Leggi - dino nicolia

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ANIMALI DA PELLICCIA
Insospettabili segreti della brava gente di Lucania
di
Dino Nicolia
I PARTE
La birra di Ziza
"Prepara o' café, per piacere", chiese a Ciaramella,
trafelato. Poi si rivolse a Ziza, "te lo pigli pure tu?"
"No, a me, dammi ‘na birra", rispose Ziza, che aveva
davvero sete.
"Cominciamo bene, `na birra di prima mattina",
sorrise Pinuccio di Gina.
In paese lo chiamavano cosi perché era figlio di
Gina e, dato che il nome Pinuccio era alquanto comune a
Bigliano, occorreva distinguerlo, facendo riferimento alla
provenienza familiare. Sorrise anche Ziza. Ciaramella era di
spalle, non sapeva se ordinare ancora del cordial. Il
commesso sarebbe passato nella mattinata.
"Dovrebbe consegnarmi un paio di casse, ma forse
non basta".
Ziza afferrò il bicchiere di birra con la mano destra
e se lo portò sull'uscio del bar. Vide passare Zi’Nardo
dall'altra parte della strada, sul marciapiede, appena rimesso a
nuovo. Provò a chiamarlo con un fischio ma non rispose.
Ziza lo chiamò ancora una volta, ma non più con un fischio.
Capì che non sarebbe servito.
Urlò, "Zi' Na', ‘na birra?”
Zi' Nardo si girò dapprima dietro, poi guardò in
alto, finalmente vide Ziza, che gli faceva cenno con la mano
di avvicinarsi. Guardò di nuovo in alto, si batté due volte la
mano sui pantaloni per pulirsela e si avvicinò.
"Guagliò, sempre dentro a ‘sto bar", disse a Ziza.
Poi si rivolse a Pinuccio di Gina, che si era
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avvicinato, "…ma ‘na fatica quando se la trova?" Gli chiese,
parlando di Ziza.
"E che vuole trovà questo sciagurato", rispose
Pinuccio di Gina.
Poi lo indicò con il palmo della mano destra ed aggiunse, "non
vedi che non tiene voglia di faticà".
Ziza, che fino ad allora aveva sorriso ed aveva
seguito in silenzio, continuando a sorseggiare la sua birra, si
fece serio. Rientrò all'interno del bar, lasciando Zi’ Nardo e
Pinuccio di Gina sull’uscio. Posò per un attimo la birra sul
banco del bar e si girò verso Ciaramella, che, intanto, aveva
smesso di occuparsi delle bottiglie di cordial.
"Questi tengono voglia di sfottere", disse, a voce alta,
facendo una breve torsione della testa, per indicare Pinuccio
di Gina e Zi' Nardo.
Riprese in mano il bicchiere di birra, attese ancora
due secondi e si rimise a bere.
"Ahhh!" Sospirò.
La birra se la gustava per davvero. Lo si capiva dai
rutti, che faceva seguire ad ogni sorso. Lui ruttava e gli altri
ridevano. Ziza era un maestro del rutto. Nessuno era capace
di farne tanti quanto lui.
"Da queste parti, fatica non ce n'è, o' capite o no?"
Aggiunse tra un rutto e l’altro.
Mentre lo diceva, Ciaramella fece una smorfia.
Ziza se ne accorse e chiese spiegazioni, "perché fai
‘ste mosse? Non è accussì come dico io?"
"Qua non c'è fatica per chi non tiene voglia di faticà",
rispose Ciaramella, scuro in volto.
Per lui é naturale essere scuro in volto. Sembra un
arabo con i tratti somatici che si ritrova. Gli occhi neri, lo
sguardo intenso, le labbra pronunciate e la pelle scura, a
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testimonianza del passaggio saraceno in terra lucana. Ha
assistito a mille discussioni sul lavoro che non c'è e sulla
voglia di fare che manca. come un confessore, sa tutto di
tutti.
Tutti a Bigliano sanno tutto di tutti, ma Ciaramella
ne sa un po’ di più. Lo si intuisce dalle smorfie che fa, quando
i suoi clienti parlano nel suo bar. Alza le sopracciglia,
strabuzza gli occhi, muove le labbra in alto o in basso. Solo i
biglianesi sono capaci di decifrare la sua mimica facciale.
Come Ciaramella i Biglianesi comunicano senza parlare.
Per sapere cosa Ciaramella pensi realmente basta
seguire le espressioni del suo volto. Ziza lo sa e sa anche che
Ciaramella non stima gli emigranti che hanno lasciato il paese
per andare a cercare il lavoro lontano. Ha ancora meno stima
di quelli, come Ziza, che il lavoro non ce l’hanno e non
provano nemmeno a cercarlo. Gli emigranti sono egoisti e
quelli come Ziza degli opportunisti.
"Tu 'a fatica ce l'avevi. Non te la sei saputa mantenere
e, una volta che l'hai persa, non ti sei manco sforzato di cercane
'nata bona".
Ziza, invece, racconta un'altra storia. Non si
offende quando Ciaramella gli dice che é uno sfaticato. Dice
che lui ha provato a lavorare in fabbrica ma, purtroppo, non
ci riesce.
"Io non fatico per questi bastardi del nord. Non faccio
arricchire questi stronzi dell’alta Italia, che vengono a rubare li soldi da
noi”, disse guardando Zi’ Nardo, che continuava a parlare con
Pinuccio di Gina.
"Guaglio'…niente politica qua dentro", lo riprese
immediatamente Ciaramella.
"Tu prima mi sfroculi e poi non vuoi parlare. Sei uno
strano tipo, Ciaramé".
"Parla e dici quello che ti pare ma niente politica
qua dentro. Io devo lavorare", ripeté seccamente Ciaramella.
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"Allora lasciamo perdere ‘sto discorso che è meglio",
aggiunse Ziza.
"Non lasciamo perde' proprio niente", intervenne
Zi' Nardo.
"Per favore, Zi' Na', non vi ci mettete pure voi",
implorò Ciaramella, "a Bigliano, di lavoro ce n'é talmente
poco, che quel poco che c'é occorre difenderlo con le unghie
e con i denti”.
Gli stronzi dell'altra Italia ai quali fa riferimento
Ziza sono i ladri legittimati dalla legge e dalla politica a fare
carne di porco della regione. Per i biglianesi sono pur sempre
meglio di niente ma Ziza li odia. Il problema è che Ziza
detesta anche lavorare. Dunque, non si sa con esattezza se
abbia scelto di non lavorare sulla base di un principio etico,
legato al rispetto della propria terra oppure se la questione
etica non sia altro che una brillante scusa per astenersi dal
lavoro.
"E come devi fà per mantené la famiglia?" Gli chiese Zi’
Nardo, con un tono serio.
Ziza non rispose. Fece semplicemente un cenno
con la mano, come per dire che giorno per giorno si sarebbe
trovata la soluzione.
"Per fortuna che c'è 'A bionda", rispose Pinuccio di
Gina.
"Lo senti che dice Pinuccio?" Disse Zi' Nardo,
rivolgendosi a Ziza, "tua moglie fatica e tu stai inda o’ bar".
"Basta che fatica uno nella famiglia", gli rispose Ziza,
sempre più strafottente.
‘A bionda è la moglie di Ziza. Pochi a Bigliano
conoscono il suo vero nome. Da sempre per tutti è
semplicemente ‘A bionda.
In un paese di mori, le persone con i tratti somatici
normanni possono contarsi sulle dita di una mano e ‘A
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bionda é una di queste. Tuttavia, ‘A bionda é ‘A bionda
soprattutto perché é un gran pezzo di donna e non solo per
via dei tratti somatici normanni. Eppure non é una bellezza,
come quelle che vanno di moda oggi.
relativamente alta,
non è certamente magra e non ha le gambe lunghe e sfilate.
una bellezza degli anni sessanta. È in carne, ha le labbra
evidenti e la mandibola piuttosto pronunciata.
"È fortunata! È fortunata!" Dicevano i biglianesi.
Non perché avesse sposato Ziza. Quella non era
una fortuna. Certo, Ziza, era un brav'uomo, non aveva mai
fatto male a nessuno, ma ha il difetto di passare intere
giornate nel bar di Ciaramella. Forse Ziza lo fa per un
principio etico, ma la sostanza non cambia.
"Meno male che c'è 'A bionda che porta li soldi a
casa", concluse Zi' Nardo.
I primi anni di matrimonio erano stati molto
difficili perché Ziza lavorava poco e ‘A bionda doveva
arrangiarsi. Faceva un po' di tutto. Dalle pulizie domestiche ai
lavori al cantiere, dalla raccolta delle fragole alla cameriera
negli alberghi durante i matrimoni. Lavorava alla giornata, ma
non si lamentava.
"È fortunata! È fortunata!" Dicevano i biglianesi.
Una donna in queste condizioni non può essere
considerata fortunata. Che fortuna è andare a raccogliere le
fragole, fare la cameriera, lavorare alla giornata e avere un
marito come Ziza? Invece, per i biglianesi 'A bionda era
fortunata. Era stata assunta come assistente di fascia B al
comune, per ottocento euro al mese. Ziza era stato felicissimo
il giorno che la moglie aveva ricevuto la lettera dal Comune.
Aveva festeggiato con tutti i suoi amici, offrendo un giro di
birra a tutti. Poi, aveva giocato a carte serenamente, pensando
che, finalmente, la pressione, che per tanto tempo aveva
avvertito su di lui, si sarebbe finalmente allentata.
A Zi' Nardo la serenità ostentata di Ziza non era
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andata giù e non aveva perso l’occasione per farglielo notare.
"Io, ormai so' vecchio ma tu, cazzo, perché non vai a
faticare?"
In realtà, neanche Zi' Nardo è vecchio per davvero.
Ha sessantacinque anni. Il suo problema è che ne dimostra
molti di più. Il lavoro nei campi lo ha reso più vecchio degli
anni che ha. Ha il viso particolarmente rugato ma, quel che è
peggio, non ha rughe normali. Fanno impressione per quanto
sono pronunciate. Sembrano solchi profondi, come se
fossero stati tracciati da un fiume di sudore e lacrime.
"Pensiamo alla birra che sennò diventa calda e non sape più
bona", propose Pinuccio di Gina, per mettere fine a quella
discussione senza via d’uscita.
"Massì, pensiamo alla birra", rispose Zi’ Nardo.
Qualche minuto dopo, ringraziò per la bevuta,
diede una pacca sulle spalle a Ziza e andò via.
Quella mattina ci sarebbe stato bisogno del
ventilatore. Erano appena le otto, ma faceva già caldo. Più
degli altri giorni e più delle altre estati. Nel pomeriggio
sarebbe piovuto, come spesso accade durante l'estate in
montagna. Intanto, ci si godeva lo splendido sole del mattino.
Non era ancora alto nel cielo, ma le montagne, che facevano
da contorno a Bigliano, assorbivano con naturalezza la sua
luce fioca. Intorno si creava una specie di aureola, che le
rendeva ancora più misteriose.
Bigliano è un paese misterioso. Si trova in mezzo al
nulla, tra le montagne. Lontane le autostrade, ancora più
lontane le stazioni. Se uno vuole andarci, deve scegliere
deliberatamente di farlo, perché a Bigliano non si può capitare
per caso. Bisogna arrampicarsi per arrivarci. Solo chi ci vive
può comprenderlo fino in fondo. E chi non ci vive può
arrivare a pensare che Bigliano non esista e che sia stato
inventato dalla fantasia di uno scrittore.
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La scomparsa di Mariella la bella
"'Nata birra, Ciaramé", chiese Ziza.
Ciaramella gliela porse. Lui afferrò il bicchiere per il
manico e uscì fuori. Come ogni estate, Ciaramella aveva tirato
fuori dal bar quattro tavoli, con qualche sedia di legno
intorno. Ziza prese una delle sedie, la girò con lo schienale di
spalle al muro e si sedette, incrociando le gambe. Posò la
mano sinistra sul ginocchio e iniziò a bere la sua seconda
birra. Ogni tanto gettava uno sguardo dall'altra parte della
strada. Ad un certo punto vide passare l'avvocato Di Cillio. Si
conoscevano dai tempi della scuola. Lo vide e lo salutò con
un cenno.
"Buongiorno, Mario", urlò l'avvocato Di Cillio, per
rispondere al saluto.
“’Na birra, avvocà”, gli urlò Ziza.
"Non posso. Mi aspettano", rispose l'avvocato,
sempre urlando per farsi capire e non solo da Ziza.
In realtà non lo stava aspettando nessuno.
Di Cillio, ogni mattina, esce presto di casa per
andare al suo studio. Sempre con il passo svelto a voler dare
l'impressione di avere mille cose da fare. È solo
un'impressione. Di Cillio ha pochi clienti. Qualcuno di
famiglia, qualche amico che può contare su un prezzo
speciale e poco più. La gente di Bigliano lo sa, ma l'avvocato
Di Cillio é pur sempre un avvocato e deve comportarsi come
tale. Esce presto di casa, sottobraccio la valigetta di pelle
marrone regalatagli dallo zio notaio il giorno della laurea, si
incammina verso la piazza, la attraversa tutta per essere certo
di essere visto e poi si infila, sempre al passo da bersagliere,
nel portone del suo studio. Ha pochi clienti, ma una
bellissima targa di bronzo, affissa il giorno stesso in cui ha
superato l'esame da avvocato.
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"Che cazzo fa tutto il santo giorno in quello studio?
Fa pure caldo!" Si chiese Ziza.
Abitualmente Di Cillio vi resta dalle otto la mattina
all'una, poi va a pranzo e dopopranzo dorme. Alle cinque vi
ritorna e alle nove se ne torna definitivamente a casa. Anche
Ciaramella conosce bene le abitudini di Di Cillio. Sebbene
non siano amici, sono in buoni rapporti ma a differenza di
Ziza, Ciaramella non può permettersi di dare del tu a Di
Cillio. Per Ciaramella, Di Cillio resta l'avvocato e come tale va
rispettato, sebbene abbia pochi clienti.
"Sono stanco, mille cose da fare", è il refrain di Di
Cillio.
Tutti fanno finta di credergli e nessuno osa
contraddirlo.
Una volta era capitato che avesse bevuto una birra
insieme a Ziza, nel bar di Ciaramella, all’uscita dal suo studio.
"Troppa fatica, caro Mario", aveva detto.
Ziza aveva guardato Ciaramella, facendo una
smorfia per significare il dubbio, mentre Di Cillio si era
distratto. Ziza e Ciaramella non si erano fatti scorgere da Di
Cillio, perché nel momento in cui l’avvocato risollevò la testa,
entrambi si dedicarono ad altro. Ciaramella sciacquò i
bicchieri, mentre Ziza si avvicinò al suo bicchiere con il
manico, per buttare giù la birra.
I gesti e le smorfie danno molte più informazioni
delle parole. Per questo i biglianesi li prediligono per
comunicare. Con le parole si può dire di tutto, specie quello
che non si pensa.
Non stava bene prendere apertamente in giro Di
Cillio, che andava rispettato e non solo perché era avvocato.
Proveniva da una famiglia tradizionalmente benestante. Ziza,
per rispetto, evitò di ruttare come faceva di solito.
“Uno sforzo enorme”, lo considerò Ciaramella, che
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lo conosceva bene.
Finita la birra, Di Cillio pagò il conto. Prima che
uscisse dal bar, Ciaramella esclamò, “che si sa di Mariella,
avvocà?”
“Niente di niente, Ciaramella”, rispose Di Cillio.
“Possibile che sta’ femmina si é persa nel nulla?”
“Possibile, possibile, visto che non si sa niente”,
concluse Di Cillio, girando la maniglia della porta e uscendo
dal bar.
Mariella era scomparsa da qualche tempo e
nessuno a Bigliano sapeva che fine avesse fatto. Era
scomparsa improvvisamente, una sera di dicembre, quando
era uscita di casa senza ritornarvi la sera. Non era ritornata
neanche il giorno dopo, né l’altro ancora.
"Non é mai capitato che fosse rimasta fuori di casa
per due giorni di seguito", dichiararono gli zii ai carabinieri.
Il terzo giorno ne venne ufficialmente dichiarata la
scomparsa.
"Non avremmo voluto per non far parlare la gente
del paese ma é inevitabile".
Gli zii non avrebbero saputo dove cercarla e non
avrebbero potuto contare sull’aiuto del padre.
"Da quando é morta la moglie, ha iniziato a bere
regolarmente".
Anche il giorno della scomparsa di Mariella, il
padre bevve. Gli fecero notare che la figlia era scomparsa, ma
non seppe fare altro che bere ancora.
Il giorno stesso in cui gli zii presentarono la
denuncia, la gente iniziò a parlarne, come Zi’ Antonio e la
moglie temevano. Se ne parlò da Ciaramella, se ne parlò al
circolo e se ne discusse anche nel negozio di Lucia.
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“La guagliona se n’è andata di casa, insieme con un
guaglione”, disse Filomena, nel negozio di Lucia.
“E come fai a saperlo?” Le chiese Lucia.
“L’ha vista la madre di Tonino o’ sarconese,
all”uscita della messa. Era insieme ad un guaglione”, rispose
Filomena.
“E non poteva dirlo agli zii, invece di farli
preoccupare?”
“Con quel padre, come avrebbe fatto a dirlo agli
zii?”
“Che c’entra il padre? Proprio per questo doveva
dirlo agli zii. Il padre ormai non capisce niente”.
“Non capisce niente ma quel ribusciato è all’antica”.
“Ma quale antica”, mormorò maliziosamente
Torino Concetti, “quanti fidanzati, diciamo accussì, ha avuto
quella guagliona? Di uomini ne ha conosciuto, date retta a
me”.
“Di guaglioni che gli stavano intorno ne ha
avuti…eccome che ne ha avuti”, ripeté Filomena.
“Perciò il padre si sarebbe potuto pure incazzare
una buona volta”, fece notare Torino Concetti, “non è
proprio una buona cosa per una guagliona di venti anni andare
in giro con tutti ‘sti guaglioni”.
“Ormai tutti vanno con i guaglioni. Mariella non era
né peggio, né meglio delle altre”, fece notare Lucia.
“Era lei che si sarebbe dovuta arrabbiare con il
padre che si ritrovava”, intervenne la figlia di Paolino.
“Io non ho mai sentito niente. Il padre non le ha
mai creato problemi”, rispose Filomena.
“E che vuol dire? Prima o poi, il povero cristiano si
sarebbe pure potuto incazzare”, ribadì Torino Concetti.
La figlia di Paolino continuò a discuterne con
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Torino Concetti, mentre Lucia e Filomena si appartarono per
discutere di altro.
“ vero che il padre conta quanto il due di picche,
ma non è piacevole vivere con un uomo alcolizzato”.
“Si dice anche che il padre la picchiasse quando la
sera tornava a casa ubriaco”.
“Chiunque in quella situazione si sarebbe
allontanato da casa. Io stessa l’avrei fatto se avessi avuto la
sfortuna di vivere la stessa situazione in cui si trovava la
povera Mariella”, disse la figlia di Paolino.
“Ma quale mazzate”, urlò Lucia, dal banco dei
salumi.
Aveva continuato a seguire la conversazione,
nonostante si fosse allontanata.
Aggiunse,
maldicenze”.
“possono
essere
anche
frutto
di
“Io non ho mai sentito niente”, confermo
Filomena.
Nel bar di Ciaramella, invece, si avanzava l’ipotesi
che la ragazza si fosse trasferita a Roma.
“Io ho sentito un‘altra voce”, disse Giannino, “pare
che la guagliona, senza dire niente al padre, ha preso armi e bagagli
e se n’è andata a Roma”.
“A Roma?” Chiese Ciaramella, incuriosito.
“A Roma. Si, a Roma”, ripeté Giannino.
“E dove l’avrebbero vista esattamente?”
“L’hanno vista lavorare in una pasticceria”.
“Mariella ha preso il diploma da ragioniera. Non ha
un lavoro fisso ma guadagna i soldi come barista, alla
discoteca di Montegiro. Non avrebbe certo bisogno di andare
a Roma per guadagnare”, fece notare Pinuccio di Gina.
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“Se proprio volete sapere chi lo ha detto, ve lo
posso anche dire. L’ha vista il cugino di Radiouno, che vive a
Roma”, precisò Giannino.
“Dove?” Chiese Pinuccio di Gina.
“Radiouno, dove l’ha vista tua cugina?” Chiese
Giannino a Radiouno, che giocava a carte.
“In una pasticerria, via dei due Macelli, vicino
Piazza di Spagna”.
“E che ci faceva tuo cugino a Piazza di Spagna?”
Chiese ironicamente Ciaramella.
Tutti risero. Radiouno continuò a giocare a carte.
Nel circolo, non si dava molto credito all’ipotesi del
bar di Ciaramella. Non si era mai sentito parlare di un cugino
di Radiouno che vivesse a Roma.
“Quel rimbambito si è inventato la notizia pur di
vivere un momento di protagonismo. Lo sapete com’è fatto”,
disse Mimmo o’ greco.
Nel circolo si preferiva seguire un’ipotesi più
suggestiva.
“La ragazza era ‘na bella figliola, tra di noi ce lo
possiamo dire”, disse il dottor D’Eugenio, “e le belle figliole
se le prendono e se le portano”.
“L’ho sentito dire pure io”, aggiunse Mimmo o’
greco, “le belle figliole finiscono in mano alla malavita”.
“Si, ma dove se le portano?”
“Dove non si sa ma se le portano e poi le mettono
in mezzo alla strada”.
“Povera guagliona”, commentò Penelope, steccando la
palla.
“Si parla di una ricca località del mediteraneo”,
aggiunse Rocco Locantore, “Barcellona, Palermo, forse
addirittura Spalato”.
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“E dove si trova Spalato?” Chiese Penelope.
“Pensa a giocare al biliardo, ignorante”, gli rispose
Mimmo ‘o greco.
L’ipotesi del circolo, a sua volta, non trovava
credito né nel bar di Ciaramella, né nel negozio di Lucia. Si
facevano nomi di città senza fornire alcun dettaglio.
I primi interrogatori del sostituto procuratore Trapanese
Nel circolo, il personaggio che gode di maggiore
credito é il maresciallo a riposo, De Stefano. È solito
incontrarsi con il ragioniere La Spina e il dottor D’Eugenio
per giocare a carte. Sebbene da anni abbia smesso i panni del
carabiniere, rimane il punto di riferimento per spiegare i casi
di cronaca.
"Marescià, voi che ne pensate?" Chiese D' Eugenio.
"Un caso grosso", rispose De Stefano.
"E che volete dire, marescià? Se dite così ci fate
mettere paura".
"Un caso grosso. Vedrete, un caso grosso", ripeté
De Stefano.
A partire dal giorno della denuncia, la scomparsa di
Mariella divenne l’argomento più dibattuto a Bigliano.
"Dopo anni trascorsi a discutere di siccità,
finalmente un vero caso di cronaca nera scuote il lento
trascorrere del tempo dei biglianesi", commentò Mimmo o'
greco.
Una fotografia di Mariella venne fatta stampare e
distribuire in tutta la regione. Si diceva che, da qualche giorno,
era scomparsa una ragazza di anni ventidue, di corporatura
delicata, alta 1.72, con i capelli scuri lunghi e gli occhi neri.
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Chiunque l’avesse vista era pregato di contattare
immediatamente le autorità competenti. Seguivano alcuni
numeri di telefono ed anche un numero di fax.
Mentre osservava la foto di Mariella, affissa nel
circolo, vicino al biliardo, il maresciallo a riposo, De Stefano,
fece notare le strane circostanze della scomparsa.
“Ma secondo voi, è normale che una ragazza
scompaia nel nulla in un posto così piccolo come Bigliano e
nessuno ne sappia niente?”
“In effetti tutto sembra troppo strano”, rispose il
dottor D’Eugenio.
“Appunto!” Esclamò De Stefano, lasciando
intendere maliziosamente, “Tutto appare molto strano. Ci
dev’essere qualcosa sotto, non credete signori?”.
De Stefano non aveva detto nulla di
particolarmente eclatante e non aveva fornito alcuna prova
alle sue argomentazioni. Del resto, come avrebbe potuto? Si
trattava di un maresciallo a riposo che argomentava, come
tutti, sulla base del sentito dire. Eppure, l’uscita pubblica di
De Stefano, inclusa la domanda retorica finale, fece il giro del
paese, non tanto per la rivelazione che non aggiungeva nulla a
quanto già si sapesse, quanto per l’autorevolezza della fonte
ed il dubbio insinuato.
De Stefano era stato un ottimo maresciallo, serio e
professionale, che nel corso della sua carriera aveva
soggiornato anche a Bagheria, in provincia di Palermo. Il
soggiorno siciliano gli aveva fatto acquisire un’aureola di
competenza, che gli era rimasta appiccicata per sempre.
"A Bagheria, ho svolto i primi due anni di servizio
effettivo. Poi sono stato trasferito in Puglia, a Novoli e infine
a Bigliano, da dove non mi sono più mosso".
Raccontava episodi che lo avevano
direttamente, o indirettamente, protagonista.
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“L’esperienza siciliana mi ha temprato”, diceva lui, “
ho visto e sentito di tutto”.
Raccontava, per esempio, di quando, insieme a due
soli colleghi, era andato ad arrestare un tale, "definito un
autentico mafioso”.
“Lo sorprendemmo in casa all’alba, mentre stava
facendo l’amore con la moglie. Carabinieri! Gli urlai io, mentre
il mio collega mi copriva le spalle. Lo prelevammo
direttamente dalla camera da letto, in mutande. La moglie, che
era rimasta sotto le coperte, si lamentava non tanto per
l'arresto, quanto per il momento che avevamo scelto per
farlo. Almeno fatelo finire, ci disse”.
Lui raccontava e gli altri ridevano.
Raccontava anche “di un conflitto a fuoco” nelle
campagne di Bagheria dove “i proiettili fischiavano veramente
vicino le orecchie”.
Parlava e accompagnava le parole con i gesti,
spostandosi da una parte all’altra del circolo, per rendere bene
l’azione. De Stefano era fatto così. Parole e gesti si
confondevano. Sarebbero stati molto più efficaci se De
Stefano avesse evitato di tagliarsi i baffi. Invece, il giorno in
cui era andato in pensione aveva deciso di privarsene.
"Non mi servono più", disse alla moglie, "da
carabiniere mi davano identità ed autorevolezza, da
pensionato non sarebbero altro che un inutile orpello".
I baffi contribuivano a movimentargli la fisionomia,
altrimenti troppo piatta. De Stefano ha un viso quadrato, la
mascella forte, il naso pronunciato come un turco di
Istambul, le sopracciglia folte. Nonostante i mille pensieri,
conserva quasi tutti i capelli. Neanche la Sicilia é riuscito a
farglieli perdere. Non ha più la vista da falco di quando era
giovane, ma gli occhiali a goccia non gli stanno male.
Probabilmente gli restituiscono l’autorevolezza che il taglio
dei baffi gli ha tolto. Inforca gli occhiali solo quando gioca a
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carte e quando deve leggere il giornale. Lo fa secondo una
liturgia ben precisa. Li prende dal taschino della giacca, li
pulisce sempre con un panno, che poi ripiega con attenzione.
Precisione e attenzione sono i suoi principi ispiratori. Li ha
appresi in caserma e non li ha più dimenticati. Odia il
disordine e le cose fatte in fretta. Si muove attraverso gesti
lenti e pensati. Solo quando ce n’é bisogno accelera i
movimenti.
Il giorno in cui disse che, nel caso della scomparsa
di Mariella, c’era sotto qualcosa di importante, i biglianesi
inziarono a pensarci. L’unico che sembrava non farci molto
caso era Ziza. A casa non ne poteva parlare perché ‘A bionda
non voleva. Per gli altri biglianesi, invece, divenne un chiodo
fisso. Anche i carabinieri, che fino ad allora si erano mossi
con discrezione, iniziarono a fare indagini più approfondite.
Il primo obiettivo delle loro indagini fu Simone Di
Cillio, fratello dell’avvocato.
“Andatelo a trovare nella sua proprietà e ditegli
gentilmente che vorrei vederlo in caserma”, ordinò il
maresciallo Turtino all’appuntato Scapagnin e al carabiniere
scelto D’Ottavio.
“Quale proprietà?” Chiese Scapagnin.
“Tu sei sempre fuori dal mondo, Scapagnin!”
“Mi scusi, maresciallo, ma io non conosco bene la
zona”.
“Proprio un appuntato veneto mi dovevano
mandare?” Imprecò Turtino.
Poi ordino a D’Ottavio, “andate a Iadd’’.
Tre delle proprietà dei Di Cillio sono concentrate a
Iadd', una località a nord di Bigliano, sulla strada che
dolcemente porta in montagna. Sono leggermente defilate
rispetto alla morfologia del paese e, tranne che in alcuni giorni
dell'anno, quando per Iadd' passa la processione della
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Madonna, non le si può certamente definire a portata di
mano.
“Lo troveremo a Iadd’, maresciallo?” Chiese
Scapagnin.
“E dove lo volete trovare”, rispose laconicamente
Turtino.
Simone, non aveva scelto l’università e, terminati
gli studi di ragioneria a Loterno sull'Agri, aveva deciso di
prendersi cura di quelle tre proprietà. Approfittando degli
aiuti che la Regione concede agli agricoltori, ha iniziato a
coltivare le fragole in serra e ha fatto ristrutturare il casale dei
nonni.
“È venuto fuori uno splendido agriturismo, costato
oltre centomila euro”.
In realtà, solo un quarto di quei centomila euro
provengono dalle tasche di Simone, gli altri sono parte
dell'incentivo, che la regione gli ha concesso per avviare
l’attività.
“Come in provincia di Siena”.
Simone aveva girato la Toscana e aveva visto i
magnifici agriturismi toscani. Si era trovato in un ambiente
naturale, particolarissimo, dove la presenza dell'uomo aveva
modellato i profili delle colline. Si era perso tra casali, borghi
medievali, filari di vigneti, olivi e cipressi.
“Ho passeggiato lungo le bianche poderali della
campagna, pedalato in bicicletta, costeggiato vigneti e uliveti e
fatto trekking a cavallo lungo i sentieri”.
Simone aveva assaporato il profumo della Toscana
e ne era rimasto stordito.
"Vorrei ripetere quell'esperienza in Lucania",
dichiarò agli ispettori della regione.
Realizzò il suo agriturismo da un casolare
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dell'ottocento, un tempo adibito a stazione di sosta dei cavalli
che andavano dal paese verso la montagna. Lo fece costruire
interamente in pietra nel rispetto della biocompatibilità e del
contesto storico. Vennero fuori sette camere da letto doppie
con bagno, due camere, che lui definì deluxe, e due
appartamenti, dotati di cucina e focolare.
"Nell'area antistante i due appartamenti, ci sono un
bar, una sala giochi, un grande ristorante e un'area di sosta per
i camper".
Alla festa inaugurale invitò tutti i biglianesi, da vero
democratico. Nonostante Simone appartenesse alla famiglia
Di Cillio e potesse permettersi di non farlo, volle che tutti
partecipassero alla sua festa.
"Lavora la terra ed è diverso dal fratello avvocato,
che sembra democratico, ma, in realtà, ha la puzza sotto il
naso. Prende la birra con Ziza e si intrattiene a parlare con lui
nel bar di Ciaramella, ma non gli piace quando gli danno del
tu e pretende che ci sia sempre una certa distanza tra lui e gli
altri. Non parla correttamente il biglianese e preferisce
esprimersi in italiano", lo dipinse Mimmo o' greco.
Alla festa d’inaugurazione dell'agriturismo prese
parte anche Mariella la bella, che all'epoca era fidanzata
proprio con Simone. Non si sapeva con certezza se facessero
le zita o meno e nessuno se ne sarebbe importato, se quel
dettaglio non fosse diventato importante dopo la scomparsa
di Mariella.
"Ogni
elemento,
legato
direttamente
o
indirettamente a Mariella, assume una luce diversa. Diventa
più importante e potenzialmente decisivo per lo sviluppo
delle indagini", precisò il maresciallo Turtino.
Facendo bene i calcoli, le ricerche ufficiali di
Mariella, da parte dei carabinieri del comando di Bigliano,
iniziarono dopo quattro giorni dalla scomparsa e dopo due
dalla denuncia degli zii.
19
In caserma si presentò per prima la zia.
“Abbiamo aspettato un paio di giorni, ma la
guagliona non torna”, disse, piuttosto agitata “abbiamo sperato
che potesse fare ritorno ma non é successo”.
“Aspettiamo ancora quarantotto ore, prima di
iniziare le ricerche”, propose il maresciallo, “in casi del genere
bisogna avere la pazienza necessaria e non bisogna farsi
prendere dal panico”.
Allo scadere del quarto giorno, il maresciallo
Turtino decise di comunicare l'avvenuta sparizione al
tribunale di Potenza. Le indagini furono affidate al sostituto
procuratore della Repubblica presso il tribunale di Potenza,
Francesco Trapanese, che a Bigliano conoscevano per via
dell’amicizia con il giudice Calenda.
Il giudice lo aveva invitato a Bigliano un paio di
estati prima per una passeggiata a cavallo in montagna.
Trascorsero una piacevole giornata, conclusa con una cena a
base di pesce al ristorante da Rosario.
"Presero dell'insalata di mare e una grigliata. Sul
dolce, lasciarono libero sfogo alla mia creatività", precisò
Rosario.
Il giudice apparteneva alla famiglia Calenda che,
insieme alla famiglia Di Cillio, condivideva la supremazia
carismatica del paese. Da tre generazioni erano i proprietari
della farmacia, simbolo del potere, che esercitavano sui
biglianesi.
Trapanese effettuò i primi interrogatori nella
caserma dei carabinieri di Bigliano. Dopo aver ascoltato i
parenti di Mariella, fece chiamare Simone Di Cillio.
"Lo possiamo considerare l’ultimo fidanzato
ufficiale della ragazza scomparsa, tenendo conto
dell’evoluzione semantica del termine, ovviamente. Dico
bene, maresciallo?"
20
Simone non fu affatto sorpreso per la convocazione
di Trapanese.
"Me l’aspettavo ed ero pronto a testimoniare",
dichiarò.
Raccontò la sua relazione con Mariella.
"Ho trascorso uno splendido periodo della mia vita
che, purtroppo, come tutte le cose belle, è finito".
"Come conobbe Mariella?" Gli chiese Trapanese.
“Conobbi Mariella, mentre lei faceva la barista. Una
sera, mi avvicinai per chiederle di versarmi del bacardi e coca.
Poi, mi intrattenni a parlare con lei".
"Non l'aveva mai vista prima?"
"La conoscevo di vista ma non ci eravamo mai
parlati”.
“Quale fu la sua prima impressione?”
“La mia prima impressione fu positiva. Io, invece,
non credo di averla colpita particolarmente".
"Come fa a saperlo?"
"Questo è quello che lei confidò ad un amica e che
successivamente mi riferì”.
“Glielo riferì l’amica?”
“No, Mariella. Lei mi disse di averlo confidato ad
un’amica”.
“Capisco”.
“Tuttavia, le piaceva il fatto che io mi facessi dare
del tu”,
“Le disse proprio così?”
“Si, le può apparire strano ma mi disse proprio così.
Del resto, se uno conosce Bigliano, non lo trova neanche
21
tanto strano”.
“Perché lei non le fece un’impressione gradevole, a
parte il fatto che fosse un ragazzo alla mano?”
“Sono un ragazzo estremamente riflessivo. Non
colpisco immediatamente le ragazze e non potevo certamente
pensare di poter colpire l'immaginario di Mariella. Lei è
sempre allegra e scatenata”.
“Lei se ne accorse?”
“Che lei fosse allegra e scatenata?”
“No, che lei non le aveva fatto una buona
impressione”.
“Non mi diede nessun elemento che potesse
indurmi a capire cosa Mariella potesse pensare di me”.
“Lei, invece, ebbe una sensazione molto positiva”.
“A me, lei piacque subito. In realtà, mi piaceva da
tempo e quella sera finalmente trovai il coraggio per
avvicinarmi e parlarle. Chiederle di versarle Bacardi e coca fu
solo una scusa”.
"Come potrebbe definire i suoi rapporti tra lei e
Mariella".
"Assolutamente normali".
"Che vuole dire con assolutamente normali?"
Chiese con un tono più deciso il sostituto procuratore.
Simone Di Cillio che fino ad allora era rimasto
tranquillo, si spaventò e farfugliò "non capisco la domanda".
Trapanese allora gli ripeté la domanda in maniera
più chiara, "eravate fidanzati oppure vi frequentevate
soltanto. Ehm…voglio dire avevate una relazione seria?"
"Ah…ora capisco", esclamò Simone Di Cillio, che
poi aggiunse
22
"stavamo insieme, come si sta insieme oggi".
"Insomma, non facevate le zita", intervenne il
maresciallo Turtino per chiarire ulteriormente il concetto.
"Non direi, se intende il termine nella sua accezione
tradizionale", rispose prontamente Simone Di Cillio, che
sembrava finalmente aver trovato una via d'uscita alla
domanda, che inizialmente non avevo compreso.
"Capisco", esclamò, a sua volta, Trapanese.
Si mise le mani tra i capelli, poi mosse alcune carte
che si trovavano sulla scrivania. Simone, intanto, fissò il
lampadario, alla ricerca di un punto immaginario sul soffitto,
che gli facilitasse la concentrazione. Voleva evitare che
Trapanese potesse trovarlo impreparato. Il sostituto
procuratore, intanto, rifletteva. Dopo i fogli, prese tra le dita
una penna ed iniziò a tormentarne il cappuccetto. Lo girava e
lo rigirava senza un fine apparente. Ad un certo punto, si
bloccò e fissò dritto negli occhi Simone, che aveva smesso di
fissare il suo punto immaginario.
“Per quale ragione è finita la vostra…diciamo
storia?” Chiese Trapanese con un tono deciso, non facendo
nulla per smascherare l’importanza della domanda.
“Non ci sono ragioni particolari, signor giudice”,
rispose Simone, senza distogliere lo sguardo.
“Cosa intende dire”, lo incalzò nuovamente
Trapanese.
“Che non ci sono motivi particolari.
finita
perché le storie d’amore purtroppo finiscono”, rispose
Simone, senza scomporsi.
"Lei dove si trovava la sera della scomparsa?"
Chiese Trapanese.
"Signor giudice, non avrà sospetti su di me? Io
volevo bene a Mariella", rispose Simone, girandosi verso il
maresciallo Turtino per chiedere conforto.
23
Si conoscevano da tempo e Simone considerava
Turtino un amico. La sua presenza lo rassicurava, ma le
insinuazioni di Trapanese continuavano a turbarlo. Trapanese
se ne accorse e cercò di rassicurarlo.
"È una normale prassi. Le devo chiedere dove si
trovava perché si tratta di una domanda di rito. Non le dia
tanta importanza. Mi risponda piuttosto serenamente".
Simone si girò di nuovo verso il maresciallo
Turtino, che con un sorriso provò a rassicurarlo.
"Mi
faccia
pensare….la
sera
della
scomparsa…dunque quattro giorni fa, o meglio quattro sere
fa, non potevo che trovarmi nel mio agriturismo".
Il sostituto procuratore prese atto e ringraziò
Simone per la disponibilità. Gli disse che poteva andare. In
seguito, fece alcuni commenti con Turtino.
“Non è cattivo”, disse Trapanese, “ma non mi
tornano alcune cose”.
“Cosa?” Chiese Turtino.
“Credo sia un bravo ragazzo di fondo ma, a volte,
mi è sembrato vago”.
“Può darsi”, rispose Turtino confermando
l’impressione di Trapanese. Poi aggiunse, “Di Cillio è molto
stimato in paese e, nonostante tra la sua famiglia e quella di
Mariella ci fosse una certa differenza dal punto di vista
sociale, ha sempre trattato Mariella amorevolmente, per
quanto è dato sapere al sottoscritto in data odierna”.
"Lui sostiene di essere stato nel suo agriturismo il
giorno della scomparsa della ex fidanzata. Il problema è che
non ha fornito dettagli circa la relazione. Prenda nota,
maresciallo", disse il sostituto procuratore, sospirando.
In definitiva, Trapanese non aveva ricevuto nessun
elemento da Simone che potesse essere stimato come
particolarmente utile. Fece chiamare allora l’avvocato Di
24
Cillio, fratello di Simone, per verificare se l'avvocato potesse
aggiungere qualche informazione interessante.
"Mariella ha pur sempre frequentato casa Di Cillio,
per
qualche
tempo.
Lei
dovrebbe
conoscerla
sufficientemente".
“Invece, non la conoscevo molto bene”, rispose, a
sorpresa, Di Cillio.
Fece capire al sostituto procuratore che lui,
essendo molto meno democratico del fratello, non si
abbassava volentieri a certi livelli. L’avvocato apparve anche
infastidito per la convocazione ricevuta.
"Posso comprendere che abbia voluto ascoltare
mio fratello ma, francamente, non riesco a spiegarmi la mia
convocazione. Cosa ne posso sapere io di Mariella?"
“Non avendo per il momento una pista particolare
da seguire, ritengo opportuno ascoltare chiunque avesse
avuto il minimo contatto con Mariella”, si giustificò
Trapanese.
“Allora capisco”, disse Di Cillio, senza aggiungere
altro.
“Sa dove si trovasse suo fratello la sera della
scomparsa di Mariella?”
"Credo fosse nel suo agriturismo. Non glielo so
dire con certezza. Ho provato a mettermi in contato con lui,
me lo ricordo, ma non sono riuscito a raggiungerlo", precisò
l'avvocato, lasciando intendere di non poter fornire nessuna
informazione precisa.
"Si ricorda di averlo chiamato? Come fa a
ricordarselo?" chiese Trapanese.
"Andiamo, giudice…vuole che non mi ricordi una
cosa successa solo quattro giorni fa. Non sono un ragazzino,
ma non sono neanche un vecchio decrepito. Ricordo bene di
averlo cercato. Avevo un appuntamento con lui per il giorno
25
successivo. Lo chiamavo per dirgli che sarei passato
dall'agriturismo in mattinata", rispose l'avvocato prontamente.
Solo qualche minuto dopo si rese conto che la
conversazione si stava concentrando su Simone. L'avvocato
che non aveva neanche per un attimo pensato ad un possibile
coinvolgimento del fratello si insospettì e senza attendere
ulteriori domande da parte di Trapanese, osservò "non
penserà che Simone…"
Non riuscì a completare la frase, perché il sostituto
procuratore lo interruppe e con decisione disse, "avvocato, io
non penso niente. Sto solo facendo delle domande che, come
lei ben saprà sulla base della sua esperienza, di solito si
fanno".
"Certo, certo", rispose Di Cillio.
"Comunque, Simone ha il maledetto vizio di non
rispondere al telefono. A volte, lo chiamo, ma lui lascia
squillare il telefono e non risponde. È fatto così, è un pigro, a
volte si rincresce anche solo di alzarsi dalla poltrona", sorrise
l'avvocato, voltandosi verso il maresciallo Turtino. Come il
fratello, anche lui cercava conforto.
“Può andare”, disse all’avvocato, “ma si tenga a
disposizione per eventuali chiarimenti”.
Trapanese prese atto che non era possibile stabilire
con esattezza dove Simone Di Cillio si trovasse la sera della
scomparsa di Mariella.
"Il fratello lo ha chiamato sul telefono fisso
dell’agriturismo, poi sul cellulare ma non è riuscito a mettersi
in contatto con lui", fece notare al maresciallo.
"Potrebbe essere un elemento non importante,
giudice. In fondo, la ragazza risulta scomparsa da soli quattro
giorni", rispose Turtino.
"Potrebbe avere ragione, maresciallo. Non si può
escludere la possibilità che la ragazza abbia avuto un colpo di
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testa e fosse fuggita di casa, per un qualsiasi motivo".
Prima di alzarsi dalla scrivania disse al maresciallo
Turtino di prendere nota delle cose che l'avvocato Di Cillio
aveva detto.
"Per ora segni tutto. Ne riparleremo in seguito".
Il bar di Ciaramella
Il bar di Ciaramella è essenziale, con una forte
personalità. Non si chiude con la saracinesca, ma con un
portone di legno, che si apre spingendo le ande verso
l’esterno. Sul portone campeggia una vecchia insegna Cinzano.
Dentro ci sono solo sedie e tavoli di legno. Il banco é lungo e
copre quasi per intero la parete di fronte all’entrata. Il caffè si
prende in piedi, la birra anche ma con il gomito appoggiato
sul banco. È frequentato da gente semplice e da pochi
personaggi importanti. L'avvocato Di Cillio non é il solo
amico importante di Ziza, che frequenta il bar di Ciaramella.
Emanuele Tortoriello lo frequenta ed è amico di Ziza.
Giocano insieme nello schieramento difensivo del Bigliano
calcio. Ziza, però, é considerato un giocatore di categoria
superiore rispetto a Emanuele.
"Non é alto, ma stacca bene. Si sa inserire e ha una
particolare abilità nel proteggere il pallone dagli attacchi degli
avversari" commenta Radiouno.
"Emanuele Tortoriello, invece, é lento. Ha un buon
tocco di palla ma non riesce a reggere il passo degli attaccanti
veloci", commenta Radiodue.
Emanuele è importante perché figlio del sindaco
Totonno Tortoriello, un architetto che non ha mai realmente
esercitato. Fin da giovane si é dedicato alla politica. Ziza ha
votato per lui.
"Conosco il figlio Emanuele e lo rispetto. In realtà
27
non è solo per questo che ho votato per lui. Ci sono anche
altre ragioni", conferma lui stesso nel bar di Ciaramella.
A sua volta, Ciaramella, preferisce non dichiararsi.
La maggior parte della gente pensa che anche lui abbia votato
per Totonno Tortoriello, ma lui non lo ammette. Esige che la
politica resti fuori dal suo locale e, quando non ci riesce,
preferisce non pronunciarsi.
Emanuele, pur essendo figlio del sindaco, è un
giovane alla mano. Si fa chiamare con il suo nome, senza
fronzoli e senza titoli. Per Ziza è una scelta obbligata.
"Potrei mai chiamarlo signor Tortoriello? Come
dovrei fare per il fuorigioco, per favore, Signor Tortoriello, usciamo
insieme dall'area di rigore per mettere in fuorigioco il centravanti".
Sarebbe assurdo. Il codice di comportamento
sociale biglianese non è decisamente applicabile al gioco del
calcio. C’é bisogno di una deroga, che Ziza ha deciso di
applicare prima che entri ufficialmente in vigore.
"Altrimenti il Bigliano perde tutte le partite".
La deroga, stabilita da Ciaramella di non parlare di
politica nel suo bar, invece, non sempre funziona.
"Deve fa' il sindaco chi lo sa fa’ e non chi lo fa per i suoi
interessi", aveva detto Ziza da Ciaramella, alludendo al padre
del suo amico.
"Totonno pensa solo ai fatti suoi, altro che interessi dei
biglianesi", aveva replicato Giannino.
"E perché…forse li altri nun pensano ai fatti loro?", aveva
risposto Ziza.
"…Ma certamente…tutti i politici pensano solo ai
fatti loro", gli aveva fatto notare Giannino, per poi
aggiungere, maliziosamente “ma non come il nostro amico".
"Guaglio’…se avete parlà di politica andate a parla' da
un'altra parte", era intervenuto Ciaramella per tranciare il
28
discorso, come al solito, quando la discussione si faceva
potenzialmente rischiosa.
Ciaramella teme che, parlando di politica, si
perdano i clienti.
"Tengo paura che la gente pensa che io appartengo ad un
partito politico, piuttosto che ad un altro. A me, invece,
l’appartenenza politica non interessa".
Ciaramella non ha ideali da difendere. A lui preme
solo poter vendere a tutti. Il problema é Giannino.
“Lui è un buon cliente, ma ha il maledetto vizio di
parlare sempre di politica”.
È rispettato perché è capace di interagire con tutti.
Usa sia l'italiano che il dialetto e la conoscenza di entrambi gli
idiomi gli permette la massima copertura in termini di
relazioni interpersonali.
“Eppure non é laureato e neanche diplomato”.
Nonostante abbia solo la licenza media e
nonostante non sia originale, riesce ugualmente a fare
opinione. Si tratta di un caso eccezionale a Bigliano.
"Parli come la televisione", gli dicono al bar.
Lui si sente orgoglioso. Altre volte, invece,
mettono in discussione la sua cultura ma lui non si offende.
"Io ho soltanto la terza media", precisa all'inizio di
ogni chiacchierata.
