- GIOVANNI CHIARAMONTE

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- GIOVANNI CHIARAMONTE
Giuseppe Marinoni
Giovanni Chiaramonte
the
EVOLVING
EUROPEAN
CITY
Ideazione del libro e testi:
Giuseppe Marinoni
Fotografie:
Giovanni Chiaramonte
Progetto grafico e copertina:
Vilma Cernikyte
Coordinamento scientifico elaborazione mappe:
Giuseppe Marinoni
Grazie a Chiara Conti, Susanne Elisabeth Eggeling, Francesco Repishti
per la lettura finale dei testi e i consigli.
ISBN 978-88-907773-9-4
Sommario
8
Introduzione
15
Almere, Stadshart
33
Amsterdam, Borneo Sporenburg, Oostelijk Havengebied
55
Amsterdam, Zuidas
73
Barcelona, Vila Olimpica, Forum 2004
93
Berlin, Potsdamer Platz
109
Breda, Chassé Park
127
Hamburg, HafenCity
147
Lille, Euralille
163
Lisboa, Expo98, Gare do Oriente, Parque do Tejo
181
London, Canary Wharf
199
Milano, Grande Bicocca
215
Milano, Nuova Portello
231
Paris, Parc Bercy, Seine Rive Gauche
253
Saint-Denis, Plaine Saint-Denis
270
Bibliografia
Zuidas
Borneo Sporenburg
Oostelijk Havengebied
Amsterdam
London
Breda
Canary Wharf
Chassé Park
Hamburg
Hafen city
Almere
Stadshart
Lille
Euralille
Saint Denis
Plaine Saint Denis
Paris
Parc Bercy, Seine Rive Gauche
Milano
Grande Bicocca
Nuova Portello
Barcelona
Vila Olimpica, Forum 2004
Lisboa
Expo98
Gare do Oriente
Parque do Tejo
Berlin
Potsdamer Platz
Introduzione
Questo libro è una ricognizione nell’universo mutevole e continuamente
in divenire delle pratiche del progetto urbano, quell’insieme di approcci,
metodi, strumenti teorici e progettuali che negli ultimi anni sta cambiando
la città europea. Diversamente dagli anni sessanta, più inclini a derivare gli
assetti urbani e territoriali dalle politiche di programmazione economica,
o dagli anni settanta, più interessati a concepire teorie generali attinenti la
‘ricostruzione critica’della città, dalla metà degli anni ottanta le discipline
progettuali elaborano modalità di intervento in corso d’opera. E affrontano
nella pratica i conflitti generati dalle incessanti pressioni al cambiamento,
esercitate dalle contemporanee necessità economiche, sociali, tecniche.
La costruzione di ampie e complesse parti di città, come quelle qui
presentate, è la tematica principale affrontata dal progetto urbano.
E benché esso sia strumento imperfetto, contradditorio e in continua
evoluzione, rimane una tra le poche vie praticabili per agire in una
dimensione processuale e di separatezza di tempi, poteri, discipline e
competenze, nell’ambizione di contribuire all’accrescimento del patrimonio
qualitativo delle città.
Un carotaggio nella realtà della città europea in evoluzione, che rileva
modalità d’intervento molteplici e perfettibili, elaborate nel concreto e
nello specifico dei casi, delle circostanze e delle emergenze. Ne risulta un
orizzonte pluralistico, frammentario ed eclettico di approcci, da cui traspare
una comune linea europea alla trasformazione urbana, rispettosa dei
valori, degli usi e dei significati della città esistente, consapevole di agire
nei conflitti indotti dai necessari processi di innovazione e adeguamento
della città stessa, presupposti per la sua salvaguardia e sopravvivenza.
Nella condivisione dei valori espressi dalla ‘città compatta’, le nuove
parti urbane qui mostrate esprimono densità di usi e significati, pluralismo
morfologico e sociale, compresenza di fatti edilizi paesaggistici e
infrastrutturali, adesione ai principi di sostenibilità ambientale, stabilità della
struttura urbana nella dinamica edilizia, e prendendo distanza sia dagli
atteggiamenti mimetici e conservativi della città storica, sia dalle visioni
entusiaste che ancora intravedono nello sprawl il modello insediativo più
adatto alla contemporaneità.
A partire dal contributo teorico e critico delle ricerche condotte sulla
città storica europea negli anni sessanta, e dalle parziali sperimentazioni di
‘ricostruzione critica’ delle città europee degli anni settanta, fino ai ‘progetti
speciali’, sollecitati, negli anni ottanta, a reagire ai contradditori portati
del ‘fenomeno metropolitano’, le variegate pratiche del progetto urbano
hanno ormai elaborato competenze e tecniche in grado di esprimere un
notevole potenziale strategico di intervento nella città.
Mentre negli anni settanta, quando la ricostruzione urbana veniva
sostenuta dai miti della Kleinstadt e dalla fiducia nelle ‘convenzioni’ della
città storica, gli approcci al progetto urbano odierno intravedono elementi
di apertura e rinnovamento della città esistente, proprio a partire dal
necessario confronto con i conflitti emersi dalla condizione metropolitana
contemporanea. La necessaria ibridazione di edilizia e infrastruttura, i
processi di inclusione di fatti paesaggistici e geografici nella città esistente,
le istanze di sostenibilità della crescita urbana, le pratiche emergenti di
sostituzione edilizia e di infill, costituiscono pretesto per il rinnovamento
e l’emancipazione dei rituali collettivi, degli usi e delle forme della città
tradizionale, non più minaccia del suo annientamento.
Questa ricognizione di pratiche, progetti e realizzazioni degli ultimi
vent’anni nelle città d’Europa permette di delineare i pur labili confini di
un campo che, in continua evoluzione di approcci e metodi, si trova a
operare, spesso empiricamente, in contesti estremamente dinamici. Proprio
dall’attuale condizione instabile, di grandi rivolgimenti economici, sociali,
epistemologici, si traggono energie capaci di configurare nuove parti
urbane di qualità, sorte forzando stanche consuetudini, dribblando routine
procedurali, destabilizzando convenzioni disciplinari.
Si è parlato di ‘metamorfosi del progetto urbano’ (Marinoni 2005),
riferendosi ai molteplici e sfaccettati risvolti che riguardano da una parte i
mutamenti nei modi di guardare e studiare la città, dall’altra i cambiamenti
dei processi di costruzione della città stessa, investita, nel passaggio da
‘città storica europea’ a ‘città contemporanea’, dalla dirompenza dei
fenomeni metropolitani in atto. I nuovi criteri per intervenire e interagire
con i conflitti presenti nella città attuale hanno oltretutto prodotto
una rottura dei già flebili confini delle discipline urbane. Architettura,
urbanistica, progettazione paesaggistica e infrastrutturale, si sono di fatto
viste perturbare le rispettive certezze pazientemente costruite nei tentativi di
rifondazione disciplinare, avviati, per un verso, con la presa di congedo
dalla ‘città moderna’, o al contrario, perseguendo con determinazione il
progetto di riforma sociale e urbana avviato dal pensiero della modernità.
Un disagio e un’incertezza nella progettazione della città
contemporanea portano a riflettere sui profondi mutamenti che hanno
perturbato in questi anni la città e la società. La grande frattura, avvenuta
a cavallo degli anni settanta e ottanta, aprì una fase definita post-fordismo
da Harvey (1990), post-urbanismo da Hall (1973), post-modernismo
da Lyotard (1979) e da Jameson (1984), e pose in luce nuovi aspetti
inerenti la condizione urbana, umana, civile, e le contraddizioni della città
contemporanea.
Innanzitutto è mutata la città, e in modo diverso rispetto le previsioni
e le aspettative delle discipline urbane. Per decenni, studiando la città
storica, si è sottovalutato il fatto che essa costituisse una quota minoritaria
del costruito. In relazione alle strategie politico-economiche sono stati
elaborati approcci ‘razional-comprensivi’ per regolare lo sviluppo urbano
e del territorio. Ma le città sono state travolte da fenomeni di inurbamento
che hanno prodotto in pochi anni, e in modo incontrollabile, le più grandi
conurbazioni metropolitane. Ora si è più consapevoli dei pericoli insiti
in tale vertigine previsiva. E si prende distanza dalla sconfinata fiducia
illuminista nel controllo razionale della trasformazione urbana e territoriale,
che alimentò gli entusiasmi del Ciam e gli approcci sistemici degli anni
sessanta.
Si è inoltre consapevoli dell’indebolimento della capacità di descrivere
compiutamente i fenomeni urbani in atto. La ‘condizione metropolitana’
induce spaesamento nei suoi abitanti, e un senso d’impotenza negli
studiosi che si apprestano a descriverne la variegata fenomenologia.
La crisi della rappresentazione della metropoli nei termini tradizionali
invalida l’approccio delle ‘analisi morfologiche’ e dei ‘modelli descrittivi’
delle scienze urbane, li vanifica in quanto strumenti di indagine, di
comprensione e come premesse all’azione.
Se è sempre più difficile capire ciò che sta avvenendo nella città
utilizzando i mezzi delle discipline urbane, occorre ampliare il campo ad
altri contributi. Attualmente sembra sia più adeguato parlare di ‘livelli di
realtà’ e di ‘mappe tematiche’ (Piattelli Palmarini 1987). Letture provvisorie,
molteplici e trasversali delle contemporanee condizioni della città e della
società, un palinsesto di modi di dire la città ai quali sfugge però nella sua
interezza. E allora è anche allo sguardo narrativo e interpretativo della
fotografia, del cinema, della letteratura, a cui si chiedono contributi per
delineare i tratti sfuggenti del variegato fenomeno metropolitano.
Progetto urbano coordinato
Il progetto urbano coordinato, così come si configura negli esiti più
felici mostrati in questo libro, è finalizzato alla realizzazione di ampie
parti di città, in un arco temporale relativamente breve, rispetto i tempi
lunghi, secolari, di costruzione della città. Le diverse componenti
edilizie, infrastrutturali, paesaggistiche sono coordinate da un progettista
responsabile, affinché possano generare insieme un assetto morfologico di
qualità e una complessità di usi capaci di diffondersi beneficamente nella
città circostante, oltre i confini del progetto stesso.
Grandi eventi internazionali, esposizioni, celebrazioni, rivolgimenti
economico-produttivi hanno imposto la ricerca di nuove attitudini
progettuali, in grado di accogliere le pressanti richieste di innovazione
della compagine urbana e territoriale. I ‘progetti speciali’, che dagli anni
ottanta si misurano con la costruzione della Grande Parigi, con le vicende
urbane legate alle Olimpiadi di Barcellona e all’Esposizione Universale
di Lisbona, con le dismissioni portuali di Amsterdam e Amburgo, con il
recupero del Dockland di Londra, con la riunificazione di Berlino (e si
potrebbero aggiungere vicende di molte altre città europee), cercano di
individuare modalità efficaci nell’emergenza di governare i processi di
mutazione urbana in atto. E la trasformazione non riguarda unicamente gli
aspetti edilizi, come nei periodi di ricostruzione post-bellica o di espansione
urbana degli anni sessanta, investe ora le infrastrutture, la città storica e
la città dispersa, il paesaggio, le nuove condizioni di spazialità urbana, i
nuovi usi, i nuovi stili di vita.
I sovvertimenti produttivi, rilasciando infrastrutture e dispositivi dismessi
nel cuore delle città, sollecitano pratiche per innovare la città esistente
a partire dal brownfield e non più dal greenfield, il territorio circostante
inedificato. Il fenomeno di ricentralizzazione, la riscoperta dei vantaggi
della ‘città compatta’ contro la dispersione metropolitana, richiede
di riconsiderare in modo non unicamente conservativo e di semplice
salvaguardia i nuclei storici esistenti. Le emergenze ambientali incalzano
riflessioni riguardo la sostenibilità della crescita, e pongono la questione di
sviluppare la città su se stessa senza intaccare risorse territoriali. La nuova
scala degli investimenti, richiesta dalla riorganizzazione finanziaria degli
operatori pubblici e privati nelle condizioni di crisi economica, conduce a
elaborare sofisticati programmi di trasformazione. Nuove migrazioni, nuovi
usi e rituali comparsi nelle città, diverse modalità di fruire il paesaggio
metropolitano riflesse nell’indebolimento della nozione fondamentalista di
‘abitare il luogo’, obbligano a riformulare le grandi questioni legate alla
casa, ai servizi, allo spazio e al trasporto pubblico, alle infrastrutture della
mobilità.
Nella molteplicità di approccio, le parti di città presentate in questo
libro danno risposta a tali problematiche, agendo nel concreto delle
trasformazioni e facendo coincidere azione e riflessione. Ciò che da esse
traspare è la messa in atto di un insieme di pratiche e criteri mutevoli, che
non possiedono vocazioni definitorie, ma brillano piuttosto con la forza di
utensili forgiati per l’occasione. Le modalità di intervento, una molteplicità
frammentaria e provvisoria, sorta di ‘mille plateaux’, sembrano seguire
percorsi trasversali rispetto alle consuetudini, rintracciare connessioni
impreviste e dare risposte circoscritte, nella consapevolezza di agire in una
condizione transitoria e mutevole.
Contestualmente alla necessità di ripensare le trasformazioni della
città nel loro insieme, è caduta la fiducia negli strumenti pianificatori
tradizionali, incapaci sia di indirizzarne lo sviluppo urbano, sia di
contribuire a innescare dinamiche di sviluppo tendenti a rendere la
città attrattiva, sia di generare qualità morfologica e spaziale. Nella
maggioranza dei casi, infatti, questi progetti speciali, nel modificare ampie
parti di città, lasciano sullo sfondo gli strumenti regolativi tradizionali, che
non essendo più in grado di rispondere alle mutate richieste, vengono di
fatto invalidati con varianti parziali o procedure alternative specifiche e
settoriali: Zones d’Aménagement Concerté, Enterprise Zone, Local Plans,
Piani d’area, Projecto estratégico, progetti di opere pubbliche e altro.
Alla pianificazione è stato chiesto di riconsiderare alcune questioni
chiave poste alle origini dell’attività urbanistica: il rapporto tra piano e
progetti, tra piano locale e piano generale, tra piano inteso come modello
da perseguire o piano inteso come processo da governare seguendo
principi e politiche condivise. Sull’architettura sono state invece riposte
nuove aspettative sollecitando la capacità speculativa ed euristica del
progetto. Concorsi d’architettura o consultazioni internazionali, da cui
sono scaturite anche le strategie che hanno condotto alla realizzazione
delle parti di città qui presentate, hanno orientato la costruzione di una
domanda, più che la soluzione di problemi non ancora chiaramente
identificati. E all’architetto è stato chiesto di rivelare, attraverso l’esercizio
del progetto, ciò che altri non sarebbero stati in grado di vedere.
Questa domanda suppletiva di performance è in un certo senso
connaturata al progetto urbano che si trova di volta in volta a scorgere
nuove figure e nuove relazioni tra fatti urbani esistenti, a scardinare
convenzioni morfologiche e programmatiche, caricandosi di una funzione
‘popperiana’ di precisazione-correzione delle premesse previsive e delle
strategie indicate. In questa accezione il progetto urbano assume quindi
valenze strategiche, opera cioè sul piano di una reale trasformazione
locale nel controllo qualitativo della morfologia della città, ma al
contempo partecipa all’attivazione di una strategia complessiva di
rinnovamento e di trasformazione urbana, sempre meno espressa dai
tradizionali strumenti pianificatori. In quelli che ne saranno gli esiti più
significativi, avvalendosi della sua capacità di distogliere ‘impercezioni’
e ritrovare temi nell’azione e nell’esercizio del progetto stesso, il progetto
urbano non riveste infatti solamente il ruolo di supporto al montaggio delle
operazioni: costituisce invece fattore determinante nella costruzione di
sintesi e nella creazione di opportunità.
Nella scelta del progettista per Euralille, a esempio, il valore strategico
che esso avrebbe dovuto giocare era ben chiaro ai vertici della società di
gestione. Mediante una consultazione internazionale verrà selezionata la
figura di un responsabile, Rem Koolhaas. Non un progetto finito o una
proposta morfologica, ma una modalità di messa in opera del progetto,
‘un regista’, capace di costruire una visione urbana a partire dalle
questioni avanzate. Anche il progetto per la Vila Olimpica, affrontando
il problema di costruire alloggi per gli atleti, mostra alla città una diversa
opportunità: riacquistare il frontemare e rendere fruibili chilometri di
spiagge abbandonate. Nella necessità di recuperare aree dismesse e
marginalizzate, il progetto della Zac di Bercy rivela strategico configurare
un nuovo parco, a scala della città, capace di conferire ‘centralità’
simbolica e reale all’insediamento e produrre ‘valore aggiunto urbano’.
Il progetto urbano così concepito impone che se ne deleghi la regia a
un autore perché guidi sia la fase progettuale che realizzativa, governando
e regolando i differenti apporti o legittimando i continui aggiustamenti. Un
regista che coordini l’opera di altri, nella definizione di singoli manufatti ed
edifici in rapporto ai principi individuati, e che si faccia garante degli esiti
nei confronti dell’opinione pubblica e delle committenze.
Questo approccio, definito ‘progetto urbano coordinato’, trova felice
riscontro quando il conferimento di responsabilità avviene all’interno
di una solidarietà culturale e di una comunanza d’intenti tra autore e
committenza, sia pubblica che privata, e nel reciproco riconoscimento e
rispetto in relazione ai differenti obiettivi e intenzioni. Celebri al riguardo
sono il sodalizio, cementato dal comune impegno civico, tra il sindaco
di Barcellona Pasqual Maragall e Oriol Bohigas, o tra il primo ministro
francese e sindaco di Lille Pierre Mauroy e Rem Koolhaas. Più orientati
verso una logica di successo imprenditoriale, il connubio tra Leopoldo
Pirelli e Vittorio Gregotti o tra i vertici della Debis e Renzo Piano. In
alcuni paesi, come la Francia, la Germania e i Paesi Bassi, l’‘architetto
coordinatore’, come regista progettuale, è una figura istituzionalizzata.
E il suo apporto è previsto in tutti i progetti urbani che comportano
trasformazioni di ampie parti di città e che richiedono la compresenza di
molteplici figure progettuali.
L’avvio di un progetto urbano coordinato implica il coinvolgimento
di diverse competenze tecniche e progettuali, amministrative, legali
e finanziarie che, riunite in complesse strutture di gestione pubbliche,
private o miste, assolvono al ruolo d’interfaccia tra committente, autore,
amministrazioni pubbliche e i mutevoli attori coinvolti, governando
l’operazione dal momento del montaggio fino alla completa realizzazione.
Società pubbliche o a economia mista, come la Nisa e la Vosa, sono
appositamente costituite per gestire l’implementazione e la realizzazione
della Vila Olimpica, così la Semest per Bercy, la Semapa per Seine Rive
Gauche, la HafenCity Hamburg GmbH per HafenCity, o la Saem per
Euralille. Strutture private multinazionali, come Pirelli o Daimler-Benz,
hanno affidato a società controllate, allo scopo istituite, la gestione e lo
sviluppo immobiliare delle aree di loro proprietà.
Per poter avviare un progetto urbano coordinato occorre innanzitutto
creare condizioni per raggiungere alcuni chiari obiettivi:
- favorire la costruzione di una parte relativamente unitaria e riconoscibile
di città, al contempo introdurre quegli elementi di differenziazione e
articolazione che possano produrre varietà morfologica e ricchezza di usi,
quali si apprezzano nella città consolidata;
- permettere che la città si costruisca nel tempo, indicando al momento
della sua concezione le linee germinative del suo sviluppo, il ‘codice
genetico’ del suo accrescimento;
- creare condizioni opportune per regolare i singoli contributi (progettisti,
operatori, amministratori, cittadini), in un gioco consensuale che possa
produrre un arricchimento reciproco. Non l’autore che impone la
soluzione, ma ipotesi condivise sulle quali mediare le divergenze, articolare
le richieste e soddisfare le aspirazioni;
- produrre un grado compatibile di flessibilità per accogliere in itinere
le opportunità e le occasionalità. Risulta sempre più difficile, se non
impossibile, montare un programma definitivo e fissare obiettivi certi.
Il progetto di una parte vasta di città deve poter accogliere risorse e
opportunità durante la sua stessa realizzazione;
- garantire elevati livelli di sostenibilità dello sviluppo, sia in termini
ambientali che sociali. Una parte nuova di città deve essere efficiente per
quanto concerne il risparmio di risorse non rinnovabili. E al contempo deve
sapersi aprire alla pluralità sociale e alla molteplicità di usi, senza produrre
fratture con la città esistente e i suoi abitanti;
- fornire occasioni affinché le progettazioni settoriali e specialistiche
(edilizie, infrastrutturali, paesaggistiche) trovino un terreno d’intesa e ambiti
di convergenza sugli obiettivi.
Il progetto urbano innesca un ‘processo’ cumulativo ed esponenziale:
nel risultato il valore dell’insieme delle parti deve essere maggiore
della somma delle singole parti. Laddove, nella città moderna e
contemporanea, spesso l’equazione è inversa e il valore della somma delle
parti produce un saldo negativo: caos, congestione, malfunzionamento,
scadimento della qualità insediativa e mortificazione dei luoghi.
Occorre però essere consapevoli dell’inopportunità di affidarsi alla
virtuosità astratta dei processi. La bontà di un processo si sancisce solo
dagli esiti raggiunti. Tant’è che solo alcuni tra i tanti progetti urbani
avviati in Europa stanno dando esiti qualitativi soddisfacenti, come quelli
qui presentati. Questo a dimostrare che i processi vanno sostanziati di
contenuti ideativi e progettuali e, nel campo di una disciplina come la
progettazione urbana e architettonica, il talento di chi la esercita non
è certo componente secondaria. Però, al contrario, non si può fare
affidamento solo sul talento individuale. Nella progettazione delle città
non si sono ancora rivelati demiurghi planetari capaci di far scaturire
a invito soluzioni efficaci e di successo. Spesso, affidarsi a presunte
capacità demiurgiche maschera inadeguatezze nel prendere decisioni che
attendono l’ambito delle politiche alte. Oppure, i demiurghi planetari stessi
divengono, in un circolo vizioso, funzionali a operazioni demagogiche e di
ricerca di facile consenso.
Le tematiche del progetto urbano coordinato attengono alla qualità
urbana, fisica e insediativa, e alla messa in atto di processi virtuosi
che conducono a esiti qualitativi nelle operazioni di trasformazione
e innovazione della città stessa. Quando si sollevano temi legati alla
‘qualità urbana’ spesso vengono contrapposti argomenti che tendono
a minimizzare la questione: tutti ovviamente ritengono che la ‘qualità
urbana’ sia rilevante, ‘ma solo dopo aver affrontato le emergenze o
le problematiche più importanti’. E si considerano ‘problematiche più
importanti’ quelle inerenti le questioni economiche o sociali, di sostenibilità
ambientale o di destino futuro della città. Come se tutto ciò potesse essere
affrontato, per una città, senza pensare al modello fisico e spaziale della
città stessa, e quindi alla qualità urbana e alla vivibilità generata nel suo
complesso.
Si sono ormai visti gli effetti perniciosi di un pensiero tendente alla
separazione tra fatti ritenuti ‘strutturali’ (aspetti economici, funzionali,
infrastrutturali) e fatti ritenuti ‘sovrastrutturali’, attinenti l’estetica e la
qualità, e perciò considerati effimeri. Ma a dare coraggio a chi considera
fondamentali gli aspetti di qualità urbana sono gli esempi qui mostrati.
Effetti benefici di un pensiero che, nella trasformazione e nella ripresa
delle città, ha ritenuto di far lavorare in stretta sinergia rilancio economico,
infrastrutturazione e trasformazione qualitativa dell’assetto fisico urbano.
E questo non nel lusso di dispensare surplus generati, ma come strategia
più complessa e articolata per superare le crisi e le fasi drammatiche di
emergenza economica, sociale e urbana.
Confrontando ciò che è avvenuto in queste città emerge quanto
auspicabile sia la sinergia tra questioni economiche e tematiche
qualitative di trasformazione urbana, e quanto desiderabile sia poter
innestare i ‘progetti’ di trasformazione fisica della città nelle ‘politiche’
complessive sulla città. Per politiche si intendono qui gli atti coraggiosi
di rilancio urbano che alcuni amministratori, anche per fronteggiare
drammatici momenti di crisi urbana, economica e sociale, hanno avviato
e condotto lungo il loro mandato elettorale, e che, talmente condivisi da
più ampi strati di cittadini, sono proseguiti per anni, attraverso diverse
amministrazioni, fino alla loro felice conclusione.
Ci si riferisce qui alle politiche e ai processi di riqualificazione urbana
sintetizzate nello slogan ‘Paris se lève à l’est’, lanciato negli anni ottanta
da Chirac, sindaco di Parigi, con il grandioso progetto di aménagement
teso a riconquistare alla città tutto l’est parigino lasciato, sin dai tempi
di Haussmann, come parte subalterna. Alle politiche di riconquista del
fronte mare di Barcellona in seguito alle Olimpiadi del 1992, lanciate dal
sindaco Maragal con la celebre frase ‘Le olimpiadi durano quindici giorni
ma la città rimane per sempre’ e proseguite con il Forum internazionale
della cultura del 2004. O alle strategie avviate ad Amsterdam e ad
Amburgo per recuperare i dock portuali, incalzate dalla drammatica crisi
economica connessa al rivolgimento dei sistemi di trasporto marittimo e di
interscambio modale.
Dalle parti di città mostrate in questo libro è necessario trarre
insegnamento. La loro edificazione costituisce motivo di arricchimento
pubblico e privato, rende orgogliosi i cittadini e interessati gli studiosi
urbani e i turisti. E hanno incrementato quello che si è rivelato essere uno
tra i maggiori patrimoni della città: la dotazione di qualità fisica e spaziale
e la sua disponibilità a essere fruita da abitanti e visitatori.
Compact city - Intensity city
Per meglio riflettere sulle attuali modalità d’innovazione della città esistente,
occorre riprendere la discussione, apertasi negli anni novanta, sulle
negative conseguenze dello sprawl, che ci conduce fino alle attuali tesi
elaborate negli ambiti dell’Urban Ecology, circa i modelli ritenuti sostenibili
di costruzione della città.
Le critiche allo sprawl coinvolgono vari aspetti. Dal punto di vista
ambientale, l’urbanizzazione diffusa contribuirebbe a peggiorare il
degrado planetario, con aumento dell’inquinamento e spreco delle risorse
energetiche e territoriali. Se ne denunciano tuttora anche le sperequazioni
in termini di vivibilità e le problematiche condizioni di governabilità che
investono la realtà sociale. Negativi risvolti economici sono connessi agli
onerosi investimenti pubblici e agli alti costi privati che le inefficienze di
questa modalità insediativa comporta. Le istanze di difesa della ‘compact
city’, come forma urbana ‘sostenibile’, prendono sempre più spazio nel
dibattito contemporaneo (Aa.Vv., 1996; Mostafavi-Doherty, 2010).
Cruciale appare la controversia circa i modelli di città e i principi di
insediamento da adottare nelle nuove parti urbane, proprio in relazione
alle questioni di sostenibilità ambientale, sociale ed economica, e di
qualità complessiva della vivibilità dei luoghi dell’abitare contemporaneo.
