- GIOVANNI CHIARAMONTE
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- GIOVANNI CHIARAMONTE
Giuseppe Marinoni Giovanni Chiaramonte the EVOLVING EUROPEAN CITY Ideazione del libro e testi: Giuseppe Marinoni Fotografie: Giovanni Chiaramonte Progetto grafico e copertina: Vilma Cernikyte Coordinamento scientifico elaborazione mappe: Giuseppe Marinoni Grazie a Chiara Conti, Susanne Elisabeth Eggeling, Francesco Repishti per la lettura finale dei testi e i consigli. ISBN 978-88-907773-9-4 Sommario 8 Introduzione 15 Almere, Stadshart 33 Amsterdam, Borneo Sporenburg, Oostelijk Havengebied 55 Amsterdam, Zuidas 73 Barcelona, Vila Olimpica, Forum 2004 93 Berlin, Potsdamer Platz 109 Breda, Chassé Park 127 Hamburg, HafenCity 147 Lille, Euralille 163 Lisboa, Expo98, Gare do Oriente, Parque do Tejo 181 London, Canary Wharf 199 Milano, Grande Bicocca 215 Milano, Nuova Portello 231 Paris, Parc Bercy, Seine Rive Gauche 253 Saint-Denis, Plaine Saint-Denis 270 Bibliografia Zuidas Borneo Sporenburg Oostelijk Havengebied Amsterdam London Breda Canary Wharf Chassé Park Hamburg Hafen city Almere Stadshart Lille Euralille Saint Denis Plaine Saint Denis Paris Parc Bercy, Seine Rive Gauche Milano Grande Bicocca Nuova Portello Barcelona Vila Olimpica, Forum 2004 Lisboa Expo98 Gare do Oriente Parque do Tejo Berlin Potsdamer Platz Introduzione Questo libro è una ricognizione nell’universo mutevole e continuamente in divenire delle pratiche del progetto urbano, quell’insieme di approcci, metodi, strumenti teorici e progettuali che negli ultimi anni sta cambiando la città europea. Diversamente dagli anni sessanta, più inclini a derivare gli assetti urbani e territoriali dalle politiche di programmazione economica, o dagli anni settanta, più interessati a concepire teorie generali attinenti la ‘ricostruzione critica’della città, dalla metà degli anni ottanta le discipline progettuali elaborano modalità di intervento in corso d’opera. E affrontano nella pratica i conflitti generati dalle incessanti pressioni al cambiamento, esercitate dalle contemporanee necessità economiche, sociali, tecniche. La costruzione di ampie e complesse parti di città, come quelle qui presentate, è la tematica principale affrontata dal progetto urbano. E benché esso sia strumento imperfetto, contradditorio e in continua evoluzione, rimane una tra le poche vie praticabili per agire in una dimensione processuale e di separatezza di tempi, poteri, discipline e competenze, nell’ambizione di contribuire all’accrescimento del patrimonio qualitativo delle città. Un carotaggio nella realtà della città europea in evoluzione, che rileva modalità d’intervento molteplici e perfettibili, elaborate nel concreto e nello specifico dei casi, delle circostanze e delle emergenze. Ne risulta un orizzonte pluralistico, frammentario ed eclettico di approcci, da cui traspare una comune linea europea alla trasformazione urbana, rispettosa dei valori, degli usi e dei significati della città esistente, consapevole di agire nei conflitti indotti dai necessari processi di innovazione e adeguamento della città stessa, presupposti per la sua salvaguardia e sopravvivenza. Nella condivisione dei valori espressi dalla ‘città compatta’, le nuove parti urbane qui mostrate esprimono densità di usi e significati, pluralismo morfologico e sociale, compresenza di fatti edilizi paesaggistici e infrastrutturali, adesione ai principi di sostenibilità ambientale, stabilità della struttura urbana nella dinamica edilizia, e prendendo distanza sia dagli atteggiamenti mimetici e conservativi della città storica, sia dalle visioni entusiaste che ancora intravedono nello sprawl il modello insediativo più adatto alla contemporaneità. A partire dal contributo teorico e critico delle ricerche condotte sulla città storica europea negli anni sessanta, e dalle parziali sperimentazioni di ‘ricostruzione critica’ delle città europee degli anni settanta, fino ai ‘progetti speciali’, sollecitati, negli anni ottanta, a reagire ai contradditori portati del ‘fenomeno metropolitano’, le variegate pratiche del progetto urbano hanno ormai elaborato competenze e tecniche in grado di esprimere un notevole potenziale strategico di intervento nella città. Mentre negli anni settanta, quando la ricostruzione urbana veniva sostenuta dai miti della Kleinstadt e dalla fiducia nelle ‘convenzioni’ della città storica, gli approcci al progetto urbano odierno intravedono elementi di apertura e rinnovamento della città esistente, proprio a partire dal necessario confronto con i conflitti emersi dalla condizione metropolitana contemporanea. La necessaria ibridazione di edilizia e infrastruttura, i processi di inclusione di fatti paesaggistici e geografici nella città esistente, le istanze di sostenibilità della crescita urbana, le pratiche emergenti di sostituzione edilizia e di infill, costituiscono pretesto per il rinnovamento e l’emancipazione dei rituali collettivi, degli usi e delle forme della città tradizionale, non più minaccia del suo annientamento. Questa ricognizione di pratiche, progetti e realizzazioni degli ultimi vent’anni nelle città d’Europa permette di delineare i pur labili confini di un campo che, in continua evoluzione di approcci e metodi, si trova a operare, spesso empiricamente, in contesti estremamente dinamici. Proprio dall’attuale condizione instabile, di grandi rivolgimenti economici, sociali, epistemologici, si traggono energie capaci di configurare nuove parti urbane di qualità, sorte forzando stanche consuetudini, dribblando routine procedurali, destabilizzando convenzioni disciplinari. Si è parlato di ‘metamorfosi del progetto urbano’ (Marinoni 2005), riferendosi ai molteplici e sfaccettati risvolti che riguardano da una parte i mutamenti nei modi di guardare e studiare la città, dall’altra i cambiamenti dei processi di costruzione della città stessa, investita, nel passaggio da ‘città storica europea’ a ‘città contemporanea’, dalla dirompenza dei fenomeni metropolitani in atto. I nuovi criteri per intervenire e interagire con i conflitti presenti nella città attuale hanno oltretutto prodotto una rottura dei già flebili confini delle discipline urbane. Architettura, urbanistica, progettazione paesaggistica e infrastrutturale, si sono di fatto viste perturbare le rispettive certezze pazientemente costruite nei tentativi di rifondazione disciplinare, avviati, per un verso, con la presa di congedo dalla ‘città moderna’, o al contrario, perseguendo con determinazione il progetto di riforma sociale e urbana avviato dal pensiero della modernità. Un disagio e un’incertezza nella progettazione della città contemporanea portano a riflettere sui profondi mutamenti che hanno perturbato in questi anni la città e la società. La grande frattura, avvenuta a cavallo degli anni settanta e ottanta, aprì una fase definita post-fordismo da Harvey (1990), post-urbanismo da Hall (1973), post-modernismo da Lyotard (1979) e da Jameson (1984), e pose in luce nuovi aspetti inerenti la condizione urbana, umana, civile, e le contraddizioni della città contemporanea. Innanzitutto è mutata la città, e in modo diverso rispetto le