industria alimentare italiana: quali prospettive di ricerca e

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industria alimentare italiana: quali prospettive di ricerca e
INDUSTRIA ALIMENTARE ITALIANA:
QUALI PROSPETTIVE DI RICERCA E SVILUPPO?
Mauro MORESI, Paolo MASI e Roberto MASSINI
Società Italiana di Scienze e Tecnologie Alimentari (SISTAL)
c/o Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agroalimentari (DISTA),
Università degli Studi della Tuscia,
Via S. Camillo de Lellis, 01100 Viterbo (Italy)
Tel.: +39-0761-357494 ; Fax: +39-0761-357498
(www.sistal.org; [email protected])
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Riassunto
In questa relazione, la Società Italiana di Scienze e Tecnologie Alimentari (SISTAL) ha
inteso esprimere la propria opinione sulle prospettive di ricerca e sviluppo dell’industria alimentare italiana nel breve-medio termine.
L’industria alimentare italiana costituisce il secondo settore manifatturiero del Paese,
dopo quello meccanico, con un fatturato globale dell’ordine di 110 miliardi (mld) di €, pari al
17% del PIL. Il comparto è caratterizzato da circa 30.000 aziende individuali e circa 30.000
micro-imprese di trasformazione, 6.500 piccole imprese, 200 medie imprese e solo 10 grandi
imprese. La produzione dell’industria alimentare italiana può essere suddivisa in cinque classi: tradizionale classico (65% del totale); tradizionale evoluto (17%); denominazioni protette
(9%); nuovi prodotti (8%) e biologico (1%). Sebbene il trend di mercato dei prodotti tipici italiani sia globalmente espansivo, come testimonia il mercato dei prodotti di imitazione (50-60
mld di €), il rapporto export/fatturato totale (15,2% nel 2006) non riesce ad espandersi oltre la
soglia della media europea del 18%.
L’interesse dei consumatori sembra premiare i prodotti alimentari caratterizzati da innovazioni processo e/o prodotto (tradizionale evoluto e nuovi prodotti). Tuttavia, il 24% circa
delle aziende alimentari italiane non ha introdotto alcuna innovazione negli ultimi anni, mentre il 42% delle aziende ha introdotto innovazioni solo marginali. Il tipico misoneismo
dell’imprenditore italiano, come pure la bassa propensione all’investimento e la scarsa strutturazione aziendale, non permette alla maggior parte delle aziende di dotarsi di adeguate professionalità ed infrastrutture per realizzare in proprio ricerca precompetitiva e lo sviluppo di prototipi. Inoltre, le misure di sostegno all’innovazione industriale poste in essere a livello ministeriale (L. 297, L. 488, FIT, PIA) e regionale (L. 598) non hanno agevolato né il contatto industria-accademia per favorire il trasferimento tecnologico né la ricerca precompetitiva.
Sarebbe opportuno ridefinire e rifinanziare Programmi Nazionali Strategici di Ricerca di durata 3-5 anni (con fondi e deduzioni fiscali per le industrie agro-alimentari interessate
e fondi per la gestione di progetti coordinati fra aziende, università e centri di ricerca), le cui
tematiche dovrebbero essere pre-definite da un Comitato accademia-industria, dopo aver individuato i principali nodi alla competitività globale delle imprese italiane, e dovrebbero esplicitarsi nel lancio di appropriati Call for proposals, diretti a costruire reti complementari di
competenze tecnico-scientifiche, dislocate sul territorio nazionale e con massa critica sufficiente. In prima ipotesi, si propongono i seguenti temi di ricerca:
i)
certificazione e salvaguardia dell’alta qualità dei prodotti tipici della tradizione alimentare italiana attraverso l’individuazione di nuovi marcatori di processo e di prodotto;
ii)
ridefinizione dei processi di trasformazione in modo da garantire l’applicazione del
concetto 6 σ ai prodotti tipici innovati, quale premessa per migliorare la competitività
delle aziende italiane e per contrastare la concorrenza dei prodotti di mera imitazione;
iii)
sviluppo di tecnologie innovative a ridotto impatto ambientale e ridotto consumo energetico per la conservazione, il condizionamento e la distribuzione degli alimenti;
iv)
progettazione di prodotti innovativi con specifiche caratteristiche nutrizionali, funzionali, strutturali e organolettiche.
Parallelamente a queste iniziative, sarebbe infine auspicabile la realizzazione ed il finanziamento di strutture dedicate al Trasferimento Tecnologico dei risultati dei Programmi
Nazionali Strategici di Ricerca alle piccole e micro imprese alimentari.
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INTRODUZIONE
In questa relazione, la Società Italiana di Scienze e Tecnologie Alimentari (SISTAL),
quale organo di espressione dei Docenti Universitari impegnati nell'insegnamento e nella ricerca nel ssd AGR/15, ha inteso esprimere la propria opinione sulle prospettive di ricerca e
sviluppo (R&S) dell’industria alimentare italiana nel breve-medio termine, basando le proprie
deduzioni sia sulla struttura e sulle prestazioni attuali delle imprese alimentari, sia su un sintetico riesame critico delle principali novità emerse nell’ultimo ventennio.
INDUSTRIA ALIMENTARE ITALIANA OGGI: STRUTTURA E PRESTAZIONI
L’industria alimentare italiana costituisce il secondo settore manifatturiero del Paese,
dopo quello meccanico, con un fatturato globale dell’ordine di 110 miliardi (mld) di €, pari al
17% del PIL, nettamente superiore a quello delle produzioni primarie agricole e zootecniche
(2% del PIL).
Nel 2006 l’export alimentare italiano ha raggiunto i 16,7 mld € con un incremento del
+10% rispetto al 2005, con un’incidenza dell’export sul fatturato totale del 15,2%: in crescita,
eppure inferiore alla media europea del 18%. Il saldo commerciale è migliorato del +20% ed
ha raggiunto i 3 mld €, nonostante l’export dell’industria alimentare meridionale sia inferiore
di quasi tre punti a quello dell’export nazionale di settore.
Incrociando i dati ISTAT (ultimo censimento del 2000) con quelli più recenti di Federalimentare (il Forum Alimentare 2005 - Scenari e sfide globali per l’agroalimentare italiano, e
la Relazione del Presidente G. D. Auricchio in occasione di Cibus-Roma 2007), si può stimare la distribuzione dimensionale delle imprese alimentari italiane secondo gli attuali criteri
statistici europei (Commission Recommendation 2003/361/EC), come compendiato in Tabella 1.
Tabella 1 Struttura dell’industria alimentare italiana (dati ISTAT e Federalimentare).
Imprese
Grandi
Medie
Piccole
Micro
Individuali
Addetti
>250
50-250
10-49
2-9
1
N° Aziende
10
200
6.500
30.000
30.000
%
0,015
0,3
9,7
45
45
% cumulata
0,015
0,3
10,0
55,0
100,0
Il comparto è caratterizzato, dunque, da circa 30.000 micro-imprese di trasformazione
(con un numero di addetti compresi fra 2 e 9 unità) e circa 30.000 aziende individuali, 6.500
piccole imprese con un numero di addetti compreso fra 10 e 49, appena 200 medie imprese e
solo 10 grandi imprese. Il numero complessivi degli addetti è di circa 390.000 unità di cui
256.000 dipendenti. Il 7% degli addetti opera nell’ambito dell’amministrazione e finanza, il
19% si occupa del commerciale, il 9% di logistica e magazzino, il 43% di produzione ed il
22% di controllo e gestione della qualità e sicurezza.
Nel suo complesso, il settore agroalimentare coinvolge una ancor più grande forza occupazionale. A monte, l’agricoltura vanta una base occupazionale prossima ai 900 mila addetti e vende oltre il 70% dei suoi prodotti proprio all’industria alimentare. A valle, la grande distribuzione, con oltre 420 mila addetti, e i negozi, specializzati nel largo consumo e nel grocery, con oltre 350 mila addetti, basano la maggior parte del proprio fatturato sui prodotti e
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sulle bevande alimentari. Includendo gli addetti dei 130.000 bar e dei 75.000 ristoranti e trattorie, il settore agroalimentare occupa oltre i 2,5 milioni di addetti ed indubbiamente rappresenta non solo il più importante motore economico e occupazionale del Paese, ma anche il
primo settore industriale della Comunità Europea a 25 Paesi con un fatturato di oltre 840 mld
di €.
La produzione dell’industria alimentare italiana può essere suddivisa in cinque classi, il
cui peso relativo in termini di fatturato annuo nel 2005 è il seguente:
…
Tradizionale classico
65
%
…
Tradizionale evoluto
17
%
…
Denominazioni protette
9
%
…
Nuovi prodotti
8
%
…
Biologico
1
%
I prodotti derivati dall’agricoltura biologica sono sostanzialmente marginali ed in calo,
mentre sono in ascesa sia i prodotti appartenenti alla categoria del tradizionale evoluto sia
quelli che possono essere classificati come nuovi prodotti.
Approssimativamente, nel 2006 oltre i ¾ dei prodotti alimentari esportati dal nostro Paese sono stati prodotti industriali di marca, mentre le piccole produzioni tipiche, come la nicchia artigianale, non é riuscita né a sostenere all’estero il cosiddetto Made in Italy, né a resistere alla sfida del mercato globale a causa della piccola e micro dimensione delle imprese alimentari italiane.
Solo la grande distribuzione organizzata (GDO) è riuscita a sviluppare appropriati processi di accorpamento dimensionale, anche attraverso le Centrali di acquisto, sì da arrivare a
coprire i 2/3 delle vendite agroalimentari al dettaglio.
Data l’assenza di analoghi processi di aggregazione nei primi due anelli di filiera (produzione primaria e trasformazione), il commercio è risultato largamente favorito, nella catena
del valore, rispetto all’agroindustria al punto che alla GDO compete attualmente circa la metà
del valore di un prodotto alimentare “sullo scaffale”.
Inoltre, quasi un terzo dei costi del sistema agroalimentare italiano è imputabile ai servizi di trasporto e logistica (Rapporto ISMEA: La logistica come leva competitiva per
l’agroalimentare italiano). Il solo costo del trasporto, che avviene per oltre il 90% dei casi su
gomma, grava sul totale degli oneri logistici per circa i due terzi. L’altro terzo include i costi
di magazzinaggio, condizionamento, confezionamento e picking - preparazione dell’ordine
(Anon., 2007).
Infine, i due fattori chiave che caratterizzano il successo dei prodotti alimentari italiani
all’estero, ossia la loro qualità e la loro sicurezza alimentare, hanno generato una sleale concorrenza sui mercati esteri con imitazioni e contraffazioni, il cui fatturato complessivo si aggirerebbe - secondo stime della Federalimentare – sui 50÷60 mld €.