La dicotomia tra ‘città dispersa’ e ‘città compatta’, lungi dall’essere
solo una diatriba accademica tra architetti, urbanisti, sociologi ed
ecologi, investe problematiche più generali che richiedono prese di
posizione nel più ampio sistema decisionale e di governo, riguardo
le strategie economiche, ambientali e di walfer state: le scelte inerenti
l’infrastrutturazione del territorio e le politiche del trasporto pubblico, quelle
di salvaguardia dell’ambiente e di uso del suolo, di controllo dei consumi
energetici e di difesa delle risorse non rinnovabili.
Interessante in questo caso confrontare come vi sia una forte disparità
tra le diverse nazioni in ordine alle scelte tra il modello di città dispersa
o di città compatta, in riferimento, per esempio, a uno dei parametri
maggiormente ‘misurabili’ che è la densità abitativa. Nelle città europee
c’è un’oscillazione della densità insediativa che varia tra le 25 e 100 unità
residenziali per ettaro, considerando che in un ettaro si collocano circa
dieci case unifamiliari con giardino. A Los Angeles la media è di 15 case,
nelle new town britanniche e dei paesi del nord Europa degli anni sessanta
la densità non è superiore a 25 abitazioni. La densità media a Londra è 42
unità, mentre nei centri storici dell’Europa continentale la media è di circa
90 unità. Gli sviluppi immobiliari degli anni settanta a Singapore hanno
raggiunto densità di 250 unità. Densità anche superiori, fino 400 unità per
ettaro, sono attualmente utilizzate in alcuni sviluppi immobiliari di Beijng,
Tokyo, Seul. Ma tentativi in questo senso si stanno facendo anche nei Paesi
Bassi, nelle zone di recupero dei waterfront e in alcune aree circoscritte,
particolarmente reattive e ricche di infrastrutturazione della mobilità
collettiva, di Amsterdam, Parigi e Londra.
Molteplici ricerche hanno dimostrato che un servizio di bus extraurbano
è sostenibile, in termini di costi/benefici, per una densità non inferiore
alle 25 unità per ettaro. Un servizio tramviario è congruo per una densità
di 60 unità. In alcune parti urbane particolarmente infrastrutturate, che
fungono da interscambio della mobilità collettiva e privata urbana ed
extraurbana, è invece auspicabile ipotizzare poli di centralità a più alta
densità insediativa, fruendo dei vantaggi di un’accessibilità privilegiata,
consentita dal trasporto collettivo e dalla compresenza sinergica di usi che
contribuisce a ridurre gli spostamenti.
Il ricorso all’alta densità e alla città compatta non è perciò da intendere
come nostalgico e ideologico ritorno alla ‘città come opera d’arte’, e
neppure unicamente come apertura di occasioni alle forze economiche e
di investimento immobiliare, quanto come condizione di sostenibilità dello
sviluppo.
Ma la città compatta è anche ambito critico e operativo che richiede
continuamente di sperimentare le valenze del progetto urbano e
architettonico contemporanei: ibridare forme insediative, aggiornare tipi
edilizi, riformulare le infrastrutture, costruire di volta in volta modelli di
convivenza sociale. La città compatta, intesa come città ad alta densità
fisica, ma anche sociale e relazionale, crogiolo sinergico di più usi, più
funzioni, più rituali, è inoltre ambito privilegiato per le politiche attrattive
rivolte all’abitare, al lavoro e allo svago. Il modello della città compatta
permette di ridurre gli spostamenti casa-lavoro e casa-attività ludiche
ricreative, diminuendo i costi sociali e ambientali del trasporto privato
e pubblico; consente di ottimizzare l’incidenza dei costi del suolo e
degli investimenti nelle urbanizzazioni; crea le condizioni di sinergia tra
città esistente e parti urbane di nuova formazione; facilita i processi di
integrazione sociale nel mescolare molteplici forme abitative e di scambio
relazionale.
Oltretutto, ricorrendo al modello della città compatta si incentivano
processi di riqualificazione del patrimonio immobiliare esistente
sollecitando la sostituzione edilizia; si innescano processi di recupero di
aree marginalizzate; si sostengono politiche di riqualificazione complessiva
di intere parti di città degradata. E si facilita così il rinnovo degli stili di vita
in relazione alle condizioni sociali e lavorative in mutamento.
Si dovrebbero valutare, però, oltre a questioni di ordine ecologico,
ambientale ed economico, anche aspetti di ordine qualitativo, perché,
come sostiene Michael Sorkin (2004 ) “…è importante distinguere
tra densità ed estensione. Dopo tutto c’è densità e densità: dobbiamo
distinguere le qualità di Jones Beach in un pomeriggio di sole o il
trambusto della Fifth Avenue nella settimana prima di Natale dall’iper
affollamento del Ghetto di Varsavia o dall’asfissiante buco nero di
Calcutta. La densità può produrre efficienza e piacere, oppure generare un
incubo”. Sorkin tenta di definire fenomenologicamente la densità, poiché
capace di generare un innalzamento della qualità della vita nelle città e
ne individua diversi tipi. La densità fisica rimanderebbe alla spazialità della
città tradizionale, la densità sociale e ambientale, espressa in termini di
relazioni, di usi, di scambi lascerebbe invece trapelare i vantaggi offerti da
alcune peculiarità della complessità metropolitana. Se, come dice: “La vita
sociale e politica della metropoli non dipende semplicemente dell’incontro
in sé ma dalla sua struttura: una buona città è uno strumento che produce
felici incidenti, non un meccanismo che genera collisioni” (Sorkin, 2004).
Una metropoli è più che uno scenario per l’esaltazione di flussi
continuati e di un dinamismo inafferrabile, come in alcune visioni del
‘neo-futurismo’ contemporaneo. È il luogo dell’incontro anche casuale,
dell’interazione anche episodica, campo di un gioco delle parti, di un
incontro-scontro tra i diversi ruoli e ambiti sociali, palcoscenico di quella
‘rappresentazione teatrale’ a cui Erwin Goffman (1997) riconduce la
vita sociale e la multistraficata e sempre provvisoria costruzione di ogni
immagine individuale.
Già l’antropologo Ulf Hannerz (1992) nel suo libro ‘Esplorare la
città. Antropologia della vita urbana’ ci invitava a “vedere la città come
un luogo dove si può trovare una cosa mentre se ne cerca un’altra”. La
definizione ci fa intravedere una possibilità di ‘abitare’ nel conosciuto della
città, ma anche di ‘vagare’ in un altrove, come suggeriva Walter Benjamin
(2007), e imbattersi nell’inaspettato. Particolarità dal fascino pericoloso,
che è lo specifico della grande città e della metropoli e che ha motivato
l’atteggiamento blasé degli abitanti della nascente metropoli di inizio
novecento. Cosa che tanto preoccupava e al contempo attirava Georg
Simmel. Elemento di potenziale apertura nella creazione di identità nuove,
liberate dal rigido determinismo fisico e sociale di luoghi storicamente
dati. La grande città e la metropoli si distinguerebbero quindi nettamente
dal villaggio, dal paese, dalla piccola città dove, secondo la classica
definizione di Max Weber e secondo le illusioni dell’‘urbanistica culturalista’
fondata dal pensiero di John Ruskin e William Morris, permarrebbe una
coincidenza tra fatto fisico e comunità.
“Trovare una cosa mentre se ne cerca un’altra”, noto con il termine
di serendipity, comporta il reclutamento di una struttura nata per funzioni
diverse da quelle che ne hanno governato l’esistenza. Massimo Piattelli
Palmarini (1985) chiarisce il procedimento portando a esempio un
caso clamoroso di reclutamento serendipico nel dominio della ricerca
scientifica, quello per cui le ali degli insetti non si sarebbero evolute per
consentire il volo, bensì per scambiare calore con l’ambiente circostante.
La funzione secondaria, quella del volare, nei tempi lunghi dell’evoluzione
del genere, si sarebbe rivelata la funzione più importante. Un tentativo
felice di coniugare il concetto di serendipity con l’esperienza urbana è
stato proposto da Arnaldo Bagnasco (1994) e così formulato: “la varietà
di esperienze che la città consente, la molteplicità di situazioni diverse
nelle quali si trova coinvolto permettono all’uomo della città nuove sintesi
culturali inattese… In secondo luogo la città è abbastanza ampia, contiene
un numero sufficientemente grande di persone per far sì che il casuale
sintetizzatore possa avere la probabilità di incontrare qualcun altro capace
per affinità di reperire, e disposto a coltivare insieme a lui le possibilità
della nuova sintesi”.
Varietà e aumento delle probabilità di scambio, legate ad una relativa
‘indeterminatezza’ e a una sufficiente ‘ricchezza’ e ‘densità’ di significati e di
offerte fruitive, sono dunque condizioni necessarie perché possa realizzarsi
serendipity. Città monofunzionali, quartieri che producono omologazione
sociale, spazi collettivi specializzati per uniformità di fruitori - in definitiva
la città fordista strutturata per zone funzionali e omogenee e lo sprawl che
produce come luoghi collettivi solo gli spazi iperspecializzati degli shopping
center e delle strutture di scambio intermodale - generano invece bassi
livelli di serendipity.
Dalla reazione alla bassa densità dello sprawl sembrano emergere
due orientamenti teorici e operativi. Uno, definito new urbanism, è
orientato al recupero della spazialità della città tradizionale, della città ‘a
misura d’uomo’, in cui troverebbero compimento gli equilibri alla scala
microsociale auspicati da Jane Jacobs (1961) e che sembrerebbero
nuovamente affascinare gli adepti dell’Urban Ecology. L’altro, definito
post urbanism sarebbe portato viceversa a esaltare i vantaggi della
‘congestione’ metropolitana, tutta flussi ed energie dinamiche, come
traspare in alcuni scritti sul ‘Manhattanismo’ e sulla ‘Bigness’ di Rem
Koolhaas (1978; 1995).
Due visioni antitetiche: la ‘pastorale’ e ‘l’esplosiva’, per riprendere
Marshall Berman (1991), ma ambedue riportano ancora la discussione
sull’‘alternativa’ alla città esistente. Tra un velato fastidio per la vita
urbana, sotteso all’immagine ‘pastorale’, e l’immagine ‘esplosiva’ di
forze propulsive delle nuove dinamiche occorre ritrovare i termini di una
nuova condizione intermedia. Una ‘intensity city’ che, senza la nostalgica
riproposizione della città storica, giunga a incorporare questioni e
tematiche emerse nella dimensione metropolitana - intensità di flussi, di
scambi, di esperienze - nella città esistente, secondo un ‘patto’, un accordo
tra forma ereditata e nuovi contenuti urbani.
Il progressivo inesorabile compenetrarsi di parti urbane nel paesaggio
e, viceversa, di tematiche ambientali e paesaggistiche nella ristrutturazione
dello sprawl, o nella costruzione, infrastrutturazione e innovazione della
città esistente sembrano in effetti sostenere la formazione di intensity
city. E lo possiamo constatare in alcuni tra gli esempi qui presentati. La
progettazione infrastrutturale viene coinvolta da temi di paesaggio; a
sua volta quella paesaggistica, con nuova energia, torna a svolgere un
ruolo strategico e denso di significati per la città; la progettazione urbana,
abbracciando l’orizzonte metropolitano, reperisce come occasioni e
pretesti le nuove figurazioni infrastrutturali e paesaggistiche per affrancarsi
dai modelli del passato.
Nell’odierna condizione metropolitana si assiste, rispetto agli anni
precedenti, a un’inversione di tendenza riguardo le modalità di concepire
la costruzione di insediamento. Da un lato lo sprawl emerge come nuova
realtà da recuperare e ricondurre a requisiti di una vivibilità urbana,
dall’altro l’esaurimento delle aree operabili entro la città conducono a
cercare modi e forme per ‘nuove espansioni urbane’. Nel passaggio dalla
costruzione della ‘città nella città’ al restauro del territorio urbanizzato, le
emergenti forme di insediamento ibridate a nuovi modelli di paesaggi
infrastrutturali sembrano possedere quell’arte e tecnica capaci di affrontare
l’inaspettata sfida progettuale.
Stratificare nuovi usi, includere diverse forme e gradienti di densità,
intrecciare una realtà statica ai nuovi dinamismi, inglobare fatti
paesaggistici e ambientali, integrare il già noto con l’innovazione,
comporta inevitabilmente problemi e criticità. Diversi approcci del progetto
urbano, come appaiono in questo libro, si sono rivelati possibili rimedi e
provvedimenti adatti a orientare i termini di tale condizione intermedia.
Cercando di legittimare le istanze di trasformazione nel quadro di una
ritrovata nuova urbanità, partecipi delle dinamiche dell’attuale mutevole
condizione metropolitana e dei valori della città esistente.
Una multiforme pratica, che iscrive i progetti degli spazi aperti,
delle infrastrutture, degli edifici in un orizzonte più vasto, problematico
e complesso: accogliendo e al contempo trascendendo spazi aperti,
infrastrutture ed edifici stessi. Una responsabilità progettuale più elevata
che produce realtà più ampie. Ogni progetto diventa momento per dare
forma a città e paesaggio in un processo di reciproca ricerca e “in un
incessante movimento di sistole e diastole con l’ambiente circostante”
come incisivamente scrive Ignasi de Solà-Morales (2001). Un forte
impegno civile traspare in questa attuale propensione a organizzare,
conservare, articolare e integrare il nuovo all’esistente e quanto è già noto
con l’innovazione.
Almere, Stadshart
Ai bordi del Randstad, la città di Almere si estende su un territorio di centoventi chilometri
quadrati, strappato al mare da ingenti lavori di bonifica. Nel 1972, sociologi, ecologi, architetti,
economisti, paesaggisti, raccolti in un gruppo interdisciplinare, iniziano a progettare la nuova città
guardando ancora la new town di Milton Keynes a nord di Londra e i sobborghi residenziali alle
porte delle grandi città nordamericane. Costruire una città per trecentomila abitanti in pochi anni
è sicuramente impresa complessa, piuttosto rischiosa e dagli esiti finali incontrollabili. Pertanto,
e opportunamente, si pose a cardine dell’operazione una struttura morfologica come sistema
polinucleare di crescita nel tempo, palesando chiaramente la sfiducia circa la capacità dei mezzi
previsivi di programmare e controllare globalmente uno sviluppo urbano di decenni.
Via via delineandosi, lo svolgersi del progetto intrecciava strategicamente un modello di
pianificazione comprehensive con l’empirismo di aggiustamenti incrementali. Disposti ad
anfiteatro, attorno al bacino lacustre del Weerwater e lungo le linee autostradali e ferroviarie
di collegamento con le altre città del Randstad, tre nuclei vennero costruiti in tempi e modalità
differenti: Almere-Haven a sud, Almere-Stad al centro e Almere-Buiten a nord-ovest.
Ora Almere, la più grande città giardino d’Europa, è uno sprawl di case unifamiliari. Entro
il 2020 vedrà incrementare la popolazione fino a quattrocentomila abitanti, entrando nel
novero delle cinque più grandi città dei Paesi Bassi. Ma la realtà insediativa permane dispersa,
tanto dissolta nel paesaggio da risultare difficilmente percepibile nella sua consistenza fisica e
spaziale. Dagli anni novanta la municipalità, con un susseguirsi di progetti di espansione e di
densificazione, cerca di conferirle identità urbana.
Soddisfacendo alla richiesta di nuovi spazi per cultura, tempo libero e lavoro, nel 1994 Oma
- Rem Koolhaas vince una consultazione internazionale nel dar forma e identità di ‘centro’ ad
Almere-Stad. Con modelli urbani piuttosto eloquenti, due poli di attrazione vengono configurati.
Mentre un frammento di complessità metropolitana, evocato nell’affastellarsi in altezza degli
edifici, costruisce a ridosso della stazione ferroviaria lo Zakencentrum, un esercizio di sintassi
urbana attorno al tema di tessuto e tracciato dà forma allo Stadscentrum, affacciato sul bacino
lacustre del Weerwater e destinato a residenza e attività ricreative e culturali.
Oma concentra in due sole parti l’insediamento per produrre un’urbanità ad alta densità e
dalla forte immagine figurativa, l’auspicato ‘quantum leap’. Pragmaticamente dà insieme risposta
a due diverse esigenze: una dotazione di uffici e spazi direzionali, che un mercato immobiliare
alla scala dell’intero Randstad chiede per l’alta accessibilità ferroviaria, e la localizzazione nel
tessuto della città di attrezzature urbane, accessibili con l’automobile e fruibili alla scala dell’intero
sobborgo residenziale. Sovrappone due modelli di densità e allo stesso tempo due modi diversi
di vivere l’urbanità. La metropoli congestionata intreccia infrastrutture, luoghi di lavoro e di
scambio, nelle forme del ‘manhattanesimo’ caro a Koolhaas, ma messe qui in scena con minore
spregiudicatezza rispetto a Euralille. La città compatta, low rise, lega i rituali della pedonalità e
della passeggiata a modelli di consumo contemporaneo, allo shopping, all’intrattenimento.
Ai modelli di vita e alla spazialità di una città giardino propone la fascinazione di mondi ‘altri’:
tenta, per quanto possibile, di surrogare un’urbanità a ‘pronto effetto’, fornita nel breve tempo
dell’operazione di sviluppo immobiliare.
Laddove in un circolo vizioso multisala, casinò, centri commerciali, espositivi e ricreativi,
17
parcheggi, business centre usualmente alimentano lo sprawl contemporaneo, qui invece
perseguono principi insediativi opposti: vorrebbero, per brani, costruire un’intencity city,
vorrebbero, per frammenti, istillare ritualità urbane.
Il ‘centro’, una piastra pedonale sopra venticinque ettari di parcheggi, è un nuovo suolo da
suddividere in ‘isolati’ ricalcando un ‘tessuto urbano’. E’ un collage di elementi discontinui e
discreti che ricorda Kahn o Ungers in alcuni progetti degli anni settanta. Il waterfront, dedicato
allo svago e alle attività culturali, si organizza invece in modo pittoresco attorno a una sequenza
spettacolare di folie e di landmark paesaggistici.
Accogliendo le visioni futuriste della metropoli-macchina, arterie di traffico, unità abitative,
accessi agli edifici e percorsi, enfatizzati nel sovrapporsi e intrecciarsi ai flussi di comunicazione,
irradiano la vitalità di un’organica circolazione pulsante. Il parcheggio, ampia ‘darsena’ coperta,
si illumina dei riverberi della marina su cui affaccia. Gli stalli, segnati da campiture di colori
diversi a differenti gradi di lucidità, alludono ai valori percettivi della rifrazione dell’acqua ed
estendono visivamente gli effetti di luce del bacino lacustre sin dentro il parcheggio. E’ in questo
luogo privilegiato, finalmente assurto a ruolo collettivo, qui dove in un dinamico intreccio di
informazioni, accessi, arrivi e partenze ogni attività confluisce, che si aprono le lobby di ingresso
dei soprastanti edifici. La corrente pulsante dei movimenti fisici e percettivi raggiunge e coinvolge
la città sopra.
Prefigurata da Hénard nella Rue future, la città sopraelevata incontra gli entusiasmi di
Le Corbusier nella Ville Radieuse e di Hilberseimer nel Idealstadtentwurf. Di tale sistema
di complessità stratificate in sezione erano stati, già in passato, ampliamente declamati
vantaggi e pregi rispetto la città tradizionale radicata al suolo. Solo nel dopoguerra, rilanciata
dall’eroismo dei progetti degli Archigram e dei Metabolisti e di alcuni esponenti del Team X la
città sopraelevata ha potuto trovare applicazione, sebbene in stretta associazione a quei principi
del Ciam che predicavano divisione tra trasporto e fruizione, tra traffico veicolare e circolazione
umana. La Défense a Parigi, la Part Dieu a Lione, il Barbican a Londra – per citare i più noti –
sono svolgimenti, a diverse scale e a differenti livelli di complessità d’usi, della città sopraelevata,
nella declinazione del modello predicato dai precetti funzionalisti, indissolubilmente legato al
principio di separazione.
Che cosa differenzierebbe il nuovo centro di Almere da quei progetti degli anni sessanta, per
molti avveramento dei presagi di morte della città? La complessità in sezione, comune a entrambi,
qui ad Almere non comporta alcun principio di separazione: né dei flussi di traffico dai movimenti
delle persone, né delle accessibilità dalle attività, né degli edifici dagli spazi aperti, né dell’ambito
collettivo da quello privato. Ad Almere la separazione è soppiantata dall’ibridazione e dalla
coesistenza: di usi, di forme, di esperienze. Sul medesimo tema, la ‘piastra’, sin mescolano parti
diverse perché interagiscano in una più ampia complessità fruitiva.
A una fenomenologia di percezioni frammentarie Koolhaas sostituisce una continuità di
natura cinematografica, e fa sì che la narrazione coinvolga persino gli ambiti di passaggio e
d’interscambio tra usi: non più frange emarginate ma ‘soglie’, che segnino nel concreto delle
cose quelli che Benjamin chiama riti ‘tettonici e cerimoniali’. Con i materiali propri dell’architettura
contemporanea, con forme, appropriate ma nuove e temi pertinenti, Koolhaas dimostra di saper
rappresentare fisicamente e simbolicamente i nuovi riti di passaggio, e riesce a trasformare il
parcheggio nel più grande luogo collettivo della città.
Analizzando ciò che è stato costruito finora, un divario sembra però porsi tra intenzioni ed esiti.
L’approccio collagistico di Oma per ‘block’ risulta sicuramente congeniale alla partizione
tra progettisti e funzionale alla cantierizzazione per fasi distinte. Il coordinamento progettuale
parrebbe tuttavia assecondare le aspirazioni del mercato, lasciando che i diversi ‘brand’, esaltati
dalle ‘griffe’ progettuali, si staglino come segni in competizione, analogamente alla venturiana Las
Vegas.
Gli edifici residenziali sul lungolago di Claus en Kaan e di F. van Dongen, il centro
d’intrattenimento e ricettivo di Alsop, il megabioscoop di Oma, il complesso residenziale e
commerciale di D. Chipperfield, il ‘parco tematico’ a destinazione residenziale-commerciale di C.
De Portzamparc, al di là delle singole qualità architettoniche, sembra che nell’insieme sortiscano
a una mera giustapposizione di eterogenei complessi edilizi. D’altra parte il tema specifico di ogni
blocco risulta portato al parossismo, separatamente e autonomamente sviluppato, senza nessi
di reciprocità. L’organizzazione per blocchi in discontinuità di temi parrebbe oggi ridursi a una
sequenza di diversi ‘mondi allegorici’, fruibili in successione lungo percorsi e spazi aperti. Momenti
solo ravvicinati, ‘set’ distinti.
Sembra anche che il mix di usi proposti e la varietà dei progetti stiano inseguendo febbrilmente
le occasionalità del mercato immobiliare e dei consumi, assecondando eccessivamente le
contingenze, e confidando prevalentemente nella dimensione spettacolare messa in atto. Il centro
di Almere, come grande esposizione, gigantesco mall commerciale all’aperto, o theme park,
corre così il rischio di essere vincolato al breve ciclo degli eventi e dei consumi, rischiando una
rapida obsolescenza.
Fattore di resistenza sembra essere lo Stadtheater, monumento all’arte e alla cultura di Almere
di cui Saana vince nel 1999 il concorso internazionale. Sottile e trasparente piattaforma arenata
sull’acqua e diagrammaticamente suddivisa da diaframmi vetrati e pareti manovrabili in spazi
espositivi, atelier, e giardini. I volumi delle sale teatrali si ergono, icone silenti, da questa zattera
vetrata stagliandosi tra acqua e cielo. Essenziali e laconici si distinguono tra le esuberanze
spettacolari degli edifici circostanti.
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Almere, Stadshart
Progetto urbano e coordinamento: OMA
Società di sviluppo: Stadshart Almere, MAB Development
Progetti e realizzazioni: 1994 - 2012
1 Theatre: SANAA
2 Side by Side: F. van Dongen
3 Silverline: Claus en Kaan
4 The Whale: R. van Zuuk
5 Ponte: R. van Zuuk
6 Swamp Garden: Inside/Outside
7 Hotel: Alsop Architects
8 Casla: Lanoire & Courrian
9.Esplanade: M. Desvigne
10 Utopolis: OMA
11 The City: van Sambeek
12 De Citadel: C. de Portzamparc
13 The Jewel: D. Chipperfield
14 Bibliotheek Almere: Meyer & van Schooten
15 Smaragd: Gigon & Guyer
16 Commercio: De Architectengroep
17 Angle: S333
17 Stazione ferroviaria
18 World Trade Center: De Architekten Cie
19 La Défense: UNStudio
7
Stadshart
10
14
19
15
1
16
18
9
9
13
12
Zakencentrum
12
13
6
5
14
11
10
20
11
1
17
8
3
2
7
6
4
5
3
4
8
2
0
50
100 200m
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
Amsterdam, Borneo Sporenburg,
Oostelijk Havengebied
L’attuale assetto morfologico degli Oostelijk Havengebied ad Amsterdam è evidente
conseguenza di un cambiamento di rotta nella contemporanea progettazione urbana olandese.
La spinta degli anni settanta a coordinare pianificazione urbana ed edilizia abitativa pubblica
si era andata via via affievolendo, anche in seguito alla crisi economica che aveva costretto ad
accelerare la riforma del welfare state. L’edilizia abitativa pubblica venne privatizzata, mettendo fine
a quel lungo connubio tra pianificazione e programmazione abitativa, che aveva contraddistinto le
politiche urbane olandesi fin dai tempi dell’emanazione della Woningwet, la legge del 1901 sulle
abitazioni.
Sulla crisi del legame tra pianificazione ed edilizia pubblica si innesta con vigore, negli anni
ottanta, la questione della densità urbana come alternativa allo sprawl e, in concomitanza, la
necessità della riconquista, nelle grandi città portuali, delle aree dei dock ottocenteschi, per lo più
ubicati in aree strategiche della struttura urbana.
In particolare ad Amsterdam la trasformazione dei dock, estesi per gli interi Oostelijk Haven
e sulle penisole artificiali Knsm, Java, Borneo Sporenburg, diventa non solo occasione di sviluppo
urbano, ma anche di un ripensamento generale della città, tale da coinvolgere la riforma viaria,
ferroviaria e del trasporto pubblico.
A partire dal 1987 il progetto strategico per l’area dei Oostelijk Haven elaborato dal dRO
(Ruimtelijke Ordering), l’ufficio municipale di progettazione urbana di Amsterdam, lascia intatti
i bacini portuali e colloca alta densità edilizia secondo i principi morfologici del masterplan di
Rem Koolhaas del 1983. In uscita tra Borneo e Sporenburg il tunnel di collegamento viario e
tranviario relaziona la città con la viabilità territoriale delle penisole, promuovendo in tal modo la
riqualificazione delle aree. Il programma abitativo, a destinazione prevalentemente residenziale,
con circa 8500 alloggi e relativi servizi, venne ripartito in tre progetti urbani affidati, tramite
consultazione, a tre progettisti, esterni alla struttura pubblica. Tra il 1989 e il 1993 Jo Coenen per
Knsm, Sjoerd Soeters per Java, West 8 per Borneo Sporenburg elaborarono i rispettivi masterplan
e con il ruolo di coordinatori, sovrintesero le progettazioni edilizie affidate ad altri architetti.
Seguendo le direttive del masterplan del 1997 di Hans van der Made del dRO, con la riforma
dell’Handelskade, lo scalo ferroviario, anche le aree a est della stazione ferroviaria vengono
coinvolte nella dinamica urbana lasciando che i dock possano finalmente connettersi, fisicamente
e fruitivamente, con il centro città e che una nuova continuità urbana possa estendersi per oltre
quattro chilometri.
