroneamente spontaneità e che non è altro che un meccanismo consolidatosi
nel corso del tempo attraverso abitudini di azioni/reazioni e di pensieri, e
potersi sorprendere di se stessi accedendo ad un gesto veramente autentico,
libero.
Se la vita è il dispiegarsi continuo di energie contenute potenzialmente
nel progetto fin dalla nascita (dna?), se l’educazione si prefigge di insegnare la maniera di convivere, di trasmettere un patrimonio culturale ma
soprattutto di aiutare ognuno a scoprire ed essere se stesso con maggiore
consapevolezza, questo vale innanzitutto per l’educatore.
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il circolo “la gru” e la salute
di Aldo Bifulco
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onificare un’aiuola, creare con i bambini e le maestre un giardino didattico e prendersene cura per anni, riqualificare piccoli spazi pubblici con giovani e adulti del territorio nel segno della “bellezza” e piantare
alberi con gioia… sono queste alcune azioni che caratterizzano da sempre
la vita del Circolo “la Gru” di Scampia, anche se negli ultimi anni queste
operazioni hanno avuto un’impennata per la sensibilità cresciuta sul territorio e per la collaborazione con altri gruppi che costituiscono una delle
reti di Scampia. L’ultimo progetto appena avviato è la creazione, con le associazioni, le scuole e i cittadini, del “corridoio delle farfalle” che partirà
da via Monterosa per portarsi verso Melito e verso Piscinola. Se questo è
il nostro specifico, come circolo ambientalista ci siamo occupati con altri
gruppi anche delle varie forme di inquinamento, della raccolta differenziata, dei roghi tossici.
Ebbene se tutto questo “fa star bene o meglio” chi opera e chi vive la
realtà territoriale…allora abbiamo la sensazione di trovarci all’interno del
concetto di “salute” in una sua accezione più ampia.
C’è un campo dell’attività del Circolo dove questo legame è più chiaro,
più evidente. La creazione di orti, per esempio nel carcere, al TAN, ma soprattutto all’interno del Centro diurno la “Gatta blu” presente nel Centro
di salute mentale di Scampia. Anche se il nostro agire è privo di qualsiasi
velleità terapeutica abbiamo la consapevolezza che il nostro progetto abbia
avuto un impatto sulle problematiche della salute “mentale”. Stiamo parlando del progetto “Napoli in un orto” che è la trasposizione di un libro in
un programma operativo all’interno della “Gatta blu”, facendo interagire
pazienti e soggetti esterni, non tutti appartenenti al Circolo. Un libro fatto di racconti, ricette, uno schedario scientifico di ortaggi, un calendario
speciale che privilegia i prodotti stagionali… un libro, come qualcuno ha
scritto, “che bagna il proprio inchiostro tra le radici e il sapore della nuda
terra.” Momento fondamentale è stato l’incontro mensile culturale-conviviale aperto al pubblico, nel quale saperi, memorie, poesia, cucina si sono
fusi insieme, per concludersi con un momento conviviale consumando il
pasto cucinato da operatori e pazienti anche con gli ortaggi prodotti nel
piccolo orto.
Mangiare è certamente un fatto naturale, ma ad un atto così semplice
sono connessi molti sentimenti e, talvolta, anche qualche ossessione. In genere desideri ed emozioni, personali e comunitarie, accompagnano il consumo di un cibo. Ma la frenesia e la fretta di una vita convulsa, la solitudi-
ne di un modello sospettoso ed avaro, ma soprattutto, la dieta occidentale
fatta di cibi industriali e raffinati, con prevalenza di carne, grassi e zuccheri
aggiunti, hanno creato un forte contrasto tra alimentazione e salute. Abbiamo perduto questa semplice ed elementare consapevolezza. Eppure già
Ippocrate affermava: che il cibo sia la tua unica medicina! E recenti studi
confermano che le malattie più frequenti e deleterie che affliggono il mondo occidentale si possono prevenire con una sana e accorta alimentazione.
Verdura e frutta sono state per lungo tempo allontanate dalle abitudini alimentari della popolazione occidentale e si fa fatica a trovare qualche bambino o qualche giovane che guardi con simpatia a questi alimenti essenziali.
Infine una sapiente e ben orchestrata pubblicità, l’atmosfera che circonda i
cibi industriali che Pollan definisce sostituti pseudo alimentari, la loro preparazione e le modalità di offerta, la loro accurata collocazione nei templi
del consumo moderno, i supermercati, divenuti luoghi del tempo libero,
hanno determinato una diseducazione del gusto, privilegiando solo parte
delle nostre papille gustative, e facendo prevalere aspetti marginali ma accattivanti nelle scelte alimentari. E sempre Pollan nel suo più recente libro
afferma: “Non mangiate niente che la vostra bisnonna non riconoscerebbe
come cibo. I cibi odierni vengono progettati a tavolino, con il preciso scopo
di farci comprare e mangiare di più, facendo leva su alcuni automatismi
evoluzionistici: la nostra preferenza innata per il dolce, il grasso, il salato”.
Un aspetto fondamentale del nostro progetto è stato il principio della
stagionalità sostenuto particolarmente dalla dottoressa Rosa Orfitelli che
ci ha accompagnato durante gli incontri mensili. Rispettare la stagionalità
dei prodotti della terra non è una delle tante mode più o meno in voga del
guru di turno, è il ritorno alle radici, è preservare la memoria del proprio
popolo, è tornare al “senso” delle cose, al rispetto della natura e dell’altro,
è rispetto per il proprio corpo che racconta ciò di cui ha bisogno ad un
popolo di sordi profondi. Ricordare cosa la stagione offre è non perdersi
nel delirio di onnipotenza del globale, che appiattisce mente e anima: devi
innanzitutto consumare, e velocemente, perché è vietato fermarsi e pensare. Ricordare la stagionalità dei prodotti è un atto di amore e rispetto
verso se stessi per poter cambiare qualcosa anche per le generazioni future
e riprendere il senso vero delle cose con cura, dei doni ricevuti e gratitudine
verso madre terra.
Pratiche
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mobilità critica
di Claudio Caccavale
L
Quattro
314
www.cicloverdi.
it/
www.napolibikefestival.it/
www.facebook.
com/groups/
www.bikesharingnapoli.it/
Segnaliamo
anche www.
bicizen.it/ e il
libro del suo
promotore
Alfredo Bellini
‘Happy Bike,
pedalando verso
la felicità’
a Ciclofficina Popolare “Massimo Troisi” (cpmt) è nata nel novembre
del 2008 e si trova all’interno del Laboratorio occupato sperimentiamo
kulture antagoniste (L.O. Ska) nei pressi di Piazza del Gesù, a Napoli. Come
altre realtà che si sono diffuse in Italia, anch’essa nasce dall’esperienza della Critical Mass (cm), il movimento “globale” che ha avuto origine a San
Francisco nel 1992 e si è poi esteso nel resto del mondo, ovunque vi fosse il
bisogno, da parte dei ciclisti, di riconquistare il diritto ad avere il proprio
spazio vitale in strada e, più in generale, di riaffermare il ruolo positivo che
la bicicletta, mezzo che coniuga benissimo vantaggi per l’individuo e per la
società, poteva avere e che purtroppo non le veniva riconosciuto a causa di
una imperante quanto distruttiva cultura della motorizzazione.