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INDUSTRIA ALIMENTARE EUROPEA: UN DECENNIO DI INNOVAZIONI
Negli anni ‘70, l’obiettivo principale dell’industria alimentare era diretto a migliorare i
processi manifatturieri e le relative efficienze, a convertire i processi produttivi da discontinui
a continui, a migliorare l’affidabilità e l’efficienza energetica dei processi produttivi ed anche
a ridurre la formazione di residui e scarti. In sintesi, a massimizzare la profittabilità dei processi produttivi, cioè migliorare il cosiddetto fare (Make).
A partire dagli anni ’80, la ristorazione fast e collettiva si è enormemente sviluppata,
dapprima nel mondo anglo-sassone e poi anche in Italia, e l’industria alimentare si è focalizzata sui cosiddetti servizi (Service). In questa categoria rientrano i prodotti ready-to-eat, ossia
i surgelati da rinvenire in padella, i refrigerati da riscaldare in forno a micro-onde, i prodotti
freschi di IV gamma (insalate pronte da condire e le macedonie di frutta).
Nei tardi anni ’90 è iniziato a delinearsi il cosiddetto Care business, ove invece di preparare una categoria di prodotti o di fornire un dato servizio, si provvede un insieme comprensivo di prodotti e servizi, che possono essere forniti da uno o più partner, ma che vengono
assemblati in un unico blocco. In questa categoria, rientra, ad es., l’insieme macchina più cialda per caffé espresso.
L’evoluzione anzidetta è illustrata in Fig. 1 (Bruin & Jongen, 2003).
Figura 1 Evoluzione delle produzioni alimentari dal concetto del fare (Make) a quello di fornire un
servizio (Service) e poi un insieme di prestazioni (Care), estratta da Bruin & Jongen,
(2003).
Nell’ultimo decennio è iniziato ad affermarsi il punto di vista del consumatore sulle
produzioni alimentari (Lelieveld, 2007), come brevemente delineato di seguito.
Consumatori e benessere
I consumatori sono divenuti sempre più consapevoli nei confronti della qualità degli alimenti ed, in particolare, della loro “freschezza”, quale sinonimo di cibo salutare, in quanto
eccessivi trattamenti termici provocavano la distruzione di vitamine ed antiossidanti e questi
componenti sono essenziali per prevenire l’insorgenza di tumori od altre malattie. Ciò che non
era chiaro e, forse, non lo è tuttora al consumatore in senso lato è che gli alimenti non trattati
o sottoposti a trattamenti di tipo “mild” possono anche contenere elevati concentrazioni di nu5
trienti essenziali, ma che la loro disponibilità è in genere limitata, mentre i microrganismi patogeni possono sopravvivere ai trattamenti termici “mild”, il che moltiplica le tossinfezioni
alimentari. Ciò ha reso necessaria l’introduzione di stringenti norme igieniche per limitare la
diffusione di tossi-infezioni alimentari.
I principali fattori che guidano i consumatori nella scelta degli alimenti sono
nell’ordine: gusto, salubrità, assenza di additivi, prezzo, struttura e convenienza (Bruin &
Jonge, 2003).
La consapevolezza che le carenze di acido folico o di calcio sono alla base, rispettivamente, di difetti nei neonati o di osteoporosi, soprattutto negli anziani, ha reso possibile lo sviluppo ed il successo commerciale dei cosiddetti nutraceutici. L’industria alimentare ha cominciato a produrre cibi arricchiti in particolari sostanze, quali vitamine, calcio, ferro, oligoelementi, acidi grassi ω-3, etc., quale naturale sviluppo dell’arricchimento, tradizionale nel
mondo anglosassone, della margarina con le vitamine A e D come moderna alternativa al famigerato cucchiaio di olio di fegato di merluzzo per prevenire la cecità notturna ed il rachitismo.
In Italia i prodotti con proprietà salutistiche non hanno sinora trovato larga diffusione,
anche per gli ostacoli, posti giustamente dalle leggi in merito, alle indicazioni nutrizionali e
sulla salute utilizzabili nella etichettatura e nella pubblicità.
Il consumatore italiano, in particolare, privilegia il gusto all’aspetto salutistico, ma certamente ci sono alcuni milioni di persone che soffrono di malattie legate all’alimentazione (es.
cardiocircolatorie, ipertensione, obesità, diabete, osteoporosi, celiaci, carie dentarie, ecc.), le
quali invece sono molto attente alla loro alimentazione e quindi interessate, più di altre, a consumare alimenti preparati specificatamente per la loro malattia.
Allergenicità
La consapevolezza che le arachidi fossero altamente pericolose per i consumatori ad esse allergici era nota da lungo tempo, ma quanti consumatori erano o sono consci che non sempre “una mela al giorno toglie il medico di torno”, ma che questa può scatenare reazioni allergiche incontrollate?
Ciò ha costretto l’industria alimentare a non limitarsi a garantire i requisiti igienici tradizionali, ma a evitare che le macchine e le attrezzature utilizzate per produrre un certo alimento ne trasferiscano i residui in altri alimenti, contaminandoli.
Se il trasformatore non è in grado di garantire l’assenza di allergeni in un dato alimento,
lo deve dichiarare in etichetta, anche se ciò non può che limitare l’accettabilità del prodotto da
parte del consumatore. La UE ha compreso l’importanza di questo problema e sta finanziando
ricerche per migliorare la qualità della vita dei consumatori allergici.
Obesità, zuccheri e sale
Gradualmente i consumatori della UE hanno cominciato a prendere atto del problema
dell’obesità. Sebbene la razione dei cibi nella UE sia di gran lunga inferiore a quella negli
USA e non presenti ancora gli aspetti aberranti della supersize statunitense, la razione media
europea sta inesorabilmente aumentando ed il problema dell’obesità sta divenendo sempre più
palese.
Anche il problema degli elevati tenori zuccherino e salino dei cibi è sempre più di attualità e l’industria sta ovviamente cercando di soddisfare le richieste dei consumatori. Tuttavia,
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per mantenere le proprie quote di mercato, sta introducendo nuovi ingredienti per compensare
la minor sapidità o dolcezza derivanti dalle nuove ricette.
Sicurezza alimentare
La sicurezza dei prodotti alimentari è un prerequisito; eppure, ogni anno, alcune migliaia di persone vengono ospedalizzate a causa di danni alla salute connessi agli alimenti.
La sicurezza rappresenta un campo quasi infinito, dato che ogni anno emergono nuovi
pericoli, che comunque possono ricadere in tre categorie principali:
-
contaminanti biologici, che comprendono quelli microbiologici,
-
contaminanti chimici,
-
contaminanti fisici.
Per questi ultimi, cioè per la tenuta sotto controllo di corpi estranei, non sempre pericolosi per la salute, ma comunque tali da rendere il prodotto non idoneo al consumo umano, la
scienza non ha rivolto particolare attenzione, ma in ogni azienda, per una serie di fattori, risultano sempre essere la prima voce dei reclami da parte del consumatore.
Prodotti tradizionali ed innovativi
La tecnologia per produrre i prodotti tradizionali deve essere approfondita. Molti processi sono stati messi a punto empiricamente nel tempo; eppure, un’attenta analisi non potrà
che rilevare molti sono i miglioramenti ancora possibili sia nelle condizioni di processo che
negli impianti.
L’esperienza insegna che spesso il processo è stato guidato dalle aziende costruttrici di
impianti, con evidenti sovradimensionamenti, mentre con piccoli studi si potrebbero aumentare le rese di qualche punto percentuale, apparentemente poco interessanti dal punto di vista
scientifico ma essenziali per la sopravivenza nel settore delle commodities, che devono sottostare alla concorrenza del mercato internazionale.
L’interesse per i prodotti innovativi deriva dalla richiesta di prodotti sempre più
attraenti, che diano più piacere e che soddisfino l’autoindulgenza. In questa ottica, troveranno
spazio crescente le tecnologie cosiddette “mild”, in quanto provocano minor danni termici, e
quelle atte a conservare tutte le caratteristiche dei prodotti freschi, come il supercooling (Magnussen et al., 2007), le quali devono essere indagate più a fondo per verificarne l’effettiva
utilità.
In questa categoria di prodotti rientrano gli alimenti con il massimo contenuto di servizio, in crescente richiesta da parte delle persone che vivono sole e che hanno delle specifiche
esigenze, quali in particolare la praticità e la velocità di preparazione degli alimenti. Ovviamente, questo tipo di alimenti ha sempre presentato problemi di conservabilità e, quindi, bisognerà approfondire questi aspetti anche lavorando sui materiali di confezionamento “attivi”
per cercare di rallentare la comparsa di quei difetti che si evidenziano molto rapidamente in
questo tipo di alimenti.
Con il progredire della globalizzazione aumenterà la richiesta di prodotti etnici da parte
di consumatori interessati a sapori inusuali ed alla conoscenza di cucine esotiche. Prodotti
come il kebab o il sushi stanno trovando una certa diffusione, anche se dal punto di vista
scientifico si è fatto molto poco. Di altri alimenti poco diffusi, ma ben accetti dal consumatore
italiano, quali ad es. il pane indiano “nun”, non se conosce né la composizione né il processo.
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Iniziative dirette a soddisfare le richieste dei consumatori
Per venir incontro alle richieste anzidette, numerosi progetti di ricerca pubblici e privati
hanno evidenziato nuove tecnologie di conservazione degli alimenti, nuovi materiali di confezionamento e nuove tecniche di confezionamento.
Tra le tecnologie emergenti per migliorare le qualità organolettiche dei cibi “minimamente trasformati”, ma con elevati gradi di riduzione microbica, occorre citare le altissime
pressioni, il riscaldamento ohmico, i campi elettrici pulsati, etc.
Nuove tecniche di confezionamento in atmosfere modificate (MAP: modified atmosphere packaging) sono oggi disponibili per prolungare la vita di scaffale (shelf-life) del prodotto “fresco” e restringere al massimo le proliferazioni microbiche.
Le nanotecnologie sono state descritte come la nuova rivoluzione industriale, dato che
non solo i Paesi sviluppati ma anche quelli in via di sviluppo stanno investendo in questa tecnologia per assicurarsi future quote di mercato. Attualmente, gli Stati Uniti hanno investito
circa 3,7 mld US$ in un progetto quadriennale (National Nanotechnology Iniziative, NNI), il
Giappone e la Comunità Europea stanno, rispettivamente, investendo 0,75 ed 1,2 mld di US$
per anno. Le pubblicazioni accademiche cinesi relative alle nanotecnologie sono cresciute dal
7,5% del 1995 al 18,3% nel 2004, facendo avanzare la Cina dal 5° al 2° posto nella classifica
mondiale (Tiju & Morrison, 2006).