Di questa grandiosa operazione di riqualificazione e sviluppo, il pubblico si riserva il compito
nodale di promuovere, progettare, guidare e controllare gli esiti, oltre che di negoziare con gli
investitori privati, a cui sono trasferiti i diritti edificatori, la scelta dei progettisti e una quota di edilizia
pubblica, non diversa, per qualità e standard, da quella destinata al mercato.
Ripresa la tradizione di edilizia pubblica olandese degli anni settanta, in parte aggiornata
con il recupero delle convenzioni urbane, J. Coenen compone lungo l’asse centrale della Knsm
una sequenza di superblocchi residenziali: il ‘Piraeus’ di H. Koolhoff, l’‘Emerald Empire’ dello stesso
J. Coenen, il ‘Langhaus’ di Diener & Diener. ‘Ordine gigante’, landmark urbani che vorrebbero
segnalarsi alla scala del paesaggio portuale, sebbene esprimano ancora una dimensione
istituzionalizzata dell’alloggio e un’idea di urbanità astratta, che a difficoltà riesce a sostanziare gli
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spazi aperti che genera.
A Java, una sequenza di cinque superisolati, delimitati da strade-canali, si riallaccia
all’esperienza delle hofe di Amsterdam Sud e ibrida modelli di densità urbana con un’apertura
paesaggistica: un giardino interno attraversa longitudinalmente l’insediamento per accogliere
scuole e servizi di quartiere. Per evocare le complesse stratificazioni della città storica viene qui
simulato un principio di divisione catastale in un gioco combinatorio che vede partecipare
differenti architetti, tra cui Cruz & Ortiz, S. Soeters, Kerelse & van der Meer, Geurst & Schulze.
Agli esperimenti di ‘polifonia architettonica’ di R. Krier all’Iba 84, reinterpretati da O. Bohigas
nella Villa olimpica, all’ aleatorio ‘montaggio surrealista’ di A. Rossi alla Friedrichstrasse od ai
collage tipologici di O.M. Ungers alla Lutzoplaz di Berlino, si attinge per generare un’urbanità
empirica che sebbene per eccessiva frammentazione non riesca a misurarsi con la grande scala
degli spazi portuali, risulta realmente fruibile alla piccola scala della strada. E’ invece il waterfront
lungo l’Handelskade a reggere la grande scala, riprendendo l’ampia scansione delle precedenti
warehouse. Ibrida edifici lineari lungo le banchine con blocchi alti lungo i fasci infrastrutturali,
generando frammenti di iper-densità metropolitana.
Se sulle penisole Knsm e Java si è edificato prevalentemente a blocchi di appartamenti,
secondo i dettami dell’urban design, nelle vicine Borneo Sporenburg invece il mercato immobiliare
ha sollecitato una tipo-logia abitativa suburbana low-rise: singole case con fronti e ingressi separati,
aperti sulla strada. La municipalità assecondò le richieste degli investitori, ma allo stesso tempo
impose, parametro non negoziabile, un’altissima densità: 100 case per ettaro. La paradossale
coincidenza di tipologie suburbane e città densa sollecitò l’invenzione di nuove tipologie abitative.
West 8, vincitore nel 1993 della consultazione indetta dalla New Deal, società mista di sviluppo
dell’area, lavora accettando consapevolmente di innestare high-density su low-rise, in antitesi agli
altri progetti dove, mutuato dall’esperienza del New Urbanism, ancora veniva proposto il garden
suburb.
Il nuovo assetto morfologico fa leva sulla presenza dell’acqua e dell’infrastruttura portuale
esaltandone le valenze paesaggistiche: ‘vento, aria, luce, profumi, riflessi solari, rifrazioni degli
elementi naturali’, come materiali impiegati sostanziano il progetto, nell’esprimere e valorizzare
questa inusuale situazione urbana. Si prefigurano case affacciate sull’acqua per godere della
privilegiata condizione ambientale e conferire qualità abitativa, nonostante la scarsa disponibilità di
suolo urbano e collettivo.
Bassi edifici, organizzati in rigorosi comparti suddivisi in parcelle, si strutturano per bande,
analogamente alla campitura del suolo predisposto per le coltivazioni più che all’ordinamento
di un tessuto urbano, e generano un insediamento capace di vuoto e costruito in equilibrio tra
continuità e varietà. Alternare edifici a piccoli slarghi, chiusure a cosmici orizzonti scandisce, in
proficua interazione, il custodito dello spazio urbano dall’aperto di larghe viste.
La trama regolare delle parcelle viene interrotta in corrispondenza di tre grandi vuoti
dominati dalla presenza di blocchi edilizi scultorei, the meteorites, dislocati accidentalmente rispetto
alle principali geometrie. Questi edifici, eccezionali per forma e tipologia, contrastano la continuità
del parterre di tessuto edilizio a due-tre piani e rispondono alle sollecitazioni della grande scala
della città e del fiume. La plasticità scultorea di questi volumi a blocco, deformati ed erosi per aprire
ampi traguardi e poter introiettare i valori ambientali, come faceva della campagna la pittura
fiamminga del Cinquecento, li staglia come segni riconoscibili nell’ampiezza dello skyline urbano,
collega il ‘mare di abitazioni’ alla città e al paesaggio, offre l’occasione di manipolare e rinnovare le
tipologie residenziali.
Assumere il tessuto urbano come ‘metafora’, non come ‘modello’, permette di agire con
spregiudicatezza, perturba le certezze presunte intorno alle categorie urbane e relativizza gli ambiti
oppositivi di pubblico e privato. Tracciati, lotti, monumenti, svuotati di ogni valenza fondativa,
si riducono a niente più che principi di organizzazione morfologica, a criteri di gestione delle
pluralità per coordinare, all’interno di un progetto dagli esiti relativamente unitari, i trentacinque
gruppi di architetti coinvolti. Fermandosi all’analogia, la ‘secolarizzazione’ dell’urbano permette di
scostarsi dai riferimenti assunti - il lotto gotico, le fondamenta, i canali - e di avviare un lavoro di
sperimentazione su singoli elementi che giunge perfino a rovesciare le categorie della città storica:
e allora il ‘tipo’, frutto dei molteplici esperimenti attorno alla pluralità dei modelli abitativi, non
implicherà più ripetizione ma varietà, e la ‘parcella’, invece di custodire il privato, si aprirà in visuali
e trasparenze sulla strada e sui canali, e come loft e store sarà forma nuova del ‘pubblico’.
La strada, solamente tracciato e principio di allineamento, si nega come fatto pubblico. La
contrazione degli elementi convenzionali dello spazio pubblico, dei quali oggi al contrario si
abusa in forme e contenuti, coincide con il conferimento di valenza collettiva al paesaggio del
mare e al bacino portuale, qui vero ‘luogo pubblico’. Usato strumentalmente il ‘rapporto tessuto
e monumento’, caposaldo della concezione dell’urbano, diventa pretesto paesaggistico per aprire
visuali e trasparenze, per uscire dalla città e dialogare con le infrastrutture del porto e la scala
geografica.
Un progetto di trasformazione urbana che agisce alla ‘scala intermedia’, tra edificio e città,
non può trascendere la scala minuta del singolo edificio. Anzi proprio a partire dall’innovazione
dell’edificio è possibile rovesciare in efficacia vincoli e attriti della concezione morfologica alla
scala urbana. Nei workshop, camera di compensazione tra individualità progettuale e strategia
generale, oltre che cassa armonica delle creatività, si offrì la possibilità di reinventare, arricchendoli,
i principi di progetto. Qui, al di fuori di vincoli accademici o di appartenenza culturale, la ricerca
architettonica e tipologica, orientata da linee guida morfologiche, unì giovani architetti a firme
affermate come Oma, Mateo, architeckten Cie, Mvrdv, Holl, Miralles. In un reciproco confronto
essi prefigurarono modelli residenziali non convenzionali, cinque tipologie di base e un ricco spettro
di variabili e pattern distributivi. Senza cadere in astratti esercizi linguistici o nella compilazione
di un virtuosistico campionario di stili personali riuscirono a far si che una certa differenziazione
architettonica e tipologica, sviluppatasi in corso d’opera, risultasse funzionale alla configurazione di
un’unitarietà d’insieme: sea of houses, una continuità perseguita per produrre un’identità tanto forte
da evocare un fatto paesaggistico o geografico.
Una rete minore di percorsi, si sovrappone alle regolarità dell’insediamento e connette le
due penisole attraverso tre ponti, progettati da West 8, per le loro qualità scultoree tratto distintivo
dell’insediamento. Due ponti gemelli attraversano il bacino con una campata di cento metri. Uno
per ciclisti e disabili corre sul filo dell’acqua, l’altro si impenna in altezza, evocando la struttura
scheletrica di un gigantesco cetaceo, e al culmine dei suoi venti metri d’altezza diventa belvedere
aperto sul paesaggio dei tetti e degli orizzonti del porto. Surplus d’immagine e di forma conferisce
energia al quartiere e trasforma gli at-traversamenti in un fatto ludico e spettacolare.
36
37
Amsterdam, Borneo Sporenburg, Oostelijk Havengebied
Borneo Sporenburg
Progetto urbano e coordinamento: West 8
Società di sviluppo: New Deal
Progetti e realizzazioni: 1993 - 2000
Java
Java
Progetto urbano e coordinamento: Sjoerd Soeters
Società di sviluppo: Amsterdam Local Authority
Progetti e realizzazioni: 1994 - 2008
2
3
6
5
2
5
Knsm
Progetto urbano e coordinamento: Jo Coenen
Società di sviluppo: Amsterdam Local Authority
Progetti e realizzazioni: 1987 - 1996
2
4
4
3
2
4
5
1
Knsm
13
11
3
Handelskade
10
Handelskade
Progetto urbano e coordinamento: DRO - Dienst Ruimtelijke Ordening
Società di sviluppo: Amsterdam Local Authority
Progetti e realizzazioni: 1997 - 2013
6
9
12
8
9
7
7
8
12
Sporenburg
1
1 The Bruggen: T. Venhoeven, J.Schaeferbrug
2 Residenza: Cruz & Ortiz
3 Residenza: K. Christiaanse
4 Residenza: S. Soeters
5 Residenza: Karelse & van der Meer
6 Edificio ibrido: Koetter & Salman
7 AWG: B. van Reeth
8 Edificio ibrido: CASA Architekten
9 Langhaus: Diener & Diener
10 Piraeus: H. Kollhoff
11 Skydome: W. Arets
12 Residenza: B. Albert
13 Emerald Empire: J. Coenen
14 Isolato: N. Riedijk, Claus en Kaan, Köther en Salman, R. Visser
15 Isolato: Atelier Zeinstra, van Sambeek & van Veen
16 Isolato: Heren 5, van Sambeek & van Veen
17 Isolato: JHK
18 Isolato: DKV, Höhne & Rapp, van Sambeek & van Veen
19 Isolato: Claus en Kaan, Heren 5, M3H, van Sambeek & van Veen
20 The Whale: De Architekten Cie
21 Isolato: Atelier Zeinstra
22 Isolato: JHK
23 Isolato: Atelier Zeinstra, DVK, van der Donk, Höhne & Rapp
24 Isolato: Claus en Kaan, van Sambeek & van Veen
25 Isolato: Köther en Salman, van Sambeek & van Veen
26 Isolato: Claus en Kaan
27 Isolato: Claus en Kaan, JHK
28 House: UNStudio
29 House: E. Milralles
30 Isolato: Atelier Zeinstra, Tupker & van der Neut, S. Sorgdrager, van der Pol
31 De Pacman: K. Van Velsen
32 Isolato: K. Christiaanse
33 Isolato: De Architectengroep
34 Isolato: Faro Architecten, Marge Architecten, R. Uytenhaak
35 Isolato: R. Uytenhaak, Heren 5
36 Isolato: Tupker & van der Neut, Atelier Zeinstra, S. Sorgdrager
37 Isolato: L. Mateo, Van Herk en De Kleijn
38 Ponti pedonali: West 8
0
50 m
15
14
18
11
17
16
10
15
21
16
23
22
28
27
13
14
26
24
19
38
25
38
32
31
18
30
20
33
29
19
Vrije kavels
17
37
36
35
Borneo
34
100 m
200 m
0
50
100
200m
1
2
4
3
5
6
8
7
9
10
11
12
13
PIANO PRIMO
14
15
16
17
19
18
20
Amsterdam, Zuidas
Zuidas, comparto del Southern Axis, il piano di espansione lungo le autostrade, tra Amsterdam
Sud e l’aeroporto di Schiphol, segna il punto di svolta nei processi di costruzione della città dei
Paesi Bassi e anticipa gli sviluppi nella costruzione della città in Europa. Durante gli anni ottanta,
nelle strategie di riconquista della città esistente, densificazione e infrastrutturazione furono il
fulcro del programma di qualificazione urbana. Rivolgimenti produttivi e riforme infrastrutturali
sollecitavano una riorganizzazione di aree dimesse e del waterfront.
Una diversa contingenza accoglie il progetto Zuidas. Il mutamento radicale delle politiche
urbane, inaugurato dagli orientamenti neo-liberisti, incalza la metamorfosi del progetto
urbano, ne solleva questioni nodali, improntandone i futuri sviluppi. Rovesciando la precedente
tendenza all’accentramento si prefigurano nuove espansioni, forme nuove di centralità fuori
dalla città. Si pone l’accento sulla valorizzazione economica delle operazioni di costruzione
urbana, assecondando le aspettative delle correnti forme di finanziarizzazione immobiliare. Le
infrastrutture, lette in ottica neo-keynesiana, si vogliono volano nel rilancio degli investimenti:
se la questione della riforma urbana avveniva prima in concomitanza alla riorganizzazione
infrastrutturale, a generare nuove occasioni insediative sono ora le rendite posizionali, offerte da
una nuova topografia delle accessibilità a seguito delle infrastrutturazioni in compimento.
Valutandone le ampie implicazioni, socioeconomiche, ambientali e insediative, Zuidas
non può essere considerato come sviluppo urbano contingente e transitorio, creatosi da
un’occasionale coincidenza di fattori, quali la vicinanza all’aeroporto e la presenza di aree
operabili e di infrastrutture della mobilità. Zuidas va letta come esperimento nella creazione di
nuova centralità urbana che non si origina dalla città esistente, come ancora accade per Euralille,
Seine Rive Gauche, Potsdamer Platz. Risulta nodo nel network delle ‘centralità globali’, che
nella compressione spazio-temporale generata da mezzi di comunicazione a scala continentale
fruiscono dell’alta accessibilità e, come gli aeroporti e le stazioni dell’alta velocità, godono dei
vantaggi, e al contempo subiscono gli svantaggi, di un’intrinseca condizione di a-topicità.
Recuperate le aree dimesse nel cuore delle città, riutilizzati gli scali ferroviari, riqualificati
waterfront e dock, sembrano aprirsi ora nuove opportunità insediative in concomitanza di riforme
infrastrutturali della mobilità di interscambio con gli aeroporti. La zona di prossimo sviluppo tra
Bilbao e l’aeroporto di Sondica, l’area di PortaSud tra la città storica di Bergamo e l’aeroporto
Milano Orio al Serio, i business park che stanno nascendo attorno agli aeroporti di Luton e
Heathrow a Londra e vicino all’aeroporto di Francoforte, mostrano una forte propensione nel
concepirsi come nodi di una rete globale che trascendono e superano la scala urbana e locale.
Generate dall’alta accessibilità intermodale e aeroportuale enormi opportunità, economiche
e sociali, chiedono di essere governate. Ma occorre rompere le consuetudine di configurare
enclave monofunzionali e indirizzare invece le risorse verso la realizzazione di vere e proprie parti
di città, multifunzionali e vitali. ‘Centri globali’, per citare Hall, Sassen o Castells, che possano
tuttavia porsi a cerniera tra una rete di relazioni e di scambi transnazionali e le città esistenti, come
occasione di reciproco rilancio e arricchimento.
Aspirazione che Zuidas soddisfa, facendosi esempio emblematico. Generando sinergie
intreccia tre aspetti nodali: il governo del potenziale economico indotto, la configurazione di un
nuovo quadro di convergenze tra politiche urbane e territoriali, l’integrazione di molteplici finalità
57
insediative.
Il potenziale economico è frutto di una convergenza di interessi: finanziari e immobiliari per le
grandi banche olandesi propense a decentrare riunendo le loro sedi in prossimità dell’aeroporto,
strategici per la municipalità di Amsterdam a cui urgeva riorganizzare i fasci infrastrutturali lungo
la A10 e le linee dell’alta velocità. L’accordo siglato nel 2000 dalle istituzioni governative con
le banche confermò l’impegno del capitale privato ad acquisire dal pubblico i diritti volumetrici
generati dall’interramento dei fasci viari e ferroviari, a compenso degli oneri pubblici per
riqualificare le infrastrutture.
Ma nell’ambito delle politiche insediative diviene necessario mutare anche il quadro di
riferimento normativo e procedurale. Zuidas incalza un rinnovamento normativo e legislativo
e delle modalità decisionali, paragonabile, per portata, al superamento della pianificazione
comprehensive operato dai ‘progetti speciali’ negli anni ottanta. Occorre infatti trovare piani di
intesa tra decisioni d’ordine ‘locale’, riguardo per esempio la collocazione dei nuovi insediamenti,
per lo più competenza degli enti locali, e le decisioni d’ordine ‘generale’, riguardanti per esempio
la programmazione e realizzazione di infrastrutture territoriali, di pertinenza del governo centrale
o di enti settoriali. Spezzare rigidità e separazione delle competenze ha permesso di rinvenire
piani di convergenza e di intrecciare sinergicamente infrastruttura e città, due realtà ancora oggi
difficilmente conciliabili.
Dare origine a una parte di città reale e vitale presuppone un alto livello di complessità e
intensità urbana. Significa cioè integrare molteplici finalità insediative e allacciare in proficua
interazione prospettive differenti, paesaggistiche e infrastrutturali, ecologiche e di sostenibilità
ambientale, sociali e culturali. Zuidas accogliendo una complessità e molteplicità di usi coinvolge,
insieme ai quartieri residenziali a nord e a sud, ora separati dai fasci infrastrutturali, i dispositivi
urbani limitrofi, il World Trade Centre, la sede della Free University, il RAI Exhibition Centre. Una
città vivibile, di uffici, ma anche di case e giardini, di traffici pedonali e scambi. Diversa dal
business district alla Défense o alla Canary Warf improntati prevalentemente sul lavoro. Qui il
riferimento privilegiato va invece a Seine Rive Gouche e a Potsdamer Platz, dove multifunzionalità
e mescolanza di modelli urbani producono realmente urbanità.
Già nel primo masterplan, redatto nel 1998 da PI de Bruijn, partner di De Architekten Cie, in
collaborazione con il DRO (Dienst Ruimtelijke Ordening), il dipartimento di progettazione urbana
della municipalità, questi indirizzi si erano chiaramente palesati. Un nuovo suolo di isolati e
blocchi urbani steso tra le sponde della trincea infrastrutturale va a relazionare spazi aperti, parchi
e giardini con le attività già insediate, con i quartieri urbani di Berlage a nord e l’espansione
residenziale di van Eesteren a sud. Un’interpretazione della Griglia che lascia ampi margini di
flessibilità nel configurare edifici e spazi. Si implementa una strategia di sviluppo duttile, passibile
di aggiustamenti e capace in corso d’opera di accogliere opportunità e assorbire impasse
decisionali. Elasticità dimostratasi vantaggiosa nell’attesa di trovare soluzione alla querelle siglata
dall’alternativa Dock o Dike.
La questione dei fasci infrastrutturali (autostrada, ferrovia, metropolitana), che correndo nel
centro di Zuidas costituiscono sicuramente un motore di sviluppo, apre infatti un cruciale dilemma
nella scelta del modello insediativo.
La soluzione del Dock, sebbene onerosa, convoglierebbe interamente in tunnel, per oltre un
chilometro, le infrastrutture della mobilità che tagliano in due l’area di sviluppo. Una grande
tolda artificiale - già sperimentata a New York, Londra, Parigi coprendo gli scali ferroviari consentirebbe il riutilizzo delle superfici ricavate, lasciando che una nuova città potesse erigersi
sopra strade e binari. L’aumento della superficie fondiaria si sommerebbe ai vantaggi offerti dalla
riunificazione dell’area e dalla diminuzione dell’inquinamento atmosferico e sonoro, generando
quel plusvalore economico necessario a sopperire ai costi della trasformazione infrastrutturale.
Pur raccogliendo, sin dalle prime formulazioni progettuali intorno alla fine degli anni novanta,
consensi e il favore dell’amministrazione pubblica, ancor oggi permangono incertezze circa gli
effettivi benefici e i reali costi che la realizzazione della proposta comporterebbe. Si calcola che la
costruzione del Dock e la riforma infrastrutturale possa incidere sui costi della superficie costruibile
generata di circa duemila euro al metroquadrato. Sovrapprezzo considerato troppo elevato
rispetto gli attuali valori immobiliari.
58
59
Amsterdam, Zuidas
Progetto urbano e coordinamento: DRO, Zuidas Amsterdam Development Office
Società di sviluppo: Zuidas Amsterdam Development Corporation
Progetti e realizzazioni: 1998 - in corso
1 World Trade Center: KPF
2 Zuidplein
3 ABN Amro: Pei Cobb Freed & Partners
4 Uffici: R. Viñoly
5 Uffici: T. Ito
6 Uffici: SOM
7 The Baker & McKenzie House: M. Graves
8 Uffici: F. van Dongen
9 Uffici: E. van Egeraat
10 Uffici: UNStudio
11 Symphony: De Architekten Cie
2
Noordzone
Beethoven
3
2
1
1
4
Zuidasdok
5
9
7
9
13
10
8
4
10
6
3
7
6
5
11
Mahler 4
12
8
14
11
Gershwin
Ravel
0
0
50 m
100 m
200 m
500 m
50
100
200
500m
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
Barcelona, Vila Olimpica, Forum 2004
Concomitante alla riorganizzazione amministrativa partita nel 1979 con l’istituzione della
Corporaciò Metropolitana de Barcelona, prende avvio un ripensamento generale sulla città e sul
ruolo da essa giocato rispetto alla conurbazione cresciuta attorno. Le istanze di riqualificazione
puntano a fare di Barcellona una capitale del Mediterraneo, e a tal fine avviano un progetto
strategico. Prendendo congedo dalle previsioni espansive del Plan General del 1976, vengono
accolti alcuni fermenti teorici che aleggiano in quegli anni in Europa e che, in alternativa
all’espansione urbana, auspicano la ricostruzione della città su se stessa. La politica di urbanismo
estratégico, che Oriol Bohigas in quegli anni propugna a Barcellona, conta su attuazioni puntuali,
capaci di attivare la rigenerazione delle parti circostanti in “sorta di benefica ‘metastasi’ nel tessuto
urbano”.
Recuperation, la strategia messa in atto, agisce su più fronti e nell’iter dei lavori vede
alternarsi diverse scale di intervento. In un primo momento la riqualificazione dei piccoli spazi
urbani nel cuore del Ciutat Vella comporta un lavoro alla scala microurbana. In seguito parziali
riorganizzazioni infrastrutturali intervengono sul trasporto pubblico e si recuperano a spazi collettivi
aree marginali dell’Ensanche e della prima periferia storica.
Quando il progetto urbanistico così avviato si innesta sul programma del 1985 per le Olimpiadi
del 1992, cambiano portata e fine degli interventi. Un’idea-fuerza si impone e vorrebbe che le
molteplici tematiche legate alle manifestazioni olimpiche - nuove accessibilità, nuovi servizi e
strutture di accoglienza, nuove attrezzature sportive e ricreative - divenissero parte integrante di
una più ampia azione di riqualificazione e ammodernamento, capace di prefigurare una nuova
immagine della città da spendere anche nella compagine amplificata dei media. ‘Le olimpiadi
durano quindici giorni ma la città rimane per sempre’ afferma il sindaco Maragall. L’ebrezza
della ribalta e la volontà di rivalsa di una città che per decenni si è dovuta chiudere su se stessa
impongono di mutare lo slogan iniziale: da recuperation in innovation. Riconoscendo nel ‘progetto
urbano’ il metodo operativo per intervenire alla ‘scala intermedia’, tra morfologia della città e reale
formalizzazione di spazi ed edifici, ci si oppone alle forme estreme di deregulation urbanistica. Si
configura, al contrario, una strategia che, a partire da progetti concreti, efficaci nel convogliare
risorse e opportunità, giunga, nel ripensare la forma urbis in relazione alla scala metropolitana, a
riconquistare il mare e riformare il sistema delle infrastrutture.
Nel 1985 il progetto strategico promosso da J. Busquets individua dodici ‘Nuove centralità’,
concepite come veri e propri brani di città, complessi e articolati, dove, tra altre funzioni, si possano
localizzare ‘anche’ le attrezzature olimpiche. Le ‘Nuove centralità’, sono tra loro relazionate e
interconnesse dalle Rondes, strade di collegamento che la riforma dei Cinturones concepisce con
criteri urbani, così da configurarsi come itinerari nella città e insieme permettere facile accessibilità.
Nell’istaurare una relazione tra la collina di Montjuïc e la zona industriale del Poblenou emerge
il problema della riconversione del waterfront, convogliando verso il mare le energie della città.
Con forza e audacia il progetto rovescia un secolare rifiuto del fronte marino, che già Cerdà,
spingendo le energie espansive verso l’entroterra, aveva messo in sottordine e a cui, nel corso del
novecento, la città volgerà le spalle allocandovi la grande area industriale legata alla ferrovia e al
porto.
Nel 1984, il completamento del Moll de la Fusta su progetto di M. de Solà inaugurò, con la
prima tratta della Rónda Litoral, un intervento di trasformazione che in meno di venti anni conquista
75
circa sei chilometri di mare e spiagge - dal Montjuïc verso la Barceloneta, per la Vila Olimpica e
il porto turistico, per il Parque de Litoral e del Poblenou e le loro spiagge, fino alle operazioni di
sviluppo della Diagonal mar, l’Esplanade del Forum 2004 e la riqualificazione della foce del Besòs
- offrendo alla città uno spazio pubblico e paesaggistico così grande che ancora non ha avuto
eguali in Europa. Paragonabile, per valore urbano e ambientale, e apertura a valenze collettive,
solo ai grandi lavori roosveltiani, quando Moses portò New York sulle spiagge di Long Island.
Guidato da principi di un’‘urbanistica urbana’ prese allora avvio un lungo processo, dimostratosi
realmente capace di produrre segni stabili nella forma urbana.
Nel 1985 lo studio Mbmp inizia a progettare la Vila Olimpica, a cui è riservato un ruolo
d’importanza strategica nella trasformazione di Barcellona. Elemento chiave per la riconfigurazione
del waterfront, dovrà riorganizzare lungo la costa il sistema infrastrutturale, cercandone la
compatibilità con l’insediamento e dar vita a una parte varia di città, dove compresenza di usi,
forme e spazi aperti offra un’abitabilità consona alle aspettative contemporanee. La messa in
forma di una parte così complessa di città vedrà il progetto urbano affrontare questioni nodali
nel processo di riorganizzazione. Dalla concezione sino alla realizzazione si dovrà misurare con il
rinnovamento delle ‘convenzioni urbane’ in vista delle contemporanee esigenze fruitive, il governo
degli equilibri tra continuità urbana e varietà edilizia, tra città esistente e nuovo assetto, la gestione
dei conflitti tra le infrastrutture extraurbane e la fruizione urbana dei luoghi. La Vila Olimpica
rappresenta una delle prime sperimentazioni contemporanee di ‘progetto urbano coordinato’. E
ne ha messo alla prova le capacità, scandagliato potenzialità, implicazioni e limiti, mostrandone
l’efficacia come strumento operativo, tanto da aprirne ampi seguiti in Europa.