previsioni e le aspettative delle discipline urbane. Per decenni, studiando la città storica, si è sottovalutato il fatto che essa costituisse una quota minoritaria del costruito. In relazione alle strategie politico-economiche sono stati elaborati approcci ‘razional-comprensivi’ per regolare lo sviluppo urbano e del territorio. Ma le città sono state travolte da fenomeni di inurbamento che hanno prodotto in pochi anni, e in modo incontrollabile, le più grandi conurbazioni metropolitane. Ora si è più consapevoli dei pericoli insiti in tale vertigine previsiva. E si prende distanza dalla sconfinata fiducia illuminista nel controllo razionale della trasformazione urbana e territoriale, che alimentò gli entusiasmi del Ciam e gli approcci sistemici degli anni sessanta. Si è inoltre consapevoli dell’indebolimento della capacità di descrivere compiutamente i fenomeni urbani in atto. La ‘condizione metropolitana’ induce spaesamento nei suoi abitanti, e un senso d’impotenza negli studiosi che si apprestano a descriverne la variegata fenomenologia. La crisi della rappresentazione della metropoli nei termini tradizionali invalida l’approccio delle ‘analisi morfologiche’ e dei ‘modelli descrittivi’ delle scienze urbane, li vanifica in quanto strumenti di indagine, di comprensione e come premesse all’azione. Se è sempre più difficile capire ciò che sta avvenendo nella città utilizzando i mezzi delle discipline urbane, occorre ampliare il campo ad altri contributi. Attualmente sembra sia più adeguato parlare di ‘livelli di realtà’ e di ‘mappe tematiche’ (Piattelli Palmarini 1987). Letture provvisorie, molteplici e trasversali delle contemporanee condizioni della città e della società, un palinsesto di modi di dire la città ai quali sfugge però nella sua interezza. E allora è anche allo sguardo narrativo e interpretativo della fotografia, del cinema, della letteratura, a cui si chiedono contributi per delineare i tratti sfuggenti del variegato fenomeno metropolitano. Progetto urbano coordinato Il progetto urbano coordinato, così come si configura negli esiti più felici mostrati in questo libro, è finalizzato alla realizzazione di ampie parti di città, in un arco temporale relativamente breve, rispetto i tempi lunghi, secolari, di costruzione della città. Le diverse componenti edilizie, infrastrutturali, paesaggistiche sono coordinate da un progettista responsabile, affinché possano generare insieme un assetto morfologico di qualità e una complessità di usi capaci di diffondersi beneficamente nella città circostante, oltre i confini del progetto stesso. Grandi eventi internazionali, esposizioni, celebrazioni, rivolgimenti economico-produttivi hanno imposto la ricerca di nuove attitudini progettuali, in grado di accogliere le pressanti richieste di innovazione della compagine urbana e territoriale. I ‘progetti speciali’, che dagli anni ottanta si misurano con la costruzione della Grande Parigi, con le vicende urbane legate alle Olimpiadi di Barcellona e all’Esposizione Universale di Lisbona, con le dismissioni portuali di Amsterdam e Amburgo, con il recupero del Dockland di Londra, con la riunificazione di Berlino (e si potrebbero aggiungere vicende di molte altre città europee), cercano di individuare modalità efficaci nell’emergenza di governare i processi di mutazione urbana in atto. E la trasformazione non riguarda unicamente gli aspetti edilizi, come nei periodi di ricostruzione post-bellica o di espansione urbana degli anni sessanta, investe ora le infrastrutture, la città storica e la città dispersa, il paesaggio, le nuove condizioni di spazialità urbana, i nuovi usi, i nuovi stili di vita. I sovvertimenti produttivi, rilasciando infrastrutture e dispositivi dismessi nel cuore delle città, sollecitano pratiche per innovare la città esistente a partire dal brownfield e non più dal greenfield, il territorio circostante inedificato. Il fenomeno di ricentralizzazione, la riscoperta dei vantaggi della ‘città compatta’ contro la dispersione metropolitana, richiede di riconsiderare in modo non unicamente conservativo e di semplice salvaguardia i nuclei storici esistenti. Le emergenze ambientali incalzano riflessioni riguardo la sostenibilità della crescita, e pongono la questione di sviluppare la città su se stessa senza intaccare risorse territoriali. La nuova scala degli investimenti, richiesta dalla riorganizzazione finanziaria degli operatori pubblici e privati nelle condizioni di crisi economica, conduce a elaborare sofisticati programmi di trasformazione. Nuove migrazioni, nuovi usi e rituali comparsi nelle città, diverse modalità di fruire il paesaggio metropolitano riflesse nell’indebolimento della nozione fondamentalista di ‘abitare il luogo’, obbligano a riformulare le grandi questioni legate alla casa, ai servizi, allo spazio e al trasporto pubblico, alle infrastrutture della mobilità. Nella molteplicità di approccio, le parti di città presentate in questo libro danno risposta a tali problematiche, agendo nel concreto delle trasformazioni e facendo coincidere azione e riflessione. Ciò che da esse traspare è la messa in atto di un insieme di pratiche e criteri mutevoli, che non possiedono vocazioni definitorie, ma brillano piuttosto con la forza di utensili forgiati per l’occasione. Le modalità di intervento, una molteplicità frammentaria e provvisoria, sorta di ‘mille plateaux’, sembrano seguire percorsi trasversali rispetto alle consuetudini, rintracciare connessioni impreviste e dare risposte circoscritte, nella consapevolezza di agire in una condizione transitoria e mutevole. Contestualmente alla necessità di ripensare le trasformazioni della città nel loro insieme, è caduta la fiducia negli strumenti pianificatori tradizionali, incapaci sia di indirizzarne lo sviluppo urbano, sia di contribuire a innescare dinamiche di sviluppo tendenti a rendere la città attrattiva, sia di generare qualità morfologica e spaziale. Nella maggioranza dei casi, infatti, questi progetti speciali, nel modificare ampie parti di città, lasciano sullo sfondo gli strumenti regolativi tradizionali, che non essendo più in grado di rispondere alle mutate richieste, vengono di fatto invalidati con varianti parziali o procedure alternative specifiche e settoriali: Zones d’Aménagement Concerté, Enterprise Zone, Local Plans, Piani d’area, Projecto estratégico, progetti di opere pubbliche e altro. Alla pianificazione è stato chiesto di riconsiderare alcune questioni chiave poste alle origini dell’attività urbanistica: il rapporto tra piano e progetti, tra piano locale e piano generale, tra piano inteso come modello da perseguire o piano inteso come processo da governare seguendo principi e politiche condivise. Sull’architettura sono state invece riposte nuove aspettative sollecitando la capacità speculativa ed euristica del progetto. Concorsi d’architettura o consultazioni internazionali, da cui sono scaturite anche le strategie che hanno condotto alla realizzazione delle parti di città qui presentate, hanno orientato la costruzione di una domanda, più che la soluzione di problemi non ancora chiaramente identificati. E all’architetto è