Gli All-Star di Mosè

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Gli All-Star di Mosè
ATTESE 15
Charley Rosen Gli All-Star di Mosè
66THAND2ND
titolo originale
The House of Moses All-Stars
edizione originale Seven Stories Press, New York
© 1996 by Charley Rosen
traduzione dall’inglese di Marco Bertoli
progetto grafico
Silvana Amato, Marta B Dau
illustrazioni
Alexis Rom Estudio, Alexis Rom e Claude Marzotto
composizione tipografica
Cycles di Sumner Stone
Linotype Univers di Adrian Frutiger
edizione italiana
© 66THAND2ND 2012
isbn 978-88-96538-29-6
A Eddie Mast: grazie di tutto, vittorie
e sconfitte, e per tutto l’a∂etto dimostrato
dalla prima all’ultima palla della partita.
A Daia, per il coraggio e il cuore
che mette nelle sue idee.
Primo giorno
Guardali lì, i figli di puttana, beati loro. Non sono nemmeno le cinque e mezza, siamo partiti da meno di mezz’ora dal Centro Civico
di Henry Street, e loro dormono già. I miei compagni di squadra,
intendo, dormono come se niente fosse. Riesco quasi a vederli riflessi nello specchietto retrovisore, sagome e lineamenti che conosco bene, illuminati appena dal giallo spento dei lampioni che mi
sfilano accanto e dal verde di qualche semaforo del Bronx.
Cosa dice quella targa? simpson street. fulton avenue. E
dove sono finite le strade numerate? E il ponte? Ma dove cazzo
siamo finiti?
Saul, Ron e Brooks dormono strizzati l’uno contro l’altro su due
materassi buttati dietro, nella parte stretta e lunga dove prima
venivano caricate le bare. Ma non è un sonno tranquillo, il loro: a
ogni curva, a destra o a sinistra, si inclinano, e quando ci fermiamo
al rosso sospirano e sbu∂ano. Ron sta nel mezzo, si è conquistato il
posto più largo; muove a scatti gomiti e avambracci come in preda
a un sogno misterioso e violento. Saul, a babordo, dorme con le
mani a proteggere pudicamente il suo putz1 giudeo, la verginella.
Brooks, quando dorme, ha sempre la faccia serrata come un pugno.
Poi, stravaccati sul sedile posteriore, ci sono Leo e Mitchell: Mitchell con la bocca aperta, una sorta di cadavere acchiappamosche,
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Leo invece dà le spalle a quel poco di luce che c’è, la faccia nascosta
nella propria ombra. Kevin, seduto diritto accanto a me, dorme malgrado gli sforzi, svegliandosi solo di tanto in tanto, quando il mento,
ricoperto da una barba rossa, gli rimbalza sul petto.
Alla fine, siamo sette in tutto. Numero fortunato. Simbolo di
ordine perfetto, l’unione di ternario e quaternario. Sette come i
giorni della settimana. I sette mari. I sette peccati capitali. Le sette
virtù. Le sette meraviglie del mondo. I sette contro Tebe. Cinque
titolari e due riserve, eccoli qui gli All-Star di Mosè.
E ci siamo già persi, grazie a me. barker avenue. mosholu
parkway. Per il fiume bisognerà scendere, immagino.
La pendenza improvvisa di Sedgwick Avenue riporta in vita
Kevin giusto il tempo di farfugliare «sono sveglio» e ripiombare
subito nel sonno. Che compagnia! In viaggio da neanche mezz’ora
e ci siamo già persi, ma non solo, abbiamo già violato una delle
norme fondamentali contenute nello «Statuto u∑ciale e regolamento di viaggio, squadra degli All-Star di Mosè».
Sì, perché ne abbiamo tutti una copia, dieci pagine in tutto, battute a macchina come si deve, un documento minuzioso messo a
punto solo dopo lunghe delibere e un voto di cinque contro uno
(con il voto contrario di Leo e la forzata astensione di Kevin, decisa in una votazione precedente con un identico risultato di cinque
contro uno). Vedi Articolo B, Paragrafo 3a:
Chi siede di fianco al guidatore deve mantenersi sveglio per
fungere da navigatore e assicurarsi che il guidatore non si
addormenti. Il contravventore sarà punito con una sospensione di tre giorni dai turni di rotazione sui materassi.
Io però Kevin lo lascerò dormire in pace. Perché sono un vero mensch, io, così indulgente e compassionevole. Perché non voglio che
Kevin scopra la cappellata che ho fatto.
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jerome avenue. bronx park east. Ma dove cazzo…?
Passiamo con un crepitio leggero sul selciato. «Amma,» dice
Kevin nel sonno «Amma».