Nella volontà di ripercorrere e trascrivere le ‘convenzioni’ ereditate dalla città storica, le proposte
morfologiche per la Vila Olimpica si riallacciano ai fermenti di revisione critica dell’urbanistica
moderna, l’esperienza non ancora conclusa dell’Iba 84 a Berlino e i contributi teorici del
‘movimento di ricostruzione della città’. Lo spazio pubblico diventa fatto stabile e duraturo a
cui ancorare la nuova urbanità, l’isolato urbano, reinterpretato dal revisionismo di Bohigas,
rappresenta l’elemento intermedio che permette l’edificazione per singole parcelle edilizie da
affidare a diversi progettisti.
L’opzione tipo-morfologica si intreccia con la necessità di riorganizzare radicalmente le
infrastrutture che tagliano e separano dal mare la città. La concezione d’insieme si lascia guidare
dalle specificità del luogo: i tracciati regolari dell’Ensanche partiscono nuovi isolati, la linea sinuosa
del litorale diventa matrice del parco lineare allacciato alla Ronda, il raccordo ferroviario si fa
margine del nuovo insediamento sul Parque de la Ciutadela, l’affaccio sull’orizzonte sollecita la
‘palazzata a mare’ sul Parque de Litoral. La morfologia d’impianto, nella tradizione rinnovata della
City beautiful, tiene in equilibrio le istanze urbane, suffragate dai tracciati dell’Ensanche, e il disegno
delle nuove infrastrutture nella esaltazione dei pregi ambientali. Un substrato fisico e concettuale
che intreccia assetto urbano, riorganizzazione infrastrutturale, paesaggio ed edificazione. Linee
guida orientano il lavoro di una trentina di architetti, tra cui Amadò, Domènec, Boffill, Pinòn e
Viaplana, Bach e Mora, Lapena-Torres, Bonell-Rius, Tusquets, col fine di produrre una controllata
varietà, contrappunto a una prevalente uniformità morfologica.
Un’area urbana, per anni consegnata alla frequentazione di abitanti e turisti, deve ora
duramente competere con le nuove energie attrattive distribuite lungo la costa, confrontandosi con i
nuovi modelli di trasformazione urbana avviati in occasione del Forum Universale delle Culture del
2004.
Localizzato a nord del Poblenou lungo la Diagonal, tra Plaza Glories e la confluenza del Riu
Besòs, il grande progetto urbano del Forum 2004 segna il mutamento delle politiche urbane della
municipalità di Barcellona. Dal 1998 in deroga al Plan General Metropolitano, assecondano
la tendenza al leverage planning, portato in Europa continentale dalla cultura anglosassone,
vengono introdotti criteri di maggiore flessibilità e il ricorso alla pratica della negoziazione ‘caso per
caso’. Per supplire alla scarsità di finanziamenti pubblici, si attirano nei processi di trasformazione
urbana capitali privati, anche provenienti dall’estero, convogliandoli in investimenti immobiliari
resi economicamente appetibili. Il cambiamento di scala nel passaggio da città a metropoli,
indispensabile nella competizione globale degli investimenti, spinge verso l’accentuazione di
particolari usi - convegnistici, espositivi, commerciali, ricettivi - per collocare Barcellona nel mercato
delle attrazioni internazionali, rafforzandone la propensione a touristy city.
Il Forum Universale delle Culture del 2004 rappresenta, come le precedenti Olimpiadi,
occasione e stimolo per riqualificare parti marginalizzate e depresse della città e al contempo
momento di riflessione intorno a un generale rinnovamento dell’immagine urbana. Ma se gli anni
passati prospettavano una riqualificazione della città in continuità con i valori urbani esistenti,
con il Forum 2004 muta il quadro dei riferimenti. Il rimando d’obbligo va ora all’ormai diffusa e
predominante propensione ad avviare riforme urbane allestendo eventi di risonanza internazionale,
il successo mediatico dei quali trascinerebbe la riuscita commerciale e immobiliare dell’operazione
di trasformazione. Successo a cui comunque concorrono più fattori: l’immissione di nuove e
dirompenti funzioni, la promiscuità di differenti usi e offerte fruitive e, non ultimo, l’uso spettacolare
delle firme architettoniche.
La nuova parte di città snodandosi lungo il mare appare come una collazione di differenti
interventi, ognuno dei quali originato da una particolare tematica insediativa. Un approccio
empirico asseconda la destrutturazione provocata dallo scontro tra l’irruente solco autostradale
della Ronda Litoral e il regolare disegno delle propaggini dell’Ensanche. Brani di città e di paesaggi
‘in collisione’, direbbe Colin Rowe, dove un antagonismo di segni inscena un generic landscape
di torri, piastre, suoli artificiali, giardini e svincoli, che affiorano tra nuove e vecchie infrastrutture.
Appaiono, ai bordi dell’Esplanade di Lapena-Torres dispiegata per venti ettari come gigantesco
foglio di origami, il flottante Forum di Herzog&deMeuron e, simile a un’infrastruttura portuale,
il lungo Centro Convegni di Mateo. Dietro, a segnare l’imbocco della Diagonal, le torri del
piano di Kpf si innalzano dal parco di Miralles-Tagliabue, triangolando, con la torre Agbar di J.
Nouvel in Plaza Glòries e quelle di Som e Ortiz-Leon alla Vila Olimpica, la continuità orizzontale
dell’Ensanche.
A fulcro geometrico e simbolico dell’area un grande, rarefatto e dilatato vuoto, coperto per parti
da possenti ombraculi-belvedere a sostegno della centrale fotovoltaica. Suoli staccati, spaccati dai
segni infrastrutturali, piastre in lenta deriva, increspate e corrugate da dune vegetali o minerali, si
raccordano a esplanade artificiali nell’Auditoria Park di Foa e nella Bathing area di Beth Galì, o
travalicano infrastrutture e ingombri edilizi nel Parc de Litoral nord-est di Abalos&Herreros, parterre
della grande centrale d’incenerimento assurta a monumento tecnico.
76
77
Diagonal mar
16
Vila Olimpica
14
7
22
8
8
19
1
11
10
10
4
17
3
6
2
2
19
12
5
11
14
22
4
6
24
Diagonal Mar
Progetto urbano e coordinamento: KPF
20
18
25
16
Barcelona, Vila Olimpica, Forum 2004
Vila Olimpica
Progetto urbano e coordinamento: MBMP
Società di sviluppo: Nova Icària SA
Progetti e realizzazioni: 1985 - 1994
26
23
13
3
1
21
Forum 2004
15
13
30
17
9
5
12
18
15
7
9
29
20
21
0
Società di sviluppo: Hines
Progetti e realizzazioni: 1999 - 2004
Forum 2004
Progetto urbano e coordinamento: Josep Acebillo
Progetti e realizzazioni: 1999 - 2004
50 m
100 m
200 m
500 m
1 Isolato: MBMP
2 Isolato: Correa & Milà
3 Isolato: Bonell & Rius
4 Isolato: Piñón & Viaplana
5 Isolato: Lapeña &Torres
6 Isolato: Tusquets & Diaz
7 Eurocity: Amadó & Domènech
8,9,10 Eurocity: Piñón & Viaplana
11 Central Telefonica: Bach & Mora
12 Torre Hotel Arts: SOM
13 Torre Mapfre: Ortiz.Léon
14 Centro Meteorologico: A. Siza
15 Parque del Litoral: MBMP
16 Port Olimpic, MBMP
17 Ronda del Litoral Promenade: Ravetllat Mira & Ribas Seix
18 Forum: Herzog & de Meuron
19 CCIB: MAP Arquitectos
20 Hotel Diagona: O. Tusquets
21 Centro Commeciale Diagonal Mar: R. Stern
22 Parque Diagonal Mar: Miralles & Tagliabue EMBT
23 Esplanade: Lapeña &Torres
24 Parc dels Auditoris: FOA
25 Bathing area: B. Galí
26 Parque del Litoral nord-est: Abalos y Herreros
0
50
100
200 500m
1
2
3
5
4
6
7
9
8
10
11
13
12
14
15
17
16
18
19
21
20
22
Berlin, Potsdamer Platz
Dopo la caduta del muro, nel 1989, la prospettiva di una Berlino riunificata e nuovamente
capitale divenne motivo per ripensare la città nella relazione tra le parti e per rintracciare altri
luoghi di centralità. Da quando nel 1961 venne eretto il muro, giaceva, tra le cancellazioni a esso
conseguenti e confinato ai margini, il fulcro geometrico e simbolico di Berlino: tra i bordi sfigurati
della scacchiera di Federico II, tra le orme appena percepibili delle famose icone barocche della
Leipziger Platz e Pariser Platz, tra le terre abbandonate lungo il confine inframmezzate da strade e
binari interrotti. Per anni divise, due città si sforzeranno di costruire, in competizione tra loro, due
opposti centri. Berlino Ovest asseconda la secolare tendenza della crescita urbana e privilegia la
direttrice verso Charlottemburg. Berlino Est dispiega i vessilli del nuovo potere verso l’Alexanderplatz
e lungo la Stalin-Allee. Allocare nuove centralità costituì prerogativa di una ricostruzione che, in
realtà, avrebbe voluto porsi come nuova fondazione, implicando la rimozione fisica delle memorie.
Intendimenti questi già esplicitati chiaramente, nel 1946, dal piano generale elaborato dal
Collettivo diretto da Hans Scharoun.
Il centro della nuova città riunificata era, agli inizi degli anni novanta, un vasto vuoto, per
trent’anni il retro delle due città: un centro topologico pervaso da assenze che distanziavano parti
di città in conflitto, frutto di frammenti di disegni e di prefigurazioni interrotte. Saranno questi vuoti
a sollecitare la messa in atto di principi di ‘densificazione’ volti, di nuovo, a cancellare i segni dei
conflitti e la storia recente. A differenza di quanto avvenuto durante la ricostruzione post-bellica,
le cancellazioni procedettero in nome di una storia presunta, anziché di desideri futuri, con
un’edificazione generalizzata anziché demolizioni.
L’operazione, riecheggiando l’Iba 84, risveglia gli entusiasmi additando, nella Berlino degli anni
novanta, la rinascita di un nuovo laboratorio en plein air di architettura e di urbanistica. Principi e
metodi sono caduti in insanabili contraddizioni. La volontà d’innovazione inseguita con concorsi
internazionali confliggeva con le regole di restaurazione della forma urbana. Tramutati in legge nel
Planwerk, tali regole di Kritische Rekonstruktion diedero infatti luogo a compromessi e soluzioni non
sempre all’altezza dell’eccezionalità dei luoghi. Le ricostruzioni attorno alla Porta di Brandeburgo, i
completamenti della Friedrichstrasse, la nuova ‘città politica’ con il Reichstag sull’ansa della Spree,
la riqualificazione dell’area della Potsdamer e le previste trasformazioni dell’Alexander Platz e della
Spreeinsel mancano di una consapevole strategia di ammodernamento della città e denunciano
lo sfruttamento occasionale nel centro urbano di aree ‘dismesse’, sulle quali vengono convogliati
investimenti pubblici e capitali privati. Lucidamente Osvald Mathias Ungers, che da tempo studiava
e progettava la città, si chiese: “Esiste un piano per Berlino, oppure si riduce soltanto a qualcosa
di raffazzonato, a un modo di lavoricchiare ad hoc, a un programma adottato per acclamazione
a seconda della situazione ideologica ed economica del momento o delle preferenze personali?
[…] bricolage di immagini, da dovunque esse provengano, non importa che sia dall’Italia o da
Manhattan”.
L’incoerenza delle regole lascia il campo a dissidi, evidenti nella lettera che Rem Koolhaas scrive
al Frankfurter Allgemeine Zeitung, nel 16 ottobre del 1991 a commento della disputa scatenatasi in
sede di premiazione del concorso per la Potsdamer/Leipziger Platz . “Sin dall’inizio progetti ricchi di
intelligenza, potenzialità imprenditoriale e capaci di veicolare nuove visioni urbane sono stati esclusi
a vantaggio di progetti considerati ‘normali’[…] che denunciano tutti le stesse debolezze perché
95
ancora legati alla classica morfologia ottocentesca che si fonda sul blocco urbano”.
Perseguendo l’immagine di una Berlinische Architektur con temi derivati dalla Kritische
Rekonstruktion, nel 1991 Hilmer & Sattler vincono il concorso per il masterplan della Potsdamer/
Leipziger Platz. Isolati, ritagliati dalle strade esistenti o da tracciati storici ripristinati, vengono
inframmezzati a slarghi e parterre: i dettami della urban beautification non riescono a configurare
un vero tessuto urbano né a sollecitare relazioni con la città attorno e con le afferenti infrastrutture
della mobilità. Le inconciliabilità irrisolte ne vizieranno gli sviluppi, nonostante i progetti di concorso
seguenti cerchino di attenuarne gli effetti più perniciosi.
La decisione del Senato di attuare il masterplan con tre concorsi, da indirsi autonomamente da
parte dei proprietari delle aree, senza nessun coordinamento generale, frammenterà ulteriormente
l’insieme. Con interventi autocentranti, alla scala del pezzo di città che coincide con l’immagine
della company, Sony, Debis, e Abb producono identità e riconoscibilità ciascuno per sé, ma non
in relazione reciproca . La Neue Potsdamerstrasse è separazione e confine tra unità dotate di
carattere e individualità propri: dispositivo di demarcazione tra competitor che agiscono sul mercato
immobiliare e delle fruizioni urbane, offrendo prodotti analoghi in diverse forme e tematizzazioni. La
Potsdamer Platz svuotata così d’usi e valenze urbane rimane mero fuoco geometrico di convergenza
degli spigoli vivi degli edifici d’angolo.
Più degli altri, il progetto dello studio Murphy & Jahn del 1992 per la Sony esprime
autoreferenza. I volumi sulle strade si articolano esclusivamente a partire dal vortice generato dai
flussi di ingresso: seguendo i dettami del retail planning e in totale indipendenza dal Tiergarten
come dall’insediamento della Debis. L’impianto morfologico e l’architettura adottata, sottraendosi
dai dettami della Kritische Rekonstruktion, configurano la propria unità d’intervento ibridando un
perimetro di edifici allineati sulle strade con la figura centrale di una galleria ellittica. Due fulcri.
Uno, alla scala della fruizione urbana, è il giardino tematico di Peter Walker, nel quale si snoda
l’articolazione tra piano terra e piani interrati, tra hall pubbliche e i luoghi d’intrattenimento. L’altro,
la torre sulla Postzdamer Platz, con le pelli sfogliate delle sue facciate trasparenti, come landmark
si staglia nel paesaggio urbano, a evocare un mondo immateriale e light, connotazioni prescelte a
simbolo del brand giapponese nella città.
Giorgio Grassi vince nel 1993 il concorso per l’area Abb, rifiutando la mimesi dell’isolato
proposta dal masterplan. Propone invece un’edificazione di blocchi a ‘C’ e a ‘H’ aperti verso la
strada e il giardino. Con un’opzione tipo morfologica, anziché fare leva sull’isolato come elemento
di definizione urbana, si riallaccia metaforicamente ai principi di costruzione di alcune parti della
Berlino tardobarocca e neoclassica, come la Ehemalige Wilhelmstrasse. Riprende le strutture
profonde della città come fattore di resistenza da contrapporre ai recenti interventi alla Potsdamer
Platz, considerati riproduzione di un’urbanità d’immagine, superficiale tematizzazione di città.
L’ampio scollamento che separa l’eroiche aspettative dalla ‘normalità’ dell’esito costruito induce a
leggere le semplificazioni operate sulle strutture della storia foriere di analogie, più che differenze,
rispetto a Hilmer & Sattler.
Certamente un coordinamento d’insieme non avrebbe generato enclave separate tra loro,
nonostante Renzo Piano abbia, per l’area Debis, operato un coordinamento e, nei limiti delle
premesse, sia riuscito a dar vita a una parte relativamente varia e articolata di città. Quando
nel 1992 Piano con Kohlbecker vince il concorso riforma pragmaticamente i condizionamenti
del masterplan: da accorte modifiche, da usi e rituali diversificati ne sortirà un’urbanità meno
astratta, pure nell’ambito di una simulazione. La città per isolati, voluta dai regolamenti edilizi
secondo la tradizione di Kritische Rekonstruktion, viene ibridata con il modello di ‘downtown’, che
già precedenti progetti di concorso per la Potsdamer/Leipziger Platz avevano proposto in quanto
più confacente al ruolo di Berlino capitale e alla nuova scala degli investimenti immobiliari. Ai
bordi dell’area, isolati a blocco si proiettano verso l’alto articolandosi in torri ed edifici d’angolo
per rispondere ai fatti urbani salienti intorno, e per segnalare simbolicamente la pertinenza della
corporate. L’‘unitarietà’, requisito indispensabile d’identità e riconoscibilità del brand entro logiche
di competizione economica, dovrà qui rimanere in equilibrio con l’antitetico carattere di ‘varietà’,
prerogativa ineludibile del dirsi città, e di quell’urbanità a ‘pronto effetto’ capace di garantire
un’immediata spendibilità sul mercato.
96
97
Planivolumetrico e costruito, impianto d’insieme e singole parti edificate vengono, con
pragmatismo e disinvoltura, tra loro regolati coordinando diversi architetti. Tutto ciò che nella
conduzione di altri progetti urbani coordinati si sarebbe rivelato funzionale e proficuo viene
acquisito qui senza esitazione, e immesso nella struttura di produzione del progetto. Allineamenti,
partiture edilizie, omogeneità di materiali e di sistemi costruttivi, sono regole, semplici, impartite a
Koolhoff, Kohlbecker, Moneo, Isozaki, Rogers, Lauber+Wohr, con l’intento di montare sequenze
spaziali entro un ‘tessuto edilizio’ coeso. Le ‘architetture’, progettate e costruite da Piano stesso,
giocano di contrappunto, tra opacità e lucentezza, regola ed eccezione e alludono alla città
storica, nell’alternanza di ‘monumento e tessuto’, che le varietà planivolumetriche riproducono in
tematizzazioni.
Il progetto degli spazi aperti risulta prezioso per conferire coerenza d’insieme, e un certo effetto
di urbanità diffusa. Piano ridefinisce la proporzione tra altezza del costruito e larghezza della strada,
precisa in dettaglio gli elementi architettonici di attacco a terra degli edifici, disegna gli elementi che
assegnano carattere peculiare agli spazi aperti ritrascrivendo materiali e dettagli del centro storico,
apre traguardi e trasparenze dilatando lo spazio urbano fin nelle hall degli edifici.
Nel ‘townscape’ di Piano è l’approccio visivo e percettivo a guidare l’accostamento e la ricerca
della sintassi tra edifici: costruisce viste, scorci, coglie in sequenza la correlazione di volumi e
spazi. Dentro tali ‘quadri’ Piano colloca, in stretto rapporto coi propri, gli edifici degli altri architetti.
Oppure enfatizza spettacolarmente un angolo o una verticalità. O ancora, contrappone, a
contrastarla, la tettonica edilizia di Koolhoff alla smaterializzazione misiana delle sue torri imballate.
L’approccio ‘visibilista’ costruisce variata unitarietà pure nella scelta di materiali ricorrenti. A
prevalere non i materiali, bensì gli effetti visivi di un processo costruttivo light, di un montaggio a
secco di elementi seriali industrializzati. I materiali si conformano in griglie, reticoli bidimensionali,
pannelli traforati che Piano, Rogers, Isozaki, utilizzano per ottenere dissolvenze, trasparenze,
ombreggiature al fine di esaltarne i valori percettivi e ambientali. Ciò concorre alla connotazione
d’insieme: un ‘allestimento di città’, che in sorta di evento urbano si sottrae alla solidità della
‘Berlino di pietra’. Soltanto Kollhoff e Moneo oppongono resistenza, restii ad accettare tali
premesse. Per contrapposizione i loro edifici evocano radicamento tipologico e solidità tettonica, in
accordo con le aspirazioni alla neue Berlinische Architektur.
Berlin, Potsdamer Platz
Debis
Progetto urbano e coordinamento: Renzo Piano, Christoph Kohlbecker
Società di sviluppo: Debis
Progetti e realizzazioni: 1993 - 2000
23
Sony Center
Progetto urbano e architettonico: Murphy/Jahn
Società di sviluppo: Sony
Progetti e realizzazioni: 1996 - 2000
22
Park Kolonnaden
Progetto urbano e coordinamento: Giorgio Grassi
Società di sviluppo: Abb
Progetti e realizzazioni: 1996 - 2002
1 Tower: R. Piano, C. Kohlbecker
2 Businnes center: H. Kollhoff
3 Debis center: R. Piano, C .Kohlbecker
4 Musicaltheater Casinò: R. Piano, C. Kohlbecker
5 Grand Hyatt: R. Moneo
6 Mercedes-Benz: Center: R. Moneo
7 Isolato: Lauber + Wöhr
8 Imax: R. Piano, C. Kohlbecker
9 Isolati: R. Piano
10 Arkaden: R. Piano
11 Berliner Volksbank: A. Isozaki
12 Isolati sulla Linkstrasse: R. Rogers
13 Sony Center: Murphy/Jahn
14 Uffici e commercio: Schweger & Partner
15 Uffici, G. Grassi: J. Sawade
16 Uffici e residenza: Diener & Diener
17 Bahnhof Potsdamer Platz: Hilmer & Sattler
18 Tilla-Durieux Park: DS Landschapsarchitecten
19 Ritz Carlton Hotel: Hilmer & Sattler
20 Delbrück-Haus: H. Kollhoff
21 Staatsbibliothek: H. Scharoun
22 Philharmonie: H. Scharoun
23 Tiergarten
3
21
13
6
Sony Center
2
4
5
7
4
5
Debis
7
9
8
3
9
19
10
2
20
11
12
9
1
6
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1
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16
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Park Kolonnaden
10
0 10
50
100 200m
0 10 m
50 m
100 m
200 m
1
2
3
4
5
6
7
8
9
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Breda, Chassé Park
Dalla metà degli anni ottanta l’amministrazione municipale di Breda, rilanciando la città nel
mercato fieristico congressuale, dell’intrattenimento e del terziario avanzato, attiva programmi
di riconversione industriale e li associa a politiche residenziali per affrontare, in ragione delle
mutate condizioni lavorative e sociali, l’aumento di pensionati e l’arrivo di nuovi abitanti attratti
dalle dinamiche economiche generate. Entro tale prospettiva, matura, nel 1994, l’ipotesi di
riqualificazione del Chassé Terrain, ex area del demanio militare. Il progetto urbano viene
affidato a Oma, che si avvale della consulenza paesaggistica di West 8.
Ora riconquistato alla città, il Park Chassé insieme al Parksport, al Wilhelmina park e al
Brabant configura un green-loop, un sistema verde chiaramente leggibile nell’icona della forma
urbis che conferisce alla città particolari valori ambientali e di integrazione tra paesaggio e
costruito. Su quattordici ettari si estende un’articolata offerta di housing e spazi aperti. Novecento
abitazioni - appartementi di pregio, edilizia sociale in affitto, edilizia convenzionata, residenze
per anziani e disabili – si inframezzano a uffici, nuove attività collettive e agli edifici pubblici
esistenti che il progetto ha valorizzato: il municipio degli anni settanta, il teatro Chassé degli anni
ottanta di Hertzberger, alcuni edifici militari di inizio ottocento ristrutturati per accogliere il Breda’s
Museum en Archief nella Kloosterkazerne, il nuovo Holland Casino e il Mezz Muziekcentrum
Il modello insediativo è il campus. Se lo spazio privilegiato attorno al quale gli edifici trovano la
migliore rappresentazione figurativa è, nella città storica europea, la piazza, nella città moderna
è sovente il giardino ad organizzare ed ordinare il costruito in raggruppamenti, autonomi ma
reciprocamente interrelati. Nel passaggio dal paradigma della piazza a quello del giardino nuove
libertà combinatorie tra edifici si dispiegano e nuove opportunità di relazione di questi con le
infrastrutture e gli spazi urbani. Per Oma il campus, oltre ad essere il principio morfologico che
riunisce e accomuna edifici differenti tra loro per peculiari qualità architettoniche e tipologiche,
rappresenta l’opportunità di dare ascolto alle odierne aspirazioni e a diversificati modi di abitare.
La dicotomia tra artificio e natura, suggellata dall’eroica visione lecorbusieriana nel modello
abitativo dell’Unité, si disgrega qui in mescolanza di elementi eterogenei dislocati a formare un
‘ambiente continuo’. Si cerca una dimensione ecologica, si punta a raggiungere una sorta di
climax in cui il costruito, gli elementi naturali, gli usi e il vivere, nelle sue disparate accezioni,
possano ritrovare un nuovo equilibrio. Persino gli edifici ambirebbero ad essere parte di tale
ecosistema in quanto capaci di esprimere carattere e costituizione dell’oggetto naturale e quindi
una propria valenza ambientale: in questa tensione apparentati sì con l’Immeubles-Villas e gli
insediamenti Roq e Rob di Le Corbusier.
Infittiti gli alberi esistenti, a configurare la nuova parte di città un bosco continuo di
querce e due ampie radure: la Chassé promenade e la court carré del Breda’s Museum. Un
chiaro approccio di architettura del paesaggio: la dislocazione degli edifici e le loro relazioni
reciproche vengono ricondotte ai principi di progettazione paesaggistica e le convenzionali
regole di progettazione urbana ne risultano scompaginate. Nell’affrontare questa tematica
insediativa Oma non si limita a dissociare, come la tradizione modernista, edificio e spazio. In
un contesto inedito, non più piazza o strada, ma giardino, innesta temi di composizione urbana,
visuali prospettiche, assialità, relazioni tra parti. La matrice collagistica che in Collage City C.
Rowe ritrova nei Fori romani, nelle Acropoli, nei resti di ville imperiali e città ellenistiche apre qui
111
un’intrecciarsi di relazioni ariose, libera il rapporto tra architettura e spazio, a cui non manca una
nota di pittoresco riassunta nelle viste accidentali.
Attente strategie dislocative permettono al nuovo di interagire con l’esistente e con la città
che sta ai bordi. Il gioco messo in atto trova empiricamente configurazioni sempre perfettibili:
traguardi visuali e assi percettivi trapassano l’area e la trasformano in interspazio, poroso e
permeabile agli accessi ed agli attraversamenti. A proseguire virtualmente l’asse della Molenstraat
in uscita da centro storico il vuoto della Chassépromenade – un’esplanade pavimentata in mezzo
al giardino. Distorsioni, disassamenti e rotazioni forzano gli edifici nel catturare con lo sguardo la
guglia gotica della Grote Kerk. E per aprire un canale visivo sul Wilhelmina park vengono, senza
esitazione, scavati e sollecitati a tipologie inconsuete gli edifici. Si vuole temperare il carattere di
enclave, derivato dal modello insediativo e dall’ecosistema di usi, affinché l’insediamento possa
aprirsi ad una spazialità fluida e pervasiva, lasciandosi attraversare, in studiati percorsi e attenti
traguardi visuali, dalla città attorno.