stato chiesto di rivelare, attraverso l’esercizio del progetto, ciò che altri non sarebbero stati in grado di vedere. Questa domanda suppletiva di performance è in un certo senso connaturata al progetto urbano che si trova di volta in volta a scorgere nuove figure e nuove relazioni tra fatti urbani esistenti, a scardinare convenzioni morfologiche e programmatiche, caricandosi di una funzione ‘popperiana’ di precisazione-correzione delle premesse previsive e delle strategie indicate. In questa accezione il progetto urbano assume quindi valenze strategiche, opera cioè sul piano di una reale trasformazione locale nel controllo qualitativo della morfologia della città, ma al contempo partecipa all’attivazione di una strategia complessiva di rinnovamento e di trasformazione urbana, sempre meno espressa dai tradizionali strumenti pianificatori. In quelli che ne saranno gli esiti più significativi, avvalendosi della sua capacità di distogliere ‘impercezioni’ e ritrovare temi nell’azione e nell’esercizio del progetto stesso, il progetto urbano non riveste infatti solamente il ruolo di supporto al montaggio delle operazioni: costituisce invece fattore determinante nella costruzione di sintesi e nella creazione di opportunità. Nella scelta del progettista per Euralille, a esempio, il valore strategico che esso avrebbe dovuto giocare era ben chiaro ai vertici della società di gestione. Mediante una consultazione internazionale verrà selezionata la figura di un responsabile, Rem Koolhaas. Non un progetto finito o una proposta morfologica, ma una modalità di messa in opera del progetto, ‘un regista’, capace di costruire una visione urbana a partire dalle questioni avanzate. Anche il progetto per la Vila Olimpica, affrontando il problema di costruire alloggi per gli atleti, mostra alla città una diversa opportunità: riacquistare il frontemare e rendere fruibili chilometri di spiagge abbandonate. Nella necessità di recuperare aree dismesse e marginalizzate, il progetto della Zac di Bercy rivela strategico configurare un nuovo parco, a scala della città, capace di conferire ‘centralità’ simbolica e reale all’insediamento e produrre ‘valore aggiunto urbano’. Il progetto urbano così concepito impone che se ne deleghi la regia a un autore perché guidi sia la fase progettuale che realizzativa, governando e regolando i differenti apporti o legittimando i continui aggiustamenti. Un regista che coordini l’opera di altri, nella definizione di singoli manufatti ed edifici in rapporto ai principi individuati, e che si faccia garante degli esiti nei confronti dell’opinione pubblica e delle committenze. Questo approccio, definito ‘progetto urbano coordinato’, trova felice riscontro quando il conferimento di responsabilità avviene all’interno di una solidarietà culturale e di una comunanza d’intenti tra autore e committenza, sia pubblica che privata, e nel reciproco riconoscimento e rispetto in relazione ai differenti obiettivi e intenzioni. Celebri al riguardo sono il sodalizio, cementato dal comune impegno civico, tra il sindaco di Barcellona Pasqual Maragall e Oriol Bohigas, o tra il primo ministro francese e sindaco di Lille Pierre Mauroy e Rem Koolhaas. Più orientati verso una logica di successo imprenditoriale, il connubio tra Leopoldo Pirelli e Vittorio Gregotti o tra i vertici della Debis e Renzo Piano. In alcuni paesi, come la Francia, la Germania e i Paesi Bassi, l’‘architetto coordinatore’, come regista progettuale, è una figura istituzionalizzata. E il suo apporto è previsto in tutti i progetti urbani che comportano trasformazioni di ampie parti di città e che richiedono la compresenza di molteplici figure progettuali. L’avvio di un progetto urbano coordinato implica il coinvolgimento di diverse competenze tecniche e progettuali, amministrative, legali e finanziarie che, riunite in complesse strutture di gestione pubbliche, private o miste, assolvono al ruolo d’interfaccia tra committente, autore, amministrazioni pubbliche e i mutevoli attori coinvolti, governando l’operazione dal momento del montaggio fino alla completa realizzazione. Società pubbliche o a economia mista, come la Nisa e la Vosa, sono appositamente costituite per gestire l’implementazione e la realizzazione della Vila Olimpica, così la Semest per Bercy, la Semapa per Seine Rive Gauche, la HafenCity Hamburg GmbH per HafenCity, o la Saem per Euralille. Strutture private multinazionali, come Pirelli o Daimler-Benz, hanno affidato a società controllate, allo scopo istituite, la gestione e lo sviluppo immobiliare delle aree di loro proprietà. Per poter avviare un progetto urbano coordinato occorre innanzitutto creare condizioni per raggiungere alcuni chiari obiettivi: - favorire la costruzione di una parte relativamente unitaria e riconoscibile di città, al contempo introdurre quegli elementi di differenziazione e articolazione che possano produrre varietà morfologica e ricchezza di usi, quali si apprezzano nella città consolidata; - permettere che la città si costruisca nel tempo, indicando al momento della sua concezione le linee germinative del suo sviluppo, il ‘codice genetico’ del suo accrescimento; - creare condizioni opportune per regolare i singoli contributi (progettisti, operatori, amministratori, cittadini), in un gioco consensuale che possa produrre un arricchimento reciproco. Non l’autore che impone la soluzione, ma ipotesi condivise sulle quali mediare le divergenze, articolare le richieste e soddisfare le aspirazioni; - produrre un grado compatibile di flessibilità per accogliere in itinere le opportunità e le occasionalità. Risulta sempre più difficile, se non impossibile, montare un programma definitivo e fissare obiettivi certi. Il progetto di una parte vasta di città deve poter accogliere risorse e opportunità durante la sua stessa realizzazione; - garantire elevati livelli di sostenibilità dello sviluppo, sia in termini ambientali che sociali. Una parte nuova di città deve essere efficiente per quanto concerne il risparmio di risorse non rinnovabili. E al contempo deve sapersi aprire alla pluralità sociale e alla molteplicità di usi, senza produrre fratture con la città esistente e i suoi abitanti; - fornire occasioni affinché le progettazioni settoriali e specialistiche (edilizie, infrastrutturali, paesaggistiche) trovino un terreno d’intesa e ambiti di convergenza sugli obiettivi. Il progetto urbano innesca un ‘processo’ cumulativo ed esponenziale: nel risultato il valore dell’insieme delle parti deve essere maggiore della somma delle singole parti. Laddove, nella città moderna e contemporanea, spesso l’equazione è inversa e il valore della somma delle parti produce un saldo negativo: caos, congestione, malfunzionamento, scadimento della qualità insediativa e mortificazione dei luoghi. Occorre però essere consapevoli dell’inopportunità di affidarsi alla virtuosità astratta dei processi. La bontà di un processo si sancisce solo dagli esiti raggiunti. Tant’è che solo alcuni tra i tanti progetti urbani avviati in Europa stanno dando esiti qualitativi soddisfacenti, come quelli qui presentati. Questo a dimostrare che i processi vanno sostanziati