Il nostro veicolo, la nostra utopia mobile, è una berlina Chevrolet Confederate Series BA DeLuxe Special a quattro porte immatricolata quattro anni fa, nel 1932, allestita in fabbrica come carro
funebre. Un autoferetro. E se le navi sono femmine, allora lo sono
anche le automobili, con i loro buchi che risucchiano carburante
verso meccanismi interni delicati e misteriosi. I paraschizzi elastici e le camere lubrificate. Orgasmi di fuoco e aria. Per questo, senza
chiedere il parere dei miei compagni, l’ho ribattezzata la Regina di
Picche, o, per brevità, la Nera Signora.
Luccicante nel suo splendore, ha quattro prese d’aria cromate su
ogni lato del cofano, e cromati sono anche i vistosi fari a forma di
siluro. La ruota di scorta è montata sul lato del guidatore, saldamente incatenata all’interno del parafango, e non c’è cerniera o raccordo
che non sia cromato e scintillante. Nuova di zecca, costava settecentoventicinque dollari e come ogni femme fatale ha un passato losco.
Fino alla revoca del Volstead Act, nel 1933, aveva condotto una
doppia vita, trasportando cadaveri e contrabbandando liquori artigianali dalle lande inospitali del New Jersey settentrionale fino al
Lower East Side di Manhattan. In seguito, aveva fatto gli straordinari trasferendo i latitanti della Mano Nera da nascondigli poco sicuri
sparsi per la città in rifugi tranquilli a nord di Saugerties. Infine, tre
settimane fa, appena prima di Natale, quell’idiota del figlio dell’impresario di pompe funebri decide di portare la sua troietta preferita,
insieme a una bottiglia di torcibudella, a fare una gita notturna. Manco a dirlo, macchina e passeggeri sono finiti in un fosso, in un campo
dalle parti di Brooklyn, conciandosi piuttosto male. Ed è così che
Max, mio fratello, è riuscito ad accaparrarsi la Nera Signora per soli
centocinquanta dollari. «Ma è maledetta» ho detto a Max quando
mi ha dato le chiavi. «Solo per i goyim2» mi ha risposto lui.
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È sempre Max che ha sborsato due dollari per il rimorchio, venticinque per un nuovo asse posteriore (e per la sua installazione) e
diciotto dollari e cinquantaquattro per sistemare i bozzi alla carrozzeria e sostituire i vetri rotti. Il portellone posteriore, dopo le
riparazioni, si chiude ancora, ma purtroppo lascia entrare freddo e
pioggia. Finora, contando l’«anticipo» che ci ha dato per le scorte
e altri centocinquanta dollari per tasse d’iscrizione e depositi cautelari, la sua spesa complessiva ammonta a trecentonovantacinque
dollari e ottantaquattro. Una fortuna, oggi come oggi, anche per
uno scapolo come lui.
Max, però, ha un posto fisso. È professore di ruolo alla facoltà
di Filosofia del City College. Boom o depressione, a Max i suoi tremilaseicentocinquanta dollari l’anno non li toglie nessuno. «Posso
permettermelo» mi ha detto quando mi ha consegnato l’auto.
«Che il mio fratellino finisca in una cella imbottita al Bellevue3,
invece, non posso proprio permettermelo».
Grazie, Max.
Dentro, la Regina di Picche è spaziosa, se uno è di taglia normale. («Un nano», come dice Leo, che comunque non è più alto di un
metro e settanta. Saul, il nostro Golia controvoglia, è due metri e
otto; lui, riferendosi a quelli che non giocano, parla sempre di «civili»). Tutte le superfici interne, compresi i sedili imbottiti, sono rivestiti di una specie di cuoio morbido, marrone. E Mitchell ci ha assicurato che non c’è angolo che non sia stato sfruttato appieno.
Ovviamente è stato quel precisino di Mitchell a prendere tutte le
misure degli interni e poi a preparare e stivare minuziosamente il
carico. E cioè: sette giocatori (vivi), quattordici coperte militari
dismesse, sette valige di cartone (tutte 120x90x30), tre palloni da
basket, una pompa con ago, tre taniche di benzina da quattro litri, tre
taniche d’acqua da quattro litri, tre mazze da baseball – tutte modello Hank Greenberg, diverse per peso ed equilibrio (dietro suggerimento di Ron, se mai fossimo costretti a difenderci), una decina di
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scatole a testa di fagioli, pesche sciroppate e latte condensato. Con
questi e un’infinità di altri articoli dovremo arrivare sani e salvi alla
fine dei diciassette giorni, delle oltre venti partite e dei seimilacinquecento chilometri circa della nostra cavalcata selvaggia per la
provincia fino a Los Angeles, Los Diablos o dovunque andremo a
parare.