Giannino non ha timore di affermare le sue
opinioni, ma la presenza di Di Cillio, in giacca e cravatta, lo
mette in soggezione.
"L’avvocato é laureato e proviene da una famiglia
agiata. Il fatto che non abbia molti clienti, non cambia le carte
in tavola".
La sua autorevolezza deriva dal censo e non dalla
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riconosciuta competenza professionale.
"La circostanza che il denaro sia legittimamente
guadagnato, oppure che sia acquisito per grazia ricevuta, non
fa differenza a Bigliano".
Quando si sparse la voce della convocazione
dell’avvocato Di Cillio in caserma per fornire notizie sulla
scomparsa della ex fidanzata del fratello, Giannino sostenne
nel bar che si trattava di un abuso di potere.
“Cosa può avere a che fare l’avvocato con Mariella?”
"Dovresti chiederlo ai giudici", gli risposero Radiouno e
Radiodue
“I giudici sono politicizzati e colpiscono le persone
per bene”.
“Comunque, non è una buona cosa farsi chiamare
in caserma”.
“L’avvocato e il fratello sono stati convocati come
semplici testimoni”.
“Mariella ha fatto le zita con il fratello
dell’avvocato. Qualcosa potrebbe sapere sulla scomparsa”,
insinuò Radiouno.
“Simone ha fatto le zita con Mariella ma non per
questo bisogna scomodare l’avvocato".
Il potere carismatico che i Di Cillio esercitavano a
Bigliano iniziava a farsi sentire e Giannino non aveva esitato a
sottolineare la necessità di tutelare il decoro della prestigiosa
famiglia.
“Tu parli per difendere l’avvocato senza sapere
come sono andati i fatti”, gli fece notare Radiodue.
“Non mi interessa come sono andati i fatti. Sono
brave persone. I Di Cillio li conosciamo bene, chi conosce
invece questo giudice politicizzato?”
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Il problema di Giannino era che ripeteva a
memoria quello che leggeva. Leggeva dei giudici politicizzati e
ripeteva che i giudici erano politicizzati. Spesso il discorso
filava, ma a volte intruppicava. Per questo chiedeva
ossequiosamente conferma a Di Cillio.
“È vero, avvocà?"
Ciaramella odiava Giannino perché esattamente un anno
prima aveva avuto problemi con Totonno Tortoriello per
colpa sua. Al sindaco era stato riferito che Ciaramella
avesse parlato male di lui. Totonno che conosceva
Ciaramella e sapeva che di lui si poteva fidare era rimasto
perplesso, ma volle ugualmente appurare la verità.
“So che non è vero, però mi è stato riferito che
qualche parola non molto gentile su di me è uscita dalla tua
bocca. Ripeto, saccio che non è vero…però…come si dice…a pensà
male si face peccato, ma spesso sanduvina"
"Scusate, ma chi ve lo ha detto?" Chiese Ciaramella
"Si dice o' peccato, ma non o' peccatore", rispose
Totonno.
"Posso assicurarvi che da qua dentro non esce una
sola parola contro di voi".
"Sei sicuro?"
"Certo che so’ sicuro…a
ovviamente", precisò Ciaramella.
parte
Giannino,
"Vabbuo'…Giannino è uno stronzo e si sa. Però, ogni
tanto gli potresti pure tappare quella fogna di bocca, che spara sentenze
contro di me".
"Ci provo ma con Giannino come si fa? Per il resto
niente da dire…non c’è nessuno che si permette di parlare
dell’amministrazione comunale".
"Ne sei sicuro?"
"Io non ho mai sentito niente".
31
Totonno allora si fece serio.
"Guaglio', non ci dimentichiamo chi ti fa fatto aprire
il bar", disse, agitando l'indice, come se volesse
amichevolmente minacciarlo.
Ciaramella chinò la testa, sciacquò un bicchiere già
pulito e poi replicò, “ho detto che non c'è problema e non c'è
problema. In questo bar non si parlerà mai male di Totonno
Tortoriello".
Finita la discussione, il sindaco chiese un caffè che
il barista non volle essere pagato.
"Come lo fai tu, non lo fa nessuno, Ciaramé", disse
Totonno.
Ciaramella aveva aperto il suo bar qualche anno
prima. Il fratello, Tonino, invece, aveva scelto la strada
dell’emigrazione.
"Non è la scelta giusta", gli disse Ciaramella, “per la
gente sarai sempre un fallito”.
Tonino non aveva risposto. Aveva salutato i
parenti e gli amici ed era partito. Destinazione Fermignano!
Avrebbe raggiunto i suoi tre cugini, Donato, Maurizio ed
Egidio che, nonostante fossero partiti da poco, si diceva
avessero fatto fortuna nelle Marche. I tre, figli della sorella del
padre di Ciaramella, avevano aperto un ristorante a
Fermignano, tra Pesaro ed Urbino. Prima di partire, avevano
lavorato nell'azienda del padre, Nicola, ma non avevano avuto
fortuna.
"Non si getta il lavoro dei propri genitori",
commentò polemicamente Ciaramella.
Invece, il giorno in cui Nicola, morì, i tre figli
decisero di emigrare. Ciaramella, proprio per marcare la sua
differenza, chiuse il bar per due giorni per rispetto dello zio.
"I valori sono valori", disse.
32
In paese si diceva che il maggiore dei fratelli,
Donato, si fosse invaghito di Mariella la bella e che avesse
deciso di emigrare, non solo per ragioni di lavoro, ma anche
per dimenticare il suo amore impossibile. In realtà, era stata la
madre che aveva incoraggiati i figli a partire.
"Qui c'è chi mi può dare una mano", li rassicurò zia
Rosinella, riferendosi al nipote.
Ciaramella rispose che non ci sarebbero stati
problemi, ma sotto sotto l'idea che dovesse essere lui a dare
uno sguardo alla zia, non gli andava giù. Solo per una
questione di principio, ovviamente.
"Anch'io avrei potuto prendere armi e bagagli e
partire. Avrei potuto fare come hanno fatto gli altri, ma
resisto. Io ci tengo alla famiglia".
"Tu sei diverso", gli disse la moglie, Isabella, per
consolarlo.
“Almeno uno dei cugini sarebbe dovuto rimanere.
Almeno per non fare brutta figura di fronte alla gente”.
Eppure Donato, Maurizio ed Egidio tornavano con
regolarità a Bigliano. Ad agosto, una settimana per uno.
"Non basta! Zia Rosinella ha bisogno di compagnia
soprattutto durante l’inverno. Ha bisogno della legna per il
camino e la legna é pesante. Come può fare da sola?"
In realtà, sarebbe toccato a lui andare a prendere la
legna per il camino di zia Rosinella e la legna era pesante,
anche per lui. Più ci pensava e più riteneva che i suoi tre
cugini fossero stati degli egoisti. Ovviamente, solo per una
questione di principio.
“Vorrei proprio vedé se si fosse trattato di mia madre”,
esclamò dubbioso, “avrebbero fatto quello che io faccio per
loro?”
"Non fare accussì", gli rispose Isabella, "Zia Rusinella
si merita questo e altro ancora".
33
"Ma figurati…per lei tutto l'oro del mondo", rispose
Ciaramella, “ma quegli stronzi, che se ne stanno beati nelle
Marche, non si meriterebbero niente”.
La questione di principio, comunque, rimaneva.
"Prima o poi devo farla presente ai cugini. Magari
non mo', ma fra qualche tempo", disse alla moglie.
Isabella conosceva bene il marito. Sapeva che era
un pezzo di pane, ma, che quando si metteva in testa una
cosa, la portava fino in fondo.
"Ha la testa dura. È il vero biglianese".
Da parte sua, invece, zia Rosinella non si
lamentava. Le donne del sud sono abituate a soffrire. Sono
abituate a veder partire i propri figli.
“Per loro, qui non c'è futuro. Non serve
lamentarsi”.
Non provano nemmeno a trattenerli, perché non
avrebbe senso.
"Gli uomini devono seguire il lavoro".
Il giorno in cui Donato ed Egidio partirono, zia
Rosinella non si fece uscire neanche una lacrima.
"Mò ci sono i treni, Donato pote compra' 'na macchina
grande e, poi, il nord non é l'America. Non c'é o’ mare di mezzo".
Quindi, non c'era motivo per essere tristi. Lo
dissero tutti. Zia Rosinella li accompagnò a prendere
l'autobus per Potenza. Da lì avrebbero preso il treno per
Foggia e, da Foggia, il rapido per Ancona. Infine, il regionale
per Pesaro e, di nuovo, l'autobus, per Fermignano.
“Ma dove si trova veramente sto’ Fermigliano?”
Chiese ai figli.
“Ma’, non è lontano”, la rassicurarano per
l’ennesima volta.
34
Zia Rusinella non riusciva a pronunciarne il nome
correttamente. Fermigliano, diceva.
Maurizio, in realtà, partì qualche mese più tardi
per finire di sbrigare le pratiche per la cessazione di
attività dell'azienda paterna, aiutato da Totonno
Tortoriello. In fondo, era per questo che Ciaramella non
gradiva che si parlasse male del sindaco.
"Quando c’é bisogno, il sindaco si mette
sempre a disposizione".
Anche quando c’erano stati problemi per la
licenza del bar, Totonno aveva trovato la soluzione.
"Sembra che i servizi igienici non siano proprio
a norma”, gli disse il medico sanitario.
“Ma che significa, dotto’?”
“Significa che possono esserlo e possono non
esserlo”.
“E da chi dipende?”
“Dal medico sanitario”.
“Da voi?”
“Si, da me”.
“E perché?”
“Perché c’è un dubbio sull'interpretazione di
una norma".
Ciaramella provò a risolvere la questione con
Di Cillio, a quattr'occhi ovviamente, ma l'avvocato non
riuscì a dargli una risposta chiara.
“Mi informo e ti faccio sapere”, gli disse.
Alla fine, però, l’avvocato non aveva mai più
ripreso l'argomento. A Ciaramella non sembrò educato
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chiedere due volte la stessa cosa.
“E se si offende e non frequenta il bar?”
Anche gli altri clienti avrebbero potuto notare l’assenza di
Di Cillio e allontanarsi. Decise di non correre rischi.
“Se l'avvocato avesse avuto delle novità, sarebbe stato lui
stesso a comunicarmele”, pensò.
Si consultò la sera a cena con Isabella e decise di cambiare
strategia. Avrebbe interessato direttamente Totonno
Tortoriello.
"Meglio andare nella chiesa grande", disse alla moglie.
Totonno, interpellato da Ciaramella, disse che se ne
sarebbe occupato.
"Ci mancherebbe altro, Ciaramé".
Ci mancherebbe altro si riferiva alla certezza che
Totonno se ne sarebbe interessato. Riguardo l'esito
occorreva, invece, aspettare.
“Ne parlo con il medico sanitario di Bigliano”, gli
disse Totonno.
Il medico sanitario, interpellato da Totonno, non
fece problemi e chiuse un occhio.
"In realtà, il problema c'era. Volendo essere pignoli,
il medico sanitario avrebbe potuto ostacolarti, Ciaramé. Se
avesse fatto una verifica approfondita, avrebbe appurato la
non conformità del locale ai requisiti stabiliti dalla legge",
spiegò Totonno.
Alla fine, il medico sanitario, amico di Totonno,
disse, “é tutto in ordine. Nesun problema. I migliori auguri da
parte mia per l’attività”.
Totonno aveva fatto il favore a Ciaramella che lo
aveva ringraziato, riservandosi la possibilità di offrirgli il caffè
vita natural durante. Ed anche il medico sanitario aveva fatto un
36
favore al sindaco, che era un suo amico.
"Il concetto di amicizia a Bigliano é molto ampio.
L'amicizia non implica una frequentazione approfondita,
quanto la certezza di poterci contare nel momento del
bisogno", chiarì Totonno.
“Per il momento non c'é niente che mi serve ma
non si mai in futuro", rispose il medico sanitario.
Aveva due figli ormai grandi e poteva darsi che un
favore gli sarebbe servito per la loro sistemazione. Intanto,
Totonno era riuscito a guadagnare il voto di Ciaramella e della
sua famiglia. Tuttavia, Ciaramella, essendo un esercente ed
avendo un'attività ben avviata, non poteva dichiararlo
pubblicamente. Avrebbe rischiato di perdere i clienti che,
invece, disapprovavano la politica del sindaco Tortoriello. E
di clienti che disapprovavano l’operato del sindaco ce ne
erano, ovviamente, molti. Preferì astenersi dal fare
dichiarazioni pubbliche. Preferì osservare un'equidistanza di
facciata per mettersi al riparo da eventuali ritorsioni.
"Se non fosse per quello stronzo di Giannino che
mi mette sempre in mezzo, potrei sopravvivere senza avere
problemi né con Totonno, né con i suoi avversari".
Quando Ciaramella ebbe il malinteso con Totonno,
pensò di chiedere a Giannino di non mettere più piede nel
suo locale. Era deciso a farlo e si consultò finanche con la
moglie, come per le cose importanti. La moglie gli consigliò
di desistere.
"Giannino é un opinionista e potrebbe sparlare di
te".
Avrebbe potuto parlare male, non solo in altri
esercizi pubblici, che lo avrebbero successivamente ospitato,
ma anche direttamente in piazza.
"Potrebbe essere pericoloso e dannoso per
l'attività".
37
Meglio soprassedere dunque.
"Sarà opportuno fare attenzione e, se proprio esce
qualche maldicenza, ci si può sempre chiarire".
Totonno, dopotutto, abbaiava, ma non mordeva.
Gli interessavano i voti, non le opinioni sulla sua persona e la
sua famiglia. Quelle non producevano alcun effetto concreto.
“E noi abbiamo una famiglia numerosa”, gli fece
notare Isabella.
Avevano un potere di negoziazione da non
sottovalutare, durante le elezioni e Ciaramella finì per seguire i
consigli della moglie. Giannino non avrebbe mai potuto
immaginare quanto fosse stato vicino alla defenestrazione dal
bar. Avrebbe goduto di una sorta di immunità diplomatica,
che Ciaramella era stato disposto a concedergli.
"Il privilegio, però, vale solo per lui. Per gli altri,
invece, esiste solo il rispetto delle regole. Niente politica inda o'
bar!"
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La testimonianza spontanea di Carmelina ‘a napuletana
Non molto lontano dal bar di Ciaramella, abita
Carmelina 'a napuletana. Vive da tempo immemorabile a
Bigliano, ma per tutti rimane 'a napuletana, perché il nonno
paterno era nativo di Torre Annunziata. Era giunto a Bigliano
agli inizi del novecento per ragioni sconosciute. Aveva
sposato una biglianese ed erano nati quattro figli. Il terzo di
questi quattro figli era il padre di Carmelina.
Sembrava davvero uscita da un presepe napoletano,
come se una mano maldestra l’avesse disegnata, dimenticando
di delinearne i contorni. Ha sempre i capelli arruffati e un
ciuffo tra il nero e il grigio gli scende costantemente sulla
fronte. Ha le gote rosse, ma mai di un rosso intenso. strano
vedere un rosso tanto sbiadito. Ha tre figli, due femmine ed
un maschio. Le due femmine era riuscita a sistemarle subito, il
maschio, invece, lo avrebbe tenuto ancora in casa, se non
fosse stato per il sindaco. L’oro nero di Totonno aveva
sbloccato la situazione. Per questo gli era molto riconoscente
e, oltre al sostegno politico, aveva anche inaugurato la
tradizione di portargli i zippili per Natale. Totonno li adora,
come si può dedurre dalla corpulenta corporatura. Pesa quasi
un quintale e non é affatto alto.
“Ci vuole più tempo per girarci intorno che per
salirci sopra”, dice Giannino.
Gli piace gestire il potere. Ha più clienti
dell’avvocato Di Cillio e di Pinuccio di Gina. Quando
Carmelina andò a trovarlo, le offrì da bere e le chiese del
figlio, che aveva sistemato.
“Come si trova?”
“Bene, bene”, gli rispose Carmelina, aggiungendo,
con una punta di orgoglio “la volontà non gli manca. Iè sempre
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stato 'nu ciuccio di fatica”.
Totonno assaggiò i zippili e poi esclamò, “Carmelì,
come li fai tu, non li fa nessuno”.
La conversazione tra Carmelina e Totonno durò lo
spazio di due domande e due risposte.
“Carmelì, mi devi scusare. Ho molte cose da fare e
mi devo allontanare”, disse Totonno.
In realtà, tentava di tenersi liberi i giorni prima di
Natale per ricevere i clienti. Non era un mistero che ci
rimanesse male quando chi si sarebbe dovuto disobbligare,
non lo faceva.
Trapanese, intanto, aveva chiesto al maresciallo
Turtino di lasciarlo solo in ufficio. Doveva concentrarsi e
rileggere le deposizioni rilasciate dai parenti e dagli amici della
persona scomparsa.
“Sarebbe possibile avere un caffè?” Chiese
Trapanese.
“Subito!” Rispose Turtino
“Qui ci sarà da lavorare”, lo avvertì Trapanese.
“Allora serve il miglior caffè di Bigliano”, gli
rispose Turtino.
Chiamò il bar di Ciaramella e ordinò due caffè, uno
per lui, macchiato con una spruzzata di cannella e uno,
ristretto, per il sostituto procuratore, che aveva bisogno di
concentrarsi.
"Mi
raccomando…il
prima
possibile…cortesemente!" Aggiunse, con un tono tra il gentile
e l'esigente.
"Li preparo e li porto io personalmente", rispose
Ciaramella, tenendo a rimarcare che sarebbe stato lui
personalmente a portarli in caserma.
40
Ciaramella preparò i due caffè, si tolse il grembiule
bianco e si diresse prontamente verso la caserma.
"Torno subito", disse a Radiouno e Radiodue,
pregandoli di dare uno sguardo al bar durante la sua breve
assenza.
Pregandoli costituisce ovviamente un eufemismo. I
modi di Ciaramella erano usualmente molto più spicci e, nei
confronti di Radiouno e Radiodue, lo erano più del normale.
Il passo di Ciaramella verso la caserma fu
abbastanza rapido. Si vedeva che aveva una gran fretta di
arrivare.
“Devo cercare di sape’ qualcosa”.
Il suo auspicio era di raccogliere qualche
informazione sul caso di Mariella, da poter successivamente
spendere nel bar. Teneva molto al fatto che le notizie
circolassero da lui, prima che in altri locali, se non altro per
un fatto di prestigio. Non era ammesso discutere di politica,
ma altri argomenti, specie se riferite alla cronaca, erano molto
ben accetti. Anche per questo la presenza di Radiouno e
Radiodue veniva ampiamente tollerata. Non erano buoni
clienti, ma erano buoni informatori. In qualche misura, il
vantaggio per Ciaramella esisteva. Non prendeva soldi con le
loro inesistenti consumazioni ma le loro informazioni
creavano un potenziale giro d’affari.
Ciaramella sapeva benissimo che, quando lo
telefonavano dalla caserma, per ordinare dei caffè, era perché
qualcosa bolliva in pentola. Era già capitato altre volte.
Arrivato in caserma, chiese del maresciallo Turtino.
“Ho portato i caffè che il maresciallo in persona mi
ha ordinato”.
L’appuntato Scapagnin si offrì di prendere i due
caffè e di portarli al maresciallo e al sostituto procuratore ma
Ciaramella fu irremovibile.
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“E voi chi siete? Forse non avete capito che me li
ha ordinati il maresciallo in persona”.
Dava l'impressione di dover consegnare una sorta di
valigia diplomatica, per quanta attenzione riponesse nel
vassoio, che aveva in mano.
“Me li ha ordinati il maresciallo in persona. Devo
consegnarli personalmente…”, ripeté Ciaramella.
“Come vuole”, si rassegnò Scapagnin.
“Ne approfitto anche per salutare il maresciallo",
precisò Ciaramella.
Turtino, chiamato dal giovane appuntato, giunse
subito, attraversando un lungo corridoio, a destra della porta
di entrata, dove il barista lo stava aspettando.
Ciaramella intese i passi di Turtino. Pensò alle
domande che avrebbe potuto rivolgergli, per strappargli
qualche informazione utile.
“Porca puttana! Non mi viene in mente niente di
speciale”.
Così, quando Turtino gli si avvicinò, porse il
vassoio con i caffè e chiese semplicemente, con un tono a
metà tra il curioso e il rispettoso, "ci sono novità, marescià?"
"Ciaramé, tu sei tropo curioso", rispose il maresciallo,
che conosceva bene Ciaramella.
Tuttavia, proprio perché lo conosceva bene, sapeva
ugualmente che se non gli avesse dato una notizia, anche di
poco conto, difficilmente se lo sarebbe tolto dai piedi.
"Sta analizzando i verbali", disse il maresciallo,
riferendosi al sostituto procuratore.
"Ah…sta analizzando i verbali?!...Forse qualcosa
non si trova?" insinuò Ciaramella
"Vedremo", rispose il maresciallo che, dopo aver
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soddisfatto la sua curiosità con una notizia che, di fatto, non
significava nulla, pagò i due caffè e salutò Ciaramella.
‘Ci sarà tanto da lavorare”.
Ciaramella ritornò al bar con un passo meno agile
di quello dell'andata. Prima c'era la fretta di sapere le notizie,
ora occorreva calma per elaborarle.
Appena messo piede nel bar, Radiouno e Radiodue
gli chiesero, "…e allora? Com’è andata in caserma?"
"…E allora…pare che si stanno confrontando i
verbali", rispose Ciaramella.
"…e che significa?" chiesero in coro Radiouno e
Radiodue.
"Di preciso…non o' saccio…ma per dirmi che stanno
confrontando i verbali, si vede che qualcosa c'è", rispose Ciaramella
con il tono insinuante, che solo lui era capace di fare, quando
voleva attirare l'attenzione.
Tuttavia, quella volta, non sapendo nulla di più,
lasciò cadere il discorso, aggiungendo "non parliamo di ‘ste cose,
che sono cose delicate".
Radiouno e Radiodue si guardarono interdetti, ma
preferirono non aggiungere nulla e seguire il suggerimento di
Ciaramella.
Intanto, in caserma, il sostituto procuratore,
ricevuto il caffè dal maresciallo, si mise a lavorare ma venne
nuovamente interrotto dall’appuntato Scapagnin.
“La cerca una persona in merito al caso di Mariella
la bella”.
"Falla entrare", rispose Trapanese, incuriosito,
dopo aver ripiegato il fascicolo, contenente le deposizioni,
che stava analizzando.
Si trattava di Carmelina ‘a napuletana, che dopo
aver lasciato la casa di Tortoriello, era andata in caserma.
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Trapanese la fece accomodare, chiamò Turtino, affinché lo
coadiuvasse, e poi chiese a Carmelina "signora, dia per
cortesia le sue generalità al maresciallo qui presente".
Carmelina scandì a voce alta il proprio nome,
cognome e data di nascita. Aggiunse anche l'indirizzo e il
numero di telefono, a richiesta del sostituto procuratore.
Poi, con tono serio, le chiese "signora, mi dica tutto
quello che sa…la ascolterò con molta attenzione".
“Mariella era per me come una figlia. Con la sua
famiglia e con quella degli zii ci rispettiamo da sempre. Sento
il dovere di dire quello che so. Quella povera figlia deve
essere trovata e restituita alla famiglia”.
Trapanese ascoltò in silenzio il lungo incipit.
Sobbalzò dalla sedia quando Carmelina aggiunse, "dottò, la
sera prima della scomparsa io a Mariella mi sembra di averla
vista".
"Come?…Dice che le sembra di averla vista la sera
in cui è scomparsa?”
“Si, mi sembra di averla vista”
“Un attimo…le sembra o l’ha vista veramente?”
“Eh…dottò…voi qua… volete sapere un po’ troppo”,
disse Carmelina, dando l’impressione di ignorare il luogo in
cui si trovava.
“Signora, noi non ci troviamo dal parrucchiere o
dal macellaio. Lei sta facendo una deposizione importante,
che potrebbe avere un impatto sulle possibilità di ritrovare la
ragazza scomparsa. Si tratta di un interesse condiviso.
Vogliano ritrovarla questa benedetta ragazza…o no?”
“Naturalmente, dottò, dobbiamo ritrovarla”.
“Allora la prego di dirmi le cose che ha visto o che
pensa di aver visto”.
“Dottò, dovete sapere che ad una certa età non
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esistono certezze. I dubbi alimentano la vita più che nella
giovinezza. Voi siete ancora giovane e cercate certezze. Io
non sono più giovane e certezze non ne ho. Io vi voglio
aiutare perché mi fa tanta pena vedere quel pover’uomo di Zi’
Antonio soffrire. E la moglie? L’ha vista la moglie? Non
voglio dire niente del padre perché il padre…lei sa in che
condizioni è il padre…”, si mise a disquisire Carmelina.
Trapanese a quel punto si rese conto di quale
fossero i ritmi della napuletana. Avrebbe parlato all’infinito,
se l’avesse lasciata fare. Le sue gote diventavano sempre più
rosse, man mano che aggiungeva informazioni. Sembrava ci
fosse una relazione diretta tra il numero delle parole dette e
l'intensità del colore. Trapanese non poteva fare altro che
seguire i suoi ritmi, se avesse voluto sperare, che dal suo
oceano di parole uscisse finalmente qualche informazione di
una certa utilità. Decise che non sarebbe stato il caso di
intervenire con domande precise e Carmelina si sentì
autorizzata a continuare.
“…il padre, come stavo dicendo, non si rende
neanche conto di quello che sta succedendo. Lui beveva
prima e beve adesso. Anzi, che fortuna che riesce a bere!
Magari riuscissi a bere anch’io in queste situazioni. Potrei
dimenticare e invece no. Tutto mi torna sempre nella mente.
E la sera in cui Mariella, come dite voi è scomparsa, io penso
di averla vista”.
"Finalmente!" Esclamò Trapanese, "siamo arrivati
al punto. Dunque…lei pensa di averla vista o possiamo dire
che l’ha vista realmente?”
Trapanese si piegò sulla scrivania, con un
andamento ondulatorio, che lasciava intravedere una
partecipazione corporale al discorso di Carmelina.
“Diciamo che l’ho vista…diciamo allora che l'ho
vista”, precisò Carmelina alla richiesta di chiarire il concetto
da parte di Trapanese, che, per essere sicuro, affermò “quindi,
non le sembra…è sicura di averla vista?”
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“Si, si…l’ho vista”, ribadì a quel punto con certezza
Carmelina, quasi sfinita per le continue richieste di Trapanese
di chiarire il concetto.
“E dove l'ha vista?" Chiese Trapanese, sempre più
incuriosito.
"Dottò, mi sembra che fosse in una macchina grossa….ma
grossa assai".
“Siamo alle solite…le sembra o ne è certa?
Veramente la ragazza si trovava in una macchina grossa?”
Domandò Trapanese, per evitare equivoci.
“Si, si.…Era veramente in una macchina grossa”,
rispose Carmelina.
“…E allora, non dica mi sembra…per cortesia,
cerchi di essere chiara”, precisò Trapanese.
“Io ci provo, dotto’”.
"Lei mi sta dicendo che ha visto la ragazza in una
macchina grossa? Bene! Cerchi di ricordare…quanto era
grossa questa macchina?”
“Come posso spiegare”, disse Carmelina,
rivolgendosi al maresciallo Turtino, “…queste macchine
grosse…che ne so…per esempio la macchina del notaio
Fiore la conoscete?”
“Maresciallo, conoscete la macchina del notaio
Fiore?” Chiese Trapanese a Turtino.
“Il notaio Fiore? E quello ha la Mercedes”, rispose
il maresciallo.
“Allora era come quella…intendiamoci, non era
quella perché il colore era diverso ma…se mi chiedete quanto
fosse grossa quella macchina, allora io vi devo dire come quella
del notaio Fiore”.
“Maresciallo, scriva che la signora qui presente ha
visto la ragazza in una Mercedes”.
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“Il colore se lo ricorda?”
“Quello si…ve l’ho detto…non era come quella
del notaio Fiore”.
“Quindi, di che colore era la Mercedes?”
“Nera…senza dubbio, nera”.
“…E sarebbe capace di riconoscere il conducente
dell'autovettura?"
"Ve l'ho detto…grossa assai".
“Quello lo abbiamo capito…Vi stavo chiedendo
del conducente", ripeté Trapanese a Carmelina, che aveva
dimenticato di rispondere.
"Quello no, non l’ho visto. Non lo conoscevo,
perché non lo avevo mai visto prima e io faccio caso solo alle
persone che conosco. Non mi chiedete informazioni sulle
persone che non conosco perché io non le ricordo. La mia
mente non è più giovane e già ricordare quello che conosco è
difficile. Figuriamoci quello che non conosco".
Trapanese, nonostante le precisazioni di Carmelina,
che aveva ribadito di non riconoscere le persone nella
Mercedes in cui aveva visto Mariella la bella, chiese
ugualmente a Turtino di mostrarle alcune foto segnaletiche.
Carmelina, dopo averle guardate con attenzione, non
riconobbe nessuna delle persone ritratte nelle foto, mostratele
dal maresciallo.
Disse illuminando nuovamente le sue gote rosse,
“ve lo avevo detto, signor giudice...Io non riconosco mai le
persone che non conosco”.
A quel punto Trapanese, riprese il lavoro, stimando
interessante e da approfondire la testimonianza di Carmelina.
La sera della scomparsa, Mariella era stata vista da
una testimone in una macchina di grossa cilindrata, sebbene
non si conoscessero i particolari sulla vettura e sugli
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occupanti. Avendo a disposizione informazioni talmente
scarne sarebbe stato difficile giungere ad una conclusione
chiara. Sarebbe stato altrettanto difficile tracciare un percorso.
Trapanese chiuse il fascicolo, inserendovi il foglio appena
firmato dalla testimone. Sul fascicolo vi appose la dicitura, da
verificare.
Le lacrime di Zi' Antonio
Dopo aver completato la deposizione, Carmelina
chiese al sostituto procuratore, "di non dire niente a nessuno,
perché non si sa mai cosa potrebbe pensare la gente”.
“Non si preoccupi”, la rassicurò Trapanese.
“Non dite niente a nessuno neanche voi…qui a
Bigliano la gente è cattiva e invidiosa", chiese Carmelina al
maresciallo.
Ricevuta la rassicurazione anche da parte di Turtino
circa la riservatezza del colloquio appena intercorso,
Carmelina rientrò a casa, fiera di aver offerto la sua
collaborazione. Avvertì uno strano senso di liberazione, come
se la sua coscienza fosse finalmente a posto. Non ne fece
menzione con nessuno, tranne che con Zi' Antonio.
“Almeno la famiglia di Mariella lo deve sapere”,
pensò.
Carmelina trovò Zi' Antonio a casa, accanto al
caminetto. Entrando nel soggiorno intravide la sua sagoma.
La stanza era illuminata solo dalla luce di riflesso del fuoco
acceso, che proiettava l'immagine mossa di Zi' Antonio, in
parte sulle pareti e in parte sulla credenza a vetri. Le ricordava
un grande e grosso San Bernando, adagiato in un angolo, in
attesa di mangiare. Entrò in punta di piedi attenta a non fare
rumore. L'atmosfera era quieta, come quella di un fiume, che
si sta sgonfiando dopo un periodo di piena. Sembrava che
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tutto ritornasse nel proprio alveo naturale ma sarebbe stato
evidente anche agli occhi di un eremita in preda ad una crisi
di panico che non era così. Zi' Antonio sedeva su una vecchia
sedia sdraio di plastica. Alcuni intrecci erano saltati e lui li
aveva riparati con lo spago che abitualmente usava per i filari
della sua vigna.
“Che tristezza!”
Carmelina lo percepì affranto come non lo aveva
mai visto nella sua intera esistenza. Il grande San Bernardo
aveva la mano destra appoggiata ad una tempia, la pelle
abbondante della mandibola ricadeva sulla mano e ne copriva
le prima due dita. Girava e rigirava l'altra mano nella tasca del
suo pantalone di velluto, alla ricerca del tabacco, che non
trovava. Le rughe profonde del suo viso si accavallavano,
delineando sentieri rigidi e mai battuti. L'uomo forte e allegro
che Carmelina conosceva sembrava essersi sciolto di fronte al
dolore.
"E se fosse capitato a me? Come avrei reagito? Avrei lottato
con tutte le mie forze…ma certo che avrei lottato. Avrebbero dovuto
ridarmela e se non me l'avessero ridata? Ah…allora l'avrei ripresa con
la forza. Non si può togliere una figlia ad una madre", pensò
Carmelina.
Mentre pensava, avanzava lentamente. La sagoma
di Zi' Antonio, accucciato sulla sedia, le provocava un
pensiero, che diventava sempre più concitato. Più si
avvicinava a Zi' Antonio e più ne percepiva il dolore.
"E se fosse morta? Certo, morta, morta! Morirei anch'io.
Che senso potrebbe avere la mia vita?" Carmelina passava dalle
intenzioni bellicose ai momenti di sconforto.
Il passaggio avveniva tanto rapidamente da non
riuscire a rendersene conto. Le sue gote rosse diventavano
sbiadite nei momenti di sconforto, ma vibravano di un rosso
intenso quando, invece, sentiva che la vita fosse dolore. Zi'
Antonio la scorse, quando già si trovava nel soggiorno. Il san
Bernardo sollevò la testa. Fece un cenno con la mano per
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attirarla a sé. Carmelina realizzò il dramma. Nell'istante
preciso in cui Zi' Antonio fece il cenno con la mano, sentì un
nodo stringersi alla gola. Fu quello il momento della presa di
coscienza.
"È terribile sopportare il peso dell'assenza, del ricordo e
dell’amarezza", le disse Zi' Antonio, "non ci possiamo manco
rassegnà”.
Carmelina provò a fargli coraggio.
“Ma voi non vi dovete rassegnare. Mariella è
sicuramente viva e presto tornerà a casa”.
“Sai, Carmelì, quando uno muore, sai dove andare a
piangere. Ma io dove devo andà?" sussurrò Zi' Antonio, tra le
lacrime, "ogni volta che sona o' campaniddo, io penso che ié Mariella".
Carmelina ripensò all'ultima volta che aveva visto
Mariella. Aveva gli occhiali scuri.
“Era di sera e aveva stranamente gli occhiali scuri”.
Si trattava di un particolare che non aveva riferito al
sostituto procuratore.
Provò a consolare Zi' Antonio ma non riuscì a dire
nulla di più che "sono sicura che la troveranno. Ci vorrà
tempo ma la troveranno".
"Speriamo, figlia mia. Speriamo", le rispose Zi'
Antonio, in lacrime.
Carmelina riuscì a stento a trattenere le sue lacrime.
Preferì ritornare a casa.
“Ho voglia di abbracciare i miei figli”.
Uscendo dalla casa di Zi' Antonio, incrociò il
ragioniere La Spina. Lo salutò con gli occhi ancora umidi.
“Buonasera, ragionié”.
“Saluti, Carmelì”.
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La Spina amava fare lunghe passeggiate, sempre
sullo stesso percorso e, quasi sempre, allo stesso orario.
Rincasava dal lavoro alle due e dieci, pranzava e andava al
circolo a prendere il caffè. Incontrava alcuni amici, faceva la
solita partita a carte e si incamminava verso i pozzi. Non
pensava al traffico, al petrolio e alla qualità dell’aria. Preferiva
concentrarsi sul profilo delle montagne. Sarebbe potuta
apparire come una forma di superficialità, invece, si trattava di
una tecnica di sopravvivenza. Componeva poesie e affidava ai
versi il mondo che il tempo e gli uomini stavano
inesorabilmente cancellando.
Il ragioniere attraversava il ponte sul ruscello, ormai
in secca, passava davanti al carcere mandamentale e giungeva
fino al campo sportivo. Si riposava per qualche minuto,
mentre vedeva i ragazzi giocare a pallone. Riprendeva il
cammino per giungere finalmente alla piazza principale.
Lungo il cammino passava davanti la casa di Carmelina 'a
napuletana, la clinica dove un tempo esercitava il dottor
D'Eugenio, la scuola elementare e, infine, il bar di Ciaramella,
proprio a due passi da Piazza Giuseppe Verdi. Faceva un
lungo respiro, sorrideva e si appoggiava con il braccio destro
all'abete, fatto piantare qualche anno prima, sul lato destro
della piazza, non lontano dal busto in bronzo di Verdi.
Carmelina incrociando il ragioniere La Spina non
poté non pensare che anche lui avrebbe potuto vedere
Mariella la sera della scomparsa. Faceva sempre il solito giro e
passava sempre davanti alla casa di Zi' Antonio.
"Potrei chiederglielo", pensò Carmelina
Avrebbe potuto confermare o smentire e sarebbe
stato d'aiuto come supporto alla sua tesi.
“Io sono sempre stata certa di aver visto Mariella
però, da quando ho deciso di parlarne in caserma, ho tanti
dubbi”.
Solo la determinazione di Trapanese l’aveva fatta
andare fino in fondo nel ricordo. Tuttavia, i dubbi erano
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rimasti tali e quali.
"Se anche il ragionier La spina potesse testimoniare?
Sarebbe la conferma che avevo ragione", pensò Carmelina.
La Spina aveva risposto al saluto di Carmelina,
simulando il gesto di alzarsi il cappello in segno di rispetto.
Carmelina ebbe la tentazione di fermarlo per chiedergli la
conferma che cercava, ma non lo fece.
"Forse il ragioniere ha visto, ma se ha visto perché
non ha già riferito ai carabinieri?” Pensò.
Intanto La Spina l'aveva sopravanzata e stava
filando dritto verso la piazza. Carmelina si fermò a guardarlo,
mentre lentamente scompariva dalla sua visuale. Vedeva
progressivamente rimpicciolirsi la sua figura. Scomparivano
l'impermeabile e il cappello.
"Non c'è bisogno di chiedere", concluse Carmelina,
"il ragioniere La Spina è un galantuomo e se avesse avuto
qualcosa da dire, lo avrebbe detto. Ci mancherebbe altro".
Decise che fosse ora di rientrare a casa.
Il posto di A' bionda
Ziza e Pinuccio di Gina erano i clienti ideali per
Ciaramella. Consumavano tanto, in termini di bottiglie di
birra, e non parlavano di politica. Come Ciaramella e come
quasi tutti a Bigliano, anche Ziza aveva ricevuto un favore da
Totonno Tortoriello. 'A bionda era stata assunta al comune di
Bigliano come assistente di fascia B. Totonno aveva
approfittato di una clausola inserita nella legge finanziaria
regionale, per assorbire tutti i lavoratori socialmente utili.
Tecnicamente, la cosa non era molto chiara, come, invece
poteva apparire. Infatti, Ziza non sapeva se considerare il
favore dell’assunzione della moglie provocato dall’attivismo di
Totonno oppure da quello del dottor De Cesare.
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Quest’ultimo in passato, si era adoperato anche per la sua
assunzione in fabbrica e Ziza non lo aveva dimenticato, ma,
contrariamente a quanto sarebbe stato plausibile supporre,
Ziza non nutriva alcun sentimento di riconoscenza per De
Cesare. Al contrario, lo detestava proprio perché era stato la
causa del suo lavoro.
“Certo, io gli ho chiesto il favore ma mai avrei
potuto immaginare che lo avrebbe fatto”.
Ziza pensò che anche nel caso dell’assunzione della
moglie poteva esserci lo zampino del dottor De Cesare.
“Lo stronzo è consigliere provinciale del partito
governativo regionale”.
Totonno, invece, era il sindaco, e per definizione
avrebbe dovuto costituire il principale fautore dell’assunzione.
D'altro canto, però, Totonno apparteneva al partito
all'opposizione alla regione e, come tale, non sarebbe stato in
grado di esercitare alcun condizionamento sulla giunta
regionale.
A Bigliano, si era sparsa la voce che fosse stato De
Cesare a premere sulla giunta regionale, per far inserire la
clausola nella legge finanziaria, che, in seguito, aveva
condotto all'assorbimento dei lavoratori socialmente utili. La
voce messa in giro a Bigliano, che assegnava il merito al
dottor De Cesare, in linea di principio, poteva anche essere
plausibile. Totonno era il principale attore e, probabilmente,
era stato lui a decidere ma, d'altro canto, se non ci fosse stata
la clausola specifica nella legge finanziaria, non sarebbe stato
possibile eseguire l'assunzione. A chi doveva essere assegnato
il merito? A Totonno Tortoriello oppure a De Cesare? A
complicare ulteriormente le cose c'era l’amicizia personale di
De Cesare con il presidente della regione.
“Dunque, la cosa può essere veramente andata nel
modo in cui i sostenitori di De Cesare affermano”, pensò
Ziza.
53
Totonno Tortoriello si era affrettato a smentire le
voci che riguardavano il presunto impegno di De Cesare.
“Il merito è solo mio. De Cesare ha fatto mettere
in giro questa voce, infondata”.
Ziza non conosceva direttamente De Cesare, ma
conosceva Totonno Tortoriello. Preferì credere a lui, anche se
qualche dubbio gli rimase. De Cesare, intanto, fece rilasciare
un'intervista sul quotidiano della Lucania affermando “che i
lavoratori vanno sempre tutelati e che bisogna garantire il
posto sicuro”.
La dichiarazione di De Cesare venne riportate nel
titolo dell'articolo e finì addirittura in prima pagina. Ziza
aveva notato il titolo, mentre un giorno, bevendo la birra nel
bar, sfogliava, distrattamente, il giornale, sul frigorifero dei
gelati. Sua moglie era precaria e sapeva che si ventilava la
possibilità di un'assunzione a tempo indeterminato. Per questi
motivi, volle verificare. Attratto dal titolo, iniziò a sfogliare il
giornale per trovare l'articolo che cercava. Lo trovò a pagina
otto. L'articolo ricopriva l’intera pagina, anche perché c'era
una fotografia enorme di De Cesare. Ziza, non appena la
vide, ricordandosi anche del favore che gli aveva fatto in
passato, esclamò, "sto' strunz'!" Ciaramella lo riprese
immediatamente.
In realtà, Ziza non ce l'aveva specificatamete con
De Cesare. Diceva "sto’ strunz'" ogniqualvolta vedeva un
politico. Dopo aver letto l'articolo, Ziza fu meno polemico
nei confronti di De Cesare.
Non disse "sto' strunz'", come al solito ma esclamò:
"amma vedé’".
Si trattava di un'apertura di credito importante. Il
posto della moglie gli stava molto a cuore, molto più di
quanto gli fosse stato il suo posto in fabbrica. Se sua moglie
finalmente avesse iniziato a lavorare, la questione, relativa al
sostentamento economico della famiglia, si sarebbe potuta
considerare definitivamente chiusa.
54
Quando, finalmente 'A bionda venne assunta a
titolo definitivo, Ziza si sentì molto sollevato. Sapeva che
Totonno Tortoriello si era dato da fare. Era lui il sindaco e la
lettera di assunzione proveniva dal Comune. Nello stesso
tempo, si ricordò anche dell'intervista del dottor De Cesare e
di quello che si diceva in giro.
“Alla fine chiunque é stato non conta. Quello che
conta è che finalmente fatica e che io non tengo più rotture di
palle”.
Poteva bere la sua birra tranquillamente da
Ciaramella e giocare a pallone quando lo desiderava.
“Totonno é sempre a disposizione, se serve. De
Cesare, invece, ha già combinato un guaio in passato e, tutto
sommato, chi lo conosce per davvero?”
Aveva l’abitudine di andare a Bigliano anche tre
volte prima della campagna elettorale ma poi spariva nel nulla,
per un misterioso effetto di polverizzazione. Riappariva sui
giornali e, ogni tanto, in televisione, ma non si materializzava
mai, se non in occasioni di funerali e matrimoni, con ampia
partecipazione popolare. Alcuni biglianesi ritenevano che De
Cesare fosse privo di materia. Totonno, invece, era un'entità
reale.
Il sostituto procuratore Trapanese, intanto,
sembrava aver deciso la strategia da seguire. La sua esperienza
gli suggeriva di concentrarsi sulle persone, che abitualmente
frequentavano Mariella. Decise di fare un altro giro
d'interrogatori per chiarire alcuni aspetti che riteneva
interessante approfondire. Avrebbe riascoltato gli zii di
Mariella, l'avvocato Di Cillio, suo fratello Simone e l'amica
che frequentava ai tempi della scuola, Paola Urbano Tositto.
Turtino fece recapitare a tutti un invito a presentarsi in
caserma.
"Solo per raccogliere informazioni, ovviamente!"
Nessuno di loro risultava ufficialmente sospettato.
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Il primo ad essere ascoltato per la seconda volta fu l'avvocato
Di Cillio. Si lamentò per essere stato nuovamente convocato.
"Guardi, io ho avuto davvero poco a che fare con
Mariella già ai tempi in cui frequentava mio fratello.
Figuriamoci dopo!", esclamò Di Cillio, che poi proseguì,
"senta, io quella ragazza non la sopportavo, se proprio vuole
saperlo. Non l'ho mai sopportata e non mi andava giù che
mio fratello la frequentasse. Con tante ragazze che vivono a
Bigliano proprio lei, che diamine!"
L'avvocato sbottò, senza mezzi termini. Trapanese
sgranò gli occhi. Conosceva Di Cillio come una persona
pacata e riflessiva e non si attandeva una presa di posizione
come quella a cui aveva appena assistito. Anche Trapanese
sapeva che non aveva clienti, ma non per questo lo aveva mai
sentito lamentarsi. Giocava al ruolo dell'avvocato impegnato e
di successo e non era da lui esporsi con tanta determinazione.
Anche Turtino che seguiva defilato la conversazione drizzò le
orecchie.
"Non era quella santa che ora tutti descrivono. Solo
Simone non aveva capito il gioco che stava giocando. Io
si!…Io lo avevo capito. A me non mi si fa fesso
facilmente…Figuriamoci se poteva farmi fesso una come
quella", aggiunse l'avvocato, che ormai sembrava un fiume in
piena.
Trapanese evitò di interromperlo, aspettando che
spiegasse le ragioni che lo portavano a sparare a zero contro
Mariella la bella.
"Simone si faceva incantare dalla bellezza…il fesso,
si faceva incantare dalla bellezza e vede a che punto siamo? Il
sostituto procuratore ci convova per una faccenda losca.
S’immagina se lo sapesse lo zio…Forse lo sa già! Che
vergogna!"
A quel punto, Trapanese intervenne. Di Cillio
tergiversava e stentava a focalizzarsi sul punto che, invece, lo
interessava per davvero, “per quale ragione non poteva
56
sopportare Mariella?”
L'avvocato rispose, “non è che non la potessi
sopportare, ma sa… non era una ragazza che poteva essere
posta sullo stesso rango della famiglia Di Cillio, non crede?
Bigliano è un piccolo paese, ci sono delle regole da rispettare.
Non è che ognuno può fare quello che gli pare. Voglio
dire…,va bene la democrazia, ma c’è sempre un limite! Mio
fratello spesso superava questo limite”.
La spiegazione apparve subito poco convincente,
ma per quanto Trapanese insistesse, non riusciva ad ottenere
altro. Alla fine, congedò l'avvocato.
"La lascio andare ma avrei, francamente, preferito
una maggiore collaborazione da parte sua, che è un uomo di
legge".
"Le ho detto tutto quello che sapevo. Anzi, forse le
ho detto anche troppo".
"Lo vedremo".
Di Cillio uscì dall'ufficio e Trapanese si rivolse al
maresciallo.
"Pensate che Di Cillio possa nascondere un’altra
verità?"
Turtino sollevò le labbra verso l'alto. Non avrebbe
potuto essere più chiaro per esprimere il dubbio.
"Non riesco a trovare risposte plausibili. Andiamo
avanti, maresciallo!"
Subito dopo l’avvocato Di Cillio, venne ascoltata la
moglie di Zi' Antonio.
"Signor giudice, non potete immaginare quanto era
brava Mariella nostra. Aveva subito tanto, ma era sempre
stata brava", disse la zia, con un fazzoletto bianco tra le mani.
Ogni tanto se lo portava agli occhi per asciugarsi le
lacrime, che scendevano copiose sul viso. Piangeva e parlava
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e più parlava e più piangeva. Sembrava esserci una
corrispondenza diretta tra le parole e le lacrime.
“Signora, la capisco…o meglio provo a capirla. La
vita spesso riserva sorprese poco gradite”, disse il sostituto
procuratore, sporgendosi con le mani giunte verso la zia di
Mariella.
La signora che aveva chinato la testa, rialzandola si
trovò di fronte la figura di Trapanese, che la sommergeva.