Architetti diversi per differenti edifici, che pur nella loro peculiare individualità architettonica
e formale riescono a mantenere con l’esistente e con la città attorno momenti di un’interrelazione
che trascenda la semplice continuità morfologica: autonomi ma stretti da una logica relazionale
in insiemi articolati e differenziati, così da mantenersi sensibili alle reciproche sollecitazioni e alle
interazioni dei rapporti di vicinanza.
Di legami e reciproche parentele l’approccio prossemico misura convenienze e congruità:
in un uso strategico delle contiguità controlla allineamenti e rotazioni, saggia la compatibilità
di distanze e introspezioni. Equilibri relazionali, per successive prove e correzioni raggiunti,
governano la dinamica di attrazioni e respinte circoscrivendo campi di forze equipollenti.
Qualcosa è mutato radicalmente. Il coordinamento progettuale, strumento di sorveglianza per
limitare difformità e disuguaglianze considerate inevitabili e conseguire un’omogeneità variata ma
prevista, cede il passo ad un coordinamento come governo delle possibilità: una gestione aperta
alle eventualità che sappia e voglia esaltare le differenze reciproche in orizzonti d’appartenenza
di volta in volta costruiti. Se ad impartire regole relazionali non sono più modelli urbani noti
- allineamenti, altezze di gronda, ordonnance – la legittimità di modi e forme di convivenza
tra edificio ed edificio, tra spazi aperti e flussi, tra usi e rituali andrà cercata nel processo di
costruzione del progetto e giustificata a partire solamente dal valore degli esiti raggiunti.
Stratificazioni percettive di volumi costruiti e varietà controllata di linguaggi e materiali
offrono, durante la percorrenza, inquadrature cangianti di matrice paesaggistica anziché urbana.
Frammenti di complessità urbana, talvolta metropolitana si ritagliano invece all’interno degli
edifici, articolati in complessi organismi morfologici. La sperimentazione di diverse modalità
abitative raccoglie un campionario di ‘microcosmi’, ascendenze da disparati modelli di città
riconciliati qui nella dimensione idilliaca del paesaggio: il cluster metropolitano di matrice Team
X nelle torri di de Geyter, l’isolato urbano del ‘Carrè’ di Oma, gli esercizi di ricucitura e di infill
di van Sambeek, il tessuto compatto low-rise di van Veen, l’het paleis che riassume la tematica
dell’‘istituzionalizzazione’ dell’alloggio di Kollhoff, il blocco ibrido del residence di van der Torre.
Nel solco della tradizione moderna delle Esposizioni Universali di architettura, la
configurazione di una parte di città diviene, come per il Weissenhof di Stoccarda, il Qt8 di
Milano, l’Interbau 57 a Berlino, un campo di riflessioni più ampie sui modi dell’abitare. Ma la
sperimentazione nel Park Chassé, non riguarda la tipologia degli alloggi: non è interessata a
mettere a punto nuove ‘cellule abitative’, come nel periodo eroico della modernità, e neppure a
indagarne gli aspetti aggregativi, come facevano gli esponenti del Team X e i Metabolist. Prevale
invece l’intenzione di prefigurare entro uno scenario di convivenza ‘mondi’ abitativi differenti
e molteplici tematizzazioni dell’abitare. Dopo gli anni sessanta e settanta abbandonato quel
modello di welfare state per cui si rispondeva all’emergenza abitativa con quartieri residenziali
di massa, al Park Chassé gli orientamenti si dirigono verso una società modellata dal desiderio:
collage non solo morfologico, ma di risposte alle diversificate aspirazioni dell’abitare. Non tanto
per il linguaggio architettonico adottato, quanto per le disparate combinazioni degli alloggi standard a disposizione – con interspazi di connessione, elementi di passaggio tra interno ed
esterno, ambiti di scambio tra accessibilità veicolare e atri di accesso, tra prolongements de logis
collettivi e privacy dell’appartamento. Nuove prospettive che sollecitano maggiore complessità
tra indoor e outdoor senza esimersi dal riflettere sulla spazialità interna dell’edificio e sulla sua
peculiare individualità architettonica e dal cercare una qualità dell’abitare estesa all’interno
dell’organismo edilizio. Con nuovo slancio ed entusiasmo viene riabilitata, con differenti esiti, la
lezione dei grandi maestri, Alvar Aalto, Mies van der Rohe, Le Corbusier, e poi Albini, Gardella,
Coderch, Martin, Lasdun, purtroppo, nelle esperienze di ‘ricostruzione critica’, dileguatasi in
un’esclusiva attenzione verso la morfologia urbana.
Come i parchi urbani dell’ottocento riuscivano ad inglobare ed addomesticare le
infrastrutture allora ritenute incompatibili con le forme e gli usi urbani, allo stesso modo il
giardino rappresenta qui potente mezzo per controllare le aree di stazionamento delle auto e i
flussi veicolari di accesso alle abitazioni. L’articolazione dei parcheggi in differenti tipologie e una
gestione accurata delle circolazioni automobilistiche riescono a tenere in equilibrio il dinamismo
dei flussi con i valori ambientali di una contemporanea abitabilità. Si arriva a casa in auto
con ritualità paesaggistica, senza sospensione e annullamento dell’esperienza nell’oscurità di
tunnel o piastre interrate. Invenzione significativa, che dà energia a scala metropolitana a tutto
l’insediamento, è il grande parchegio pubblico, baricentro del giardino e cerniera tra i nuovi
edifici residenziali e gli edifici pubblici esistenti. La proficua sovrapposizione di visione bucolica
di edifici nel paesaggio e dinamismo metropolitano è ben segnalata dalla qualità architettonica
di questo luogo di approdo. La consueta condizione di marginalità cui viene relegato si rovescia
nel significato di un grande spazio pubblico per ottocento automobili. Al piano interrato, dal
parcheggio coperto ampio e illuminato, si afferisce direttamente agli edifici pubblici: luogo di
vitalità urbana, simile ai mezzanini della metropolitana o agli atri delle stazioni ferroviarie accoglie
strutture di servizio e piccoli spazi di commercio. Sono proprio gli usi a sancirne il successo, il che
corrisponde alle aspettative progettuali. Paradossalmente è uno tra i luoghi più vitali e frequentati
della città. Ampi e diffusi cavedi luminosi contengono le scale di risalita alla copertura, grande
‘mercatale’ le cui articolate geometrie tridimensionali in pietra grigia si raccordano ai tracciati dei
giardini circostanti. Spazio smisurato, in bilico tra fatto geografico e inconsueto luogo urbano,
cui l’ambivalenza di forme e pluralità di usi conferisce valore di infrastruttura necessaria, tema e
matrice dell’insediamento.
112
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Breda, Chassé Park
1
2
Progetto urbano e coordinamento: OMA-Rem Koolhaas
Progetto paesaggistico: West 8
Società di sviluppo: Chassépark
Progetti e realizzazioni: 1995 - 2012
12
3
3
1 Chassé Promenade: West 8; Parcheggio: OMA
2 Theater houses: T. van Esch
3 Cluster: X. De Geyter
4 Giardino: P. Blaisse
5 Carré Building: OMA
6 Residenza: van Sambeek & van Veen
7 Het Paleis: H. Kollhoff
8 Patio villas: van Sambeek & van Veen
9 Winter Garden apartments: D. van der Torre
10 Mezz Muziekcentrum: E. van Egeraat
11 Breda’s Museum
12 Chassé Theater: H. Hertzberger
13 Kloosterkazerne
5
4
11
8
15
8
4
9
7
1
2
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0
0
10 m
50 m
100 m
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100m 1
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4
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6
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13
14
15
Hamburg, HafenCity
La decisione presa nel 1997 dalla Bürgerschaft di realizzare HafenCity, un nuovo centro urbano
sulle aree del porto in dismissione, è avventa suscitando vivaci dibattiti in città. E anche provocando
scontenti tra coloro i quali ritenevano megalomane un’operazione di trasformazione e sviluppo
urbano corrispondente al quaranta per cento della città esistente. Duemilioni e mezzo di metri
quadrati di superficie costruita, lungo oltre dieci chilometri di waterfront. Oltretutto nella parte sud
della città, storicamente ritenuta meno apprezzata dal punto di vista della vivibilità e dell’attrattività,
in quanto da sempre relegata alle attività portuali, industriali e del commercio all’ingrosso. Ma
Amburgo, città stato, al centro, con i sui sette distretti, di una regione metropolitana di oltre quatto
milioni di abitanti, ha voluto lanciare questa sfida. Proprio in virtù dell’avvenuta riconversione dei
sistemi logistici spostati verso il mare, che ne ha confermato il ruolo di container terminal tra i più
grandi al mondo, ma che ha al contempo rilasciato ampie porzioni in disuso di vecchio porto.
Il masterplan concepito da Kees Christiaanse/Astoc, vincitore della competizione internazionale,
indetta nel 1998 per sollecitare idee progettuali adatte alla formazione del nuovo centro, sembra
ibridare i dettami del New-urbanism con i principi della Kritische Rekonstruktion. Isolati, strade, piazze,
parchi, giardini, alta densità urbana con bassa altezza edilizia, sono gli ingredienti ritenuti adatti a
generare un’urbanità nota e rassicurante. La visione è quella di una città unitaria, dove la figura
dell’isolato urbano domina configurando strisce sinuose di edificato che assecondano l’andamento
dei bacini portuali e reinterpretano lo Speicherstadt, la splendida ‘città di mattoni’ dei warehouse
ottocenteschi. Il costruito, con i suoi fronti continui e organici, genera intervalli di parchi lineari, sorta
di greenway che si insinuano confluendo nelle blueway dei bacini portuali. Lo spazio pubblico della
città continua infatti nell’acqua dell’Elbe che viene, come nelle operazioni di ampliamento condotte
dalla città barocca, inserita nella scena urbana e riconquistata alla fruizione degli abitanti.
Questi principi di urbanistica tradizionale, acquisiti in modo pragmatico e senza pigli ideologici,
si sono duttilmente prestati a essere reinterpretati nelle successive fasi avviate col processo di
progettazione e poi nella costruzione. E ulteriori tematiche sono così emerse: la necessità di
differenziare la morfologia e la tipologia dell’edificato in rapporto agli usi, il problema del controllo
delle acque del fiume, la questione del trasporto pubblico e privato, i principi di sostenibilità
ambientale e di risparmio delle risorse non rinnovabili, l’articolazione nel tempo delle costruzioni.
Dopo l’approvazione del progetto di concorso avvenuta nel 1999 da parte della Bürgerschaft,
l’implementazione del processo di coordinamento progettuale e realizzativo avviene in seno alla
società a capitale misto HafenCity Hamburg GmbH, che risponde direttamente alla municipalità.
La città di Amburgo, infatti, continua a esercitare una forte supervisione del processo di sviluppo
di questa parte urbana, in quanto proprietaria di oltre il novanta percento delle aree, riunite sotto
lo speciale assetto proprietario ‘Stadt und Hafen’. La società di sviluppo, oltre sovrintendere e
coordinare le fasi progettuali, gestisce anche l’infrastrutturazione del suolo e il conferimento delle aree
agli investitori, mediante competizioni aperte nelle quali vengono valutate contestualmente qualità
progettuale e offerta economica complessiva. Anche i permessi di costruire sono gestiti direttamente
dalla società, che facendosi così garante della qualità progettuale e congruità economica avanzate
dai privati, può avviarli lungo un percorso privilegiato di approvazione, in una commissione
appositamente istituita nella Bürgerschaft. Tale processo virtuoso genera vantaggi privati, per gli
investitori che non si accollano i rischi, anche economici, connessi alle incertezze di approvazione e di
mercato, e pubblici, come l’incameramento della rendita fondiaria, ridistribuita con opere pubbliche
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e qualità urbana prodotta.
Nella stesura del progetto urbano e nelle successive fasi realizzative, l’iniziale unitarietà del
masterplan si è articolata in dodici quartieri. E questo è avvenuto anche rispettando maggiormente
le specificità dei singoli moli e mantenendo parte degli edifici esistenti, quando esprimevano un
particolare significato edilizio o urbano. Per esempio il Kaispeicher A su cui si sta edificando la nuova
Elbphilharmonie e il Kaispeicher B, recuperato come sede dell’Internazionales Maritimes Museum
Hamburg.
Ma una tematica affrontata nella concezione d’insieme, che costituisce fattore determinate nel
conferire unitarietà al tutto, pure nell’articolazione di parti, riguarda la scelta strategica di elevare tutte
le banchine portuali di circa quattro metri e di fissare il piano dell’edificato a otto metri sopra il livello
del fiume. Decisione avvenuta per preservare la nuova parte di città da eventuali innalzamenti delle
acque, in alternativa alla costruzione di una diga perimetrale, che avrebbe costituito una barriera
fisica e ambientale tale da pregiudicare la privilegiata condizione paesaggistica dell’area. Una nuova
topografia artificiale, su cui gli isolati e le strade si devono adagiare, sollecita temi progettuali per
edifici e spazi aperti, per relazionarsi alla città esistente e ai bacini acquatici presenti.
Sandtorkai, il primo quartiere costruito, è quello che in modo più esplicito manifesta la tematica
infrastrutturale del nuovo suolo. Otto blocchi edilizi, a destinazione mista residenza e uffici,
poggiano su un basamento continuo che contiene parcheggi e depositi, innalzato di circa quattro
metri sulla banchina e sulla strada proveniente dal centro città. Gli edifici, per esprimere questa
condizione di sospensione, generano uno sbalzo dissimmetrico, proiettandosi verso il bacino
lacustre. Reinterpretazione edilizia di un’immagine portuale, in bilico tra carroponti e gigantesche
gru stazionate. I singoli blocchi sono progettati da architetti diversi che, interpretando variamente
la tematica suggerita dal masterplan, hanno espresso aspetti ora maggiormente infrastrutturali, o
macrostrutturali, ora edilizi. Nell’insieme essi configurano un’immagine relativamente unitaria, nella
varietà edilizia, tale da sapersi confrontare con lo spazio ampio dei bacini portuali. Dal basamento
continuo, verso la città esistente, ponti e passerelle dipartono generando un nuovo livello pedonale
e ciclabile, che va a rammagliarsi alla rete di strade del centro città, dopo aver attraverso il vicino
Speicherstadt, permettendone suggestive viste a una quota intermedia.
Sandtorpark è concepito come un insieme di isolati articolati attorno a una square centrale. Ma
la condizione stessa di spazio urbano costruito su un terrapieno artificiale, formato dai detriti delle
bonifiche e aperto su un lato verso i bacini portuali, perturba la tipologia tradizionale dello square, e
lo fa assimilare a un manufatto in bilico tra infrastruttura portuale e opera paesaggistica.
Dalmankai reinterpreta maggiormente la figura dell’isolato urbano presente nel masterplan. Il
basamento continuo rende però più complesse, e suggestive, le relazioni tra passeggiata pubblica
a quota delle banchine e spazi semipubblici soprastanti. La testata di questo quartiere è segnata
dalla Elbphilharmonie, l’edificio pubblico tra i più significativi presenti a HafenCity, che inorgoglisce
gli abitanti ma al contempo solleva polemiche in città, riguardo la sua localizzazione da alcuni
ritenuta ‘decentrata’, e anche per i suoi costi elevati. Herzog & de Meuron, vincitori di un concorso
internazionale nel 2003, concepiscono questo edificio come addizione verticale dell’antico
magazzino portuale. Estrudendo verso alto l’impronta dell’edificio esistente, generano un volume
di vetro che si sfrangia nel cielo, come perturbato da raffiche di vento. Sorta di Stadtkrone, evoca
reminescenze dell’espressionismo tedesco alla Taut o alla Scharoun, e si staglia come l’Opera di
Sidney di Utzon nel basso orizzonte della baia portuale.
Anche Uberseequartier reinterpreta la tipologia dell’isolato. Qui non è la tematica infrastrutturale
a generarne gli sviluppi, quanto la volontà di costruire un centro commerciale e d’intrattenimento
integrato alla forma della città. La grande decisione di concepire una variegata scena urbana su
cui aprire i piani terra commerciali degli isolati genera un pezzo attrattivo di città, e permette, come
nello Stadshart di Almere, di sottrarsi ai pericoli insiti nel produrre un centro commerciale come
macrostruttura monofunzionale.
Ma sono gli spazi aperti a esprimere maggiormente la mediazione tra la condizione infrastrutturale
generata dalla nuova quota urbana e la volontà di produrre la morfologia della città compatta.
La mediazione dei dislivelli di quota, tra le passeggiate lungo i bacini e gli ambiti soprastanti degli
isolati, avviane configurando lo spazio pubblico in complesse geometrie. Terrazzamenti artificiali e
giardini inclinati accolgono scalinate, passerelle e rampe che raccordano i dislivelli dell’orografia
artificiale. Il modo di concepire l’assetto degli spazi aperti qui è differente rispetto ad analoghi
interventi di riqualificazione portuale di altre città tedesche, come per esempio Colonia, Düsseldorf
o Duisburg. Ad Amburgo, anche coinvolgendo due paesaggisti catalani come EMBT e B. Galì,
vincitori di concorsi di architettura per la concezione degli spazi aperti, si è voluto far arrivare un
frammento di Mediterraneo. E questo non solo importando forme paesaggistiche per innovare
l’immagine complessiva dell’insediamento, ma anche come aspirazione a generare stili di vita diversi,
maggiormente legati alla fruizione, anche serale e notturna, degli spazi aperti della città. Rituali sociali
che risultano essere, come noto, molto più diffusi nelle città mediterranee che non in quelle del nord
Europa.
Il recupero del porto di Amburgo sembra intrecciare due modelli: quello adottato per riqualificare
il porto di Amsterdam per quanto riguarda la scelta morfologica della città compatta, e quello
adottato per rigenerare il lungomare di Barcellona, tendente a mescolare assetto urbano e
infrastrutture in una nuova e più articolata visione paesaggistica. La stessa determinazione a unire qui
più usi e più rituali collettivi fa riferimento, sia pure in modalità temperate, ai festival marketplaces, in
cui mix di funzioni attrattive, luoghi di lavoro e svago generano un’abitabilità più ricca. Dopotutto, la
città di Amburgo ha già saputo fare ciò anche nei secoli scorsi, nelle sue parti centrali più pregiate,
alle quali HafenCity si collega, fisicamente e simbolicamente.
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Hamburg, HafenCity
Progetto urbano e coordinamento:
ASTOC Architects & Planners,
KCAP Architects & Planners
Società di sviluppo: HafenCity Hamburg GmbH
Progetti e realizzazioni: 1997 - in corso
1 Elbphilharmonie: Herzog & de Meuron
2 Uffici: Ingenhoven und Partner
3 Ocean’s End: Böge-Lindner Architekten
4 H2O: Spengler-Wiescholek Architekten
5 Doks 4: Schweger Associated Architects
6 Residenza: BRT Architekten
7 Harbour: M. Mathez
8 Residenza: APB Architekten
9 Residenza: J. Störmer
10 Amango: Böge-Lindner Architekten
11 Hamburg America Center: R. Meier
12 Katharinenschule: Spengler & Wiescholek
13 Uffici: D. Chipperfield
14 The Oval: Ingenhoven und Partner
15 Residenza: Böge-Lindner Architekten
16 Uffici: Meurer Architekten
17 Residenza: Schenk + Waiblinger Architekten
18 Residenza: Spine 2, APB, KBNK architects
19 Residenza: SML, SEHW
20 Residenza: C. Lorenzen, KBNK architects, L. Winkler
21 Residenza: PFP architekten
22 Residenza, NPS Tchoban Voss
23 Coffee Plaza: R. Meier
24 Residenza: KBNK architects, Astoc Architects & Planners
25 Hafenliebe: Architekturbüro Neitmann
26 Commercial Center: Baumschlager Eberle
27 Kühne + Nagel: J. Störmer
28 SAP: Spengler & Wiescholek
29 Marco Polo Tower: Behnisch Architekten
30 Unilever Germany: Behnisch Architekten
31 Isolati residenziali: E. van Egeraat
32 Isolati commerciali: Trojan + Trojan, D. Joppien
33 Germanischer Lloyd: von Gerkan Marg und Partner,
J. Störmer, Antonio Citterio and Partners
34 Ericus Contor: H. Larsen Architects
35 Spigel Group: H. Larsen Architects
36 Magellan terrassen: Miralles & Tagliabue EMBT
37 Sandorpark: Miralles & Tagliabue EMBT
38 Marco Polo terrassen: Miralles & Tagliabue EMBT
39 Magdeburger Hafen: B. Galí
40 Maritime Museum: Hanssen, Meerwein, MRLV Architekten
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Brooktorkai Ericus
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Speicherstadt
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Elbtorquartier
Am Sandtorpark
36
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Am Sandtorkai / Dalmannkai
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1
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Überseequartier
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10
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Strandkai
0 10
50
100 200m
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3
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5
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7
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Lille, Euralille
Ad Euralille, ancor più dell’esito, sono gli approcci a suscitare interesse.
Un processo continuamente governato fin dai primi momenti della sua attivazione; una
politica orientata a relazionare la città e la sua conurbazione in un rilancio economico e sociale
a scala internazionale; un montaggio innovativo precisatosi nel farsi stesso dell’operazione,
nell’iterazione tra complessità infrastrutturali, variazioni programmatiche e aggiustamenti degli
obiettivi; una concezione della città contemporanea in rottura con la continuità della città storica.
Il progetto strategico costruito in sinergia tra politica urbana, gestione dello sviluppo e progetto
urbano è riconducibile al sodalizio di tre persone: Pierre Mauroy, sindaco di Lille e presidente della
comunità urbana, Jean-Paul Baïetto, direttore generale della società di gestione Saem Euralille, e Rem
Koolhaas, autore del masterplan e coordinatore delle progettazioni e delle realizzazioni.
Occorre risalire all’accordo ufficiale del 1986, tra Margaret Thatcher e François Mitterrand, che
sanciva la volontà di unire Francia e Gran Bretagna con un tunnel sotto la Manica e che prefigurava
il Tgv come collegamento veloce, perché inattese opportunità si mostrassero a quella comunità
urbana policentrica della Region Nord-Pas des Calais, che si sarebbe venuta a trovare nel baricentro
di flussi e di scambi tra Londra-Parigi-Bruxelles.
Alla comunità di Lille, governata da Pierre Mauroy, non sfuggivano i vantaggi che un diverso
interscambio tra locale e continentale avrebbe procurato in termini di ricaduta economica e sociale.
In virtù delle sue relazioni politiche, come ex primo ministro, Mauroy riuscì ad ottenere da Chirac,
nel dicembre 1987, la decisione di far passare, proprio nel centro dell’agglomerazione urbana di
Lille, le linee del Tgv nordeuropeo, sconvolgendo i programmi che la rigida modellistica cristalleriana
della Sncf aveva messo a punto, prevedendone il passaggio a 70 chilometri di distanza per
interscambiare con l’aeroporto. La disponibilità di un’area demaniale di 120 ettari ad est della città di
Lille, tra le antiche fortificazioni di Vauban e l’edilizia aperta di Villeneuve d’Ascq, faceva prefigurare
un così fervido incontro tra infrastrutture e insediamento da esortare Mauroy agli inizi del 1988 a
dichiarare: ‘I fiumi di autostrade e ferrovie ci sono, occorre costruirci sopra una turbina terziaria’.
Costruire un insediamento in cui un’alta qualità architettonica ed urbana potesse veicolare, anche
solo simbolicamente, l’idea di una parte attraente di città - e fare ciò nel breve arco temporale di un
decennio – implicava mettere in atto una strategia gestionale particolarmente efficace, sciogliere i
vincoli burocratici delle Sem e individuare nuove opportunità di montaggio economico-finanziario più
consone agli obiettivi. Sono proprio le modalità con cui si è costruito il montaggio che hanno reso
possibile giungere ai risultati. Come Baïetto sostiene ‘Il fatto principale è stato il coinvolgimento delle
banche sin dall’inizio […] Le logiche eco-nomiche delle banche e delle assicurazioni sono a lungo
termine e il lungo termine è di grande valore per l’architettura’.
Costruire condizioni perché l’esercizio del progetto urbano possa svelare inedite opportunità ed
inconsuete visioni di città diventa obiettivo primario e orienta il percorso di selezione del progettista.
Baïetto si convince che ‘è un non senso fare un progetto urbano su concorso: il progetto urbano
implica aspetti molteplici, e dunque bisogna scegliere un uomo piuttosto che un progetto’. Né disegni
né modelli furono quindi ammessi alla consultazione ad inviti. Occorreva scegliere non un progetto
ma un progettista, perché elaborasse, in un rapporto negoziale con le committenze, il masterplan
generale e coordinasse altri progettisti lungo lo svolgimento del progetto e della realizzazione. Nel
novembre del 1998 Rem Koolhaas all’unanimità viene prescelto poiché ‘il solo a proporre una
visione di città a differenza dei concorrenti che presentano visioni di progetti’. Koolhaas in quella
circostanza ebbe infatti modo di mettere in luce una serie di attitudini come progettista urbano,
149
avvalorate da riflessioni sulla città contemporanea da tempo maturate, e che trovarono concordanza
con le aspettative dei committenti e una singolare coincidenza con le questioni inerenti la messa in
forma di Euralille: in particolare in applicazione alla teoria del manhattanismo la tesi di una ‘cultura
della congestione’ e la concezione di progetto urbano come processo, da governare all’emergere di
conflitti e problemi.
‘Un progetto come Euralille impegna a fare la Metropoli’ asserisce sin dagli inizi Rem
Koolhaas. Un progetto di metropoli si distingue da un progetto di città: pretende di organizzare
insieme gli ingredienti strutturali della città e della periferia, aspira a mettere in forma e a conferire
urbanità a strutture e dispositivi concepiti in alternativa e in antitesi alla città, stazioni, mall
commerciali, complessi direzionali ed espositivi, infrastrutture della mobilità.
Agli inizi del 1989, Oma in due workshop individua quegli intenti che nelle concertazioni
successive sapranno guidare, lasciando libero gioco, le variazioni morfologiche e programmatiche:
sciogliere il ‘nodo gordiano’ delle infrastrutture esistenti, esplicitare fisicamente e visivamente il
rapporto tra Tgv e città, favorire accessibilità e attraversabilità dell’insediamento valorizzando frange
e interspazi. Saldati agli elementi programmatici tali intenti danno origine a una classificazione
tematizzata desunta dall’immaginario metropolitano: il centro d’affari come accumulo di
torri, il triangolo tra le stazioni come piastra ibridata, il palazzo dei congressi come frammento
macrostrutturale tra infrastrutture, il parco come collina al centro del quartiere residenziale. Un
montaggio ‘elementarista’ di ascendenza lecorbuseriana trascrive in immagini urbane l’innesto
di intenti e programma: componenti ‘semplici’, assemblate in configurazioni diverse marcano un
interesse per l’‘interconnessione’ tra parti, più che per le parti stesse, e un’attenzione verso i risultati
dell’‘interazione’ tra programmi, più che per i programmi stessi. Agli architetti, in seguito coinvolti
nelle progettazioni, Koolhaas impone norme restrittive di integrazione così da ibridare infrastrutture,
edifici ed interspazi: vincoli di ‘tematizzazione’ o di ‘incesto programmatico’, mai vincoli di forma.