Dato il peso del carico, il motore V-8 della Nera Signora arranca ancora sia in discesa sia in salita. Per via dei danni al retro, poi,
il cambio sincronizzato ultimo grido fa il baccano di un trattore. Il
volante è più duro del normale, ma non mi dispiace faticare, è un
dolore terapeutico. Forse, quando arriveremo sulla West Coast,
avrò le mani più forti e un gancio più lungo.
GRAND CONCOURSE. EAST 164TH STREET.
GEO. WASH. BRIDGE
é
Baruch ataw adonoi. Tutti coloro che si sono persi ritroveranno la
strada.
È domenica mattina, è troppo presto per il tra∑co e i lampioni
sono ancora accesi. Quando finalmente arriviamo in vista del
ponte, proprio in cima a quella collina ripida tra la Centosettantanovesima Ovest e Dyckman Avenue, gli pneumatici si incastrano
nelle rotaie del tram e per un terribile istante l’auto scivola verso il
basso, fuori controllo… È la mia occasione! Suicidio per voto di
minoranza, uno contro zero, sei astenuti, un’eutanasia di massa…
Invece no, le inevitabili risposte della morte mi verrebbero incontro troppo presto, troppo facilmente. No, quello che ho in mente io
è più impraticabile, più divino del misero potere di mettere fine
alla mia misera vita. Quello che cerco è una rinascita nell’innocenza e nell’incolpevolezza, non la speranza, non l’amore, nient’altro
che la muta assenza di pena… Poi Kevin sbu∂a, la testa gli cade in
avanti e io schiaccio il freno.
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Ora, è vero che in tutta questa impresa sconclusionata è a Max,
mio fratello, che è toccato il ruolo di Daddy Warbucks, ma questo
non significa che anch’io non abbia fatto la mia parte. Eh no, signori miei. Gli All-Star di Mosè li ha partoriti la mente di Leo Gilbert
(quello che russa con la faccia nascosta sul sedile posteriore, proprio dietro di me), che portava ancora i pantaloni corti quando io
ero centro titolare di quella forza della natura che era la squadra di
basket della Metropolitan University, negli anni Venti – bei tempi.
All’epoca io abitavo in Orchard Street e Leo viveva a due isolati
di distanza, in Bayard Street. Lui era un a∂arino che non stava zitto
un attimo e non aveva rispetto per nessuno. A quindici anni smise
di crescere, un tracagnotto di un metro e settanta per ottanta chili,
ed era così bravo che lo facevamo giocare con noi nel torneo per
adulti del Centro Civico di Henry Street. Come me, anche Leo
aveva imparato a giocare a basket alla Seward Park High School
(giorni di gioia spensierata e innocente!). Quando diventò famoso
come playmaker per i Fabulous Five del College of St. Bridget, io
guadagnavo quindici dollari puliti a partita con i Trenton Tigers,
nella American League di basket professionistico.
Continuavo a essere fortissimo sui rimbalzi, a segnare poco e,
con il mio metro e novantadue, a essere un saltatore temibile. Devo
dire che la mia importanza in campo si è ridotta drasticamente
dopo il 1931, quando abolirono la palla a due dopo ogni canestro,
ma ancora oggi, a trentadue anni, me la cavo a rimbalzo, difendo
con grinta e ho un gancio e∑cace con entrambe le mani. Sono un
Guerriero del Sacro Anello, uno che allestisce azioni che solo gli
altri giocatori possono apprezzare: un blocco, un tagliafuori, una
gomitata nello sterno. Finché il fisico regge, continuerò a esplorare questo sport entusiasmante, in continua evoluzione, per scoprire quanto vicino riuscirà a portarmi all’anima che ho perduto.
Malgrado tutti gli insuccessi fuori dal campo e le innumerevoli cazzate fatte da civile, sul parquet riesco a trovare la giusta
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concentrazione, e tutte le squadre per cui ho giocato sono sempre
andate bene. Nei quattro anni con la Metro, abbiamo vinto novantuno partite e perse sedici. Sono un vincente, non si discute, anche
se solo tra le linee bianche del campo da gioco.
Comunque, a me Leo non era mai piaciuto, e nemmeno mi era
mai piaciuto giocare con lui, per via della sua lingua lunga. Alcol,
carne grassa e roba fritta, io tuttora li evito, Leo invece non si è mai
tenuto a regime serio. Sigaro puzzolente tra i denti, un bicchiere in
mano, una pupa sottobraccio, in giro finché anche le ultime luci di
Broadway non erano spente. Il suo stile è sempre stato quello, e le
sere prima di una partita non facevano eccezione.