Con le mani giunte sembrava un prete, nell’atto di confessare
una fedele. Si sentì di colpo a suo agio.
“Mariella ne ha avute assai di cose poco gradite
nella sua vita. Ha perso la mamma che era ancora una criatura. Ah,
quanto voleva bene alla mamma…ma è riuscita a superare
quel difficile momento. Noi l’abbiamo aiutata, ma Mariella è
stata forte, molte forte. Più forte del padre è Mariella. Lui si
che ha avuto problemi quando è morta la moglie. La sera non
sapeva cosa fare. Non si sapeva fare neanche da mangiare. Si
mise a bere e ogni giorno beve@va sempre di più. Ah, quante
ne ha dovute sopportare Mariella!” Esclamò la zia, portandosi
di nuovo il fazzoletto agli occhi per asciugarsi le lacrime, che
erano riprese a scendere copiose.
“Signora, quando ha visto Mariella l’ultima volta?”
Chiese Trapanese, per focalizzare l'attenzione sulla
scomparsa.
“Fatemi pensare…dunque…vediamo…il giorno
verso l’una è venuta a casa. Abbiamo mangiato insieme. Io
avevo preparato i firriciddi con la mollica e le noci. Avevo
messo anche il rafano fresco fresco, che Antonio aveva
portato dalla campagna proprio il giorno prima. L'avevo
messo da parte, ma poi ho pensato che non valeva la pena di
stiparlo…e ho fatto bene! Vero, signor giudice, ho fatto bene.
L’avete detto voi che la vita ci riserva sorprese poco gradite”.
Trapanese sollevò gli occhi al cielo ma non disse
niente.
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La zia di Mariella era fatta così. Se iniziava a parlare
di firriciddi e rafano divagava e non si prendeva più. Cucinava
come poche a Bigliano, e i firriciddi con la mollica, le noci e il
rafano erano la sua specialità. I firriciddi li preparava alle sei di
mattina, quando il marito usciva di casa per andare in
campagna. Preparava l'impasto, li stendeva e, con un ferretto
che Antonio gli aveva preparato, li infilava uno ad uno.
Trapanese che veniva da Potenza non aveva mai mangiato i
firriciddi alla maniera dei biglianesi.
"Signor giudice, se volete, ve li preparo pure a voi
uno di questi giorni, ma me lo dovete dire con anticipo.
Tengo bisogno di tempo per prepararli".
"Magari, magari….ma un'altra volta".
Trapanese faceva fatica a gestirla. Bastava poco per
parlare di argomenti che nulla avevano a che fare con la
scomparsa. La zia di Mariella divagava ed era difficile
ricondurla nel giusto alveo del discorso.
"Vediamo, signora…dunque, mi diceva che ha
visto l'ultima volta sua nipote a pranzo. Ha notato qualche
cosa di particolare?"
"Macché! Niente, signor giudice! Niente di
particolare. Era tranquilla, come sempre. Era una santa
ragazza, credetemi!".
Trapanese prese atto.
"Per carità, signor giudice! Mariella stava bene.
Perché se ne sarebbe dovuto andare di casa?" Ribadì la zia.
Il sostituto procuratore mise termine alla
conversazione. Prima, però, precisò, "mi raccomando,
signora, i firriciddi me li sono segnati".
"Avete fatto bene, signor giudice. Io la prossima
volta ve li porto. Li preparo la mattina e ve li porto, ma
fatemelo sapere prima. Io ho bisogno di tempo per fare i
firriciddi come Dio comanda".
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Il maresciallo Turtino sorrise. Viveva a Bigliano da
oltre quindici anni e i biglianesi non avevano segreti per lui.
Era come il medico, li conosceva sopra e sotto la pelle. Era
giunto dopo aver fatto esperienze di lavoro altrove. Si era
fatta la Sicilia, come De Stefano ma della sua esperienza non
se ne sapeva niente.
"Giudice, se non avete più bisogno di me, io questo
pomeriggio me ne vado a pesca", disse Turtino.
"Beato lei, maresciallo!"
Turtino, quando non lavora, prende la canna e se
ne va a pescare. Sulle rive del lago, in realtà, pesca poco o
niente però l'aria del lago gli concilia il sonno più della
poltrona. Il giorno della scomparsa di Mariella, Turtino si
trovava al lago e poco distanti da lui stavano pescando anche
Radiouno e Radiodue.
'A fatica di Radiouno e Radiodue
Radiouno e Radiodue sono cugini di secondo
grado, essendo le loro madri cugine di primo grado. In realtà
si chiamano entrambi Paolo e svolgono entrambi la medesima
attività.
"Sembrano fatti con lo stampino", dice la gente di
Bigliano.
In realtà, non svolgono nessuna attività
remunerata. Sono appassionati di calcio e soprattutto tifosi
del Bigliano. Passano le loro giornate da Ciaramella, dentro o
davanti al bar. Dipende dalle stagioni. Primavera ed estate
davanti al bar, inverno e autunno dentro. Non sono buoni
clienti come Ziza o come Pinuccio di Gina. Anzi, non si
possono neanche definire clienti. Parlano, leggono il giornale
e non consumano mai niente. Ogni tanto, Ciaramella li usa
come riempitivi per giocare a carte.
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"Mo' non ci cacci…eh?"
Il suo bar rappresenta un porto sicuro. Sembrano
giornalisti a caccia di indiscrezioni. Per questo a Bigliano li
chiamano Radiouno e Radiodue. Le mamme invece, sono
preoccupate.
Le due cugine di primo grado si ritrovano
entrambe nelle stesse condizioni. Non riescono a trovare
un'occupazione seria per i loro due figli. Totonno Tortoriello
aveva promesso, durante la campagna elettorale, che se ne
sarebbe occupato ma, ormai, erano trascorsi oltre due anni.
Eppure anche le due cugine di primo grado avevano votato
per lui.
"Se fosse esistita la Gazzetta di Bigliano, li avrei
impiegati nella redazione", disse Totono alle due cugine di
primo grado.
"E che significa? Dobbiamo aspettare che vi
inventate un giornale per fare lavorare queste due cape a
zapponi?"
Le loro mamme iniziavano ad essere stanche. Se la
situazione non si fosse sbloccata, Radiouno e Radiodue
sarebbero dovuti partire per il nord. L'alternativa prevedeva
che i due cugini di secondo grado avessero continuato a
pesare sul bilancio familiare. Questa seconda possibilità non
era praticabile per ragioni economiche.
"Noi teniamo anche altri figli. Mica ci sono solo
questi due. E poi…almeno ci fosse qualcuno che lavorasse
nella famiglia".
Radiouno e Radiodue sono i primogeniti di
famiglie, comprendenti altri tre figli ognuna. I padri di
entrambi ufficialmente non lavorano.
"Signore, lo sappiamo tutti in paese che lavorano in
nero e sul lavoro in nero non si pagano le tasse".
"E lo chiamate lavoro quello? Le giornate in
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campagne le chiamate lavoro?"
"E quello sempre lavoro è".
"Signor sindaco, non dite stronzate e datevi da fare
perché noi il voto ve lo abbiamo dato. Voi finora cosa ci
avete dato?"
Totonno era stato messo a parcheggio dalle due
cugine di primo grado e pur di non perdere gli elettori aveva
promesso, "da qualche parte li dobbiamo mettere".
"E fate di pressa allora. Il figlio di Carmelina a'
napoletana lavora da anni, ormai".
In realtà, Totonno non se ne era stato con le mani
in mano. Stava provando a piazzarli da qualche parte, ma il
fatto di doverli sistemare in coppia complicava le cose. Una
alla volta forse sarebbe anche stato possibile, ma chi dei due
avrebbe avuto la precedenza? Radiouno o Radiodue? Dare la
priorità all'uno o all'altro avrebbe potuto costituire un
problema nel breve periodo. Una delle due cugine di primo
grado si sarebbe sentita offesa e avrebbe potuto smettere di
sostenere il sindaco. Per il momento, Totonno non aveva
trovato una soluzione migliore, se non quella di tergiversare.
Far passare il tempo e sperare che la situazione si potesse
risolvere quasi per incanto.
"Passa iosc' che ven' crai" era uno dei proverbi che più
gli piacevano.
Era una sorta di tirare a campare che, purtroppo,
nel caso di Radiouno e Radiodue, non sembrava più bastare.
Radiouno era balzato agli onori della cronaca locale
per aver detto che Mariella la bella era stata avvistata a Roma
da un suo cugino.
Turtino ne era stato informato da Ciaramella
stesso.
"Secondo voci attendibili, Mariella sarebbe stata
vista a Roma", riferì al maresciallo.
62
Turtino continuò a sorseggiare il suo caffé ma, di
fronte alle insistenze di Ciaramella, non poté fare altro che
chiedere, "chi è che mette in giro certe voci?"
"Uno dei miei clienti", rispose Ciaramella, per
cospargere l'informazione di un'aurea di mistero.
"Chi dei due è stato? Radiouno o Radiodue?" Gli
aveva, invece, sbattuto in faccia i nomi, Turtino.
"'Sta notizia l'ha data Radiouno", confessò il
barista.
"Ma per carità…", aveva poi esclamato il
maresciallo Turtino.
Non aveva voluto dargli peso, ma nel frattempo
l'aveva riferita a Trapanese che, invece, l'aveva accolta con
attenzione. Turtino conosceva Radiouno e pensava che non
fosse attendibile, Trapanese, invece, non lo conosceva e disse
di voler verificare, nonostante Turtino avesse provato a
convincerlo del contrario.
"Maresciallo,
non
possiamo
assolutamente nulla. Se lo ricordi".
sottovalutare
Radiouno venne convocato per lo stesso giorno
degli interrogatori dei Di Cillio, degli zii di Mariella e di Paola
Urbano Tositto. Venne ascoltato dopo la deposizione
dell'avvocato Di Cillio e della zia di Mariella,. Era giunto in
caserma ben quindici minuti prima dell'orario stabilito. Si era
presentato al portone munito della sua lettera di
convocazione. Venne fatto entrare ed accomodare di fronte
all'ufficio del maresciallo Turtino.
Quando il maresciallo lo vide, gli disse, "guagliò, devi
imparà a tené la bocca chiusa. Vedi mò che gli devi di", riferendosi a
Trapanese.
Radiouno non disse nulla, perché il maresciallo gli
aveva parlato, uscendo ed entrando velocemente dalla sua
stanza. Se anche avesse voluto, non avrebbe avuto il tempo di
63
rispondere. Era visibilmente preoccupato. Era abituato a
vedere Turtino mentre se ne stava sdraiato in riva al lago. Con
la divisa e con i modi da maresciallo gli faceva un altro
effetto.
Attese quasi mezz'ora prima di entrare. Quindici
minuti perché era arrivato in anticipo ed altri quindici perché
la deposizione della zia di Mariella sforò i tempi previsti.
Entrò nell'ufficio di Turtino con circospezione, quasi come se
fosse entrato in una chiesa. Non fece il segno della croce, ma
ci andò molto vicino.
"Un attimo!" Gli disse il sostituto procuratore.
Radiouno ebbe allora il tempo di guardarsi intorno.
L'ufficio di Turtino era arredato in maniera alquanto spartana.
Una scrivania in legno, una sedia con le gambe di metallo, che
sembravano voler fuggire dai pesi che era costretta a
sostenere, una lampada sempre accesa. Notò i calendari che
stavano alle spalle del sostituto procuratore. Erano ben
quindici, ognuno sovrapposto all'altro. Radiouno li contò e li
ricontò varie volte, per essere sicuro di non sbagliare. Attratto
dalle penne che si trovavano sulla scrivania, le conto tutte. Ce
n'erano sei, quattro nere, una blu ed una rossa.
Le sue divagazioni vennero interrotte
Trapanese, che lo invitò a fornire le proprie generalità.
da
"Lei è stato convocato perché dice di avere notizie
su Mariella".
"Signor giudice, mio cugino dice di averla vista a
Roma, vicino piazza di Spagna, ma… sapete, mio cugino non
viene a Bigliano da tanto tempo e forse a Mariella non se la
ricorda bene", provò a spiegare Radiouno.
"Vabbé…dobbiamo mostrare una foto a questo
vostro cugino per vedere se corrisponde o meno".
"E come si fa?" Chiese Radiouno, "quello vive a
Roma. Chi gliela fa vedere questa foto?"
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"Ce ne occuperemo noi. Lei riferisca le generalità di
questo suo cugino. Potrebbe essere importante".
Radiouno riferì le generalità, come richiesto. A
Bigliano avevano sospettato della fondatezza delle
informazioni provenienti da Radiouno. Avevano anche
dubitato che avesse un cugino a Roma. Sembrava, invece,
sulla base delle informazioni fornite al giudice Trapanese, che
il cugino di Radiouno esistesse realmente.
La prima elezione di Totonno Tortoriello
Erano ormai trascorsi alcuni anni da quanto
Totonno era stato eletto sindaco per la prima volta. La
situazione sociale, politica ed economica dell'Italia, della
Lucania e di Bigliano erano cambiate profondamente. La
prima volta che Totonno fu eletto, l’Italia ancora non aveva
vinto il suo quarto campionato del mondo di calcio e Ziza
aveva ancora un lavoro. Erano tempi in cui Bigliano viveva in
differita. Quando le cose succedevano altrove, prima o poi
capitavano anche a Bigliano, ma in ritardo. Si applicava lo
stesso principio dei terremoti. Come le onde sismiche, i
cambiamenti si propagavano sfericamente a partire da un
ipocentro e poi si sprigionavano verso le aree perifiche.
Bigliano costituiva una delle aree più perifiche in assoluto. I
cambiamenti arrivavano con molto ritardo e, a volte, non
arrivavano del tutto. Si fermavano prima. Purtroppo, i tempi
stavano cambiando e i cambiamenti iniziavano a giungere in
diretta.
"Sarebbe stato meglio se Bigliano avesse
continuato a vivere solo di repliche, avrebbe continuato ad
essere quello che era", diceva Mimmo o' greco.
Totonno non la pensava così.
"Se fosse rimasta quella che era, io non avrei mai
potuto fare il sindaco".
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Invece, fu proprio grazie alle repliche che Totonno
riuscì a farsi eleggere sindaco. La sua famiglia non esercitava
alcun potere carismatico a Bigliano e la sua elezione non
sarebbe stata possibile, se il paese non avesse vissuto di
repliche. Il padre di Totonno faceva l'autista di autobus e si
occupava di tutela dei lavoratori. Era un sindacalista, anche
se, di fatto, non faceva parte di alcun sindacato. Era un uomo
all’antica. Ci teneva molto alla famiglia, all’amicizia, all’onore e
al decoro. Fu molto orgoglioso e felice per quel figlio riuscito
a salire in alto. La madre di Totonno era casalinga e
intelligente. Nonostante non avesse studiato, leggeva ogni
settimana Famiglia Cristiana.
L’elezione del socialista Totonno Tortoriello fu
sorprendente. Seppe sfruttare le repliche e, nel suo caso, la
scia del sessantotto, con diversi anni di ritardo. Nessuno dei
biglianesi avrebbe scommesso cinque lire sulla sua vittoria.
Dall’altra parte della barricata si candidava Gianni Calenda
che, oltre ad essere proprietario della farmacia del paese,
proveniva da una famiglia ben più potente di quella di
Totonno. Il padre di Gianni Calenda era farmacista e anche il
nonno, don Vito Calenda, era stato farmacista. L’attività di
farmacista si tramandava di padre in figlio, e i Calenda
avevano ormai accumulato il necessario potere carismatico,
per guidare il paese anche dal punto di vista amministrativo.
Inoltre, i Calenda avevano condotto un'appropriata politica
matrimoniale. Fin dai tempi di don Vito, il vincolo sacro del
matrimonio dei rampolli Calenda non era mai stato lasciato al
caso. All’inizio, se ne era occupato don Vito di selezionare le
donzelle, poi era toccato al figlio di don Vito, Sesto, padre di
Gianni, assicurare la difesa della razza Calenda. Il criterio su
cui si erano basati, prima don Vito e poi Sesto Calenda, era
stato rigidamente il censo. Per i Calenda contava davvero il
patrimonio e solo quello. Non aveva importanza come fosse
stato acquisito.
"Quello che conta è che sia consistente", diceva
Don Vito.
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L'altra famiglia importante per lignaggio di
Bigliano, Di Cillio, si ispira ad un atteggiamento
postmodernista, È per questo che Simone si é potuto
permettere una relazione con Mariella la bella.
"Ad un Calenda non sarebbe mai potuto capitare".
Non perché i Calenda non apprezzassero le belle
donne, quanto piuttosto perché le belle donne non andavano
apprezzate ufficialmente. I Calenda preferivano che le belle
donne avessero il ruolo di amanti.
"È sempre stato così. La storia e la tradizione lo
insegnano. Le belle donne, come qualsiasi bene, con il tempo
si deprezzano e perdono il valore più prezioso che hanno, la
bellezza. Vanno solo sfruttate nel loro momento migliore".
I Di Cillio, invece, ritenevano che fosse giunto il
momento di percorrere nuove strade. L'uguaglianza doveva
costituire un concetto non solo teorico, ma anche un modo di
essere. L'avvocato, per quanto si sforzasse, non riusciva a
mettere in pratica pienamente il concetto di uguaglianza. Si
contaminava entrando nel bar e bevendo la birra con Ziza,
ma poi si ripuliva mantenendo le distanze. Il suo era un
atteggiamento ambivalente, che nascondeva un complesso di
inferiorità latente. L'avvocato Di Cillio é basso di statura. Più
basso di Ziza che, a sua volta, é più basso della moglie.
Benché l'estrazione sociale lo protegga dalle facili ironie,
l'avvocato é consapevole del suo difetto. Pone una distanza
tra sé e gli altri per proteggersi. Simone, invece, non ha
bisogno di difese immunitarie. Lui non é basso. È di media
statura. Non ha tormenti psicologici come il fratello e può
permettersi di credere nell'uguaglianza.
Anche la storia con Mariella era stata ispirata dal
principio di uguaglianza. Mariella metteva sul piatto della
bilancia la bellezza in cambio del riscatto sociale. Inizialmente
era stato lui a cercarla, sucessivamente lei aveva mostrato una
gelosia sempre più forte. Paola Urbano Tositto, amica di
Mariella e, successivamente di Simone, avrebbe potuto
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raccontare diversi episodi in cui Mariella aveva dato libero
sfogo alla sua gelosia.
Il giorno in cui venne convocata da Trapanese,
Paola indossava un tailleur grigio. La gonna gli arrivava
leggermente sopra il ginocchio con uno spacco dietro, appena
accennato. Un foulard di seta le copriva il collo, scendendo
fino all'altezza delle scapole. Il tailleur le disegnava la figura,
lasciando intuire il piacere che avrebbe potuto produrre in un
uomo. Non attese molto di fronte all'ufficio in cui Trapanese
conduceva gli interrogatori. Fu il sostituto procuratore in
persona a chiederle di entrare, affacciandosi alla porta.
Vedendola, scosse leggermente il labbro sinistro e d'istinto
portò la mano destra sul nodo della cravatta, per stringerlo.
Fece una leggera torsione della testa prima verso destra, poi
verso sinistra, per favorire la stretta della cravatta. Trapanese
rimase sulla porta e lasciò entrare prima Paola. Le chiese di
accomodarsi, verificando che si trovasse a suo agio.
"Desidera un caffè o dell'acqua", le chiese con
gentilezza ostentata.
Avrebbe suscitato l'ira di un vecchio rabbino se
avesse potuto vederlo, per quanto melenso appariva il suo
gesto.
"Va bene un bicchiere di acqua", rispose Paola,
leggermente agitata.
Trapanese sorrise, fece portare un bicchiere di
acqua, che Paola bevve a metà. Turtino si trovava in piedi
vicino alla finestra. Aveva le mani in tasca e guardava fuori.
La finestra dava sulla strada che portava verso Montegiro.
Poteva osservare le macchine, che lentamente risalivano verso
il centro. Sullo sfondo, le montagne leggermente coperte di
neve.
Quando Paola iniziò a parlare di Mariella, il
maresciallo Turtino andò a sedersi sulla sedia, accanto a quella
dove si era seduta Paola.
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"Mariella non era più la stessa. Era una ragazza con
tanti problemi, a cominciare dalla madre morta, quando lei
era ancora una bambina, al padre alcolizzato. Pero è sempre
stata una ragazza forte. Era consapevole dei suoi mezzi,
sapeva di piacere agli uomini e voleva sfruttare le potenzialità
che aveva".
"Rientra in questo quadro che lei sta tracciando
anche la relazione con Simone Di Cillio?" Chiese Trapanese,
tentando di focolazzare l'attenzione sull'ultimo fidanzato di
Mariella.
"Con Simone era diventata una situazione difficile.
All'inizio le cose andavano molto bene, poi è successo
qualcosa. Lei era gelosissima di lui. Simone rappresentava
quello che Mariella cercava, il riscatto sociale. Costituiva per
lei la possibilità di diventare quella che avrebbe voluto e che
non aveva mai potuto essere. Quelle come Mariella devono
sempre pagare un prezzo per emergere".
"E quale sarebbe stato il prezzo, che Mariella
avrebbe dovuto pagare?" Chiese incuriosito il maresciallo
Turtino.
"Simone non è certamente un angelo. La tradiva.
Le voleva bene, ma la tradiva. Per questo Mariella era gelosa".
"Mariella lo sapeva?" Intervenne nuovamente
Turtino.
"Certo che lo sapeva. Simone non glielo aveva mai
confermato, ma lei lo immaginava. Spesso mi diceva che
avrebbe avuto voglia di lasciarlo. Poi, però, non riusciva a
farlo. Ultimamente sembrava decisa. Alcune settimane prima
della sua scomparsa, mi disse che non ce la faceva più ad
andare avanti con Simone".
"Tanto da sparire definitivamente?"
"No! Certo che no! Non si sarebbe certo tagliata le
vene per Simone. Era molto presa, ma lui ne aveva combinate
tante da provocarle quasi una crisi di rigetto. Capisce?"
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"Certo, certo", rispose Trapanese. Anche Turtino
fece un cenno di assenso con la testa.
Paola, intanto, proseguiva nel racconto, "non ci
vuole molto ad invertire odio e amore. Lo sa, giudice?"
"Intende dire che era stata Mariella a lasciare
Simone".
"Certo che era stata Mariella. Perché, le hanno
riferito una versione diversa? È stata Mariella! Non lo
sopportava più, ma non credo che sia fuggita per questo.
Se Mariella avesse scelto davvero di fuggire avrebbe
avuto ben altri motivi che la storia con Simone.
"Quali?" Chiese Trapanese con freddezza.
"Beh, il padre innazitutto. Come si fa a vivere in
casa con uno come quello. Un alcolizzato, un violento.
Pensate che sia stato facile per Mariella?"
"Crede che il padre la picchiasse ?" Domando
Trapanese.
Intervenne il maresciallo Turtino, "noi non
abbiamo mai ricevuto nessuna segnalazione in questo senso".
"Crede che lui la picchiasse?" Ripeté Trapanese,
incurante della precisazione fatta da Turtino.
"Sinceramente, non lo so. Mariella era molto
orgogliosa. Non avrebbe mai gettato fango sulla sua famiglia.
Era abituata a soffrire. Se davvero l'avesse piccchiata, non mi
meraviglierebbe che avesse sofferto in silenzio", rispose
Paola, accompagnando le parole con una forte gestualità.
"Non le ha mai visto dei segni strani sul corpo?"
"Una volta, o forse due, ma Mariella disse che
aveva battuto la testa involontariamente, aprendo una porta.
Lo disse ridendo. Disse anche che lei era una sbadata".
"Ritorniamo a Simone…", disse Trapanese, che nel
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frattempo si era alzato ed era andato verso la finestra. Aveva
ancora le spalle rivolte a Paola, quando le chiese di precisare
la reazione di Simone alla separazione voluta da Mariella.
"Simone ha sofferto molto e credo soffra tuttora.
Frequentava altre donne, ma non avrebbe mai potuto vivere
senza Mariella. Era dolce e gli voleva bene, al di là delle
maldicenze dei biglianesi".
"A quali maldicenze si riferisce?"
"Si diceva che Mariella stesse insieme a Simone
solo per una questione di soldi. In pratica, si diceva che lei
fosse interessata solo al suo patrimonio".
"E lei cosa pensa?"
"Che Mariella avrebbe potuto avere chiunque. Se
aveva scelto Simone era perché gli voleva davvero bene. Se
poi ha deciso di lasciarlo era solo perché non ce la faceva
davvero più".
Il sostituto procuratore ritenne che, per il
momento, poteva considerare sufficiente la deposizione di
Paola Urbano Tositto. Nel periodo in cui Mariella aveva
avuto una relazione con Simone, lei aveva frequentato Gianni
Calenda. Tra i Calenda e i Di Cillio era sempre esistita una
forte rivalità. Non si amavano ma si rispettavano. L'amicizia
tra Paola e Mariella le aveva messe in contatto. Era capitato,
infatti, che Gianni Calenda e Simone Di Cillio si fossero
ritrovati insieme a Paola e Mariella. L'amicizia non era durata
molto, perché la famiglia Calenda aveva scelto Camilla
Telesce, e non Paola, per la mano di Gianni.
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Il matrimonio di Gianni Calenda
Sesto Calenda chiuse gli occhi quando a Gianni,
suo figlio, venne proposta come coniuge, Camilla, la figlia di
Dantino Telesce.
Dantino era uno dei personaggi più chiacchierati a
Bigliano, oltre che tra i più ricchi. Naturalmente, come nel
caso dei Di Cillio, il patrimonio é considerato consistente
rispetto al reddito medio degli abitanti di Bigliano. Giacché i
Calenda usano come riferimento di base, il reddito medio dei
cittadini di Bigliano, considerarano il patrimonio di Dantino
sufficientemente alto affinchè la figlia potesse aspirare alla
mano di Gianni. Camilla ricevette quindi la benedizione dei
vecchi Calenda.
A Bigliano correva voce che il patrimonio di
Dantino era incrementato velocemente grazie ai prestiti ad
usura. Tuttavia questa circostanza non ha inficiato
minimamente sulla scelta dei Calenda. Il vecchio don Vito
non voleva che se ne parlasse.
Diceva "chi a rat’ a rat’, chi a avut' avut', scurdammec' o'
passat', simme e' napule paesà'".
Si faceva una risata e cambiava discorso. Ricordava
i tempi in cui aveva studiato a Napoli, alla facoltà di farmacia.
"A quei tempi, per arrivare a Napoli ci voleva un
giorno intero di viaggio e le strade non erano agevoli. La vita
era dura, non come quella di oggi".
Per lui, Gianni era un viziato. Per carità, un bravo
giovane, ma il ragazzo non aveva fatto i sacrifici che, invece,
avrebbe dovuto per apprezzare fino in fondo le cose che la
vita gli aveva dato. Eppure Gianni si era sempre comportato
da bravo ragazzo. Non aveva disobbedito al padre, che gli
aveva suggerito di studiare farmacia e di laurearsi in fretta.
Infatti, aveva studiato farmacia e si era laureato in fretta.
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"D’altro canto, come avrei potuto disobbedirgli.
Non mi è stato suggerito ma chiaramente intimato".
Con gentilezza, ma il padre gli aveva fatto capire
chiaramente che per lui non c'era alternativa.
"Questo è quello che passa il convento", gli aveva
detto il giorno in cui si erano seduti a tavola per discutere il
futuro.
Si era trattato di una resa senza condizioni. Sesto
aveva posto le condizioni, che il figlio non poteva fare altro
che accettare. Non esisteva alternativa e, seppure fosse
esisitita, avrebbe voluto dire rinunciare all'eredità dei Calenda.
"Dunque, fatti bene i calcoli non c'era alcuna
alternativa disponibile".
Gianni Calenda non ama fare polemiche. Non gli
interessano le proteste e, soprattutto, non protesta senza
ricevere nulla in cambio. La sua pigrizia e il suo
opportunismo aderiscono perfettamente al suo metro e
ottanta di statura. Nel suo caso, la statura é davvero metà del
suo fascino, perché l’altra metà sono soldi e prestigio
familiare. Non c'è nulla in quel metro e ottanta che possa
suscitare attrazzione. Il naso, grosso e sproporzionato, occupa
metà del suo viso. Lo ha ereditato dal padre, Sesto, che a sua
volta lo ha ereditato dal suo, don Vito. Sembra quasi uno
stemma di famiglia. La mandibola è moscia, quasi inesistente,
gli occhi spenti, banalmente castani. Ha una buona capacità di
analisi, ma gli manca del tutto la capacità di sintesi. I suoi
discorsi non finiscono mai e, soprattutto, é difficile seguirli
per intero. Le frasi si intrecciano, i pensieri si disperdono. A
volte proprio non si capisce dove voglia andare a parare.
La sua scarsa capacità di sintesi e l'eloquio
difficoltoso lo avevano penalizzato nella competizione
elettorale contro Totonno Tortoriello, che, invece, aveva
fatto, proprio della retorica la sua arma migliore. Ovviamente,
Gianni Calenda non aveva perso le elezioni solo per questo
motivo. Le ragioni principali erano legate al suo matrimonio
73
con la figlia di Dantino Telesce, ma se avesse avuto una
migliore capacità di sintesi, forse, qualche voto in più lo
avrebbe sicuramente racimolato. Dantino Telesce non era
stato mai inquisito, ma la diceria sulla sua attività di usuraio
sembrava corrispondesse al vero.
"I biglianesi non possono permettere ad un genero
di usuraio di diventare sindaco del paese e di prendere il
posto del dottor Laureto, prematuramente scomparso e
molto amato dai biglianesi", disse Giannino nel bar di
Ciaramella.
Ciaramella lo riprese prontamente.
"Te ne pentirai", gli disse.
"Manco per sogno", rispose Giannino, ignorando
che la sconfitta di Gianni avrebbe spianato il cammino a
Totonno, suo acerrimo nemico.
Sesto Calenda non digerì mai quella sconfitta. Ne
fece un fatto personale e tolse il saluto a tutti quelli che,
secondo lui, non avevano votato per il figlio, compreso
Giannino. Il risultato più eclatante di quella vicenda fu che
per molti biglianesi si aprì la prospettiva di dover acquistare le
medicine non più nella farmacia Calenda, ma in quella del
vicino paese di Montegiro.
Anche la famiglia Di Cillio aveva sostenuto
Totonno Tortoriello, ma lo aveva fatto sotto traccia. Sesto
Calenda venne informato delle manovre sotteraneanee
condotte dai Di Cillio, ma non poté far altro che ingoiare il
rospo. Alla fine della tornata elettorale non poté togliere il
saluto ai Di Cillio come in cuor suo avrebbe voluto. Dovette
fare buon viso a cattivo gioco. Continuò a salutare i Di Cillio,
ma giurò a se stesso che, prima o poi, gliela avrebbe fatta
pagare. Gianni, invece, non portò rancore a nessuno. In
fondo, non aveva molta voglia di fare il sindaco. Si era
candidato per far contento il padre ma, dal momento che
aveva perso, e non per colpa sua, ma della scelta che il padre
aveva fatto per lui, si sentiva come liberato.
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Gianni aveva perso ma Camilla aveva vinto. Aveva
superato la concorrenza agguerrita dell'amica di Mariella,
Paola Urbano Tositto alla mano di Gianni.
La candidatura di Paola era stata molto
competitiva, soprattutto, per via del doppio cognome. Gli
Urbano Tositto erano gli unici residenti nel comune di
Bigliano che potevano vantarlo. Il doppio cognome, oltre a
rappresentare un segno di nobiltà, sebbene acquisita, faceva
anche molto chic e la madre di Gianni Calenda, moglie di
Sesto, era considerata chic e affatto insensibile al fascino del
doppio cognome. Purtroppo per lei, il criterio su cui misurava
la candidatura di Paola non ammetteva deroghe. Era e
sarebbe rimasto il censo. E purtroppo per Paola, il
patrimonio dei Telesce, sebbene acquisito in maniera non
molto chiara, risultava più consistente di quello degli Urbano
Tositto.
Il padre di Paola era insegnante al Liceo scientifico
e la madre era maestra. Due entrate sicure che fino ad allora
avevano prodotto, oltre alla casa di proprietà, anche un
casolare in campagna con annessa vigna, due auto, una delle
quali di cilindrata considerevole e vacanza garantita ogni
estate. Non molto rispetto al patrimonio dei Telesce.
Paola è di una bellezza sofisticata, come solo le
donne di città sanno esprimere. Alterna con naturalezza le
giacche di pelle ecologica ai tailleur griffati. Sulla sua silhouette
gli abiti ricadono con leggerezza. Sembra avere una classe
innata, sintesi della cultura paterna di derivazione industriale e
della affabilità materma, di stampo meridionale. Camilla,
invece, esprime la bellezza tipica dei parvenus biglianesi. Veste
con gusto, ma con improvvise cadute di stile. Durante
l’ultima festa della Madonna, per esempio, indossava un paio
di scarpe rosse, che contrastavano con il verde smeraldo della
sua pochette di coccodrillo.
Per il matrimonio di Camilla, Dantino non badò a
spese. Era previsto che pagasse qualcosa in più dei Calenda,
in segno di ringraziamento e così avvenne. I soldi, del resto,
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non gli mancavano. Era una vera e propria macchina da soldi.
Costruiva palazzi, vendeva appartamenti, scambiava terre,
noleggiava e vendeva auto e investiva perfino in borsa.
Il matrimonio tra Gianni e Camilla sarebbe stato
considerato l'evento del decennio a Bigliano. Ben seicento
invitati, tra i quali, il presidente della regione che, però, inviò
un telegramma, essendo impegnato a Roma alla conferenza
stato-regioni; due avvocati del foro di Roma, amici personali
del padre di Gianni; il maresciallo Turtino della stazione dei
carabinieri di Bigliano; il maresciallo a riposo De Stefano, con
un trascorso importante in Sicilia; tutti i notabili del paese e
alcuni giovani laureati, amici di Camilla e Gianni. Il fiore
all'occhiello era rappresentato dal testimone dello sposo. Si
trattava niente poco di meno che del dottor De Cesare. I
biglianesi lo videro materializzarsi in periodo non elettorale.
Pur non essendo in campagna elettorale, riuscì
ugualmente a fare un discorso. Fece pubblicamente gli auguri
agli sposi, con relativo brindisi, prima che il pranzo iniziasse.
Fu una vera maledizione per gli altri invitati, che iniziavano ad
avere fame e che dovettero ascoltare De Cesare per oltre
venti minuti. Ziza, seduto al tavolo con la moglie, Zi'
Antonio, Mariella, Pinuccio di Gina e relativa consorte non
poté trattenersi dall'esclamare "sto' strunz'!".
De Cesare venne fatto accomodare al tavolo degli
sposi con la zia di Camilla, l'altra testimone. Strinse le mani a
tutti, soprattutto a quelli che non conosceva. Intanto, Sesto
Calenda faceva il galante con la moglie di Dantino Telesce,
mentre Dantino si guardava intorno e pensava che almeno la
metà degli invitati sarebbe potuta tranquillamente restare a
casa. Era convinto che non avrebbe regalato neanche i soldi
sufficienti per pagare il pranzo.
"…Ma che affare è questo?" Pensava.
Non voleva apparire tirchio e quindi sorrideva
anche lui.
L'idea di invitare oltre seicento persone era stata
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della mamma di Gianni. Poiché era chic, diceva che avrebbe
voluto un matrimonio chic, con tanti invitati all'altezza del
nome dei Calenda. Sia per Sesto che per Dantino, la firma
dell'atto di matrimonio rappresentò la firma di un contratto.
Costituì, infatti, la conclusione di un affare, dopo una
negoziazione impegnativa e dagli esiti per nulla scontati.
Sarebbe toccato a Gianni e Camilla far fruttare quell'affare a
dovere. I due padri non avevano fatto altro che porre le basi
per un luminoso e brillante avvenire. D’altro canto, c'era
anche la volontà di Dio da tenere in conto ma quella non
sarebbe stata contraria.
In questa visione del mondo e della religione,
Dantino Telesce e Sesto Calenda erano simili.
"Se il buon Dio ha assicurato la ricchezza, perché
non dovrebbe assicurare anche la felicità?"
La ricchezza era un segno di grazia e Camilla e
Gianni erano sotto il segno della grazia. Dantino e Sesto
avevano una visione calvinista della vita, ma non lo sapevano.
Loro erano cattolici e devoti della Madonna, come tutti i
biglianesi.
Ziza avrebbe preferito iniziare subito con un bel
piatto di firriciddi al ragù di carne, o meglio ancora di salsiccia.
Ma in quel matrimonio neanche a sentirne parlare di firriciddi
al ragù di carne o salsiccia. Era il piatto tipico di Bigliano e
piaceva alla gran parte dei biglianesi, ma purtroppo per Ziza
non era un piatto chic. E purtroppo per Ziza, la mamma di
Gianni Calenda era chic. Gli toccò mangiare insalata di polipo
all’aceto balsamico, risotto con gamberetti e punte di asparagi,
filetto di spigola in crosta di patate, cosciotto di vitello in
bellavista, bresaola carpacciata, servita con ricottine di miele
di castagne.
Totonno non apprezzò la scelta del dottor De
Cesare come testimone. Si trattava di un avversario politico,
che non pochi problemi gli aveva creato nel suo rapporto con
gli elettori. Tuttavia, lo salutò calorosamente, non appena lo
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vide materializzarsi in chiesa. Anzi, al ricevimento lo prese
sottobraccio e si intrattenne a parlare con lui. Alcuni invitati
rimasero spiazzati dalla mossa di Tortoriello. Nei giorni
precedenti non avevano fatto altro che spettegolare su come
avrebbe reagito Tortoriello quando si sarebbe trovato di
fronte De Cesare. Erano stati abituati ai lunghi confronti
elettorali. L'ultimo era rimasto scolpito nella memoria di
molti.
"Sei un bugiardo che mente sapendo di mentire.
Hai promesso che avresti fatto costruire la strada a
scorrimento veloce per collegare Bigliano a Montegiro e,
invece, a distanza di anni, ancora non si é visto un solo metro
di quella strada".
De Cesare raccontava un'altra storia.
"La colpa è tua, Tortorié, che non hai saputo
trovare le risorse finanziarie adeguate".
"Sei un bugiardo".
"E tu un politico fallito".
Il rimbalzo di accuse e scuse andava avanti da
tempo. Il risultato era che la strada, non solo non era stata
costruita, ma non era stata neanche appaltata.
"Considerando i tempi biblici di realizzazione dei
lavori in Lucania, vuol significare che i biglianesi viventi non
la percorreranno mai", sentenziò Mimmo o' greco.
I biglianesi erano abituati a questa realtà e non se la
prendevano più di tanto. Di tanto in tanto sbraitavano e
minacciavano fuoco e fiamme ma, poi, non davano nessun
seguito alle minacce. Votavano sempre per le stesse persone,
nonostante avessero più volte pensato, ma solo pensato, di
cambiare.
"Se solo un centesimo delle minacce di
cambiamento si realizzassero, Bigliano sarebbe terra di
rivoluzione permanente".
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Si stava solo un po’ peggio, ma le cose rimanevano
sempre identiche. I biglianesi digerivano il peggio senza
avvertire alcun dolore di stomaco. De Cesare e Tortoriello lo
sapevano bene e per questo non si scomponevano
minimamente quando venivano criticati. Sapevano che i
biglianesi erano cani, che abbaiavano soltanto. Nessuno di
loro mordeva realmente e non ci voleva molto per tappare
loro la bocca.
Tra le persone a cui andava tappata la bocca
c'erano le due cugine di primo grado, che presto avrebbero
iniziato a sparlare di Totonno, se da qualche parte non fosse
uscito il posto per i loro figli, Radiouno e Radiodue.
"Si tratta di una promessa elettorale e, come tale, va
onorata".
Invece, a distanza di due anni, Totonno sembrava
essersene dimenticato. In realtà, non se ne era dimenticato,
stava soltanto applicando la sua dottrina del tirare a campare.
Aveva il problema di sistemare i due ragazzi, ma si trattava
solo di una promessa elettorale e non di un imperativo
categorico. La promessa l’aveva fatta solo due anni prima e ne
mancavano ancora tre alla fine della legislatura e alle nuove
elezioni. C’erano, pertanto, ancora due anni e mezzo di
tempo per provare a sistemare la faccenda. Il timing di
Tortoriello non coincideva con quello delle cugine di primo
grado, ma questo era un problema per loro, non certo per lui.
A Totonno sarebbe bastato sistemare i due ragazzi sei mesi
prima delle elezioni.
"Meglio ancora se quattro o cinque mesi prima,
anche se poi andare sotto sotto le elezioni potrebbe essere
rischioso. Sei mesi, quindi, possono bastare".
Le due cugine di primo grado e le rispettive
famiglie non avrebbero potuto dimenticare perché la
sistemazione sarebbe stata ancora fresca. Nel frattempo, le
due cugine avrebbero sparlato.
“Ma chi se ne frega!” pensava Tortoriello,
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“problema loro, non mio”.
Non erano le sole persone che potevano sparlare di
lui. Totonno Tortoriello, in qualità di candidato a sindaco di
Bigliano, usava fare come minimo centocinquanta promesse
di assunzioni. Una decina le portava a termine subito, entro
tre mesi dall’insediamento perché si trattava di richieste fatte
da persone “a cui non si puo dire di no”. Altre venti o trenta
erano da realizzarsi entro due anni dall’insediamento, tanto
per portarsi avanti con il lavoro, mentre il resto delle
promesse, sarebbe stato da compiersi negli ultimi sei mesi,
per precisa strategia e calcolo politico.
Le due cugine di primo grado che seguivano con
attenzione l’evolversi delle assunzioni nel territorio di
Bigliano speravano che le candidature di Radiouno e
Radiodue potessero essere inserite nel secondo blocco.
Aspirare al primo sembrava davvero pretendere troppo, ma
rientrare nel secondo blocco era un’aspirazione che loro
consideravano del tutto legittima. Sapevano che nella
legislatura precedente, il figlio di Carmelina a’ napuletana era
stato assunto a soli due anni e diciotto giorni
dall’insediamento.
Carmelina ‘a napuletana godeva dello stesso
posizionamento delle cugine di primo grado nell’ambito della
stratificazione sociale biglianese. Pertanto, se il figlio di
Carmelina era stato assunto nei due anni, anche Radiouno e
Radiodue andavano assunti nei due anni. Andare oltre nel
tempo significava non solo un danno dal punto di vista
economico, ma anche un affronto dal punto di vista sociale.
“Che tene di speciale o’ figlio di Carmelina rispetto ai Paolo
nuosti”, avevano detto le due cugine di primo grado, un giorno
che erano andate personalmente a parlare con il sindaco nel
suo ufficio.
Totonno Tortoriello le aveva ascoltate e poi aveva
detto, “ma quello era uno solo e voi ne volete due, signore
mie care”.
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“E che differenza faci?” Gli avevano risposto in coro
le due cugine di primo grado.
“Faci’…Faci’…”, aveva detto a sua volta il sindaco,
senza fornire ulteriori spiegazioni, prima di chiudere il
discorso.
Alla fine, prima di congedarle, disse semplicemente
“mò vediamo”, che tradotto dal politichese di Bigliano, voleva
dire “niente da fare per ora, care cugine di primo grado,
mettetevi l’anima in pace”.
Radiouno e Radiodue notarono Totonno
passeggiare sottobraccio con il dottor De Cesare e corsero ad
avvisare le proprie madri, pensando che stesse esponendo il
loro caso al consigliere provinciale. Sapevano, infatti, che De
Cesare si era già adoperato per la sistemazione di Ziza. Le due
cugine di primo grado che, invece, avevano acquisito una
cultura della geografia politica locale molto più approfondita
rispetto ai loro figli, sapevano che non poteva essere
possibile, dato che De Cesare apparteneva al partito opposto
rispetto a quello di Totonno. Non diedero retta ai figli e
continuarono a rinfrescarsi.
Alla fine, Radiodue tirò un sospiro di sollievo.
Temeva che il posto promesso da Totonno potesse arrivare
in estate e non ne era entusiasta.
"Io ho voglio di lavorare ma a partire dal mese di
ottobre".
"E
perché
non
settembre?"
Aveva
chiesto
Radiouno.
"Perché a settembre c'è la festa della Madonna".
Radiodue e Radiouno non potevano conoscere i
piani di Totonno al loro riguardo. Non sospettavano che il
loro posto non facesse parte del secondo blocco di
assunzioni, ma del terzo. Di conseguenza, non solo
quell'estate, ma anche le altre due seguenti, sarebbero state
tranquille. Sarebbero potuti andare al bar di Ciaramella, bere
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la birra, nel caso ci fosse stato Ziza, leggere il giornale e
discutere della squadra del Bigliano. Lo avessero saputo, si
sarebbero messi l'anima in pace e si sarebbero goduti ancora
di più il pranzo di nozze. Rimaneva il rischio che le due
cugine di primo grado si fossero spazientite, facendoli
emigrare al nord, ma, d'altra parte, sarebbe stato un azzardo.
Esisteva la promessa di Totonno Tortoriello.
"Perché emigrare e non aspettare almeno la fine
della legislatura?"
Al limite dopo, ma solo dopo, se ne sarebbe potuto
riparlare. Radiouno e Radiodue si resero conto che non
valeva la pena continuare ad arrovellarsi il cervello. In fondo,
cinque anni di disoccupazione erano accettabili, tenendo
conto della media biglianese.
Quando giunsero gli sposi, tutti applaudirono e
sorrisero. Solo la moglie di Ziza rimase al tavolo, insofferente.
"Non mi piace niente di questo matrimonio".
Criticava tutto ma soprattutto il vestito di Camilla.
"Sembra una balena. A vì…moby dick…la balena
bianca", disse alla moglie di Pinuccio di Gina.
La sensazione era che la moglie di Pinuccio di Gina
non condividesse il giudizio dell'amica, ma non gli andava di
contrariarla. Lo sposo provò ad incrociare lo sguardo di 'A
bionda, ma lei evitò. Indossava un vestitino viola molto
stretto con un giacchino che gli stringeva la vita, ma che le
buttava fuori, inevitabilmente, il seno. E di seno 'A bionda ne
aveva davvero tanto. Generalmente non le piaceva molto
metterlo in mostra, ma quel giorno decise di vestirsi in
maniera provocante. Evitò di guardare Gianni, anche quando
gli sposi si avvicinarono nel consueto giro dei tavoli, per
salutare gli invitati.
Mariella era al tavolo con i parenti. Venne salutata
quasi con devozione dal dottor De Cesare e gli zii notarono
l'atteggiamento viscido del lusingatore di professione.
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"Che vuole quello?"
"E che ne so", rispose in maniera intrigante.
Quel giorno non rivolse neanche uno sguardo a
Simone. Accettò, invece, di buon grado i complimenti di De
Cesare.
Dava l’impressione di voler innescare quel gioco
tipicamente femminile di rancore e gelosia, che si nasconde
dietro la fine di una relazione. In pratica, sembrava che fosse
stato lui a lasciarla e non viceversa, come, invece, la sua amica
Paola aveva riferito a Trapanese.
Il sostituto procuratore voleva vederci chiaro per
capire se dietro quella fine si potesse nascondere un movente.
Il secondo interrogatorio di Simone Di Cillio
Trapanese convocò nuovamente Simone Di Cillio.
Quando il giovane giunse nell'ufficio del maresciallo Turtino,
dove normalmente si svolgevano gli interrogatori, il sostituto
procuratore si trovava in piedi davanti alla scrivania. Era
vestito con il solito gilet scollato, indossato sotto la giacca.
Aveva le mani appoggiate alla scrivania e il busto leggermente
reclinato indietro. Simone prese posto sulla stessa sedia che
aveva occupato la volta precedente.
"Abbiamo letto e riletto le sue deposizioni
precedenti ed nostro avviso che restano alcuni elementi da
chiarire. Abbiamo ragione di credere che lei ci stia
nascondendo qualcosa o non ci stia raccontando tutta la
verità" disse Trapanese col tono di chi non intendeva farsi
prendere per il culo da un giovanotto di buona famiglia.
Era la prima volta che Trapanese afffrontava di
petto uno dei suoi interlocutori, nella vicenda della scomparsa
di Mariella la bella. Finora era stato piuttosto gentile con tutti.
Aveva giocato sulla strategia della collaborazione spontanea,
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ma non era riuscito a cavare un ragno dal buco. Al contrario,
la matassa non solo non era stata sciolta, ma appariva
ulteriormente intricata. Non era riuscito neanche a farsi
un'idea completa di Mariella. Era stata descritta in molteplici
modi.