Si ritiene che il mercato delle nanotecnologie (pari a 7,6 mld US$ nel 2003) si espanderà fino ai 1000 mld di US$ nel 2011, anche se le potenzialità applicative delle nanotecnologie
in agricoltura e nell’industria alimentare sono ancora limitatissime.
Nel settore alimentare il loro impatto ha cominciato a delinearsi solo negli ultimi anni
grazie all’organizzazione di alcune conferenze sull’argomento e ad un crescente interesse da
parte dei media, soprattutto nell’ambito del miglioramento della sicurezza alimentare. Parecchie aziende, inizialmente riluttanti a rivelare i propri programmi di ricerca in questo settore,
hanno incominciato a renderli pubblici, evidenziandone le prospettive sia per migliorare i prodotti già in commercio, sia per svilupparne nuovi ed espandere le quote di mercato già acquisite. In particolare, le applicazioni previste riguardano il confezionamento intelligente (smart),
l’impiego di conservanti che agiscono se necessario (on demand preservatives) e gli alimenti
cosiddetti interattivi (Tiju & Morrison, 2006). Questi ultimi, a seconda di bisogni nutrizionali
o di gusti particolari dei singoli consumatori, potrebbero essere manipolati in maniera da consentire, a comando, la dissoluzione di migliaia di capsule, presenti nell’alimento, per rilasciare
esaltatori di aromi o di colore, micro- od oligo-elementi (vitamine o sali minerali). Aziende,
come Nestlè, Kraft, Heinz e Unilever, stanno conducendo specifici programmi di ricerca con
l’obiettivo di conquistare nel prossimo decennio quote significative del mercato dei cosiddetti
nanofood.
L’impiego dei sistemi di confezionamento denominati smart packaging mira a prolungare la shelf-life degli alimenti attraverso diverse azioni, quali l’autoriparazione di microfori o
fessure, la reattività dell’imballaggio a particolari condizioni ambientali (temperatura, umidità
relativa, radiazioni UV e visibili) o la segnalazione di avvenuta contaminazione dell’alimento.
Ad esempio, Kraft foods, insieme ai ricercatori della Rutgers University negli USA, sta
sviluppando una “lingua elettronica”, costituita da una serie di nano-sensori estremamente
sensibili ai gas sviluppati dagli alimenti che si guastano e tali da cambiare il colore
dell’imballaggio qualora le quantità adsorbite di detti gas superino un valore di soglia, rilevando visivamente al consumatore che l’alimento non è più fresco.
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Bayer Polymers ha sviluppato un film per imballaggi (Durethan KU2-2601), arricchito
in nanoparticelle di silicato per ridurne significativamente la permeabilità all’ossigeno e al
vapore acqueo, utilizzabile quando si debba minimizzare la disidratazione e l’irrancidimento
dei prodotti confezionati.
Voridan e Nanocor hanno messo a punto un laminato nanocomposito per produrre bottiglie per birra. Queste, oltre ad essere più leggere e più resistenti del vetro, presentano, grazie
alla presenza di nanoparticelle di argilla (Imperm), una permeabilità minima nei confronti della CO2 e dell’O2, tale da consentire il mantenimento della freschezza della birra per almeno 6
mesi. Questo nuovo materiale, come altri a base di nylon 6, è stato positivamente impiegato
dalle aziende birraie Miller e Hite e certamente troverà una crescente diffusione nel breve
termine.
Dato che gli studi sulla sicurezza d’uso delle nanotecnologie sono ai primi passi, l’impiego di nanoparticelle ha già iniziato a sollevare allarme nell’opinione pubblica, poiché detti
nanomateriali potrebbero contaminare la catena alimentare umana ed accumularsi nei tessuti e
negli organi, oppure permeare attraverso le pareti cellulari (Oliver, 2007). Un recente rapporto
dell’Institute of Food Science and Technology in Inghilterra ha evidenziato la necessità di disporre di maggior informazioni sulla sicurezza delle nanoparticelle non solo prima di utilizzarle negli alimenti, ma anche prima che si pongano le stesse obiezioni che hanno accompagnato
l’uso
di
organismi
geneticamente
modificati
(OGM)
(http://www.ifst.org/uploadedfiles/cms/store/ATTACHMENTS/Nanotechnology.pdf).
Nel complesso, la diffusione di queste tecnologie è ancora estremamente limitata: perché?
Probabilmente, è il problema delle autorizzazioni alla produzione, che differiscono da
Paese a Paese e richiedono dimostrazioni atte a validarne la sicurezza d’uso anche con test su
cavie. Dal 2004 è attivo il gruppo di lavoro Global Harmonization Initiative (GHI:
www.novelq.org), che sta esaminando, da un punto di vista scientifico, le differenze nei regolamenti nazionali sugli alimenti nell’ottica di pervenire ad una procedura di autorizzazione unica su scala globale. Dallo scorso anno è iniziato un progetto di ricerca UE “NovelQ” per individuare le ragioni che hanno ostacolato la diffusione delle tecnologie emergenti, il cui costo
negli ultimi dieci anni si è aggirato, solo in Europa, intorno ai 300 milioni di € (Lelieveld,
2007).
Prescrizioni legali
Un’altra ragione a favore di protocolli e prescrizioni a valenza globale è la diretta conseguenza dei progressi nei metodi analitici. Le prescrizioni legali spesso prevedono l’assenza
di sostanze potenzialmente dannose. Mezzo secolo fa le quantità rilevabili erano inferiori a
pochi mg per kg, un decennio fa si riusciva a rilevare qualche μg per kg, mentre oggigiorno si
riescono a rilevare i ng od i pg per kg. D’altra parte, non si può obiettare alcunché se i NAS
ritirano dal mercato alimenti contaminati da tali minime quantità se la legislazione impone
che dette sostanze debbano essere assenti. Non a caso, Paracelso affermava che tutte le sostanze sono veleni e che solo in giusta dose si convertono da veleni a farmaci.
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INDUSTRIA ALIMENTARE ITALIANA: EVOLUZIONE E CRITICITÀ
Evoluzione
Con i profondi mutamenti avvenuti nelle società dei Paesi industrializzati nell’ultimo
ventennio, l’industria alimentare italiana ha registrato un sostanziale cambiamento nel suo indirizzo produttivo, che non è stato più esclusivamente rivolto ad assicurare la semplice conservazione degli alimenti, ma a facilitare la preparazione delle vivande, ad abbreviarne i tempi
di elaborazione e a garantire adeguati standard qualitativi.
A questo processo di adattamento e di ammodernamento si è anche associata una sostanziale espansione della domanda e l’affermarsi di modelli di consumo sempre più differenti
da quelli tipici delle società rurali, ove predominano i consumi di prodotti freschi. Ciononostante, l’Italia si colloca ancora al secondo posto in Europa per il consumo procapite annuo di
frutta e verdura (ca. 360 kg), subito dopo la Grecia (482 kg), ma prima della Spagna (309 kg).
In Italia, la quota dei prodotti trasformati copre più del 50% della spesa alimentare, ma è
destinata ad ulteriori aumenti a seguito dell’affermarsi di altre modalità di consumo e di distribuzione dei prodotti alimentari, indotte soprattutto dall’aumento generalizzato della conservazione frigorifera dalla produzione al consumatore, dalla forte crescita della ristorazione
collettiva e, in virtù dell’aumento del reddito medio pro-capite, dalla diversificazione della
dieta. A ciò è corrisposto fra l’altro il massiccio aumento nei consumi sia di prodotti provenienti da aree geografiche molto distanti (prodotti tropicali o prodotti freschi fuori stagione),
sia di prodotti appositamente coltivati in serre (primizie).
In termini puramente evolutivi, la domanda di prodotti alimentari da parte dei consumatori italiani si è spostata dai soli prodotti “freschi” (cioè i prodotti della I gamma) a prodotti
con diverso grado di trasformazione, cioè dalle conserve vegetali (IIa gamma) ai surgelati (III
gamma), ai prodotti orticoli di IV gamma, ossia i prodotti orticoli freschi (insalate, spinaci,
minestroni, carote, etc.), già puliti, tagliati e confezionati in sacchetti o in vaschette, pronti per
essere consumati immediatamente oppure previa cottura, senza ulteriori manipolazioni da parte del consumatore, ed infine ai prodotti trasformati di V gamma, trattati termicamente ma con
apparente freschezza.
Con l’apertura del mercato unico europeo, prima, e del mercato globale, oggi, è iniziato
un processo di aggregazione o di marginalizzazione delle imprese più piccole (rivolte in genere alla produzione di alimenti a basso coefficiente di trasformazione, prive di una efficace politica delle vendite e con un raggio di azione limitato), che inevitabilmente privilegia e avvantaggerà le grandi imprese multinazionali, dotate di una moderna gestione per progettare e realizzare programmi produttivi e commerciali di ampio respiro.
In questa prospettiva sono risultate nettamente sfavorite tutte quelle trasformazioni a
basso livello tecnologico (cioè ad elevato rapporto materia prima impiegata/prodotto lordo ottenuto), che portano a semilavorati per ulteriori elaborazioni.
Si illustrano schematicamente in Fig. 2 i principali fattori che condizionano
l’evoluzione strutturale dell’industria alimentare e l’evoluzione dei modelli di consumo alimentare (Cantarelli, 1987).
L’aggiornamento tecnologico dei processi per la trasformazione primaria delle materie
prime di interesse alimentare è proceduto piuttosto lentamente con ritardi medi dell’ordine di
20-30 anni rispetto all’aggiornamento dei settori chimico e farmaceutico. Ad es., gli scambiatori di calore a piastre iniziarono ad essere utilizzati dall’industria lattiero-casearia italiana alla
fine degli anni ’50 nonostante fossero stati brevettati da Seligman, promotore e direttore della
nota ditta APV Co., nel 1923 (Müller-Steinhagen, 1997); mentre gli evaporatori a film caden10
te iniziarono a diffondersi presso le industrie agrumarie italiane nei primi anni ’70 sebbene
fossero prodotti dalla ditta Majonnier Brothers Co. fin dal 1947 (Varsel, 1980).
Per contro, l’emivita dell’innovazione dei prodotti alimentari è cambiata drasticamente,
riducendosi dai 10 anni degli anni ’70 ai circa 2 anni del 2000 (Bruin & Jongen, 2003).