E anche in partita è uno sbru∂one, si esibisce in numeri da circo
tipo i palleggi dietro la schiena, come se fosse un imbonitore che fa
sparire e riapparire una moneta d’oro. Quando segna, torna in
posizione trotterellando come fa Babe Ruth da una base all’altra
dopo che ha tirato una palla in tribuna. Se per caso dovesse segnare due volte di fila, sarebbe capace di scoppiare a ridere e dire:
«Beh, non c’è nessuno in grado di marcarmi, qui?».
Di certo a Leo i motivi per essere arrogante non mancano: il suo
tiro piazzato è preciso anche da nove metri e i Fabulous Five sono
stati la prima squadra universitaria a vincere trenta partite in una
sola stagione (1930-31). Perfino il «Saturday Evening Post», «Life» e
«Collier’s» fecero dei servizi sugli «abili cestisti della St. Bee». Quella della St. Bridget’s era davvero una situazione particolare: i Five
erano composti da quattro ebrei più uno jugoslavo apostata. Giocavano per una scuola irlandese, prendevano soldi a palate sottobanco
e ogni tanto, giusto per gradire, facevano qualche combine.
Ora, è vero che anche noi della Metro trovavamo uno o due
biglietti da dieci infilati negli armadietti dopo aver battuto qualche
squadra cittadina rivale come St. John’s, City College, Fordham,
Liu, Manhattan e St. Bridget’s. Ed è vero che anche noi facevamo i
nostri tra∑ci, di tanto in tanto. E allora? Anche oggi, a New York,
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le scommesse vanno a braccetto con il basket. Si scommette perfino sulle partite del torneo per adulti di Henry Street.
Per giunta, d’estate lavoravamo tutti come fattorini o camerieri
in uno dei tanti alberghi sulle Catskills, e la domenica pomeriggio
si organizzavano delle sfide esclusivamente per «intrattenere» gli
ospiti. Non ci passò mai per la testa di accordarci con gli scommettitori per truccare l’esito di quegli spensierati passatempi estivi, e
così i più incalliti dovevano accontentarsi di cercare di indovinare
il numero complessivo di punti che le due squadre avrebbero
segnato. A quel punto noi scoprivamo il numero su cui scommetteva uno dei cuochi dell’albergo, ci regolavamo quel tanto che
bastava, e poi facevamo vita da principi fino alla partita successiva.
Ma se una cosa andava bene, Leo doveva sempre strafare. Anche
in quelle partitelle estive, per tenere il punteggio sotto controllo,
faceva partire dei tiri ridicoli che mancavano l’anello o addirittura il
tabellone, e poi, perché nessuno mancasse di notare la sua impresa,
si metteva a guardare incredulo le mani traditrici, e rideva. Roba da
ultima divisione. Fino all’estate scorsa, tutta la conversazione tra
me e Leo si riduceva a «ciao», «ci vediamo», «blocca a destra».
Voglio dire, che faccia pure lo stronzo. Chi se ne frega? Giusto?
Comunque sia, gira e rigira, alla fine Leo scoprì dove abitavo.
Dopo il crollo della Borsa c’era penuria di quattrini. L’American
League tenne botta fino alla primavera del 1932 prima di finire a
gambe all’aria. «Anche il basket» spiegava Brooks, il Bolscevico, «è
rimasto vittima del capitalismo». Io però, che ho sempre avuto buone capacità di recupero, ben presto mi trovai un lavoretto facile facile come insegnante di inglese alla Seward Park High School (grazie
a un amico di un amico di Max). A tutti gli altri cestisti del quartiere era toccato cavarsela alla meno peggio: Brooks andava in giro con
un carretto a vendere frutta e verdura, Mitchell lavorava per quattro
soldi in una discarica. Continuammo tutti a giocare nel torneo per
adulti e in sporadiche partite al Ymca sulla Novantaduesima, ma
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l’unico che restò a tempo pieno nel basket fu Leo. I Fabulous Five,
infatti, avevano ancora un certo seguito nel quartiere. E così, con il
nome di Brooklyn Gems, Leo e compagni parteciparono a uno scalcagnato torneo professionistico in Pennsylvania (a cinque dollari a
partita) e anche a tornei a soldi in posti come Kingston, Haverstraw
e Albany. Alla fine, una calda sera del luglio scorso, Leo, spuntato da
chissà dove, venne a bussare alla mia porta.
Con mia moglie, Judy, vivevo in un appartamento al pianterreno
con due camere da letto a Gramercy Park (dodici dollari al mese più
le spese). Eravamo sposati più o meno felicemente da diciotto mesi,
Judy era radiosamente incinta e il bambino sarebbe dovuto nascere
ai primi di ottobre. Sembrava tutto molto più semplice, allora. Non
lo nego, ero in combutta con gli scommettitori ed ero solo un ragazzino egoista come tanti, che guardava con su∑cienza le file per il
pane e le mense popolari. «Pane di segatura, scarafaggi in brodo».