"Una poco di buono", aveva detto l'avvocato Di
Cillio.
"Una brava ragazza", aveva sostenuto l'amica Paola
Urbano Tositto.
Trapanese riteneva tutte le ipotesi plausibili.
"L'unico in grado di poter fornire elementi
interessanti sembra Simone Di Cillio. Ha detto troppo poco
rispetto a quello che potrebbe sapere”.
Era giunto il momento di far luce sulla rottura con
Mariella, che poteva celare un possibile movente.
“Abbiamo riscontrato delle incongruenze tra
quanto detto da lei e quanto sostenuto da altri testimoni. Qui
c’è di mezzo la scomparsa di una giovane donna. Capisce, Di
Cillio? Ritengo che sia nell’interesse di tutti ritrovarla al più
presto e non perdere altro tempo. Dobbiamo agire con
celerità, prima che possa essere troppo tardi”.
"Senta giudice, Mariella aveva un problema molto
grave a casa sua. Non mi meraviglierebbe che fosse fuggita.
Non è facile vivere con un padre alcolizzato. A me diceva che
sarebbe voluta volare via per disperdersi nell'aria. Mi faceva
paura quando diceva che il suo desiderio sarebbe stato quello
di far evaporare le sue cellule. Diceva che erano state incollate
male. Sapeva di soffrire e non avrebbe più voluto soffrire".
"Questa è filosofia, signor Di Cillio…Filosofia!
Risponda, perché è finita la storia tra lei e Mariella?
“Signor giudice, le posso assicurare che, a dispetto
delle chiacchiere di paese, io volevo bene a Mariella. È stata
l’unica donna che ho realmente amato”.
84
“Va bene, ma non ha risposto alla mia domanda.
Sarò ulteriormente chiaro. Perché Mariella l’ha lasciato?”
“Non è stato lei a lasciarmi, ma io a lasciare a lei”
“Altri testimoni, vicini a Mariella, sostengono il
contrario. Perché dovrei credere a lei?”
“Perché le sto raccontando la verità. Mariella era
troppo gelosa e la sua gelosia mi stava soffocando. Le volevo
bene ma iniziavo a sentirmi in una gabbia”.
“È sicuro di quello che dice?”
“Ne sono sicurissimo. Scusi, se mi pemetto, ma
perché è così importante sapere se sono stato io a lasciare lei
o viceversa?”
“Perché lei, signor Di Cillio, è il solo che finora
potrebbe avere un movente”.
Simone ebbe un attimo di perplessità. Come gli
capitava nei momenti di panico, iniziò a girarsi e rigirarsi sulla
sedia. Non c’era il maresciallo Turtino a confortarlo con lo
sguardo. Trapanese lo incalzava, non dandogli tregua.
“Quando l'ha vista l'ultima volta?"
"L'ultima volta che l'ho vista o che ci ho parlato?"
"Diciamo l'ultima volta che l'ha vista e che ci ha
parlato".
"Lo ricordo perfettamente", esclamò Simone Di
Cillio, "l'ultima volta è stato al matrimonio di Gianni Calenda
con Camilla Telesce".
"Vi siete parlati?" Chiese Trapanese.
"No, non ci siamo detti niente. Da quel giorno non
l'ho più vista".
"Ne è sicuro?"
“Ne sono certo", rispose Simone, accavalando le
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gambe l'una sull'altra.
"E la sera della scomparsa lei è sicuro di essere
stato nel suo agriturismo, come in precedenza dichiarato?"
"Assolutamente si"
"Suo fratello dice di aver provato a telefonarla e di
non essere riuscito a raggiungerla"
"Può essere. Non sempre sento il telefono
squillare. A volte sono in giro per l’agriturismo e non lo
sento, a volte non rispondo. Sono fatto così, sono un po'
pigro. Non glielo ha detto mio fratello?"
"Si, ce lo ha detto. Intanto lei dice di essere stato
nel suo agriturismo. L'ha vista qualcuno?"
"Mi lasci pensare…No, non credo…Purtroppo no.
Io la sera resto da solo nel mio agriturismo. Purtroppo, non
ho molti clienti. Anzi, diciamo pure che non ne ho quasi per
niente. Capita in estate di avere clienti ma d'inverno, tranne
nel periodo natalizio, non ci sono molti clienti", precisò, a
malincuore, Simone.
"Quindi non c'è nessuno che potrebbe dire di
averla vista la sera della scomparsa di Mariella?"
"Forse qualcuno deve esserci stato. Ora non saprei,
mi prende alla sprovvista. Ci devo pensare".
“Magari il personale di servizio?"
“Eh, no. Il personale lo prendo solo quando ho
clienti. Se non ne ho, non prendo nessuno. Non mi conviene.
Dovrei pagarli per tenerli senza lavorare. In realtà, c’è una
signora che viene un giorno alla settimana a fare le pulizie”.
Trapanese decise allora di rompere gli indugi.
"Senta, lei non riesce a dimostrare di essere stato
nel suo agriturismo la sera della scomparsa di Mariella. Io
credo che lei sappia molto più di quello che lascia intendere.
Si consideri, pertanto, formalmente indagato, per ora solo per
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falsa testimonianza. In seguito, vedremo".
"Sta scherzando?"
"Non scherzo, Di Cillio".
"Ma io che c'entro?"
"Per quanto ne so Mariella potrebbe essere stata
uccisa o rapita. Potrebbe essere successo di tutto. Non
escludo nessuna ipotesi. Francamente, al momento, lei è
l’unico che non ha un alibi ed ha un movente".
“E quale sarebbe la mia falsa testimonianza?”
“Credo che lei sappia molto più di quello che lascia
intendere. Non credo abbia detto tutta la verità. Si tratta di un
reato, Di Cillio”.
“Non ci posso credere. Non capisco perché lei
debba supporre che io ne possa sapere più di altre persone. È
stata la mia fidanzata, io sono stato il suo ultimo ragazzo ma
non credo che questo debba essere considerato una colpa, nel
caso una persona decida di sparire”.
“Di Cillio, lei è l’unico che avrebbe un movente e
non ha un alibi”.
“Mariella è scomparsa, non mi sembra che sia stata
uccisa. Perché insiste sulla questione dell’alibi e del movente?”
“Per questo, mi limito ad indagarla per falsa
testimonianza. Ci fosse stato un cadavere, in queste
condizioni, l’avrei già indagata per omicidio. Avrebbe potuto
giurarci”.
“Io non avrei mai potuto torcere un capello a
Mariella. Se fosse venuta da me, avrei potuto dargli una
mano”, disse Simone con lo sguardo triste e la voce rotta
dall’emozione.
Neanche un criminologo di esperienza avrebbe
potuto capire se l’emozione fosse dovuta all’affetto che
ancora nutriva per Mariella o per la situazione in cui si
87
trovava.
A Simone vennero forniti una serie di dettagli sulla
sua nuova posizione di indagato. La notizia fece subito il giro
del paese.
In realtà, neanche Trapanese era convinto della
responsabilità di Simone, ma da qualche parte doveva
cominciare. La pista più plausibile era quella che portava a lui.
Nessuno lo aveva visto la sera in cui Mariella era scomparsa e
anche i rapporti tra lui e Mariella non erano chiari. Non si
capiva per quale ragione i due si fossero lasciati e chi avesse
preso l’iniziativa. In ogni caso, Trapanese riteneva che
Simone non avesse molto gradito la rottura.
“Passa iosc’ che ven’ crai”, avrebbe detto Totonno
Tortoriello, che aveva fatto del tirare a campare una dottrina.
Trapanese, invece, non poteva permetterselo. Non poteva
aspettare domani per indicare una pista. Il procuratore di
Potenza era stato fin troppo esplicito con lui. Avrebbe
dovuto quantomeno indicare un percorso da seguire,
mettendo insieme un quadro probatorio attendibile.
Totonno, che aveva ricevuto il supporto dei Di
Cillio alle elezioni, non prese bene il fatto che Simone fosse
indagato. Si presentò in caserma per salutare il maresciallo
Turtino e, al tempo stesso, chiedere informazioni sullo stato
delle indagini.
“Maresciallo, stiamo facendo progressi?”
“Speriamo, sindaco, speriamo…”, rispose Turtino
che si trovava nell’ingresso dove stava innaffiando i suoi
bonsai.
“Io da sindaco mi preoccupo per la mia comunità.
Non facciamo bella figura se la tiriamo troppo per le lunghe”.
“Stiamo cercando di fare il possibile per arrivare ad
una soluzione”.
“Facciamo attenzione a non dare una cattiva
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immagine di Bigliano”.
“Pensiamo a ritrovare Mariella”, disse
maresciallo, continuando ad innaffiare i suoi bonsai.
il
Totonno fece un cenno di assenso, divergendo il
discorso verso le piante che si trovavano nell’ingresso.
“Li curi bene, maresciallo. I bonsai meritano cura e
rispetto. Sono piante importanti”, disse….
La relazione clandestina di ‘A bionda
Il giorno del matrimonio di Gianni Calenda con
Camilla Telesce, ‘A bionda si avvicinò per felicitarsi una sola
volta, mostrando un sorriso di circostanza. Per il resto della
giornata, evitò di guardare gli sposi.
In paese girava voce su una presunta relazione
clandestina della moglie di Ziza. Le malelingue dicevano che
lei era "troppo" per lui. Gli uomini dicevano che era "troppo
bona", le donne che era “troppo buona". Era vero sia l'una
che l'altra cosa. ‘A bionda era una bella donna ma era anche
una buona moglie, se non altro perché era lei che portava i
soldi a casa.
"Non si riesce proprio a capire perché abbia
sposato quello sciagurato di Ziza che, oltre a giocare bene al
pallone, non sa fare altro che bere la birra da Ciaramella",
dicevano i biglianesi.
Eppure era stato un vero matrimonio d'amore. Si
erano conosciuti da ragazzi e si erano sposati molto giovani.
Niente a che vedere con il matrimonio di Gianni
Calenda e Camilla Telesce che, invece, era stato deciso e
concordato dalle rispettive famiglie, fin nei minimi particolari.
L’accordo prevedeva che la famiglia Calenda pagasse
l’addobbo floreale in chiesa, le bomboniere e il viaggio di
89
nozze, mentre alla famiglia Telesce spettava il pranzo nuziale
e il mobilio. I costi per l’intrattenimento musicale e le
fotografie venivano divisi a metà.
Non si poteva dire che Gianni non volesse bene a
Camilla ma non era stato di certo un colpo di fulmine. A dir il
vero, Gianni aveva un debole per Paola Urbano Tositto e non
gli sarebbe dispiaciuto sposarla. Il potere decisionale, tuttavia,
non spettava a lui, ma alla linea familiare ascendente maschile.
Non aveva potuto fare altro che accettare le decisioni e
imparare a volere bene a Camilla.
Gianni, tuttavia, non rimase per niente indifferente
al fascino femminile. Era fuori discussione che potesse legarsi
permanentemente alla persona non giusta ma le avventure
fuori del matrimonio erano consentite. Dovevano essere
portate avanti, tenendo conto delle regole stabilite dal codice
di comportamento sociale biglianese. Tutto si doveva
svolgere con discrezione, non se ne doveva parlare con
nessuno, neanche in casa. Nulla doveva apparire. Sarebbe
rimasto un piacere della carne e nulla di più. Qualcuno
avrebbe anche potuto spettegolare ma bisognava negare,
sempre, anche l'evidenza. Le amanti erano ammesse a casa
Calenda ma solo con un ruolo preciso. Sia Sesto che don Vito
ne avevano avute diverse, ma il vincolo del matrimonio e del
patrimonio rimaneva sacro e indissolubile.
Gianni era molto attratto da ‘A bionda. Anche lui
pensava che fosse troppo per Ziza e che quella donna
meritasse di esser condivisa.
"Ziza l'ha avuta per sé per tutto il periodo
dell’adolescenza e per una buona parte della giovinezza.
Insomma, ha avuto gli anni migliori".
A Gianni sembrava davvero troppo, specie se
messo in relazione con quello che Ziza era stato capace di
offrirle.
'A bionda e Gianni si conoscevano da tempo,
anche se non esisteva una vera e propria amicizia. Si
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conoscevano perché ‘A bionda, tra i tanti lavori che aveva
fatto prima di essere assunta al comune, come assistente di
fascia B, era stata anche a casa Calenda. Aiutava la zia, che
lavorava e viveva dai Calenda. Zia Albertina aveva il compito
di tenere in ordine la casa, di preparare il pranzo e di fare
compagnia a don Vito, che, ormai, da tempo, non usciva di
casa e passava tutto il tempo incollato alla poltrona a leggere il
giornale. Aveva raggiunto un’età ragguardevole e le sue
condizioni di salute non gli permettevano più di essere
completamente autonomo.
‘A Bionda andava a casa Calenda, quando c'erano
ospiti e si doveva preparare il pranzo. Donna Luisella, la
moglie di don Vito, era rimasta molto legata alla tradizione e
concepiva il pranzo con gli ospiti come un evento per
mostrare il meglio delle possibilità dei Calenda.
"Il pranzo deve essere servito nel salone,
utilizzando l’argenteria e i bicchieri di cristallo. Va articolato
in diverse portate e deve comprendere obbligatoriamente
almeno due primi e due secondi".
Il diverso prestigio degli ospiti influenzava solo in
minima parte le scelte di Donna Luisella, che ci teneva a far
bella figura a prescindere da chi siano i suoi ospiti.
La zia Albertina non si era mai sposata e non aveva
nessuno che le potesse stare accanto. La nipote corrispondeva
alla figlia che non aveva mai avuto. In realtà, dire che non ci
sia stato proprio nessuno non é corretto. C’era don Vito,
quando erano giovani.
Zia Albertina era stata, infatti, l'amante ufficiale di
don Vito Calenda. Ai tempi, l'aveva presa in casa a lavorare e
l’aveva trattata come una persona di famiglia. Ovviamente, in
pubblico ognuno al proprio posto, ma in privato pare che zia
Albertina fosse trattata davvero amorevolmente. Anche
donna Luisella voleva bene ad Albertina. Sapeva benissimo
che il marito aveva una relazione con lei, ma non era affatto
gelosa. Donna Luisella non aveva sposato don Vito per
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amore. Era stato un matrimonio di interessi. Si rispettavano e,
a modo loro, si volevano bene ma non c'era gelosia. Era un
altro mondo dove si rispettavano regole non scritte. Nessuno
doveva dare l'impressione di portare le corna con
consapevolezza e donna Luisella rispettava le apparenze.
Don Vito, era un uomo d'altri tempi. Un vero
galantuomo. Non faceva mancare nulla né alla moglie, né
all'amante ma pretendeva fedeltà da entrambe. Forse, proprio
per questo motivo Albertina aveva deciso di non sposarsi.
Forse era stata una scelta di vita o magari non le era capitato
di incontrare un uomo che l’avesse voluta sposare.
"In questa casa sto bene. Ho tutto quello che potrei
desiderare".
Si sentiva rispettata e apprezzata.
‘A bionda non conosceva con precisione quale tipo
di relazione avesse legato la zia Albertina e don Vito.
Aveva sentito delle voci, ma nessuno in famiglia ne
aveva mai parlato apertamente. Quando vedeva il vecchio
don Vito e sua zia, ormai anche lei avanti con gli anni, non
riusciva proprio ad immaginare che un legame avesse potuto
unire quei due.
"Chiacchiere di paese", ripeteva a se stessa.
Di certo non avrebbe mai immaginato che un
giorno anche lei sarebbe stata legata ad un membro della
famiglia Calenda, come era accaduto a sua zia anni addietro.
I tempi erano cambiati ma non del tutto.
"Io ho diritto ad avere una famiglia e dei figli miei".
Sebbene la condizione della nipote non poteva
paragonarsi a quello della zia Albertina, per ragioni diverse ‘a
bionda’ si sarebbe trovata in uno stato simile.
La prima volta di Gianni Calenda e ‘A bionda
insieme avvenne in modo molto romantico. Nulla a che
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vedere con quello che era stato l'approccio di don Vito verso
zia Albertina. Don Vito l'aveva presa un giorno in cucina,
mentre in casa non c'era nessuno, e l'aveva penetrata da
dietro, sollevandole la gonna. Lei aveva provato a divincolarsi,
ma non c'era riuscita. Aveva provato dolore, giacché era
ancora vergine. Era stata male all’inizio per la violenza subita
ma, in seguito, don Vito era stato premuroso con lei. Le
aveva sorriso e le aveva detto che, se avesse voluto, lui si
sarebbe potuto prendere cura di lei. Albertina non aveva
molta scelta. Sapeva che non sarebbe cambiato nulla andando
via. Avrebbe cambiato solo padrone o addirittura un padrone
peggiore. Don Vito era stato di parola, l’aveva trattata con
riguardo e non le aveva fatto mancare nulla.
Gianni invece, aveva raccolto una bellissima rosa nel
giardino di casa e la aveva offerta alla bionda che quel
giorno era andata ad aiutare la zia Albertina. A bionda fu
sorpresa da quel gesto inaspettato.
"’Sta rosa è come te", le disse Gianni, porgendogliela.
‘A bionda arrossì di colpo, senza riuscire a parlare
neanche per ringraziarlo, tanto forte era l'emozione. Quel
giorno non si dissero nient’altro. Fu la volta successiva che ‘A
bionda andò a casa dei Calenda che i due si diedero un bacio
lungo, nel giardino.
Fecero l'amore per la prima volta il giorno della
festa della Madonna di Bigliano.
Quel giorno c'era tanta confusione in paese. Tutti a
casa Calenda erano andati in chiesa, tranne don Vito, che non
poteva muoversi. Con la sedia a rotelle si era portato sul
terrazzo da dove poteva seguire la processione.
‘A bionda aveva detto a Ziza che sarebbe uscita
con la moglie di Pinuccio di Gina. Ziza, invece, se ne era
andato da Ciaramella e, nonostante la confusione, era riuscito
ad afferrare una birra. Aveva appuntamento con Giannino. In
seguito, sarebbero andati insieme in processione a portare la
statua. Si sarebbero incontrati in chiesa intorno a
93
mezzogiorno e mezza.
Gianni e ‘A bionda, invece, si erano dati
appuntamento alle undici a casa Calenda. Nel caso in cui
qualcuno l'avesse vista entrare, nonostante la confusione,
avrebbe detto che stava andando dai Calenda per aiutare la zia
Albertina a preparare il pranzo. Gianni aveva appuntamento
con Camilla, a mezzogiorno e trequarti. Avevano quasi un'ora
e mezzo di tempo a disposizione.
Alle undici in punto, ‘A bionda suonò il
campanello di casa Calenda. Gianni andò ad aprire il portone,
facendo attenzione a non farsi vedere da nessuno. ‘A bionda
si guardò a destra, poi a sinistra ed entrò in casa. Lo fece con
naturalezza, per evitare che qualcuno potesse sospettare. Chi
avrebbe potuto immaginare che stava tradendo Ziza?
‘A bionda non si sentiva in colpa.
"Ho già dato troppo a quello sciagurato".
Pensava che fosse giunto il momento di prendere
qualcosa per lei. Certamente non avrebbe tradito Ziza con il
primo che capitava, ma con uno come Gianni Calenda si che
ne valeva la pena.
L’idea di essere corteggiata e amata da un uomo la faceva
sentire soddisfatta dal punto di vista sociale più che fisico.
Essere la donna di un uomo che apparteneva ai gradini più
alti della scala sociale della comunità di Bigliano la faceva
sentire libera dalle frustrazioni che la vita coniugale con Ziza
le imponeva e faceva aumentare la sua autostima.
"Gianni vale cento volte più di Ziza".
Il rampollo di casa Calenda aveva scelto lei per fare
l'amore. Era consapevole di essere una bella donna ma non
immaginava di avere estimatori anche nella Bigliano bene.
Gianni non perse tempo. Le diede un bacio
tenerissimo e poi sempre più passionale. Non riusci a resistere
di fronte ad un seno così prosperoso che finalmente poteva
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toccare e avere per se. Era il sogno erotico della sua vita che
si stava per realizzare. Continuo a baciarla e inizio a spogliarla
portandola nella sua stanza da letto. Avrebbe avuto voglia di
sbattersela con forza ma ebbe timore che lei si sarebbe
ribellata e se ne sarebbe andata via mettendo fine al suo
sogno erotico. Cerco di controllarsi e di essere quanto più
tenero possibile. La fece distendere sul letto, la accarezzò, la
baciò e le aprì con dolcezza la camicia di seta bianca, che ‘A
bionda aveva indossato in occasione della festa. Il seno
voluminoso, a malapena trattenuto dal reggiseno di pizzo, che
aveva comprato la sera prima, apposta per Gianni, venne
fuori.
Gianni lo guardò con voluttà. Lasciò scivolare le
mani sul corpo della donna che fu scosso da un fremito.
Cercava di controllarsi e di fare dolcemente ma in realtà non
riusciva a resistere, aveva bisogno di avere quella donna. Si
unirono con fremito e leggerezza. Poi entrambi si rivestirono.
‘A bionda prese le sue cose e andò via. Gianni indossò un bel
vestito grigio con camicia bianca e cravatta a strisce diagonali
azzurre e grigie. Uscì di casa esattamente un quarto d’ora
dopo ‘A bionda. Prima di uscire, salutò il nonno e si
incamminò verso la chiesa per raggiungere Camilla che,
intanto, lo stava aspettando. Giunto anch’egli puntuale, salutò
Camilla con un bacio affettuoso. Lei lo prese sottobraccio ed
entrarono in chiesa.
Il funerale di don Vito Calenda
Qualche tempo dopo la festa della Madonna di
Bigliano, le condizioni di don Vito si aggravarono. Aveva
quasi ottanta anni e, ormai da quasi dieci, era sofferente, in
seguito ad un ictus, che lo aveva colto mentre si trovava al
circolo con gli amici. Si era ripreso, ma da allora, don Vito
non era più stato l'uomo arzillo di sempre. Non usciva più, se
non per brevi passeggiate con la sedia a rotelle e solo in
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primavera. D'inverno faceva troppo freddo e d'estate troppo
caldo. L'ictus gli aveva parzialmente bloccato le articolazioni.
Fortunatamente non aveva perso la parola e la sua lucidità era
rimasta intatta, salvo ovviamente certe sfasature dovute all'età.
Quando gli arrivò l'ictus, stava giocando a carte nel
circolo, una mano di scopone con il dottor D'Eugenio, il
maresciallo a riposo De Stefano e il ragioniere del comune La
Spina.
Aveva preso il caffè con il dottor D'Eugenio,
medico ormai in pensione che aveva consigliato a Don Vito
di riposarsi e magari di farsi controllare.
Fecero una mano di briscola quando
all'improvviso, don Vito perse i sensi e si accasciò sul tavolo.
La sua fortuna, come dicevano tutti, fu di trovarsi insieme a
D'Eugenio, che lo soccorse. Ne seguì una lunga
ospitalizzazione e una fase di recupero, ancora più lunga.
L'età avanzata complicò il recupero, ma la tempra forte lo
aiutò a riprendersi. Don Vito impiegò un po' di tempo per
abituarsi alla nuova condizione di perenne convalescente, ma
dovette accettare la nuova situazione. Le cose andarono
avanti in quel modo per quasi dieci anni. Albertina si
occupava di lui. Spingeva la sedia a rotelle quando uscivano a
fare le passeggiate, gli preparava il pranzo, lo aiutava a
mettersi a letto.
Le sue condizioni iniziarono a peggiorare dopo la
festa dell’Immacolata finchè non si spense dopo qualche
settimana, come una candela.
Don Vito aveva avuto quattro figli maschi e due
femmine. Sesto, il padre di Gianni, era l’ultimo, il sesto
appunto e per questo portava quel nome particolare. Dei suoi
fratelli, solo tre erano ancora in vita, un fratello e due sorelle.
Gli altri due erano morti subito dopo la nascita, ma don Vito
li contava, com'era giusto che fosse, ugualmente. A dividersi
l'eredità di don Vito erano dunque in quattro. Giuseppe
Calenda, giudice presso la corte d'appello di Napoli,
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Francesca, maestra elementare a Potenza, Italia, vedova del
colonnello Terzillo che viveva a Gioia del Colle e Sesto,
l’unico che viveva a Bigliano.
La camera ardente venne allestita nello splendido
salone al piano terra dove accorsero quasi tutti i biglianesi a
dargli l’ultimo saluto.
Al funerale, celebrato il giorno successivo,
partecipò molta gente e non solo biglianesi ma venuti da tutta
la Valle. Il sindaco Totonno Tortoriello volle pubblicamente
onorare la figura di don Vito.
"Bigliano perde un pezzo della sua storia, la
famiglia perde un padre e marito amorevole, gli amici
perdono un galantuomo".
In quell’occasione si materializzo all’improvviso il
dottor De Cesare, che trovò il modo di fare un discorso,
seppur breve perfino al funerale, suscitando il commento di
Ziza "sto' strunz! Pure qua è venuto a rompere i coglioni!"
‘A bionda, si vergognò nell’udire il commento del
marito ma gli altri biglianesi erano dalla parte di Ziza: "ha fatto
buono…è proprio 'nu strunz”.
Usciti dalla chiesa, tutti si disposero dietro il carro
funebre che iniziò lentamente a procedere lentamente in
direzione del cimitero. Tutte le porte dei bar e degli
esercizi commerciali vennero socchiuse in segno di
rispetto. Il corteo funebre si fermò per circa un minuto,
quando giunse nei pressi di casa Calenda, la dimora di
don Vito. Poi proseguì mestamente.
In realtà, c'era un'atmosfera di mestizia solo nelle
prime fila. Al di là della quinta fila, la gente appariva meno
triste e, man mano, che si andava verso le retrovie, i
partecipanti apparivano più distratti e parlavano del più e del
meno. Il dottor De Cesare approfitto della triste circostanza
che aveva colpito la famiglia Calenda per salutare i suoi
elettori e stringere qualche mano. Poi si affiancò a Totonno
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Tortoriello e prendendolo gli disse
"Totonno, 'sta storia della scomparsa di Mariella la
bella sta arrecando danno non solo a Bigliano, ma all'intera
provincia"
"E che ci posso fare io?" rispose Tortoriello, "non
posso mica andarla a cercare io".
"Appunto! Non ci puoi andare tu e non ci posso andare
io. Se la signorina ha deciso di andarsene, perché
dobbiamo occuparcene noi, come comunità intendo".
"De Cesare, che ti posso dire? Che possiamo farci?
Posso darti una mano, lo faccio volentieri".
"I carabinieri e i giudici dovrebbero chiudere in
fretta la faccenda e pensare più alla comunità. Se una persona
decide di andare via di casa è libera di farlo. Capisci che
voglio dire?"
Mentre De Cesare parlava, si fermava e si girava,
puntando lo sguardo verso Totonno. Accompagnava le
parole con gesti vistosi e, terminava le frasi, appoggiando la
mano sulla spalla di Totonno.
La comunicazione non verbale biglianese era molto
eloquente. Voleva dire che De Cesare si attendeva un segno
di solidarietà da parte del sindaco. Totonno che non aveva
compreso fino in fondo la faccenda, si rese conto che De
Cesare non gradiva l'eccessivo dinamismo degli inquirenti.
Non aveva, però, compreso perché De Cesare non lo
gradisse. L'esperienza gli aveva insegnato che in queste
faccende meno si sa e meglio si vive e preferì non chiedere
ulteriori spiegazioni al collega.
“Hai la mia solidarietà”, disse a De Cesare, “fammi
solo sapere che si puo fare”.
"Avrai modo di esprimerla a tempo debito",
rispose De Cesare.
Quando il feretro giunse al cimitero, altri biglianesi
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si avvicinarono ai familiari. Esaurito l’obbligo di ricevere le
condoglianze, i Calenda se ne tornarono a casa, mentre la
gente, che aveva partecipato al funerale, si dileguò
velocemente.
La pratica di Maurizio
Al funerale di don Vito partecipo anche
Maurizio, il cugino di Ciaramella, che non aveva ancora
raggiunto i propri fratelli, Donato ed Egidio, a Fermignano.
Non era partito perché i fratelli gli avevano delegato il
compito di sbrigare le pratiche per chiudere l’attività paterna.
Maurizio era andato negli uffici del comune per consegnare le
licenze dell’attività, e aveva richiesto il certificato di morte del
padre, Nicola, necessario per istruire la pratica di cessazione
d’attività alla camera di commercio di Potenza. Gli era stato
fornito il modulo, da riempire e riconsegnare insieme ad
un’altra serie di documenti.
"Conto di chiudere la pratica in breve tempo, in
modo da poter partire per Fermignano nel giro di una
settimana".
Invece, si rese conto che la
burocratica era molto più lunga e farraginosa.
procedura
"Oltre alla cessazione di attività da formalizzare
alla camera di commercio, bisogna chiudere la partita IVA,
fare il calcolo immediato delle giacenze di magazzino e
dichiarare il reddito finale all’agenzia delle entrate".
Maurizio ne parlò con il cugino Ciaramella, che,
lavorando nel bar, poteva saperne più di altri. Ciaramella
lamentò il ritardo con cui Maurizio lo aveva messo al corrente
della vicenda
"Non che ci tenessi a saperlo ma perché, se lo
avessi saputo con anticipo, avrei potuto interessare le persone
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giuste per risolvere la faccenda. Avrei chiesto all’avvocato Di
Cillio e, se non fosse stato sufficiente, avrei riferito la
questione direttamente al sindaco. Comunque, non tutto è
perduto. Mi metto subito in azione. Ci vole più tempo, ma la
strada giusta si trova”, lasciò intendere al cugino.
Ciaramella si mise subito in azione, come aveva
promesso. Maurizio era uno di famiglia e andava aiutato. Non
appena vide l’avvocato Di Cillio, gli chiese se, per caso,
conoscesse qualcuno alla camera di commercio, all’ufficio
IVA o all’agenzia delle entrate.
“Sarebbe importante se voi aveste una chiave
d’entrata in tutti e tre gli uffici ma anche in uno solo sarebbe
sufficiente”.
“Ci devo pensare”, rispose l’avvocato Di Cillio, “ti
faccio sapere io”.
Come aveva già fatto, nel caso della licenza, non si
fece più sentire. Ciaramella esitò tra chiedere ulteriormente
l’aiuto di Di Cillio oppure andare oltre. Si consultò con la
moglie Isabella, come sempre quando bisognava prendere
decisioni importanti e decise che sarebbe stato inutile
attendere Di Cillio.
"Totonno Tortoriello é la persona giusta".
Era la seconda volta che Ciaramella offriva a Di
Cillio la possibilità di rendersi utile ed era la seconda volta che
l’avvocato non riusciva a sfruttarla. Le sue capacità di
intermediazione tra la comunità e il potere erano limitate.
“Forse anche per questo non riesce ad avere
clienti”, sospettò maliziosamente Ciaramella.
Totonno, invece, era un’altra cosa. Totonno era il
potere ma, se necessario, aveva anche capacità di
intermediazione, qualora il potere fosse localizzato fuori da
Bigliano.
"Quando si é trattato di sbrigare il problema della
100
licenza, ben più difficile rispetto a questo, Totonno non ci ha
pensato sopra due volte e lo ha risolto nel giro di pochi
giorni".
Quel favore era costato a Ciaramella un prosciutto
intero, che aveva dovuto consegnare al medico sanitario, più
il caffè pagato per Totonno vita natural durante, a parte i voti di
tutta la famiglia alle elezioni, ovviamente.
Ora si chiedeva quanto gli potesse costare questo
nuovo favore da chiedere al sindaco.“Basteranno quattro gambe
di salsicce e due soppressate?”, chiese al cugino.
Sarebbe stato Maurizio stesso a portagliele, in
qualità di beneficiario. Anche se era lui che richiedeva il
favore a Totonno sarebbe stato il beneficiario Maurizio a
pagare. All’inizio non avrebbe accettato il pensiero, ma le
regole non scritte del codice di comportamento di Bigliano
prevedevano che Maurizio avesse dovuto insistere finchè il
sindaco non avesse accettato.
Si recò personalmente nell’ufficio del sindaco, per chiedere il
favore (e fare il favore), per il cugino Maurizio.
Totonno era di buon umore, come se avesse
ricevuto una buona notizia.
“Tanto di
lineamenti del viso.
guadagnato”,
pensò,
distendendo
i
"Ciaramé, che ti serve?" Gli chiese Totonno.
“Mio cugino deve partire il prima possibile e tiene
bisogno di chiudere, al più presto, la pratica di cessazione di
attività alla camera di commercio, la questione dell’IVA e
quella del reddito all’agenzia delle entrate”, esordì Ciaramella.
“Me ne occupo io, personalmente, Ciaramé”, gli
disse Totonno, che era disponibile anche quando era di
cattivo umore, figurarsi quando era contento, “Alla Camera di
Commercio c’è la figlia della cugina di Carmelina 'a
napuletana, da qualche anno e fatta entrare per merito di un
101
deputato del mio partito”.
Ciaramella sapeva bene che Carmelina 'a
napuletana doveva mettersi a disposizione di Totonno,
poiché il sindaco gli aveva sistemato il figlio, nel secondo
blocco di assunzioni della legislatura precedente. La strada era
tracciata. Maurizio avrebbe avuto la sua pratica e la
considerazione di Ciaramella all’interno della famiglia sarebbe
inevitabilmente cresciuta e, forse, pensò, “e forse ci sarebbe
scappata anche una gamba di salsiccia per lui”, se il cugino
Mauriziosi fosse passato la mano per la coscienza.
Totonno si mostrò particolarmente cortese e,
prima di congedare Ciaramella, si alzò dalla scrivania per
andare a chiudere la porta, rimasta leggermente socchiusa.
Alzandosi, si tirò su i pantaloni, che gli penzolavano dalla vita
in giù. Si ostinava a portare la cintura ma con il peso che si
ritrovava sarebbe stato molto più saggio indossare le bretelle.
La pancia che debordava gli faceva costantemente scendere i
pantaloni sotto la vita. Chiuse la porta con attenzione
liturgica. Ritornando sui suoi passi verso la scrivania, si
interruppe a metà, poi proseguì verso il balcone.
"Ciaramé, io sono stato sempre gentile con te, non è
così?".
"È così, è così", rispose, con un filo di voce,
Ciaramella.
La conversazione era andata benissimo fino ad
allora. Sembrava complicarsi proprio quando stava per finire.
"Cosa vuole dire Totonno? Perché ha chiuso la porta? Forse
quello stronzo di Giannino ha detto qualcosa e non me ne sono accorto?
Se così fosse, la prossima volta lo butto fuori dal bar a calci", pensò
Ciaramella.
"Tu, Ciaramé, svolgi un ruolo importante, lo sai?"
"Ma che dite?...Io un ruolo importante…"
"Si, si, è proprio così. Tu sei al centro del paese, da
102
te la gente parla…"
Ciaramella lo interruppe bruscamente, "se è per
quello stronzo di Giannino, lo caccio a calci questa volta. Che
ha detto? Io non mi sono accorto di niente, ve lo giuro".
"No, non c'entra niente quello stronzo. È un'altra
cosa. Come ti dicevo, tu sei al centro del paese e da te la gente
che sa le cose parla. A me 'sta storia di Mariella non mi piace.
La gente scompare e poi noi ne paghiamo le conseguenze. Ti
rendi conto, Ciaramé?"
"Non capisco, sindaco. Mi dispiace per Zi'
Antonio, per la famiglia e pure per lei. No, non mi dispiace
per il padre. Quello è un irresponsabile. Si sapeva che poteva
finire male ma...
"Appunto! Si sapeva che poteva finire male. Quella
litigava con il padre e se ne sarà scappata".
"E voi come lo sapete?" Chiese Ciaramella
incuriosito.
Totonno sapeva più di quanto sapesse lui?
"Infatti non lo so”, lo rassicurò Totonno, “o
meglio, lo so, come lo sappiamo tutti. Altrimenti dove vuoi
che sia andata quella. Mica una ragazza scompare nel nulla in
un paese come Bigliano. Se ne deve essere scappata e la colpa
è del padre".
Totonno non aveva notizie certe. Ciaramella, che
seguiva il discorso di Totonno, tirò un sospiro di sollievo.
Quella mattina si sarebbe atteso qualsiasi cosa, ma non che
Totonno gli parlasse della scomparsa di Mariella la bella.
"Dunque, sarebbe bene far sapere
responsabilità è del padre…è vero Ciaramé?"
che
la
"Come volete voi, sindaco", disse Ciaramella.
colpa
In fondo, se il sindaco desiderava che si desse la
al padre, non restava che accontentarlo,
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indipendentemente dai motivi che lo spingevano a chiedere
quello strano tipo di sostegno. Ciaramella preferì non
chiedere spiegazioni. Del resto, lui non aveva alternativa.
Avrebbe dovuto fare appello alla sua coscienza, ma avrebbe
perso i favori del sindaco. Non aveva nessun dubbio, i favori
del sindaco erano più importanti.
Evidentemente, a Bigliano non c'era posto per la
coscienza. La vita andava guadagnata, giorno per giorno, e
senza l'aiuto di Totonno sarebbe stato più difficile
guadagnarsela. Assicuratosi il sostegno del sindaco, Ciaramella
ritornò soddisfatto al bar. Vi trovò Ziza. Lo salutò e gli
propose “di farsi una birra insieme”. L’avrebbe offerta lui.
Dato che c’erano anche Radiouno e Radiodue, insieme a
Ziza, quel giorno offrì tre birre.
“Ma quanno ci’ vole, ci’ vole”, pensò tra sé e sorrise.
Anche Ziza, Radiouno e Radiodue sorrisero e
bevvero la birra con Ciaramella.
L’oro nero di Totonno Tortoriello
Totonno, dopo aver assicurato Ciaramella del suo
impegno a risolvere la pratica del cugino e aver ottenuto in
cambio l'impegno a dirottare sul padre di Mariella la colpa per
la scomparsa della figlia, chiamò Carmelina 'a napoletana.
Aveva bisogno del numero di telefono della figlia della
cugina.
"Mi serve per risolvere una questione", le disse.
Carmelina, che non poteva sottrarsi alla richiesta di
Totonno, dato che gli aveva sistemato il figlio, disse soltanto
“a disposizione!”. Prese l’agenda, che aveva vicino al telefono,
cercò il numero della figlia della cugina e lo comunicò al
sindaco. Totonno ringraziò e chiuse il telefono.
Totonno, all’epoca, gestiva un vero e proprio
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scrigno pieno di oro. Da qualche anno, nel territorio di
Bigliano era stato rinvenuto il petrolio. Inizialmente, nessuno
dei biglianesi aveva realizzato l’importanza dei giacimenti, che
si trovavano sotto i loro piedi.
“Sembrava strano che una terra tradizionalmente
povera come la Lucania potesse nascondere ricchezze naturali
tanto importanti”, disse Mimmo o’ greco.
Anche l'acqua era una ricchezza lucana ma, al
contrario del petrolio, era sempre stata considerata come una
risorsa senza prezzo.
“Non nel senso che il suo valore fosse inestimabile,
quanto piuttosto che non gli fosse dato alcun valore”.
I biglianesi non avevano mai capito perché una loro
ricchezza dovesse essere ceduta agli altri senza ricevere nulla
in cambio ma si erano adeguati. Continuarono a pensare che
l'acqua fosse una ricchezza senza valore. Il petrolio, invece,
aveva un prezzo e aveva un valore.
“Non si deve ripetere di nuovo la storia dell’acqua”.
Desideravano davvero che ci fosse un ritorno in
termini economici, ma soprattutto sociali.
Totonno Tortoriello aveva promesso, durante la
campagna elettorale, che avrebbe lottato con tutte le sue forse
per raggiungere l’obiettivo di dare più lavoro ai biglianesi.
"I biglianesi non sono figli di un Dio minore e
meritano rispetto e attenzione", aveva dichiarato
pubblicamente.
Anche De Cesare che, durante le campagne
elettorali, si materializzava in maniera semipermanente, aveva
sostenuto le rivendicazioni dei biglianesi.
"Le imprese che estraggono il petrolio, devono
lasciare parte dei loro profitti ai biglianesi, per risarcirli
dell'aria nebulizzata che sono costretti a respirare, per colpa
delle perforazioni".
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Entrambi, tra una dichiarazione e l'altra, avevano
auspicato il ritrovamento di Mariella la bella.
"Partecipiamo con commozione al dolore della
famiglia che potrà contare sul nostro sostegno personale e su
quello della comunità che rappresentiamo".
Avevano anche detto, ma sottovoce, che le
compagnie petrolifere si sarebbero potute spaventare se
avessero rilevato un aumento del livello di criminalità nella
regione. Una ragazza che scompare non è un buon indicatore
per una regione che vuole svilupparsi.
"Potrebbe, però, succedere che una ragazza scelga
volontoriamente di andare via di casa", avevano sussurrato ai
loro clienti, "le compagnie petrolifere, in questo caso, non si
spaventerebbero".
Il presidente della regione era intervenuto nel
dibattito politico.
"I biglianesi vanno risarciti. Non possono più
lavorare la loro terra. Meritano rispetto e attenzione".
Zi' Antonio, infatti, non riusciva più a produrre i
pomodori di una volta. Quando li raccoglieva, scopriva che
sulla buccia si era formata una patina oleosa.
A distanza di alcuni anni, i biglianesi avevano
compreso che il rispetto e l’attenzione, tanto conclamata, non
erano proprio così evidenti come Totonno, De Cesare e il
presidente della regione avevano lasciato intendere.
Iniziarono ad avere dei dubbi ma non presero alcuna
iniziativa. Sbraitarono, minacciarono fuoco e fiamme ma alle
elezioni successive votarono ancora una volta per Totonno,
De Cesare e il presidente della regione.
Ziza, intanto, temeva che questo benedetto petrolio
potesse essere un problema.
“Chissà che Totonno non si sogni di farmi
lavorare!”
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A Ziza erano tornate in mente le parole che
Totonno aveva detto durante la campagna elettorale, il petrolio
potrebbe far lavorare tutti i biglianesi e si era giustamente
preoccupato. Non poteva immaginare le sue giornate lontano
dal bar di Ciaramella. Pensava, soprattutto, alle splendide
giornate d'estate, assolate, e alla birra fresca.
“Come si potrebbe lavorare in quelle condizioni?
Cha aria si potrà respirare vicino a questo petrolio?"
Non solo avrebbe perso i benefici delle lunghe
giornate di ozio ma avrebbe anche guadagnato aria
nebulizzata per i suoi polmoni. Aveva sempre votato per
Totonno e ora Totonno gli si rivoltava contro?
“Se ha detto che il petrolio darà lavoro a tutti i
biglianesi, allora pensa pure a me”, constatava con amarezza,
mentre sorseggiava l’ennesima birra, “ma io cosa gli ho fatto
di male?"
Il timore di Ziza di essere costretto a lavorare
sembrava fondato, se si fossero prese alla lettera le
dichiarazioni pubbliche del sindaco. Dopo qualche tempo,
tuttavia, Ziza si era tranquillizzato. La minaccia di Tortoriello
di far lavorare tutti i biglianesi non era stata seguita dai fatti.
Solo i biglianesi appartenenti al primo blocco erano stati
davvero chiamati a lavorare. Ziza, di fronte alla situazione di
immobilità in cui era caduta Bigliano, si rasserenò e poté
tornare alle tranquille bevute da Ciaramella.
Lo sconforto dei giorni più bui fu solo un ricordo.
Certo, di tanto in tanto, Totonno ripeteva la promessa ma,
ormai, Ziza non ci credeva più. Aveva capito che Totonno
scherzava e che di lui ci si sarebbe potuti fidare. Non lo
avrebbe mai costretto a lasciare il bar di Ciaramella, per
esporlo alle intemperie dei pozzi petroliferi. Ci pensò
un’ultima volta il giorno in cui si tenne una conferenza per
discutere il possibile sviluppo di Bigliano.
I biglianesi non erano tutti come Ziza. Era un altro
problema per Totonno, ma anche per De Cesare e per il
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presidente della regione. Non c'era solo la scomparsa di
Mariella ma anche questa maledetta voglia di lavorare a porre
problemi ai politici. Se tutti fossero stati come Ziza, capaci di
apprezzare il valore dell'ozio, sarebbe stato davvero un
piacere rappresentare i cittadini. Invece, bisognava pensare a
risolvere i problemi. Non che i problemi andassero risolti
realmente. Il circuito del bisogno non andava spezzato perché
non avrebbe avuto senso ma almeno bisognava dare
l'impressione di farlo.
“È vero che i biglianesi sono cani, che abbaiano
soltanto ma non é il caso di stuzzicarli più di tanto”, disse il
presidente della regione.
“Qualcosa bisogna fare e qualcuno deve essere
accontentato”, aggiunse De Cesare.
Il presidente della regione, che guardava con
preoccupazione alla vicenda, si rese conto che era giunto il
momento di prendere un’iniziativa.
"La politica deve dare delle risposte", disse.
I biglianesi si lamentavano, ma soprattutto
tornavano a emigrare. Il fatto più preoccupante riguardava la
fuga dei cervelli. I giovani laureati biglianesi se ne andavano,
provocando un solco che sarebbe stato sempre più difficile
colmare. Si scoprivano le risorse, ma diminuiva la ricchezza. Il
paradosso lucano si compiva per l'ennesima volta.
Il presidente della regione telefonò al sindaco
Tortoriello.
“Toto’, sono io, come stai?”
“Bene, caro presidente! Mi fa piacere sentirvi. Stavo
giusto pensando a voi”, disse Totonno con tono ammiccante.
“Allora, sto benedetto petrolio?” Chiese il
presidente della regione, saltando ulteriori convenevoli e
giungendo subito al nocciolo della questione.
“….E qua non si trova la soluzione. Scaviamo,
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scaviamo, ma non produciamo niente”, replicò Totonno.
“Come non produciamo niente? Stiamo fornendo
petrolio all’intera nazione”, fece notare con orgoglio il
presidente.
“Forniamo il petrolio all’intera nazione, ma qui non
resta niente. La gente non lavora. Se ne va e non torna più”,
affermò Totonno, sconsolato, che aggiunse, “e noi perdiamo
voti, presidente”.
Dall’altro capo del telefono, si poté ascoltare un
lungo respiro. Perdere voti poteva significare perdere il
lavoro. Per i politici, ovviamente. Il presidente della regione lo
sapeva e temeva che un giorno avrebbe potuto trovarsi
disoccupato. Cosa avrebbe fatto? La moglie, che lo aveva
sposato perché sembrava avviato verso una brillante carriera
politica, lo avrebbe lasciato. Lo spettro di una vita normale e
senza privilegi stimolò la sua creatività.
“Vabbé, tieni in mano. Abbiamo grandi progetti
per Bigliano e per le sue risorse”, rispose il presidente della
regione, cercando di consolare lo sconfortato Tortoriello,
“S’impone qui una riflessione collettiva”.
Totonno apparve confuso. Non riusciva a
comprendere cosa il presidente volessedire. Ci pensò e
ripensò a casa. Il combinato disposto di tieni in mano e
riflessione collettiva poteva voler dire una sola cosa
nell’interpretazione del politichese in chiave tortorelliana,
“passa iosc’ che ven’ crai”. Bisognava prendere tempo e sperare
che, nel frattempo, qualcosa potesse succedere. Si chiese
quindi quanto influisse il livello percepito di criminalità sullo
sviluppo economico della regione.
Dopo qualche secondo si diede anche la risposta,
"andrebbe fatto il punto della situazione".
La scomparsa di Mariella la bella sarebbe stato un
danno, se gli inquirenti non fossero riusciti ad accertare che si
trattava di un allontanamento volontario. De Cesare era
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apparso preoccupato per la vicenda. Se ne sarebbe potuto
parlare anche con il presidente della regione di questa
faccenda dell’incremento della criminalità.
Totonno telefonò a De Cesare.
“Caro Totonno, quali buone notizie mi dai?”
“Stavo pensando di organizzare una conferenza per
discutere il futuro economico di questa valle e di Bigliano,
ovviamente”.
“E di che vuoi parlare?”
“Un po’ di tutto. Petrolio, risorse, acqua. Insomma
fare un po’ di ammoina”
“E allora non ti dimenticare la criminalità. Noi
siamo una regione pulita”.
“Certo… pulita, pulita. E’ questo il messaggio che
dobbiamo far passare”.
“Bravo, Totò!” Rispose De Cesare, con
soddisfazione.