A Napoli la cm sorge tra il 2006 e il 2007. In seguito allo storico appuntamento della Ciemmona romana e alla conoscenza di questi nuovi spazi
pratico-sociali che sono per l’appunto le ciclofficine (Roma è la città che ne
conta di più, non a caso) un gruppo di appassionati ciclisti urbani, sull’onda della crescente partecipazione alla cm locale, decide di aprirne una sul
territorio.
Dunque, cosa si fa esattamente nella cpmt?
L’intento è quello di una qualunque ciclofficina (popolare): essere un
spazio autogestito dove si mettono a disposizione conoscenze e attrezzi
per riparare la propria bicicletta o costruirsene una partendo da altre recuperate, oppure semplicemente dove farsi una chiacchierata e conoscere
altre persone accomunate dalla passione per la bici. Spesso, trattandosi di
un posto in pieno centro storico frequentato da universitari, sono persone
che non possono permettersi un’auto o uno scooter e che hanno una reale
necessità di muoversi su due ruote per raggiungere il luogo di studio o di
lavoro; oppure altri hanno recuperato una vecchia bici in cantina, oppure
ancora gliene hanno regalata o ne hanno comprata una usata e non sanno
come aggiustarla.
Così, la cpmt nel tempo si è offerta come open space dove si incontrano
abilità meccanica e socialità: tra gli attivisti c’è chi è più bravo nel riparare e
chi nel tessere nuove relazioni, così tendono a delinearsi dei ruoli che ognuno è pronto a ricoprire all’occorrenza. Importantissimo, in quanto soggetto che agisce per una mobilità urbana nuova, è stato anche il relazionarsi
con le diverse realtà preesistenti, in primis l’Associazione Cicloverdi fiab,
impegnate da tempo in battaglie simili, anche sul versante istituzionale.
Il binomio CM-ciclofficina, che come s’è detto è un fatto frequente in
Italia, è rimasto indissolubile anche qui a Napoli, in quanto gli attivisti core
dell’una lo erano anche dell’altra: dopo alcuni anni di raduni in piazza Plebiscito, la CM successivamente è sempre partita dalla strada su cui si affaccia la cpmt, questo anche grazie del prestito bici che la ciclofficina offre ai
partecipanti. Ciò, nel tempo, ha rafforzato l’immagine e il valore sociale di
entrambe.
La nostra soddisfazione è vedere che a Napoli (così ricca di salite e discese da sembrare impossibile diffondere una cultura e un uso quotidiano
della bicicletta) questo mezzo sembra essere entrato, nel bene e nel male,
nell’orizzonte culturale della città; e pur non sapendo con esattezza quale
sia stato il contributo della cpmt o della cm abbiamo ben impressi nella
memoria le allegre chiacchierate in bici, i sorrisi di chi tornava a pedalare
dopo tanto tempo, il piacere di ritrovarsi tra amici vecchi e nuovi ogni martedì sera a lubrificare catene, stringere pedali, riparare una camera d’aria
bucata… e la gente che ci guardava allibita e divertita quando ci vedeva
passare in massa per le strade. Questo sono state la cpmt e la CM, e speriamo lo saranno ancora!
Il movimento cittadino napoletano nato intorno alla cm e cpmt ha fortificato ed incoraggiato chi già era impegnato nella promozione ed uso della
bicicletta, come i ciclisti urbani e cicloescursionisti dell’Ass. Cicloverdi fiab. E
ha dato vita a numerose esperienze che si sono delineate in base alle diverse
sensibilità personali ed idee. Alcuni gruppi hanno anche scelto di lavorare con
le istituzioni per promuovere ed istituzionalizzare una cultura della mobilità
sostenibile. Sono nate così:
• L’Ass. Napoli Pedala promotrice del Napoli Bike Festival
• SpaccaNapoli Bike
• Il Bike sharing a Napoli
Senza avere pretesa di esaustività, consapevoli del vasto e variegato mondo
delle ciclofficine popolari e dei ciclisti urbani (con tutto il desiderio di continuare a scoprirlo), segnaliamo chi abbiamo già scoperto e che, come noi,
promuove e utilizza la ciclomeccanica e la bicicletta in una dimensione pedagogica ed educativa:
• La Ciclofficina popolare di Castellamare di Stabia
• Ciclofficina – progetto educativo sperimentale, Rimini
• Ciclofficina di Casa in Piazzetta, Pistoia (di cui potete leggere un approfondimento nell’articolo di Giulio Vannucci)
• Ciclofficina Sociale ‘Guglielmo Marconi’ nata all’interno dell’IISS “Guglielmo Marconi” di Bari.
Pratiche
315
ed. Marotta&
Cafiero 2014.
www.facebook.
com/ciclofficinapopolareraffaeleviviani
spaccanapoli
bike/?fref=ts
[email protected]
ciclofficinainpiazzetta@
gmail.com
[email protected]
cinque. conclusioni (provvisorie)
per una scuola salutare
Q
uella descritta in queste pagine non può che considerarsi una partenza, appena abbozzata, verso la costruzione di una scuola salutare.
Sgombrato il campo da suggestioni new age, la premessa di questa impresa
risiede nella ridefinizione del concetto stesso di salute. Compito che rimanda ai campi della filosofia e della medicina, mentre a noi basta chiarire che
ci piacerebbe che questo termine corrispondesse alla ricerca di equilibri
capaci di armonizzare il rapporto tra uomo e ambiente, nutrendo le potenzialità evolutive di entrambi.
Una scuola della salute è oggi più necessaria che mai, anche per gli aspetti che esulano e superano i limiti della nostra ricerca: forse mai come in
quest’epoca storica stiamo vivendo un parallelo annientamento della natura tanto dentro che all’esterno dell’essere umano. Ben visibile nello strappo
tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori la scuola, tra quanto di “naturale”
rimane in una giornata scolastica e la deturpazione di terra, acqua e aria
circostanti. Se dovessero scattare repentine resistenze legate alle infinite
dissertazioni su cosa sia “natura” e cosa “cultura”, consigliamo di trascorrere qualche ora nelle terre tra Napoli e Caserta o in una delle scuole in cui
abbiamo lavorato a Scampia, in cui non si riusciva a respirare per i fumi che
si erano accumulati nelle aule e in corridoio a seguito della combustione di
rifiuti all’aria aperta.
La scuola di oggi (come ogni altra organizzazione sociale) non può che
ripartire da quel che rimane di questa natura (inquinata, violata, deturpata
– ma qualcosa ancora rimane!). E questo non può che riguardare anche la
didattica.