Ma ero lo stesso convinto di essere dalla parte dei buoni. Anzi, più
libero e audace del mio prossimo. Dopotutto, avevo un impiego «di
concetto» e i genitori di Judy stavano bene economicamente. Come
i personaggi di qualche filmetto sdolcinato, Judy e io ce la saremmo
sempre cavata.
Avevo conosciuto Judy Goldfarb a un appuntamento al buio (sorella di un amico di Max). Eravamo andati a Coney Island e lì, sulla
ruota panoramica, ci eravamo subito saltati addosso. Sul Bruco le
avevo infilato la mano sotto la camicetta e in caduta libera sul Parachute Jump mi aveva fatto una sega da urlo. A sentire lei, era vergine (e lo era), ed era su∑cientemente carina e procace perché me la
sposassi. Ero innamorato dell’idea stessa dell’amore.
Di colpo, il fatto di non aver mai conosciuto mia madre smise
di pesarmi tanto, come anche il fatto che Max, per me, fosse un
padre più di quanto lo fosse mai stato papà. E allora, se anche i
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miei suoceri fossero risultati un po’ esasperanti, pazienza. In fondo,
lo erano anche i suoceri di Fibber McGee. Tutto nella norma.
Il padre di Judy, detto Cy, da Seymour, era un avvocato di grido
che aveva avuto la Grande Dritta due settimane prima del Lunedì
Nero e aveva convertito in contanti tutte le azioni in suo possesso.
Arrogante, come tutti quelli usciti da Yale, era alto un metro e sessantasette per settanta chili. Fanatico del football, chiamava beffardamente il basket, che considerava un gioco per «giganti rimbambiti», «pallatonda». Il fessacchiotto. Nel corso del mio breve
fidanzamento con sua figlia (non riuscimmo ad aspettare più di sei
settimane prima di venire al sodo), Cy e io avevamo sviluppato un
rapporto velenoso. Non ebbe nemmeno il pudore di nascondere la
sua gioia quando venne a sapere che entrambi i miei genitori erano
morti (papà quattro anni fa, a causa di un’influenza; mia madre,
due giorni dopo avermi messo al mondo). Per Cy, il fatto che io
fossi orfano significava soltanto che avrebbe organizzato il matrimonio a suo piacimento, fin nei minimi dettagli (pâté di fegato di
dinosauro e bitume con ciliegie flambé inclusi).
La madre di Judy, Sylvia, aveva la tubercolosi. Tre anni in un
sanatorio per ricchi in Arizona non l’avevano guarita e quindi,
nella primavera del 1934, Sylvia si fece asportare chirurgicamente
il polmone destro. Ecco perché è così orribilmente deforme, con il
torso sbilenco. Me la sogno ancora di notte, la madre di Judy, invalida e so∂erente da anni, attaccata alla vita per un filo, che resiste a
denti stretti, un rantolo dopo l’altro.
La cosa bizzarra è che, nonostante ciò, Judy era una persona
felice ed equilibrata. Scoprimmo fin da subito di avere molto «in
comune». Tutti e due eravamo lettori accaniti, con l’unica di∂erenza che a lei piacevano i polizieschi di Sherlock Holmes e
Agatha Christie, mentre io facevo il superiore vantandomi di aver
letto cose tipo Delitto e castigo, quattro volte, e Guerra e pace, tre.
Entrambi apprezzavamo la cucina cinese, le gite al chiaro di luna
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sul traghetto di Staten Island, Coney Island con l’alta marea e
(soprattutto) puntare ogni mattina la sveglia alle 6.15 in punto per
fare l’amore con abbandono e violenza. È vero che Judy aveva ereditato dal padre il pregiudizio contro il basket e si rifiutava di
venire a vedermi perfino quando giocavo in Henry Street, a tre
isolati da casa. Ma era una donna gentile, intelligente (anche se un
po’ frivola), dotata di un gradevole senso dell’umorismo (le piaceva Jack Benny, io invece preferivo Fred Allen) e lavava i vetri di casa
due volte la settimana. Unica pecca, ogni tanto emergeva un lato
un po’ oscuro, una specie di stucchevole complesso della martire,
chiaro influsso di Sylvia.
Poi successe che, seguendo il consiglio sconsiderato della sua
ostetrica, Judy rinunciasse al congresso carnale per gli ultimi quattro mesi (sì, ho detto «quattro») di gravidanza. Faceva orgogliosa
esibizione dei suoi seni gonfi, permettendomi di accarezzarli e succhiarli fino a saziarmene, ma restava inteso che ogni attività «a sud
del confine» rimaneva severamente verboten. «La mia rinuncia è
più grande della tua,» mi diceva dolce «perché l’orgasmo di una
donna è molto più intenso di quello di un uomo, e dura di più. E io
ti amo, Aaron. Davvero. Guarda, adesso te lo dimostro». Ma io
resistevo stoicamente alle sue o∂erte di soccorso. Avremmo so∂erto insieme. Lei piangeva in silenzio e diceva che nessun sacrificio
era troppo grande per la salute del «nostro» bambino.