di contenuti ideativi e progettuali e, nel campo di una disciplina come la progettazione urbana e architettonica, il talento di chi la esercita non è certo componente secondaria. Però, al contrario, non si può fare affidamento solo sul talento individuale. Nella progettazione delle città non si sono ancora rivelati demiurghi planetari capaci di far scaturire a invito soluzioni efficaci e di successo. Spesso, affidarsi a presunte capacità demiurgiche maschera inadeguatezze nel prendere decisioni che attendono l’ambito delle politiche alte. Oppure, i demiurghi planetari stessi divengono, in un circolo vizioso, funzionali a operazioni demagogiche e di ricerca di facile consenso. Le tematiche del progetto urbano coordinato attengono alla qualità urbana, fisica e insediativa, e alla messa in atto di processi virtuosi che conducono a esiti qualitativi nelle operazioni di trasformazione e innovazione della città stessa. Quando si sollevano temi legati alla ‘qualità urbana’ spesso vengono contrapposti argomenti che tendono a minimizzare la questione: tutti ovviamente ritengono che la ‘qualità urbana’ sia rilevante, ‘ma solo dopo aver affrontato le emergenze o le problematiche più importanti’. E si considerano ‘problematiche più importanti’ quelle inerenti le questioni economiche o sociali, di sostenibilità ambientale o di destino futuro della città. Come se tutto ciò potesse essere affrontato, per una città, senza pensare al modello fisico e spaziale della città stessa, e quindi alla qualità urbana e alla vivibilità generata nel suo complesso. Si sono ormai visti gli effetti perniciosi di un pensiero tendente alla separazione tra fatti ritenuti ‘strutturali’ (aspetti economici, funzionali, infrastrutturali) e fatti ritenuti ‘sovrastrutturali’, attinenti l’estetica e la qualità, e perciò considerati effimeri. Ma a dare coraggio a chi considera fondamentali gli aspetti di qualità urbana sono gli esempi qui mostrati. Effetti benefici di un pensiero che, nella trasformazione e nella ripresa delle città, ha ritenuto di far lavorare in stretta sinergia rilancio economico, infrastrutturazione e trasformazione qualitativa dell’assetto fisico urbano. E questo non nel lusso di dispensare surplus generati, ma come strategia più complessa e articolata per superare le crisi e le fasi drammatiche di emergenza economica, sociale e urbana. Confrontando ciò che è avvenuto in queste città emerge quanto auspicabile sia la sinergia tra questioni economiche e tematiche qualitative di trasformazione urbana, e quanto desiderabile sia poter innestare i ‘progetti’ di trasformazione fisica della città nelle ‘politiche’ complessive sulla città. Per politiche si intendono qui gli atti coraggiosi di rilancio urbano che alcuni amministratori, anche per fronteggiare drammatici momenti di crisi urbana, economica e sociale, hanno avviato e condotto lungo il loro mandato elettorale, e che, talmente condivisi da più ampi strati di cittadini, sono proseguiti per anni, attraverso diverse amministrazioni, fino alla loro felice conclusione. Ci si riferisce qui alle politiche e ai processi di riqualificazione urbana sintetizzate nello slogan ‘Paris se lève à l’est’, lanciato negli anni ottanta da Chirac, sindaco di Parigi, con il grandioso progetto di aménagement teso a riconquistare alla città tutto l’est parigino lasciato, sin dai tempi di Haussmann, come parte subalterna. Alle politiche di riconquista del fronte mare di Barcellona in seguito alle Olimpiadi del 1992, lanciate dal sindaco Maragal con la celebre frase ‘Le olimpiadi durano quindici giorni ma la città rimane per sempre’ e proseguite con il Forum internazionale della cultura del 2004. O alle strategie avviate ad Amsterdam e ad Amburgo per recuperare i dock portuali, incalzate dalla drammatica crisi economica connessa al rivolgimento dei sistemi di trasporto marittimo e di interscambio modale. Dalle parti di città mostrate in questo libro è necessario trarre insegnamento. La loro edificazione costituisce motivo di arricchimento pubblico e privato, rende orgogliosi i cittadini e interessati gli studiosi urbani e i turisti. E hanno incrementato quello che si è rivelato essere uno tra i maggiori patrimoni della città: la dotazione di qualità fisica e spaziale e la sua disponibilità a essere fruita da abitanti e visitatori. Compact city - Intensity city Per meglio riflettere sulle attuali modalità d’innovazione della città esistente, occorre riprendere la discussione, apertasi negli anni novanta, sulle negative conseguenze dello sprawl, che ci conduce fino alle attuali tesi elaborate negli ambiti dell’Urban Ecology, circa i modelli ritenuti sostenibili di costruzione della città. Le critiche allo sprawl coinvolgono vari aspetti. Dal punto di vista ambientale, l’urbanizzazione diffusa contribuirebbe a peggiorare il degrado planetario, con aumento dell’inquinamento e spreco delle risorse energetiche e territoriali. Se ne denunciano tuttora anche le sperequazioni in termini di vivibilità e le problematiche condizioni di governabilità che investono la realtà sociale. Negativi risvolti economici sono connessi agli onerosi investimenti pubblici e agli alti costi privati che le inefficienze di questa modalità insediativa comporta. Le istanze di difesa della ‘compact city’, come forma urbana ‘sostenibile’, prendono sempre più spazio nel dibattito contemporaneo (Aa.Vv., 1996; Mostafavi-Doherty, 2010). Cruciale appare la controversia circa i modelli di città e i principi di insediamento da adottare nelle nuove parti urbane, proprio in relazione alle questioni di sostenibilità ambientale, sociale ed economica, e di qualità complessiva della vivibilità dei luoghi dell’abitare contemporaneo. La dicotomia tra ‘città dispersa’ e ‘città compatta’, lungi dall’essere solo una diatriba accademica tra architetti, urbanisti, sociologi ed ecologi, investe problematiche più generali che richiedono prese di posizione nel più ampio sistema decisionale e di governo, riguardo le strategie economiche, ambientali e di walfer state: le scelte inerenti l’infrastrutturazione del territorio e le politiche del trasporto pubblico, quelle di salvaguardia dell’ambiente e di uso del suolo, di controllo dei consumi energetici e di difesa delle risorse non rinnovabili. Interessante in questo caso confrontare come vi sia una forte disparità tra le diverse nazioni in ordine alle scelte tra il modello di città dispersa o di città compatta, in riferimento, per esempio, a uno dei parametri maggiormente ‘misurabili’ che è la densità abitativa. Nelle città europee c’è un’oscillazione della densità insediativa che varia tra le 25 e 100 unità residenziali per ettaro, considerando che in un ettaro si collocano circa dieci case unifamiliari con giardino. A Los Angeles la media è di 15 case, nelle new town britanniche e dei paesi del nord Europa degli anni sessanta la densità non è superiore a 25 abitazioni. La densità media a Londra è 42 unità, mentre nei centri storici dell’Europa continentale la media è di circa 90 unità. Gli sviluppi immobiliari degli anni settanta a Singapore hanno raggiunto densità di 250 unità. Densità anche