Uno dei primi terreni da bonificare sarà l’impianto base di questa nostra
scuola della salute. Bisognerà prima di tutto ripulirlo dalle ansie e dalla
paura cronica prodotte da procedure burocratiche, norme sulla sicurezza
e rigidità individuali (come abbiamo raccontato nelle pagine dedicate al
concorso “Aiuto/Sgarrupo”). Ma anche dalle cialtronerie di molti “progetti” basati su esigenze di marketing, piacioneria dei formatori e proselitismo
spicciolo più che sui bisogni reali degli studenti. Un grumo di sostanze
tossiche – iperprotettività, ansie e isterie – volte a controllare e manipolare
l’altro, anziché liberarlo e renderlo autonomo.
317
Riportando la nostra dissertazione all’ambito scolastico, ci siamo divertiti a compilare un ipotetico dizionario per una scuola salutare del XXI
secolo. Ecco una bozza da cui partire.
Cinque
318
dove
Avendo messo alla prova le teorie dei pedagogisti della scuola attiva (a
partire da Decroly) e di altri pensatori di riferimento (come gli urbanisti
Giovanni Michelucci e Colin Ward, ma anche di scrittori come Pasolini)
sappiamo che il luogo dove è possibile fare esperienza vera di scuola sta
all’esterno dell’edificio scolastico: è qui che va collocata l’aula didattica autentica. Una scuola della salute non può che tenerne conto quando programma i luoghi dove svolgere quotidianamente (e non una o due volte
all’anno) le proprie attività. Lo spazio diventa elemento fondamentale,
come l’attenzione a non tarpare nessuna possibilità all’imprevisto quando
si va alla scoperta di qualcosa. Ma anche la disposizione di ogni elemento del “set” quando la lezione avviene al chiuso di una casa-aula. Parlano
chiaro al riguardo le sperimentazioni riportate dalle maestre Carmela De
Lucia e Rosaria Pica, o quanto scritto da Franco Lorenzoni e Sara Honegger: cura e bellezza, da non confondersi con retorica ed estetica senza anima, sono ingredienti indispensabili.
come
Se è vero che non c’è reale apprendimento senza esperienza e che compito della scuola è favorire sin da piccoli l’incontro con la società, una scuola
della salute non può che fondare la propria ragion d’essere sul mettere gli
alunni nella possibilità di compiere queste esperienze, creando le condizioni e fornendo gli strumenti perché ciascuno riesca a imparare dai propri
errori. Oltre alla scelta del “dove”, sarà perciò indispensabile prestare molta attenzione ai tanti elementi del “come”. Per una migliore definizione di
questa voce guarda anche a quanto riportato nelle voci che seguono. Ma
soprattutto, guarda bene in faccia chi hai di fronte quando cominci una
nuova relazione educativa.
valutazione
Una scuola della salute passa innanzitutto per il cambiamento radicale
del proprio modo di valutare. Prima di tutto svincolandosi dalla catena
persecutoria del giudizio: preside-maestra-alunno-genitore. E anche su
questo argomento rimandiamo a quanto precedentemente riportato delle
considerazioni frutto del lavoro di questi anni in giro per l’Italia, con “Lenti a contatto” ma anche con il Mito e gli altri percorsi della scuola Mammut
per formatori.
potere
Cambiare il sistema di valutazione significa rivedere radicalmente la
concezione di potere e autorità all’interno della scuola, mostrando l’inattualità di forme di relazione ferme praticamente all’epoca pre-fascista. E
non ci riferiamo solo al modo in cui a scuola vengono prese decisioni amministrative e strutturali, ma anche e prima di tutto al modo di concepire
l’apprendimento: non sta più in piedi il metodo verticistico, frontale, con
un adulto che dispensa sapere e saggezza e gli alunni che ingurgitano.
Che questo sistema non regga più, è sotto gli occhi di tutti. Non solo perché insalubre e funzionale a una struttura sociale manipolatoria, ma perché
in un mondo in cui l’autorità tradizionale è colata a picco non è possibile
che questa resista solo a scuola. Il crollo radicale di frequenza e motivazione che si registra un po’ ovunque nelle scuola medie inferiori ne è forse una
conseguenza diretta: appena un essere umano è nelle condizioni per farlo,
non avendo più vincoli sociali forti, si ribella a un mondo anacronistico
come quello della scuola e se ne fugge lontano.
L’altra faccia della medaglia, ugualmente indicativa della crisi di una
scuola di impostazione nella sostanza ancora gentiliana, è l’atteggiamento
di quei genitori iperprotettivi che prendono la scuola come terreno di scontro con gli insegnanti e che magari mandano il proprio avvocato al ricevimento dei genitori. Quello che serve è insomma un nuovo equilibrio tra
stili di conduzione lassisti e stili autoritari, prima di tutto nella modalità di
fare lezione. Contributi importanti del passato come quelli della Scuola di
Francoforte insieme ai più recenti elaborati della psicologia sociale potrebbero dare un notevole apporto ad una migliore definizione di questa voce.
ruoli
Ancora una volta tutto comincia da un coraggioso quanto costante lavoro su di sé e dal tentativo di dare nuova dignità al ruolo di insegnante e
operatore sociale. Anche attraverso modalità di ricerca come quelle proposte in queste pagine. Perché è anche nella frustrazione per lo status del
proprio ruolo sociale che va ricercata la radice di un sistema tanto crudele
e castrante nei confronti di bambini e ragazzi (oltre che degli insegnanti e
degli operatori stessi).
Nelle giornate di ScAttiva (il percorso di ricerca-azione raccontato da
Alessandra Tagliavini) abbiamo visto che questo è possibile, a partire da
una condivisione autentica di entusiasmo e interessi, condivisione in grado
di rompere il senso di isolamento che spesso avvolge gli animi più innovativi.
Corpo
Scuola
Città
319
clima
Su questi cambiamenti è basato il nuovo clima a cui facevamo cenno.
Mentre di strumenti e percorsi per una nuova valutazione abbiamo cercato
di definire qualche tratto nei capitoli precedenti, ci auguriamo che emerga
nella maniera più chiara possibile da questa pubblicazione quanto inutile
(oltre che dannoso) possa essere parlare di strumenti, percorsi, procedure
e altri tecnicismi se non cambia il più generale clima in cui la relazione
educativa avviene quotidianamente. A partire dal modo in cui la relazione
stessa riesce a sbrogliare i nodi relativi alla gestione del potere.
Cinque
320
cambiamenti
Il primo passo sta quindi nel cambiare:
- il sistema di relazione interno alla scuola, dall’autoritarismo a un esercizio sano del potere, inteso come “possibilità”, tanto da parte di chi apprende che di chi insegna;
- la fonte dell’apprendimento, passando da manuali e libri di testo avulsi
dalla vita, alla realtà contingente come fonte del sapere, all’interesse autentico dei singoli e del gruppo classe che incontra gli elementi dell’ambiente
così com’è.
Tutto il nostro discorso finisce per ridursi proprio a questo: una scuola
della salute è una scuola che permette a ciascuno di esercitare il proprio potere. Di dispiegare a pieno l’insieme di potenzialità e capacità (psicofisiche)
che gli derivano dal proprio modo di essere, da quanto sa e dal ruolo che
occupa all’interno del gruppo. In un’ottica del genere non esistono scale
gerarchiche, ma solo differenze e accordi tra pari suscettibili di cambiamenti costanti. È a partire da questo riconoscimento che può nascere una
scuola della salute.
no all’“ora d’aria” salutare
Tutti i sistemi di insegnamento/apprendimento visitati in questo testo
hanno la caratteristica di rendere concrete le spinte ideali fin qui descritte.