Tutto considerato, la mia vita mi andava bene così com’era. Se
non altro, abbastanza bene da ridere in faccia a Leo e alla sua pazzesca trovata.
«Aaron,» aveva attaccato lui, spalancando gli occhietti azzurri
con sguardo supplice «sono nei guai. Stavolta sono nella merda,
davvero. Sai quando i Gems hanno giocato in quel torneo importante a Union City, la settimana scorsa, alla chiesa del Sacro Cuore?
Ti ricordi? Ci hai giocato tre anni fa con Mitchell e Brooks…
Comunque, adesso è ancora più grosso. Noi siamo arrivati in finale
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contro una squadra sponsorizzata da un distributore di birra di New
Britain, nel Connecticut. Loro avevano Nat Holman e Joe Lapchick
dei Celtics di Kate Smith. Poi alcuni tipi che avevano giocato per
Eddie Gottlieb a Philadelphia. Comunque, c’erano in palio cinquemila bigliettoni, tutti per la squadra vincitrice, e vedessi che spettacolo in tribuna: ballerine di successo di Broadway, gente da Atlantic
City, da Boston, era arrivato perfino Black Jack McCue da Chicago.
Ad ogni modo, una cosa tira l’altra, ho cercato di capire un po’ come
muovermi lì in mezzo. Sai com’è, Aaron, bisogna arrangiarsi da soli.
Così mi sono messo d’accordo con McCue per battere i New Britain
con uno scarto inferiore a quattro punti. E poi con un guappo di Jersey City, un certo Carmine qualcosa, e con lui ho scommesso su
New Britain per quattro punti. Hai capito? Insomma, bastava che
vincessimo con uno scarto di non più di tre punti e io avrei munto
l’irlandese, il guappo e mi beccavo anche una parte del premio. Ero
in una botte di ferro, no? Senza contare quel minimo margine di
rischio che a me piace, giusto per mantenere vivo l’interesse, tu mi
conosci, no? Comunque, sono lì che mi spacco il culo, segno, sbaglio, sto sul filo del rasoio. Mi rigiro la partita come voglio io, un
genio, cazzo, siamo avanti di tre punti e io comincio a fare melina.
Gesù. Non riescono a prendermi nemmeno per farmi fallo. Si vede,
penso io, che ci sono così tanti giocatori con le mani in pasta che
nessuno sa più bene che cazzo deve fare. Nessuno tranne me.
Comunque, sono ancora nella nostra metà campo, forse una quindicina di metri fuori, l’orologio cammina… tre, due, uno… e così
per ridere, tiro quella cazzo di palla in quel cazzo di canestro. Ti
dico, un volo di quattordici, quindici metri. E quella, bum!, rimbalza sul tabellone e si infila nel canestro come un piccione viaggiatore. Anzi come un pollo, un pollo del cazzo, proprio come me adesso.
Ne devo duemila a McCue e altri duemila al guappo».
«Leo,» dissi io, girando verso di lui i palmi vuoti delle mani «e
chi ce l’ha una somma simile? Io no davvero».
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«No, no» rispose subito lui. «Non sono venuto a chiederti un
prestito o qualcosa del genere. Ecco di cosa ho bisogno: posso tenere buoni quei due per un paio di mesi. Diciamo fino a Natale. Intorno a Natale, i goyim si rammolliscono. Dopodiché, mi restano tre
opzioni: trovare il grano, trovarmi lontano o ritrovarmi morto».
Leo si augurava con tutto il cuore di trovarsi lontano, impegnato in una «lunga e remota» tournée nella provincia. Aveva anche
escogitato tutta una serie di trovate: «Ci facciamo chiamare gli
Ebrei Erranti, una roba del genere. Portiamo barbe lunghe, peot4,
kippah5, tutto l’armamentario. Sulle maglie ci facciamo scrivere
“Va∂anculo” in ebraico. Cose così. In campagna è pieno di gente
che non ha mai visto un ebreo in vita sua. Si potrebbe—».
«Chi potrebbe?».
Pare che Leo avesse già reclutato Mitchell Sloan e Brooks
Moser, entrambi del vicinato, entrambi eccellenti giocatori universitari ai loro tempi, entrambi con esperienza in campo professionistico e, sommati a me come centro, l’ottanta percento di una
squadra niente male.
«E per quando sarebbe?».