La composizione paratattica si avvale dell’aleatorio procedimento surrealista del cadavre exquis
per spronare gli architetti a produrre ‘pezzi d’autore’ in libera competizione: primo caso forse in cui
progetto e ‘firma’ del progettista conferiscono valore aggiunto ad una nuova parte di città. Accumulo
collagistico - collisione di edifici e infrastrutture, spazi artificiali e naturali - sa evocare congestione e
densità, ma allestendo uno spettacolo dinamico di una ‘tematizzazione metropolitana’ si sottrae al
pericolo di uniformità a grande scala, sebbene
alcune questioni avanzate nelle prefigurazioni iniziali rimangano irrisolte.
Avventura giocata ai bordi, sui confini tra entità spaziali giustapposte, in un alternarsi tra
flussi veicolari e pedonalità, frange vitali che separano il costruito. Euralille edifica la sua urbanità
proprio sulle ‘frange’ di risulta, piuttosto che sui ‘monumenti’ che erige. Valorizzando la dimensione
residuale generata dall’approccio collagistico koolhaasiano il parco Matisse di Gilles Clément
è di questi interspazi il più significativo. Se Oma prefigurava uno spazio artificiale di ascendenza
alphandiana soggetto ad una spettacolarizzazione infrastrutturale e minerale, la proposta di Clément
muove invece dal riconoscimento e dall’esaltazione dei valori intrinseci a un terrain vague, ed è
capace di sospendere, sia pure per mo-menti, la condizione di sradicamento e omologazione,
portato della nuova città. Clément prende distanza dalle illusioni neo-illuministe di poter manipolare
in modo incondizionato il mondo e critica gli entusiasmi trasformativi alimentati dall’operazione
Euralille. Come opera di riparazione, di manutenzione, la ricostruzione idealizzata di un frammento
di foresta primaria europea ‘inviolata’ viene innalzata sul podio dell’Ile Derborence. Nel Bois des
Transparences, lungo percorsi d’ombra, jardins planétaires, jardins en mouvement, pyro-paysages,
ricreati per frammenti, lasciano cogliere per scorci i volumi vetrati e le superfici cangianti della ‘città
degli affari’, affioranti tra le fronde alberate come ready-made paesaggistici. Una lettura diacronica
del suolo ed il recupero della temporalità, nel giardino à reation poetique di Clément riescono
a perturbare, nel contrasto tra modernità edilizia posta sullo sfondo e natura primigenia in cui si
è immersi, le illusioni di ricreare hic et nunc un equilibrio olimpico di matrice corbuseriana, che
soggiace, sopito tra le pieghe, al dinamico congegno koolhaasiano ‘immerso nell’aria e nella luce’.
Dal giardino, attraverso le arcate del Viaduct Le Corbusier, si accede al triangolo ribassato, a
convergenza delle geometrie dell’insediamento e simbolo della collisione tra edifici e infrastrutture:
la piazza Mitterrand. Interspazio irregolare suscita interesse il suo carattere di risulta e l’accumulo di
visioni urbane eterogenee e conflittuali prodotte, più che la forma dei manufatti che la delimitano.
Luogo di interazione visiva e fruitiva, di coesistenza di più ‘attori urbani’ ad ognuno dei quali è
riservato l’ambito di una scena, è set o punto di ripresa nel gioco di reciproco rispecchiamento.
Le giaciture principali si allineano ai fasci di binari della stazione esistente di Lille Flandres,
lungo cui si appoggia il Centre des gares di Nouvel, e alla nuova stazione del Tgv Lille Europe
di Duthilleul scavalcata dalle torri di Vasconi e de Porzamparc. Lontana dal monumentalismo
esuberante delle stazioni progettate negli stessi anni dalla Sncf, la stazione Lille Europe è una
semplice successione di balconate coperte dalla leggera struttura metallica di Rice, che da piazza
Mitterrand risale al Boulevard de Turin. Da qui si scorgono gli interventi incrementali della ‘seconda
fase’ di Euralille, che densificano le frange tra le infrastrutture viarie e la stazione: la Cité des affaires
di Delhay, la Cité de l’Europe di Mateo e il quartiere St. Maurice di de Geyter e Roubest su piazza
Valladollid. Pontile di legno sospeso sull’autostrada la piazza accoglie i percorsi provenienti dai
nuovi insediamenti sorti ai margini della conurbazione. E’ l’atrio all’aperto da cui si accede allo
‘spazio piranesiano’, cubo estruso in profondità per circa quaranta metri che pesca i viaggiatori
provenienti dal Meteor per convogliarli, a livelli diversi, ai parcheggi, alla stazione o alla città: camera
di decompressione urbana, smista flussi veicolari e movimenti umani e ripropone, nella versione
di impronta scavata, i temi del cubo ibrido e congestionato già sperimentati da Oma nel Zkm di
Karlsruhe e nel progetto per la Très Grand Bibliothèque di Parigi.
Nel 1997, dopo la deviazione del Boulevard Phéripérique est in attraversamento al Parc des
Dondaines, si trasforma in viale urbano la strada espressa a fianco del Gran Palais di Oma così
connesso alla città. Contenitore ibrido tripartito lungo l’asse dell’ellisse, esprime dissimmetria tra
lato urbano e lato verso le infrastrutture. L’uso brutalista di materiali poveri e apparentemente poco
durevoli rimanda a dispositivi quali stadi e padiglioni fieristici e rinuncia all’ambizione di evocare
la firmitas di un improponibile monumento civico. La parete ondulata e sfuggente permetterà
di scorgere dal boulevard urbano i futuri ampliamenti, Euralille 2000-2010. Con un approccio
incrementale si sta costruendo sui margini liberi tra l’insediamento di Oma e la città attorno, fruendo
dei successi precedenti. Volumi disarticolati densificano lo svincolo del Grand Boulevard del quartiere
Romanin, mentre l’infill di immobili traslucenti del quartiere St. Maurice sottolinea la geometria
infrastrutturale. Il ‘bois habité’ e la nuova sede della Regione North-Pas de Calais concluderanno
le frange a sud. Il successo di questi interventi vive della precedente operazione, che ha saputo
trasformare un terrain vague, problematico, in una vitale parte di città, e tra infinite contraddizioni ed
esiti difformi dalle aspettative, generare effetti duraturi.
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Lille, Euralille
Progetto urbano e coordinamento: OMA
Società di sviluppo: Seam Euralille
Progetti e realizzazioni: 1991 - 2009
1 Ccial Euralille: J. Nouvel
2 WTC: C. Vasconi
3 Credit Lyonnais: C. De Portzamparc
4 Gare Lille Europe: J.M. Duthilleul, P. Rice
5 Viaduct Le Corbusier: F. Deslaugiers
6 Parc Matisse: G. Clément, Empreinte
7 Crown Plaza: M. e F. Delhay
8 Axe Europe: L. Mateo, F. Andrieux
9 Lille Grand Palais: OMA
10 Saint-Maurice: X. De Geyter, Laloux & Lebecq, F. Fendrich (progetto urbano)
11 Euralille 2 - Bois Habité: F. Leclercq, M. Guthmann, TER (progetto urbano)
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Lisboa, Expo98,
Gare do Oriente, Parque do Tejo
La realizzazione di Expo 98 ‘Mari e Oceani’ sta a coronamento della nomina, nel 1994, di Lisbona
capitale europea della cultura e dell’entrata del Portogallo nella Comunità Europea. Una nuova
dinamica d’investimenti pubblici e privati si traduce in progetti di grande respiro urbano: il recupero
di aree industriali abbandonate, la costruzione di nuove infrastrutture viarie, l’ammodernamento
della rete ferroviaria esistente, la definizione di grandi luoghi di svago e intrattenimento a scala
metropolitana, il ripensamento della relazione tra città e Tejo, un affaccio lungo quasi venti
chilometri.
Avviato nel 1992, il piano strategico di Lisbona interrompe la passività degli anni ottanta e
implementa un insieme di progetti settoriali che, accompagnati da programmi di riqualificazione
sulla città esistente, aprono inaspettate prospettive di rinnovamento e ammodernamento per l’intera
conurbazione metropolitana. In particolare il Progetto di Espansione della Metropolitana, i Piani di
Ordinamento per l’Area Portuale e l’Area Metropolitana, il progetto Expo 98, i progetti di riforma
infrastrutturale con nuovi ponti viari e ferroviari sul fiume Tejo hanno permesso di convogliare, in
una poliarticolata ma coesa strategia urbana e paesaggistica, investimenti nazionali e internazionali,
privati e pubblici, inaugurando per Lisbona orizzonti sino allora sconosciuti.
Costruita l’opportunità di realizzare l’Expo 98 si coglie l’occasione per avviare una capillare
riconversione della zona portuale e industriale a est della città, uno dei settori più degradati e
dequalificati di Lisbona. Sebbene localizzare la struttura dell’Expo 98 in una simile zona abbia
comportato ingenti risorse finanziarie e tecniche, impegnando la città per oltre otto anni, l’onere
maggiore spettò alla riconversione urbanistica di un’area industriale di cinque chilometri di
lunghezza. Si dovette procedere al risanamento ambientale e con il Parco delle Esposizioni - Parque
das Naçöes - alla dotazione di grandi attrezzature urbane. Per favorire l’integrazione con la città
storica e la conurbazione esistente vennero costruite nuove infrastrutture di trasporto e prolungate
la rete metropolitana e ferroviaria, confluite nel nuovo polo intermodale della Gare do Oriente.
D’altra parte le strutture connesse all’Expo non vennero pensate per la transitorietà dell’evento
ma come elementi durevoli e nodali nella fisiologia urbana: così è dell’Oceanario, il Padiglione
degli Sport, il Padiglione del Portogallo, i Padiglioni dei Paesi Partecipanti recuperati a usi fieristici, il
Padiglione Atlantico multiuso riutilizzato ora come Centro Congressi, i Giardini Garcia de Orta, il
Parco do Tejo.
Proprio al centro di quest’ampia riqualificazione urbana e paesaggistica, che finalmente
conquista l’affaccio sul Tejo, si colloca la Gare do Oriente, principale nodo intermodale del
Portogallo. Per l’eccezionalità dell’evento e la situazione d’emergenza creatasi, enti pubblici e
aziende municipalizzate hanno dovuto superare divisioni settoriali e di competenza e le reciproche
diffidenze: solo un dialogo allargato, una convergenza di intenti e una proficua cooperazione
hanno consentito all’infrastruttura urbana in costruzione di interscambiare con diverse modalità di
trasporto. Per la prima volta in Portogallo, metropolitana, ferrovia, e autolinee, giungono al centro
della conurbazione metropolitana di Lisbona, in soluzione unificata.
Nel 1994 Santiago Calatrava vince il concorso per la Gare do Oriente con un progetto
che Barata, citando lo storico d’arte viennese Riegl, definisce “monumento intenzionale”:
un monumento alla contemporaneità a ridosso del centro di Lisbona perchè il “bisogno di
un’iconografia moderna non sia limitato ai nuovi agglomerati urbani, ma interessi anche il centro
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storico della città europea, già denso di monumenti e di palazzi antichi d’ogni genere”. Con un
colpo d’ala Calatrava supera l’idea di stazione come ‘architettura civile’, che informa ancora la
stazione di Moneo a Madrid o quella di Cruz y Ortiz a Siviglia. Abbandonata la retorica energetica
che quattro anni prima aveva dato forma alla Stazione del Tgv Lione-Satolas, riscopre qui una sorta
di monumentalità smaterializzata, light. Come fosse una grande serra o un umbraculo nel parco,
sublima l’edificio stazione dissolvendolo negli elementi infrastrutturali costitutivi: ponti, pensiline,
passerelle, tettoie, rampe. Se l’approccio progettuale può sembrare simile alla Stadelhofen di
Zurigo, nella Gare do Oriente è una finalità squisitamente urbana a risemantizzare in un contesto
altamente reattivo la difficile concentrazione di organismi complessi, laddove nella Stadelhofen
domina la dimensione paesaggistica, giunta in città con l’infrastruttura.
Accuratamente Calatrava apre la città alle spalle della ferrovia verso il Tejo, sorreggendo
l’impalcato dei binari - cento metri di larghezza - con una successione di cinque elastici ponti ad
arcate ribassate in calcestruzzo. Gigantesca piattaforma elevatrice colta nell’atto di sollevare una
placca di suolo per raddoppiarne gli usi urbani, idealizzata rappresentazione di uno sforzo in
movimento. Earthwork direbbe Frampton, sconfinato coperto che accoglie servizi per il pubblico,
discese alla metropolitana, pensiline dei bus. Sopra, svettante sul podio un ‘giardino’ di palme
metalliche, uno straniato paesaggio surrealista che smista i viaggiatori della ferrovia in sostituzione
dell’‘edificio stazione’ che non ha più ragione d’essere.
Gare do Oriente è la simbolica porta d’accesso alla città che nasce attorno all’evento
espositivo. Le sue arcate lasciano indovinare la Doca, vecchia darsena dei cantieri navali che
Manuel Salgado, autore del masterplan e degli spazi aperti del Parque das Naçöes, colloca
emblematicamente e figurativamente al centro del recinto espositivo. Come città di fondazione,
tracciati ortogonali delimitano gli isolati, ritagliano spazi urbani pubblici e accolgono gli assi
provenienti dai quartieri a nord inglobando paludi fluviali e l’impronta infrastrutturale della darsena,
su cui affacciano il Padiglione del Portogallo di Alvaro Siza, l’Oceanario di Peter Chermayeff, il
Padiglione della Conoscenza dei Mari di Carrilho da Graça, e il Padiglione Multiuso di Cruz e
SOM.
L’idea forte del progetto urbano sta nell’aver conferito valore strategico al disegno del suolo,
inteso come intreccio solidale tra figura degli spazi aperti e piano delle infrastrutture. La Calçada in
pietra bianca è il grande manufatto dotato di sufficiente autonomia e complessità tecnica in grado
di assorbire in forma stabile le disparate componenti tecnologiche interrate e le reti dei sottoservizi.
Grande spazio pubblico che definisce gli argini del Tejo, le piazze tra gli interventi edilizi, le
passeggiate lungo i parchi e i giardini, la Calçada è anche l’elemento che conferisce resistenza alla
forma urbana, nella metamorfosi da recinto dell’Expo a vera e propria parte di città.
A nord/est la maglia urbana si deforma e sfrangia davanti ai fatti infrastrutturali territoriali, fino
a perdersi nella dissolvenza orografica del largo paesaggio del Parque do Tejo e Trancao alla
confluenza degli omonimi fiumi. Un complesso dispositivo ecologico di risanamento e purificazione
di acqua e aria si offre negli usi e nella fruizione come parco metropolitano. Questa grande
infrastruttura urbana, estesa per oltre novanta ettari, disloca attività sportive e del tempo libero,
impianti di fitodepurazione e riciclaggio di rifiuti e ingloba gli svincoli della viabilità autostradale
raccordati al Ponte Vasco da Gama, costruito in concomitanza all’Expo. Campi da gioco, tennis,
aree equestri, anfiteatri d’erba per spettacoli e festival convivono con il più grande, per Lisbona,
sistema di laminazione di acque, raccolte, decantate e poi immesse nel Tejo. Al suo interno,
un centro di ricerca ambientale monitora le attività di bonifica, operando come interfaccia tra
lavoro, ricerca, educazione con il compito di sensibilizzare visitatori e di illustrare le problematiche
ambientali ed ecologiche.
I progettisti George Hargreaves e Joao Nunes nella bonifica delle paludi modellano tre metri
di suolo artificiale, corrugando in un susseguirsi di crinali e vallette la piatta topografia del sito
incassata sotto la quota fluviale. La manipolazione plastica che scava e riporta in superficie, a
formare dune e banchine, i sedimenti di drenaggio, se per un verso rimanda alla lenta azione di
vento e acqua, alla millenaria corrosione che ha sagomato l’estuario del fiume, dall’altro innesca
il processo di trasformazione del lungo lavoro di modellazione orografica. Con un avvicendarsi di
interventi di deviazione, regolazione e canalizzazione delle acque, la massa di detriti sedimentari
trasportati dalle correnti viene sospinta a depositarsi in particolari punti strategici. Accortamente
guidato, il naturale processo di sedimentazione delle acque fluviali attua la rigenerazione
ambientale, e ingloba, in un increspata geometria frattale in perenne mutazione, viabilità e
dispositivi tecnici per conferire al parco unitarietà e figuratività a grande scala: alla scala territoriale
del lungo viadotto di cui si fa contrappunto e che riassorbe nello spettacolo di un paesaggio
monumentale.
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Lisboa, Expo 98, Gare do Oriente, Parque do Tejo
0m
50 m
100 m
200 m
Progetto urbano del Parque das Naçöes: Vassalo Rosa, Manuel Salgado
Progetto architettonico Gare do Oriente: Santiago Calatrava
Progetto Parque do Tejo e do Trancão: George Hargreaves, João Nunes
Società di sviluppo: Parque Expo
Progetti e realizzazioni: 1993 - 1998
1 Gare do Oriente: S. Calatrava
2 Padiglione del Portogallo: A. Siza
3 Oceanario: P. Chermayeff
4 Padiglione Atlantico: R. Cruz, SOM
5 Padiglione della Conoscenza dei Mari: C. da Graça
6 FIL Feira Internacional de Lisboa
7 Giardini Garcia de Orta: J. Gomes da Silva
8 Torre Vasco da Gama: L. Janeiro, SOM
9 Parque do Tejo e do Trancão: G. Hargreaves, J. Nunes
10 Ponte Vasco da Gama
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London, Canary Wharf
Dagli anni ottanta, prendendo distanza dal generale orientamento europeo in tema di politiche
urbane, la Gran Bretagna indirizza spiccatamente i propri approcci di trasformazione urbana verso
il mercato degli investimenti privati. Accantonata la lunga tradizione della pianificazione regolativa
e comprehensive e guidati dalle pratiche e politiche nord americane, si vanno a configurare
metodiche di apertura all’intrapresa privata, inaugurando un diverso scenario di intervento nelle
operazioni di rinnovamento urbano, che il resto d’Europa continuerà, fino alla metà degli anni
novanta, a condurre primariamente con iniziativa e capitale pubblici.
Margaret Thatcher, eletta primo ministro alla fine degli anni settanta, mise in atto una
politica liberista, affine a quella intrapresa da Ronald Regan negli Stati Uniti, sintetizzata in tre
assunti programmatici privatisation, deregualtion, marketisation, riversatisi poi negli approcci di
costruzione e rinnovamento della città. Il thatcherismo si impegnò a sciogliere il legame tra urban
planning e welfare state che da tempo connotava la tradizione regolativa dei governi laburisti.
Forti ripercussioni ebbe sui processi di riforma urbana e di costruzione della città, nel momento in
cui, per la recessione che investiva in quegli anni la Gran Bretagna, prendeva inizio una fase di
deindustrializzazione e dismissione industriale. La rilocalizzazione produttiva lasciò aree dismesse
nei centri urbani di Manchester, Liverpool, Birmingham. L’evoluzione del trasporto commerciale
marittimo verso container e piattaforme di scambio off-shore, aprendo una delle più pesanti crisi
urbane e sociali del secolo, ridusse fino a fermare le attività portuali londinesi, abbandonando
chilometri di dock. Contrariamente a quanto proposto e attuato dalle politiche pubbliche degli
anni cinquanta e sessanta, il governo affrontò l’emergenza incentivando e coinvolgendo la
‘libera intrapresa’ in investimenti di trasformazione urbana a grande scala, che avrebbero creato
nuova occupazione e favorito la rigenerazione fisica dei luoghi. L’ingerenza pubblica si sarebbe
limitata a fenomeni di leverage, per attrarre e al contempo ottimizzare, con effetti moltiplicatori, gli
investimenti di capitale privato.
Istituito nel 1980 l’Urban Development Corporation (Udc), una tra le più importanti
introduzioni del governo della Thatcher, innesta principi di leverage planning di ascendenza
americana sulle antecedenti pratiche di intervento edilizio pubblico, ampiamente sperimentate
dal New Town Development Corporation nella costruzione di new town. Come il New York State
Development Corporation del 1968 non investe capitale pubblico, abbandonato il ruolo di
developer, si riserva come promoter la sola implementazione di operazioni di sviluppo immobiliare
nei settori urbani critici, innescando in diversi modi il processo di valorizzazione delle aree: redige
land-use plan per identificare nuove funzioni, elabora progetti infrastrutturali al fine di ottimizzare
e incrementare l’accessibilità, lancia operazioni di marketing urbano per aprirsi al libero mercato,
attiva politiche di defiscalizzazione per attrarre capitali finanziari.
Le principali città industriali del Regno Unito, agli inizi degli anni ottanta, già contavano la
costituizione di tredici di questi organismi, tra cui la London Docklands Development Corporation
(Lddc), artefice del recupero dei Docklands di Londra. In quest’ultimo caso un ulteriore e
fondamentale strumento per attrarre investimenti e creare occasioni di sviluppo immobiliare fu
l’Enterprise Zone (EZ). Costituitasi per la prima volta nel 1982 per Canary Warf all’Isle of Dogs nei
Docklands presenta una complessa e ancora dibattuta origine. Derivata in parte dall’American
Urban Developement Grant del 1977, viene prefigurata dalle intuizioni di Peter Hall, quando nel
183
1975, coniando la definizione di non-plan-area, prende a riferimento la deregulation attuata da
Hong Kong e dalle ‘Tigri asiatiche’.
Nell’implementazione di una EZ si fa assegnamento sulla predisposizione di strategie
‘flessibili’ ‘guidate dalla domanda’, piuttosto che da criteri direttivi offerti da piani morfologico
e programmatici. Anzi Canary Warf, e altre EZ posteriori, mancano totalmente di pianificazione
e guida morfologica: furono gli stessi developer ad elaborare il progetto, proponendone il mix
funzionale e il piano d’investimenti. Criticato per aver leso i principi democratici delle procedure
decisionali, tra discussioni, rimostranze e il disappunto delle comunità locali, il progetto di Canary
Warf, con la costruzione di oltre un milione metriquadrati di slp, ventiquattro blocchi d’uffici e tre
torri di 250 metri, viene comunque approvato in due settimane, ricorrendo alla procedura ‘fasttrack’, a decorso rapido.
A differenza di altre assai meno contestate Ez di riuso e recupero di strutture edilizie industriali
esistenti, ciò che qui ha destato perplessità e allarmato opinione pubblica, urbanisti e architetti è la
costruzione ex novo di un pezzo di città diversa, che avrebbe non solo trasfigurato completamente
l’Isle of Dogs ma soppiantato, come alternativa insediativa e simbolica, nientemeno che il mile
square della City. Più di altro fu l’immagine urbana proposta dalla SOM per la canadese Olympia
& York a generare riserve e apprensione: l’eredità Beaux Arts transitata in America attraverso la
‘Great Good City’ di Daniel Burnham ritornava in Europa, un secolo dopo, in un esercizio di
composizione urbana.
Gigantesca simulazione in forma di urbanità, nota e stereotipata per essere prontamente
immessa nel mercato delle fruizioni. Sovente se ne rintracciano assonanze e ascendenze nei
modelli europei come la Défense, ma questo theme park dal soggetto urbano-finanziario guarda
piuttosto ai festival marketplaces di James Rouse, in cui mix di funzioni attrattive e di intrattenimento,
si mescola a centri commerciali, uffici, residenze tematiche, connotato dalle qualità ambientali di
paesaggio e acqua.
Per il waterfront di Baltimore, Rouse infatti attiva strategie disneylandiane per attirare milioni di
visitatori e consumatori, costituendo il generale modello di riferimento della waterfront regeneration,
promossa negli anni ottanta e novanta nei più grandi porti nord americani, Boston, Miami, New
York, di cui proprio la canadese Olympia & York fu uno dei principali developer. I temi attrattivi dei
festival marketplaces ricorrono d’altra parte, opportunamente temperati, nelle riqualificazioni degli
anni novanta di altre città portuali europee, Barcellona, Genova, Rotterdam, Oslo.
Nonostante controverse vicissitudini realizzative, tra cui un cambio di proprietà dopo la crisi
recessiva sul finire degli anni ottanta, si può dire che Canary Warf, ottenuto con il Limehouse Link
Tunnel e la Jubilee Line Extension un adeguato e veloce collegamento con la City, rappresenta
ora una tra le parti più attrattive e vitali di Londra. Occorre riconoscere che, nel contesto della
competizione globale tra New York, Tokio, Francoforte, il distretto finanziario Canary Warf ha
permesso a Londra di riaffermarsi, vincendo la banking race, tra le maggiori piazze mondiali del
mercato finanziario.
Una struttura urbana per blocchi cerca di riprodurre una città densa: dispone isolati
lungo i bacini portuali esistenti che inglobati nella morfologia d’insieme conferiscono al contesto
particolari valori ambientali. Spazi urbani di tradizione Beaux Arts, nella declinazione americana
184
degli anni venti, semplificati e adattati all’uso dell’automobile, strutturano il Mall centrale sopra
la galleria commerciale e i parcheggi. Portici, scalinate e parterre dilatano la fruizione pubblica
fin nelle hall degli alberghi e degli uffici direzionali. La torre per la sede della HSBC di Foster and
Partners e quella per la Upper Bank di Kpf affiancano il precedente landmark di C. Pelli su Canada
place innalzandosi dal parterre centrale in un modello ibrido, blocco-torre, che evoca lo skyline
congestionato di un down-town americano ergendosi, visibile a distanza, segnale territoriale. Un
tale svettare di torri, legittimato da aspirazioni simboliche e rappresentative, scatenò da principio
rimostranze e proteste per l’eccessiva ‘americanizzazione’ che il modello veicolava, dal momento
che la densità edilizia proposta non era molto superiore a quella della Bloomsbury giorgiana.
Piazze, giardini, aperti, viali alberati, atri degli edifici, gallerie commerciali, parcheggi, e le grandi
hall della stazione ferroviarie e della recente metropolitana, allacciati nella continuità di uno spazio
pedonale, per esteso percorribile, risulta appena perturbato dal transito di corsie veicolari, peraltro
riservate ai taxi e al trasporto pubblico. Si può senz’altro affermare che SOM, nell’ideazione
dell’impianto morfologico, si sia mossa a partire proprio dalla concezione degli spazi aperti: sin
dagli inizi coinvolse e affiancò nella progettazione i landscaper dello studio Hanna/Olin. Precisata
la ‘parte profittevole’ del progetto divenne fondamentale stabilire il ‘carattere’ d’insieme, studiare a
fondo spazi urbani e facciate degli edifici.
I concorsi di progetto e le consultazioni, a cui tra altri parteciparono Kpf, Koetter, Kim, Aldo
Rossi, Troughton McAlsan, erano riservati alla sola progettazione di facciate, poiché sagome
volumetriche, tematiche di attacco a terra , portici, androni e distribuzione interna degli edifici erano
già stati, in modo rigoroso, fissati da SOM.
Negli anni ottanta, la prima fase dell’operazione costruisce sulle anse del Tamigi, attorno
al West Ferry Circus e a Cabot square. Gli edifici progettati da SOM, Kpf, Koetter, Kim, Pei Cobb
Freed, riproducendo e simulando una fantomatica metropoli americana ripropongono un
architettura storicista, accennando alla New York decò degli anni trenta, e pescando in sfocate
reminescenze dagli eroici anni della Scuola di Chicago.