Una scuola della salute non è quindi quella che prevede un’ora dedicata
all’educazione alimentare o ad altri temi salutari. Anche in questo caso non
è il travaso di concetti salutari a menti considerate vuote, magari sotto la
pressione dei sensi di colpa, che possa davvero cambiare gli stili di vita delle
persone.
Educazione alla salute si fa permettendo a bambini e ragazzi di vivere
l’intera giornata scolastica come giornata salutare. Nel profilo di Steiner
abbiamo persino fatto cenno alla possibilità di una “pedagogia curativa”, di
un sistema scolastico capace di incidere positivamente su patologie gravi.
Nella nostra sperimentazione non abbiamo raggiunto alcun risultato
nemmeno lontanamente paragonabile a questo, eppure tanto nei percor-
si collettivi (come quello della maestra Elvira Quagliarella sulla porta del
carcere), quanto in progetti individualizzati (come nel caso degli alunni Y
e X, citati diverse volte nel testo), abbiamo avuto modo di verificare quanto l’impianto metodologico fin qua delineato possa ottenere risultati importanti sulla salute psicofisica, e quanto questi risultati possano incidere
positivamente anche sul rendimento scolastico. Con un particolare importante: ciascuna di queste esperienze sono partite dall’ordinario scolastico,
dalla normale lezione della maestra e non da un’“ora d’aria”.
pragmatismo utopico
È possibile e necessario attuare ciascuna delle spinte metodologiche sopra illustrate nel piccolo e limitassimo pezzo di strada che ci è dato di fare,
senza aspettare la riforma scolastica epocale o l’arrivo di dirigenti illuminati (né tantomeno di politici locali con cui intendersi). L’importanza del
qui e ora, del fare quel che ci è possibile alle condizioni date, assumendosi le
proprie responsabilità, il proprio potere di cambiamento rimane l’atteggiamento fondamentale. Una scuola del benessere totale non esisterà mai, probabilmente. Ma non per questo dobbiamo rinunciare a realizzarne quelle
porzioni che il presente ci consente di realizzare.
strumenti
Percorsi sperimentali, come l’incontro tra prestigitazione e didattica nel
teatro-magia con il “Genio Eir Ascòl” e il MammutBus, hanno indicato ulteriori possibilità di coltivare interesse e realizzare capovolgimento di ruoli.
Altro strumento importante sono stati “i concorsi di città”, quelli realizzati grazie alla collaborazione con il quotidiano il Mattino. Sono stati forse
questi i momenti in cui abbiamo potuto maggiormente incidere sullo stato
di salute di servizi come “il carcere”, producendo un’attivazione numericamente e qualitativamente rilevante tra alunni e insegnanti.
Senza dimenticare mai che gli strumenti sono e restano strumenti, più
o meno utili a seconda delle circostanze: quel che conta di più è lasciare
aperti i canali individuali e di gruppo attraverso cui fluiscono le idee e la
possibilità di concretizzazione, in base alle esigenze dello specifico contesto. L’abbiamo verificato anche quest’anno, con le insegnanti che hanno
partecipato a ScAttiva. Soprattutto quando abbiamo smesso di interpretare
il ruolo di supereroi, quelli a cui le insegnanti delegano la costruzione di
una scuola bella, rimanendosene rinchiuse nella prigionia di una millantata incapacità-impossibilità.
Per imparare a leggere, scrivere e far di conto ci si può oggi avvalere di
una grande quantità di metodi e tecnologie – dal tablet alle lettere smerigliate della Montessori – in sintonia con le sensibilità e le necessità di
ciascuno. Noi non possiamo che augurarci che le “e” prevalgano sulle “o”
Corpo
Scuola
Città
321
quando c’è da scegliere gli strumenti, ponendo invece tutta l’attenzione al
cambiamento del più volte menzionato clima di classe.
Cinque
322
mani
Una scuola della salute non può che essere basata sulla piena espressione
delle potenzialità delle mani. In molti modi abbiamo verificato la grande
potenza curativa che le attività manuali possono avere. Curative per le relazioni di gruppo quanto per i processi di riappacificazione con sé stessi e
con il mondo adulto (scuola compresa).
Nei percorsi della ciclofficina, in particolare, abbiamo verificato quanto
legare la propria presenza ad un fare utile (come ci ha tante volte ripetuto il nostro Riccardo Dalisi) possa diventare calamita, anche per i ragazzi
meno disposti a seguire attività strutturate, nell’attivazione motivazionale,
ad esempio, di processi di letto-scrittura efficaci.
cittadini
Serve continuare a praticare quanto insegnato da Dewey sul rapporto
tra didattica e democrazia: fare scuola significa formare i cittadini del futuro. Tenere quindi ben chiaro che poco c’entrano con una scuola salutare
stucchevoli giornate in campagna o al museo, dove è chiaramente visibile
il vero scopo degli organizzatori: vendere prodotti e servizi e addestrare
bambini e ragazzi a diventare buoni consumatori. È proprio con l’infanzia
che l’industria dello svago e del tempo libero raggiunge forse i gradi più alti
di sofisticazione.
Come rimane fondamentale ricordarsi quanto Maria Montessori ci ha
dimostrato con le sue scuole: dobbiamo dare ogni valore e rilievo a quel
che il bambino è oggi, non tanto per quello che diventerà in futuro, ma per
ciò che è nel momento presente. Anche rispetto alla possibilità di incidere
sull’equilibrio ecologico e all’espressione di ogni diritto di cittadinanza.
Nei concorsi MammutBus è stato questo uno dei principi più difficili da far
passare, perché in pochi riuscivano a scorgere il valore di una letto/scrittura della realtà ad opera dei bambini, mentre abbondavano categorizzazioni
del tipo “giornalisti in erba”.
medico/maestro
Se per la nostra scuola della salute è importante che un maestro si faccia
architetto alla maniera di Michelucci, lo è altrettanto che diventi “medico”,
come quelli dei tempi di Zanotti-Bianco. Non solo perché ancora oggi non
sono pochi i casi in cui i bambini vengono a scuola in condizioni igieniche
e sanitarie simili a quelle del dopoguerra (e non mi riferisco solo ai campi
rom, quanto ad alcuni quartieri popolari conosciuti a Palermo e Napoli), ma anche perché ancora oggi per fare scuola e educazione è necessario
farsi carico della persona nella sua interezza, secondo gli approcci indicati
dalla parte più consapevole della medicina moderna. Con questo non vogliamo in alcun modo essere indulgenti verso la figura di maestro santone
onnisciente, curatore improvvisato e clinico del sapere. Intendiamo invece
mettere di nuovo al centro della riflessione, anche pedagogica, la cura della
salute (non della malattia) complessiva della persona, richiamando maestri
e educatori alla necessità di assumersi il compito di cura pre-medica, intesa
come potenziamento dello stato di salute di ciascuno (più che come lotta
chimica ai sintomi).