superiori, fino 400 unità per ettaro, sono attualmente utilizzate in alcuni sviluppi immobiliari di Beijng, Tokyo, Seul. Ma tentativi in questo senso si stanno facendo anche nei Paesi Bassi, nelle zone di recupero dei waterfront e in alcune aree circoscritte, particolarmente reattive e ricche di infrastrutturazione della mobilità collettiva, di Amsterdam, Parigi e Londra. Molteplici ricerche hanno dimostrato che un servizio di bus extraurbano è sostenibile, in termini di costi/benefici, per una densità non inferiore alle 25 unità per ettaro. Un servizio tramviario è congruo per una densità di 60 unità. In alcune parti urbane particolarmente infrastrutturate, che fungono da interscambio della mobilità collettiva e privata urbana ed extraurbana, è invece auspicabile ipotizzare poli di centralità a più alta densità insediativa, fruendo dei vantaggi di un’accessibilità privilegiata, consentita dal trasporto collettivo e dalla compresenza sinergica di usi che contribuisce a ridurre gli spostamenti. Il ricorso all’alta densità e alla città compatta non è perciò da intendere come nostalgico e ideologico ritorno alla ‘città come opera d’arte’, e neppure unicamente come apertura di occasioni alle forze economiche e di investimento immobiliare, quanto come condizione di sostenibilità dello sviluppo. Ma la città compatta è anche ambito critico e operativo che richiede continuamente di sperimentare le valenze del progetto urbano e architettonico contemporanei: ibridare forme insediative, aggiornare tipi edilizi, riformulare le infrastrutture, costruire di volta in volta modelli di convivenza sociale. La città compatta, intesa come città ad alta densità fisica, ma anche sociale e relazionale, crogiolo sinergico di più usi, più funzioni, più rituali, è inoltre ambito privilegiato per le politiche attrattive rivolte all’abitare, al lavoro e allo svago. Il modello della città compatta permette di ridurre gli spostamenti casa-lavoro e casa-attività ludiche ricreative, diminuendo i costi sociali e ambientali del trasporto privato e pubblico; consente di ottimizzare l’incidenza dei costi del suolo e degli investimenti nelle urbanizzazioni; crea le condizioni di sinergia tra città esistente e parti urbane di nuova formazione; facilita i processi di integrazione sociale nel mescolare molteplici forme abitative e di scambio relazionale. Oltretutto, ricorrendo al modello della città compatta si incentivano processi di riqualificazione del patrimonio immobiliare esistente sollecitando la sostituzione edilizia; si innescano processi di recupero di aree marginalizzate; si sostengono politiche di riqualificazione complessiva di intere parti di città degradata. E si facilita così il rinnovo degli stili di vita in relazione alle condizioni sociali e lavorative in mutamento. Si dovrebbero valutare, però, oltre a questioni di ordine ecologico, ambientale ed economico, anche aspetti di ordine qualitativo, perché, come sostiene Michael Sorkin (2004 ) “…è importante distinguere tra densità ed estensione. Dopo tutto c’è densità e densità: dobbiamo distinguere le qualità di Jones Beach in un pomeriggio di sole o il trambusto della Fifth Avenue nella settimana prima di Natale dall’iper affollamento del Ghetto di Varsavia o dall’asfissiante buco nero di Calcutta. La densità può produrre efficienza e piacere, oppure generare un incubo”. Sorkin tenta di definire fenomenologicamente la densità, poiché capace di generare un innalzamento della qualità della vita nelle città e ne individua diversi tipi. La densità fisica rimanderebbe alla spazialità della città tradizionale, la densità sociale e ambientale, espressa in termini di relazioni, di usi, di scambi lascerebbe invece trapelare i vantaggi offerti da alcune peculiarità della complessità metropolitana. Se, come dice: “La vita sociale e politica della metropoli non dipende semplicemente dell’incontro in sé ma dalla sua struttura: una buona città è uno strumento che produce felici incidenti, non un meccanismo che genera collisioni” (Sorkin, 2004). Una metropoli è più che uno scenario per l’esaltazione di flussi continuati e di un dinamismo inafferrabile, come in alcune visioni del ‘neo-futurismo’ contemporaneo. È il luogo dell’incontro anche casuale, dell’interazione anche episodica, campo di un gioco delle parti, di un incontro-scontro tra i diversi ruoli e ambiti sociali, palcoscenico di quella ‘rappresentazione teatrale’ a cui Erwin Goffman (1997) riconduce la vita sociale e la multistraficata e sempre provvisoria costruzione di ogni immagine individuale. Già l’antropologo Ulf Hannerz (1992) nel suo libro ‘Esplorare la città. Antropologia della vita urbana’ ci invitava a “vedere la città come un luogo dove si può trovare una cosa mentre se ne cerca un’altra”. La definizione ci fa intravedere una possibilità di ‘abitare’ nel conosciuto della città, ma anche di ‘vagare’ in un altrove, come suggeriva Walter Benjamin (2007), e imbattersi nell’inaspettato. Particolarità dal fascino pericoloso, che è lo specifico della grande città e della metropoli e che ha motivato l’atteggiamento blasé degli abitanti della nascente metropoli di inizio novecento. Cosa che tanto preoccupava e al contempo attirava Georg Simmel. Elemento di potenziale apertura nella creazione di identità nuove, liberate dal rigido determinismo fisico e sociale di luoghi storicamente dati. La grande città e la metropoli si distinguerebbero quindi nettamente dal villaggio, dal paese, dalla piccola città dove, secondo la classica definizione di Max Weber e secondo le illusioni dell’‘urbanistica culturalista’ fondata dal pensiero di John Ruskin e William Morris, permarrebbe una coincidenza tra fatto fisico e comunità. “Trovare una cosa mentre se ne cerca un’altra”, noto con il termine di serendipity, comporta il reclutamento di una struttura nata per funzioni diverse da quelle che ne hanno governato l’esistenza. Massimo Piattelli Palmarini (1985) chiarisce il procedimento portando a esempio un caso clamoroso di reclutamento serendipico nel dominio della ricerca scientifica, quello per cui le ali degli insetti non si sarebbero evolute per consentire il volo, bensì per scambiare calore con l’ambiente circostante. La funzione secondaria, quella del volare, nei tempi lunghi dell’evoluzione del genere, si sarebbe rivelata la funzione più importante. Un tentativo felice di coniugare il concetto di serendipity con l’esperienza urbana è stato proposto da Arnaldo Bagnasco (1994) e così formulato: “la varietà di esperienze che la città consente, la molteplicità di situazioni diverse nelle quali si trova coinvolto permettono all’uomo della città nuove sintesi culturali inattese… In secondo luogo la città è abbastanza ampia, contiene un numero sufficientemente grande di persone per far sì che il casuale sintetizzatore possa avere la probabilità di incontrare qualcun altro capace per affinità di reperire, e disposto a coltivare insieme a lui le possibilità della nuova sintesi”. Varietà e aumento delle probabilità di scambio, legate ad una relativa ‘indeterminatezza’ e a una sufficiente ‘ricchezza’ e ‘densità’ di significati e di offerte fruitive, sono