“A proposito, mi sto già occupando di quella
faccenda che mi hai chiesto di regolare quando ci siamo
incontrati al funerale di don Vito Calenda. Ora però stai a
sentirmi. Io alla conferenza non ti posso far parlare. Dirò io le
cose che devi dire tu”.
“Bravo, Totò”, rispose di nuovo De Cesare, con
soddisfazione, "mi sembra una buona idea ma agisci con
discrezione e pensa attentamente a quello che devi dire".
I due si intendevano a meraviglia, benché
pubblicamente si comportassero come rivali.
Fece preparare una bozza di programma e lo spedì
al presidente della regione, per sentire la sua opinione. Il
presidente, non appena ebbe dato uno sguardo al programma,
prese in mano il telefono e chiamò di nuovo Totonno
Tortoriello.
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“Totò e qui non ci siamo capiti”.
“Perché?” Rispose ingenuamente Totonno.
“E che combini! Mi inviti esperti di economia, di
energia e di politiche sociali e ti dimentichi dei
politici”.
“Presidente, ma io pensavo si dovesse fare qualcosa
di tecnico per prospettare delle soluzioni”.
“Soluzioni si, ma non tecniche, bensi politiche.
Campa cavallo che l’erba cresce! Le soluzioni degli esperti
hanno sempre tempi lunghi di realizzazione e nel frattempo
noi che facciamo? Ci perdiamo il posto? Ti sembra una buona
idea questa?
“Avete ragione, presidente”.
“Al lavoro, Totonno. Da te mi aspetto solo cose
buone”.
Totonno Tortoriello si rese immediatamente conto
dell’ingenuità commessa. Cambiò il programma, più politici e
meno esperti.
Il giorno della conferenza, l’avvocato Di Cillio uscì
di casa più presto del solito e passò davanti al bar di
Ciaramella più velocemente del solito. A Ziza, che lo invitava
per una birra, non rispose quasi. Fece solo un cenno con la
mano, per far capire che era molto impegnato. Ciaramella fu
molto soddisfatto. Fece ottimi affari quel giorno. Riuscì a
servire ben trentasei caffè in più della media giornaliera, venti
bottiglie d’acqua minerale, succhi di frutta e bevande
alcoliche.
“Ci dovrebbe essere una conferenza al giorno”,
pensò.
Gli speakers erano due deputati del parlamento eletti
in Basilicata, di cui uno della maggioranza e uno
dell'opposizione, un deputato europeo, il presidente della
regione, il sindaco e un esperto di sviluppo locale, venuto da
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Roma.
Il presidente della regione tenne il discorso di
apertura. Lo fece in piedi in modo che le telecamere della
televisione regionale lo potessero riprendere. Elogiò il
carattere dei biglianesi, le bellezze paesaggistiche della regione
e, infine, ricordò la Madonna di Bigliano, invitando tutti i
presenti ad alzarsi in piedi in segno di rispetto. I due deputati
presenti, a loro volta, elogiarono il presidente della regione
per aver elogiato il carattere dei biglianesi, le bellezze
paesaggistiche della regione e, soprattutto, per aver ricordato
la Madonna "che tanto bene aveva fatto ai biglianesi". Il
deputato europeo, invece, preferì non elogiare nessuno. Disse
“che condivideva i sentimenti appena espressi" e che lui
avrebbe preferito approfondire il tema dei fondi strutturali.
La scelta del deputato europeo fu premiata dal pubblico, che,
alla fine dell'intervento, gli tributò un lungo applauso. Parlare
di aiuti costituiva un tema di sicuro appeal, ed i biglianesi
confermarono quanto glamour fosse il soggetto prescelto per
la relazione.
Concluse i lavori l’esperto di sviluppo locale, un
professore dell'università di Roma, “scelto non si sa bene
come e non si sa bene da chi”.
Il professore, tra la sorpresa generale, fece
riferimento alla ripresa del flusso migratorio, al crollo
demografico, alla recessione, all'indebitamento delle famiglie e
ai lavoratori in mobilità.
Chiuse i lavori il sindaco Tortoriello. Non replicò
nel merito al professore di Roma ma fece rilevare come la
Lucania fosse una terra laboriosa e con tanta buona volontà.
Provò a mescolare le carte, sperando che il pubblico non
comprendesse. Poi, concesse un'intervista alla televisione
regionale. Parlò della grande partecipazione popolare e della
necessità di dare rispetto e attenzione ai biglianesi. Accennò
alla vicenda di Mariella esprimendo solidarietà alla famiglia e
sottolineando che nonostante il triste fatto di cronaca la
Basilicata era una regione pulita e non vi era alcuna forma di
112
criminalità locale.
"Non si deve utilizzare il caso di Mariella per
sporcare l’immagine della brava gente di Lucania. È un fatto
di cronaca isolato. Non si fa il bene della famiglia
continuando a insistere su questa storia. I poveri cristi hanno
bisogno solo di preghiera e silenzio”, disse il sindaco
nell’intervista.
Utilizzò delle argomentazioni arzigogolate per
dimostare il legame diretto, che esiste tra percezione della
criminalità e sviluppo economico. Fece appello alla Madonna,
affinché aiutasse i familiari alla rassegnazione.
Ziza che aveva seguito il telegiornale regionale, e
aveva sentito la dichiarazione di Totonno, per un attimo
rabbrividì di nuovo. Non comprese il discorso su Mariella, ma
ebbe un fremito quando si fece accenno allo sviluppo
economico. Poi si ricordò che Totonno era solito fare questo
tipo di promesse e continuò tranquillamente a bere la sua
birra. Il servizio sulla conferenza di Bigliano venne realizzato
da Rocco Verrastro, inviato della testata televisiva regionale.
Verrastro è un bravo giornalista, ma nessuno lo sa.
Si é laureato molto giovane in scienze politiche, indirizzo
politico-storico all’università di Pisa. Poi, con molto coraggio
ha scelto di rientrare nella sua regione per trovare un lavoro.
Non sono molti i giovani che rientrano in Lucania, dopo la
laurea. Aveva fatto il concorso da giornalista, riuscendo,
sorprendentemente, a superarlo senza raccomandazione ed
era stato assunto.
L’aver superato il concorso senza sponsor lo
poneva in una condizione di diversità rispetto agli altri.
Poteva prendersi il lusso della libertà di pensiero e di azione
che, però, non era molto apprezzata tra i suoi colleghi, dal
momento che erano tutti legati ad un santo protettore.
Soprattutto tra i superiori non godeva di molta stima,
nonostante fosse tra i migliori elementi che avessero a
disposizione. Il problema era che non avendo uno sponsor
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non avrebbe mai potuto occupare posti di comando ed era
pericoloso affidargli servizi di carattere politico. Era un cane
sciolto, una specie di mina vagante imprevedibile. Per il
caporedattore era una spina nel fianco più che una risorsa.
Rocco ha fatto parte della sinistra giovanile ai tempi
dell’università. Ha lottato per il diritto al lavoro e per un’equa
distribuzione del reddito. Ha frequentato i centri sociali ma il
fallimento storico del comunismo lo ha spiazzato. Fino
all’ultimo ha creduto alla teologia marxista. Era un idealista e
non era disposto a rinunciare ai valori della sinistra.
Da bravo reporter qual era non si limitava a pensare
al disgusto e allo schifo suscitato da quella classe dirigente,
venduta per un tozzo di pane ma, ogni volta che ne aveva
occasione, lo esprimeva liberamente.
Tra i suoi servizi più interessanti, c’erano da
annoverare quello sul randagismo a Matera, quello sulla sagra
del peperone di Senise e quello sulla siccità dell’estate
precedente.
Di cosa ci si poteva occupare? La Lucania era una
regione in cui apparentemente non accadeva mai nulla
d'importante. Sembrava ci si dovesse accontentare della
siccità. In realtà, non era proprio così. Di cose importanti
nella regione ne capitavano, ma finivano sempre per adagiarsi
nel sottosuolo, come il petrolio.
Quando Rocco venne inviato a Bigliano per il
servizio sulla conferenza, aveva ben chiaro qual’era la reale
situazione economica e le possibili prospettive esistenti.
Nonostante le ingenti risorse del territorio, il reddito dei
biglianesi era basso e le prospettive di sviluppo quasi
inesistenti.
Quando intervistò il sindaco Tortoriello, fece
presente la situazione che aveva sotto gli occhi ma Totonno,
da abile politico qual’era, rispose in maniera vaga. Anzi,
affermò che i media avrebbero dovuto difendere l’operato
degli amministratori locali e non attaccarli. Adducendo una
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scusa, terminò l’intervista e si allontanò mormorando ai
presenti, “chi cazzo è ‘sto giornalista che hanno mandato da
Potenza”.
Le poesie del ragioniere La Spina
La Spina é un poeta, non solo un ragioniere. Del
poeta ha l'anima, del ragioniere la meticolosità. È sensibile,
adolescenziale nella sua ingenuità, ma anche preciso e
puntiglioso. Non parla di politica. Gioca a carte nel circolo,
scrive poesie in vernacolo biglianese e passeggia. A Bigliano
tutti conoscono i suoi vizi e le sue virtu.
Carmelina 'a napuletana, che aveva fornito una
deposizione spontanea a Trapanese, riteneva che La Spina
potesse suffragare la sua testimonianza sulla scomparsa di
Mariella. Più ci pensava e più se ne convinceva.
“Il percorso delle passeggiate del ragioniere é
sempre lo stesso. Dopo il ruscello, il carcere, il campo
sportivo e la vecchia clinica, giunge davanti casa mia e, di
conseguenza, la casa di Mariella”.
Carmelina aveva riferito al sostituto procuratore di
aver visto, intorno alle otto, Mariella in una macchina “grossa
assai”, nei pressi della sua abitazione.
“Anche La Spina avrebbe dovuta vederla, dato che
l'ora della sua passeggiata coincide con quella in cui io penso
di aver visto la ragazza”.
Erano giorni che Carmelina si chiedeva perché La
Spina non si fosse deciso a testimoniare.
"Potrebbe anche non aver visto nulla".
"È un brav'uomo, se avesse saputo qualcosa, lo
avrebbe fatto presente al giudice".
“E se invece, ha avuto paura?”
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“Magari l’hanno minacciato. E chi? E perché?”
Erano diversi e contraddittori i pensieri che si
affastellavano nella mente di Carmelina. Esisteva un solo
modo per fare chiarezza.
“Bisogna chiedere direttamente al ragioniere”.
Una sera Carmelina attese che La Spina passasse
davanti casa sua.
“È vicino al luogo in cui penso di aver visto
Mariella”.
Puntuale come un orologio, La Spina giunse verso
le otto e un quarto. Carmelina lo salutò e il ragioniere
ricambiò sollevando leggermente il cappello dalla testa.
"Ragionié, io vi vedo sempre passare da qui, ogni
sera".
"Passeggiare fa bene alla salute e allo spirito",
rispose La Spina.
"Dite bene".
"Anche tu dovresti passeggiare", gli disse La Spina.
"Ragionié, vi devo chiedere una cosa. Me la togliete
una curiosità?"
"Dite pure. Se posso, con molto piacere".
"Voi, di Mariella la bella non sapete niente?"
Il ragioniere, che fino ad allora, aveva sorriso,
improvvisamente si irrigidì. Tentò di non darlo a vedere, ma il
suo imbarazzo risultava piuttosto evidente. Carmelina se ne
accorse.
"Io, io…di Mariella la bella…io, io…e che posso
sapere, io", farfugliò.
Carmelina rimase sorpresa del comportamento del
ragioniere. Non voleva darlo a vedere, ma sembrava
visibilmente incapace di mantenere la calma.
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"No…si…ma, alle volte, come si dice…".
"Che si vuole dire…", la interruppe La Spina
innervosito, "io non so niente…e ora scusatemi, ma debbo
proprio andare".
La Spina affretto il passo e scomparve dalla visuale
di Carmelina che rimase interdetta.
“Questo è proprio strano”, pensò, “dovrei dirlo al
giudice ma, in fin dei conti, questi non sono fatti miei ".
Rientro in casa. Anche La Spina tornò a casa ma
quella sera non scrisse poesie.
Dantino Telesce era l’unico biglianese a non aver
mai letto una poesia del ragioniere, nonostante la figlia,
Camilla, avesse portato un suo libro, regalo di Gianni, a casa.
Lo vide in mezzo ai suoi giornali di finanza, ma lo ignorò
completamente. I suoi interessi erano tutti concentrati
altrove. Il suo imperativo categorico era chiaro.
“Fare soldi e spenderne il meno possibile”.
Diversi esercenti della zona erano caduti nelle sue
grinfie. In alcuni casi, solo l’intervento di Don Sabatino era
riuscito a scongiurare il peggio. Il parroco di Bigliano si
occupava dei bambini orfani, delle ragazze madri, dei giovani
drogati e degli esercenti taglieggiati dagli strozzini. Dopo la
scomparsa di Mariella aveva anche creato un'associazione con
il compito di sensibilizzare l'opinione pubblica sul dramma
delle famiglie delle persone scomparse. Ne faceva parte anche
la madre di Gianni Calenda e Gina, la madre di Pinuccio, che
aveva una sorta di obbligo nei confronti di Don Sabatino.
Pinuccio di Gina, proprietario di un piccolo negozio
di generi alimentari, lungo il corso principale di Bigliano, si
era trovato in difficoltà e aveva dovuto far ricorso a Dantino
Telesce.
“Ci sarebbe bisogno di una mano d’aiuto”, disse
Pinuccio a Dantino, il quale, senza farsi pregare due volte,
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rispose che bisognava sempre aiutare gli amici.
“Sempre che gli amici si sappiano comportare”,
precisò. Pinuccio comprese il significato, perché i metodi di
Dantino li conosceva bene. Erano, del resto, noti a tutti quelli
che stavano nel giro del commercio. Pinuccio aveva tentato di
avere un prestito dalla Banca di Lucania, ma non c’era
riuscito. La scelta di rivolgersi a Dantino era stata obbligata, a
meno che non avesse voluto liquidare definitivamente la
propria attività ed emigrare anche lui al nord. Dantino gli era
stato consigliato da Rosario.
"Rivolgiti a Dantino", lo rassicurò Rosario. “
un
amico".
Dantino lo accolse con apparente benevolenza.
"Caro Pinuccio, ti tratto da amico e mi dai solo il
nove per cento della somma che ti serve. Agli altri
normalmente, applico il dieci per cento".
A Pinuccio tutto sommato, la cifra non parve
esagerata, ma poi Dantino aggiunse, “nove per cento al mese,
ovviamente!”
Nove per cento al mese, invece, non era cosa da
poco. Pinuccio sapeva benissimo che avrebbe fatto fatica a
restituire la cifra ma accettò ugualmente. Non ce la fece a
restituire il prestito a quella percentuale e quando ormai era
sull’orlo del baratro, solo l’intervento di Don Sabatino l’aveva
salvato.
Gli affari illeciti di Dantino non erano sconosciuti
ai carabinieri del comando di Bigliano. Il problema era che
nessuno lo aveva mai denunciato, anche per via dei rapporti
confidenziali che intratteneva con gli stessi carabinieri.
Il maresciallo Turtino considerò bene di rivolgersi
anche a Dantino per capire se la scomparsa di Mariella avesse
a che a fare con persone legate a certi ambienti che ruotavano
intorno alla criminalità locale o se fosse a conoscenza di
qualcosa che gli altri non sapevano.
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Turtino incontrò Telesce mentre discuteva, in
piazza, con altre due persone. Erano seduti su una pacchina,
non lontano dal busto in bronzo di Verdi. Dantino si alzava e
si sedeva continuamente, gesticolava con foga e non riusciva
a stare fermo. Turtino si avvicinò con naturalezza, dando
l’impressione di essere capitato lì per caso.
I tre lo invitarono a sedersi sulla panchina insieme a
loro, “oh, chi si vede, il maresciallo Turtino. Quale onore!”.
Turtino, che conosceva il modo di fare dei
biglianesi, sapeva che non poteva rifiutare. Accettò anche
perché era quello che voleva. Per diversi minuti i quattro
chiacchierano di edilizia popolare. Dantino teneva banco,
spiegando le migliori tecniche di costruzione antisismica. Gli
altri due seguivano e, di tanto in tanto, intervenivano.
Turtino, che non era proprio un esperto di edilizia popolare,
si limitava ad ascoltare. Attendeva pazientemente che
arrivasse l'ora di cena. Gli altri due se ne sarebbero
certamente andati a casa e lui avrebbe potuto parlare a
quatt’occhi con Dantino.
Come aveva previsto, i due, che erano insieme a
Dantino, lasciarono la piazza, non appena scoccarono le otto.
Rimasti soli, Turtino chiese a Dantino se poteva offrirgli un
caffè nel bar di Ciaramella.
"Con molto piacere, maresciallo", rispose Dantino.
Appena entrati nel bar, incrociarono subito
Giannino. Parlava di politica locale. Ciaramella da dietro al
banco con un orecchio stava attento ai suoi discorsi, con
l’altro seguiva le richieste dei clienti. Voleva evitare un altro
incidente con Totonno Tortoriello e per questo doveva
tenere sotto controllo Giannino.
Quando Dantino entrò nel bar insieme al
maresciallo Turtino, Ciaramella fu sorpreso.
“Che ci fanno questi due insieme?” Pensò.
Non riusciva a spiegarsi questo strano connubio.
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Avrebbe voluto origliare la loro conversazione ma la presenza
di Giannino lo distraeva.
“Non posso lasciar parlare sto’ stronzo di Giannino
senza verificare che cazzo dice”.
A malincuore dovette rinunciare a seguire la
conversazione tra Turtino e Telesce.
“Avrei dovuto sbattere sto’ stronzo fuori dal bar da
tempo”.
Il piano di Turtino prevedeva di prendere un caffè
da Ciaramella e poi di parlare facendo quattro passi lungo il
corso. La distrazione di Ciaramella gli fece rettificare il piano
e lo spinse ad anticipare i tempi.
“Caro Dantino, in questo paese non si prende più
pace. Quante cose brutte che succedono. Io me ne ero
venuto qui per passare tranquillamente la mia vecchiaia e
invece mi fanno lavorare”, disse Turtino, piegandosi sulla
schiena per lasciar intendere gli acciacchi che aveva.
“Non mi dite niente, maresciallo. Una volta si stava
bene a Bigliano, ora non si capisce più niente”, rispose
Dantino, stando al gioco del maresciallo.
Come aveva pianificato, con leggerezza riuscì a
condurre il discorso su Mariella la bella.
“Quando scompaiono ragazze…belle ragazze in un
piccolo paese come questo…”, fece notare Turtino.
All’accenno, da parte del maresciallo, a Mariella,
Dantino fece in modo di avvicinarsi lentamente a Ciaramella.
Sapeva che Turtino non avrebbe parlato in presenza del
barista. Turtino se ne accorse e comprese che Dantino non
gradiva discutere dell’argomento.
“Sto’ stronzo non vuole dire niente. Vuol dire che
sa qualcosa ma non vuole parlare. ”, pensò.
Il maresciallo prese atto e chiuse il discorso.
120
I due tornarono a parlare di edilizia popolare.
Ciaramella, ascoltandoli, pensò che sarebbe stato meglio
continuare ad ascoltare quello stronzo di Giannino.
Il capannone del cavaliere Urbano Tositto
Il giudice Calenda aveva una macchina nuova, una
Mercedes voluminosa, assai appariscente, nera, full optional.
“Guaglio’che macchina!” Esclamò Radiouno quando la
vide passare in piazza.
“E quando te la puoi accattà tu una macchina accussì”, gli
fece notare Ciaramella, con cattiveria.
Anche se il posto offertogli da Totonno fosse
arrivato, quel tipo di automobile sarebbe, comunque, rimasto
un sogno.
Anche Carmelina ‘a napuletana vide la macchina del
giudice Calenda, uscendo di casa.
“La stessa macchina di quella sera?” Si chiese.
Ci pensò più volte.
“Mannaggia. Se solo l’avessi vista di giorno e non di
sera”.
Non era riuscita a cogliere tutti i particolari, perché
era rimasta accecata dai fari.
"Se solo potessi parlare con il ragioniere La Spina",
pensò, mentre andava da Lucia a comprare il pane.
Da Lucia, incontrò Ziza. I due si salutarono. Ziza
aveva raggiunto il difficile obiettivo di non lavorare, ma non
quello di evitare la spesa. Conservava un ricordo terribile delle
fabbriche.
“Lunghi turni di lavoro, alcuni anche di notte”.
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“Non si può campare senza la birra quando face caldo”.
Fu, probabilmente, il racconto di questo tormentato
ricordo, fatto a Radiouno e Radiodue, a disinteressare i due
cugini al lavoro.
Ziza era stato assunto in una fabbrica di laminati
durante la seconda ondata di industrializzazione dopo il
terremoto del mille e novecento ottanta, quando gli
imprenditori del nord si erano buttati a capofitto sui mille
incentivi, che lo stato aveva messo a disposizione degli
investitori. Non c’era più la Cassa del mezzogiorno ma in
compenso c’erano gli aiuti finanziari post terremoto. “Come
novelli barbari, gli imprenditori si erano precipitati nella
regione, che li aveva accolti a braccia aperte”, diceva Mimmo
o’ greco.
Tra questi novelli barbari calati in Lucania, vi era
anche il cavaliere Urbano Tositto, un industrialotto della
Brianza, che, all’epoca, aveva assoluta necessità di rinnovare i
macchinari della sua azienda, per tentare di recuperare
competitività sul mercato. Aveva tentato la strada del credito
bancario, ma non c'era riuscito. I mercati non offrivano più
gli sbocchi di una volta e i burocrati europei avevano stabilito
le quote di produzione per il settore in cui agiva la fabbrichetta
con cento operai del cavaliere.
Urbano Tositto era stato costretto a mettere in
cassa integrazione ben venti di quei cento operai. Dopo aver
ricalcolato i costi dell’evoluzione tecnologica, che necessitava
alla sua fabbrichetta con cento operai, il cavaliere cambiò strategia.
Decise di delocalizzare parte dell’attività nel mezzogiorno, in
cambio di una serie di facilitazioni fiscali e di ottimi incentivi
finanziari.
Si trattava di preparare un semplice business plan, per
spiegare e motivare i benefici in termini economici e sociali
dell’attività che si intendeva realizzare. Non sembrava
difficile. Certo, i suoi prodotti perdevano competitività e non
erano più facili da commercializzare, ma il cavaliere considerò
che questo fosse l’ultimo dei problemi da affrontare.
122
“Non bisognava fare altro che presentare la
domanda e poi pregare le persone giuste”.
Non ci mise molto a capire chi fossero le persone
giuste, che andavano pregate. Conobbe il dottor De Cesare e
gli prospettò la sua iniziativa. Trovarono facilmente l’accordo.
De Cesare si sarebbe attivato affinché l’attività del cavaliere
Urbano Tositto fosse messa a disposizione dei suoi elettori e
il cavaliere affinché gli elettori di De Cesare potessero far
parte integrante del suo progetto.
Per prima cosa, Urbano Tositto si guadagnò il titolo
di cavaliere. Infatti, quando arrivò in Lucania, non era ancora
stato nominato cavaliere. In realtà, non venne neanche
nominato ufficialmente, ma furono i biglianesi che non
sapendo con quale titolo chiamare l’industrialotto venuto
dalla Brianza, decisero attraverso una procedura di consensus, di
rivolgersi a Urbano Tositto con il titolo di cavaliere.
L’industrialotto apprezzò l’iniziativa spontanea dei biglianesi e
ne approfittò per far stampare delle carte da visita con il titolo
di Cav. Urbano Tositto – imprenditore.
De Cesare fu di parola e l’iniziativa del cavaliere
venne riconosciuta degna di attenzione e meritoria di
sostegno.
Il business plan indicava la necessità di avvalersi di
trentasette operai, da adibire a varie funzioni. De Cesare
stimò per difetto il calcolo fatto dagli esperti di Urbano
Tositto e ritenne che sessantatré operai fosse la cifra giusta.
“Ventisette operai in più da sistemare significano
almeno cento voti in più, in vista delle elezioni”.
Il calcolo era molto semplice. Ogni operaio tra
moglie e figli, se maritato, oppure tra genitori e fratelli, se
scapolo, avrebbe dovuto portare in dote quattro voti.
Moltiplicando ventisette per quattro, il risultato era 108.
Decurtando dal totale, almeno otto ingrati, la stima finale
consentiva di sperare in almeno cento voti utili. La cifra
naturalmente sarebbe stata suscettibile di ulteriori variazioni,
123
nel caso le esigenze politiche lo avessero richiesto.
Ziza, non appena si aprì la corsa alla fabbricchetta con
sessantatré operai del cavaliere Urbano Tositto, ebbe la
malaugurata idea di attivarsi, su insistenza della moglie, per
essere preso in considerazione. De Cesare lo accontentò e
inviò una lettera di presentazione al cavaliere, pregandolo di
dare attenzione al caso del “bravo giovane”, che gli stava per
sottoporre.
Urbano Tositto non lesse neanche la lettera, ne
verificò solo la provenienza - segreteria Dott. De Cesare - e fece
chiamare il “bravo giovane”. Ziza, che stava tranquillamente
sorseggiando la birra nel bar di Ciaramella, non seppe con
quale stato d’animo accogliere la notizia. Pensò che non fosse
una buona idea iniziare proprio nel mese di luglio. Sperava,
comunque, nell’immediata chiusura estiva di agosto per
ritardare l’assunzione, ma non vi riuscì. Urbano Tositto, da un
canto, e De Cesare, dall’altro, pretesero che Ziza iniziasse
“entro, e non oltre, la data indicata nella missiva”. Purtroppo
per Ziza, la data indicata sulla missiva era quella del sedici
luglio, giorno delle celebrazioni della Madonna del Carmine.
Fu quella la prima volta che Ziza disse “sto’ strunz”, riferito a
De Cesare. A partire da quel momento, entrò nella lista degli
otto ingrati. Non avrebbe mai votato per quello stronzo che
lo spingeva a lavorare.
La tortura, comunque, non durò molto. Nel giro di
pochi anni, la fabbrica dichiarò fallimento e Ziza venne
messo in cassa integrazione. Il cavaliere fece smontare la
fabbrichetta con sessantatré operai, e la delocalizzò in Polonia.
Intanto, uno dei figli del cavaliere, aveva trovato
moglie a Bigliano e si era sposato per la seconda volta.
“A Bigliano si vive bene. Io preferisco restare qui”,
disse al padre.
Purtroppo, il fallimento della fabbrica gli aveva
impedito di poter scialacquare e ciò aveva pregiudicato la corsa
della figlia, Paola, alla mano di Gianni Calenda.
124
Mariella la bella era una delle amiche più intime di
Paola. Si erano conosciute esattamente il terzo giorno di
scuola del secondo anno. Mariella urtò Paola, mentre stavano
facendo la fila al bar, e iniziarono a parlare. Le accomunava la
bellezza, le separava tutto il resto. Mariella era scura e Paola
bionda, Mariella era mediterranea e Paola nordica, Mariella
aveva uno zio contadino e Paola un nonno industriale,
Mariella aveva un padre alcolizzato, Paola aveva un padre
vero.
La falsa testimonianza di Giannino
Dal giorno della scomparsa, anche Giannino aveva
seguito la vicenda di Mariella. I fatti di cronaca non erano
certamente la sua passione, ma la vicenda, che aveva condotto
Bigliano alla ribalta della cronaca regionale, lo incuriosiva.
Anche la scomparsa di Mariella rappresentava per lui un caso
politico. Diceva che se ci fosse stata la volontà politica, la
soluzione si sarebbe trovata. Ne aveva parlato anche con Di
Cillio, benché negli ultimi tempi, l'avvocato avesse smesso di
frequentare il bar di Ciaramella. La posizione del fratello,
Simone, si era aggravata, tanto da risultare formalmente
indagato. Durante l'interrogatorio, non era riuscito a
dimostrare la sua presenza all’agriturismo, la sera della
scomparsa. Trapanese si era insospettito e, pur non avendo in
mano, prove convincenti, aveva deciso di indagarlo per falsa
testimonianza.
Il fratello si era preoccupato e non aveva più tempo
per fermarsi a chiacchierare da Ciaramella. Giannino notò
l’assenza dell’avvocato e ritenne che fosse giunto il momento
di dimostrare la sua lealtà. Ne avrebbe guadagnato in termini
di considerazione da parte dell'avvocato. Decise di rendere
una testimonianza sul caso di Mariella la bella. Lo fece
presente al maresciallo Turtino che, a sua volta, lo riferì a
Trapanese.
125
“Un biglianese vi vuole vedere per il caso di
Mariella la bella”.
“Strana memoria questa dei biglianesi”, commentò
Trapanese, “dimenticano e ricordano secondo le stagioni”.
Giannino venne ascoltato in un pomeriggio mite.
Non faceva né caldo, né freddo. Indossava un impermeabile
beige. Non faceva né caldo, né freddo ma Giannino si
stringeva l’impermeabile sulla vita e teneva alto il bavero.
Percorse la strada, che porta dalla piazza alla caserma, con le
mani in tasca, continuando a stringersi l’impermeabile sulla
vita. Pensò al bar di Ciaramella come al palcoscenico di un
teatro, dove ogni giorno si recitava la commedia della vita
biglianese, la rappresentazione del gioco dialettico in cui il
particolare si fa universale e l'universale s’invera nel
particolare. Percorrendo il viale, la sua realtà, iniziava a
scomparire dietro la finzione del ruolo, che avrebbe dovuto
avere in caserma. La realtà sarebbe diventata per lui scissione,
da se stesso e dalla verità.
Trapanese lo accolse in piedi. Lo fece accomodare.
Giannino si sedette lentamente, calcolando tutti i movimenti.
Sembrava che avesse studiato tutti i dettagli. Accavallò le
gambe portando la gamba destra sulla sinistra e iniziò a
parlare.
“Ci sono momenti nella propria vita che sono più
importanti di altri. Sono i momenti in cui bisogna avere
coraggio. Il coraggio a volte manca. Ecco, signor giudice, io
sarei dovuto venire qui da lei molto tempo prima, ma mi è
mancato il coraggio”.
“E ora le è venuto…il coraggio, dico”.
“Certo. Non posso lasciare che si abbiano dei
sospetti su un innocente”.
“E quindi?”
“E quindi…sono qui”.
126
"Meno male che in questo paese, ogni tanto,
qualcuno sente il bisogno di dire qualcosa".
“Sono qui per dire che io, la sera in cui è scomparsa
Mariella, ero all’agriturismo di Simone Di Cillio.”, dichiarò,
senza mezzi termini.
“Ne è sicuro?”
“Ne sono sicurissimo”.
“Perché Simone Di Cillio, invece, ha detto di essere
stato da solo nel suo agriturismo la sera della scomparsa di
Mariella?” Chiese, insospettito, Trapanese.
“Forse non se lo ricordava quando l’ha interrogato.
Sono rimasto circa un’ora”, spiegò Giannino.
“E lei che rapporti ha con Simone Di Cillio. Non ci
risulta che siate amici”.
“Infatti non siamo amici. Ci conosciamo. Io quella
sera sono passato dall’agriturismo per prendere una birra. Mi
trovavo da quelle parti”.
“Lo faceva abitualmente?”
“No, non abitualmente. Ma mi era già capitato
qualche volta in passato”.
“Senta…Perché viene a dirmi queste cose proprio
ora?” Insinuò Trapanese”.
“Prima mi è mancato il coraggio”. Rispose
semplicemente Giannino. Lui, misero, poteva finalmente
sentirsi un re.
"Ricapitolando…lei non è un frequentatore
abituale di Simone Di Cillio, abitualmente non prende la birra
nel bar del suo agriturismo ma la sera della scomparsa di
Mariella si trovava nel bar dell'agriturismo, in compgnia di
Simone, nonostante il Di Cillio abbia dichiarato di essere
stato da solo quella sera".
127
"Confermo!" Rispose Giannino.
"Lei si rende conto di quanto strana sia la sua
dichiarazione? Io dovrei crederle?"
"Lei deve credere alla verità".
"E questa sarebbe la verità?…La sua verità!"
"Questa è la verità".
"Me lo auguro per lei, perché se non dovesse
esserlo, io la sbatto dritto dritto in galera per falsa
testimonianza. Spero se ne renda conto".
Giannino fece un cenno con la testa.
"Se ne rende conto?" Incalzò Trapanese.
"Si, me ne rendo conto", rispose Giannino, "è la
verità!"
Per verità, evidentemente, non intendeva solo la
descrizione della situazione esistente. Credava di essere sul
palcoscenico del bar di Ciaramella, dove anche la
rappresentazione che ogni personaggio fa di se stesso può
essere considerata, in qualche modo, foriera di verità. Era
verità, nella misura in cui la sua verità si faceva portatrice di
desideri profondi, che nella realtà non trovavano sbocco.
Non restava da chiedersi quale fosse il rapporto di Giannino
con la verità ma non toccava a Trapanese stabilirlo. Semmai,
avrebbe dovuto risponderne la sua coscienza.
Trapanese congedò Giannino e fece convocare
Simone Di Cillio, che, a sua volta, confermò la versione di
Giannino.
"È capitato molte volte che si sia fermato nel mio
agriturismo", aggiunse Simone.
"Il teste, in realtà, ha negato questa circostanza che
lei riferisce. Ha affermato di non aver bevuto molte volte la
birra nel bar del suo agriturismo".
128
"Può darsi…non ricordo", rispose Simone a
Trapanese, che gli aveva fatto notare l'incongruenza della sua
affermazione rispetto alla dichiarazione di Giannino.
“Questo lo vedremo…”, rispose Trapanese.
La nuova testimonianza cambiava nuovamente il
quadro della situazione. Simone poteva aver detto la verità.
Soprattutto, aveva un alibi, che Giannino gli aveva fornito,
nel caso si fosso voluto andare oltre la scomparsa e paventare
l’ipotesi di un omicidio. Da Ciaramella si discusse
ampiamente dell’iniziativa di Giannino.
“Simone e Giannino non si sono mai frequentati
prima”, fece maliziosamente notare Radiouno.
Altrettanto maliziosamente Radiodue disse,
“l’avvocato Di Cillio tiene sotto lo schiaffo Giannino. Se gli
avesse detto di suicidarsi, lui lo avrebbe fatto”.
"Adesso state esagerando", rispose Ciaramella, che
non sapeva che Giannino intendeva per verità non solo la
descrizione delle cose esistenti.
Il silenzio di Gianni Calenda
Prima della deposizione in cui si fece carico di
scagionare Simone Di Cillio, Giannino visse un profondo
tormento. Durante la processione della Madonna, si era
chiesto quale fosse il suo dovere.
Il giorno prima era stato avvicinato dall’avvocato
Di Cillio, che gli aveva chiesto di aiutare il fratello, Simone.
“Si trova in una brutta situazione per colpe non
sue. un bravo ragazzo. Tutti lo sanno. Ora tocca a te darci
una mano”.
L’avvocato aveva detto proprio così, “darci una
mano”. Giannino ci pensò, mentre portava la statua della
129
Madonna.
“Da una parte, sono orgoglioso per l’offerta
dell’avvocato. Posso finalmente rendermi utile per la famiglia
Di Cillio. D’altra parte, dovrei mentire”.
Mentre pensava quale sarebbe stata la soluzione più
giusta, guardava la statua della Madonna e ne avvertiva il
peso. Il primo impulso fu la verità, quella pura. L'uomo era
nato per fuggire dall'inganno, desiderando la verità con le sue
conseguenze. Il secondo impulso fu la solidarietà.
“Mentire per una giusta causa può non essere
peccato”, sussurrò a Ziza, mentre salivano le scale della
chiesa.
Ziza non comprese.
"Che cos'è la verità? Un mobile esercito di
metafore, avrebbe risposto Nietzsche. Le verità sono illusioni
di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si
sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono
monete la cui immagine si è consumata e che per questo
vengono prese in considerazione soltanto come metallo",
sussurrò nuovamente a Ziza, che continuò a non capire.
Ne concluse che difendere Simone fosse la cosa
giusta da fare.
“È un bravo ragazzo”.
Lo dicevano tutti. Avrebbe fatto quello che
l’avvocato Di Cillio gli aveva chiesto. Sarebbe andato da
Trapanese a dire che la sera della scomparsa di Mariella, lui
aveva visto Simone nel suo agriturismo.
Alla processione, stavano partecipando il sindaco,
quale autorità civile, il maresciallo Turtino, quale autorità
militare e il dottor De Cesare, quale autorità tout court. Le
processioni della Madonna rappresentavano delle occasioni
straordinarie per De Cesare di divenire un’entità reale. Si
materializzava solo quando i pellegrini iniziavano ad essere
130
numerosi, stringeva le mani e si dirigeva al suo posto in prima
fila. Chiacchierava con chi gli era a destra e a sinistra,
stringeva qualche altra mano e, poi, diveniva di nuovo
un'entità virtuale. Molti biglianesi ritenevano che l'apparizione
di De Cesare fosse un fatto quasi miracoloso. L'uomo si
materializzava e si dematerializzava, nel giro di pochi minuti.
La presenza di molte persone lo aiutava a materializzarsi,
probabilmente a causa di un misterioso principio chimico,
basato sul calore umano.
Anche Gianni Calenda era devoto della Madonna.
Lo erano tutti a Bigliano. La Madonna poteva essere
considerata l'elemento di unificazione che annullava le
stratificazioni sociali. Costituiva il massimo elemento di
democrazia esistente, molto più del suffragio universale. In
verità, il protocollo, che veniva seguito in occasione della
festa, tendeva a sfumare gli elementi di democrazia. Le
autorità, comprese quelle carismatiche come i Calenda,
godevano di una posizione privilegiata, nella processione,
rispetto ai biglianesi normali. Gianni ne approfittò per
posizionarsi alla destra del sindaco, a due soli passi dal dottor
De Cesare. Apparve particolarmente assorto, come se ci fosse
un pensiero che lo turbasse. Lo si poteva percepire dal suo
silenzio prolungato. Aveva salutato Totonno Tortoriello e
stretto la mano a De Cesare, pochi istanti dopo che il
consigliere provinciale si era materializzato. Dopo, però, era
rimasto assorto nei suoi pensieri. I biglianesi non avevano
notato il silenzio di Gianni. C'era troppa confusione. Solo ‘A
bionda, che lo osservò a lungo, poté rimarcarlo.
Quella processione della Madonna non fu come le
altre. La scomparsa di Mariella la bella aleggiava nell'aria
nebulizzata di Bigliano e pesava come un macigno sulla
coscienza dei biglianesi. Tra di loro, alcuni avvertivano quel
peso più di altri. Emanuele Tortoriello, per esempio. La storia
di Simone con Mariella era finita all'improvviso, senza un
apparente motivo. Simone non ne aveva voluto parlare con il
sostituto procuratore, che durante l’interrogatorio gli aveva
espressamente chiesto di spiegarne i motivi. Era stato evasivo
131
e il suo comportamento aveva finito con l’insospettire
ulteriormente Trapanese, alla ricerca di un eventuale movente.
Simone non ne aveva parlato neanche con Emanuele
Tortoriello che, più volte, era andato nel suo agriturismo, i
giorni successivi la rottura con Mariella, per consolarlo. Il
silenzio di Simone gli era apparso strano e, dopo la scomparsa
di Mariella, gli sembrava ancora più inquietante.
“La questione va chiarita”, pensò Emanuele.
Raggiunse Simone nel suo agriturismo, alle tre del
pomeriggio, quando sapeva che Simone non aveva molto da
fare. Iniziò a parlare di calcio e poi si fece portare una birra.
Invitò Simone a sedersi al tavolo. Gli chiese se ci fossero
novità. Alla risposta negativa di Simone, si fece serio, facendo
rotta sui temi che quel pomeriggio lo avevano spinto verso
l'agriturismo.
"Ah Simò, ma si può sapere perché ti sei lasciato
con Mariella?".
"È complicato", rispose Simone con freddezza,
irrigidendo il viso.
Lo disse, abbassando gli occhi e guardando le
gambe del tavolo al quale erano seduti. Per la prima volta,
Simone tradiva un’emozione. Emanuele percepi i segnali di
apertura che Simone e lo lasciò sfogarsi.
"Emanuè, non posso più tenermi questo
segreto…mi sta uccidendo l’anima”, aggiunse Simone,
sollevando gli occhi e guardando fisso Emanuele. Poi, senza
attendere la reazione dell’amico, continuò, “…lo dico solo a
te. Mi raccomando…"
"Stai tranquillo", lo rassicurò Emanuele.
"Mariella aveva iniziato a frequentare un giro che
non mi piaceva. Aveva conosciuto certa gente,
apparentemente per bene…solo apparentemente per bene.
Capisci quello che voglio dire?”
132
Simone fece una pausa. Piegò la testa per trovare la
forza di tirare fuori le parole e liberarsi del peso che si portava
dentro.
“Non so di preciso cosa facesse, perché Mariella
non mi ha mai detto niente…però…io non so fesso…certe cose
le capisco”.
“Mi avevi detto che non vi vedevate da tempo”.
“A volte ci vedevamo, ma non volevo che in paese
si sapesse”.
Simone Di Cillio aveva detto al giudice Trapanese
di non sapere nulla di Mariella. Non gli aveva rivelato i motivi
della separazione, come ora stava facendo con Emanuele.
Era, pertanto, consapevole, di non aver detto tutta la verità,
ma ci andavano di mezzo altre persone.
"Caspita!" Esclamò Emanuele Tortoriello, che poi
aggiunse, "….e qui nessuno ne sapeva niente…".
Simone si affrettò a precisare che lui non sapeva
nulla di certo, ma che, nell'incertezza, aveva preferito lasciare
Mariella e mettersi da parte. Emanuele avrebbe voluto sapere
chi fosse quella gente "che stava in mezzo", ma non osò
chiedere più nulla a Simone, che, tra l'altro, gli aveva già
lasciato intendere di non voler dire altro a quel proposito.
“Emanué, io avrei dovuto incontrare Mariella
proprio la sera della scomparsa”, rivelò Simone, "per questo
non mi trovavo nel mio agriturismo. Ero uscito perché avevo
appuntamento con lei. Naturalmente non lo avevamo detto a
nessuno".
Emanuele non riusciva a credere a quello che aveva
appena ascoltato. Spalancò gli occhi e si portò le mani ai
capelli.
“Lo hai detto al giudice?”
Gli tremava la voce.
133
“No, come avrei potuto”, rispose Simone.
“Come avresti potuto?”
“Certo! Come avrei potuto dire che io la sera della
scomparsa avevo appuntamento con Mariella?”
“Avresti dovuto”.
“Non potevo dirlo, perché io Mariella quella sera
non l’ho mai vista. Avevo appuntamento con lei, ma non l’ho
incontrata. Sono andato all’appuntamento ma Mariella non è
venuta. L’ho aspettata una mezz’oretta e poi sono andato
via”.
“Perché non lo hai detto al giudice?”
“Avevo paura. Tanta paura. Se avessi detto al
giudice di aver preso appuntamento con Mariella proprio la
sera della scomparsa, non me la sarei cavata facilmente”.
"Non te la sei cavata, comunque. Sei stato indagato
ugualmente".
"Si, ma solo sulla base di una ipotesi e solo per falsa
testimonianza. Non ci sono prove contro di me. Non sarebbe
stato difficile uscirne fuori. Se avessi detto che io quella sera
avrei dovuto incontrare Mariella…Capisci? Le cose sarebbero
andate diversamente".
"Capisco, non posso darti torto. Quando finisci
nella rete della giustizia, resti intrappolato anche se sei
innocente”.
“Quella sera volevo convincere Mariella a lasciar
perdere quella gente. Avrei voluto metterla in guardia ma non
ho fatto in tempo. Mi sento colpevole per non averla salvata,
ma non potevo dirlo al giudice”.
Simone implorava Emanuele. Sembrava che
cercasse un’assoluzione, che Emanuele non poteva dargli. La
rivelazione di Simone era stata scioccante. Un turbinio di
pensieri percorse la sua mente. Avvertì finanche un brivido
134
attraversare la schiena nella sua interezza. Se ne avesse parlato
con qualcuno, avrebbe potuto mettere nei guai il suo amico
che, invece, aveva scelto di dargli fiducia, confidandosi
proprio con lui. Simone era stato reticente di fronte al giudice
Trapanese. Non aveva detto tutto quello che sapeva.
Nonostante fosse stato indagato e nonostante avesse rischiato
di pagare per colpe presumibilmente non sue, aveva preferito
tacere. Poteva essere un problema anche dal punto di vista
penale. Emanuele per un attimo pensò che sarebbe stato
meglio non approfondire la vicenda e tenersi il dubbio per sé
ma, ormai, era troppo tardi. Ormai sapeva.
Il giorno in cui Simone Di Cillio si confidò con
Emanuele Tortoriello, a Bigliano pioveva. Veniva giù tanta
acqua come non se ne era vista da tempo, quasi come se
madre terra avesse avuto bisogno di lavare i peccati dei propri
figli. Emanuele Tortoriello, che avrebbe preferito fermarsi a
prendere un caffè nel bar di Ciaramella, decise di ritornare
velocemente a casa. Il padre Totonno era al comune, mentre
la madre era uscita per fare una visita alla signora Calenda, la
madre di Gianni. Venne a trovarsi in casa da solo. Il silenzio e
la solitudine non fecero altro che spingerlo a pensare
continuamente a quello che aveva inteso da Simone, solo
qualche ora prima. Decise di non decidere.
“Per il momento non ne parlo con nessuno”.
Non fece altro che applicare la dottrina che aveva
appreso dal padre, "passa iosc' che ven' crai".
Il giorno successivo, smise di piovere. Emanuele
andò al campo sportivo, dove incontrò Ziza. La squadra del
Bigliano aveva una sessione di allenamento, in vista della
partita con il Loterno sull'Agri. Emanuele era distratto. Non
riusciva a concentrarsi. Anche Ziza notò la mancanza di
concentrazione. Per ben tre volte aveva chiamato il fuorigioco
ed Emanuele non era uscito in tempo dall'area. O' spacccone
fece interrompere l'allenamento e chiese che la squadra
facesse cinque minuti di pausa.
135
"Tutto a posto?" Chiese Ziza a Emanuele.
“Tutto a posto”, gli rispose Emanuele, ma non
aggiunse altro.
Ziza si rese conto che diverse persone, che lo
circondavano, si stavano comportando in maniera anomala.
Emanuele Tortoriello era distratto ed anche sua moglie non
appariva serena. Cambiava spesso di umore, passando da
momenti di esaltazione ad altri in cui s’incupiva.
Gli strani vizi del dottor De Cesare
La testimonianza di Giannino aveva modificato il
quadro delle indagini. Sebbene Trapanese non fosse affatto
persuaso della veridicità della sua dichiarazione, prese atto che
c’era una persona a Bigliano, disposta a confermare la
versione di Di Cillio.
“Restano, tuttavia, degli interrogativi senza risposta.
Carmelina ’a napuletana ha testimoniato di aver visto Mariella,
la sera della scomparsa, in una macchina di grossa cilindrata.
A chi appartiene quella macchina? Chi era in compagnia di
Mariella?” Si chiese Trapanese.
Turtino, intanto, aveva ricostruito i movimenti di
Mariella, il giorno della scomparsa.
“La ragazza ha pranzato a casa degli zii e, intorno
alle tre del pomeriggio é ritornata a casa. È uscita di nuovo
verso le sei per andare nel negozio di Lucia”.
“Ha comprato duecento grammi di prosciutto
cotto, una confezione di pan carré e della maionese al gusto
di limone”, disse Lucia al maresciallo.
“Che impressione ti ha fatto?”
“Mi è sembrata serena, tranquilla, come sempre,
insomma”.
136
“Nulla di strano?”
“Chiese solo di essere servita il prima possibile,
perché andava di fretta”.
“Spiegò anche il motivo?”
“Disse di avere un appuntamento ed era in ritardo".
Lucia riferì che la ragazza indossava un jeans, un
maglione rosa pallido e un cappotto di lana "che gli arrivava
fino ai piedi". Non fece alcuna menzione degli occhiali da
sole, che Carmelina aveva visto. Turtino appurò che la
ragazza, dopo essere uscita dal negozio di Lucia, ritornò a
casa.
“Fece una doccia, si rivestì e uscì nuovamente”.
Nessuno dei vicini l'aveva più vista.
“Comunque, faceva freddo e in strada c'era poca
gente”.
“Si può supporre che fosse subito salita in
macchina, appena uscita di casa, maresciallo?” Chiese
Trapanese.