Leo giurò che le tournée in ottobre-novembre-dicembre erano
puntualmente un fallimento, perché i goyim lesinavano il centesimo per poter comprare i regali di Natale. Le tournée primaverili
erano un fiasco perché, con il campionato di baseball in corso, non
si batteva chiodo. Insomma, Leo era giunto alla conclusione che
«passato Capodanno, prima partiamo meglio è».
Neanche a parlarne, compare. Come potevo lasciare un lavoro
sicuro, a duemiladuecentocinquanta dollari l’anno (con un figlio in
arrivo, poi), per andarmene in giro (con uno stronzo come Leo Gilbert, per giunta) a fare un viaggio di piacere in mezzo ai bifolchi?
Avrei dovuto rispedirlo in strada a calci senza esitazioni, ma per un
motivo o per l’altro (per buona educazione, forse?), continuai a interrogarlo. «Dove?».
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Anche su questo Leo aveva le idee chiare. «California,» disse «il
paese dove fioriscono i verdoni». Laggiù il basket era «l’ultima
moda», soprattutto a Los Angeles. (Soltanto ieri, Brooks mi ha riferito che Leo vuole dirigere la tournée verso L.A. anche per un’altra
ragione: «È in cerca di lavoro». A quanto pare, un vecchio compagno di squadra di Leo, uno che veniva da fuori, era il nuovo direttore sportivo alla Orange County University, e l’allenatore di basket in
carica sarebbe andato in pensione alla fine dell’anno accademico in
corso, 1935-36. Leo allenatore universitario, ce lo vedevo proprio!).
«Ci sono un sacco di ottime strade che collegano le due coste» mi
disse Leo. «Ma faremmo meglio a tenerci a nord finché non passiamo il Mississippi, perché al Sud gli ebrei rischiano il linciaggio
tanto quanto i negri».
«E contro chi dovremmo giocare, là?».
Il suo viso bruno si illuminò e sfoggiò il suo sorriso giallo e
sghembo, tutto eccitato perché avevo usato il «noi». Leo conosceva
tra New York e Los Angeles «un trilione» di squadre semiprofessionistiche e anche di club impegnati in campionati cittadini, All-Star
del Ymca, squadre amatoriali. Per non parlare di possibili ingaggi
nelle fiere di contea, nelle basi militari, perfino nei penitenziari e
nelle riserve indiane. «Tutti che non vedono l’ora di giocare con una
squadra di ebrei» insistette Leo. «La maggior parte curiosi che vogliono vedere coi loro occhi se davvero gli ebrei hanno le corna».
«E quanto a soldi, di che somme stiamo parlando? Quanto possiamo ricavarne?».
Una fortuna! Più di quattromila dollari per ciascuno di «noi».
«E perché ti servo io?».
Per la mia esperienza, il mio talento, la mia personalità, eccetera.
«E…?».
«Ci servirà un agente,» disse Leo «e soldi per il deposito cautelare, per una macchina, per spese varie. Magari tuo fratello potrebbe darci una mano a ingranare».
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E perché mai Leo era convinto che Max avesse una simile
disponibilità?
«Non prendiamoci in giro» rispose Leo, quasi indignato. Leo
giurò che a giugno Max aveva guadagnato «una barca di soldi»,
scommettendo su James Braddock contro Max Baer per il titolo dei
pesi massimi. Nemmeno due settimane dopo, Max ne aveva vinti
«un’altra barca» quando Joe Louis aveva spedito ko Primo Carnera. «Credi a me,» mi disse (e io gli credetti) «a tuo fratello i soldi gli
escono dal buco del culo».
«Sì, Leo, magnifico, ma…».
Nelle settimane seguenti vidi Leo correre avanti e indietro come
un matto, alla pasticceria di Nathan, all’A&P, al ristorante kosher
di Hester Street e, più raramente, sul campo di basket del Centro
Civico. «Hai poi parlato con tuo fratello?» mi chiedeva, e io rispondevo «non ancora».
Nel frattempo, anche Mitchell e Brooks avevano cominciato a
lavorarmi ai fianchi. Secondo Brooks, ero l’unico «lungo» che era
stato accettato con voto unanime. «Vogliamo fare le cose come si
deve» aveva proseguito Brooks. «Mettere i puntini sulle i. Più che
di fare una tournée in provincia, qui si tratta di creare un’entità
sociale perfetta. Una specie di comune su ruote… Aaron, per l’amor di Dio, io tiro il carretto della verdura». Mitchell non fece mai
cenno al suo lavoro alla discarica, limitandosi a dire: «Aaron, capisco la tua situazione, davvero. Sei un uomo sposato, non come noi,
e un uomo deve prendersi cura della sua famiglia».