CONDIZIONAMENTI
SOCIO-ECONOMICI
EVOLUZIONE TECNICA E SCIENTIFICA DELLA
PRODUZIONE INDUSTRIALE
MODIFICAZIONI
DEI MODI DI CONSUMO
DEGLI ALIMENTI
EVOLUZIONE STRUTTURALE
DELL’INDUSTRIA ALIMENTARE
MODIFICAZIONI DELLA DISTRIBUZIONE AL DETTAGLIO
AFFERMAZIONE DELLA RISTORAZIONE “FAST” E COLLETTIVA
Figura 2 Evoluzione dei modelli di consumo alimentare e della struttura dell’industria alimentare
(Cantarelli, 1987).
Criticità
A fronte di un trend di mercato globalmente espansivo nei confronti dei prodotti tipici
italiani, come testimonia il mercato dei prodotti di imitazione, non si riesce a far espandere il
rapporto export/fatturato totale oltre la soglia della media europea del 18%.
E ciò è sicuramente dovuto al fatto che solo il 10% dell’intero comparto produttivo nazionale (Tabella 1) ha dimensioni sufficienti per risultare effettivamente competitivo sul mercato globalizzato; eppure, circa i 2/3 del fatturato totale è detenuto da piccole e micro imprese.
Queste, grazie alla loro scarsa strutturazione, hanno una elevata flessibilità di mercato, di prodotto e di processo ed, inoltre, sono specificatamente adatte per le produzioni di eccellenza
destinate a nicchie di mercato molto remunerative. Se ciò ha consentito nel tempo di presidiare l’enorme patrimonio eno-gastronomico del Paese, le penalizzazioni competitive sono crescenti, in quanto le piccole imprese, per l’inadeguata dimensione, non posseggono le competenze interne di natura tecnologica, gestionale e di marketing atte a resistere sui mercati internazionali. In ogni caso, posto pari a 100 il fatturato dell’industria alimentare derivante dalle
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esportazioni, quasi l’80% è costituito da prodotti dell’industria e poco più del 20% da produzioni tipiche e di nicchia.
Nonostante l’interesse dei consumatori sembri premiare i prodotti alimentari caratterizzati da innovazioni sia di processo che di prodotto (tradizionale evoluto e nuovi prodotti), al
punto che questi rappresentano in toto il 25% del fatturato complessivo dell’industria alimentare italiana, le scelte innovative appaiono molto contenute. Il 24% circa delle aziende alimentari italiane non avrebbe introdotto negli ultimi anni alcuna innovazione, il 42% delle aziende
avrebbe apportato innovazioni solo marginali ed il restante 34% avrebbe introdotto innovazioni sostanziali, anche se di queste solo il 12% avrebbe riguardato sia il processo che il prodotto.
Questi dati confermano il tipico misoneismo dell’imprenditoria italiana, che, congiunto
ad una bassa propensione all’investimento e ad una scarsa strutturazione aziendale, non permette alla maggior parte delle imprese di dotarsi di adeguate professionalità ed infrastrutture
per realizzare in proprio ricerca precompetitiva e lo sviluppo di prototipi.
GESTIONE DELL’INNOVAZIONE ALIMENTARE
Contesto - Fasi - Pianificazione
Consumo Distribuzione Industria Agricoltura Tecnologie Ricerca Legislazione Salute
Monitoraggio
Generazione
delle idee
Definizione
concept
Progettazione e
Prototipazione
Ingegnerizzazione
Produzione su scala
pilota e pre-lancio
Industrializzazione
e Lancio
Valutazione integrata: tecnica - di mercato – economica - finanziaria
BUSINESS PLAN (a definizione progressiva)
Figura 3
Tempo
Rappresentazione schematica del percorso innovativo.
In ogni caso, il percorso che porta dalla nascita alla realizzazione dell’idea innovativa illustrato in Fig. 3 è particolarmente complesso, si articola in numerose fasi e comporta
l’intervento di numerose professionalità, che nella maggior parte dei casi non sono reperibili
nell’organico aziendale e che dovrebbero essere gestite in maniera programmata e sinergica in
modo da pervenire a risultati in tempi compatibili con le esigenze aziendali.
Uno degli errori di fondo più comuni che viene commesso sotto questo aspetto è quello
di ritenere che le esigenze associate alla realizzazione di un prodotto innovativo o
all’adozione di un processo innovativo possano essere soddisfatte attraverso attività di ricerca
condotte con metodologie e tempi tipici dell’accademia. In realtà, l’innovazione di prodotto e
di processo in campo alimentare, così come negli altri settori manifatturieri, si basa non sui
risultati delle ricerche condotte ad hoc, ma sul trasferimento dalla scala di laboratorio alla sca12
la industriale di risultati di ricerca già disponibili e consolidati che consentano di ottenere, in
tempi compatibili con le esigenze industriali, prototipi suscettibili di successiva industrializzazione.
Per superare questi ostacoli intrinseci, nei Paesi a forte propensione innovativa sono stati realizzati Centri per il Trasferimento Tecnologico sia privati (es. Campden & Chorelywood
Food Research Association in Inghilterra) che a prevalente partecipazione pubblica (es.
Fraunhofer Institute for Applied Information Technology, FIT, in Germania e Valtion Teknillinen Tutkimuskeskus, VTT, in Finlandia), che operano con successo da anni.
In Italia simili esperienze non hanno finora portato ad alcun risultato positivo per
l’innovazione del settore alimentare.
In primis, occorre citare il caso dell’impianto pilota per la produzione di biomasse proteiche da residui e surplus del sistema agro-alimentare, installato presso la RASA-REALTUR
SpA di Manfredonia (FG). Questo venne realizzato alla fine degli anni ’70 grazie alla pionieristica e lungimirante intuizione del Prof. Corrado Cantarelli, Coordinatore del Progetto Finalizzato (PF) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) “Nuove Fonti Proteiche” (Florenzano, Spadoni & Bianchini, 1986). Successivamente, questo impianto pilota venne implementato con un nuovo prototipo di fermentatore a colonna a funzionamento misto idraulico e/o
pneumatico (Moresi & Sebastiani, 1988), grazie al supporto della Prof.ssa Maria Antonietta
Spadoni ed i fondi del PF del CNR IPRA (Incremento Produttività delle Risorse Agricole), e
continuò ad operare con esigui fondi di funzionamento nell’ambito del PF del CNR RAISA
fino al 1994. Da allora, opera sporadicamente nell’ambito progetti di ricerca finanziati dal
Ministero della Ricerca e dell’Università senza alcuna diretta connessione con le imprese biotecnologiche del Paese.
Più recentemente, si è tentato di istituire Centri Regionali di Competenza in Campania o
una rete di Centri di Trasferimento nelle regioni dell’Obiettivo 1).
Per quanto concerne l’esperienza della Campania, i Centri sono stati concepiti come un
complesso virtuale, ove far interagire selezionati consulenti accademici a supporto di specifici
settori (quali ambiente, beni culturali, biotecnologie, trasporti, materiali ed anche alimentare),
provvedendo ad ampliare la dotazione strumentale dei relativi laboratori di ricerca per implementarne il grado di servizio. Dal momento che i laboratori di detti Centri spesso coincidono
con quelli dei Dipartimenti universitari che li ospitano, ne è derivata un’improduttiva concorrenza ed un’inefficacia di sistema, in quanto entrambi svolgono ricerca per lo più in piccola
scala, ossia in provetta o al massimo in fermentatori da banco da 2 a 10 dm3 di volume operativo, ed utilizzano nella quasi totalità dei casi attrezzature esclusivamente destinate ad attività
di ricerca di base.
La disponibilità di un pool di consulenti, che possano lavorare in sinergia su grandi problematiche, rappresenta indubbiamente un’idea vincente quando gli interlocutori sono aziende
di medio-grande dimensione, come Ansaldo trasporti, Aeritalia e similari. Nel caso specifico
del settore alimentare, costituito, come già evidenziato in Tab. 1, quasi interamente da micro
imprese che non possono sostenere i costi della ricerca, questa impostazione non appare adeguata per sostenerne l’innovazione. Senza mezzi termini, questo approccio rappresenta
null’altro che l’ennesimo spreco di fondi pubblici alla ricerca dell’araba fenice
dell’innovazione delle piccole imprese del settore alimentare meridionale.
Parimenti, la situazione non è stata minimamente scalfita dalle diverse misure di sostegno all’innovazione industriale poste in essere a livello ministeriale (L. 297, L. 488, FIT, PIA)
e regionale (L. 598). La comune filosofia di tali misure era ed è quella di agevolare il contatto
industria-accademia per favorire il trasferimento tecnologico e la ricerca pre-competitiva.
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Chi è stato coinvolto, o come attore o come valutatore, in queste iniziative ben sa che
solo raramente le joint-ventures industria-accademia, poste in essere, nascono da reale interesse al trasferimento tecnologico per la risoluzione di problemi specifici ed attuali.
Per lo più, esse sono viste dal mondo accademico come opportunità di finanziamento
della ricerca e dal mondo industriale come accesso a finanziamenti agevolati per
l’ammodernamento di parti di impianti e di strutture preesistenti. Molto spesso, a proposta di
ricerca approvata, le aziende tentano spesso di fare a meno delle competenze accademiche.
Questo Paese ha troppe università e paradossalmente pochi laureati. Per es., l’industria
alimentare italiana, prevalentemente composta da micro e piccole aziende, potrebbe giovarsi
delle più o meno adeguate strutture di R&S esistenti presso le 23 Facoltà di Agraria, quasi
uniformemente distribuite su tutto il territorio nazionale.
Il contributo italiano “accertabile” in ambito Food Science and Technology Abstracts
(FSTA), nel periodo 1990-2004, è assommato ad oltre 11.000 referenze, con un contributo
consolidato di 800-1000 riferimenti/anno, che è allineato a quello della Francia e della Spagna, ma di circa un terzo inferiore a quello britannico (oltre 17.000) e tedesco (circa 19.000).
Nella “classifica” internazionale la ricerca italiana nel settore è al 7° posto, preceduta,
oltre che dai 4 Paesi europei già menzionati, ovviamente da USA (circa 50.000 riferimenti) e
Giappone (circa 20.000).
Degli oltre 11.000 riferimenti, oltre 6.600 (circa 60%) provengono dall’Università, poco
più di 2000 (18% del totale) dalle Agenzie Governative (Istituti Superiori, Stazioni Sperimentali, laboratori di controllo, includendo in questa categoria anche gli Istituti Zooprofilattici,
che hanno una configurazione istituzionale a metà strada fra ministeriale e regionale) e circa
1.000 (9% del totale) da aziende e centri privati (Riva & Pompei, 2005).