Affacciati sulla penisola di Greenwich, e attorno a Canada place e al Jubelee park, gli
edifici della seconda fase, progettati da C. Pelli, Foster & Partners, SOM, Kpf, HOK si sono con
disinvoltura accodati al trend dell’architettura tecnologica: lucentezza e leggerezza, espresse in
grandi hall vetrate, materiali, griglie metalliche, lastre riflettenti di acciaio e bronzo lucidato, vetri
strutturali. Persino la concezione degli spazi aperti, dapprima incline al recupero di ‘convenzioni
urbane’, quali circus, piazze, boulevard, avenue, si affievolisce, lasciando che giardini e
sistemazioni paesaggistiche, il Jubelee park e le uscite vetrate dalla Jubelee Line, vivano una
maggiore e libera integrazione tra architetture, infrastrutture, spazi aperti e valori ambientali
presenti.
La spinta trasformativa che Canary Warf esercita sull’intorno è notevole. Il riuso di edifici
e warehouse affacciati sui bacini d’acqua adiacenti, è riuscito ad innescare un processo di
riqualificazione di un intero brano di città industriale dimessa, mentre altri recenti interventi
con uffici, residenze e attività commerciali assieme cercano di contaminare l’iniziale vizio
monofunzionale e attenuare l’originario destino di inner city, per aprirsi ad una fruizione più ampia
e allargata.
185
London, Canary Wharf
Progetto urbano e coordinamento: SOM
Società di sviluppo: Canary Wharf Group Plc
Progetti e realizzazioni: 1986 - in corso
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Westferry Circus: Hanna & Olin
1, 2,11 Westferry Circus: SOM, Koetter & Kim, Perkins & Will
15 Westferry Circus: Farrell & Partners
17 Columbus Courtyard: Gensler & Associates
20 Columbus Courtyard: SOM
Credit Suisse: Pei Coob Freed & Partners
25 Cabot Square: SOM
20 Cabot Square: KPF
10 Cabot Square: SOM
Cabot Square: Hanna & Olin
Docklands Light Railway Station
25 North Colonnade: T. McAslan, Adamson Associates
30 South Colonnade: KPF
One Canada Square: Pelli & Associates
5 Canada Square: SOM
8 Canada Square: Foster & Partners
33 Canada Square: Foster & Partners
25 Canada Square: Pelli & Associates
Canada Square Park: Hanna & Olin
15 Canada Square: KPF
Canada Place: C. Taylor
20 Canada Square: SOM
One Churchill Place: HOK
20 Bank Street: SOM
25 Bank Street: Pelli & Associates
West Wintergarden: Pelli & Associates
40 Bank Street: Pelli & Associates
East Wintergarden: Pelli & Associates
50 Bank Street: Pelli & Associates
10 Upper Bank Street: KPF
Jubilee Park: P. Wirtz
25 Churchill Place: KPF
20 Churchill Place: KPF
5 Churchill Place: HOK
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Milano, Grande Bicocca
Grande Bicocca entra nella storia urbana milanese agli inizi degli anni ottanta, facendosi largo
tra politiche di riorganizzazione urbana che con difficoltà stavano delineandosi. In quegli anni,
in alternativa all’urbanistica del piano, aleggiavano in Europa i ‘progetti speciali’, di cui si inizia
a parlare a Milano con il Documento Direttore del Progetto Passante del 1984. Tentando di
rispondere alla crisi urbana degli anni settanta, legata alle dismissioni industriali, si avviano grandi
progetti connessi al riassetto del sistema infrastrutturale metropolitano. Il Passante ferroviario
avrebbe potenziato l’asse nord/ovest – sud/est, asse storico di strutturazione delle relazioni della
città con il territorio, tramite collegamento sotterraneo della Stazione Bovisa delle Ferrovie Nord,
con le stazioni Garibaldi, Vittoria e Rogoredo delle Ferrovie delle Stato. La nuova accessibilità
urbana e territoriale avrebbe favorito nelle aree dismesse lungo il tracciato la localizzazione di
‘funzioni forti’. Di fatto la poca attendibilità degli strumenti attuativi del Documento Direttore, i
‘progetti d’area’, e la lentezza nella realizzazione del Passante impediranno l’implementazione dei
progetti e l’avvio delle trasformazioni.
In questa fase di stallo si fa avanti, sulle aree Bicocca in dismissione della Pirelli Spa, il
progetto del ‘Polo tecnologico’, sancito con il Protocollo di intesa nel 1985 e promosso da un
concorso internazionale di architettura vinto nel 1987 dalla Gregotti Associati. Dal punto di
vista strategico è chiaro come un grande intervento di trasformazione alla Bicocca si ponesse in
antitesi alle politiche urbane che faticosamente si andavano delineando. Se legittimo e necessario
fu porre la questione della ‘città diffusa del nord-est milanese’, e aver intravisto nella Bicocca il
baricentro virtuale di tale conurbazione, si deve ora riconoscere, a progetto quasi completato,
che è contestualmente mancata una strategia alla scala urbana complessiva, quella che a
Barcellona per esempio ‘riporta la città al mare’, o che a Parigi riconquista l’est, o ancora ad
Amsterdam riannette il porto alla città. In una Milano che dagli anni ottanta vedeva la costante
frammentazione degli interventi, anche il progetto Bicocca acquisì i risvolti di una Enterprise Zone,
che Pirelli Spa fu fermamente intenzionata ad attuare.
Una circostanza questa che certamente impose limiti al progetto urbano, costretto a operare
nell’enclave dei vincoli di proprietà, ma ancor più per l’impossibilità di collocarsi in una
ampia strategia urbana condivisa. Accenni a uscire dal recinto per introdursi fisicamente nella
città attorno vennero ipotizzati da Gregotti, Rossi e Valle nei rispettivi progetti di concorso, a
dimostrazione che il progetto avrebbe dovuto agire a ‘scala intermedia’, tra nuovo insediamento
e città, giungendo a livelli di complessità capaci di interconnettere sistemi urbani diversi: edilizio,
infrastrutturale e dei trasporti pubblici.
Con l’obiettivo di configurare un ‘centro storico della periferia’, strutturare cioè una nuova
centralità e un riferimento per la conurbazione nord di Milano, il progetto Bicocca fissa una
struttura d’ordine, laddove una caotica diffusione territoriale degli insediamenti mescola
resti di periferia industriale in trasformazione. Nella concezione dei caratteri morfologici si
palesa l’opzione per una città regolare, ordinata e organicamente interrelata, da risultare così
riconoscibile nella dispersione metropolitana. Cinque superblocchi articolati in diverse morfologie
e assoggettati a un asse di simmetria costituiscono la ‘spina centrale’, principio d’ordine che
struttura l’impianto: determina le articolazioni tra spazi e costruito, si raccorda con il perimetro
dell’unità d’intervento e, riprendendo le scansioni delle strade esistenti e la scala degli edifici
201
industriali dimessi, organizza una nuova gerarchia di rapporti interni e di relazioni con la città.
‘Asse attrezzato’ interagisce con tre sistemi, strutturati perpendicolarmente a esso.
A nord, un ‘bastione’ con parcheggi e giardini attraversa il centro sportivo esistente per
concludersi nell’insula residenziale che si innalza in un blocco edilizio bipartito. Al centro,
l’‘Esplanade’ lungo viale Sarca si impernia simmetricamente su ‘La Piazza’, centro commerciale
ribassato circondato da torri residenziali. A sud, l’asse di simmetria di via Emanueli riunisce i
Dipartimenti scientifici dell’Università degli Studi, le corti residenziali e la stazione FS di Greco.
Negli spazi di ‘risulta’, tra città e figure gerarchizzate, il triangolo del Teatro degli Arcimboldi, la
‘Collina dei Ciliegi’, e le sedi del gruppo Pirelli.
Come nella Università delle Calabrie, progettata negli anni settanta dal gruppo Gregotti,
un leggero ponte pedonale riunisce singoli manufatti per configurare una struttura d’ordine
a scala territoriale, così alla Bicocca un asse virtuale di simmetria inanella in sequenza i
superblocchi della spina centrale per oltre un chilometro di lunghezza. Tenere uniti cinque
manufatti, dovendo rinunciare a una reale continuità di costruito, induce Gregotti ad attuare
un’attenta strategia dislocativa, organizzata in gerarchie compositive e sostanziata da rimandi
morfologici e architettonici: simmetria bilaterale, articolazione planivolumetrica, reiterazione di
ordinamenti architettonici e linguistici, che tuttavia solo una mano progettuale unica e fortemente
determinata avrebbe potuto contenere in un insieme organico. La Gregotti Associati, struttura di
progettazione unitaria, all’interno del contesto virtuale del planivolumetrico e del contesto reale,
via via determinato per successive aggiunte, costruisce di volta in volta, di manufatto in manufatto
i presupposti di una logica relazionale tra le parti.
La figura dell’architetto coordinatore assume perfino il ruolo di autore di tutti i manufatti
e di tutti gli spazi aperti: un ‘auto-coordinamento’ quindi, che ha il significato di inverare il
planivolumetrico e i progetti preliminari, temperando nel processo realizzativo la frammentazione
di tempi e spazi generata da una dinamica gestione dell’operazione. Nemmeno le mutazioni
programmatiche e i cambi d’uso intercorsi, che da ‘Tecnocity’ negli anni ottanta passando per
il ‘Centro storico della periferia’ negli anni novanta giunsero nel duemila alla ‘Grande Bicocca’,
poterono scalfire l’organica struttura d’insieme, tale fu la determinazione a costruire secondo
regole planivolumetriche fissate. La fermezza con cui Gregotti persegue l’immagine unitaria
sembra essere risposta e insieme cautela nei confronti di tale frenetica gestione: temeva che
potesse sfuggirgli di mano il controllo sulla qualità insediativa. In simili circostanze, che vedono
una frammentarietà degli interventi accompagnarsi al mutamento radicale in corso d’opera
di obiettivi, destini e usi, bisogna riconoscere che anche il patto di solidarietà tra progettista e
committente sia stata indispensabile garanzia di controllo morfologico.
Con provvedimenti prettamente architettonici e compositivi si fissano differenti livelli di
relazione tra parti e tutto. Applicata a scala urbana, una sorta di teoria combinatoria alla
Durand si concretizza in forme pescate nell’antologia delle passioni architettoniche gregottiane:
l’organicismo di Oud e Dudok, il razionalismo di Libera e Terragni, il classicismo moderato di
Berhens e di Poelzig. Una dispositio, attuata alle diverse scale interagenti, avviene in differimento
di spazi e tempi mantenendo nel planivolumetrico la partitura fissa. Alla ‘scala della città’ si ricorre
al contrappunto delle emergenze: landmark stagliati nell’autonomia di segno e al contempo tra
loro relazionati da una ricorrenza di ordinamenti architettonici. Alla ‘scala urbana intermedia’,
per conferire forma agli spazi aperti si esprime un ordine gigante di scansioni edilizie e bowwindow. Alla ‘scala edilizia’, sequenze regolari di bucature, griglie ordinatrici, pannellature
modulate, elementi architettonici ripetuti rafforzano un principio di omologazione, identificando
l’insediamento rispetto l’eterogeneità dell’intorno. Varchi, portali e ritagli nei volumi rendono
inoltre percepibili gli assi di simmetria, mentre una strategia dislocativa di colori e materiali
ricorrenti individua insiemi relazionati.
La volontà di perseguire organicità e continuità favorisce un’osmosi tra architettura industriale
preesistente e nuova architettura. La regolarità su grande scala degli stabilimenti precedenti
viene riproposta nelle scansioni modulari del nuovo, così come i linguaggi adottati per i nuovi
elementi compositivi si riversano a loro volta sugli edifici da recuperare, così omogeneizzati e
assimilati all’insieme. Allo stesso fine si recupera Perret quando a Le Havre cerca equilibrio tra
varietà edilizia e organicità d’insieme in un linguaggio sostanziato da fatti costruttivi e tecnici e
da un sistema di modulazione che supporta il montaggio di elementi standardizzati. Aleggia
alla Bicocca, ripetutamente evocata dai dettagli di facciata, la standardizzazione a grande scala
di un mondo industriale. Ma di evocazione si tratta: rivestimenti, pelli, cappotti, pareti ventilate
riproducendone gli effetti percettivi rimandano a sistemi di industrializzazione edilizia, laddove
permangono invece modalità costruttive tradizionali.
Gregotti interpreta l’isolato urbano come modulo d’una struttura d’ordine organica e
unitaria di origine macrostrutturale e la progettazione prende forma a partire dal ‘pieno’ del
costruito. In forma di isolato, manufatti relativamente indipendenti trovano entro i loro perimetri
la propria ragion d’essere. Istaurano con la strada prevalentemente relazioni di collegamento e
accessibilità riassorbendo al loro interno l’energia urbana. Le strade sono unicamente principio
di perimetrazione e collegamento funzionale delle unità di intervento, gli spazi urbani sono meri
‘vuoti’, risultato della giustapposizione dei volumi edilizi.
Nel 2009, la società di sviluppo Pirelli RE, decide di ampliare l’insediamento verso Nord,
inglobando le aree Ex Ansaldo. Il progetto urbano e paesaggistico di completamento della
Grande Bicocca, elaborato da Giuseppe Marinoni, ancorandosi all’impostazione delle grandi
assialità presenti, provenienti da Bicocca e da Ansaldo, introduce elementi di continuità, ma
anche di forte discontinuità, con il quartiere esistente. Innanzi tutto il nuovo progetto dà valore
fondativo allo spazio aperto, e non più, e unicamente, al costruito. Tale inversione di campo si
prefigge di produrre un assetto relativamente unitario nella fruizione e nella percezione degli spazi
urbani configurati. Quattro grandi giardini entrano in relazione sinergica, sia morfologica sia
d’uso, con gli spazi urbani esistenti. Nuovi percorsi configurano i giardini e al contempo hanno
valore di tracciati fondativi nel delineare la dislocazione dei nuovi edifici, strategicamente collocati
per dialogare con il quartiere esistente e per definire gli spazi aperti generati.
202
203
Milano, Grande Bicocca
Progetto urbano e coordinamento: Gregotti Associati
Progetto paesaggistico: Andreas Kipar-Land
Progetto urbano e paesaggistico ‘Nuovo Centro Grande Bicocca’:
StudioMarinoni
Società di sviluppo: Pirelli RE
Progetti e realizzazioni: 1987 - in corso
1 Deutsche Bank: G. Valle
2 Uffici: Gregotti Associati
3 Gruppo Siemens: Gregotti Associati
4 Dipartimenti scientifici Università degli Studi di Milano: Gregotti Associati
5 Sede del Consiglio Nazionale delle Ricerche: Gregotti Associati
6 Residenza cooperativa: Gregotti Associati
7 Collina dei Ciliegi: A. Kipar-Land
8 Residenza Esplanade: Gregotti Associati
9 Residenza Le torri: Gregotti Associati
10 Teatro Arcimboldi: Gregotti Associati
11 Residenza cooperativa: Gregotti Associati
12 Università degli Studi di Milano: Gregotti Associati
13 Pirelli Headquarter: Gregotti Associati
14 Centro Ricerca Pneumatici Pirelli: Gregotti Associati
15 Centro Ricerca Cavi Pirelli: Boeri Studio
16 Bicocca Village: B. Camerana
17 Hangar Bicocca: Cerri & Colombo Associati
18 ‘Nuovo Centro Grande Bicocca’: StudioMarinoni
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Milano, Nuova Portello
Il Documento Direttore del Progetto Passante del 1984 inaugura a Milano l’era dei ‘progetti
speciali’ come alternativa alla pianificazione comprehensive del Piano regolatore vigente,
causa di inerzie procedurali e scarsa incisività nel generare qualità insediativa nei processi
di trasformazione. Tale documento è uno dei primi tentativi, sia pure analitici ed esplorativi,
di soppesare il portato delle aree in dismissione e cogliere come opportunità una risorsa
territoriale, che tra brownfield e scali ferroviari conta oltre un quarto della superficie
comunale. Le aree dismesse dei gasometri alla Bovisa, dell’ex Alfa Romeo al Portello, della
Montedison a Rogoredo, del Garibaldi Repubblica, unite agli scali Farini, Vittoria e Romana
diventano nel Progetto Passante potenziali nuove centralità, parti di una strategia urbana
complessiva di riorganizzazione infrastrutturale e urbana che ha nel Passante ferroviario il
suo punto di forza: potenziare l’asse storico nord/ovest - sud/est tramite il collegamento
sotterraneo della Stazione Bovisa con le stazioni Garibaldi, Vittoria e Rogoredo.
Tra questi ‘progetti speciali’, Nuova Portello, sulle aree dismesse ex Alfa Romeo ed ex
Lancia, è quello che maggiormente ha contribuito a generare qualità urbana e insediativa,
avviando un processo di riqualificazione del comparto nord/est della città di Milano che
comprende la riorganizzazione del polo urbano fieristico e congressuale e, successivamente,
la riqualificazione dell’ex quartiere fieristico con il progetto CityLife. Porta di accesso alla città
dal sistema autostradale nord, Nuova Portello si trova a cavallo della circonvallazione di viale
Serra, nel tratto delimitato dalle due direttrici di nord/ovest che collegano il centro città alle
autostrade.
Nel 2001 il Comune e le società Nuova Portello e Auredia stipulano l’accordo di programma
per attuare il Programma integrato di intervento con l’obiettivo di costruire una parte di
città, che integrandosi al tessuto urbano circostante possa dare forma al vuoto lasciato
dalle demolizione dei capannoni industriali. Il mix funzionale è comune a molti altri quartieri
avviati nelle aree semicentrali di Milano in quegli anni: residenza, un centro commerciale,
parcheggi, uffici, e metà della superficie territoriale destinata a parco.
Se gli esiti qualitativi di Nuova Portello differiscono enormemente dagli altri quartieri costruiti
in quegli anni a Milano, quasi tutti piuttosto deludenti, lo si deve unicamente alla qualità del
progetto urbano e architettonico di Gino Valle e alla gestione di una committenza illuminata
guidata da Ennio Brion.
Il progetto urbano si configura qui come un planivolumetrico che fissa l’assetto del costruito
e la configurazione degli spazi aperti. Tant’è che ai progettisti successivamente coinvolti è
chiesto di sviluppare il progetto architettonico proprio a partire dai principi urbani individuati
da Valle.
Una sorta di collage tra città per isolati ed edifici disposti en plein air inscena Valle. La
volontà e quella di ricomporre la forma della città esistente centrata sul tridente generato da
piazzale Accursio, e rispondere al contempo all’irruenza infrastrutturale del viale Scarampo
proveniente dall’autostrada e del viale Serra che taglia in due l’area.
Già nella scelta della dimensione degli isolati che definiscono i bordi di via Traiano si
comprende la volontà di mettere in collisione due modelli urbani: edilizia a cortina per
definire il fronte della strada ed edilizia aperta con torri e blocchi, ritenuta più consona a
esprimere l’affaccio sul parco.
216
217
Anche il centro commerciale si scompone in questo progetto, per articolarsi come insieme
di isolati urbani di differenti dimensioni riuniti in aggregato: una cittadella, dove edifici
commerciali, spazi aperti e parcheggi interrati si integrano esprimendo una dimensione
urbana che riesce anche a sottrarsi ai limiti di una tematizzazione. Motore economico di
un’operazione di sviluppo immobiliare, il centro commerciale diviene qui, unicamente per la
lungimiranza ideativa e gestionale di progettista e committente, anche motore morfologico
dell’intero complesso. E’ infatti dagli spazi aperti dell’aggregato commerciale che dipartono
le lunghe assialità dei tracciati che generano gli spazi aperti e la dislocazione degli edifici.
L’aggregato commerciale concepito da Valle è composto da cinque blocchi: sorta di
collage tipologico tra la grande scala delle ‘piastre’ commerciali e il ‘tessuto’ dei negozi.
Una strategia dislocativa improntata su una morfologia a più scale interagenti permette
di generare ‘vie’ e ‘piazze’, ibridando il modello del centro commerciale con il modello
dell’outlet. Con questo esempio ci si avvicina, per la prima volta in Italia, agli esempi europei
di urban commercial district, rappresentati in questo libro dallo Stadshart di Almere. Un
modello che, allontanandosi dal contenitore monofunzionale di stampo megastrutturale,
cerca di generare una varietà morfologica e di usi che echeggi il ‘centro commerciale
naturale’, così come lo si ritrova in alcuni centri urbani europei e italiani.
Una pensilina alta quindici metri identifica il ‘coperto’ della piazza principale e diviene
il fulcro simbolico e funzionale del sistema degli spazi aperti. Da qui, l’arrivo delle scale
e tappeti mobili connette il piano urbano al piano interrato dei parcheggi e delle zone
espositive e di servizio.
Tutta la zona è pedonalizzata. E strategicamente Valle disloca gli accessi automobilistici e di
servizio in più punti, raccordandosi con maestria al sistema viario della città attorno, senza
introdurre morfologie viabilistiche extraurbane, come spesso avviene in dispositivi di questo
tipo.
Valle, con questo esempio, cerca di stemperare la carica dirompente della funzione,
lavorando strenuamente sulla concordanza con i valori della città attorno. Il complesso
congegno proposto in centro città come sistema di isolati urbani è esemplare nel dimostrare
quanto un intervento di tali dimensioni, circa settantamila metri quadrati di superficie, possa
anche esprimere valenze urbane, integrandosi alla città esistente.
Gli edifici sono realizzati con elementi prefabbricati in cemento armato, ed esprimono quel
carattere pragmatico e sobrio che contraddistingue le architetture per il terziario e l’industria
del ‘periodo friulano’ di Valle. Pensiline e balconate dislocate lungo le strade pedonali
riescono a conferire un carattere urbano all’insieme e al contempo garantiscono una
continuità coperta al percorso dello shopping, necessaria al funzionamento della ‘macchina’
commerciale.
Un timido tentativo di introdurre una sorta di plurifunzionalità avviene sulla via principale di
ingresso dalla città, dove un edificio a più piani ospita, oltre ai negozi al piano terreno, uffici
e servizi urbani ai piani superiori. Siamo comunque ancora distanti dagli esempi europei
citati in questo libro come lo Stadshart di Almere, la Debis a Potsdamer Platz o HafenCity
di Amburgo, dove a un’ibridazione morfologica corrisponde anche un’ibridazione di usi
e funzioni, tra piano terra commerciale e piani superiori residenziali o terziari: esempi di
proficua ri-creazione di reale vivacità urbana, oltre che di varietà di forma.
Varietà formale, nella relativa omogeneità d’uso, ricercata in modo parossistico anche da
C. Zucchi, immettendo una dimensione paesaggistica, sia morfologia sia di linguaggio
architettonico, nel planivolumetrico ereditato da Valle. Partendo dai tracciati identificati
nel progetto urbano, Zucchi introduce una libera sequenza di torri come interpretazione
dell’approccio combinatorio già sperimentato da Valle nell’aggregato commerciale. E
accompagna così in modo significativo l’ingresso al parco urbano, centro della nuova parte
di città. Collage di tipi edilizi, l’isolato di Zucchi rispecchia in modo vagamente funzionalista
le categorie d’uso residenziali: edilizia libera, edilizia convenzionata, riuso a residenzaservizi della ex mensa Alfa Romeo. E così, mentre gli edifici in linea delimitano con un
solido basamento lapideo l’isolato lungo via Traiano, le torri si stemperano in un pulviscolo
divisionista di logge, pannelli vetrati, parapetti metallici e campiture di intonaco variamente
colorate, dialogando con le sinuosità del parco di C. Jencks e A. Kipar su cui si affacciano.
Un giardino di ‘colline’, quest’ultimo, che si relaziona fisicamente e morfologicamente al
Monte Stella concepito da Piero Bottoni nel Dopoguerra e, idealmente, ai rilievi prealpini
rimirabili nelle giornate terse dai piani alti degli edifici. Trascritto come opera di Land art, tale
giardino, utilizzando le terre di scavo degli interrati dei parcheggi, costruisce una sequenza
fluida di forme concavo-convesse in reciproco rispecchiamento: soggiacendo alla geometria
dominante a spirale, il vuoto del lago si materializza nel pieno del vortice del promontoriobelvedere.
Anche il super-isolato progettato dallo Studio Canali cerca di rispondere alle due forti
presenze del luogo: la città a nord e il nuovo parco a sud. Un’edificazione a cortina
consente di ricavare un ampio giardino semipubblico, mediazione tra città e parco e luogo
per accogliere una sequenza di torri di evocazione wrightiana, sia per le esplicite citazioni
architettoniche che per l’inclinazione a mescolare organicamente ‘artificio e natura’.
La scomposizione paesaggistica ha guidato Valle anche nella configurazione morfologica
della piazza con i tre edifici del terziario collocati a ridosso di Fiera Milano City. Alla difficile
condizione di relazionarsi al fuori scala del timpano, concepito negli anni ottanta da M.
Bellini come testata monumentale dei padiglioni della fiera, Valle risponde con una lieve
opera di decostruzione: tre semi-timpani liberamente dislocati sul suolo. Nella configurazione
d’insieme essi acquisiscono una carica geografica capace, con il grande parterre unitario
concepito da Topotek, di fare da contraltare al parco al di la del viale, al quale si riunisce
con l’agile balzo fatto compiere da Arup alla pensilina strallata.
218
219
Milano, Nuova Portello
Progetto urbano: Studio Valle Architetti Associati
Coordinamento strategico: Ennio Brion
Coordinamento generale: Pirelli RE
Progetto paesaggistico: Charles Jencks, Andreas Kipar-Land
Società di sviluppo: Ennio Brion-Nuova Portello, Auredia
Progetti e realizzazioni: 2002 - in corso
1 Aggregato commerciale: Studio Valle Architetti Associati
2 Parco: C. Jencks: A. Kipar-Land
3 Residenze isolato nord-ovest: Cino Zucchi Architetti
4 Residenze isolato nord-est: Canali Associati
5 Asilo: Canali Associati
6 Uffici comparto sud-est: Studio Valle Architetti Associati
7 Piazza comparto sud-est: Topotek
8 Passerella ciclopedonale: Arup Italia
2
3
3
1
1
7
4
5
8
8
6
2
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4
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6
9
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50
100m
1
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3
4
5
6
7
8
9
Paris, Parc Bercy, Seine Rive Gauche
Quando, verso il finire degli anni settanta, Parigi prende coscienza dei vuoti lasciati a est
della città, nuove pratiche di costruzione urbana si stavano da poco affacciando dal panorama
architettonico contemporaneo. Cominciava allora a balenare nella concezione degli insediamenti
l’esigenza di una profonda revisione di metodi e principi, occorreva contrapporsi al modello di
metropoli dissolta nel territorio realizzata con i grands ensembles.
Già il Plan d’Occupation du Sol del 1974 ipotizza una mutazione di intenti nelle pratiche
trasformative: Apur (Atelier Parisien d’Urbanisme) dopo accurato studio sui tessuti della città, delinea
un approccio al recupero urbano, distinguendo aree di rénovation da quelle di restauration.
Riprendere l’allineamento stradale, i limiti di altezza e la partizione per isolati mostra i nuovi
intendimenti emersi dalle ricerche sulla città storica, che preannunciano l’emergere di una nouvelle
vague urbanistica.