Proviamo a mettere al centro della vita scolastica la domanda “e se si fa
bene?”, al posto di quella inflazionata “e se si fa male?” alla ricerca di nuovi
equilibri tra vigliaccheria delegante e deliri medicalizzanti. Se il maestro si
assumerà questo ruolo si troverà spesso a fare i conti con un sistema sanitario allo sfascio, come quello descritto da Vincenzo Esposito. Come nel
caso del bimbo di 3 anni che si era rivolto al Mammut perché a fronte di un
percorso logopedico che gli era stato prescritto, era riuscito a ottenere una
prima visita solo dopo tre anni.
Una scuola della salute è quella che riesce a trovare la giusta interazione
col sistema sanitario, assumendo anche posizioni più coraggiose nell’abbracciare battaglie salutari più attuali e rivedendo le proprie posizioni ideologiche su questioni d’altri tempi. È forse arrivato il tempo di far uscire
dalla porta concezioni vetuste della salute e del medico, quelle del secolo scorso (ancora basate sulle relative epidemie e vaccinazioni), facendo
spazio ad approcci più moderni come quelli della medicina integrata (la
psiconeuroendocrinoimmunologia ad esempio, che molto avrebbe da dire
anche alla didattica). Ancora una volta con misura e buon senso, riuscendo
ad individuare i veri nemici della salute, ripartendo da inquinamento e stili
di vita dettati dalla società del consumo (compreso quello di medicine e
medicalizzatori). Ancora di grande attualità rimane al riguardo il contributo di Ivan Illich, anche se noi vogliamo prendere la sua serrata critica alla
medicalizzazione della società, ma al tempo stesso sottolineare la fortuna
e l’importanza di vivere in un’epoca dove la medicina è capace di curare
e prevenire malattie in misura e modi un tempo inimmaginabili. Anche
grazie a un sistema sanitario pubblico che, malgrado tutto, ancora resiste,
soprattutto in alcune nicchie di eccellenza (come il Day-Surgery dell’ospedale pediatrico napoletano Santobono Pausilipon di Napoli). È anche a
questo sistema e a queste nicchie che vorremmo offrire il nostro contributo
di ricerca e sperimentazione.
Corpo
Scuola
Città
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Cinque
324
speciale
Non esiste una scuola speciale o una scuola per categorie speciali. Lo
diceva già Ovide Decroly. Esistono semmai infiniti percorsi, uno per ciascuno dei nostri alunni, pensati affinché ciascuno possa sviluppare appieno le proprie potenzialità. La deriva che ha preso la scuola, specie quella
di periferia, nel rinforzare percorsi e classi dove vengono ammassati studenti “con difficoltà”, va avversata con ogni mezzo. Soprattutto quando
nasconde percorsi speciali con etichette avvincenti quanto mendaci. Della
specialità nemica di una scuola salutare fanno parte le tendenze psicologizzanti, tese a bollare e instradare in circuiti differenziali. Ci riferiamo all’uso
che tanto spesso abbiamo visto fare delle categorie che rientrano nell’area
dei Bes (Bisogni educativi speciali), ma anche a derive diagnostiche come
quelle descritte in queste pagine da Giulia Valerio. Tanto più in un contesto
sanitario dove la psicologia che serve a scuola, e fuori dalla scuola, diventa
rara a causa di tagli e derive burocratiche.
A queste tendenze “speciali” bisogna opporsi con tutte le forze. Prima
di tutto perché alla scuola vengano forniti maggiori mezzi e strumenti (e
non si abbia più bisogno di ricorrere a un insegnante di sostegno semplicemente per ridurre il rapporto insegnanti/alunni) e poi per cambiare le
condizioni di contesto da cui anche il disagio scolastico trae origine. Anche
per questo è così importante svolgere con continuità e cura il lavoro sul
contesto a cui abbiamo dedicato le pagina iniziali.
Una scuola della salute parte proprio dal non avere classi speciali ma
dall’essere speciale, perché magica (come nel percorso del Genio Eir Ascòl)
e perché capace di farsi adeguata alle specificità di ciascuno. Come per Freinet, Montessori, Decroly è proprio a partire dalle difficoltà degli alunni più
problematici che è possibile migliorare la scuola di tutti. E non viceversa.
rom
I rom sono forse quelli che meglio mettono in evidenza quanto i percorsi speciali siano controproducenti. Grazie anche al contributo delle ricerche più recenti, sembra ormai assodato che i progetti di scolarizzazione
per soli rom (pullmino, lezioni fuori dal gruppo classe, ecc.) sono nocivi
e costituiscono nella maggior parte dei casi un inutile spreco di danaro.
E benché siano le stesse strategie e raccomandazioni dei principali organismi della Comunità Europea a dirlo, scuole, istituzioni ed enti locali si
ostinano a intendere la scolarizzazione per i rom ancora in questo modo,
magari solo usando terminologie e strategie di marketing pedagogico più
raffinate. Mentre ancora si fa fatica a comprendere che una concentrazione
di persone etichettate secondo categorie elaborate dalla società prevalente
(come avviene per i rom) costituisce di per sé un ghetto, anche quando la si
costringe in soluzioni abitative presentate come avanguardistiche.
Il problema dei rom a scuola esiste nelle sacche di emarginazione costituite dai campi in cui sono costretti a vivere, anche che li si chiami “Villaggio di solidarietà”, come nel caso del campo costruito nel 2000 tra una
strada a scorrimento rapido e il carcere di Secondigliano. O come quello
che sembra abbia intenzione di costruire il Comune di Napoli a Scampia al
posto dell’accampamento spontaneo a Cupa Perillo. In questo caso la scuola costituisce un’importante cartina di tornasole: comunque la si chiami,
ad una soluzione abitativa che concentra un gran numero di rom in una
specifica area urbana corrisponderà un’altrettanto elevata concentrazione
di alunni rom nella scuola più vicina a quell’area, con le derive stereotipiche messe in luce anche in ricerche come “Star”, progetto che il Compare
ha svolto proprio assieme al Comune di Napoli (e pubblicata in Rom in
Comune – studio sul Comune di Napoli e i rom che ci vivono, edizioni Barrito
del Mammut, Napoli 2012).
il creato
Montessori, Steiner e molti altri maestri ispirati ci hanno insegnato che
la coscienza ecologica non può nascere da inseminazioni cognitive, ma
dall’esperienza del creato così com’è, senza mediazioni. Autori come Langer e Capitini ci insegnano che il rispetto per l’ambiente non passa da sensi
di colpa e stili persecutori, ma dal sentirsi parte del tutto, anche in maniera
laica. Ancora una volta questo non è possibile all’interno dell’aula, ma solo
sperimentando la natura e le sue leggi in prima persona. Nel viaggio in
Umbria e negli altri percorsi MammutBus, con la ciclofficina, con l’orto di
quartiere e attraverso le tecniche di comunicazione teatrale e pittorica, ci
siamo felicemente stupiti di quanto facile potesse essere riscoprire questa
riconnessione ecologica proprio grazie al lavoro con i bambini. L’articolo di
Lorenzoni e quello sull’astronomia del cielo di Margherita Bellini e Marco Pollano contengono indicazioni molto utili a riguardo. Un scuola della
salute mette al primo posto l’esperienza della connessione ecologica, della
inscindibile interdipendenza tra noi e il resto del creato. Nel piacere di condividere la sempre stupefacente scoperta che il segreto del cosmo sta nella
creazione permanente prodotta da uomini e stelle insieme.