Questa idiosincrasia fra ricerca accademica e ricerca industriale non fa compiere alcun
salto in avanti al sistema alimentare italiano. Basta, infatti, esaminare criticamente i Rapporti
Tecnici conclusivi della maggior parte dei progetti di ricerca finanziati su L. 598 – Regioni
Varie, L. 488, FIT, PIA, PNR, etc.: non si producono brevetti, non si aumenta l’occupazione,
se non in maniera estremamente marginale, e non producono investimenti industriali significativi.
Uno studio sul recupero di produttività ed innovazione del sistema industriale italiano
nel 2006 ha messo in evidenza che ciò è dovuto alle sole medie imprese (Turani, 2006), ossia
le imprese con n° di addetti compreso fra 50 e 249, la cui localizzazione è incentrata sostanzialmente nel Centro-Nord e nel Centro con poche digressione nei dintorni di Napoli e Bari.
Occorre infine rilevare che gli alimenti tradizionali, cui è legato il cosiddetto Made in
Italy, derivano dallo sviluppo empirico di una tecnica spontanea (“arte” pastaria, casearia, enologica, olearia, gastronomica, etc.). Oggi il meccanismo trials and errors, che è alla base
dell’abilità tecnica, non è più compatibile con gli obblighi di sicurezza alimentare e con quelli
di garanzia della qualità. Per produrre alimenti conformi agli obblighi di legge e alle esigenze
commerciali, è indispensabile un approccio tecnologico, che permetta di adeguare le modalità
produttive fisiche ed organizzative alle più aggiornate conoscenze scientifiche.
L’efficacia e l’efficienza di un processo alimentare, nell’ottica sia delle caratteristiche
del prodotto finito sia dei costi di produzione, dipende da numerosi presupposti, compendiati
schematicamente in Tabella 2.
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Tabella 2 Procedura schematica per progettare ed ottimizzare i processi di trasformazione degli
alimenti.
Fase n°
Attività
1
Definire completamente le specifiche richieste per il prodotto finito e per le materie
prime, con i corrispondenti limiti di accettabilità ed i metodi di misura.
2
Conoscere, a livello cinetico, le modificazioni volute e indesiderate che le materie
prime subiscono durante il processo in funzione della variabilità “naturale” sia delle
materie prime stesse che delle condizioni operative.
3
Individuare gli algoritmi (modelli predittivi) che, correlando dinamicamente le caratteristiche del prodotto finito alle variabili di processo ed alle materie prime, permettano di tenere sotto controllo preventivo la sicurezza e la qualità del prodotto,
contestualmente alla tenuta sotto controllo, in tempo reale, del processo.
4
Individuare i parametri di processo critici, compresi gli indicatori di sicurezza e di
qualità del prodotto, diretti o indiretti, comunque precoci e rapidi, con i corrispondenti sistemi di misura, limiti di accettabilità e retroazioni.
5
Disporre di un impianto produttivo progettato in maniera tale da poter attuare un
accurato controllo di processo, onde massimizzare gli effetti voluti e minimizzare
sia gli effetti indesiderati sia gli scarti di produzione.
6
Progettare, validare e sequenziale tutte le fasi produttive per ottenere il prodotto voluto con i minimi costi diretti e indiretti.
7
Applicare questa procedura e tenerla sotto controllo, onde verificarne la persistente
idoneità e progettarne il miglioramento.
Il tradizionale Controllo di Qualità sul prodotto finito non permette di garantire la conformità igienica e risulta troppo costoso (quasi 3 mld di € 2006) per garantire quella commerciale. È, quindi, indispensabile applicare un sistema di gestione che tenga sotto controllo le
condizioni di processo, in funzione delle specifiche sia delle materie prime sia del prodotto
finito.
Purtroppo, è piuttosto frequente riscontrare nelle piccole e medie industrie alimentari
l’assenza di qualsiasi correlazione tra gli standard di prodotto, di processo e di materie prime.
Le materie prime sono acquistate per lo più sulla base di specifiche generiche, privilegiando i fornitori con i prezzi più bassi, senza considerare che (a parte i requisiti igienici che
potrebbero essere fuori controllo) i costi diretti e indiretti delle non conformità sono in genere
superiori a quanto si è risparmiato nell’acquisto.
Lo standard di processo è quello prestabilito al momento dell’acquisto delle macchine
produttive, spesso scarsamente flessibili e, comunque, con una calibrazione della strumentazione di controllo, che non tiene conto delle specifiche criticità applicative. D’altra parte, come standard di prodotto spesso viene accettato acriticamente quello stabilito dalla grande distribuzione, indipendentemente dalla effettiva possibilità di poterlo garantire con l’assetto
produttivo in essere.
Si può osservare che privilegiare come fonti di conoscenza i fornitori ed i clienti, anziché cercare di sviluppare un know how proprietario, è in palese contraddizione rispetto alla
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necessità di distinguersi rispetto ai competitori con produzioni di migliore qualità e minori costi.
È, soprattutto, la scarsissima considerazione del ruolo che possono svolgere le competenze tecnico-scientifiche a rivelare la persistente cultura empirica del settore produttivo, al di
là delle generiche dichiarazioni sul ruolo determinante della ricerca per l’innovazione.
Per gli obblighi igienici, i prerequisiti sono trattati solo a livello descrittivo e qualitativo
e il Sistema HACCP è completamente depotenziato dalla interpretazione essenzialmente laboratoristica. Il Sistema di gestione per la qualità è visto nell’ottica esterna della certificazione,
anziché come strumento interno per migliorare le prestazioni e la competitività aziendale.
Prima della Vision 2000, le imprese alimentari avevano quasi tutte la certificazione ISO
9002, sostenendo che in questo settore non esisteva la fase di progettazione. Questo scarto
culturale rende per lo più le applicazioni pratiche scarsamente efficaci e sostanzialmente formali, ossia un inutile costo.
Sono rappresentative di una inadeguata cultura tecnologica le diseconomie connesse ai
processi produttivi. Per ridurre i costi energetici si ritiene che l’unica possibilità di intervento
consista nella cogenerazione o in innovazioni di processo così costose da essere accessibili solo a grandi strutture produttive; mentre non si effettuano le semplici analisi teoriche di consumi specifici che permetterebbero di individuare e quantificare le aree di spreco ed i risparmi
ottenibili con piccoli investimenti a rapidissimo ritorno, se non addirittura con semplici provvedimenti organizzativi e manutentivi.
Anche le rese di produzione sono contabilizzate globalmente, senza analizzarne le fasi
di origine degli scarti e dei rifiuti di entità non fisiologica, rendendo impossibile
l’individuazione e la valutazione economica di possibili interventi migliorativi.
Analogamente non risulta in genere razionale la gestione degli effluenti e dei residui di
processo, che rappresentano volumi e masse particolarmente rilevanti in molti settori dell’industria alimentare (conserviero, caseario, oleario, etc.).
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CRISI ENERGETICO-AMBIENTALE E NUOVI SCENARI
I recenti cambiamenti climatici e la pressione mediatica che viene sempre più esercitata
sul consumatore stanno spingendo l’industria alimentare a prestare una crescente attenzione al
problema della sostenibilità ambientale.
Al primo posto vengono collocati i materiali di confezionamento degli alimenti, che dovrebbero essere limitati in quantità, biodegradabili e essere inceneriti per non aumentare le
emissioni di CO2. Altro aspetto riguarderà la quantità di CO2 emessa per trasferirli dal luogo
di produzione al mercato di consumo, il che spingerà per la valorizzazione delle produzioni
locali a scapito di quelle extra-continentali.
Al tempo stesso, l’impiego di biomasse agricole per la produzione di biocarburanti, quali bioetanolo e biodiesel, costituisce una seria minaccia per l’industria alimentare e già ora che
le produzioni no-food sono ancora in divenire, almeno in Europa ed in parte negli USA, le
quotazioni, alla Borsa dei Cereali di Chicago, del mais da consegnare il prossimo dicembre
sono aumentate del 50% rispetto a quelle dello scorso anno ($3.59/bushel: nel caso del mais
un bushel corrisponde a 25,40 kg; http://en.wikipedia.org/wiki/Bushel) solo per il fatto che lo
scorso gennaio il Presidente Bush ha annunciato che gli USA dovranno produrre 35x109 galloni di biocarburanti entro il 2017. Ne consegue che in Italia il prezzo della pasta, della birra,
della carne, etc. saliranno dal 5 al 30% (Calabresi, 2007).
Con riferimento ai documenti elaborati dal Comitato SCAR (Standing Committee on
Agricultural Research; http://ec.europa.eu/research/agriculture/scar/index_en.cfm?p=3_foresight)
tra i 4 scenari prospettici messi in evidenza:
a)
Climate shock,
b)
Energy crisis,
c)
Food crisis,
d)
Cooperation with nature,
si riportano di seguito alcune considerazioni.
Il sistema agro-alimentare mondiale è energeticamente inefficiente
A seguito della prima crisi petrolifera nel 1973, Green (1978) scrisse un libro intitolato
“Eating Oil”, ove si individuava la fortissima dipendenza della catena alimentare nei Paesi industrializzati dalle fonti energetiche di origine fossile.
Nell’estate del 2000 il grado di dipendenza dal petrolio del sistema agro-alimentare britannico fu ulteriormente dimostrato quando vennero occupate le raffinerie di petrolio ed i depositi di carburanti, la cui carenza provocò l’interruzione della catena di distribuzione degli
alimenti e l’esaurimento in pochi giorni delle scorte alimentari nei supermercati (Church,
2005).
Evidentemente, la lezione del 1973 non era stata compresa, come non si è fatto alcun tesoro delle ricadute socio-economiche e politiche conseguenti alla caduta dell’Impero Romano
d’Occidente nel 476 dC quando l’interruzione delle rotte navali, che garantivano
l’approvvigionamento di derrate alimentari a Roma, innescò il ritorno ad una economia locale
(poi feudale) in luogo della globalizzazione ante-litteram già in auge a quei tempi.
Il sistema agro-alimentare moderno si basa sulla presunzione di una illimitata disponibilità di carburanti fossili a basso costo ed è ecologicamente insostenibile.
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Contrariamente a quanto indicato dal Protocollo di Kyoto, ove viene prefissa la riduzione delle emissioni di gas-serra nell’atmosfera terrestre per limitare gli effetti dei cambiamenti
climatici, la catena alimentare si è sproporzionatamente dilatata al punto da portare le proprie
emissioni a contribuire significativamente al riscaldamento globale del pianeta.
I bassi costi di trasporto (in genere, dell’ordine di 0.5 €/kg) consentono ai mercati europei e statunitensi di rifornirsi di derrate alimentari dai punti più estremi del mondo.