dunque condizioni necessarie perché possa realizzarsi serendipity. Città monofunzionali, quartieri che producono omologazione sociale, spazi collettivi specializzati per uniformità di fruitori - in definitiva la città fordista strutturata per zone funzionali e omogenee e lo sprawl che produce come luoghi collettivi solo gli spazi iperspecializzati degli shopping center e delle strutture di scambio intermodale - generano invece bassi livelli di serendipity. Dalla reazione alla bassa densità dello sprawl sembrano emergere due orientamenti teorici e operativi. Uno, definito new urbanism, è orientato al recupero della spazialità della città tradizionale, della città ‘a misura d’uomo’, in cui troverebbero compimento gli equilibri alla scala microsociale auspicati da Jane Jacobs (1961) e che sembrerebbero nuovamente affascinare gli adepti dell’Urban Ecology. L’altro, definito post urbanism sarebbe portato viceversa a esaltare i vantaggi della ‘congestione’ metropolitana, tutta flussi ed energie dinamiche, come traspare in alcuni scritti sul ‘Manhattanismo’ e sulla ‘Bigness’ di Rem Koolhaas (1978; 1995). Due visioni antitetiche: la ‘pastorale’ e ‘l’esplosiva’, per riprendere Marshall Berman (1991), ma ambedue riportano ancora la discussione sull’‘alternativa’ alla città esistente. Tra un velato fastidio per la vita urbana, sotteso all’immagine ‘pastorale’, e l’immagine ‘esplosiva’ di forze propulsive delle nuove dinamiche occorre ritrovare i termini di una nuova condizione intermedia. Una ‘intensity city’ che, senza la nostalgica riproposizione della città storica, giunga a incorporare questioni e tematiche emerse nella dimensione metropolitana - intensità di flussi, di scambi, di esperienze - nella città esistente, secondo un ‘patto’, un accordo tra forma ereditata e nuovi contenuti urbani. Il progressivo inesorabile compenetrarsi di parti urbane nel paesaggio e, viceversa, di tematiche ambientali e paesaggistiche nella ristrutturazione dello sprawl, o nella costruzione, infrastrutturazione e innovazione della città esistente sembrano in effetti sostenere la formazione di intensity city. E lo possiamo constatare in alcuni tra gli esempi qui presentati. La progettazione infrastrutturale viene coinvolta da temi di paesaggio; a sua volta quella paesaggistica, con nuova energia, torna a svolgere un ruolo strategico e denso di significati per la città; la progettazione urbana, abbracciando l’orizzonte metropolitano, reperisce come occasioni e pretesti le nuove figurazioni infrastrutturali e paesaggistiche per affrancarsi dai modelli del passato. Nell’odierna condizione metropolitana si assiste, rispetto agli anni precedenti, a un’inversione di tendenza riguardo le modalità di concepire la costruzione di insediamento. Da un lato lo sprawl emerge come nuova realtà da recuperare e ricondurre a requisiti di una vivibilità urbana, dall’altro l’esaurimento delle aree operabili entro la città conducono a cercare modi e forme per ‘nuove espansioni urbane’. Nel passaggio dalla costruzione della ‘città nella città’ al restauro del territorio urbanizzato, le emergenti forme di insediamento ibridate a nuovi modelli di paesaggi infrastrutturali sembrano possedere quell’arte e tecnica capaci di affrontare l’inaspettata sfida progettuale. Stratificare nuovi usi, includere diverse forme e gradienti di densità, intrecciare una realtà statica ai nuovi dinamismi, inglobare fatti paesaggistici e ambientali, integrare il già noto con l’innovazione, comporta inevitabilmente problemi e criticità. Diversi approcci del progetto urbano, come appaiono in questo libro, si sono rivelati possibili rimedi e provvedimenti adatti a orientare i termini di tale condizione intermedia. Cercando di legittimare le istanze di trasformazione nel quadro di una ritrovata nuova urbanità, partecipi delle dinamiche dell’attuale mutevole condizione metropolitana e dei valori della città esistente. Una multiforme pratica, che iscrive i progetti degli spazi aperti, delle infrastrutture, degli edifici in un orizzonte più vasto, problematico e complesso: accogliendo e al contempo trascendendo spazi aperti, infrastrutture ed edifici stessi. Una responsabilità progettuale più elevata che produce realtà più ampie. Ogni progetto diventa momento per dare forma a città e paesaggio in un processo di reciproca ricerca e “in un incessante movimento di sistole e diastole con l’ambiente circostante” come incisivamente scrive Ignasi de Solà-Morales (2001). Un forte impegno civile traspare in questa attuale propensione a organizzare, conservare, articolare e integrare il nuovo all’esistente e quanto è già noto con l’innovazione. Almere, Stadshart Ai bordi del Randstad, la città di Almere si estende su un territorio di centoventi chilometri quadrati, strappato al mare da ingenti lavori di bonifica. Nel 1972, sociologi, ecologi, architetti, economisti, paesaggisti, raccolti in un gruppo interdisciplinare, iniziano a progettare la nuova città guardando ancora la new town di Milton Keynes a nord di Londra e i sobborghi residenziali alle porte delle grandi città nordamericane. Costruire una città per trecentomila abitanti in pochi anni è sicuramente impresa complessa, piuttosto rischiosa e dagli esiti finali incontrollabili. Pertanto, e opportunamente, si pose a cardine dell’operazione una struttura morfologica come sistema polinucleare di crescita nel tempo, palesando chiaramente la sfiducia circa la capacità dei mezzi previsivi di programmare e controllare globalmente uno sviluppo urbano di decenni. Via via delineandosi, lo svolgersi del progetto intrecciava strategicamente un modello di pianificazione comprehensive con l’empirismo di aggiustamenti incrementali. Disposti ad anfiteatro, attorno al bacino lacustre del Weerwater e lungo le linee autostradali e ferroviarie di collegamento con le altre città del Randstad, tre nuclei vennero costruiti in tempi e modalità differenti: Almere-Haven a sud, Almere-Stad al centro e Almere-Buiten a nord-ovest. Ora Almere, la più grande città giardino d’Europa, è uno sprawl di case unifamiliari. Entro il 2020 vedrà incrementare la popolazione fino a quattrocentomila abitanti, entrando nel novero delle cinque più grandi città dei Paesi Bassi. Ma la realtà insediativa permane dispersa, tanto dissolta nel paesaggio da risultare difficilmente percepibile nella sua consistenza fisica e spaziale. Dagli anni novanta la municipalità, con un susseguirsi di progetti di espansione e di densificazione, cerca di conferirle identità urbana. Soddisfacendo alla richiesta di nuovi spazi per cultura, tempo libero e lavoro, nel 1994 Oma - Rem Koolhaas vince una consultazione internazionale nel dar forma e identità di ‘centro’ ad Almere-Stad. Con modelli urbani piuttosto eloquenti, due poli di attrazione vengono configurati. Mentre un frammento di complessità metropolitana, evocato nell’affastellarsi in altezza degli edifici, costruisce a ridosso della stazione ferroviaria lo Zakencentrum, un esercizio di sintassi urbana attorno al tema di tessuto e tracciato dà forma allo Stadscentrum, affacciato sul bacino lacustre del Weerwater e destinato a residenza e