Il metodo mammut per una scuola della salute
Molti degli strumenti e degli approcci del metodo già esposti in Come
partorire un Mammut (Marotta &Cafiero 2011) si sono rivelati utili anche ai
fini di una scuola salutare. Molti di questi elementi li abbiamo già più volte
sottolineati in questo libro: la scuola che esce dalla scuola e l’intreccio con
lo spazio pubblico a cui abbiamo fatto ampio cenno; il viaggio e l’intui-
Corpo
Scuola
Città
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Cinque
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zione della città/aula, con “stanze” corrispondenti a possibilità e necessità
individuate in percorsi individualizzati come nelle sperimentazioni “Corridoio”; l’utilizzo di miti e riti che hanno continuato a rivelarsi possibilità
molto potenti. Come pure l’adozione di uno spazio-aula dove non esistono
banchi e il momento di riflessione/capitalizzazione cognitiva avviene in
cerchio e per terra.
Ha continuato a dare frutti eccellenti nelle giornate di scuola al Mammut (con le classi scolastiche che vi venivano a svolgere parti del percorso
didattico) l’intreccio unitario di approcci e tecniche teatrali, pittoriche e di
manipolazione, funzionali ad una struttura maieutica incentrata su circoli
filosofici e ragionamenti scientifici (quella del “cadendo si impara”). Molto
di quanto scritto da Margherita Bellini sull’arte-terapia, o praticato da più
tempo in scuole come quelle di ispirazione steineriana, forniscono materiale teorico e pratico utile a questa possibilità.
La nostra metodologia ha cominciato a prendere forme più definite anche grazie alla focalizzazione sul tema della salute, portandoci ad abbozzare modalità valide per adulti e bambini che hanno nella scrittura la loro
chiave di successo. Modalità che partono dall’attivazione di sfere profonde
della personalità (ma con molta attenzione a non superare i limiti di profondità…) e che coinvolge il corpo nella sua interezza, anche attraverso i
linguaggi artistici, teatrali, del gioco. È questa attivazione il terreno utile
alla focalizzazione individuale di interessi e bisogni, in cui nutrire curiosità e voglia di scoperta attraverso le incursioni nella vita reale, nelle sperimentazioni scientifiche, nella dialettica interna e esterna al gruppo (altri la
chiamerebbero italiano, matematica, scienze, geografia). Ed è sempre l’attivazione non superficiale la base da cui partire perché archetipi antichi (i
miti e le favole, appunto) e simboli personali, possano fare il proprio lavoro
su blocchi e ferite rimaste sepolte nel profondo anche attraverso fabulazione e narrazioni autobiografiche. L’apprendimento (di una conoscenza) e la
cura (di blocchi e ferite psicologiche) possono così procedere di pari passo.
Con risultati evidenti sul benessere psicologico e la riuscita didattica (come
nel caso del carcere raccontato dalla maestra Elvira Quagliarella) o di J.,
bimba rom che nei nostri laboratori parlava e socializzava, mentre a scuola
non faceva mai sentire la sua voce e perciò veniva considerata un caso piuttosto grave (peccato che suo nonno sia scappato terrorizzato dalla richiesta
anche nostra, oltre che della maestra con cui eravamo diventai complici, di
mandare sua nipote da un logopedista). Esiti positivi che più di una volte ci
è sembrato di riscontrate anche a livello puramente fisico, senza però avere
elementi sufficienti a dimostrarne i nessi di causalità.
Pochi dubbi restano sull’effetto di un modo simile di fare scuola su incremento del tasso di frequenza scolastica e motivazione endogena. Mutuando molto di quanto Bandura ha messo a fuoco rispetto ad autoeffi-
cacia e salute. Ma è forse prima di tutto sulla nostra pelle di operatori che
abbiamo verificato quanto i nessi tra il modo di apprendere e la salute siano
strettamente correlati, e quali possibilità abbia un metodo come quello che
andiamo sperimentando, in sintonia con le intuizioni della psicosomatica
e della medicina integrata.
In alcuni aspetti il metodo che stiamo vedendo realizzarsi attorno al
Mammut ha similitudini con quanto avviene nel rapporto tra disegno e
scrittura nel “metodo naturale”. Permettendo al bambino (o ragazzo, o
adulto) di essere quello che è, colleghiamo una sua produzione (oltre che
grafica anche pittorica, teatrale, manipolativa, ludica…) ad un apprendimento curriculare. Essendo tale produzione frutto di un portato emotivo
profondo è a quel livello che l’apprendimento può mettere radici. Ma allo
stesso tempo, permettendo al profondo (anche a quello rifiutato, rinnegato, dimenticato, ferito) di esprimersi in un contesto non medicalizzato,
ma apparentemente finalizzato allo svolgimento di un compito (la scuola,
il lavoro) migliora anche lo stato di benessere generale di chi apprende e di
chi insegna. Stato di benessere frutto della risonanza con quanto fa da cornice a quest’esperienza di apprendimento/insegnamento: una storia dove
possano agire archetipi in maniera autentica e il contatto con il cosmo nelle
sue incarnazioni terrestri. Tra cui un gruppo di pari disposto ad accettarti
così come sei e di cui sentirti compagno.
Tutt’altro che prossime alla messa a punto di un “modello esportabile”,
sono queste le caratteristiche comuni alle sperimentazioni raccontate in
questo libro e di cui si sono giovati bambini, ragazzi e adulti a vario titolo
coinvolti nelle nostre mammuttesche imprese.
(g.z.)