Come è globalizzato il mercato mondiale delle bulk commodities (granaglie, soia, olio
di semi, succhi concentrati di arancia, tè e caffé) così si sono globalizzati i mercati del pesce
(il cui prezzo di vendita supera i 10 €/kg), delle carni (8-10 €/kg) e delle primizie vegetali fuori stagione. Ed è proprio quando il prezzo di vendita di una materia prima supera di 8-10 volte
il costo del proprio trasporto che ne diviene economicamente fattibile l’approvvigionamento
anche dai Paesi dell’Estremo Oriente e dal Sud America.
I combustibili ed i carburanti di origine fossile costituiscono le fonti energetiche a basso
costo, oltre che le materie prime, per i processi di produzione di fertilizzanti e pesticidi e per
tutti gli stadi dei cicli di produzione (semina, irrigazione, raccolta), trasformazione, distribuzione e confezionamento degli alimenti. Sono, inoltre, essenziali nella costruzione e nella manutenzione delle macchine, comprese quelle agricole, degli impianti di lavorazione e di trasformazione degli alimenti, dei magazzini e dei serbatoi di stoccaggio, delle navi, dei camion
e delle infrastrutture per il loro trasporto.
Per ironia della sorte, è proprio l’industria alimentare quella più esposta ai rischi dei
cambiamenti climatici indotti dai gas-serra sia attraverso l’alterazione dei cicli climatici tradizionali sia attraverso il degrado ambientale, la siccità, la salinizzazione e l’erosione dei suoli,
le infestazioni e le patologie fungine e virali, la desertificazione!
Un indicatore del livello di insostenibilità del sistema alimentare contemporaneo è dato
dal rapporto fra l’energia consumata per la preparazione di un alimento e l’apporto energetico
dell’alimento stesso.
Se nel 1910 (società pre-industriali) detto rapporto era all’incirca unitario, negli anni ‘70
esso era cresciuto di ben 9 volte (Steinhart e Steinhart, 1975) per arrivare, oggi, in alcuni casi
a superare quota 100, soprattutto se si includono i costi di trasporto. Ad esempio, detto rapporto è circa 127 per l’insalata importata in Gran Bretagna in aereo dagli USA, 97 per gli asparagi importati dal Cile e 66 per le carote importate dal Sud Africa (Church, 2005).
Quanto sia inefficiente da un punto di vista energetico il sistema alimentare emerge
clamorosamente nel caso emblematico della produzione in Svezia di tomato ketchup (Andersson et al., 1996). Una volta che vennero considerati gli apporti energetici richiesti per la coltivazione, la raccolta e la trasformazione dei pomodori in concentrato di pomodoro in Italia, la
conversione del concentrato in ketchup ed il relativo confezionamento, stoccaggio e distribuzione in Svezia, si individuarono circa 52 fasi di trasporto e di processo.
L’assurdità del processo si può così sintetizzare: i sacchi flessibili utilizzati per confezionare asetticamente il concentrato di pomodoro venivano prodotti in Olanda, trasportati in
Italia, ove venivano riempiti di concentrato, supportati con barili di acciaio e poi inviati via
terra in Svezia. Lì, si formulava il ketchup e lo si distribuiva in flaconi multistrato rossi, costruiti in Gran Bretagna o Svezia con materiali provenienti da Giappone, Italia, Belgio, USA e
Danimarca. Questi venivano chiusi con tappi a vite in polipropilene (PP), realizzati in Danimarca e poi trasportati in Svezia. Infine, le confezioni venivano assemblate con film di politene a bassa densità (LDPE) termoretraibili in scatole di cartoncino corrugato, utilizzando etichette, colla ed inchiostri di stampa di altra provenienza.
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Questo esempio dimostra chiaramente come il sistema alimentare sia oggi fortemente
dipendente dal sistema di trasporto nazionale ed internazionale.
Si è stimato che in Gran Bretagna le importazioni di alimenti e mangimi per via mare,
terra od aria siano equivalenti a oltre 83x109 Mg.km (http://www.countercurrents.org/pochurch0700405.htm). Assumendo una stima conservativa di circa 50 g di CO2 per Mg.km, ne
risulterebbe una produzione di 4,1x106 Mg di emissioni di CO2.
Anche le tecnologie di trasformazione degli alimenti risultano energeticamente dispendiose (energy-intensive). Basterà a tal fine citare il solo caso della surgelazione e della relativa
«catena del freddo» per la conservazione degli alimenti surgelati. Questa tecnologia è relativamente poco dispendiosa a livello del trasformatore, mentre lo è molto a livello di trasporto e
conservazione domestica. All’opposto si situa la produzione dei prodotti inscatolati e di quelli
liofilizzati.
Per valutare i consumi energetici di un nuovo prodotto o di una nuova tecnologia di
conservazione/confezionamento, occorre identificarne i contributi sui diversi comparti del settore alimentare.
A titolo indicativo, si cita che nel 1970 i consumi energetici statunitensi si concentravano nei comparti della produzione primaria agricolo-zootecnica (18% del totale), della trasformazione industriale (33%), della commercializzazione (19%) e del consumo (30%), quest'ultimo inteso come conservazione e preparazione domestica. Detti coefficienti di ripartizione,
ritenuti tipici dei principali Paesi industrializzati (Bachmann, 1981) e, quindi, anche del nostro
Paese (Peri et al., 1980), mostrano che la trasformazione industriale e la preparazione domestica sono, in maniera pressochè equivalente, i settori responsabili dei consumi energetici più
rilevanti. In questi settori, dunque, dovrebbero concentrarsi gli sforzi per minimizzare i consumi dell’intero settore alimentare.
I programmi di risparmio energetico attuati dalla maggior parte delle aziende alimentari
dopo la crisi energetica del 1973, anche in virtù della progressiva concentrazione delle attività
produttive, hanno prodotto significativi effetti positivi.
Cionostante le tecnologie utilizzate continuano a mantenere le già citate caratteristiche
energy-intensive ed il trend in forte crescita dei prodotti pronti refrigerati con shelf-life di 4-5
giorni tende ad aumentare il turn-over del prodotto sullo scaffale del supermercato ed aumentare le emissioni di CO2 per unità di prodotto consumato.
Per quanto concerne il contributo energetico delle tecnologie di confezionamento, può
esser utile riportare il caso del pane imbustato, reperibile in un qualsiasi supermercato.
L'energia di produzione di 1 kg di pane è attualmente dell'ordine di 15,8 MJ, comprendendovi l’energia necessaria per la coltivazione del grano, per la sua trasformazione dapprima
in farina e poi in pane, per il trasporto ed il confezionamento della materia prima, dei semilavorati, degli ingredienti, dei materiali ausiliari e del prodotto finito (Robertson, 1993). L'energia richiesta per produrre la busta di polietilene utilizzata per il confezionamento ammonta a
1,4 MJ. Ne consegue che ogni unità di energia spesa per il confezionamento serve a proteggere le unità di energia spese per la produzione del prodotto finito. Eliminare il confezionamento
permetterebbe di risparmiare 1,4 MJ, ma aumenterebbe il rischio di deterioramento del pane
con una perdita secca di 15,8 MJ (Robertson, 1993).
Dal momento che il confezionamento permette la protezione e la conservazione di parte
dell’energia consumata durante la produzione e la trasformazione del prodotto alimentare, non
si può prendere in seria considerazione il ritorno alla commercializzazione di prodotti sfusi. Si
19
dovrà quindi nel breve-medio termine cercare di limitare il costo diretto degli imballaggi e,
soprattutto, quello indiretto di smaltimento.
Nel settore della conservazione e della preparazione domestica, il miglior isolamento
delle pareti dei frigoriferi domestici e un più accorto uso dei sistemi di cottura in famiglia (tra
cui l’impiego massivo della pentola a pressione) avrebbero rappresentato, ad esempio, le più
semplici misure di risparmio energetico in grado di incidere significativamente sui consumi
globali del settore (Peri et al., 1980).
Pur tenendo conto di quanto attuato od attuabile nel settore del risparmio energetico, il
sistema alimentare dei Paesi industrializzati resta estremamente dispendioso e non appare trasferibile all'intero pianeta, in quanto ciò equivarrebbe a destinare al settore alimentare l’80%
dei consumi energetici mondiali (Fennema, 1975).
Questi semplici suggerimenti non hanno, però, trovato alcuna sistematica applicazione e
neppure nessuna divulgazione attraverso i mass-media. Inoltre, non si è ancora attivata alcuna
revisione critica degli attuali processi di trasformazione con l’obiettivo di ridurre i consumi di
fonti energetiche non rinnovabili e di materie prime e l’impatto ambientale non solo dei principali residui (polpe, semi e scarti) ed effluenti (siero di latte, acque di vegetazione, sangue di
macellazione, etc.) dei processi di trasformazione, ma anche dei materiali impiegati per il confezionamento degli alimenti.
Evoluzione delle tecnologie di condizionamento e trasformazione degli alimenti
Nell’ambito delle tecnologie di trasformazione e di condizionamento degli alimenti, il
tema del risparmio energetico è stato da anni oggetto di ricerche ed implementazioni e si è
tradotto in impianti sufficientemente ottimizzati nell’ottica del recupero energetico.
Per quanto concerne la tipologia dei prodotti alimentari ready-to-use, occorre distinguere i prodotti freschi e refrigerati (chilled foods), ove in questa categoria ricadono sia i prodotti
di IV che di V gamma, ossia i prodotti pronti da rinvenire in forno od in padella (tipo pizze
refrigerate, paste fresche ripiene, pietanze a base di carne, pesce, vegetali precucinati, cibi etnici, etc.), sia i prodotti surgelati (frozen foods), quali piatti pronti da riscaldare in padella, etc.
Nell’ottica di limitare le emissioni di CO2 per Mg.km, occorrerebbe stimare l’effetto del
raggio d’azione (100-300 km) del trasporto su gomme dei prodotti alimentari combinato al
trasporto via nave. In tal caso, qualora fosse possibile individuare la distanza massima del trasporto su gomma, occorrerebbe individuare sul territorio costiero nazionale una distribuzione
di punti di carico-scarico tale da rendere operativo ed efficace quel limite del trasporto su
gomma e si dovrebbe valutare, da un lato, l’impatto sulle emissioni globali di CO2 e,
dall’altro, gli investimenti richiesti per le infrastrutture necessarie ad evitare in futuro il trasporto su gomma di alimenti dal Nord al Sud dell’Italia.
Qualora la catena del freddo iniziasse a contrarsi, diventerebbe de facto impossibile la
commercializzazione sul mercato insulare italiano di prodotti a medio-basso valore aggiunto,
quali passate di pomodoro o yogurt ed altri derivati lattiero-caseari di produzione estera, mentre potrebbe sussistere quella di prodotti ad alto valore aggiunto, quali ad es. i prodotti tipici
italiani di alta e riconosciuta qualità.