“Si può supporre”, confermò Turtino.
I carabinieri raccolsero alcune testimonianze tra i
clienti del bar di Ciaramella.
“Una macchina di grossa cilindrata é stata vista
circolare in paese intorno alle sette e mezzo. Per alcuni minuti
ha sostato in piazza, non lontano dalla casa di Mariella e da
quella di Carmelina 'a napoletana”.
I clienti di Ciaramella dissero che si sarebbe potuto
trattare della macchina di De Cesare. Avevano già visto in
passato il consigliere provinciale materializzarsi e
demateriallizarsi con macchine di grossa cilindrata. Turtino
fece effettuare dei rilievi alla motorizzazione civile, che
confermarono l'ipotesi dei clienti di Ciaramella.
137
“Si tratta della macchina di proprietà di De
Cesare”, riferì a Trapanese.
La notizia era esplosiva e il comando dei carabinieri
di Bigliano non riuscì a tenerla nascosta. In poco tempo fece
il giro del paese.
"Che c'entra De Cesare con Mariella? Quel porco
avrà almeno cinquantanni, trenta più di lei", si chiese Ziza.
"E che c'entra l'età? 'Na femmina è sempre 'na femmina,
anche per De Cesare", rispose Giannino.
"Potrebbe essere sua figlia", replicò Ziza.
Giannino non rispose. Ciaramella strinse le labbra,
spingendole verso l'alto.
"Io la macchina di quel figlio di puttana me la
ricordo. Mercedes nera metalizzata, non è vero?" Chiese
Radiouno al cugino.
"Mercedes nera metalizzata! Era la macchina che
abbiamo visto in piazza, la sera della scomparsa, vicino al
tabacchino", confermò Radiodue.
"Ciaramé, dovresti andare in caserma, dal
maresciallo con una scusa per sapere bene le cose", gli
suggerirono i due cugini.
"Eh, se gli servisse un caffè ci andrei di corsa….ma
non mi chiama", si lamentò Ciaramella.
"Sto’ strunz’!" Esclamò Ziza, che fino a quel giorno
aveva seguito con distacco la vicenda della scomparsa di
Mariella.
Non potendo attingere notizie direttamente alla
fonte principale, Ciaramella pensava che sarebbe stato
opportuno fare ricorso a De Stefano. Il maresciallo a riposo,
però, solo di tanto in tanto prendeva un caffè nel suo bar.
Abitualmente frequentava il circolo, dove dispensava opinioni
sulle ultime novità, offrendo anche paragoni con situazioni
138
capitate ai tempi della sua esperienza siciliana.
Da giorni, affermava con soddisfazione, "Ve lo
avevo detto, signori, che c'era qualcosa di grosso. Una ragazza
di venti anni non scompare in un paese piccolo come
Bigliano, senza una seria ragione".
Finiva con il ripetere una frase che tutti i biglianesi
conoscevano, benché nessuno ne comprendesse il significato,
"non c'è niente da fare…due più due fa quattro".
Cosa intendesse dire con quel "due più due fa
quattro" lo si poteva intuire, anche se, nella fattispecie, era
davvero difficile capirlo. Probabilmente, voleva dire che un
caso difficile da risolvere implica il coinvolgimento di
personaggi socialmente altolocati e il riferimento
all'automobile di grossa cilindrata fatto da Carmelina 'a
napuletana, chiamava in causa il personaggio più altolocato
della valle.
Il sostituto procuratore Trapanese, intervistato di
sfuggita dalla televisione, all'uscita dal tribunale di Potenza,
disse che "non poteva né smentire, né confermare, dato che
le indagini erano ancora in corso". Tuttavia, convocò De
Cesare, in qualità di testimone. Evitò di dare risalto
all'avvenimento, anche se alla fine tutti lo vennero a sapere. E
per Ciaramella non ci fu neanche bisogno di ricorrere al
vecchio trucco del caffè. La notizia venne pubblicata sui
giornali.
De Cesare giunse in caserma verso le sette di sera.
Fu fatto passare da un ingresso secondario. Entrando, aveva
stretto la mano dell’appuntato, che faceva da piantone
all’ingresso. Venne introdotto, immediatamente, nell’ufficio
del maresciallo Turtino. Il consigliere provinciale indossava
un completo blu scuro, interrotto da una cravatta azzurra.
Aveva i capelli impomatati e i baffi curati, come se li avesse
messi in ordine qualche minuto prima. Sorrise quando vide
Trapanese. Strinse la mano anche a lui e al maresciallo
Turtino. Il sostituto procuratore lo accolse, in piedi, dietro la
139
scivania. Si sedette solo dopo che De Cesare ebbe prese posto
sulla sedia.
"La vita del politico è faticosa, caro procuratore.
Mille riunioni e mille contrattempi. Spero che non mi faccia
perdere molto tempo".
"Non ho assolutamente intenzione di farle perdere
tempo. Ho bisogno solo di alcuni chiarimenti".
"Bene! Chiarimenti! Ha detto la parola giusta.
L'intera comunità, che rappresento, si attende dei chiarimenti.
Dobbiamo lavorare insieme per fare luce su questa vicenda
che, francamente, angoscia me, almeno quanto la famiglia
della ragazza scomparsa. Mi dica, allora…per quel poco che
posso fare, chiarirò volentieri".
“Che macchina possiede?”, gli chiese Trapanese
senza perdere tempo.
“Una mercedes scura ma non ricordo il modello.
Sa…io non me ne intendo di macchine”, rispose De Cesare
sorridendo.
“Si tratta pertanto di una macchina di grossa
cilindrata. Conferma?”
“Credo di si. Deve trattarsi di una macchina di
grossa cilindrata, ma…le ripeto, io di macchine non me ne
intendo”.
“Lei ha l’abitudine di guidarla?”
“Assolutamente no. Non guido mai la mia
macchina”.
"Immagino lo faccia il suo autista".
"Infatti, è il mio autista a guidarla".
“La sua macchina sarebbe stata avvistata a Bigliano
la sera in cui è scomparsa la ragazza”.
“Davvero? Non so che dirle. Dovrebbe chiedere al
140
mio autista”.
"Anzi, la ragazza è stata vista proprio nella sua
macchina".
"Ripeto. Non so proprio cosa dirle al riguardo.
Chieda al mio autista".
“Senta Dr. De Cesare, “una ragazza che scompare
viene avvistata proprio sulla sua macchina e lei non sa che
dirmi?"
"Io quella sera non ho visto la ragazza…come si
chiama?”
“Mariella".
“Appunto, Mariella”.
"Non ha detto che vuole aiutarmi a chiarire la
faccenda?"
"Non solo l'ho detto ma lo ripeto. Intendo
assolutamente contribuire a chiarire la vicenda…per quel
poco che mi è possibile chiarire".
"Per quel poco, dice?"
"Per quel poco, sostituto procuratore. Chieda al
mio autista per il resto. Glielo dico per la terza volta", ripeté
De Cesare.
"Certamente chiedremo al suo autista. Per il
momento, però, tocca a lei rispondere alle domande".
"Sono qui per questo…per chiarire la mia
posizione".
"Si ricorda cosa ha fatto quella sera tra le venti e le
ventuno?" Gli chiese il sostituto procuratore.
"Sono stato tutta la sera a casa, con mia moglie",
rispose De Cesare.
"Sua moglie lo può confermare?"
141
"Chieda pure a mia moglie".
“E chi potrebbe confermarlo, a parte sua moglie?”
“Mia moglie. A casa solitamente sono solo con mia
moglie”, disse De Cesare.
"Dunque, solo sua moglie".
"Non le sembra sufficiente?"
Trapanese non rispose.
"Lei conferma di non conoscere la ragazza
scomparsa?"
"Assolutamente"
"Assolutamente conferma oppure non conferma?"
"Assolutamente confermo di non averla mai
conosciuta".
"Non conosceva la ragazza, non è stato a Bigliano
la sera della scomparsa, non può smentire la possibilità che la
sua macchina sia stata in paese".
"Confermo! Non conoscevo la ragazza. Mi trovavo
a casa mia, in compagnia di mia moglie la sera della
scomparsa. Se lei ritiene che la mia macchina è stata avvistata
a Bigliano la sera della scomparsa, allora deve chiedere al mio
autista, perché io a Bigliano ho motivo di venirci solo in
occasioni politicamente significative".
Da politico esperto era riuscito ad asserire almeno
due verità. De Cesare si materializzava a Bigliano solo in
occasioni "politicamente significative" e non aveva l'abitudine
di condurre la sua Mercedes. Trapanese lo lasciò andare,
benché la sua testimonianza non lo convincesse.
La moglie di De Cesare, interpellata da Trapanese,
confermò la versione del marito.
"Ha mille impegni e, solitamente, non trascorre le
serate a casa. Però, quella sera non si sentiva bene e decise di
142
rimanere a casa per riposarsi".
Trapaese la considerò una strana casualità. Provò
ad indagare, ascoltando altre persone, ma nessuna persona
estranea alla famiglia confermò di averlo visto, né in casa, né
fuori.
"Di fatto, De Cesare nega la circostanza evocata da
Carmelina ‘a napoletana e confermata dai clienti del bar di
Ciaramella", disse il maresciallo Turtino a Trapanese,
commentando la deposizione resa dal consigliere provinciale.
"A pensarci bene, non la nega del tutto,
maresciallo", rispose Trapaese, "lui nega la possibilità che su
quella macchina ci sia stato lui ma non la possibilità che la sua
macchina sia stata avvistata a Bigliano, come testimoniato da
Carmelina e confermato dai clienti di Ciaramella".
"Dunque…potrebbe essere possibile che la sua
macchina sia stata realmente a Bigliano la sera della
scomparsa".
"Non lo ha negato".
"D'altra parte, non era lui a condurre la sua
macchina, bensì l'autista o altri collaboratori".
"Non resta che verificare. Maresciallo, provi a
rintracciare questi autisti e collaboratori…"
Turtino si mise subito in azione. Reperì la lista dei
collaboratori e li interpellò uno ad uno. La loro versione fu
coincidente e in linea con quella del loro principale.
L'autista, da parte sua, fu estremamente chiaro.
"Quella sera la macchina ce l'avevo io. La mattina
successiva avrei dovuto accompagnare il consigliere molto
presto a Roma per un’importante riunione".
"Non avrebbe potuto prendere la macchina quella
mattina stessa?" Gli chiese Turtino.
"No, perché saremmo dovuti partire all'alba. In
143
queste circostanze, ritiro la macchina di De Cesare la sera
precedente".
"La macchina ce l'aveva, quindi, lei".
"Si, confermo".
"E conferma anche di non essere stato a Bigliano".
"Confermo anche di non essere stato a Bigliano".
Turtino riferì il risultato delle sue indagini a
Trapanese che decise di ascoltare di nuovo Carmelina ‘a
napuletana.
La donna giunse in caserma accompagnata dal
marito. Venne fatta attendere alcuni minuti. Durante
l’interrogatorio, Carmelina confermò di aver visto Mariella su
una macchina di grossa cilindrata la sera della sua scomparsa.
“Ne è sicura?” Le chiese Trapanese.
"Si, ma…", rispose Carmelina.
"Ma cosa?"
"Ma…."
"Aspetti…",
rispose
Trapanese
che,
immediatamente, urlò a voce alta, "brigadiere, brigadiere".
Il brigadiere, che si trovava nella stanza accanto
accorse.
"Comandi!"
"Mostri la foto della macchina alla signora".
"Quale foto?"
"La foto riguardante il caso di Mariella la bella".
Il brigadiere andò nella sua stanza. Prese una
fotografia e fece ritorno nell'ufficio di Turtino, che Trapanese
utilizzava per i suoi interrogatori. Il brigadiere consegnò la
fotografia al sostituto procuratore.
144
"Guardi questa foto, signora", chiese Trapanese a
Carmelina.
Carmelina la prese tra le mani, se l'avvicinò agli
occhi per guardarla meglio. Attese che il sostituto procuratore
parlasse.
"Riconosce questa macchina? È la stessa in cui ha
visto Mariella?"
"Potrebbe, come no? Potrebbe essere, si"
"Potrebbe?"
"Si potrebbe ma chiedete anche al regioniere La
Spina?”
Trapanese si alzò in piedi.
“Chi è questo ragioniere La Spina?" Chiese al
maresciallo Turtino.
Il maresciallo, sorpreso, per l'affermazione di
Carmelina, rispose, "è il ragioniere del comune"
"E che c'entra il ragioniere del comune?"
“Il ragioniere ogni sera passa verso le otto vicino
casa mia. Potrebbe aver visto le stesse cose che ho visto io.
Chiedete…chiedete a lui….” precisò Carmelina, “io non sono
più giovane, chiedete per sicurezza al ragioniere. Come si
dice…quattro occhi vedono meglio di due”.
Trapanese chiese a Turtino di prendere nota e di
convocare immediatamente il ragioniere La Spina. Nel
frattempo a Carmelina vennero mostrate altre foto.
"Mi dispiace ma non saprei riconoscere nessuno.
Ve l'ho detto anche l'altra volta. Non riconosco le persone
che non ho mai visto".
Tra le foto che le furono mostrate, non c'era la
fotografia di De Cesare. Carmelina lasciò la caserma alle nove
meno un quarto di sera. Corse subito a casa a preparare la
145
cena.
Dopo la sua seconda testimonianza, il sostituto
procuratore decise di procedere e di fare altre indagini. Chiese
a Turtino di raccogliere informazioni sulla vita privata di De
Cesare. Turtino si mise nuovamente in azione e iniziò a
osservarlo. Si appostò vicino la sua abitazione alle sette e
mezzo del mattino seguente.
De Cesare era il tipo che, durante il giorno, faceva
sempre le stesse cose. La mattina riceveva i clienti nel suo
studio. Erano cosi tanti che avrebbero provocato l'invidia
dell'avvocato Di Cillio. Chi gli chiedeva un lavoro per il figlio,
giovane laureato, chi di intercedere presso l'ospedale per
velocizzare una visita al reparto di urologia e, addirittura, chi
lo pregava di fargli passare i test, per il rilascio della patente di
guida. Lui cercava di accontentare tutti e, quando non poteva,
faceva finta di farlo. Faceva decine di telefonate. Alle due
pranzava e il pomeriggio usciva. L'autista andava a prenderlo
e lo conduceva prima alla sede della provincia, poi a quella del
partito.
Turtino lo seguì sia alla sede della provincia che a
quella del partito, per diversi giorni ma gli appostamenti non
produssero alcun risultato sorprendente. Tutte le mosse di De
Cesare sembravano rientrare nelle abitudini di un politico
meridionale, proccupato della sua sopravvivenza. Invece,
furono sorprendenti i risultati degli appostamenti notturni.
Turtino appurò un dato importante.
“Il consigliere provinciale frequenta le discoteche e
i locali notturni della regione”, scrisse nella sua informativa.
Il maresciallo venne in possesso di un altro
elemento molto interessante, parlando con il gestore della
disocoteca Club 83, dove lavorava Mariella. La ragazza
conosceva il consigliere provinciale. “L'ho vista prendere un
drink insieme a lui", gli rivelò il gestore.
"L'ha conosciuto qui nel Club?" Chiese Turtino.
146
"Non credo. Mi disse di averlo conosciuto al
matrimonio di un suo amico"
“De Cesare, quindi, conosceva Mariella. L'aveva
incontrata già altre volte prima della sera della scomparsa”, ne
dedusse Trapanese.
De Cesare, riascoltato da Trapanese, negò la
circostanza, asserendo che: "….potrebbe anche essere
possibile…ma sa…i politici stringono tante mani. Alla fine, è
difficile ricordare con esattezza la gente che si incontra".
Il ragioniere La Spina venne ascoltato il giorno
successivo la seconda deposizione di Carmelina 'a napuletana.
La comunicazione della convocazione in caserma gli era stata
recapitata la sera precedente.
Quando i carabinieri giunsero a casa sua, il
ragioniere si trovava nel soggiorno della propria abitazione.
Indossava la giacca da camera e le pantofole. La moglie aprì la
porta e lo chiamò.
“Ci sono i carabinieri”.
La Spina si sollevò a fatica dalla poltrona. Sulla sua
fronte apparvero alcune gocce di sudore, che la moglie non
notò. La convocazione gli venne consegnata dall’appuntato
Marino. La Spina chiese spiegazioni.
“Non capisco. Di cosa si tratta, appuntato?”
“Avrà tutte le delucidazioni domani, a colloquio
con il sostituto procuratore”, rispose l’appuntato Marino.
Il ragioniere rimase per qualche secondo immobile.
Prese il fazzoletto bianco dalla tasca e si asciugò ancora una
volta il sudore. Quella sera preferì non parlare. La notte non
dormì. Solo alle cinque del mattino riuscì ad assopirsi per
qualche minuto.
Giunto in caserma, sembrava piuttosto nervoso. Si
muoveva in maniera innaturale. Per sua fortuna non dovette
attendere molto tempo, prima di entrare nell’ufficio di
147
Turtino, dove lo attendeva il sostituto procuratore. Se avesse
dovuto aspettare ancora, probabilmente sarebbe morto
d’infarto. Trapanese non era di buon umore. Fu brusco fin
dall’inizio.
“Ragioniere, dove si trovava la sera in cui è
scomparsa Mariella la bella?”
“Non …non saprei…è passato del tempo”,
farfugliò La Spina.
“Glielo chiedo perché sappiamo
normalmente la sera fa delle passeggiate”
che
lei
“Non c’è niente di male, signor giudice, a
passeggiare”, rispose La Spina, ponendosi sulla difensiva.
“Assolutamente. Non c’è niente di male”
“Perché me lo chiede allora?”
“Perché forse potrebbe aiutarci”.
“Come potrei?”
“Faccia mente locale…faccia attenzione…focalizzi
la mente e torni a quella sera…ricorda di aver visto Mariella?”
La Spina ebbe un fremito. Chiese di bere
dell’acqua.
"Fa caldo qui dentro", disse.
Dopo aver bevuto esclamò, “Ho visto una ragazza
con gli occhiali scuri. Non sono sicuro che fosse Mariella. Si
trovava in una Mercedes insieme ad altre persone.
Ripeto…non sono sicuro che fosse lei…aveva degli occhiali
scuri”.
Il sostituto procuratore ripeté la medesima
procedura che aveva adotatto con Carmelina. Chiamò a gran
voce il brigadiere, che si trovava nella stanza accanto, si fece
portare la foto e la mostrò al ragioniere.
"Potrebbe essere questa la macchina?" Chiese
148
Trapanese.
"Si, potrebbe essere".
“Perché non ce l’ha detto subito?”
“Non ne ero sicuro…ecco…come avrei potuto
dire una cosa di cui non ero sicuro”.
Il quadro della scomparsa di Mariella si arricchiva
di nuovi elementi. Sarebbe stato opportuno proseguire le
indagini.
“Inizio a pensare che De Cesare non ci abbia detto
tutto quello che sa”, disse al maresciallo.
149
II PARTE
Un anno dopo la scomparsa di Mariella la bella
A Potenza, a un anno esatto della scomparsa di
Mariella, la televisione regionale ebbe l’idea di fare un servizio
commemorativo.
"Non é più un fatto di attualità. Possiamo affidarlo
a Rocco Verrastro", disse il caporedattore.
Verrastro, com’era sua abitudine, affrontò
l’argomento con zelo. La passione giovanile aveva ceduto il
posto ad una amara consapevolezza, evitando di cedere ad un
facile cinismo, che lo avrebbe condotto alla rassegnazione.
Cercava di fare del suo meglio, consapevole della sua
impotenza. Sebbene non avesse seguito personalmente la
vicenda, riteneva che la procura avesse terminato il lavoro
senza andare fino in fondo. Le indagini si serano
misteriosamente arenate, dopo il secondo interrogatorio di
De Cesare.
Mariella sembrava essere svanita nel nulla, come se
un buco nero l’avesse inghiottita. Nessuno ufficialmente ne
sapeva niente. Tutte le persone interrogate dal sostituto
procuratore Trapanese, non avevano fornito elementi utili
all’indagine, a parte Carmelina ‘a napuletana, che aveva
spontaneamente provato ad aiutare gli investigatori e il
ragioniere La Spina che, dopo le rivelazioni di Carmelina, si
decise a raccontare quello che aveva visto.
Verrastro si era convinto che in quella storia i conti
non tornavano. Alcuni fatti non erano stati appurati.
La testimonianza di Carmelina, per esempio, era
stata considerata "utile e con molti elementi di verità". Le
circostanze della sua testimonianza non erano state verificate
fino in fondo. Chi c'era nella macchina di De Cesare la sera
150
della scomparsa di Mariella?
Erano domande alle quali non erano state date
risposte. De Cesare non aveva chiarito. I suoi collaboratori
avevano negato.
Verrastro decise di andare a Bigliano. Avrebbe
sentito cosa ne pensava la gente del posto su questa storia.
Giunse a Bigliano, insieme a un operatore e a un
assistente.
Si fermò dapprima nel bar di Ciaramella per un
caffè.
"Siete della televisione?" Chiese Ciaramella,
vedendo la telecamera che l’assistente aveva deposto
nell’angolo del bar opposto rispetto alla porta d’entrata.
"Si, siamo della televisione regionale", rispose il
cameraman.
"E come mai a Bigliano?" Gli chiese incuriosito e
orgoglioso che la televisione regionale si fosse fermata nel suo
bar, per prendere il caffè.
"Un servizio su Mariella la bella", rispose
direttamente Rocco Verrastro, "Conoscevate Mariella? Cosa
pensate di questa storia?"
Ciaramella, all’inizio fu tentato di rispondere per
farsi vedere in televisione ma c'era un problema. Ciaramella
non parlava correttamente l'italiano. Decise di tacere.
Risciacquò alcuni bicchieri già puliti e si diresse
verso Radiouno, “come possiamo aiutare questi signori? Chi
conosceva bene Mariella?”
“Tanti conoscevano Mariella…non sapera chi dicere”,
rispose Radiouno.
“Una cosa è certa. Dopo tanto tempo Mariella “non
torna chiù”
151
“Addomandate a Simone Di Cillio, che faceva le zita con
Mariella”, intervenne Radiodue.
“Ma no, che c’entra Di Cillio”, esclamò
prontamente Giannino, che seguiva la discussione dall’altra
parte del bar, mentre leggeva il giornale sul frigorifero dei
gelati, “faceva le zita, ma mò che c’entra?".
Verrastro, che aveva tra le mani un taccuino e una
penna, notò ugualmente il nome di Di Cillio, incurante della
precisazione fatta da Giannino. A Ciaramella venne l’idea di
indicare De Stefano. Era la persona adatta per far fare una
bella figura a Bigliano in televisione.
“Chiedete al maresciallo De Stefano. Lui conosce i
fatti meglio degli altri, qui a Bigliano”, disse Ciaramella per
sbrogliare la matassa che Giannino e i due cugini di secondo
grado stavano aggrovigliando.
Verrastro annotò anche il nome di De Stefano.
"Dove li posso trovare?" Chiese Verrastro,
riferendosi a Simone Di Cillio e De Stefano.
"A quest'ora, potete trovare Simone Di Cillio nel
suo agriturismo. De Stefano invece, al circolo", rispose
Ciaramella, che conosceva le abitudini di tutti i biglianesi.
Verrastro ringraziò Ciaramella per le informazioni,
fece i complimenti per il caffè "davvero speciale", pagò il
conto e uscì dal bar. L'operatore e l'assistente raccolsero tutto
quello che avevano accantonato nell’angolo del bar, opposto
alla porta d’entrata, e seguirono Verrastro.
La prima tappa fu l'agriturismo, dove il contatto
con Simone Di Cillio non andò a buon fine.
"Vi ringrazio per aver pensato a me ma non
intendo rilasciare interviste, che riguardino il caso di
Marilella", rispose Simone alla proposta di Verrastro.
"Ne è sicuro? Solo qualche domanda", provò ad
insistere il giornalista potentino.
152
"Mi dispiace molto ma non ho nulla da
aggiungere".
"Lei, però, la conosceva molto meglio di altri, qui a
Bigliano".
"Si tratta di una storia passata, sulla quale non
intendo ritornare".
Verrastro, allora, si diresse in direzione del circolo,
sperando di avere miglior fortuna con il maresciallo. Si fece
indicare De Stefano che, intanto, stava giocando a briscola
con D'Eugenio.
Si avvicinò al maresciallo a riposo.
"Mi scuso per l'interruzione ma gradirei parlare con
lei".
Il maresciallo a riposo, che teneva molto alla
briscola con D'Eugenio, apparve chiaramente infastidito.
Aveva l’asso di spada tra le mani e voleva giocarselo nel
miglior modo possibile. Stava facendo il calcolo delle carte già
giocate, per valutare il momento più opportuno per
utilizzarlo.
De Stefano sollevò lo sguardo. Avrebbe voluto
chiaramente dirgli "di non rompere le scatole", ma, per
evitare una brutta figura si trattenne.
"Un attimo, per cortesia! Finisco questa mano e
sono da lei" Disse, con tono deciso da maresciallo.
“Chi è questa persona che non conosco e che si
permette di interrompermi, mentre sto giocando una mano
tanto importante?” Pensò De Stefano.
Con D’Eugenio avevano vinto una mano a testa e
si stavano giocando la bella. Erano ben sei turni che De
Stefano non riusciva a spuntarla con il dottore. Il punteggio
della bella era di sette a quattro per il maresciallo a riposo.
De Stefano temette di perdere la concentrazione
153
ma si ricompose dopo aver risposto, trafelato, al giornalista.
La possibile vittoria su D'Eugenio sembrava un'occasione
troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Riprese il calcolo delle
carte già giocate, per valutare l’opportunità di giocarsi l’asso di
spada.
Rocco Verrastro, si sedette ad un tavolo libero,
insieme al cameraman e all'operatore, in attesa che De
Stefano si liberasse. Il cameramen aveva la telecamera in
mano, mentre aveva depositato il resto dell'attrezzatura
tecnica in un angolo del circolo, come aveva fatto, qualche
minuto prima, da Ciaramella. I tre erano pronti a girare ma
bisognava attendere De Stefano. Ordinarono altri caffè,
ristretto per Verrastro, decaffeinato per l'assistente, macchiato
per l'operatore.
"Mannaggia, un’altra volta…", si sentì esclamare, in
fondo alla sala, qualche minuto dopo.
Era la voce delusa del maresciallo a riposo, che
usciva di nuovo sconfitto dal confronto con D'Eugenio.
Nonostante fosse stato in vantaggio, non era riuscitoa vincere
la partita. Il risultato si era capovolto a favore di D'Eugenio,
proprio a partire dall'entrata nel circolo di Verrastro.
"Hai perso di nuovo", gli disse D'Eugenio.
"Stava
andando
tutto
bene…se
non
era
per…vabbé…fammi vede' che vole", gli rispose De Stefano,
arrabbiato.
Si diresse verso Verrastro. Avrebbe voluto
staccargli il ciuffo di capelli, che aveva sulla fronte, ma si
trattenne.
"Mi dica…", esclamò De Stefano.
"Dunque…le spiego…", disse Verrastro, che nel
frattempo si era alzato dalla sedia e si era posizionato di
fronte a De Stefano.
Infilò le mani in tasca, si raddrizzò il bavero della
154
giacca, che indossava sul maglione bordeaux, a collo alto, e
iniziò a parlare. Fu molto chiaro fin dall'inizio.
"Sono un giornalista della televisione regionale e mi
trovo a Bigliano per fare un servizio per l’anniversario di
Mariella la bella".
"E che c'entro io? Non è me che dovreste
intervistare", rispose il maresciallo sorpreso.
"Il suo nome mi è stato fatto dal proprietario del
bar in piazza".
"Ciaramella?" Esclamò De Stefano, sempre più
sorpreso.
"Non conosco il suo nome…il proprietario, il
gestore…insomma, il tipo del bar…quello che sembra un
arabo per quanto è nero".
"Ciaramella!"
De Stefano appariva infastidito e non riusciva a
capire le ragioni del suo coinvolgimento. Si rilassò solo
quando Verrastro gli riferì che Ciaramella lo riteneva la
persona giusta per parlare con un giornalista".
“Ah, beh…in questo caso…vediamo cosa si può
fare”, rispose inorgoglito.
Invitò Verrastro a prendere un caffè.
"Già preso, proprio due minuti fa, maresciallo",
rispose Verrastro, declinando l'invito.
I due decisero di sedersi al tavolo vicino al bancone
e di scambiare quattro chiacchiere.
"Non le fa caldo con quel maglione a collo alto?"
Chiese De Stefano.
"Ho messo su la prima cosa che ho trovato
nell'armadio".
"Si vede, si vede…", mormorò De Stefano, mentre
155
scrutava Verrastro da capo a piedi. Poi aggiunse, "come mai
non porta l'eskimo?"
"Come dice, maresciallo?", replicò Verrastro,
sorpreso per la domanda di De Stefano.
"Niente, niente", sussurrò De Stefano.
Il maresciallo a riposo odiava i maglioni a collo alto
e odiava gli eskimo. Aveva iniziato a odiarli alla fine degli
anni sessanta, quando faceva servizio a Novoli. Di tanto in
tanto veniva utilizzato come rinforzo, durante le proteste
studentesche all'università di Bari, per colpa di quei giovanotti
con il maglione a collo alto e con l'eskimo.
Verrastro gli ricordava tanto quei giovanotti,
benché per ovvi limiti di età non potesse aver partecipato alle
rivolte studentesche della fine degli anni sessanta.
"Semmai negli anni seguenti…", pensò De Stefano.
Verrastro, intanto, smanettava sul suo taccuino.
"Dove ha svolto la sua carriera universitaria?" Gli
chiese De Stefano.
"A Pisa", rispose Verrastro.
"Ora capisco…Pisa…immagino
quell'università. Un covo di rivoluzionari".
cosa
fosse
"Non capisco, maresciallo".
"Quel maglione a collo alto…ora capisco dove ha
imparato ad indossarlo".
Verrastro
aveva
partecipato
a
diverse
manifestazioni studentesche ma il maglione a collo alto non
lo legava proprio a quegli avvenimenti.
"Non c'entra niente con l'università di Pisa. Lo
indosso per via del minimalismo francese".
"Pisa? Covo di rivoluzionari!" Ripeté De Stefano.
156
"Quelli di Pisa non erano rivoluzionari. Semmai ci
vorrebbe ora una rivoluzione, maresciallo! Una bella
rivoluzione che spazzasse via questo ciarpame".
"Su questo punto, mi trova completamente
d'accordo. Lo dico sempre qua dentro che ci troviamo in un
regime di bastardi approfittatori. Lei dice ciarpame?"
"Ciarpame, certo!"
"Ciarpame da spazzare
rivoluzione di capitani e colonnelli".
via
con
una
bella
"Ma che dice? Questo è fascismo! Ci vuole una
rivoluzione della gente, che travolga questa democrazia del
cavolo e che ne faccia nascere una nuova. Una vera
democrazia, in cui la gente possa decidere realmente".
"Lasci perdere. La gente non è capace di pensare ai
propri interessi. Se lo sapesse fare, non voterebbe per questi
bastardi che, puntualmente, vincono le elezioni".
"Se la gente potesse realmente decidere, potrei
anche essere d'accordo con lei ma non lo è, mi creda. Vive
solo l'illusione della democrazia".
De Stefano fece un grugnito. Poi riprese a dialogare
con il giornalista.
"Mi dica piuttosto cosa desidera da me?"
“Vorrei farle qualche domanda. Sapere cosa pensa
di questa vicenda. Com’è possibile che una persona venga
risucchiata da un buco nero, in un paese piccolo come
Bigliano, maresciallo”.
Nonostante avessero un background diverso e
vedessero la rivoluzione da due angolature opposte, i due si
prendevano. Avevano qualcosa in comune che li univa.
Verrastro non sapeva ancora cosa fosse ma sentiva che
avrebbe potuto fidarsi di De Stefano. Non lo aveva squadrato
da capo a piedi, come De Stefano aveva fatto con lui, ma lo
aveva fissato dritto negli occhi e il maresciallo a riposo non
157
aveva mosso lo sguardo. Era più di un segnale.
“Tengo a precisare che questi sono fatti ormai
acclarati dall’inchiesta”, affermò, De Stefano, aggiustandosi il
nodo della cravatta.
“All’inizio i sospetti si sono concentrati sulll’ex
fidanzato. Poi due persone di Bigliano avrebbero visto
Mariella in una grossa macchina di lusso nera. Tale macchina
si dice appartenesse ad un noto politico locale”.
“Il consigliere provinciale De Cesare”.
“Appunto”.
“E poi? Questi fatti sono mai stati appurati? Da
allora non se ne sa più niente. Tutto sembra essersi fermato.
Anche l’inchiesta sembra essere finita nello stesso buco nero
in cui è finita Mariella”.
“Sono fatti ormai noti”, affermò De Stefano, fiero
del proprio intuito.
"Lo so, maresciallo, sono fatti ormai noti", ribatté
Verrastro, lasciando trasparire una nota di amarezza.
"Non so dirle più di questo".
"La gente cosa ne pensa? I suoi colleghi carabinieri
cosa dicono? Perché hanno smesso di indagare?"
"I colleghi? Conti quanto il due di picche il giorno
dopo che hai incellofanato la tua divisa".
"Pensa che di loro non ci si possa fidare?"
"Verrastro!" Esclamo' De Stefano, "i carabinieri
sono fedeli fino alla morte! Fino alla morte, ha capito?"
"Eppure abbiamo il dovere morale di sapere la
verità".
"Senta, personalmente non ho mai creduto
all'ipotesi dell'allontanamento volontario. Si, la storia del
padre …quello che vuoi, ma in questa storia non c'entra
158
niente. E' un povero diavolo, un disgraziato ma incapace di
fare del male. Non sarebbe stato capace di torcere un solo
capello alla figlia".
"Se si esclude il padre e l'ex fidanzato, chi resta? E
soprattutto se diamo per affidabili le deposizioni di chi dice
che ha visto Mariella in quella grossa macchina,
presumibilmente di De Cesare. Perché si trovava in quella
macchina? Dov’è andata dopo? Dov’è finita?" Chiese
Verrastro"
"Bella domanda, giovanotto!"
Alla fine della chiacchierata, De Stefano non
concesse l'intervista, ma ringraziò ugualmente Verrastro che,
a sua volta, ringraziò De Stefano. Il giornalista potentino
chiese al maresciallo a riposo il suo recapito telefonico che un
po esitante glielo diede.
“Lo chiedo a tutte le persone con le quali entro in
contatto. Lo faccio per motivi strettamente professionali e
sono estremamente discreto”, lo rassicuro il giornalista.
De Stefano, dopo aver salutato Verrastro, ritornò a
sedersi al tavolo con D'Eugenio. Non parlò della
conversazione, che il maresciallo a riposo aveva avuto con il
giornalista ma della partita che aveva visto D'Eugenio
trionfare per l'ennesima volta.
“Se non fosse intervenuto il giovanotto…”,
recriminò De Stefano.
Il timballo della moglie del maresciallo De Stefano
D'Eugenio era una persona molto ben considerata
a Bigliano. Da quando era andato in pensione, si dedicava alla
cultura, animando un'associazione letteraria particolarmente
attiva, durante il periodo estivo. Aveva organizzato la
presentazione dell'ultimo libro del ragioniere La Spina, alla
159
presenza di molti biglianesi, tra i quali parte della famiglia
Calenda, A' bionda, in quarta fila, accanto alla moglie di
Pinuccio di Gina, il maresciallo a riposo e consorte.
De Stefano seguì l'evento distrattamente. Avrebbe
preferito giocare a carte nel circolo, ma non poteva fare un
torto a La Spina. Durante la presentazione, sfogliò il libro di
poesie, che aveva tra le mani. Ne lesse alcune. La moglie,
invece, seguì la presentazione del libro con attenzione.
Tornati a casa, ne discussero brevemente.
“Vorrei invitare a pranzo il ragioniere La Spina”,
disse la signora Rosa al marito.
De Stefano approvò e suggerì il sabato seguente.
"Ti ho appena detto che sabato non va bene".
"Allora venerdì, o giovedì o qualsiasi altro giorno",
rispose il maresciallo a riposo, mostrando il più totale
disinteresse.
Parlava con la moglie ma pensava ad altro. La
conversazione con il giornalista della televisione regionale, si
era insinuata nella sua mente e, come un tarlo, faticava ad
uscirne.
“Sembra impossibile che sia già passato un anno
dalla scomparsa della ragazza”.
Verrastro stava risvegliando la coscienza assopita di
De Stefano. Probabilmente l’esperienza in Sicilia lo aveva
indotto ad una lettura più complessa di eventi
apparentemente semplici.
La Lucania non era mai stata al centro di clamorosi
casi di cronaca e, nonostante si trovasse in mezzo a regioni
con elevati tassi di criminalità, era rimasta un’isola felice.
Qualche volta capitava un omicidio ma niente di paragonabile
con ciò che succedeva in Campania, in Puglia o in Calabria,
dove, invece i morti erano all’ordine del giorno. I politici
lucani ne erano fieri. Imputavano il basso tasso di criminalità
160
alla loro capacità, pur sapendo che solo la marginalità
economica e l’emarginazione sociale avevano salvato la
Lucania.
Il caso di Mariella la bella turbava l’isola felice, ma
sarebbe stato sufficiente non parlarne per eliminare il
problema.
De Stefano, che da quando era andato in pensione
aveva più tempo per pensare, non riusciva a togliersi di mente
quella conversazione con il giornalista Verrastro. Era rimasto
colpito dal suo desiderio di conoscere la verità di quei fatti
dopo tanto tempo. Lo trovava quantomeno insolito.
Si era sentito punto sul vivo. “Cosa avrebbe potuto fare, lui
un semplice ex maresciallo dei carabinieri in pensione?”, si
chiedeva.
L’ultimo giorno di servizio festeggiò con i colleghi, che gli
regalarono un orologio con il cinturino di pelle.
"Finalmente posso godermi la vigna, leggere il
giornale con calma e giocare a carte al circolo", disse ai
colleghi.
In realtà, il giornale lo aveva sempre letto e aveva
anche sempre avuto il tempo per curare la vigna.
Semplicemente non gli piaceva andare in pensione e tentava
di ingoiare una pillola meno amara.
Da quando aveva parlato con quel giornalista gli era
presa una smania. Gli era venuta nostalgia del suo lavoro, del
periodo trascorso in Sicilia. Avrebbe voluto essere ancora il
maresciallo di un tempo.
"Che fine ha fatto quel maglione a collo alto che mi
avevi regalato qualche anno fa?" Chiese, con un tono
ostentamente leggero, alla moglie.
La signora Rosa sembrò cadere dalle nuvole.
"Maglione a collo alto?"
161
"Si, maglione a collo alto".
"Dicesti che non ti piaceva. Sarà da qualche parte
dell'armadio. Vuoi che te lo cerchi?"
"Aspettiamo, aspettiamo".
"Aspettiamo cosa?" Chiese la signora Rosa, mentre
lo guardava, stranita.
"Aspettiamo, aspettiamo", ripeté De Stefano.
Anche quando aveva effettuato l'arresto del
mafioso importante non aveva fatto intendere nulla a chi gli
stava intorno. La riservatezza era il suo maggior pregio.
La sera seguente, poco prima della chiusura, andò
nel negozio di Pinuccio di Gina.
“Compra il prosciutto cotto e le
possibilmente fresche”, gli aveva chiesto la moglie.
uova,
Il giorno successivo avrebbe preparato il timballo
di patate per il ragioniere La Spina. Avrebbe cucinato anche il
coniglio alla cacciatora, con contorno di piselli. In realtà, il
timballo, nella variante biglianese, si sarebbe dovuto preparare
con la salsiccia, ma la signora Rosa non gradiva.
“Meglio il prosciutto cotto”, disse al marito.
De Stefano, pur non condividendo, si adeguò.
Entrò nel negozio di Pinuccio di Gina ma Pinuccio
non c'era. C'era la moglie, che non si accorse di De Stefano,
giacché conversava fitto con A' bionda, la sua amica. Il
maresciallo a riposo non fece caso a loro e si diresse
immediatamente verso il comparto delle uova. La moglie di
Pinuccio di Gina si trovava nel corridoio che porta dal
comparto della pasta a quello dei surgelati. Continuava a
discutere con 'A bionda, che aveva in mano due pacchi di
spaghetti. Erano così prese dalla conversazione, che non
notarono la presenza di De Stefano.
Il maresciallo a riposo, dopo aver preso le uova, si
162
stava dirigendo al banco dei salumi, quando la conversazione
tra le due donne attirò la sua attenzione.
"Ti devo dire ‘na cosa", disse 'A bionda alla moglie di
Pinuccio, afferrandola per un braccio.
"Che mi devi dire?" Le chiese la moglie di Pinuccio,
incuriosita.
'A bionda piegò lo sguardo. Si portò la mano destra
sulla testa. Spinse la sua lunga chioma bionda indietro. Esitò
qualche secondo prima di iniziare a parlare. La moglie di
Pinuccio di Gina si fermò a guardarla. Le prese le mani,
mentre la chioma bionda gli scivolò davanti e le coprì il viso.
"Riguarda Gianni…"
"Ah, Gianni…", esclamò la moglie di Pinuccio, per
nulla sorpresa, presumendo che l'amica dovesse raccontare,
come al solito, le sue pene d'amore.
"…e Mariella", aggiunse sottovoce.
"Mariella? Chi è stà Mariella?" Chiese la moglie di
Pinuccio, "una nuova amante di Gianni?".
"No, non si tratta di una nuova amante ma di
Mariella la bella!"
"Mariella la bella?" Ripetè, sorpresa, l’amica, "cosa
c’entra Mariella la Bella con te e Gianni?".
Che la preoccupazione di ‘A bionda fosse legata a
Gianni era comprensibile, ma che fosse legata a Gianni e
Mariella insieme era davvero sorprendente.
“C'entra, c'entra…e c'entro anch'io e…", rispose ‘A
bionda, abbassando lo sguardo.
"Pure tu?"
"Si, io e qnche altre persone".
La moglie di Pinuccio non riusciva a credere alle
sue orecchie.
163
"Senti è meglio parlare da un'altra parte. Potrebbe
arrivare qualcuno e sentirci. Ne parliamo da un'altra parte”,
disse A’ bionda.
La moglie di Pinuccio dovette rassegnarsi.
Contemporaneamente, una serie di interrogativi si
affollarono nella mente del maresciallo a riposo. D’istinto, De
Stefano lasciò le uova e rinunciò a comprare il prosciutto.
Uscì trafelato dal negozio, senza farsi notare, ma prima di
uscire ebbe modo di udire le due amiche prendere
appuntamento per il giorno seguente.
“Ci vediamo in chiesa”.
“Alle cinque e mezzo”.
“Per la messa?”
“Per la messa!”
De Stefano, che aveva rinunciato al prosciutto e
alle uova, decise che avrebbe detto alla moglie di aver
dimenticato di prenderli e che il giorno successivo sarebbe
stato più opportuno preparare pasta e ceci. Si trattava del
piatto preferito dal ragioniere e sarebbe stato un atto di
ospitalità, che La Spina avrebbe, senza dubbio, gradito.
Il confessionale di Don Sabatino
Mentre camminava, i pensieri del timballo si
alternavano a quelli di Mariella. Il maresciallo a riposo
stentava a credere alla conversazione, che aveva appena udito.
I dubbi aumentavano. L’interrogatorio di De Cesare, le
perplessità di Verrastro e, ora, queste ultime rivelazioni,
captate per caso, gli fornivano nuovi elementi di riflessione. Il
bianco non era più bianco. Il nero era sempre più nero. I
colori della tentazione sporcavano un quadro di figure senza
più contorni. Il mondo antico si dileguava nelle tenebre. A'
164
bionda non aveva detto nulla di preciso, ma quei nomi, quelle
persone in che modo avevano a che fare con Mariella e forse
con la sua scomparsa. Camminando, il maresciallo a riposo
incrociò Sesto Calenda, il padre di Gianni. Lo salutò
rispettosamente.
“Ossequi, dottore”.
Sesto Calenda ricambiò il saluto, accompagnandolo
con un leggero movimento della mano destra e si diresse
verso il bar di Ciaramella. Avrebbe avuto voglia di prendere
un caffè ma cambiò idea e tirò dritto.
“Non mi sembra proprio il caso”, pensò.
Il bar di Ciaramella aveva un livello di
frequentazione medio. I Calenda, per esempio, raramente vi
entravano. I Di Cillio lo frequentavano ma con moderazione.
Sia Simone che l'avvocato, di tanto in tanto, consumavano
una birra oppure il caffè. L'avvocato lo faceva per dare un
segno di accondiscendenza popolare, mentre Simone per un
puro sentimento di democrazia. Dantino Telesce, che poteva
annoverare il patrimonio più consistente di Bigliano, ci
beveva il caffé, ma solo nei giorni di festa. Dantino era
tuttavia un parvenu.
Quando Radiouno e Radiodue videro Sesto
Calenda nei pressi del bar, pensarono immediatamente ad una
visione.
"O' vedi a Piperchia”, disse Radiouno, riferendosi a
Sesto Calenda
"Sta venendo dentro o’ bar", aggiunse Radiodue.
"Non pote essere", replicò Ciaramella, che aggiunse
con tono indispettito, "i Calenda non si abbassano".
A Bigliano, Sesto Calenda era per tutti Piperchia.
Tuttavia, a differenza di quello che avveniva regolarmente
con i membri della Bigliano medio-basso, non era consentito
utilizzare il contranome, se non alle sue spalle. I Calenda
165
godevano di prestigio ed influenza e, pertanto, andavano
riveriti. L'ossequio prevedeva l'utilizzazione del titolo, che nel
caso di Sesto Calenda era dottore. In altri tempi, secondo la
tradizione borbonica, avrebbe avuto diritto al Don, come un
tempo era toccato al padre Vito ma, purtroppo per lui, i
tempi erano cambiati
Ciaramella aveva visto bene, "i Calenda non si
abbassano". Per quanto Sesto Calenda desiderasse un caffè
ma, soprattutto, morisse dalla voglia di sapere cosa si dicesse
nel bar, evitò di entrare e fece ritorno a casa.
Il giorno seguente era venerdì e tutta la famiglia
Calenda andò in chiesa, come consuetudine il primo venerdì
del mese. Anche De Stefano andò in chiesa. Aveva esitato
non poco ma alla fine cedette all’impulso della curiosità. Si era
convinto sia l’incontro con Verrastro che la conversazione nel
negozio non fossero stati casuali. Era il destino che l’aveva
messo di fronte a quel caso e lui aveva l’obbligo morale di
andare fino in fondo. Qualsiasi cosa avesse potuto fare per
quella ragazza l’avrebbe fatto. Era suo dovere.
Il maresciallo a riposo giunse in chiesa alle cinque e
venticinque. Varcò la soglia, fece il segno della croce e si
guardò intorno. La moglie di Pinuccio era già entrata e si era
seduta nel banco in corrispondenza del confessionale. Era
sola. La sua amica ancora non era arrivata.
“Tanto meglio”, pensò De Stefano.
Ritenne che sarebbe stato opportuno inginocchiarsi
nel confessionale, facendo finta di confessarsi, per guadagnare
una buona posizione di ascolto. Dopo qualche istante giunse
anche ‘A bionda, mentre la famiglia Calenda occupava il
primo banco, alla sinistra dell’altare. La madre di Torino
Concetti iniziò a recitare il rosario ad alta voce. ‘A bionda non
fece caso al maresciallo a riposo e andò a sedersi accanto alla
moglie di Pinuccio di Gina.
“Allora…cosa é successo di tanto grave da doverne
parlare qui in chiesa?” Gli chiese l’amica.
166
“Non ce la faccio più. Non riesco più ad andare
avanti. Non vivo più per l’angoscia. Non riesco a dormire per
il senso di colpa e per il peso che mi opprime. Non pensavo
che sarebbe successo quello che è successo”.
“Ma cosa è successo di tanto grave?”
“Non ce la faccio più a tenermi questo segreto. A
volte penso di confessarmi per togliermi ogni peso ma dovrei
raccontare di me e Gianni…poi la presenza di Mariella….è
tutto cosi complicato, Madonna mia”.
“Mariella? Ma che c’entra Mariella con te e
Gianni?” Chiese preoccupata l’amica.
"Sai che Gianni e De Cesare si conoscono da
tempo. Sono ottimi amici. Lui é stato anche suo testimone di
nozze".
"Si, lo so."
"Ti ricordi il loro matrimonio?"
"Sì, ricordo".