Corpo
Scuola
Città
327
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AA.VV. A scuola con il corpo, Quaderni M.C.E., La Nuova Italia 1974
Francesco Tonucci, I materiali, La linea editrice 1977
Célestin Freinet, La scuola del fare. Principi, metodi e tecniche, Emme 1977
Mario Lodi, Cominciare dal bambino, Einaudi 1977
Mario Lodi, La scuola e i diritti del bambino, Einaudi 1983
Paul Le Bohec, Il testo libero di matematica, La Nuova Italia 1995
Célestin Freinet, Una moderna pedagogia del buon senso, e/o 1997
Paul Le Bohec, Bruna Campolmi, Leggere e scrivere con il metodo naturale, Junior 2001
Betty Edwards, Il nuovo disegnare con la parte destra del cervello, Longanesi 2002
Lando Landi, Raccontare la preistoria, Carocci 2005
AA.VV., Geometria in città, Battagin 2005
Maria Luisa Bigiaretti, La scuola anti trantran, Nuove edizioni romane 2006
Ivano Gamelli, Pedagogia del corpo, Meltemi, Roma 2006
Arno Stern, Peter Lindbergh, Felice come un bambino che dipinge, Armando 2006
Raniero Regni, Educare con il lavoro, Armando 2006
AA.VV., L’eclisse di sole in miniatura, Nuova cultura 2007
Emma Castelnuovo, L’officina matematica, La meridiana 2008
Grazia Honegger Fresco, I figli che bella fatica, Edizioni dell’Asino 2008
Nicoletta Lanciano, Strumenti per i giardini del cielo, Junior 2009; A scuola di miti e di
scienza, Junior 2009
Grazia Honegger Fresco, Dalla parte dei bambini, L’Ancora del Mediterraneo 2011
Raniero Regni, Il sole e la storia. Il messaggio educativo di Albert Camus, Armando
2012
Bruno Ciari, Le nuove tecniche didattiche, Edizioni dell’Asino 2012
Goffredo Fofi, Salvare gli innocenti, La meridiana 2012
Franco Lorenzoni, I bambini pensano grande, Sellerio editore 2014
Giovanni Zoppoli (a cura), Lenti a contatto, Marotta & Cafiero editori, Napoli 2014
monografie:
john dewey
La ricerca della certezza, La Nuova Italia 1966
Logica e teoria dell’indagine, Einaudi 1974
Scuola e società, La Nuova Italia 1998
Il mio credo pedagogico, La Nuova Italia 1999
Democrazia e educazione, Sansoni 2004
Esperienza e educazione, La Nuova Italia 2006
maria montessori
Educazione e pace, Garzanti 1953
Il segreto dell’infanzia, Garzanti 1999
La mente del bambino, Garzanti 1999
L’autoeducazione nelle scuole elementari, Garzanti 2000
La scoperta del bambino, Garzanti 2000
Come educare il potenziale umano, Garzanti 2007
Grazia Honegger Fresco, Maria Montessori, una storia attuale, L’ancora del
Mediterraneo 2008
aldo capitini
Educazione aperta (vol. 1 e 2), La nuova Italia 1968
Opposizione e liberazione, L’ancora del Mediterraneo 2003
Colloquio corale, L’ancora del mediterraneo 2005
Le tecniche della nonviolenza, Edizioni dell’asino 2009
La religione dell’educazione, Edizioni dell’Asino 2011
ivan illich
Per una storia dei bisogni, Mondadori 1981
Nemesi medica, Bruno Mondadori 2004
La convivialità, Boroli 2005
Nello specchio del passato, Boroli 2005
Conversazioni con Ivan Illich, Elèuthera 2008
I fiumi a nord del futuro, Quodlibet 2009
biblio
La perdita dei sensi, Libreria editrice fiorentina 2009
Descolarizzare la società, Mimesis 2010
ovide decroly
Una scuola per la vita attraverso la vita, Loescher 1967
Abbozzo di un programma applicato in una Scuola sperimentale, trad. Elsa Pacini, in
«Rivista di psicologia», 1921
Verso una scuola rinnovata, La Nuova Italia 1953
La funzione di globalizzazione e l’insegnamento, La Nuova Italia 1953
Lo sviluppo del linguaggio parlato presso il fanciullo, 1932
biblio
città:
Tullio Vinay, L’amore è più grande. La storia di Agape e la nostra, Claudiana 1995
Colin Ward, La città dei ricchi e la città dei poveri, e/o edizioni 1998
Goffredo Fofi, Le nozze coi fichi secchi, L’Ancora del Mediterraneo 1999
Colin Ward, Il bambino e la città, L’ancora del Mediterraneo 2001
David Goodway, Conversazione con Colin Ward, Eleuthera 2003
Giancarlo Paba e Anna Lisa Pecoriello (a cura), La città bambina, MF edizioni 2005
Goffredo Fofi, Da pochi a pochi, Eléuthera 2006
Goffredo Fofi, La vocazione minoritaria, Laterza 2009
Colin Ward, L’anarchia come organizzazione, Eleuthera 2010
Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello,
Raffaello Cortina 2011
Alexander Langer, Il viaggiatore leggero, Sellerio 2001
Goffredo Fofi, Strana gente, Donzelli 2012
Giovanni Zoppoli, Fare scuola, fare città, Edizioni dell’Asino 2014
Federico Rampini, Rete padrona, Feltrinelli 2014
psiche:
Alexander S. Neill, Summerhill, Forum 1969
Carl Rogers, Psicoterapia e relazioni umane, Boringhieri 1970
Eric Berne, Analisi transazionale e psicoterapia, Astrolabio 1971
Paul Lemoine e Gennie Lemoine, Lo psicodramma, Feltrinelli 1973
Carl Gustav Jung, L’uomo e i suoi simboli, Longanesi 1980
Carl Gustav Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Bollati Boringhieri 1982
Jacob Levi Moreno, Manuale di Psicodramma, Astrolabio 1985
Carl Gustav Jung, Psicologia dei fenomeni occulti, Newton Compton 1991
Mihaly Csikszentmihalyi, La corrente della vita, Frassinelli 1992
Mario Mastropaolo, Il sé rivelato, Franco Angeli 1997
Eric Berne, A che gioco giochiamo; Ciao. E poi?, Bompiani 2000
Albert Bandura, Autoefficacia. Teoria e applicazioni, Erickson 2000
Albert Bandura, Guida alla costruzione delle scale di autoefficacia. In Caprara G.V. (a
cura di), La valutazione dell’autoefficacia, Erickson 2001
Jerome S. Bruner, La cultura dell’educazione, Feltrinelli 2001
Wilhelm Reich, La psicologia di massa del fascismo, Einaudi 2002
Howard Gardner, Educare al comprendere. Stereotipi infantili e apprendimento
scolastico, Feltrinelli 2002
Alexander Lowen, Il Narcisismo, Feltrinelli 2004
Howard Gardner, Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e
apprendimento, Centro Studi Erickson 2005
Augusto Boal, Il poliziotto e la maschera, La meridiana 2005
biblio
Alice Miller, La persecuzione del bambino; Il dramma del
bambino dotato e la ricerca del vero sé, Bollati Boringhieri 2007 e 2008
Alexander Lowen, Bioenergetica, Feltrinelli 2007
Lev S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, Giunti 2007
Carl Rogers, La terapia centrata sul cliente, La Meridiana 2007
Renè Kaes, Il complesso fraterno, Borla 2009
Jerome S. Bruner, Il pensiero, Armando 2009
Stanislas Dehaene, I neuroni della lettura, Cortina Raffaello 2009
Abraham Maslow, Motivazione e personalità, Armando 2010
Lucio Della Seta, Debellare il senso di colpa, Marsilio 2010
Howard Gardner, Formae mentis, Feltrinelli 2010
Alison Gopnik, Il bambino filosofo, Bollati Boringhieri 2010
Eric R. Kandel, Alla ricerca della memoria, Codice 2010
Paola Federici, Gli adulti di fronte ai disegni dei bambini, Franco Angeli 2012
Alexander Lowen, Il linguaggio del corpo, Feltrinelli 2013
Stanislas Dehaene, Coscienza e cervello. Come i neuroni codificano il pensiero, Cortina
Raffaello 2014
Katie Davis, Howard Gardner, Generazione app. La testa dei giovani e il nuovo mondo
digitale, Feltrinelli 2014
Howard Gardner, Aprire le menti. La creatività e i dilemmi dell’educazione, Feltrinelli
2014
teatro:
Giuliano Scabia, Forse un drago nascerà, Emme 1973
Ludwik Flazen e Carla Pollastrelli (a cura), Il Teatro Laboratorium di Jerzy Grotwoski
1959-1969, Fondazione Pontedera Teatro 2001
Loredana Perissinotto, Animazione teatrale, Carocci 2004
Marta Porzio, La resistenza teatrale, Bulzoni editore 2011
miti e fiabe:
Ringraziamenti:
Arnold Van Gennep, Le origini delle leggende, Xenia edizioni 1991
Carol S.Pearson, Risvegliare l’eroe dentro di noi, Astrolabio 1992
Storie e fiabe degli zingari, Fabbri 2001
Paola Santagostino, Guarire con una fiaba, Feltrinelli 2008
David Graeber, Frammenti di Antropologia Anarchica, Elèuthera 2012
Bruno Bettelheim, Il mondo incantato, Feltrinelli 2013
Maurizio Adami, Simonetta M. G. Adamo, Livia Apa, Linda Babbini,
M. Cristina Basso, Paolo Battimiello e l’I.C. “Virgilio 4”, Gilda Berruti, p.
Antonio Bonato, Beatrice Borri, Maurizio Braucci, Ciro e Gioia del bar di
fronte, Claudia Brignone, Bustric, Giuseppe Capasso, Vincenzo Caponaro,
Giovanni Carbone, Pino Carbone, Peppe Carini, Marco Casale, Silvana
Casertano e l’I.C. 28° “Giovanni xxiii-Aliotta”, Renato Casolaro, Valentina
Cavinato, Cdr “Gatta Blu”, Maria Chiummariello, Alfredo Cicalese,
il Comitato Spazio Pubblico, Francesco Cotroneo, Benedetta de Falco,
Gabriella Delizzos, Gaetano Di Vaio, David Doris Doumakpé, Antonio
Ferrara, p. Edoardo Fiscone, Goffredo Fofi, Aniello Galdi, Aps Garibaldi
101 e l’Itis “Leonardo da Vinci”, Luca Giaccio, Gabriella Giardina, Gianni
Grasso, Paola Iaccarino Idelson, Yacoubou Ibrahim, Giordana Innocenti,
Alberto Ippolito, Mirella La Magna, Martina Pignataro e il Gridas, Anna
Maria Laville, Ana Rita Lopes Alves, Eduardo Lubrano, Alessandro
Maffeo, Carla Mangione, Giovanni Marino, Marco Marino, Linda
Martinelli, Cinzia Mastrodomenico, Mario Mastropaolo, Ciro Mattei,
Olga Mautone, Mediterraneo Antirazzista, associazione MetisAfrica di
Verona, Mister Piccolo e l’Arci Scampia, Federico Monga e Titta Fiore
de “Il Mattino”, Gennaro Muto, Mary Osei e il centro Miriam Makeba,
Vincenzo Montesano e il 5° C.D. “Eugenio Montale”, Domenico e Gaia
Noviello, Steven Osedumme, Maria Federica Palestino, Patrizia Palumbo
e l’associazione Dream Team, Teresa Petrucci e l’I.C. 58° “J.F. Kennedy”,
Ilenia Picardi, Marco Pirone, Aurelio Raiola, Gianluca Raro, Monica Riccio,
Carla Rabuffetti, Rosalba Rotondo e l’I.C. “Ilaria Alpi-Carlo Levi”, Nicola
Ruganti, Sandro Saudino, Serigrafia Else, Mario Schiano, Paul Schweizer,
Gianluigi Signorelli, Francesco Sivo, Andrea Sola, Lia Sommella, Annamaria
Staiano, Assunta Staiano, Andreja Stevic, Claudio Tosi, UNS Crew, Ilaria
Urbani, Eline, Isabelle e Mike van der Vijver, Gianni Vastarella, Vincenzo
Vastarella, Livia Velleca, Nicola Villa e gli Asini, Wof Crew, Davide Zazzaro,
l’VIII Municipalità del Comune di Napoli, camilla, i bambini e i ragazzi,
i genitori, gli adulti, le maestre e gli insegnanti che hanno preso parte alle
attività del Mammut e alla scrittura collettiva di questo libro.
storie:
biblio
Anche il percorso dell’ultima edizione del Mito del Mammut si è
dispiegato nell’intreccio trai racconti autobiografici dei bambini e i
miti, le fiabe e le storie classiche che fanno ormai parte del nostro bagaglio,
raccontati nella maniera più autentica possibile, senza sdolcinature, censure o
edulcorazioni. Ecco la lista delle storie che abbiamo utilizzato più spesso:
Alibabà e i 40 ladroni
Il mito di Er e Il mito della caverna di Platone
Giano Bifronte
Orfeo ed Euridice
Proserpina
Dio che creò il mondo con l’aiuto del diavolo (fiaba zigana)
Madre Luna e padre Lupo (racconto indiano)
I viaggi di Gulliver di J. Swift
Giulietta e Romeo di W. Shakespeare
Davanti alla legge di F. Kafka
annuario de “il barrito del mammut”
periodico di ricerca e inchiesta pedagogica
registrazione presso il tribunale di napoli
n. 17 del 26 marzo 2009
direttore responsabile: annalisa vandelli
issn 2281-4981
nucleo redazione:
chiara ciccarelli, carmela de lucia, alessandra di fenza, clementina gambocci,
elvira quagliarella, rossana sanges, tonino stornaiuolo, alessandra tagliavini,
giovanni zoppoli
testi di:
yasmine accardo, margherita bellini, aldo bifulco, maurizio braucci,
claudio caccavale, claudia cannavacciuolo, marco carsetti, chiara ciccarelli,
riccardo dalisi, marisa damiano, dario stefano dell’aquila, carmela de lucia,
alessandra di fenza, argentina dragutinovic, vincenzo esposito, enzo ferrara,
giuseppe ferraro, grazia fresco, clementina gambocci, ivano gamelli, mirko grasso,
sara honegger, daniela iennaco, daniela izzo, luca lambertini, franco lorenzoni,
filippo mondini, luigi monti, ciro minichini, rosaria pica, marco pollano,
elvira quagliarella, raniero regni, rossana sanges, francesca saudino, tonino
stornaiuolo, alessandra tagliavini, giulia valerio, fabrizio valletti sj,
giulio vannucci, nadia vembacher, giovanni zoppoli
editing: luigi monti
progetto grafico e disegni: luca dalisi
altre immagini:
i bambini e le bambine delle scuole partecipanti a ‘il mito del mammut’
redazione:
piazza giovanni paolo ii, 3/6
80144 napoli
tel. 081 701 1674
[email protected]
www.mammutnapoli.org
con il contributo di:
comune di napoli,
fondazione angelo affinita,
fondazione mission bambini,
tavola valdese – ufficio otto per mille
Finito di stampare nel febbraio 2015
presso
Alfa Tipografia – S. Sebastiano al Vesuvio (Na)