attività ricreative e culturali. Oma concentra in due sole parti l’insediamento per produrre un’urbanità ad alta densità e dalla forte immagine figurativa, l’auspicato ‘quantum leap’. Pragmaticamente dà insieme risposta a due diverse esigenze: una dotazione di uffici e spazi direzionali, che un mercato immobiliare alla scala dell’intero Randstad chiede per l’alta accessibilità ferroviaria, e la localizzazione nel tessuto della città di attrezzature urbane, accessibili con l’automobile e fruibili alla scala dell’intero sobborgo residenziale. Sovrappone due modelli di densità e allo stesso tempo due modi diversi di vivere l’urbanità. La metropoli congestionata intreccia infrastrutture, luoghi di lavoro e di scambio, nelle forme del ‘manhattanesimo’ caro a Koolhaas, ma messe qui in scena con minore spregiudicatezza rispetto a Euralille. La città compatta, low rise, lega i rituali della pedonalità e della passeggiata a modelli di consumo contemporaneo, allo shopping, all’intrattenimento. Ai modelli di vita e alla spazialità di una città giardino propone la fascinazione di mondi ‘altri’: tenta, per quanto possibile, di surrogare un’urbanità a ‘pronto effetto’, fornita nel breve tempo dell’operazione di sviluppo immobiliare. Laddove in un circolo vizioso multisala, casinò, centri commerciali, espositivi e ricreativi, 17 parcheggi, business centre usualmente alimentano lo sprawl contemporaneo, qui invece perseguono principi insediativi opposti: vorrebbero, per brani, costruire un’intencity city, vorrebbero, per frammenti, istillare ritualità urbane. Il ‘centro’, una piastra pedonale sopra venticinque ettari di parcheggi, è un nuovo suolo da suddividere in ‘isolati’ ricalcando un ‘tessuto urbano’. E’ un collage di elementi discontinui e discreti che ricorda Kahn o Ungers in alcuni progetti degli anni settanta. Il waterfront, dedicato allo svago e alle attività culturali, si organizza invece in modo pittoresco attorno a una sequenza spettacolare di folie e di landmark paesaggistici. Accogliendo le visioni futuriste della metropoli-macchina, arterie di traffico, unità abitative, accessi agli edifici e percorsi, enfatizzati nel sovrapporsi e intrecciarsi ai flussi di comunicazione, irradiano la vitalità di un’organica circolazione pulsante. Il parcheggio, ampia ‘darsena’ coperta, si illumina dei riverberi della marina su cui affaccia. Gli stalli, segnati da campiture di colori diversi a differenti gradi di lucidità, alludono ai valori percettivi della rifrazione dell’acqua ed estendono visivamente gli effetti di luce del bacino lacustre sin dentro il parcheggio. E’ in questo luogo privilegiato, finalmente assurto a ruolo collettivo, qui dove in un dinamico intreccio di informazioni, accessi, arrivi e partenze ogni attività confluisce, che si aprono le lobby di ingresso dei soprastanti edifici. La corrente pulsante dei movimenti fisici e percettivi raggiunge e coinvolge la città sopra. Prefigurata da Hénard nella Rue future, la città sopraelevata incontra gli entusiasmi di Le Corbusier nella Ville Radieuse e di Hilberseimer nel Idealstadtentwurf. Di tale sistema di complessità stratificate in sezione erano stati, già in passato, ampliamente declamati vantaggi e pregi rispetto la città tradizionale radicata al suolo. Solo nel dopoguerra, rilanciata dall’eroismo dei progetti degli Archigram e dei Metabolisti e di alcuni esponenti del Team X la città sopraelevata ha potuto trovare applicazione, sebbene in stretta associazione a quei principi del Ciam che predicavano divisione tra trasporto e fruizione, tra traffico veicolare e circolazione umana. La Défense a Parigi, la Part Dieu a Lione, il Barbican a Londra – per citare i più noti – sono svolgimenti, a diverse scale e a differenti livelli di complessità d’usi, della città sopraelevata, nella declinazione del modello predicato dai precetti funzionalisti, indissolubilmente legato al principio di separazione. Che cosa differenzierebbe il nuovo centro di Almere da quei progetti degli anni sessanta, per molti avveramento dei presagi di morte della città? La complessità in sezione, comune a entrambi, qui ad Almere non comporta alcun principio di separazione: né dei flussi di traffico dai movimenti delle persone, né delle accessibilità dalle attività, né degli edifici dagli spazi aperti, né dell’ambito collettivo da quello privato. Ad Almere la separazione è soppiantata dall’ibridazione e dalla coesistenza: di usi, di forme, di esperienze. Sul medesimo tema, la ‘piastra’, sin mescolano parti diverse perché interagiscano in una più ampia complessità fruitiva. A una fenomenologia di percezioni frammentarie Koolhaas sostituisce una continuità di natura cinematografica, e fa sì che la narrazione coinvolga persino gli ambiti di passaggio e d’interscambio tra usi: non più frange emarginate ma ‘soglie’, che segnino nel concreto delle cose quelli che Benjamin chiama riti ‘tettonici e cerimoniali’. Con i materiali propri dell’architettura contemporanea, con forme, appropriate ma nuove e temi pertinenti, Koolhaas dimostra di saper rappresentare fisicamente e simbolicamente i nuovi riti di passaggio, e riesce a trasformare il parcheggio nel più grande luogo collettivo della città. Analizzando ciò che è stato costruito finora, un divario sembra però porsi tra intenzioni ed esiti. L’approccio collagistico di Oma per ‘block’ risulta sicuramente congeniale alla partizione tra progettisti e funzionale alla cantierizzazione per fasi distinte. Il coordinamento progettuale parrebbe tuttavia assecondare le aspirazioni del mercato, lasciando che i diversi ‘brand’, esaltati dalle ‘griffe’ progettuali, si staglino come segni in competizione, analogamente alla venturiana Las Vegas. Gli edifici residenziali sul lungolago di Claus en Kaan e di F. van Dongen, il centro d’intrattenimento e ricettivo di Alsop, il megabioscoop di Oma, il complesso residenziale e commerciale di D. Chipperfield, il ‘parco tematico’ a destinazione residenziale-commerciale di C. De Portzamparc, al di là delle singole qualità architettoniche, sembra che nell’insieme sortiscano a una mera giustapposizione di eterogenei complessi edilizi. D’altra parte il tema specifico di ogni blocco risulta portato al parossismo, separatamente e autonomamente sviluppato, senza nessi di reciprocità. L’organizzazione per blocchi in discontinuità di temi parrebbe oggi ridursi a una sequenza di diversi ‘mondi allegorici’, fruibili in successione lungo percorsi e spazi aperti. Momenti solo ravvicinati, ‘set’ distinti. Sembra anche che il mix di usi proposti e la varietà dei progetti stiano inseguendo febbrilmente le occasionalità del mercato immobiliare e dei consumi, assecondando eccessivamente le contingenze, e confidando prevalentemente nella dimensione spettacolare messa in atto. Il centro di Almere, come grande esposizione, gigantesco mall commerciale all’aperto, o theme park, corre così il rischio di essere vincolato al breve ciclo degli eventi e dei consumi, rischiando una rapida obsolescenza. Fattore di resistenza sembra essere lo Stadtheater, monumento all’arte e alla cultura di Almere di cui Saana vince nel 1999 il concorso internazionale. Sottile e trasparente piattaforma arenata sull’acqua e diagrammaticamente suddivisa da diaframmi vetrati e pareti manovrabili in spazi espositivi, atelier, e giardini. I volumi delle sale teatrali si ergono, icone silenti, da questa zattera vetrata stagliandosi tra acqua e cielo. Essenziali e laconici si distinguono tra le esuberanze spettacolari degli edifici circostanti. 