Come previsto negli scenari SCAR, una popolazione abbiente continuerà a permettersi
l’acquisto, a caro prezzo, di porzioni di Parmigiano-Reggiano e di Prosciutto di Parma o di
acqua minerale Perrier, a patto che la qualità di questi prodotti gourmet sia riconoscibile e così nettamente percepita dal consumatore da saperla distinguere dalle imitazioni.
20
Ciò richiederà sforzi sulla certificazione di origine dei prodotti, onde impedire che il settore di produzione richieda ingenti contributi a difesa di prodotti ottenuti rilavorando trasformati di importazione spacciati come nazionali (es. concentrati di pomodori cinesi, olio di oliva extravergine medio-orientale, etc.)
Dato l’impatto energetico dei chilled e dei frozen foods (ca. 2 kg di CO2 per ogni kg di
piselli surgelati e conservati in freezer per almeno 6 mesi), dovrebbero essere riprese in considerazione altre tecnologie di conservazione degli alimenti, che, a fronte di un minor consumo energetico, sappiano privilegiare il mantenimento della qualità sensoriale e nutrizionale
dei prodotti finiti con la stessa qualità di servizio a livello sia del singolo consumatore che
della ristorazione collettiva. In tal caso, per evitare la costosa catena del freddo a -18°C si potrebbe tornare ad esaminare scrupolosamente la tecnologia dei prodotti inscatolati e di quelli
liofilizzati.
Esistono margini per minimizzare i consumi energetici di detti prodotti?
Le nuove tecnologie emergenti e non, quali:
a)
le altissime pressioni; il riscaldamento ohmico, a micro-onde e radio-frequenze; i campi
elettrici pulsati ed i fasci di luce pulsati, atti a promuovere il risanamento microbico
mediante ridotti livelli di conservanti e di temperatura;
b)
l’irraggiamento dei cibi per estendere la shelf-life degli alimenti deperibili, minimizzare
le perdite post-raccolta attraverso la disinfestazione, l’inibizione della germinazione dei
tuberi, la distruzione di patogeni (Salmonella, Listeria, Campylobacter, Staphyloccus
aureus) in alimenti di massa e di virus per i pazienti immuno-depressi.
c)
i processi a membrana per minimizzare i consumi energetici nel recupero di soluti (proteine, polisaccaridi, soluti, acidi organici) di interesse alimentare, per produrre acque
potabili e per il recupero, la valorizzazione e lo smaltimento degli effluenti.
d)
le tecnologie di confezionamento con film biodegradabili con agenti anti-microbici in
atmosfere modificate per prolungare la shelf-life e le proprietà chimico-fisiche e sensoriali degli alimenti.
e)
nuove tecnologie biotecnologiche (fermentative/enzimatiche) per implementare la bioconservazione e la biotrasformazione di alimenti, oltre alla loro sicurezza alimentare e
qualità nutrizionale
appaiono adeguate per conseguire questo triplice obiettivo:
elevata sicurezza alimentare,
elevata qualità sensoriale
ed elevata qualità di servizio?
La revisione totale dei processi di conservazione/trasformazione finora praticati rappresenta dunque un obiettivo primario da conseguire nel breve-medio periodo. Queste problematiche hanno, ad es. nel campo degli impieghi industriali dei raccolti cerealicoli, portato allo
sviluppo del modello della “raffineria agricola” (Rexen e Munk, 1984) o di una tecnologia integrata di utilizzazione diretta non solo a massimizzarne la produttività, ma anche a minimizzare la formazione di sottoprodotti e residui, favorendo il loro impiego come mangimi o biomasse energetiche oppure la loro conversione per via fermentativa in bioprodotti (etanolo, acidulanti, addensanti, etc.), come illustrato nello schema a blocchi in Fig. 4 (Webb, 1994).
21
Figura 4 Schema a blocchi illustrante una tecnologia integrata di utilizzazione del grano diretta a
minimizzare la formazione di sottoprodotti e residui (Webb, 1994).
Infine, lo scenario inerente la Food crisis è abbastanza preoccupante e rinvia a famosi
libri e film di fantascienza e l’opzione fra quality e synthetic foods, destinati a popolazioni caratterizzate, rispettivamente, da ben diverso potere di acquisto, potrebbe essere fonte, soprattutto per le popolazioni meno abbienti, di intossicazioni e malattie alimentari di origine batterica o virale, allergie, malnutrizione, avitaminosi, etc.
In previsioni di carestie impreviste e non calmierabili con importazioni di derrate alimentari da altre zone del mondo, occorrerebbe valutare accuratamente la fattibilità tecnicoeconomica-nutrizionale di nuovi alimenti sintetici ottenibili in fermentatori industriali, quale
ad es. il Quorn commercializzato in Gran Bretagna e derivato dalle micoproteine (Fusarium
graminearum) coltivate su terreni a base di amido di mais.
Questi studi strategici si fonderebbero sulle esperienze condotte, anche su scala pilota,
nell’ambito dei Progetti Finalizzati del CNR sulle proteine microbiche (Federici et al., 1990) e
potrebbero, se adeguatamente coadiuvati da partner industriali, porre il Paese in condizioni di
sicurezza alimentare nel caso di crisi e di emergenze internazionali.
22
PROSPETTIVE DI RICERCA E SVILUPPO PER L’INDUSTRIA ALIMENTARE
Tanto più l’industria alimentare sposterà i propri interessi verso i settori Service e Care,
tanto più il settore Make, come pure la gestione della catena di reperimento delle materie prime (MP) e di distribuzione dei prodotti finiti (PF) (food supply-chain), dovrà divenire più efficiente per garantire adeguati margini di profittabilità. Il termine “produzione intelligente”
(smart manufacturing) è stato coniato per indicare tutte le attività connesse alla food supplychain che riguardano lo sviluppo e l’esecuzione di piani di produzione, nonché
l’aggiornamento delle informazioni disponibili per migliorare continuamente il ciclo di produzione.
Figura 5 Catena di alimentazione e distribuzione degli alimenti comprensiva di sistemi di produzioneefficiente (smart manufacturing) e di pianificazione delle risorse (ERP = Enterprise
Resources Planning), liberamente tratta da Bruin & Jongen ( 2003).
Come illustrato in Fig. 5, la produzione smart presenta due interfacce (una con i sistemi
di controllo dell’impianto di produzione e l’altra con i sistemi di pianificazione delle risorse
dell’impresa, ERP: Enterprise Resources Planning) ed incorpora non solo il know-how ed il
know-why processuale, ma anche le peculiarità di funzionamento dell’impianto produttivo.
Il sistema ERP è potenzialmente in grado di:
a)
migliorare gli acquisti di MP e di ingredienti;
b)
semplificare la complessità e la formulazione del PF e, quindi, ridurre gli ingredienti
necessari;
c)
migliorare le tecnologie di trasformazione;
d)
ridurre i volumi di MP e PF in stock;
e)
minimizzare le unità di stoccaggio dei PF (stock-keeping units, SKU),
f)
sviluppare un catalogo di PF strettamente indirizzato ai clienti e gestito dai grossisti,
quale presupposto per essere sempre più recettivi nei confronti del mercato utilizzando
al meglio le tecnologie di comunicazione.
23
Nel breve periodo, si potrebbe sviluppare un sempre più stretto rapporto tra l’industria
alimentare ed il consumatore finale. Ad es., nel caso di diete personalizzate i consumatori potranno monitorarle settimanalmente o mensilmente attraverso una serie di menu disponibili su
un palmare durante lo shopping in un supermercato convenzionale od on-line via web. Questa
circostanza richiederà una struttura della catena di distribuzione nettamente diversa da quella
attuale per quanto concerne i tempi di introduzione di nuovi prodotti sollecitati dalle richieste
dei consumatori e dovrà prevedere ridotti volumi di stoccaggio, minimi prodotti fuori specifica e minima formazione di scarti e sottoprodotti. E sarà proprio l’e-commerce a giocare un
ruolo fondamentale nella riorganizzazione della catena di distribuzione degli alimenti.
In questa prospettiva, l’industria alimentare dovrebbe organizzarsi in maniera analoga
all’industria farmaceutica, cui è stata lungamente associata, nonostante i rispettivi trend storici
di crescita e sviluppo siano oggi nettamente differenziati. Non a caso, gli standard di qualità e
di sicurezza d’uso degli alimenti e dei farmaci sono regolati negli USA dalla stessa agenzia
(Food and Drug Administration) e i moderni impianti dell’industria alimentare e farmaceutica
adottano tecnologie e metodi di controllo di prodotto e processo molto similari.
Tuttavia, le analogie non si estendono né al fatturato né alla struttura produttiva.
Se il fatturato mondiale dell’industria alimentare si aggira intorno ai 1750 mld di US$,
quello dei farmaci commerciali (esclusi quelli di interesse veterinario) ammonta a 450 mld di
US$, il 49% del quale riguarda gli USA, il 24% l’Unione Europea, il 16% il Giappone e
l’11% il resto del mondo.
Se la produzione farmaceutica è concentrata in relativamente poche aziende, le industrie
alimentari includono giganti, come Nestlè e Unilever, e migliaia di piccole, medie o micro
imprese.
Se le industrie farmaceutiche investono fra il 9 ed 18% del proprio fatturato in ricerca e
sviluppo (R&S), quelle alimentari non superano a volte lo 0,15% degli utili (Hulse, 2004) per
arrivano al massimo al 2,6% (secondo Federalimentare, nel 2006 sono stati spesi complessivamente quasi 3 mld € per attività dirette o indirette di innovazione e ricerca applicata), il che
viene comunemente attribuito al fatto che i loro utili sono nettamente inferiori a quelli delle
industrie farmaceutiche.
La riorganizzazione della food supply-chain dovrà inevitabilmente rivedere i processi di
produzione, prendendo in considerazione, ad es., la tecnologia PAT (Process Analytical Technology), che rappresenta un sistema integrato per l’analisi ed il controllo dei processi manifatturieri attraverso misure a tempo dei parametri critici che caratterizzano la trasformabilità
delle materie prime e dei semilavorati nei diversi stadi della linea tecnologica, onde assicurare
una qualità accettabile del prodotto finito. In altri termini, la PAT concentra l’attenzione sul
processo piuttosto che sul prodotto finale e richiede la conoscenza della relazione fra le specifiche del prodotto finale e le variabili critiche del processo di produzione, ossia una conoscenza delle interrelazioni fra MP-processo-PF conseguibile solo attraverso l’applicazione della
procedura schematizzata in Tabella 2.