La ‘riconquista’ dell’est parigino caldeggiata dal motto Paris se lève à l’est, inaugura il
cambiamento di rotta: l’urgenza di rimettere in uso le aree obsolete, abbandonate dalla dismissione
industriale, e di riorganizzare l’assetto ferroviario guida il processo di espansione del centro, o meglio
l’estensione delle sue qualità fisiche e spaziali. Adottato nel 1983 dalla municipalità, allora retta da
Jacques Chirac, il Plan Programme de l’Est de Paris inquadra diverse pratiche di trasformazione entro
una generale strategia di politica urbana, tesa a valorizzare proprio questa parte di città. Gli strumenti
e le modalità attuative sono noti e già collaudati: la procedura di attuazione urbanistica della Zac
(Zones d’Aménagement Concerté) consente di intessere pratiche negoziali sottraendosi alle previsioni
di piano, mentre la Sem (Société d’Economie Mixte), costituisce il braccio operativo ed economico
che permette all’operatore pubblico di assumere il controllo della trasformazione urbana.
Nell’aspirazione a produrre morceaux de ville, parti di città capaci di riassumere le spazialità e
l’alta densità del centro, si prendeva distanza sia dalle pratiche di zonizzazione per grands ensemble
attuate dal piano precedente, sia dagli esercizi di spettacolarizzazione architettonica voluti da François
Mitterrand. Le ‘politiche’ del Sindaco entrano in competizione con i ‘Progetti’ del Presidente, siglando
non tanto un conflitto istituzionale quanto la contrapposizione di due differenti nozioni di città: una
sulla scia delle teorie emanate dal Ciam VIII ‘Il cuore della città’, esalta nel monumento isolato
l’emblema della rappresentatività collettiva, rilanciando simbolicamente le istanze di rinnovamento
della città. L’altra, ripercorrendo la lezione hausmanniana, fa leva sullo spazio pubblico nelle sue
connotazioni di qualità, per dispensare urbanità nella periferia dilagata. Entro tale polarità, i Grands
Projets presidenziali da una parte e dall’altra il lavoro più minuto dell’aménagement, promosso dalla
municipalità parigina con cinquanta o forse più Zac.
Una contrapposizione che è andata esaurendosi. Oggi le due politiche urbane e le due
opzioni culturali si sono proficuamente ‘con-fuse ’. Il rinnovamento dell’architettura, perseguito dal
programma politico-culturale di Mitterrand e prodotto nell’‘eccezionalità’ dei nuovi temi progettuali
avanzati, si è infatti riversato sui progetti di trasformazione urbana, giungendo a connubi interessanti
nella Zac Bercy e nella Zac Seine Rive Gauche.
La grande area dei depositi vinicoli a Bercy, a differenza della maggior parte della aree
industriali dimesse, presentava spiccate qualità insediative ed ambientali anche prima della
riqualificazione. Depositi ed edifici di un certo pregio della fine dell’Ottocento, allineati su strade
selciate perpendicolari al corso della Senna, si intercalavano ad oltre cinquecento alberi secolari,
eredità dei settecenteschi giardini di Bercy, antico luogo di villeggiatura della nobiltà parigina. Valenze
233
ambientali che risultano esaltate dalla nuova configurazione morfologica, dominata dal grande
parco.
Rispetto ai modelli di riferimento adottati, gli square londinesi e gli spazi monumentali del
centro parigino, il parco di Bercy svolge in questo assetto urbano un ruolo strategico passivo. Non
governa i principi insediativi delle edificazioni e delle infrastrutture attorno, ma, a posteriori, riesce
a rintracciare relazioni conferendo senso agli interventi incrementali, via via collocati ai bordi della
perimetrazione di piano, per anni senza definizione formale. Nel progetto di concorso vincitore
della consultazione internazionale del 1987 Huet e Ferrand esprimono la volontà di riunire e
riposizionare i frammentari interventi edilizi ed infrastrutturali, trovatisi accidentalmente e senza alcun
coordinamento ai bordi del parco. Abbandonata la rigida struttura urbana del neo-haussmaniano
approccio della Apur, il parco cerca di prender senso a partire da un’attenta interpretazione dei pochi
resti del vecchio tessuto dei magazzini. Con pazienza archeologica si riabilitano i tracciati obliqui
e irregolari di discesa alla Senna, mettendo in risalto i filari d’alberi secolari esistenti e i frammenti
di costruito rimasti. Una nuova trama di percorsi si sovrappone in filigrana ai tracciati che corrono
paralleli alle strade rinvenute.
In sequenza tre diversi tipi di giardini - la prairie, les parterres, le jardin romantique - mettono
in relazione il Palazzo Omnisports con il Bercy Village. Verso la Senna i giardini si affacciano con
una lunga terrazzata. Sorta di infrastruttura articolata, che accoglie negli spazi sottostanti parcheggi,
strutture di servizio e una cisterna d’acqua. Solida barriera difensiva nei confronti della strada
espressa proveniente dal Boulevard Périphérique che preclude però il rapporto del parco con la
Senna.
In felice integrazione il parco di Huet si raccorda con il costruito sul bordo est progettato
da Hammoutène, Chaix, Morel, Montes, Lion, Dusapin, Leclercq, de Portzamparc, Ciriani, con il
coordinamento di Buffi e con la testata sulla prairie di Gehry. Momento d’eccezione rispetto alle
coeve trasformazioni urbane, cerca di attenuare le incongruenze di un quartiere che vuole ergersi a
vera parte di città. Il lungoparco di Bercy nasce da un progetto coordinato che senza sistemi regolativi
coercitivi ha saputo connettere impianto morfologico d’insieme e singoli edifici. Liberamente
acquisiti dagli architetti, principi di costruzione urbana vengono reinterpretati nella condivisione di
una ‘comune cultura’ attorno l’architettura moderna della città. Nel fronte costruito di 600 metri
affacciato sul nuovo parco si aprono porosità tra giardino e città che sta alle spalle. Così è la nuova
condizione ambientale a reclamare per il modello dell’isolato la ricerca di specifici e appropriati
temi, un isolato da ripensare nella complessità delle sue articolazioni, e non semplicemente dedotto
dalle convenzioni urbane. Nuove regole di découpage organizzano le relazione entro e fuori l’isolato
e i rapporti reciproci tra i diversi isolati. A ciascun progettista vengono affidati porzioni di isolato
e uno spazio urbano, anzichè ‘parcelle edilizie’. Il processo analitico attorno all’isolato produce
una frammentazione delle parti e una successiva declinazione plurale delle stesse perché il fronte
del parco possa raccogliersi in una figura d’insieme: una dissolvenza divisionista degli elementi
che sensibile ai valori della luce e dell’aria, si fa controcanto al quadro ambientale e vegetale che
fronteggia.
Quando la Zac Bercy era già in costruzione, la Parigi stretta tra l’acqua della Senna e i binari
ferroviari della Gare d’Austerlitz ancora si presentava come un’enorme enclave ferroviaria: un
paesaggio di periferia industriale tra il Boulevard Périphérique e il Jardin des Plantes, a due chilometri
da Notre-Dame. Dal 1992 la municipalità con la SNCF ne avvia il progetto di riqualificazione
sull’esempio del Parco Bercy al di là della Senna. Ma qui non è il parco a suggerire la morfologia
del nuovo quartiere. Una dalle ininterrotta, nuovo suolo artificiale scavalca i fasci dei binari ferroviari
per far posto alla città: la diversa relazione che istaura con la città e l’infrastruttura l’allontana dal
modello città-macchina, sperimentato, con risultati controversi, negli anni sessanta alla Défence.
Nuovi equilibri allacciano sottosuolo e soprasuolo. Smantellato lo scalo ferroviario a ridosso della
Senna, una nuova parte urbana si innalza sopra i quai e la città attorno. L’Avenue de France, asse
del nuovo insediamento, corre dieci metri più in alto del sedime ferroviario su quale poggiano, tra i
binari, le strutture di sostegno alla piattaforma e insieme di fondazione per gli edifici soprastanti. Su
progetto di Ch. Devillers, il quartiere Austerlitz ripensato nella morfologia di strade e isolati, si incune
fin dentro la città. R. Schweitzer concepisce il quartiere Tolbiac attorno alla Bibliothèque Mitterrand
di D. Perrault, centro simbolico dell’insediamento e landmark per tutta Parigi. Nel quartiere Masséna
che giunge fino ai bordi del Boulevard Périphérique, Ch. de Portzamparc ibrida un allineamento
su strada prettamente urbano con un’edilizia aperta dislocata nel giardino. Come di prassi nel
progetto urbano coordinato diversi progettisti in progetti distinti individuano impianto morfologico
e linee guida per i numerosi architetti in seguito coinvolti. Isolati e singoli edifici pur seguendo i
dettami delle convenzioni urbane sono realizzati in forme e materiali contemporanei, e rimandano
alla Bibliothèque Mitterrand. In una leggerezza visiva e percettiva tessuti edilizi, griglie metalliche e
di legno, pennellature vetrate si relazionano riflettendo le qualità ambientali del sito, luce, acqua
e vegetazione. Varchi e vetrate spalancano traguardi visivi e trasparenze destabilizzando e al
contempo arricchendo modelli morfologici convenzionali. Riappacificate con la città le infrastrutture,
né completamente annullate né parossisticamente esaltate, partecipano alla più generale fruizione
urbana, offrendosi per frammenti agli sguardi dagli spazi urbani soprastanti.
Insieme ad altre coeve sperimentazioni - l’Avenue Wilson di M. Corajoud a copertura della
A1nella Plaine Saint-Denis e la Gare de Montparnasse con i soprastanti giardini di …..Penà rappresenta un felice esempio di copertura di grandi infrastrutture della mobilità. Adagiata su un
nuovo ‘suolo’ anziché sospesa su una ‘piastra’, questa incoraggiante declinazione di città pensile
mescola urbanità, paesaggio e infrastrutture, accordando ricchezza e varietà oltre che valenze
qualitative inedite ad un brano di città compatta.
Parc Bercy e Seine Rive Gauche sono tra i più significativi episodi nella riconquista dell’est
parigino. Sebbene aver lasciato che le due aree divenissero oggetto d’interventi operativi autonomi
e indipendenti impedì una visione complessiva del settore urbano compreso tra i due scali ferroviari
dismessi e venne così accantonata la ricerca di un rapporto con la Senna e di una possibile relazione
tra le due rive.
Due limitrofe parti di città, intorno al parco di Bercy e imperniato sulla Bibliothèque Mitterrand,
si sono innalzate in relativa indipendenza. Le torri angolari della Bibliothèque che vediamo spuntare
dal parco Bercy e dall’elegante invaso geografico della Passerelle Simone-de-Beauvoir, lasciano
presagire le possibilità di una concezione urbana attenta alla Senna e ai suoi quai e pronta ad
assegnare loro un ruolo significativo nella configurazione d’insieme. Nelle prime riflessioni elaborate
per l’Expo 89 alcuni progetti organici illustrarono ampiamente i vantaggi offerti da una sistemazione
‘traversante’ la Senna, pregi già oltremodo evidenti nell’assetto di alcuni spazi monumentali della
città.
234
235
Paris, Parc Bercy, Seine Rive Gauche
Parc Bercy
Progetto urbano: Apur - Atelier Parisien d’Urbanism
Coordinamento del Fronteparco: Jean Pierre Buffi
Progetto del Parc Bercy: B. Huet, M. Ferrand, J. Feugas, B. Le Roy
Società di sviluppo: Semest - Zac Bercy
Progetti e realizzazioni: 1989 - 1995
Seine Rive Gauche
Progetti urbani e coordinamento:
Austerlitz Nord: Christian Devillers
Tolbiac Nord: Roland Schweitzer
Masséna Nord: Christian de Portzamparc, Ateliers Lion
Masséna Chevaleret: Bruno Fortier, Jean-Thierry Bloch, Ateliers Lion
Società di sviluppo: Semapa
Progetti e realizzazioni: 1988 - in corso
0 10 m
20 m
6
1
5
5
6
7
8
8
12
11
4
3
Parc Bercy
1 Cinémathèque Française: F. Gehry
2 Residenza: F. Hammoutène
3 Residenza: Chaix & Morel
4 Residenza: F. Montes
5 Residenza: Y. Lion
6 Residenza: Dusapin & Leclercq
7 Residenza: C. de Portzamparc
8 Residenza: H. Ciriani
9 Parc Bercy: B. Huet, M. Ferrand, J. Feugas, B. Le Roy, I. Le Caisne, P. Raguin
10 Bercy Village: Valode & Pistre
11 Ministère de l’Economie: Chemetov & Huidobro
12 Palais Omnisports: Andrault & Parat
13 Passerelle Simone de Beauvoir: D. Feichtinger
14 Caisse des Dépôts et Consignations: C. Hauvette
15 BPCE: Jodry & Turner
16 Le Fulton: Valode & Pistre
17 Residenza: J. Roca
18 Uffici: Chaix & Morel
19 Residenza: P. Gangnet
20 Residenza: F. Hammoutène
21 Equinoxe: Thin & Cianfaglione, P. Gravereaux
22 Bibliothèque François Mitterrand: D. Perrault
23 MK2: Namur & Wilmotte
24 Residenza: F. Soler
25 Athos: J. Charpentier
26 Uffici: Dusapin & Leclercq
27 Residenza: R. Bofill, Giraud & Hecly
28 Residenza: Brenac & Gonzales
29 Residenza: E. Girard
30 Uffici: A. Grumbach
31 Residenza: C. Furet
32 Residenza: J. Pargade
50 m
100 m
33 Residenza: C. Devillers
34 Residenza: A. Stinco
35 Grands Moulins Université Paris 7: R. Ricciotti
36 Esplanade des Grands Moulins: Interscène Paysagistes
37 Banque Populaire: C. Devillers
38 Residenza: H. Gaudin
39 Université Paris 7: Chaix & Morel
40 Ministère de la Jeunesse et des Sports: J. Viguier
41 Residenza: Brenac & Gonzales
42 Département-Ville de Paris: Chementov & Huidobro
43 Jardin Cyprien-Norwid: Atelier Tournesol
2 3
10
9
7
4
2
12
13
Austerlitz Nord
1
15
Tolbiac Nord
Masséna Nord
17
14
19
15
28
17
Austerlitz Gare
16
Austerlitz Sud
27
10
15
14
9
13
38
34
32
24
22
20
31
19
29
35
36
16
18
21
33
18
23
25
26
11
30
37
13
Tolbiac Chevaleret
39
40
42
41
43
22 Masséna Chevaleret
21
20
0 10 m
20 m
50 m
100 m
0 10
20
50 100m
1
3
2
4
5
7
6
8
9
11
10
12
13
15
14
16
17
18
19
20
21
22
Saint-Denis, Plaine Saint-Denis
Con criteri paesaggistici un ambizioso progetto urbano riqualifica a nord di Parigi l’ampio
territorio che per circa 700 ettari si allunga tra il Boulevard Périphérique e la cattedrale di SaintDenis: la Plaine Saint-Denis. La conurbazione metropolitana qui sorta, ha nel corso del tempo
visto un frenetico stratificarsi di usi e infrastrutture. L’ottocento vi colloca industrie chimiche
e manifatturiere per la presenza di scali ferroviari e del canale navigabile di Saint-Denis, il
novecento le infrastrutture della grande viabilità di collegamento tra il nord della Francia e la
capitale, infine negli anni sessanta grands ensambles residenziali andranno a densificare la fascia
di piccoli borghi compresa tra Parigi e le villes nouvelles, congestionando ulteriormente la già
sterminata banlieue parigina.
Un progetto di ampio respiro che incrina i confini tra città ed infrastruttura, tra città e
paesaggio e tra progetto urbano e progetto paesaggistico. Scompaginate le convenzionali
regole di costruzione urbana, le attuali sperimentazioni colmano vecchie divisioni. La dicotomia
paesaggio-città, costruito-natura, che ancora improntava l’eroismo modernista, dissoltasi in una
coesistenza di elementi plurimi lascia il posto a complesse e stratificate ibridazioni insediative.
D’altronde le odierne pratiche di progettazione urbana sembrano fondersi e confondersi con
la progettazione paesaggistica. Con pazienza a Plaine Saint-Denis ci si è proposti di costruire
assieme città e paesaggio, lavorando in promiscuità di materiali e tecniche. La manipolazione
contestuale di edilizia, vegetazione, infrastruttura e geografia senza ergersi a precetto aprioristico,
a poetica o stile, diventa infatti la condizione operativa che permette di esercitare un’azione
efficace di trasformazione e miglioramento della realtà trovata.
Terrain vague, ‘spazi eterotopici’, infrastrutture sottoutilizzate, resti di dismissioni produttive,
non più segni da annullare, sono piuttosto frammenti di paesaggio che fanno l’eterogenea
ricchezza della città contemporanea. Con tali presupposti, il gruppo di architetti e paesaggisti
Hippodamos 93 (Y. Lion, M. Corajoud, P. Riboulet, Ph. Robert) agli inizi degli anni novanta fissa
i contenuti di una trasformazione qualitativa e di una riqualificazione ambientale in tre chiari
principi: “valorizzare gli elementi paesaggistici presenti nel sito”, “fondare lo spazio pubblico con
determinazione”, “innestare un progetto economico nel progetto urbano”.
Ciò che M. Corajoud definisce gli horizons-paysages, sono qui le peculiarità
paesaggistiche di un luogo che mette in relazione la collina di Montmartre, la basilica di SaintDenis e la geografia della Senna. E’ la nuova concezione di paesaggio veicolata, inedita sia
in termini percettivi che di uso, che rende interessante il loro approccio. Paesaggio sono le
testimonianze significative della precedente storia industriale, i larghi orizzonti sugli scali ferroviari,
le curvature dei tracciati ferroviari e delle anse dei canali, i segni e i manufatti infrastrutturali. Se
ne preferisce il ‘recupero inclusivo’ che sappia far tesoro di stratificazioni conflittuali depositate
nel corso del tempo, anziché decretarne la cancellazione in nome di un paesaggio naturale
preesistente da ripristinare o in nome di operazioni puramente estetiche di camouflage. Artificiale,
certo, ma è anche questo paesaggio. Non si risponde con convenzionali nozioni di spazio
urbano alla necessità di “fondare lo spazio pubblico”. Una paziente ricerca trova nuovi modi di
prefigurare spazi aperti, riscopre trame, legge nell’esistente inedite relazioni, mescola elementi
vegetali a pavimentazioni, costruito ad infrastrutture. Ad un principio di strutturazione gerarchica
degli spazi urbani e delle infrastrutture contrappone una visione ‘rizomatica’ e pervasiva, che
255
spinge i nuovi spazi aperti ad insinuarsi tra gli interstizi del costruito e a destabilizzare la consueta
divisione di pubblico, semipubblico e privato. Una nuova geografia, costruita per continue
inclusioni e aggiustamenti, si produce da un principio che governa successive approssimazioni
in un processo in divenire, più che dalla determinazione a raggiungere nel tempo un disegno
preordinato. Principio che permette di accogliere in itinere progetti ed occasioni come il nuovo
Stade de France per i Mondiali del 1998 o il villaggio Olimpico qui previsto dopo la candidatura
parigina.
L’ambizione di Patrick Braouezec, il sindaco di Saint-Denis che ha avviato l’operazione
coinvolgendo le municipalità confinanti, è di innestare un progetto economico nel progetto
urbano. Voleva un rilancio economico e sociale delle comunità locali elevando le qualità
ambientali di un’ampia porzione di territorio intercomunale. Il lavoro nel paesaggio, volto a
conferire significati d’uso e qualità a spazi e luoghi, collega con una rete di nuove relazioni parti
funzionalmente e fisicamente separate conferendo nuova immagine alla città, come offerta per
attrarre investitori e nuovi abitanti. Tredici Zac sono tuttora state lanciate, anche se finora non
sembra prevalere la qualità progettuale e realizzativa auspicata dal gruppo Hippodamos. Nella
capillarità e pluralità degli interventi spiccano però alcuni fatti: l’Avenue Wilson ricavata dalla
copertura di un tratto dell’autostrada A1, la nuova parte di città imperniata sull’avenue du Stade
de France, il canale navigabile di Saint-Denis recuperato e reimmesso nei circuiti della fruizione
collettiva, la realizzazione della stazione RER Plaine-Stade de France e la Plaine de la Plaine
ancora in fase di progetto, parco abitato e nuovo quartiere urbano a baricentro dell’area.
La copertura dell’autostrada A1 è considerata da Michel Corajoud e dall’equipe
Hippodamos 93 come imprescindibile condizione per attuare il recupero urbano e ambientale
di questa parte di territorio. L’operazione acquisisce una valenza dimostrativa: un progetto
di paesaggio deve sapere avviare atti trasformativi, riparare e risarcire non solo appianare
contraddizioni occultandole con opere ‘verdi’ di mascheramento. “Riparare come ad un danno di
guerra, riparare all’espropriazione di territorio ed alla mutilazione urbana”, commessa nel 1960
cancellando l’antico asse reale, che con una monumentale alberatura di ippocastani collegava
la Basilica di Saint-Denis a Notre Dame, per realizzare in trincea l’autostrada che dal Boulevard
Périphérique attraversa i quartieri abitati a nord-est. Non serve mitigarne gli effetti nefasti con
‘impacchi di vegetazione’, come Alain Roger chiama le opere decorative apposte alle ferite
inferte nel paesaggio. Occorre invece offrire nuovi usi, produrre nuove relazioni fisiche e spaziali,
con modifiche ‘strutturali’, capaci di interrelare le parti divise della città. Proposta già alla fine
degli anni sessanta, la copertura potrà realizzarsi solo grazie agli investimenti giunti in occasione
della World Cup 1998 per la costruzione dello Stade de France nella parte a nord della Plaine.
Centro di un nuovo quartiere realizzato con la procedura della Zac, con alberghi, uffici, luoghi
di intrattenimento e abitazioni, il nuovo stadio e gli investimenti indotti hanno fornito un implulso
decisivo per l’avvio di opere di riqualificazione già previste nel progetto urbano e paesaggistico
della Plaine. Realizzata nel 1999 dal paesaggista Corajoud, il lighting designer Fashard per
l’illuminazione e l’architetto Lion per le parti edilizie, la copertura si configura come una dalle di
circa cinque ettari lunga un chilometro e mezzo che organizza in successione giardini piantumati,
parterre con aree di sosta e di gioco, spazi per i mercati rionali e piccoli equipaggiamenti per
gli usi del quartiere. In bilico tra un giardino artificiale ed un’infrastruttura urbana il manufatto,
appoggiato con travature perpendicolari al tracciato autostradale, risolve, nel suo limitato
spessore, la funzione di barriera osmotica tra il sopra della città ed il sotto del tunnel viario. Griglie
di areazione, pozzi con pavimento vetrato, prese di luce riaffiorano in superficie nel giardino
lineare soprastante integrandosi al disegno dei parterre piantumati e delle pavimentazioni, due
mondi inconciliati che episodicamente interagiscono. Affiancata da due controviali alberati
prosegue quei tracciati interrotti dal solco autostradale e ristabilisce la rete e la relazione viaria e
pedonale tra i diversi quartieri. Piccoli edifici di testata, collocati sui lati corti, fungono da ingressi
alle diverse parti del giardino; visibili segnali dai tracciati urbani riabilitati, sottolineano la presenza
a distanza di questo nuovo ‘centro traversante’ che innerva l’intero insediamento.
Elaborato dal gruppo francese Mosbach Paysagistes, nel 2000, il progetto per la
riqualificazione dei bordi del canale Saint-Denis modifica e nobilita i percorsi e le aree che si
affacciano sulla riva sinistra. Costruito in epoca napoleonica per portare le acque dal bacino
della Villette alla Senna, il canale di Saint Denis presenta l’omogeneità di una infrastruttura
paleoindustriale. Mediante l’inclusione di materiali residuali, lasciati dalle attività insediatesi in
diverse epoche, l’intervento riscopre nuove relazioni tra gli insediamenti e il canale ed esprime
spazialmente l’interferenza di varie situazioni locali con la scala geografica dell’infrastruttura.
Una passeggiata rivela in sequenza gli elementi della periferia industriale, i silos, i ponti
girevoli, le chiuse riconquistati come parti di un nuovo inclusivo paesaggio. Per sette chilometri,
parallelamente al corso dell’acqua, fra la città e il canale, una fascia verde continua,
banquette végétale, e variamente piantumata accompagna il percorso, interrompendosi solo
in corrispondenza delle chiuse. Diversi fasci di percorsi articolano la passeggiata: una striscia di
cemento ruvido désactive segna la via d’accesso dei veicoli di servizio, mentre la pista ciclabile è
di cemento lisciato. All’interno del bordo verde sentieri differentemente articolati e diverse aree di
sosta si arricchiscono di differenti piantumazioni e pavimentazioni e del rapporto con il territorio
circostante. I colori lungo il canale ripetuti e riproposti con materiali, cartelli stradali, segnaletica
e vege¬tazione tendono a rafforzare il carattere unitario della passeggiata e al contempo la
articolano rispetto le specificità dell’intorno.
256
257
Saint-Denis, Plaine Saint-Denis
Progetto urbano e paesaggistico:
Sem PCD, Hippodamos 93 - M. Corajoud, P. Riboulet, Y. Lion, P. Robert
Società di sviluppo: Sem Plaine Commune Développement
Progetti e realizzazioni: 1992-2002
8
1 Avenue Wilson: M. Corajoud, P. Riboulet, Y. Lion, P. Robert
2 Promenade Canal Saint-Denis: Mosbach Paysagistes
3 Stade de France: Macary, Zubléna, Costantini, Regembal
4 ZAC du Cornillon Nord
5 Canal Saint-Denis
2
5
2
10
2
9
11
4
15
3
12
3
14
13
2
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7
1
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5
1
0
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500m 1
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3
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6
5
7
8
9
10
11
12
13
14
15
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“Abitare”, 394, 402, 417, 453
“Area”, 37, 42, 66, 76
“Arquitectura y Critica”, 46, 49, 52
“a+t”, 19, 20, 25
“Casabella”, 487-488, 501, 524, 553-554, 575-576, 585, 597-598, 600, 606, 615,
616, 617, 623, 626, 628-629, 630, 656, 678
“Domus”, 791, 815, 834, 839, 844, 866, 877
“El Croquis”, 53, 67, 79, 111, 113, 115
“L’architecture d’aujoud’hui”, 242, 280, 295, 296, 297, 298, 350
“Le Moniteur”, 19, 55, 67
“Les Annales de la recherche urbaine”, 51, 82, 88, 90
“Lotus”, 64, 67, 69, 71, 80, 84, 86, 87, 88, 94, 96, 99, 109, 110, 117, 122, 123,
131, 139
“Navigator”, 2, 5, 7, 8, 9
“Pages Paysages”, 6, 8
“Paris projet”, 12, 13, 15, 16, 18
“Parametro”, 256
“Projet Urbain”, 11, 15, 17
“Quaderns”, 240, 245, 246
“Rassegna”, 18, 36, 37, 42, 54,75
“T&C”, 7, 9, 11
“Techniques & Architecture”, 395, 402, 403, 412, 421, 424, 432, 468, 471
“The architectural record”, 3
“The Architectural Rewiew”, 1112, 1146, 1158, 1174, 1189, 1223, 1235
“Topos”, 22, 33, 34, 37, 38, 44, 53, 55, 57
“Urbanisme”, 168-169
“Urbanistica”, 105, 120, 134
“Urbanismo revista”, 2, 5, 6
“Zodiac”, 18
“Almere perspectief”, 3,
“Chassé park Bericht”, 3, 5, 6, 11
“Het stucturplan”, 2/3, 4/5
“Jaarverslag”, 2
“Stadchart Journal”, 4, 6