Tutti gli altri, forse, un buon motivo per andare ce l’avevano (o
almeno non avevano un motivo per restare lì), ma a me la prospettiva di quel giro delle campagne appariva abbastanza campato in
aria: una cosa divertente (mi piaceva giocare con Brooks e Mitchell) ma chiaramente irresponsabile. Poi, dopo il Labor Day, la
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Charley Rosen Gli All-Star di Mosè
scuola ricominciò, e d’un tratto il filmetto sdolcinato che era la mia
vita si interruppe.
Flap-flap-flap-flap-flap…
Debra Goodman era una studentessa all’ultimo anno del mio
corso di scrittura creativa. Col sorriso, e nei suoi discorsi, poesie e
racconti, si proclamava «una donna moderna». Mentre Judy andava in giro da mesi camminando come una papera con il «confine a
Sud» sbarrato, Debra faceva il suo ingresso nella mia classe ancheggiando con la coda ritta, come un visone in calore. Mentre
Judy, anche quando faceva la pipì, teneva le cosce strette, Debra si
sedeva nella prima fila di banchi esibendo le sue mutandine. Sì, ero
arrapato. Sì, già la seconda settimana di lezione Debra e io ci vedevamo dopo la scuola nel suo appartamento (i suoi genitori lavoravano tutti e due) dove scopavamo ululando come scimmie.
Se Judy mi domandava perché tornassi così tardi, dicevo che mi
era toccato sorvegliare qualche studente punito. Sì, mi sentivo colpevole. Non abbastanza da smettere, però.
Quindi, il 29 ottobre, dopo un feroce travaglio di sedici ore,
Judy diede alla luce Sarah (il nome di sua madre) Pearl (quello della
mia) Steiner, lunga cinquantatré centimetri, tre chili e trecentoventi grammi di peso, kina hurra6. Era anche nata idrocefala, con il
labbro leporino e la palatoschisi.
Arrivati a metà del ponte, allungo una mano e gli do un colpetto
sulla spalla. «Sono sveglio!» dice Kevin a voce troppo alta. «Non
sto dormendo!».
«Non preoccuparti, Kevin».
«Accidenti. Sono stato in piedi tutta la notte a parlare con mio
padre» dice sbattendo gli occhi verdi. Con la barba rosso scuro, che
ha cominciato a farsi crescere dieci settimane fa, Kevin somiglia un
po’ a un bambino con la faccia spalmata di marmellata di fragole.
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«Accetto qualunque punizione mi tocchi. Non ho scuse. Mitchell
me l’aveva detto di leggere le regole, e io l’ho fatto. Ce n’è qualcuna
che non si capisce bene, però lo so che non devo addormentarmi
quando sto seduto qui. E adesso? Era qualcosa a proposito dei
turni sui materassi, no?».
«Non preoccuparti» gli ripeto. «Non pensare ai materassi».
Neanche l’ossessione di Mitchell per una giustizia assoluta ha
potuto gettare luce sul problema della rotazione dei materassi.
Certo, il sedile posteriore è spazioso abbastanza perché due qualunque tra i più bassi (Mitchell, Leo e Ron) possano rannicchiarsi
e starci relativamente comodi. Ma nella «cripta» le posizioni laterali o∂rono un comfort decisamente superiore rispetto a chi è
schiacciato tra altri due al centro del materasso, sulla giuntura dei
cuscini. Alla fine, Mitchell ha proposto che la notte (o il giorno)
prima e quella dopo il suo turno, al guidatore designato spetti una
posizione laterale sul materasso. La posizione centrale è riservata
al navigatore, dopo il suo turno (vedi Articolo D, Paragrafi 2c-d). Il
fatto di non essere riuscito a completare un diagramma della
«rotazione delle posizioni» per tutto il viaggio ha esasperato Mitchell. Ora, il meglio che si possa fare è tenere conto di dove dorme
ciascuno di noi e assegnare le posizioni giorno per giorno.
«Non abbiamo ancora nemmeno attraversato il ponte,» geme
Kevin «e io ho già fatto un casino. Cribbio! Io che ci tenevo tanto
che in questo viaggio andasse tutto per il verso giusto…».
Il ragazzo sta per scoppiare a piangere, così gli dico: «Non pensarci. Non c’è bisogno che lo sappia nessuno. Anzi, un po’ di colpa
ce l’ho io. Avrei dovuto accendere la radio, ti avrebbe aiutato a rimanere sveglio». (In base al regolamento, il controllo totale della
radio è assegnato al guidatore: accensione, spegnimento, scelta del
canale, volume. Apertura o chiusura del finestrino scorrevole a lato
del guidatore dipendono da un voto a maggioranza di quelli che
stanno nel sedile posteriore e nella cripta).
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