L’applicazione di questo sistema richiede un insieme di misure chimico-fisiche e microbiologiche, in grado di fornire risposte sulla conduzione del processo di trasformazione così
rapide da poter attuare adeguate contro-reazioni per prevenire le non conformità igieniche e
commerciali, riducendone il rischio entro livelli accettabili.
Il concetto 6 σ ha rappresentato la spina dorsale della strategia di gestione della qualità
dei prodotti Motorola negli anni ’80, che mirava a realizzare processi produttivi caratterizzati
da una virtuale assenza di prodotti difettosi, in quanto la tolleranza ammessa per il parametro
caratterizzante la qualità del prodotto finito rientrava in una deviazione massima pari a 6 volte
24
la deviazione standard (σ), una precisione equivalente ad appena 2 soli pezzi difettosi su un
miliardo di pezzi prodotti (Mannino, 2007).
Minore è il grado di conoscenza delle interrelazioni fra le caratteristiche delle materie
prime e le variabili di processo minore è la capacità di controllare la qualità del prodotto finito
entro specifici intervalli di deviazione.
Ciò purtroppo si verifica per un gran numero dei nostri prodotti alimentari tipici.
L’approccio 6 σ mira a garantire la qualità di un alimento attraverso la progettazione di
un processo efficiente ed efficace e a definire specifiche correlate al processo ed alle materie
prime utilizzate e, solo assicurando la qualità attraverso una serie di interventi appropriati e
rapidi sulle condizioni operative della linea produttiva, si potrà vincere la concorrenza sleale
dei prodotti di imitazione, il cui mercato corrisponde al 50% circa del fatturato globale
dell’industria alimentare italiana.
Sulla base degli scenari fin qui delineati, appare evidente che gli sforzi per
l’innovazione nel settore alimentare si concentreranno su due aspetti: sviluppo di nuove forme
evolute di prodotti tradizionali e di nuovi prodotti.
Alla prima categoria appartengono quei prodotti della tradizione gastronomica italiana,
cui si dovrà non solo assicurare la qualità totale secondo specifiche ben più stringenti di quelle
attualmente indicate nei disciplinari di produzione (Contini, 2006; Pellegrino, 2007), ma anche conferire un più o meno elevato grado di convenience per aumentarne le occasioni di consumo, agevolarne l’approvvigionamento e la preparazione ed incrementarne la vita commerciale per poter raggiungere mercati più ampi. In quest’ultimo caso, si tratterà di prodotti riconducibili ai prodotti appartenenti alla IV e V gamma o alla gamma dei surgelati di alta qualità.
Per alcuni di questi prodotti, ed in particolare per quelli appartenenti alla IV gamma le
barriere all’innovazione sono essenzialmente legate alla ricerca di tecniche di confezionamento adeguate alle specifiche esigenze del prodotto confezionato. In questo campo, è purtroppo
ancora ampiamente diffusa la pratica dell’empirismo con la progettazione delle confezioni essenzialmente basata sulla pratica del trial and error senza una adeguata analisi degli scambi
di materia da e verso l’alimento e senza tenere conto dell’attività biologica e chimica del sistema. Lo sviluppo di adeguati sistemi di progettazione matematica, nonché l’impiego di imballaggi attivi ed intelligenti accappiati a sistemi di controllo e monitoraggio a radiofrequenze
(RFID – radio frequency identification, ITT - Intégrateur Temps Température, che permettono di tracciare l’evoluzione tempo-temperatura, etc.) potranno avere positive ricadute di sviluppo in questo settore.
Nel caso sia dei prodotti di IV e V gamma, ove entrano in gioco le problematiche di stabilizzazione, che dei surgelati di alta qualità sussistono ampi margini di intervento per quanto
riguarda la tecnologia di produzione. Fatta eccezione per le aziende di grosse dimensioni supportate da personale esperto addetto alla ricerca e sviluppo, il processo tecnologico è praticamente mutuato dalla preparazione domestica con conseguente riflesso negativo sia sui costi di
produzione sia, sovente, sulla qualità commerciale e organolettica dei prodotti finiti.
Per quanto riguarda i nuovi prodotti il discorso è molto più articolato poiché si tratta di
prodotti formulati e lavorati per ottenere nuove caratteristiche nutrizionali, funzionali, strutturali e organolettiche.
A questa categoria appartengono i prodotti salutistici o tailored, i prodotti ad alto contenuto di convenience, quali semilavorati o ingredienti per preparazioni alimentari, prodotti con
nuove caratteristiche di texture, nuove forme di confezionamento e di preparazione. A diffe25
renza di quanto avviene nel caso del tradizionale evoluto, per questi prodotti non si dispone né
della tecnologia di produzione né della ricetta di partenza.
Un approccio sistemico per lo sviluppo di un nuovo prodotto è quello di cui si avvalgono i cosiddetti engineered food, ovvero quei prodotti le cui caratteristiche e la cui tecnologia
di ottenimento vengono progettate a tavolino e non sono frutto di attività empiriche.
Questo tipo di approccio parte dalla definizione puntuale delle caratteristiche che esso
dovrebbe avere in termini di proprietà funzionali, nutrizionali, organolettiche, vita commerciale e costo. Tali caratteristiche dovrebbero essere convertite in specifiche relative alla composizione e struttura del prodotto e possibilmente descritte attraverso valori numerici e dimensioni. Il secondo stadio dello sviluppo di un prototipo è la scelta della sequenza di operazioni
unitarie che consentono di ottenere un prodotto con le caratteristiche compositive e strutturali
attese. Considerando che nel corso delle operazioni unitarie a seguito di trasferimenti di massa, energia e quantità di moto si attivano fenomeni cinetici di natura fisica, chimica e biologica, il cui decorso viene regolato dalle condizioni di processo, sarebbe possibile, in linea di
principio, selezionare su base scientifica la composizione delle materie prime, la tipologia, la
sequenza e l’estensione del decorso delle singole operazioni, onde pervenire alla struttura ed
alla composizione del prodotto finale atteso.
26
SINTESI E CONCLUSIONI
Sulla base degli scenari fin qui delineati, appare evidente che gli sforzi per
l’innovazione nel settore alimentare si concentreranno su due aspetti: sviluppo di nuove forme
evolute di prodotti tradizionali e di nuovi prodotti.
L’uso dei sistemi di smart manufacturing e di gestione integrata della food supply-chain
costituirà una condizione essenziale per la sopravvivenza nei prossimi anni delle aziende alimentari operanti strettamente nel settore del Make.
Tenendo conto del fatto che il grado di autonomia delle imprese nelle attività di miglioramento continuo e di innovazione dipende moltissimo dalla loro dimensione, che a sua volta
determina la possibilità di disporre al loro interno di tutte le competenze tecnico-scientifiche
necessarie e che i margini di profitto dell’industria alimentare sono relativamente molto scarsi, occorre rilevare che anche le imprese alimentari di maggiore dimensione non possono
farsi carico autonomamente della ricerca di base necessaria per perseguire
l’innovazione. Inoltre, occorrerebbe tener conto dello scenario che si verrà a delineare a seguito della crisi energetico-ambientale e che porta ad ipotizzare, per l’Europa, un cambiamento sostanziale dello sfruttamento economico del mondo rurale con un aumento consistente
delle aree produttive destinate a scopi no-food e lo sfruttamento delle restanti aree per produzioni a maggiore valore aggiunto.
I processi di aggregazione che si realizzeranno consentiranno alle imprese alimentari di
investire di più in R&S, ma resta il problema dello scarso patrimonio di conoscenze di base
adatte alla innovazione. D’altra parte, è ormai universalmente riconosciuto il fatto che la ricerca scientifica di base orientata per l’innovazione tecnologica, come pure quella per la macro- e la micro-economia strategica, ha costi e, soprattutto, meccanismi di formazione tali da
non poter essere sviluppata autonomamente dalle aziende produttive, per quanto grandi esse
possano essere.
Pertanto, la formazione delle conoscenze di base, come pure il loro trasferimento al
settore produttivo è un onere dei sistemi economici complessivi, ovvero degli organismi
pubblici ad essi preposti.
Visto che le diverse misure di sostegno all’innovazione industriale poste in essere a livello ministeriale (L. 297, L. 488, FIT, PIA) e regionale (L. 598) non hanno affatto agevolato
il contatto industria-accademia per favorire il trasferimento tecnologico e la ricerca precompetitiva, meglio sarebbe ritornare a ridefinire e rifinanziare Programmi Nazionali Strategici di
Ricerca di durata 3-5 anni (con fondi e deduzioni fiscali per le industrie agro-alimentari interessate e fondi per la gestione di singoli progetti coordinati fra aziende, università e centri di
ricerca), le cui tematiche dovrebbero essere pre-definite da un Comitato accademia-industria,
dopo aver individuato i principali nodi alla competitività globale delle imprese italiane, e dovrebbero esplicitarsi nel lancio di appropriati Call for proposals, diretti a costruire reti complementari di competenze tecnico-scientifiche, dislocate sul territorio nazionale e con massa
critica sufficiente. In prima ipotesi, si propongono i seguenti temi di ricerca:
i)
certificazione e salvaguardia dell’alta qualità dei prodotti tipici della tradizione alimentare italiana attraverso l’individuazione di nuovi marcatori di processo e di prodotto;
ii)
ridefinizione dei processi di trasformazione in modo da garantire l’applicazione del
concetto 6 σ ai prodotti tipici innovati, quale premessa per migliorare la competitività
delle aziende italiane e per contrastare la concorrenza dei prodotti di mera imitazione;
iii)
sviluppo di tecnologie innovative a ridotto impatto ambientale e ridotto consumo energetico per la conservazione, il condizionamento e la distribuzione degli alimenti;
27
iv)
progettazione di prodotti innovativi con specifiche caratteristiche nutrizionali, funzionali, strutturali e organolettiche.
Parallelamente a queste iniziative, è infine auspicabile la realizzazione ed il finanziamento di strutture dedicate al Trasferimento Tecnologico (no alla ricerca), collegate alle
strutture dedicate alla ricerca, ma da queste nettamente distinte, col solo compito di trasferire i
risultati dei Programmi Nazionali Strategici di Ricerca alle piccole e micro imprese alimentari, attraverso produzioni pilota. Analogamente, è auspicabile che vengano formate figure che possano fungere da interfaccia (Technical mediator) fra il mondo della produzione e
quello della ricerca scientifica.
Ringraziamenti
Gli autori ringraziano il Dott. Franco Antoniazzi (Università di Parma) ed il Prof. Saverio Mannino (Università di Milano) per i preziosi suggerimenti.
28
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