"A quel matrimonio De Cesare conobbe Mariella".
"Non mi ricordo di averli visti insieme".
"Sì, te lo dico io. Conobbe Mariella al matrimonio
di Gianni e Camilla".
"I politici stringono mani e conoscono tanta
gente".
"Beh, quella con Mariella non fu solo una stretta di
mano. De Cesare s’infatuò di Mariella qundo la conobbe. Me
lo disse Gianni un pomeriggio, che saremmo dovuti andare al
mare".
"Con Gianni?"
"Con Gianni, certo!… Ma non solo".
"E con chi altro?"
167
"Con De Cesare e Mariella. Aveva chiesto a Gianni
di organizzare un incontro a quattro".
"Andaste al mare con De Cesare e Mariella?"
"Sì. Quel pomeriggio mi resi conto che a De Cesare
piaceva Mariella".
"Invitò ad uscire Mariella?"
"Sì! Ma non ripetere le cose che ti dico. Qualcuno
potrebbe sentire".
"E non fu l’unica volta. Altre volte siamo usciti
insieme. Comunque quella sera in cui Mariella scomparve
eravamo usciti insieme".
"Voi quattro?".
“Sì, Gianni avrebbe organizzato una serata
particolare. Lo avevamo già fatto".
"Che vuoi dire con particolare?"
"Quella sera, il consigliere si era messo in testa che
doveva avere Mariella. Era da quando l’aveva vista al
matrimonio di Gianni che si era fissato con lei”.
“E lei?”
“Lei sembrava starci…, in un primo momento, sai
De Cesare è importante”.
“O’ saccio, o’ saccio…”
“Mariella in quel periodo era delusa per via della
storia con Simone, finita male. Simone l’aveva fatta soffrire
tanto e lei non aveva più intenzione di ascoltarlo. Mariella
voleva una vita diversa, De Cesare l’aveva illusa e lei ci aveva
creduto”
“Ma che dici?” Chiese la moglie di Pinuccio di
Gina, con un tono misto di curiosità e sgomento.
“De Cesare non avrebbe mai lasciato la moglie ma
168
Mariella si era illusa e ci sperava”.
"Gli uomini non hanno mai il coraggio di lasciare il
porto sicuro in cui si sono rifugiati. Sono dei vigliacchi!"
"Vigliacchi e cinici. I politici, due volte vigliacchi e
cinici".
“E quella sera?”
“Quella sera eravamo in un appartamento al mare,
a Maratea. De Cesare ci andava con altra gente importante.
Non so cosa altro facessero".
"E tu e Gianni?"
"Avevamo bevuto".
"E Mariella?"
“Non o’ saccio cosa é successo di preciso. Avevamo
bevuto".
"Cosa é successo a Mariella?"
"Mariella si è sentita male. Non so perché. Io non
ero con lei. Era insieme a De Cesare. Non so cosa ha bevuto
o ha preso. L'ho sentita dire che voleva andare via ma De
Cesare insisteva…insisteva…”
“E voi?”
“Noi?...niente! Avevamo bevuto. Cosa potevamo
fare?”
“E Mariella? Perché non é andata via?”
“Ha cercato, ma poi a iniziato a vomitare. Ha perso
i sensi. Bisognava portarla in ospedale…ma a un certo punto
De Cesare…”
Proprio in quel momento la voce di don Sabatino,
che vide De Stefano inginocchiato, lo fece soprassalire.
“Maresciallo, mi dica…vuole confessare i suoi
peccati, immagino”.
169
"Oh! Don Sabatino! Si, si…ovviamente…si, i miei
peccati", farfugliò il maresciallo.
De Stefano si vide costretto a confessarsi, se non
voleva essere scoperto o fare la figura dell’inzallanuto.
“Mannaggia a Don Sabatino!” Recriminava De
Stefano all'ultimo banco, in fondo alla chiesa, mentre recitava
la sua pentitenza. Se non fosse stato per quel prete, avrebbe
potuto conoscere il finale della storia.
Le parole del brigante
Dopo essere stato a Bigliano per preparare il
servizio, a un anno dalla scomparsa di Mariella, Rocco
Verrastro fece ritorno a Potenza. Non era riuscito a
raccogliere nessuna intervista.
“I biglianesi non vogliono parlare, benché danno
l'impressione di sapere molto più di quello che lasciano
intendere”.
Alcuni, senza parlare avevano espresso un generico
sentimento di solidarietà, una sorta di viatico finalizzato a
purgare l'inadempienza dell'intera comunità.
Giunto in redazione, chiese al caporedattore di
concedergli ancora qualche giorno di tempo per preparare il
servizio.
"Non ci sono problemi. Prenditi il tempo che ti
serve", gli rispose il caporedattore.
In realtà, il suo capo non ricordava che Rocco
fosse andato a Bigliano, ma non lo diede a vedere. Da parte
sua, Verrastro intendeva sfruttare la disattenzione del
caporedattore per montare un servizio di approfondimento.
Rocco aveva fatto sue le parole del brigante lucano
Carmine Crocco, […]E intorno a noi il timore e la complicità di un
170
popolo. Quel popolo che disprezzato da regi funzionari ed infidi
piemontesi sentiva forte sulla pelle che a noi era negato ogni diritto, anche
la dignità di uomini. E chi poteva vendicarli se non noi, accomunati
dallo stesso destino? Cafoni anche noi, non più disposti a chinare il capo.
Calpestati, come l'erba dagli zoccoli dei cavalli, calpestati ci vendicammo.
Molti, molti si illusero di poterci usare per le rivoluzioni. Le loro
rivoluzioni. Ma libertà non è cambiare padrone. Non è parola vana ed
astratta. È dire senza timore, È MIO, e sentire forte il possesso di
qualcosa, a cominciare dall'anima. È vivere di ciò che si ama. Vento
forte ed impetuoso, in ogni generazione rinasce. Così è stato, e così sempre
sarà […].
Voleva che l'antico spirito dei briganti lucani
sopravvivesse nel profondo della sua anima. Gli era sempre
piaciuto rompere le palle ai bastardi che pensavano di essere
al di sopra del bene e del male. Poche volte glielo avevano
lasciato fare ma, quando aveva potuto, aveva provato un
piacere particolare. Aveva un’alta considerazione etica e
morale della professione di giornalista. Grazie ad essa pensava
di poter dar voce alla sete atavica di giustizia della gente che
non si riconosce nell'autorità costituita.
“La voce dell'anima mi sussurra parole profonde”.
Era l'anelito al rispetto del suo popolo, che il potere
aveva sottomesso, sottoposto e vituperato per secoli. I
problemi che avevano originato il brigantaggio e che, in gran
parte, risalivano alla responsabilità del governo borbonico,
erano rimasti irrisolti. Come il gusto delle more appena
raccolte, che aveva deliziato il proprio palato, il giornalista
provava un piacere particolare nello scrivere a servizio della
giustizia e del popolo. La carriera non lo attraeva e meno che
meno lo lusingavano il denaro e il potere.
Gli bastavano pochi soldi per sopravvivere.
Sognava di spezzare le reni all'oligarchia, che si forma nelle
democrazie e che il degenerato sistema dell’informazione non
fa che perpetuare. Riteneva Potenza la quintessenza del
feudalesimo, una città in cui non c'era spazio per le vie di
mezzo. Si era padroni oppure servi.
171
Verrastro lottava per tentare di essere almeno
padrone di se stesso. Rappresentava una sorta di miracolato.
Avrebbe voluto dedicarsi al caso di Mariella la bella ma il
caporedattore non la pensava come lui. All’epoca del fatto gli
assegnò un altro servizio.
“Devi andare a Montegiro per riprendere la festa di
nonna Lucia, che compie cento anni”.
Verrastro andò a Montegiro, intervistò nonna
Lucia, ma promise a sé stesso di continuare ad indagare sul
caso di Mariella. Quella storia non lo convinceva e ancor
meno lo convincevano i protagonisti coinvolti.
“Perché
le
indagini
si
sono
arenate
improvvisamente? Perché non sono stati sentiti alcuni
testimoni, che conoscevano Mariella e, probabilmente, i suoi
ultimi movimenti? Perche non sono mai state appurate le
circostanze riferite da Carmelina 'a napuletana? Qual é il ruolo
di De Cesare in questa vicenda?”
Intanto De Stefano, in seguito all’appostamento del
confessionale, aveva già parte di quelle risposte. Lui sapeva
cosa era successo la sera della scomparsa di Mariella ma la
scoperta di quel mistero iniziava a tormentarlo. Passeggiava
nel corridoio di casa sua. Dal soggiorno andava verso le scale
e, da lì, alla camera da letto. Faceva avanzare i suoi piedi
lentamente, uno davanti all'altro. Le mani incrociate dietro la
schiena e lo sguardo basso. Aveva dismesso l’abito grigio e
aveva indossato il suo vecchio maglione, a collo alto, di colore
senape. Era il segnale che quel giorno non sarebbe più uscito
di casa. Avrebbe rinunciato alla partita a carte con D'Eugenio.
"Dovrei
parlare
con
dovrei…", ripeteva a bassa voce.
Turtino…si…dovrei,
Lo ascoltò per caso la moglie, senza capire
esattamente cosa stesse dicendo. La moglie non
comprendeva, soprattutto, perché avesse deciso di indossare
il maglione a collo alto.
172
“Non lo ha mai fatto negli ultimi tempi”.
De Stefano, intanto, passeggiava e sussurrava.
“Il dovere mi impone di rivolgermi ai miei excolleghi. È la cosa giusta”.
Si sedeva per qualche secondo. Poi riprendeva a
passeggiare e sussurrare.
"Se avessero proceduto in maniera accorta e
circostanziata, sarebbero potuti giungere alle scoperte che ho
fatto io. Perché non ci sono arrivati?"
La sensazione del maresciallo a riposo era che ci
fossero stati dei fatti, tali da impedire di svelare il mistero o
almeno di una parte di esso. Mentre si avvitava sui suoi
pensieri, senza riuscire a prendere una decisione, ci pensò
Rocco a sciogliere il nodo gordiano.
Squillò il telefono. Era Verrastro.
"Maresciallo, buonasera. Sono Rocco Verrastro di
Potenza. La disturbo?".
"Ah, per fortuna che non sto giocando a carte",
rispose De Stefano.
"Si ricorda di me?"
"Come faccio a dimenticarti. Quando mi ricapiterà
una mano come quella?"
"Mi lusinga, maresciallo".
"Lasciamo perdere, Verrastro".
"Ci penso continuamente".
"Alla mano che mi ha fatto perdere?"
"Ma no, maresciallo!"
"Stavo scherzando, Verrastro. Anche i carabinieri
sanno scherzare. Come pensi che siano nate le barzellette?"
173
"Ci penso continuamente".
"A cosa?"
"Mariella la bella. Tutto troppo strano".
"Dici?" Rispose De Stefano, che non aveva
intenzione per il momento di svelare le sue carte.
"Certo, maresciallo. Più rifletto su questa storia e
più i conti non tornano", fece notare Verrastro, mentre iniziò
a snocciolare le situazioni che gli apparivano strane.
"I conti non tornano", si limitò a costatare il
maresciallo a riposo".
"saputo nulla dai suoi ex colleghi?" Esclamò, dopo
un attimo di silenzio, il giornalista potentino.
"I miei ex colleghi?" Rispose, stupito, De Stefano.
"Ma certo, i suoi ex colleghi…"
"Cosa vuoi dire?"
"Voglio dire che a me i suoi ex-colleghi non
diranno nulla. Di lei invece si fidano”.
"Non mi sembra di aver preso alcun impegno al
riguardo. Poi non so se i miei ex colleghi mi diranno qualche
cosa. Lasciami riflettere su questa cosa".
"Mi scusi, maresciallo, forse pretendo troppo ma lei
è l’unico ad essere stato gentile e a comprendere la
complessità della storia. Solo lei potrebbe darmi una mano".
"Ne riparliamo un'altra volta, va bene Verrastro?"
"Certo, maresciallo, ne riparleremo".
"Ma non al telefono. Non sarebbe prudente"
"Dove e quando?"
"Ti faccio sapere", concluse il maresciallo De
Stefano.
174
Smise di pensare a Verrastro e dismise il maglione a
collo alto di colore senape. Indossò di nuovo il vestito grigio
e decise di andare al circolo.
“Devo incontrare Turtino…ma per caso”.
L’incontro tra De Stefano e Turtino avvenne a
Piazza Giuseppe Verdi, che conserva la funzione e la struttura
dell’agorà e ne scandisce i ritmi. Si tratta di uno strano
concetto di cui i biglianesi ne sono inconsapevoli. Si
mantenengono e si creano le relazioni interpersonali, nella
casualità più assoluta.
"Maresciallo!" Esclamò Turtino.
"A riposo, purtroppo", rispose De Stefano, che
conosceva le abitudini dell'ex collega e sapeva di poterlo
incontrare in piazza.
"Sempre maresciallo, De Stefano. Noi dell'arma
restiamo carabinieri per la vita".
"Dici bene, Turtino. Però, ti garantisco che quando
vai in pensione ti senti molto meno carabiniere".
"Meglio, De Stefano, meglio", esclamò Turtino,
che aggiunse, "puoi goderti la famiglia".
"A proposito, come sta tua moglie?"
"È un lamento continuo, De Stefano".
"Ah, le mogli!"
"Colonnelli, De Stefano. Sono come colonnelli".
"A proposito di colonnelli, mi sembrava di aver
visto il colonnello Belisario".
"Il colonnello Belisario? E quando lo vedi quello?"
"Mi era sembrato di averlo visto".
"L'ultima volta che il colonnello Belisario si è visto
da queste parti è stato giusto un anno fa. Due o tre settimane
175
dopo la scomparsa di quella ragazza".
"È passato un anno. Il tempo scorre velocemente,
Turtino".
"Si diventa vecchi, De Stefano".
"Un anno e ancora niente".
"Niente?"
"Di quella ragazza…niente! Non si sa niente".
"Ah, ti riferivi alla ragazza".
"Si, voglio dire, è passato un anno. Ci sono
novità?"
"Niente, De Stefano. Appunto, come dicevi tu".
"Una ragazza scompare nel nulla e…niente".
"De Stefano, non sempre il niente è davvero
niente"
"Volevo ben dire…sono stato in Sicilia anch’io!"
"Il niente deve restare niente".
"Fammi
capire…",
avvicinandosi a Turtino.
chiese
De
Stefano,
"C'è il segreto su questa vicenda, De Stefano".
"Con me, lo sai, ti puoi sfogare. Sono in pensione
ma se ritieni che la mia esperienza possa esserti utile in
qualche modo non esitare".
"Ti ringrazio ma lasciamo perdere. Avrei preferito
non saperne nulla di tutta questa faccenda. Sarebbe stato
meglio".
Turtino non aggiunse altro. Non era molto quello
che aveva detto, ma era abbastanza quello che aveva lasciato
intendere.
De Stefano si rese conto che a nulla sarebbe valso
176
raccontare a Turtino ciò che sapeva.
“Mi ha fatto intendere chiaramente di tenermi alla
larga dalla vicenda”.
Chi poteva avere tanto interesse a occultare la
scomparsa di una giovane? E tanto da far dire a Turtino di
non interessarsi al caso e di fare in modo che il niente restasse
niente.
“Chi esercitava tale potere? Perché?”
De Stefano stava realizzando come la vicenda fosse
più complessa di quanto avesse inizialmente supposto. Gli
tornavano in mente i ricordi della Sicilia. Aveva visto il potere
politico-mafioso corrompere, ricattare oppure semplicemente
intimidire colleghi e superiori. Aveva scelto di andare via dalla
Sicilia per non cadere nella trappola dell'illegalità. Era troppo
onesto per scendere a vili compromessi con la sua coscienza.
“Ho sempre avuto nostalgia degli anni spesi
nell'arma, ma per la prima volta avverto un senso di sollievo
nell'essere in pensione”, pensò.
Mentre rifletteva, vide nella determinazione, nella
dedizione e nella ricerca di giustizia del giovane giornalista
sentimenti che un tempo aveva anch’egli avuto per la sua
professione. Gli faceva piacere poterlo rivedere presto.
"La pensione mi sta dando alla testa", pensò, "io,
carabiniere tutto d’un pezzo, preferisco parlare con un
giornalista di sinistra piuttosto che con un mio collega".
Rientrando a casa, incontrò casualmente
Tortoriello. I due si salutarono. Totonno stava andando in
ufficio, dove lo attendevano le due cugine di primo grado,
ormai al limite della pazienza. Avevano giurato che, alle
elezioni successive l'avrebbero fatta pagare all'inaffidabile
sindaco. Quello che le due cugine non sapevano, era che il
giorno dell'assunzione per i loro due figli stava per arrivare. Il
calcolo di Totonno, infatti, era preciso. Allo scadere della
mezzanotte del quarto anno e sei mesi dall'elezione, si mise in
177
moto il meccanismo che conduceva Radiouno e Radiodue
verso il lavoro. Purtroppo per loro, il primo giorno lavorativo
sarebbe stato in luglio, proprio com'era successo per Ziza.
Tortoriello si apprestava a iniziare la sua campagna
elettorale. Oltre a cercare di esaudire il maggior numero di
promesse fatte, si apprestava a farne di nuove. I bisogni dei
biglianesi cambiavano con il tempo e Tortoriello doveva
adeguarsi.
“È la legge della politica. Non l'ho inventata io”.
La morale comune è disgiunta da quella politica diceva il
grande e incompreso Niccolò Machiavelli.
"E se lo diceva Machiavelli, allora c'é da crederci",
pensava Totonno.
Anche De Cesare credeva a Machiavelli e si
adeguava. Non aveva alternative. Lo chiamavano dottore ma
nessuno sapeva in cosa fosse laureato. Probabilmente
nemmeno lui se lo ricordava.
Il vino rosso del maresciallo a riposo De Stefano
Dopo aver incontrato Totonno, il maresciallo a
riposo giunse a casa. Decise di invitare Verrastro nella sua
vigna.
"Ti faccio assaggiare il vino che io stesso produco",
gli disse al telefono.
Dopo aver messo giù la cornetta, gli tornarono in
mente il maglione a collo alto di Rocco e gli eskimo dei
giovanotti dell'università di Bari.
“Cosa
giovinastro?”
Lui
178
posso
sempre
avere
ordinato,
in
comune
l'altro
con
quel
volontariamente
sciatto.
"Come si può andare in giro con un maglione a
collo alto?"
Non si rese conto che faceva queste riflessioni,
mentre lui stesso ne indossava uno. Nei meandri della sua
coscienza si stava insinuando una simpatia per il giornalista
potentino? Gli vennnero in mente gli estremi che si
attraggono ma non ne fu completamente convinto.
Verrastro accettò di buon grado l'invito di De
Stefano. I due si diedero appuntamento per il lunedì seguente,
alle cinque del pomeriggio. De Stefano si dedicava alla cura
della vigna. Amava il vino, anche se non ne beveva che un
bicchiere durante il pranzo e mezzo bicchiere la sera. Ci
teneva molto al fatto che il vino fosse di qualità. Soprattutto
odiava il vino contenente i solfiti. Era un purista.
"Il buon vino deve essere completamente
naturale", diceva, nonostante i giacimenti di petrolio
costituissero una minaccia per la qualità delle produzioni
agricole della valle.
De Stefano attese Verrastro al circolo. Il giornalista
giunse puntuale. I due si diressero verso la campagna,
giungendo a destinazione dopo soli dieci minuti. De Stefano
mostrò, orgoglioso, il casale e la vigna a Verrastro.
“Il casale é stato costruito alla fine dell'ottocento e
rimodernato a metà degli anni cinquanta. Per accedervi
bisognava fare una lunga scalinata, utilizzando le maniglie di
ferro sul muro per evitare di perdere l’equilibrio”.
Verrastro volle percorrere tutti i gradini. Lo fece
senza appoggiarsi alle maniglie e, giunto a tre gradini dal
pianerottolo davanti la porta, rischiò di cadere.
"Le maniglie!" Urlò De Stefano da sotto la
scalinata, "ti avevo detto di usare le maniglie".
Verrastro fece un cenno con la mano. In
179
campagna, riconobbe le visioni dell'infanzia e ne risentì gli
odori.
“I colori non cambiano con gli anni”.
Dopo aver passeggiato per la vigna, De Stefano
invitò Verrastro a sedersi sul muretto in pietra, alla sinistra del
cancello di entrata del casolare, che il maresciallo a riposo
manteneva immobile, come pietrificato nel tempo e nello
spazio.
S'informò sull'ultima vendemmia.
“Produce molto questa vigna?”
De Stefano, che non ricordava esattamente le cifre,
rispose, "più o meno cinque quintali".
Il giovinastro che aveva conosciuto al circolo con il
maglione a collo alto, gli apparve sotto una luce diversa.
Riconobbe in lui le sue stesse passioni.
“Apprezza i miei stessi colori, riconosce i miei
stessi odori”.
Prese delle salsicce e le posò sulla griglia per
arrostirle. Prese anche delle olive verdi. Le mangiarono.
“Fantastiche queste salsicce!” Sentenziò Verrastro.
"Le ha preparate mia moglie. E lei che fa il maiale",
esclamò, orgoglioso, De Stefano.
"Dove ha trovato queste olive, maresciallo?".
"Sono olive di Bigliano, Rocco. Non ci crederai ma
vengono coltivate nella terra qui a fianco. Prodotti di
qualità… "
"Di qualità! Certo, di qualità…".
"Le olive di Zi' Antonio sono di qualità".
"Zi' Antonio?"
"Zi' Antonio. Lo zio di Mariella la bella…"
180
"Infatti, avevo l'impressione di aver già sentito
questo nome".
"Non è più lo stesso da quando è scomparsa la
nipote. L'ombra di se stesso. Rocco, credimi…l'ombra di se
stesso".
Fino ad allora, i due non avevano ancora fatto
riferimento al caso di Mariella la bella.
"L'ombra di se stesso", ripeté ancora una volta De
Stefano.
"Ombre, ombre…maresciallo. Quante ombre in
questo caso…".
"Ombre, certo, ombre, ma anche luci, caro Rocco".
"Che vuol dire, maresciallo?"
"Niente, niente…", rispose De Stefano esitante.
Ancora non si fidava del giornalista.
"Buono questo vino, Maresciallo. Lei non si fida di
me, vero? "
"Come faccio a fidarmi di uno che porta un
maglione a collo alto?".
"Come dice? Non capisco…"
"Il maglione a collo alto…", disse indicandolo.
"Questo…", disse Verrastro, mentre con la mano
destra pizzicò il collo del suo maglione, sporgendolo in
avanti, "mi piaceva Jacques Brel".
"Brelle? Un rivoluzionario degli studenti?"
"Magari. A modo suo fu un rivoluzionario ma non
nel senso politico che intendiamo noi. Ah, les bourgeois….mi
piacevano le sue canzoni, la sua forte gestualità".
"E portava il maglione a collo alto?"
"Credo di si. No, forse no. In realtà non lo so. Non
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importa. Io lo porto perché mi piaceva Jacques Brel".
"Brelle? Brelle?"
"Brel! Maresciallo, lasci cadere la e finale".
"Brel".
"Ecco, Brel".
"Un rivoluzionario?"
"Un poeta".
Il maresciallo a riposo mormorò delle parole che
non fu possibile intendere. Rifletteva.
“Chi é davvero questo giovane che mi ha interrotto
al circolo, mentre giocavo con D'Eugenio?” Pensava il
maresciallo tra sé.
D'istinto gli piaceva, ma ogni volta che si fermava a
riflettere, non poteva non pensare agli studenti dell'università
di Bari. Non sapeva ancora se poteva fidarsi e raccontargli ciò
che sapeva.
"Il caso di Mariella è emblematico, maresciallo.
Non si tratta solo di una ragazza che scompare ma di una
cultura che si vuole sotterrare. Rappresenta il buco nero in cui
si vuole far precipitare un popolo intero", cambiò
bruscamente argomento Verrastro.
"Mi sei simpatico, Rocco…se non fosse per quel
maglione…"
"Lasci perdere il maglione, maresciallo. Non è più il
tempo della contrapposizione ideologica. Qui va tutto a
rotoli. I diritti, i principi, i valori. Viviamo in una democrazia
che si sgretola, giorno dopo giorno. Lasciamo perdere le
divise e i maglioni. Io e lei siamo ormai dalla stessa parte".
"Un maresciallo in divisa e un giovane con il
maglione a collo alto?"
"Certo, maresciallo. È possibile. Lottiamo dalla
182
stessa parte. Io ogni giorno devo difendere il mio lavoro.
L'informazione attuale è serva di pochi".
"Lo vedo. Guardo la televisione ogni sera e ne
sono schifato".
"Io non dovrei esserne schifato perché è il mio
lavoro. Eppure lo sono anch'io. L’unica speranza è non
arrendersi mai. Lottare per cambiare".
"Non cambia niente, Rocco. Il giorno seguente è
peggiore di quello precedente".
"Eppure dobbiamo combattere, maresciallo. Ora
c'è da difendere Mariella e combattiamo per Mariella".
Entrambi non amavano cedere ai compromessi che
vivere in quella terra richiedeva. Erano sopravissuti e
volevano dimostrare che si poteva andare avanti. Entrambi
non potevano immaginare che l'onestà e la conoscenza
potessero accomunare due persone con un passato tanto
diverso. Eppure si trovavano a discutere, come due vecchi
amici.
"Non so come finirà tutta questa vicenda ma,
comunque vadano le cose, forse io avrò trovato un amico”,
ruppe il silenzio il maresciallo a riposo.
“Mi lusinga, maresciallo”.
“Mi sei simpatico e penso che potrò fidarmi di te”.
“La prego, maresciallo, lo faccia e non se ne
pentirà”.
“Voglio essere onesto con te, come lo sono sempre
stato nella mia vita. Devi sapere, caro Rocco, che a mia
moglie piace il timballo con il prosciutto cotto. Io,
francamente, lo preferisco con la salsiccia ma mia moglie è
testarda. Dice che con il prosciutto cotto è più delicato al
palato", iniziò a raccontare il maresciallo De Stefano.
"Con la salsiccia, con la salsiccia…si fa il timballo,
183
maresciallo…", fece notare Verrastro.
"Vedi che ho ragione, con la salsiccia, ma
purtroppo è lei che cucina ed è lei che decide".
"Già! Le donne. "
"Dunque…ti stavo dicendo che a mia moglie piace
il timballo con il prosciutto cotto. Avevamo invitato il
ragioniere La Spina a pranzo e mia moglie voleva preparare il
timballo. Mi chiese di comprare il prosciutto cotto e le uova.
Mentre mi trovavo in un negozio di generi alimentari, proprio
a due passi dalla piazza, forse ci sarai passsato davanti,
venendo al circolo…"
"Ehmm…no, non ricordo…"
"Non importa…"
"Va bene”.
"Dunque, mentre mi trovavo in questo negozio, ho
sentito una signora che tutti a Bigliano chiamano 'A bionda
confidarsi con un’amica".
"Cosa c’entra questa signora con Mariella?" Chiese,
impaziente, il giornalista.
"Calma, calma", rispose il maresciallo, con il tono
solenne di chi ha molto raccontare, "ci arrivo tra un attimo,
lasciami raccontare".
"Mi scusi…vada avanti".
“'A bionda è una signora di Bigliano. Gran bella
femmina. È la moglie di Ziza, uno squinternato, uno sfaticato
buono a nulla, che passa le giornate al bar, bevendo la birra.
Grazie al suo lavoro di impiegata comunale porta avanti la
famiglia. Se facesse affidamento sulla voglia di lavorare del
marito, morirebbe di fame", disse De Stefano sollevando il
braccio destro per enfatizzare il suo ragionamento, "ma sai
come vanno le cose in un paese. Il pane va spesso a chi non
ha i denti".
184
"Spesso il pane va proprio a chi non ha i denti",
ripeté Verrastro.
“Dunque…avevo già preso le uova e mi stavo
dirigendo al banco dei salumi, per prendere il prosciutto per il
timballo quando udii 'A bionda parlare con la proprietaria del
negozio, la moglie di Pinuccio di Gina, sua amica e
confidente. Il negozio era deserto e non si erano accorte della
mia entrata. ‘A bionda era agitata e parlava in maniera veloce.
Ad un certo punto, disse che sarebbe stato opportuno
incontrarsi per parlare di cose molto importanti che
riguardavano Gianni e Mariella".
"Il discorso si fa molto interessante".
"Immagina la mia sorpresa quando sentii che 'A
bionda doveva confidare all'amica un segreto che riguardava
anche Mariella. Le uova stavano per cadermi dalle mani".
Verrastro sorrise mentre De Stefano ne aprofittò
per sorseggiare il vino.
"Qual è il legame di questa signora con Mariella?"
Chiese incuriosito Verrastro, "e chi è questo Gianni?"
"La mia è una supposizione ma credo che questo
Gianni debba essere Gianni Calenda, nipote della buonanima
di don Vito Calenda. I Calenda sono la famiglia per eccellenza
di Bigliano. Tutti notabili i Calenda…"
"Un rampollo di buona famiglia, una bella femmina
sposata e Mariella", disse Verrastro, come se stesse riflettendo
ad alta voce.
"In paese gira la voce che ‘A bionda sia l’amante di
Gianni Calenda", affermò il maresciallo a riposo.
"Questo che rapporto ha
maresciallo", chiese, dubbioso, il giornalista.
con
Mariella,
"Fammi finire Rocco, e poi capirai".
"Gianni Calenda è amico di De Cesare, nonché suo
185
testimone di nozze. Gianni e ‘A bionda e De Cesare e
Mariella. Due più due fanno quattro", disse De Stefano
ripetendo il suo ormai famoso refrain.
"De Cesare?" Ripetè Verrastro sobbalzando dal
muretto in pietra sul quale era seduto. Dovette bere del vino
rosso per riprendersi.
"In negozio, non mi fu possibile intendere
nient'altro se non che 'A Bionda e l’amica si sarebbero viste il
giorno seguente, in chiesa. D’istinto lasciai le uova sul primo
scaffale che trovai e uscii dal negozio, cercando di non farmi
scorgere. Mia moglie, intanto, dovette rinunciare al timballo.
Il giorno seguente me ne andai in chiesa. Mi appostai
inginocchiato nel confessionale. Potevo ascoltare tutta la
conversazione e se non fosse arrivato quel rompicoglioni di
don Sabatino avrei ascoltato anche il finale".
Verrastro sorrise pensando alla scena del
maresciallo che faceva finta di confessarsi mentre invece era
appostato ad ascoltare la conversazione delle due donne.
"Il cerchio quadra", esclamò il maresciallo a riposo,
che poi aggiunse con cautela, "ammesso che sia vera la voce
che gira in paese della relazione tra Gianni Calenda e A’
Bionda".
"Vox populi… aggiunse Verrastro con un filo di
voce.
"De Cesare, politico navigato e amico di Gianni
Calenda, conosce Mariella e se ne invaghisce. La vuole ad
ogni costo…Gianni Calenda organizza una serata in un
appartamento al mare con l’amico. Questo spiega perché
quella sera Mariella fosse stata vista da alcuni testimoni in una
macchina scura di grossa cilindrata".
"E dove sarebbero andati?".
"Secondo quello che A’ Bionda riferisce all'amica,
avrebbero trascorso la serata proprio in un appartamento al
mare".
186
"Dove? E di chi era la casa al mare? C’erano altre
persone presenti o erano solo loro quattro?" Chiese ad alta
voce Verrastro.
"Non lo so. Questo 'A bionda non l’ha detto",
rispose il maresciallo.
"E cos’altro ha detto?"
"Che erano ubriachi. Forse, avevano anche fatto
uso di droga, probabilmente. Ad un certo punto Mariella si
sentì male e qui finisce la storia. Se solo non fosse arrivato
Don Sabatino! " Esclamò, De Stefano.
"Caro maresciallo, può ritenersi fortunato per essere
riuscito ad ascoltare tutto questo. Il problema è cosa accadde
dopo il malore di Mariella? Di certo, la ragazza non fu portata
in ospedale. Qualunque fossero state le sue condizioni si
sarebbe venuto a sapere e lo scandalo sarebbe stato
inevitabile. Dov'è stata portata, allora?"
"Sta di fatto che da quel momento la ragazza non si
trova più. Questo è l’unico dato certo", affermò De Stefano.
"Che De Cesare fosse un politico spregiudicato,
ambizioso con l'unico interesse di conservare il potere lo si
sapeva. Mi chiedo fin dove sarebbe capace di spingersi per
salvaguardare il suo potere”, disse Rocco.
Per alcuni secondi tacque. Poi riprese il suo
ragionamento.
"Se si voleva evitare uno scandalo, la ragazza
doveva sparire".
"Su questo siamo d’accordo, Rocco!" Rispose De
Stefano, mentre Verrastro continuava a riflettere.
Passeggiarono su e giù per la vigna, in silenzio,
immersi ciascuno nei propri pensieri.
Dopo alcuni minuti De Stefano interruppe il
silenzio.
187
"Considera lo scandalo che questa storia avrebbe
potuto provocare a Bigliano. Avrebbe coinvolto anche la
potente famiglia Calenda. Penso anche allo zio di Gianni, il
giudice Calenda di Napoli. Fin dove si sarebbe spinta la
famiglia per proteggere la reputazione del giovane rampollo
ma, soprattutto, del decoro dei Calenda?"
"In questa faccenda, ci sono di mezzo troppi
personaggi pubblici. Questo spiegherebbe perché ad un certo
punto l’inchiesta si sarebbe misteriosamente arenata. Deve
essersi trattato di una faccenda molto seria", commentò
Verrastro.
"La ragazza si può essere sentita male, può darsi
che non si sia ripresa. Le brave persone che si trovavano con
lei avranno pensato che prestarle soccorso avrebbe messo in
pericolo la loro reputazione. Mi chiedo se avranno chiesto
aiuto. Mi risulta difficile pensare che De Cesare si sia disfatto
personalmente di una giovane ragazza in pericolo di vita. Il
lavoro sporco viene sempre affidato ai manovali. I De Cesare
se ne lavano le mani".
Il maresciallo a riposo seguiva con interesse il
discorso di Verrastro. Sembrava evidente che Mariella fosse
stata abbandonata alla sua sorte, benché continuassero a
mancare riscontri oggettivi.
"…E il corpo? Dov'è il corpo? Supponiamo che
abbiano fatto sparire il corpo. Dove lo avrebbero occultato?
Senza il corpo è facile fare supposizioni ma difficile provarle",
fece notare a Verrastro.
"Ha ragione, maresciallo, manca il corpo. Se
sapessimo dove è stato nascosto, potremmo probabilmente
sapere anche chi lo ha occultato. Credo che il fulcro di questa
vicenda siano De Cesare e Gianni Calenda. Devono aver
agito di comune intesa".
"Entrambi avrebbero potuto impedire di far luce
sulla vicenda. De Cesare grazie al suo potere e alla sua
numerosa clientela, può avere fatto pressione sui responsabili
188
dell’inchiesta. E’ il suo stile. È lo stile dei politici di questa
regione martoriata dall’avidità di uomini cinici, la cui unica
ambizione é tenersi saldamente ancorati alla poltrona che
occupano. Si tratta di uomini privi di coscienza e senso
civico".
"Entrambi sarebbero disposti a mettere in campo
un esercito di burattini per risolvere la faccenda con poco
clamore".
"Per manovrare un esercito di burattini ci vuole un
burattinaio".
"Io penso ad una regia occulta, capace di
manipolare l'esercito di burattini", rispose Rocco Verrastro,
dilatando le pupille, quasi a chiedere conforto al maresciallo.
"Se diamo credito a quanto ho sentito Mariella si è
realmente intrattenuta con De Cesare, Gianni Calenda, e A’
bionda", in una casa al mare, sebbene in un luogo
imprecisato. Forse Maratea? Molti potenti lucani hanno la
casa al mare, soprattutto di Potenza", riassunse il maresciallo.
"Considerati gli indizi che gli inquirenti avevano in
mano, perché non hanno mai considerato la possibilità di
battere questa pista? Ho molto rispetto per i suoi colleghi,
ma…mi permetta…ci sono degli elementi che avrebbero
dovuto insospettirli. Non crede, marescià?"
"Vedi Rocco, non ti ho ancora raccontato tutto.
C’è dell’altro".
"Vada avanti, la prego".
"Se quel giorno non fossi venuto da me, non mi
sarei mai interessato alla vicenda di Mariella. Come la maggior
parte dei Biglianesi, me ne sarei dimenticato. Dopo la tua
visita è scattato qualcosa nella mia coscienza, che sembrava
essere andata in pensione con il mio lavoro. È stata una
sensazione stupenda. Le mie carni hanno ripreso il vigore di
un tempo. Si é risvegliato il mio fiuto investigativo. Non avrei
mai prestato attenzione alla conversazione tra le due donne
189
nel supermecato di Pinuccio di Gina, se non avessi risvegliato
la mia curiosità. Il mio senso del dovere, in un primo
momento, mi suggeriva di rivolgermi a Turtino".
"Perché non l'ha fatto?" Lo interruppe Verrastro.
"Qualcosa mi ha trattenuto. Non so bene cosa sia
stato, forse diffidenza".
"Cosa è cambiato in seguito?"
"Dopo la tua telefonata, ho messo da parte la mia
diffidenza e, alcuni giorni fa, l'ho incontrato. Alla fine, però
ho deciso di non dirgli nulla", precisò con un filo di voce.
Dalle sue parole trapelavano il rammarico per una
sorta di tradimento dei valori, che lo legavano all’arma. Forse
avrebbe dovuto fidarsi ma non se l'era sentita di farlo.
“Perché non l’ha fatto?" Ripeté ancora una volta
Verrastro che, benché partecipasse alla commozione di De
Stefano, avvertiva l'esigenza di fare chiarezza.
“Come dicevo, ho avuto, fin dall'inizio, la
sensazione che ci fossero diversi elementi strani in questa
scomparsa. L'incontro con te non ha fatto altro che
confermare questa sensazione. Di Turtino mi colpì il modo di
esprimersi. Mi disse che non poteva fare rivelazione alcuna.
Disse queste parole, la vicenda è segreta. Capii subito che non
poteva dire nulla perché aveva ricevuto ordini dall'alto. Nel
nostro linguaggio, dire che una vicenda è segreta, significa
aver ricevuto ordini dall'alto. Mi disse che avrebbe preferito
non averne mai saputo nulla".
“Curioso e anchesignificativo”, aggiunse Rocco.
“Conoscendo Turtino, credo che sia stato costretto
a cedere ad ordini superiori. Lo avrà fatto malvolentieri. Ma
queste sono solo ipotesi, illazioni. Non abbiamo nessuna
prova, tranne gli indizi raccolti durante l’inchiesta e la
testimonianza da me ascoltata inavvertitamente", ripeté De
Stefano, dando l'impressione di tratttare l'argomento con
190
perizia.
“Conoscendo le persone coinvolte non mi stupisce.
Stanno cercando di fare il vuoto intorno alla scomparsa di
Mariella. È troppo imbarazzante. La piovra politica estende i
suoi tentacoli", rispose Verrastro, tradendo un sorriso amaro.
“La politica comanda quando si spegne la
coscienza", osservò De Stefano.
“E in Lucania la coscienza è spenta da tempo",
aggiunse Rocco con amarezza.
'Già!"
"Maresciallo", chiese Verrastro, "di chi potrebbe
essere l'appartamento, dove il quartetto si era dato
appuntamento?"
"Ora mangiamo", disse De Stefano, afferrando una
salsiccia con la forchetta, "ci penseremo dopo".
Verrastro, segui l’esempio di De Stefano e addentò
una salsiccia mentre versava del vino, prima nel bicchiere del
maresciallo e, poi, nel suo. Il sole si apprestava a calare
all'orizzonte. Era stata una giornata piacevole e soleggiata. Il
vino rosso del maresciallo a riposo aveva contribuito a
esaltare i colori della splendida natura biglianese. Verrastro si
guardò intorno e pensò che sarebbe stato meraviglioso se
tutti i biglianesi di quella terra avessero potuto approfittare di
quei splendidi colori.
Il mito di Zi' Antonio
A pochi passi dalla proprietà di De Stefano, si trova
la terra di Zi' Antonio. A differenza di De Stefano, che lo fa
solo per svago, Zi' Antonio lavora veramente la sua terra.
“Sono rimasti in pochi a Bigliano a farlo, un tempo
erano in tanti”, chiarì De Stefano.
191
“Le campagne si sono svuotate, per la grande
emigrazione e per l'industrializzazione forzata. Un segno del
progresso è stato quello di preferire il posto sicuro, con lo
stipendio assicurato ma le fabbriche sono state solo
un'illusione”, rispose Verrastro.
La vita media del ciclo produttivo delle aziende,
impiantate a Bigliano, dura mediamente sette anni e diverse
aziende chiudono ancora prima. Quella degli Urbano Tositto
ha dichiarato fallimento in soli cinque anni. È stata una
fortuna per Ziza ma non per altri. Alcune fabbriche, in realtà,
non hanno neanche iniziato l'attività, nonostante i
finanziamenti. Sono esistite solo sulla carta. Una fabbrica, per
esempio, che doveva stampare calendari, con il bordo in
argento, non è mai entrata in produzione. Il dottor De
Cesare, che aveva deposto molte speranze nei calendari con il
bordo in argento, dicendo che avrebbero favorito la ripresa
economica della regione, non ne fa menzione da tempo.
Il mondo antico esiste solo nei ricordi di quelli
come Zi' Antonio.
“Lui é stato forte. Ha rinunciato alla fabbrica ed ha
orgogliosamente difeso la sua terra. Continua a lavorarla con
sacrificio. La sera, quando finisce di lavorare, si riposa sotto
l'ulivo, che il nonno aveva piantato”.
La sua terra, tuttavia, è diventata meno soffice. Con
il progresso si é indurita. Sotto l'ulivo, la sera, il tempo gli
restituisce i ricordi, che con gli anni diventano sempre più
rossi. L'era di un mito perduto, che non ha mai smesso di
vivere ai confini della realtà, senza più passato, né futuro, né
tempo.
“Zi' Antonio é un uomo schietto, che parla dritto
in faccia. Quando il vino non riesce bene, me lo dice senza
troppi giri di parole, anche se poi aggiunge non è colpa vostra, é
mancata l'acqua! Non è chiovuto quando doveva chiovere", raccontò
De Stefano.
“Trova una giustificazione, per rendere meno
192
amara l'osservazione nei confronti dell'amico”.
“Nella sua durezza, conserva una grande sensibilità.
Sono rimaste poche persone come lui. È un segno del
progresso”.
La gente a Bigliano stava cambiando. Anche il
disinteresse che i biglianesi mostravano per la vicenda di
Mariella era un segno del progresso. Zi' Antonio si sentiva
solo e soffriva in silenzio. Don Sabatino, ogni tanto, ne
parlava in chiesa e Carmelina 'a napuletana gli faceva visita,
una volta alla settimana. Trovava il vecchio San Bernando
affogato nella sua poltrona, davanti al caminetto, spesso
spento, e non solo d'estate. Il mondo, nel quale era costretto a
vivere, non gli apparteneva più. Era fuggito. Aveva iniziato a
sfuggirgli quando quelle maledette fabbriche avevano invaso
la sua terra e quando l'oro nero di Tortoriello aveva iniziato a
fargli respirare l'aria nebulizzata.
Mariella non c'era più. Non c'era più la terra che
aveva conosciuto da bambino, quando il nonno aveva
piantato l'ulivo e non c'era più l'aria pulita. In compenso, c'era
il progresso ma Zi' Antonio, per quanto si sforzasse di capire,
non riusciva a digerirlo. Gli restava come un peso sulla
coscienza che a volte gli impediva di respirare liberamente.
Zi' Antonio era la coscienza di una sensazione
dolorosa. Era il dolore che rimaneva dalla scomparsa di una
ragazza ventenne, sprofondata nel buco nero dell'ignoto e ora
anche dell'oblio.
Ad un anno di distanza, i biglianesi non ne
parlavano più. Preferivano dimenticare, "roba vecchia,
ormai!".
“Possono mai essere roba vecchia il dolore,
l'assenza e l'amarezza?”
“Se il tempo fosse scorso a ritroso e si fosse
ritornati ai tempi dei briganti, il paese si sarebbe mobilitato. Si
sarebbe battuto il territorio, nei boschi come sulle montagne”,
193
pensò Verrastro.
Esisteva un senso di appartenenza, che solo il
cinismo della modernità aveva saputo sconvolgere. Esisteva
una coscienza della comunità.
Soprattutto, il ricordo sarebbe rimasto impresso
nella memoria degli uomini.
L’inchiesta di Rocco Verrastro
De Stefano e Verrastro si erano lasciati lentamente
coinvolgere nel caso di Mariella. I due stavano seguendo un
interessante percorso investigativo. I dubbi erano ancora tanti
e soprattutto nessuna certezza che le cose si fossero svolte
realmente in quel modo.
“Perché le indagini si erano arenate? Cosa aveva
spinto Trapanese a fermarsi? Aveva subito delle pressioni? Da
parte di chi? Perché Turtino avrebbe preferito non sapere?”
Un oceano di interrogativi agitava la mente dei due
improvvisati investigatori.
Verrastro rifletté a lungo sui passi da compiere. Per
prima cosa bisognava conoscere i motivi, che avevano spinto
Trapanese a sotterrare l'inchiesta. Decise di contattare un suo
fidato informatore al palazzo di giustizia.
"Cifarì, puoi parlare?", chiese Verrastro al telefono.
"No, no…mò no. Non posso parlare. Vediamoci
stasera".
"Dove? Al Francioso?"
"No, al Francioso no. Troppo vicino al palazzo di
Giustizia. Vediamoci al Blue Lion".
"Va bene, Al Blue Lion. A Stasera".
Era stata breve la telefonata che Verrastro aveva
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fatto a Nicola Di Biasi, che tutti in tribunale chiamano
Cifaricchio. Adora il peperoncino piccante, il cifaricchio
appunto. Lo usa dappertutto, sulla pasta, sulla carne e perfino
sull'insalata. Di Biasi è un coadiutore giudiziario. Prende mille
e settecento euro al mese ma incrementa le sue entrate con le
soffiate ai giornalisti. Se c'é un arresto oppure un avviso di
garanzia importante, lo sanno prima i giornalisti e poi gli
avvocati.
Come concordato, lo incontrò la sera al Blue Lion,
un locale piuttosto appartato, lungo la statale che porta a
Melfi, all'altezza del bivio per Vaglio. Non voleva dare
nell'occhio.
"Cifarì, ti dico solo due cose. Mariella la bella di
Bigliano e il sostituto Trapanese. Che mi puoi dire?"
"Rocco, dentro la tana d'o’ lupo ti vuoi cacciare?"
"Cosa sai, Cifarì?"
"Vedi, il sostituto procuratore è un uomo di
mondo, capisci cosa voglio dire?"
"Spiegati".
"Lui è attento a non pestare i piedi a chi non deve
pestarli. Non è un fesso. Rimane sempre nel seminato della
legge".
"Mariella la bella, Cifarì?"
"Ti posso dire quello che si dice".
"Mi devi dire quello che è".
"Ma quello ti costa, Rocco".
"Non ti preoccupare. Vai avanti".
"Ad un certo punto…"
"Quale punto?"
"Rocco, non far finta di non capire…da quando è
195
entrato nella vicenda il pezzo grosso, è diventato un casino".
"De Cesare?"
"Eh, il pezzo grosso".
"De Cesare!"
"In procura c'è stata grande agitazione.
Apparentemente si è portato avanti il lavoro. In realtà, ha
messo le cose a tacere".
"Trapanese?"
"Ha messo le cose a tacere".
"Trapanese!"
"Un gioco d'equilibrio veramente ardito, sul filo del
rasoio".
"Inciuci, chiamiamoli inciuci per essere precisi".
"Si, giochi d'equilibrio".
"Inciuci, Cifarì".
"Comunque, mi servono un paio di giorni se vuoi
sapere i dettagli".
"Fammi sapere per il disturbo".
"Ovviamente".
"Ti chiamo io?"
"No, ti chiamo io".
Così fece. Un paio di giorni dopo, puntuale come
un orologio, Cifaricchio chiamò Verrastro. Si diedero
appuntamento nella trattoria di Zi' Minco.
"Inizialmente l'ufficio di Trapanese ha lavorato
sulla vicenda. Poi tutto è svanito nell’aria come una bolla di
sapone".
"La ragione, Cifarì?"
196
"La ragione ufficiale si fonda sull'impossibilità di
verificare gli indizi raccolti".
"Cifarì, me ne fotto della ragione ufficiale. Parla
chiaro…"
"In pratica, Trapanese non é stato capace di
trasformare gli indizi in prove. Non é mai riuscito a provare il
coinvolgimento di De Cesare. La famiglia e i suoi
collaboratori gli hanno fornito l'alibi".
"E le testimonianze?"
"Si, è vero c'erano le testimonianze ma non erano
attendibili al cento per cento".
"Ma non può essere che tutto sia finito in una bolla
di sapone", sospirò con amarezza il giornalista potentino.
"Non è tutto".
"Cifarì, siamo alle solite".
"Mi devi dare qualcosa in più".
"Parla, non ti preoccupare".
"C'è dell’altro ma questo ti costa".
"Vai, tranquillo"
"Qualche tempo dopo il coinvolgimento di De
Cesare, Trapanese ricevette la visita di De Rosa, dirigente
della provincia di Potenza, un uomo di De Cesare”.
"Come se Trapanese avesse ricevuto la visista di De
Cesare in persona".
"Più o meno. Inizialmente, non lo voleva
incontrare".
"E poi…"
"E poi il topo è venuto a casa del gatto. La posta in
gioco era troppo alta per lasciare che il topo si facesse
prendere dal gatto".
197
Cifaricchio proseguì il racconto e riferì le pressioni
subite da Trapanese.
"Ha ricevuto una telefonata. Non mi chiedere cosa
gli è stato detto perché non lo so. Tuttavia, sta di fatto che
dopo quella telefonata l'indagine è come se avesse perduto
forza".
"Perduto forza…dici".
"Il sostituto procuratore era turbato".
"Pressioni? Da chi? Questo che mi interessa sapere,
cifarì". Cifaricchio farfugliò alcune parole, che Verrastro
non comprese.
"Non ti capisco cifarì. Quando parli per
iperboli e parabole, io non ti capisco".
"Ti dico solo una cosa. Tribunale di Napoli".
"Tribunale di Napoli?"
"Tribunale di Napoli…e mò…basta. Statte Buono,
Verrà".
Rocco rimase in silenzio. Era esterrefatto. Benché
non fosse più l'ingenuo idealista dei tempi dell'università,
stentava a credere alle sue orecchie. Si chiese fin dove sarebbe
stato possibile raschiare il fondo del barile. Diede quanto
pattuito a Cifaricchio e andò via. Lasciò il suo bicchiere di
birra a metà sul tavolo.
Tornato a casa, telefonò a De Stefano.
"Maresciallo, qualche tempo fa mi aveva accennato
a uno zio di Gianni Calenda, che vive a Napoli".
"Si, ricordo".
"Mi dovrebbe raccontare tutto quello che sa sulla
famiglia Calenda".
"Perché? Ci sono novità?"
"Potrebbero esserci delle novità. Ho in mente
un'idea che vorrei verificare. Avrei bisogno di informazioni
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sulla famiglia Calenda e sul giudice, in particolare".
"Su Giuseppe Calenda?"
"Si".
"Giuseppe Calenda, il giudice".
"Si, le racconterò i dettagli quando ci vedremo".
“Stiamo parlando di una delle famiglie più in vista
di Bigliano”, esordì De Stefano, “grande passione per il
denaro ma niente avarizia. Giocavo spesso con la buonanima
di don Vito Calenda, un vecchio signorotto ma, tutto
sommato, una brava persona. Niente a che vedere con i suoi
figli".
“Marescià, a parte don Vito, che, pace all’anima sua,
non c’è più, che cosa sa di loro?”
“Sono una famiglia numerosa, come erano le
famiglie di un tempo. Don Vito ebbe sei figli, due morirono e
quattro sono ancora vivi. Uno solo sta a Bigliano. Il più in
vista dei quattro è il giudice, che sta a Napoli. Di lui si dice
tutto e il contrario di tutto. Qui, a Bigliano, vive anche il
nipote di don Vito, Gianni, un bravo ragazzo, ma
sostanzialmente un ciuccio tirato a capezza”, argomentò De
Stefano, che si fece una larga risata dopo avere sottolineato la
debolezza di Gianni.
“Gianni", continuò il maresciallo, "ha sposato
Camilla Telesce, figlia di Dantino Telesce, molto discusso a
Bigliano per la sua attività di usuraio. Lo sanno praticamente
tutti, ma nessuno lo ha mai denunciato".
"E i carabinieri?"
"Lo sanno anche loro ma non sono mai riusciti a
coglierlo sul fatto. E’ un uomo estremamente abile, un vero
delinquente, dal mio punto di vista”, aggiunse De Stefano in
maniera tranciante.
Si soffermarono su alcuni episodi particolari, che
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avevano visto i Calenda protagonisti. Il matrimonio di Gianni
attirò la curiosità di Verrastro, giacché De Stefano finì con il
menzionare, oltre a “quel delinquente di Dantino Telesce”
anche il dottor De Cesare, che era stato il testimone dello
sposo.
"De Cesare stava al matrimonio di Calenda?"
Chiese conferma Verrastro.
"Era il testimone di Calenda".
Nella mente del giornalista potentino, iniziarono a
farsi largo una serie di ragionamenti che collegavano gli
individui già sentiti nominare in relazione alla scomparsa di
Mariella.
Verrastrò ringraziò il maresciallo e lo congedò con
la promessa che si sarebbero risentiti presto. Si ritrovò da solo
a casa a pensare.
“Devo mettere qualcosa sotto i denti”.
Prese quattro fettine di breasola e le infilò in un
panino, vecchio di due giorni. Pensò ai suoi amici.
“Ho bisogno di un favore”.
Rocco afferrò il telefono e chiamò Franco,
compagno del liceo, con il quale, ogni tanto, si vedeva per
una birra e per ricordare il vecchio professore di greco.
L'ultima volta avevano parlato di Filita.
“Un ossuto letterato che metteva le pietre in tasca
per non farsi portare via dal vento”.
Probabilmente non era vero, ma il professore di
greco l'aveva raccontata così.
Franco é assistente di storia moderna alla facoltà di
lettere dell'università della Basilicata. Grande esperto di
massoneria e brigantaggio nell'Italia meridionale, sarebbe
rimasto assistente a vita se non fosse riuscito a trovare uno
stronzo, pronto a dargli una mano.
200
"È davvero un piacere sentirti, Rocco!"
"Vorrei sapere se alcune persone, che tra qualche
secondo ti citerò, fanno parte di associazioni di mutuo
soccorso, club filantropici…insomma, hai capito".
"Ho capito, ho capito…"
Rocco fece i nomi del sostituto procuratore
Trapanese, del giudice Giuseppe Calenda e del consigliere
provinciale De Cesare.
La risposta di Franco fu molto eloquente.
"Ti occupi di gente altolocata, amico mio".
"Più vai in alto e più puoi vedere il sole", rispose in
maniera sibillina Verrastro.
"Fai attenzione a non scottarti", rispose l'amico,
dall'altro capo del telefono, "comunque, ti farò sapere non
appena possibile".
Rocco si distese sul divano. Tirò fuori una sigaretta
dal pacchetto di Marlboro e la fumò tranquillamente. Si
appisolò con la sigaretta tra le labbra e l’accendino in mano.
Era esausto.
Gli impermeabili di Paolo Conte
Qualche giorno dopo, Rocco ricevette la telefonata
di Franco.
“Ho diverse novità ma che ne dici di offrirmi una
cena in cambio?
“Posso dire di no?”
“No, non puoi dire di no”.
“Allora stasera da me alle otto e mezza. Ti va
bene?”
“Benissimo. A Stasera!”
201
Verso le sei, Rocco uscì dalla radazione. Lo fece in
anticipo rispetto alle sue abitudini. Doveva fare la spesa e
rimettere in ordine il suo appartamento. Giunto a casa, si
mise al lavoro. Liberò il grande canape lit grigio tortora, situato
tra il tavolo e la parete opposta alla cucina, da libri e plaid e
sistemò due cuscini. Ripulì il pavimento di grandi mattoni
beige da bicchieri e giornali e sistemò alcuni CD per terra,
nelle custodie, accanto all’impianto stereo. Girò la poltrona
rossa davanti allo stereo, in posizione frontale rispetto al
televisore, che si trovava dal lato opposto, su un mobilecarrello. Ripose alcuni libri, che erano sul tavolo, sulla grande
libreria, che prendeva più della metà della parete, di fronte al
canapé-lit. Accese anche un po’ d’incenso, legno di sandalo e
cannella per rinfrescare l’ambiente dal puzzo di fumo delle
tante sigarette, fumate nelle notti insonni. Finalmente si mise
ai fornelli, dando sfogo alla sua abilità di cuoco.
L’appartamento di Rocco si trovava in via Torino,
nei pressi del Centro Salesiano di piazza Cagliari. Il giornalista
potentino viveva da solo in un appartamento, acquistato
qualche anno prima, di circa 95 metri quadrati, al secondo
piano di un piccolo palazzo costruito negli anni ottanta. Il
soggiorno e la cucina davano sull’ampio cortile d’entrata del
palazzo, mentre le due camere da letto e il bagno si
affacciavano sulla parte posteriore. Arredato con gusto sobrio
e minimalista, l’appartamento non si discostava dallo stile di
vita del giornalista. Anche il suo puntare dritto all’essenzialità
trovava un preciso riscontro nell’arredo. La cucina era
moderna e accogliente. Si estendeva su un’intera parete che
comprendeva nell’ordine un frigo in metallo alto, un mobile
dispensa rettangolare, anch'esso alto, un lavello compreso tra
un piccolo piano di lavoro, dove campeggiava una bella
macchina per il caffè espresso e un piano di cottura. Vi erano,
inoltre, il forno a metano, a sua volta sovrastato da scolapiatti
e credenza. Sulla parete opposta, nell’angolo tra il balcone,
che si affacciava sul cortile, e la porta che dava sul soggiorno,
vi era l’angolo Breakfast. Consisteva in un tavolo-mensola,
rettangolare, alto, con due sedie a sgabello girevole alte e
202
rosse. Sul tavolo un tostapane e un set all’americana. Al di
sopra, alcune mensole sulle quali erano state sistemate tazze e
bicchieri, che coloravano l’ambiente. Poi qualche libro di
cucina e due sedie. Al centro della stanza una piccola isola,
quadrata, con due cassetti porta pentola, da un lato, e due
sedie colorate, dall’altro. Erano di design moderno, di acciaio e
plastica, esattamente come i due sgabelli. Rocco usava l'isola
sia come piano di lavoro, che come tavolo da pranzo, a
seconda delle esigenze. Dalla cucina si accedeva al soggiorno
dove campeggiavano due vecchie insegne di metallo dei primi
del novecento. La prima era di un’improbabile publicità di un
autofficina londinese, la seconda di una marca di un liquore
francese, acquistata in un mercatino delle pulci di Parigi.
Rocco le aveva fatte restaurare e le aveva appese lui stesso al
muro, dopo averle impietosamente lasciate nascoste per mesi
in un angolo della casa. Anche il soggiorno era arredato, come
il resto della casa, con mobili semplici. Era il luogo più grande
dell'appartamento. Di fatto Rocco viveva lì, quando era in
casa. L’aveva dipinto lui stesso in beige-taupe dominante. Il
lungo tavolo che occupava l’angolo, tra la cucina e il balcone,
era in noce, e insieme alla credenza, in ciliegio chiaro, erano in
arte povera. Nel senso che erano mobili di povera gente,
ereditati dai nonni paterni.
Mentre cucinava, Rocco ascoltò un vecchio CD di
Paolo Conte, che cantava Gli impermeabili. Rocco amava la
musica ma, al contrario dei pseudo-intellettuali della Potenza
bene, preferiva il pop e il soul, con l’eccezione di Paolo Conte.
Lavò la bietola e la taglio a pezzi. Tritò i piccoli pezzetti di
bietola nel mixer che si trovava vicino la macchina espresso.
Lasciò qualche foglia da parte, mentre il brodo di dado
vegetale, che aveva preparato, bolliva. Preparò la padella con
un misto di olio e burro, le porzioni di riso e aprì una bottiglia
di vino rosè. Il giorno precedente aveva messo a bagnomaria
in acqua un bel pezzo di baccalà essiccato per cucinarlo alla
maniera aviglianese. Tirò fuori i pezzi di baccalà dall’acqua, li
risciacquò sotto l’acqua corrente e li mise in una padella con
l’olio a soffrigere. Prese un'altra padella e mise a soffrigere
203
l’aglio, che tolse via dopo qualche minuto. Preparò i peperoni
cruschi. Versò i peperoni nel baccalà, facendolo insaporire.
Aveva appena finito di rosolare le bietole ed il riso,
irrorandoli con un goccio di vino rosè, quando sentì suonare
alla porta.
“Ciao, bello!” Lo salutò Franco.
“Vieni”, disse Rocco, “seguimi in cucina e serviti
del vino che ho appena stappato”.
“Buon
odore,
Peperoni
cruschi”,
annusò
Franco,“questa sera ci sarà da leccarsi i baffi!” Aggiunse,
mentre addentava delle fettine di soppressata.
Dopo aver cenato, giunsero al punto. Franco iniziò
a parlare.
“Cosa ne sai della Fondazione Liberi e forti?”
“La fondazione? Sapevo dell'esistenza di Liberi e
forti quale associazione creata per migliorare le condizioni
socio-culturali della Lucania. Una specie di Rotary club, di cui
fanno parte imprenditori, avvocati, e liberi professionisti”,
disse Rocco, con tono sorpreso.
“Esatto! Liberi e forti è un associazione senza scopo
di lucro nata negli anni ottanta, i cui volontari operano a
favore dei meno fortunati. Creata subito dopo il terremoto,
l’associazione si riproponeva di risollevare le sorti degli
individui più colpiti da quella tragedia. Ha proseguito
nell'impegno sociale a livello locale e con un'iniziativa in
Albania".
"Chi ne fa parte?"
"Tutta gente facoltosa. Liberi professionisti,
avvocati, commercialisti, giudici, medici, professori
universitari, imprenditori, dirigenti pubblici e privati. Ci sono
anche mogli di politici, tra cui assessori provinciali e
consiglieri regionali. Il Presidente dell’associazione è il dottor
D'Angheo, cardiochirurgo presso l'ospedale di Potenza.
204
L’amministratore è il dottor Adiletta, commercialista, amico
di politici e imprenditori locali".
“Fin qui, nulla che mi sorprenda”, disse Rocco,
accigliando la fronte.
“Aspetta…siamo
solo
all’inizio.
Passata
l’emergenza del terremoto, l’associazione, nata con le più
nobili intenzioni, grazie all’impegno del suo ideatore, venuto a
mancare alla fine degli anni ottanta, si è trasformata, di fatto,
in una specie di società di mutuo soccorso".
"Niente che continui a stuprimi".
"Fin qui non ci sarebbe nulla di male, se avesse
continuato a servire il prossimo. Il problema è che si servono
solo gli interessi dei propri membri oppure degli amici e dei
parenti dei membri. Le azioni si sono svuotate del loro
originario contenuto socio-umanitario. Si prova a far
assumere il figlio di tizio oppure a dare l'appalto a Caio"
spiegò Franco.
“Capisco, una spruzzata di perbenismo che li rende
quasi surreali", commento Rocco, acido.
"Non è tutto! Non tutti sanno che esiste una
fondazione intitolata a Giacomo Racioppi, creata negli anni
novanta e legata a doppia mandata con l’associazione Liberi e
Forti".
"Non ricordo….", sospirò Rocco.
"All'epoca, eri ancora a Pisa. C'era fermento e
speranza. Molti credevano di avere una possibilità di emergere
dall'isolamento culturale. Anch'io ci credevo".
"Tu?"
"Già…perfino io", sorrise Franco.
Lo sguardo di Rocco si perse sulle luci della città,
dormiente, che si nutriva di speranze perdute e di illusioni
senza radici.
205
“La fondazione ha lo scopo di raccogliere e
amministrare fondi, finanziare progetti e assegnare premi.
Insomma, tutte le iniziative che puoi immaginare essere
proprie di una fondazione”, disse Franco, riprendendo il
racconto, interrotto pochi istanti prima.
“Non mi è chiaro il legame tra la Fondazione e
l’associazione Liberi e Forti”, esclamò Rocco.
“Un po’ di pazienza, Rocco", rispose Franco,
riprendendo dal punto in cui era stato interrotto.
"L’associazione Liberi e Forti, promuove progetti di
carattere sociale. Si tratta essenzialmente di soldi pubblici.
Finita l’emergenza provocata dal terremoto, ha diversificato la
sua attività, occupandosi della gestione delle mense, dei centri
di accoglienza e, ultimamente, anche della cooperazione con i
paesi in via di sviluppo. Questa è la sua attività…diciamo,
pubblica".
"Attività pubblica?"
"Si, pubblica, perché ne esiste anche una…diciamo,
privata".
"Attività privata?"
"Si, privata. Da non sottovalutare, peraltro. La
fondazione invece ha lo scopo di raccogliere e gestire fondi
per la rinascita culturale della regione. In questo caso però,
non si tratta di soldi pubblici”, ammiccò Franco.
“Questa si che è una sorpresa! In una regione dove
anche le imprese private vengono finanziate con i soldi
pubblici, prende piede un'iniziativa privata?"
“Già! È proprio cosi. La fondazione, oltre al lascito
del suo creatore, che consiste nel palazzo Carretta, sua sede
legale, raccoglie e amministra fondi provenienti da donazioni
private di professionisti e imprenditori. Ha una sua struttura
operativa, che gestisce diverse iniziative. Ha un consiglio
d’amministrazione, che pianifica, programma e controlla le
206
attività, decide delle relazioni esterne, della raccolta fondi, del
patrimonio e tutto il resto”.
“Mi sembra che sia tutto normale”, aggiunse
Rocco.
“Solo in apparenza, Rocco! Solo in apparenza!"
"In apparenza?"
"In apparenza tutto sembrerebbe in regola ma vi
sono delle cose che non lo sono. Alcuni membri
dell’associazione Liberi e Forti fanno parte del consiglio
d’amministrazione della fondazione o della sua struttura
operativa".
“Al tempo, Franco! Stai cercando di dirmi che il
procuratore Trapanese, il Giudice Calenda, e il Consigliere De
Cesare sono nel direttivo della Fondazione?”
“Non esattamente", disse Franco.
"Allora, non capisco", rispose Rocco.
"Si tratta di una rete più complessa di rapporti".
"Una rete più complessa di rapporti?"
"Il giornalista sei tu, Rocco! Tocca a te indagare e
tirare le conclusioni".
“Chiaro! C’è dell’altro?” Chiese Rocco.
“Il procuratore Trapanese, in effetti, fa parte del
consiglio d’amministrazione ed è anche membro
dell’associazione Liberi e Forti. Il giudice Calenda di Napoli
invece è tra i donatori della fondazione ed è spesso coinvolto
nelle attività di quest’ultima, per esempio giurie e
commissioni. De Cesare è invece membro dell’associazione
Liberi e Forti e la figlia lavora tuttora in alcuni progetti di
formazione, sia dell’associazione che della fondazione.”
“Si tratta di elargizione di favori a politici o a clientes
in cambio di finanziamenti. Questa è la normalità. Non mi
207
sorprende".
"Già!" Commentò laconicamente Franco.
"Quello che, invece, non mi convince è il flusso di
donazioni privati alla fondazione. Chi ha interesse ad investire
e per quale scopo?"
“Potrebbe esserci un gruppo di potere trasversale,
non costituito organicamente ma legato da forti relazioni
affaristico-opportunistico che agisce usando questi istituti
senza scopo di lucro dall’interno. Manipola le persone che ne
fanno parte per la realizzazione dei propri interessi. Una sorta
di mutuo soccorso a beneficio degli appartenenti alla rete".
"I nomi, Franco. Puoi procurarti i nomi?"
"Sono riuscito a procurarmi l’elenco dei membri,
dei donatori, degli impiegati e del consiglio d’amministrazione
dei due istituti e di un altro paio di associazioni regionali.
Tieni, leggi…”, disse Franco, porgendo i documenti a Rocco.
“Come hai fatto a procurarti le liste?" Chiese
Rocco, mentre sfogliava i fogli con la voracità tipica di chi
vuole sapere.
Sfoderando un largo sorriso, Franco rispose, “sei
stato fortunato! Ho dovuto esercitare il mio fascino su una
ex-borsista, ora impiegata alla fondazione, che aveva un
debole per me ai tempi dell'università. Le ho detto che ne
avevo bisogno per una ricerca e ha funzionato".
"Una ricerca? Ottima scusa!"
"In realtà non si è trattato solo di una scusa. Penso
davvero di occuparmene in uno studio sull’associazionismo e
sui legami tra la società civile e la massoneria. Sto
raccogliendo dati, che non ho ancora elaborato. Aspetterò la
fine dell’anno accademico per dedicarmi".
"Molto interessante!"
"L’associazionismo è uno strumento che permette
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di sfruttare i legami con le istituzioni. Resterai sorpreso della
rete fitta di relazione tra le varie sorelle. Si tratta di piccole
cellule, gruppi di due o tre membri, che si ritrovano in vari
istituti e che insieme formano una famiglia. Controllano e
utilizzano il potere, che gli deriva dalla posizione che hanno e
dalle informazioni che riescono ad avere. Lo fanno per
attuare i propri interessi e le proprie ambizioni. È un processo
che ha gradi di consapevolezza diversa a seconda del livello
culturale, sociale e della posizione delle persone".
"Sarebbe ancora più interessante elaborare i
concetti che hai espresso al livello degli individui collegati con
il caso di Mariella la bella".
"Nel caso del giudice Calenda e del sotituto
Trapanese il livello di consapevolezza è alto. Nel caso di De
Cesare non ne sarei troppo sicuro. A volte da l’impressione di
essere un imbecille arrivato oltre le proprie possibilità. Non
parlerei di un gruppo massonico vero e proprio, bensì di una
confraternita i cui membri s’impegnano l’uno al servizio
dell’altro".
"Interessante!" Esclamò ancora una volta Rocco.
"Non sai dire altro che interessante. Non mi hai
ancora detto a cosa ti servono le informazioni che ti ho dato.
Non che voglia saperlo, però…"
“Ti racconterò tutto quando avrò le idee più chiare.
Te lo prometto. Sono sicuro che dalle tue informazioni
ricaverò elementi importanti. Posso dirti che tutto è iniziato
con la scomparsa di Mariella”.
Il giorno seguente, Rocco si mise immediatamente
al lavoro. Avvertiva una forte tensione, pensando alle cose
riferitegli da Franco e non vedeva l’ora di leggere con perizia i
documenti che gli erano stati forniti. Rocco era persuaso da
tempo che la procura avesse trascurato le indagini lasciando
cadere nel nulla le piste più scottanti.
“In questi documenti, troverò le risposte”.
209
Passò tutta la mattina a leggere. Lo fece fino all’ora
di pranzo.
“Franco ha ragione. La comparazione delle liste
degli iscritti, dei collaboratori e dei donatori dell’associazione
Liberi e Forti e della Fondazione Giacomo Racioppi in parte,
coincide”.
Era ormai evidente il quadro che stava emergendo,
un vero e proprio comitato di affari.
“Ciascuno ci guadagna personalmente oppure fa
guadagnare una persona a lui vicina”.
Parenti o amici di assessori, consiglieri e perfino
onorevoli, giudici, avvocati e imprenditori. Si trattava di nomi
che ritornavano costantemente nei documenti che Franco
aveva procurato a Rocco.
Rocco tracciò una mappa di quel sistema di
scambio di favori fatta di cerchi o cellule. Ogni cerchio era
composto da nomi, ed i vari cerchi erano legati tra loro da
alcuni nomi-chiave.
“Sono uomini, che occupano posti di potere,
piccoli e grandi. Non esiste un centro. Si tratta di una
struttura orizzontale”.
Nella lista dei donatori della fondazione appariva
anche il nome di Telesce. A Rocco vennero in mente le
parole proferite da De Stefano.
“Perché uno come Dantino Telesce effettua
donazioni a favore della fondazione?”
Non che fosse inusuale per gli imprenditori edili
finanziare le attività culturali ma suonava quanto meno
stonato che un usuraio finanziasse un'associazione senza fini
di lucro.
“È una contraddizione in termini”.
Il nome di Dantino ronzava nella testa di Rocco
210
insieme a quello del giudice Calenda.
“È lui, insieme a De Cesare, ad aver in sostanza
mosso i fili dell’inchiesta giudiziaria”.
In realtà, mentre sapeva il ruolo sordido giocato da
De Cesare, ignorava i contorni precisi del ruolo svolto dal
giudice.
“È difficile stabilire il grado di coinvolgimento e
responsabilità di Giuseppe Calenda”.
Si rese conto che aveva assoluta necessità di parlare
con De Stefano. Il suo archivio della memoria gli sarebbe
certamente tornato utile per completare lo schema, che legava
incontestabilmente tutti i personaggi della vicenda di Mariella.
Si alzò dal suo tavolo di lavoro.
“Devo prepararmi il pranzo. Ho il frigo pieno di
provviste, che mi ha portato mamma”.
Per un attimo dimenticò l’amara consapevolezza di
una storia, in perenne attesa di giustizia.
Il presepe di Don Sabatino
Uno degli elementi caratteristici del Natale
biglianese era il presepe preparato da Don Sabatino. Ogni
anno, creava una nuova ambientazione e i biglianesi
aspettavano la messa della vigilia per vederlo. Gianni ci
andava con Camilla, il padre, Sesto e la madre, donna Luisella.
I Calenda occupavano il primo banco alla sinistra dell’altare,
mentre i Di Cillio si disponevano a destra, fatta eccezione per
Simone, che era democratico e che si confondeva con i
comuni biglianesi. Ziza ci andava insieme alla moglie. ‘A
bionda ci teneva ad arrivare in tempo per occupare le file
immediatamente successive alle prime e poter incrociare lo
sguardo di Gianni. Ciaramella, invece, odiava le prime file. Si
211
posizionava generalmente nel corridoio tra la prima e la
seconda navata, sul fondo e possibilmente in piedi. Arrivava
trafelato quando la cerimonia era già iniziata. Radiouno e
Radiodue, invece, ci tenevano a mettersi non lontani dal
sindaco Totonno Tortoriello. Dato che stavano aspettando il
posto, avrebbero approfittato della vicinanza, per stringere la
mano a Totonno, al segno della pace. A Giannino, che
doveva leggere, spettava di diritto il posto in prima fila. A
volte, capitava nei pressi dell'avvocato Di Cillio che,
normalmente, la notte di Natale, indossava la giacca e la
cravatta. Carmelina 'a napuletana seguiva l'intera funzione
cantando, mentre Zi' Antonio seguiva la messa di Natale da
casa, in televisione. Non era abituato a uscire di sera.
Totonno, invece, a Natale di messe ne seguiva normalmente
due e, se in prossimità delle elezioni, addirittura tre. La prima,
la notte del ventiquattro, la seconda, la mattina di Natale alle
undici, la terza, la sera alle cinque e mezzo. Ci teneva a fare gli
auguri personalmente a tutti i biglianesi.
Don Sabatino scelse di consacrare quella notte di
Natale al ricordo di Mariella la bella. Bigliano l’aveva quasi
dimenticata. Durante la predica, Don Sabatino menzionò la
lettera di San Paolo Apostolo ai Romani, In realtà, l’ira di Dio
contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità
nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto.
Dio stesso lo ha loro manifestato.
Le parole di San Paolo Apostolo si diffusero nel
silenzio. Don Sabatino attese qualche attimo prima di
ricominciare a leggere la lettera, Perciò Dio li ha abbandonati
all'impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i
propri corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la
menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore,
che è benedetto nei secoli. Amen.
Don Sabatino ripetè più volte la parola verità.
Disse che tutti dovevano sentirsi colpevoli per la scomparsa
di Mariella. In chiesa c’erano persone che dovevano sentirsi
più colpevoli di altre. Non c’era De Cesare, ma c’era Totonno
212
Tortoriello, che non aveva esitato a seguire De Cesare,
quando gli era stato chiesto di omettere la vicenda di Mariella.
Avrebbe provocato un rallentamento dell’economia locale.
C’era Gianni Calenda che era con Mariella la sera della
scomparsa. C’era ‘A bionda che si era ben guardata dal
rivelare il suo segreto, se non alla moglie di Pinuccio di Gina,
che, a sua volta, aveva custodito il segreto di ‘A bionda. Lo
aveva fatto per lealtà verso la sua amica, per paura o per
indolenza? Anche Emanuele Tortoriello aveva ricevuto in
custodia un segreto e non lo aveva rivelato. Per lealtà, per
paura o per indolenza? Simone Di Cillio avrebbe potuto
aiutare il sostituto procuratore nelle indagini, ma non lo fece.
Al contrario, era ricorso alla menzogna per non essere
coinvolto. E aveva costretto anche Giannino a mentire.
Giannino, a sua volta, avrebbe potuto rifiutare, ma non lo
fece. Per lealtà, per paura o per indolenza? Ziza per indolenza
non si era mai preoccupato della vicenda di Mariella. Se ne era
occupata Carmelina ‘a napuletana, ma non il ragioniere La
Spina. Se ne sarebbe stato tranquillamente in silenzio se non
fosse stato spinto a testimoniare. Ed era stata lealtà, paura o
indolenza a spingere Trapanese ad interrompere le indagini?
La notte di quel Natale erano tanti i colpevoli che si
trovavano in chiesa. Ognuno di loro ascoltò le parole di Don
Sabatino. Gianni Calenda strinse la mano alla moglie Camilla,
mentre ‘A bionda piegò la testa sulla spalla di Ziza. Emanuele
Tortoriello si avvicinò al padre. Simone e l’avvocato Di Cillio
si inginnochiarono. Carmelina pensò a Zi’ Antonio che
soffriva, in silenzio, davanti al caminetto.
La pipa del caporedattore
La settimana seguente, Rocco Verrastro telefonò a
De Stefano.
“Ciao Rocco, era un po’ di tempo che non ti
sentivo. Iniziavo a preoccuparmi per te”, rispose il
213
maresciallo con tono canzonatorio.
“Sono ancora vivo e vegeto, caro maresciallo.
Almeno per il momento. La chiamo perché avrei bisogno che
mi confermasse alcune informazioni che ho ricevuto”.
“Ne deduco che stai ancora lavorando alla tua
inchiesta”.
“Diciamo piuttosto che sto procedendo per conto
mio. Vedremo cosa ne penserà il mio capo, quando l’avrò
terminata”, sospirò il giornalista
“Ho l'impressione che al tuo capo non piaccia
l'inchiesta. Se pensi che io possa aiutarti in qualche modo….”,
gli propose generosamente il maresciallo.
“Grazie, marescià! Certo che può aiutarmi", rispose
Rocco, che poi aggiunse, “parlandomi di Gianni Calenda mi
ha accennato alla moglie e alla famiglia di lei. Ricorda? I
Telesce?"
"Un delinquente", ribatté prontamente il
maresciallo a riposo, confermado il pessimo giudizio che
nutriva nei suoi confronti.
" Mi disse proprio così…un delinquente!"
“E lo confermo! Telesce ha una piccola impresa
edile e guadagna bene grazie al suo talento nelle relazioni
interpersonali. Amministra un patrimonio notevole.
Numerosi immobili, alcuni intestati alla figlia Camilla, una
bella casa al mare a Maratea, usata per le vacanze da tutti i
membri della famiglia, e un'altra casa a Napoli, che la figlia ha
utilizzato da studente all'università".
“La figlia Camilla, moglie di Gianni Calenda, é al
corrente degli affari del padre?"
“Non saprei. Ho la sensazione che Dantino si
occupi direttamente della faccenda. Non credo si affidi a terzi.
In un piccolo paese come Bigliano, prima o poi, si sarebbe
venuto a sapere".
214
“Che lei sappia, hanno mai fatto beneficenza?”
Chiese Rocco
“Cosa? Beneficenza? Non mi ascolti allora?"
Rispose De Stefano, risentito.
"Si, maresciallo, voglio dire…"
"Non c'è niente da dire. Non credo proprio che
la parola beneficienza rientri nel vocabolario di Dantino”,
replicò De Stefano.
“Mi lasci finire, maresciallo. Voglio dire che,
magari…non lui direttamente ma la figlia, Camilla, potrebbe
aver fatto delle donazioni ad un'associazione culturale”, tentò
di spiegare il giornalista.
“Si tratterebbe di una clamorosa novità. Il denaro
dei Telesce in beneficenza…”
“Potrebbe essere un'iniziativa della figlia oppure del
padre, che avrebbe usato quei soldi per stabilire contatti,
procacciare affari…marescià, non mi sembrerebbe tanto
strano".
De Stefano tacque per qualche secondo. Quindi,
esclamò, “Potrebbe…si potrebbero lavare i panni sporchi".
"I panni sporchi?"
"Il denaro sporco, Rocco".
"Certo, il denaro sporco, certo, certo".
"Ci sarebbero notevoli vantaggi”, suggerì il
maresciallo dall’altro capo del telefono, "sai quanti ne ho visti
di casi del genere in Sicilia. Occorre solo la giusta protezione".
"Come dice? La giusta protezione?"
"Certo, la giusta protezione. Altrimenti il gioco
viene subito scoperto".
" Il giudice Calenda, per esempio?"
215
“Non lo so. So che ogni estate trascorre una parte
delle sue vacanze a Bigliano. Dimora nella vecchia casa di
famiglia, insieme a Gianni e Camilla. Come puoi immaginare,
i contatti con Dantino Telesce sono frequenti”.
"Cosa si dice del giudice?".
"Sembra un uomo tranquillo. La scorsa estate si è
molto parlato della sua nuova Mercedes LSK. È stato uno
degli argomenti di pettegolezzo preferito nel bar di
Ciaramella. Ad alcuni é parsa un po’ eccessiva".
"Si tratta di un giudice. Certe cose potrebbe anche
permettersele", ribatté Verrastro.
"Certo, potrebbe, ma non il giudice Calenda". Si é
sempre mostrato come una persona normale, Quella
Mercedes non era proprio nel suo stile".
De Stefano non aggiunse altro. Verastro
ringraziò il maresciallo a riposo con la promessa di risentirsi
presto. Gli chiese anche di stare in allerta.
"Come sempre", rispose il maresciallo.
Ormai quasi tutti i tasselli stavano andando al loro
posto. Vi erano, tuttavia, un paio di dettagli che dovevano
ancora essere verificati.
Era stato appurato il legame che legava il dottor De
Cesare, implicato direttamente nella scomparsa, al sostituto
procuratore Trapanese. Era evidente come l'altro
personaggio, direttamente implicato nella scomparsa, Gianni,
fosse legato al giudice Calenda da uno stretto rapporto di
parentela. Il giudice, a sua volta, poteva aver esercitato delle
pressioni sull'amico procuratore Trapanese, responsabile delle
indagini, come confermato dalle confidenze di Cifaricchio. La
fondazione ma ancor di più l’associazione Liberi e forti
costituiva il trait d’union tra tutti i protagonisti della vicenda.
Il quadro era quasi del tutto chiaro ma restavano
ancora delle domande.
216
“Il giudice Calenda perché si é esposto a tal punto
in questa vicenda? Per fare un favore al nipote, salvaguardare
il buon nome della famiglia evitandole uno scandalo?”
Restava, inoltre, il mistero dell'appartamento al
mare.
“A chi appartiene? È lo stesso in cui sono andati
Mariella e gli altri, la sera della scomparsa?”
Dantino Telesce ne possedeva uno, che la sua
famiglia utilizzava per le vacanze.
"Un'inchiesta seria non avrebbe impiegato molto
tempo per appurare queste circostanze in relazione alla
scomparsa di Mariella", pensò Verrastro.
Intanto, aveva quasi completato il suo servizio.
Prima, però, di passare al montaggio, ritenne che fosse giunto
il momento di parlarne al caporedattore, consapevole che la
sua personale indagine avrebbe potuto sconvolgere gli
ambienti del potere potentino.
“Vieni”, gli disse il caporedattore quando vide
Rocco affacciarsi sulla porta del suo ufficio.
“Ricordi il caso a cui stavo lavorando?" Esordì
Rocco.
"Veramente, ora…"
"Si tratta del caso della scomparsa di Mariella la
bella”, rispose Rocco, resosi conto che il caporedattore lo
aveva completamente dimenticato.
"Ah, si…", esclamò il caporedattore, con la pipa
spostata sull'angolo destro della bocca.
Finse di ricordarsene, facendo un gesto vago.
“Dimi, dimmi…"
Rocco fece una sintesi dei risultati raggiunti. Il
caporedattore, dall’altro lato della scrivania, lo guardò
217
incredulo, mentre continuava a muovere la pipa, da un lato
all'altro della bocca.
“Lasciami pensare, Rocco. Ti rendi conto di quello
che potrebbe provocare il risultato di questa tua inchiesta?
Altro che il terremoto del 1980! E, francamente, questa
regione ne ha già avuti troppi di terremoti".
"A volte i terremoti servono a rimettere le cose a
posto. Si verificano quando ci sono situazioni di disequilibrio
nel terreno", rispose Rocco.
"Prima di provocarne uno deliberatamente bisogna
pensarci un attimo. Ti rendi conto delle conseguenze? Per
non parlare di come questa vicenda finirebbe per
ripercuotersi sul nostro lavoro".
“L’unica provocazione che vorrei suscitare è il
senso di giustizia. Vorrei risvegliare un'opinione pubblica
sedata", rispose Rocco, indignato.
“Sei ancora giovane, Rocchino! Lascia fare a me
che ho i capelli bianchi. Fra qualche giorno ne riparleremo.
Intanto, occupati di questo servizio sulla produzione dei
fagioli secchi”, gli propose il caporedattore.
"Ci risiamo. Questa volta si tratta di fagioli secchi”,
esclamò Rocco, con tono sarcastico, uscendo dall’ufficio.
Ne aveva abbastanza di quel becero giornalismo da
quattro soldi, asservito ai potenti. Decise che avrebbe fatto a
modo suo quella volta.
Animali da pelliccia
De Stefano aveva letto, sul Quotidiano della Lucania,
un articolo che ad un anno dalla scomparsa di Mariella la bella
faceva il punto sulla situazione investigativa. Un brivido gli
corse lungo la schiena. Bianco in volto tanto era rimasto
218
impressionato dalla lettura. Solo Verrastro aveva potuto
scriverlo anche se l'articolo portava la firma di Carmine Crocco.
Quando Verrastro giunse nei pressi della sua
proprietà, De Stefano gli andò incontro, tendendogli la mano.
“Vieni accomodiamoci qui", gli disse, indicandogli
le sedie sotto il pergolato.
Mentre Rocco si sistemava sulla sedia di vimini, il
maresciallo portò due birre.
“Grazie”, rispose Rocco, con un tono che lasciava
intendere che i suoi ringraziamenti non si limitavano alla
birra, bensì a tutto il lavoro, che De Stefano aveva svolto per
lui.
“Non ho visto il tuo servizio in televisione. Vuoi
vedere che è andato in onda proprio mentre dormivo?
Accidenti! Avevo detto a mia moglie di svegliarmi….".
Rocco rimase per alcuni attimi in silenzio. Alzò la
testa e iniziò a parlare.
“Mi scusi se non mi sono fatto sentire prima. È
stato un momento in cui ho dovuto prendere una decisione
difficile”.
“Non preoccuparti, io non ho fretta. Le cose
scorrono con lentezza e io sono abituato a vederle scorrere
secondo i loro tempi".
"A
volte
non
scorrono
affatto…",
rispose
Verrastro.
“Qualche giorno fa sul Quotidiano, ho letto uno
strano articolo sul caso di Mariella, firmato da un certo
Carmine Crocco"
Verrastro sorrise. De Stefano, invece, continuò
nelle sue osservazioni.
“È giunto alle tue stesse conclusioni. Incredibile!"
219
“Il mio servizio su Mariella, marescià, non ha mai
visto la luce perché non me l’hanno mai fatto neanche
montare. Il mio caporedattore è al servizio di quei bastardi.
Ha paura di mettersi contro il potere. D'altra parte non si
troverebbe in quel posto senza l'appoggio delle canaglie che
ora lui deve tutelare".
"Mi dispiace".
“Avevo il dovere di trovare una strada alternativa e
sono andato fino in fondo. L’ho fatto per Mariella ma
soprattutto per uomini come Zi' Antonio. Loro sono gli unici
che rispettano una terra dove uomini rapaci si nutrono del
sangue, della carne altrui e poi ne indossano le pelli. L’ho
fatto anche per me stesso. L'atteggiamento del caporedattore
mi ha spinto a proseguire. Ho il diritto di sollevarmi rispetto a
questo letamaio di carcasse umane".
Il maresciallo a riposo annuiva, mentre Rocco si
sfogava, passeggiando nella vigna. E camminando, continuava
a sfogarsi.
"In Lucania esistono associazioni e fondazioni di
cui fanno parte giudici, liberi professionisti, medici, professori
universitari, imprenditori e finanche politici. Apparentemente
non vi é nulla di illegale. Al contrario, sembrerebbero tutte
create con intenti filantropici. Hanno, invece, creato una sorta
di rete, che porta benefici ai loro amici e parenti. Il caso di
Mariella si svolge in questa rete. Il procuratore Trapanese, il
consigliere provinciale De Cesare, il Giudice Calenda e
finanche Dantino Telesce fanno parte della rete".
“Dantino Telesce?” Ripetè De Stefano strammato.
“Si proprio Dantino Telesce".
"Beh, mi sembra strano, Telesce è uno che non
regala niente", fece notare il maresciallo a riposo.
"Infatti, non regala i propri soldi. Una parte dei
guadagni provenienti dalla sua attività di usuraio viene ripulita
e rinvestita, attraverso la figlia, Camilla, moglie di Gianni
220
Calenda. Il denaro viene devoluto in beneficenza a favore di
una nota fondazione culturale. Dantino, ovviamente, ne
guadagna in favori, gare d'appalto, per esempio".
De Stefano che, intanto era costretto a camminare
avanti e indietro per la vigna, per seguire il dicorso di
Verrastro, osservò, “Dantino é molto generoso con i suoi
amici".
“Sicuramente! Non è escluso che anche l’acquisto
della macchina del giudice Calenda sia stato agevolato proprio
da Telesce", sottolineò Rocco, che aggiunse, "Mariella ha
avuto la sfortuna di trovarsi sulla strada di uno di questi
personaggi".
“Già! Mariella si era forse illusa di poter entrare a
far parte di quel mondo ricco e bello, fatto di macchine
lussuose, case al mare e feste. Aveva iniziato a frequentare De
Cesare, che insieme a Gianni Calenda e alla sua amante
avevano organizzato una festa nel loro appartamento di
Maratea".
"Ora sarebbe difficile dimostrarlo. È passato
troppo tempo per ritrovare qualche traccia interessante", fece
notare De Stefano.
"Secondo quanto detto da 'A bionda, l’alcool e la
droga devono aver fatto il resto. L’euforia del momento ha
provocato una tragedia".
“Perché non si trova il corpo di Mariella?" Chiese
De Stefano.
"Non lo sapremo mai. Potrebbe essere stata
seppelita in uno dei cantieri di Telesce, per esempio. Gianni
avrebbe potuto chiedere aiuto al suocero per sbarazzarsi del
corpo. Potrebbe trovarsi in qualche discarica, oppure
potrebbe essere stato abbandonato nelle vicinanze di
Maratea”.
"Non lo sapremo mai", confermò De Stefano.
221
"L'evoluzione della vicenda la conosce bene,
marescià. Quando le indagini sono arrivate a coinvolgere il
consigliere provinciale De Cesare, il procuratore Trapanese ha
smesso di approfondire".
"Capisco Rocco, sono stato in Sicilia. Non te lo
dimenticare", replicò il maresciallo.
Nell'istante i cui il maresciallo a riposo menzionava
la Sicilia, si sentì una voce provenire dal cancello di entrata.
“Buonasera, marescià!”
Era Zi Antonio.
“Vieni, Rocco, vorrei farti conoscere Zi' Antonio".
Il giornalista gli strinse la mano e Zi' Antonio lo
afferrò come avrebbe fatto con un figlio. Verrastro rimase
sorpreso. I tre si sedettero sul muretto in pietra, che si trovava
alla sinistra del cancello di entrata. La memoria involontaria,
innescata dai profumi di quella primavera anticipata, portò i
tre verso un mondo che non c'era più, ma che era bello
ricordare. Zi' Antonio pensò al nonno con cui aveva piantato
l'albero di ulivo. Aveva gli occhi lucidi di chi ha la
consapevolezza del paradiso perduto.
Improvvisamente, Zi' Antonio con la schiettezza
tipica dei contadini, chiese a Rocco, “tu che sei un uomo di
cultura, mi sai spiegare perché una bella giovane, come mia nipote, è
scomparsa e nessuno ne sape niente?”
Verrastro decise che Zi' Antonio aveva il diritto di
sapere la verità che gli era sempre stata negata.
"Mariella ha incontrato dei delinquenti vestiti da
signori. E i signori hanno sempre vinto da che mondo è
mondo", disse Rocco Verrastro a Zi' Antonio.
"Era na' criatura…" osservò Zi' Antonio.
"Probabilmente hanno approfittato di lei".
“Che volete dicere?"
222
"Non so come siano andate le cose. Sono solo un
giornalista. Posso supporre che Mariella, lavorando in
discoteca, abbia conosciuto della gente che le aveva fatto delle
promesse, facendole intravedere una vita facile, dove avrebbe
potuto ottenere quello che desiderava. Invece, la vita non è
cosi e lei lo sa bene”.
Zi' Antonio ascoltò in silenzio. Lui, che era
considerato un bifolco, aveva sempre avuto rispetto della
gente perbene. Aveva sempre pensato che di loro ci si potesse
fidare. Rimase di pietra. Poi si alzò, abbracciò di nuovo
Verrastro, salutò il maresciallo a riposo e andò via.
“Devo finire un lavoretto in campagna, prima di
tornare a casa”.
In realtà, andò via perché non riusciva più a
trattenere le lacrime e non voleva piangere di fronte ad un
estraneo. Giunto nella sua terra, si appoggiò all’ulivo del
nonno e pianse.
"Mariella è stata un animale da pelliccia", disse De
Stefano, che poi aggiunse, "sai, Rocco…ci sono degli animali
molto belli, che hanno una pelle molto bella. E ci sono
uomini che non sono così belli. Che fanno questi uomini che
non sono belli? Sopraffanno gli animali belli, gli rubano la
pelle e poi la indossano. Hanno bisogno di quella pelle per
sentirsi forti. Gli animali da pelliccia sono belli ma non
possono difendersi. Sono deboli e fragili perché la loro pelle è
delicata e pregiata. Sono costretti a seguire chi
apparentemente sembra prendersi cura di loro. Vengono
curati affinchè possano risplendere. Alla fine, vengono fatti
morire per illuminare coloro che non sono capaci di
risplendere di luce propria".
"Siamo tutti animali da pelliccia in Lucania, caro
maresciallo! Lo sono io, lo è lei, lo è stata Mariella e lo sono
quasi tutti qui a Bigliano. Non lo sono i Calenda, non lo è
Telesce, non lo è De Cesare…ma i vari Calenda, Telesce, De
Cesare e pochi altri ancora hanno bisogno dello scalpo dei
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biglianesi per continuare ad esistere. Non possono esistere
per quello che sono. I biglianesi non possono essere liberati.
Devono rimanere servi. Sono animali da pelliccia. Come i
castori, le marmotte, i visoni, sono allevati per essere scuoiati.
È stato così nel passato e sarà così negli anni a venire".
"Finchè è possibile, bisogna lottare e non
arrendersi mai. Il mio amico brigante Carmine Crocco ha lottato
e lotterà fino alla morte", sentenziò De Stefano.
“Come l’ha capito?” Chiese Rocco, sorridendo.
“Quando ho letto delle presunte rivelazioni
dell’amante di Gianni Calenda stava per prendermi un colpo.
Ne avevo parlato solo con te. Chi altri poteva esserne a
conoscenza?"
“Il termine brigante è inteso, genericamente, come
persona la cui attività è fuorilegge. Bene! Se questa è la legge,
io posso considerarmi al di fuori della legge. Sono un
brigante! Ho pubblicato l'articolo perché non volevo che
anche questa storia finisse come tante altre qui in Lucania".
“Ed ora cosa accadrà?"
“Marescià, il futuro è nella mani di Dio. No, anzi,
della Madonna di Bigliano!"
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