18 19 Almere, Stadshart Progetto urbano e coordinamento: OMA Società di sviluppo: Stadshart Almere, MAB Development Progetti e realizzazioni: 1994 - 2012 1 Theatre: SANAA 2 Side by Side: F. van Dongen 3 Silverline: Claus en Kaan 4 The Whale: R. van Zuuk 5 Ponte: R. van Zuuk 6 Swamp Garden: Inside/Outside 7 Hotel: Alsop Architects 8 Casla: Lanoire & Courrian 9.Esplanade: M. Desvigne 10 Utopolis: OMA 11 The City: van Sambeek 12 De Citadel: C. de Portzamparc 13 The Jewel: D. Chipperfield 14 Bibliotheek Almere: Meyer & van Schooten 15 Smaragd: Gigon & Guyer 16 Commercio: De Architectengroep 17 Angle: S333 17 Stazione ferroviaria 18 World Trade Center: De Architekten Cie 19 La Défense: UNStudio 7 Stadshart 10 14 19 15 1 16 18 9 9 13 12 Zakencentrum 12 13 6 5 14 11 10 20 11 1 17 8 3 2 7 6 4 5 3 4 8 2 0 50 100 200m 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 Amsterdam, Borneo Sporenburg, Oostelijk Havengebied L’attuale assetto morfologico degli Oostelijk Havengebied ad Amsterdam è evidente conseguenza di un cambiamento di rotta nella contemporanea progettazione urbana olandese. La spinta degli anni settanta a coordinare pianificazione urbana ed edilizia abitativa pubblica si era andata via via affievolendo, anche in seguito alla crisi economica che aveva costretto ad accelerare la riforma del welfare state. L’edilizia abitativa pubblica venne privatizzata, mettendo fine a quel lungo connubio tra pianificazione e programmazione abitativa, che aveva contraddistinto le politiche urbane olandesi fin dai tempi dell’emanazione della Woningwet, la legge del 1901 sulle abitazioni. Sulla crisi del legame tra pianificazione ed edilizia pubblica si innesta con vigore, negli anni ottanta, la questione della densità urbana come alternativa allo sprawl e, in concomitanza, la necessità della riconquista, nelle grandi città portuali, delle aree dei dock ottocenteschi, per lo più ubicati in aree strategiche della struttura urbana. In particolare ad Amsterdam la trasformazione dei dock, estesi per gli interi Oostelijk Haven e sulle penisole artificiali Knsm, Java, Borneo Sporenburg, diventa non solo occasione di sviluppo urbano, ma anche di un ripensamento generale della città, tale da coinvolgere la riforma viaria, ferroviaria e del trasporto pubblico. A partire dal 1987 il progetto strategico per l’area dei Oostelijk Haven elaborato dal dRO (Ruimtelijke Ordering), l’ufficio municipale di progettazione urbana di Amsterdam, lascia intatti i bacini portuali e colloca alta densità edilizia secondo i principi morfologici del masterplan di Rem Koolhaas del 1983. In uscita tra Borneo e Sporenburg il tunnel di collegamento viario e tranviario relaziona la città con la viabilità territoriale delle penisole, promuovendo in tal modo la riqualificazione delle aree. Il programma abitativo, a destinazione prevalentemente residenziale, con circa 8500 alloggi e relativi servizi, venne ripartito in tre progetti urbani affidati, tramite consultazione, a tre progettisti, esterni alla struttura pubblica. Tra il 1989 e il 1993 Jo Coenen per Knsm, Sjoerd Soeters per Java, West 8 per Borneo Sporenburg elaborarono i rispettivi masterplan e con il ruolo di coordinatori, sovrintesero le progettazioni edilizie affidate ad altri architetti. Seguendo le direttive del masterplan del 1997 di Hans van der Made del dRO, con la riforma dell’Handelskade, lo scalo ferroviario, anche le aree a est della stazione ferroviaria vengono coinvolte nella dinamica urbana lasciando che i dock possano finalmente connettersi, fisicamente e fruitivamente, con il centro città e che una nuova continuità urbana possa estendersi per oltre quattro chilometri. Di questa grandiosa operazione di riqualificazione e sviluppo, il pubblico si riserva il compito nodale di promuovere, progettare, guidare e controllare gli esiti, oltre che di negoziare con gli investitori privati, a cui sono trasferiti i diritti edificatori, la scelta dei progettisti e una quota di edilizia pubblica, non diversa, per qualità e standard, da quella destinata al mercato. Ripresa la tradizione di edilizia pubblica olandese degli anni settanta, in parte aggiornata con il recupero delle convenzioni urbane, J. Coenen compone lungo l’asse centrale della Knsm una sequenza di superblocchi residenziali: il ‘Piraeus’ di H. Koolhoff, l’‘Emerald Empire’ dello stesso J. Coenen, il ‘Langhaus’ di Diener & Diener. ‘Ordine gigante’, landmark urbani che vorrebbero segnalarsi alla scala del paesaggio portuale, sebbene esprimano ancora una dimensione istituzionalizzata dell’alloggio e un’idea di urbanità astratta, che a difficoltà riesce a sostanziare gli 35 spazi aperti che genera. A Java, una sequenza di cinque superisolati, delimitati da strade-canali, si riallaccia all’esperienza delle hofe di Amsterdam Sud e ibrida modelli di densità urbana con un’apertura paesaggistica: un giardino interno attraversa longitudinalmente l’insediamento per accogliere scuole e servizi di quartiere. Per evocare le complesse stratificazioni della città storica viene qui simulato un principio di divisione catastale in un gioco combinatorio che vede partecipare differenti architetti, tra cui Cruz & Ortiz, S. Soeters, Kerelse & van der Meer, Geurst & Schulze. Agli esperimenti di ‘polifonia architettonica’ di R. Krier all’Iba 84, reinterpretati da O. Bohigas nella Villa olimpica, all’ aleatorio ‘montaggio surrealista’ di A. Rossi alla Friedrichstrasse od ai collage tipologici di O.M. Ungers alla Lutzoplaz di Berlino, si attinge per generare un’urbanità empirica che sebbene per eccessiva frammentazione non riesca a misurarsi con la grande scala degli spazi portuali, risulta realmente fruibile alla piccola scala della strada. E’ invece il waterfront lungo l’Handelskade a reggere la grande scala, riprendendo l’ampia scansione delle precedenti warehouse. Ibrida edifici lineari lungo le banchine con blocchi alti lungo i fasci infrastrutturali, generando frammenti di iper-densità metropolitana. Se sulle penisole Knsm e Java si è edificato prevalentemente a blocchi di appartamenti, secondo i dettami dell’urban design, nelle vicine Borneo Sporenburg invece il mercato immobiliare ha sollecitato una tipo-logia abitativa suburbana low-rise: singole case con fronti e ingressi separati, aperti sulla strada. La municipalità assecondò le richieste degli investitori, ma allo stesso tempo impose, parametro non negoziabile, un’altissima densità: 100 case per ettaro. La paradossale coincidenza di tipologie suburbane e città densa sollecitò l’invenzione di nuove tipologie abitative. West 8, vincitore nel 1993 della consultazione indetta dalla New Deal, società mista di sviluppo dell’area, lavora accettando consapevolmente di innestare high-density su low-rise, in antitesi agli altri progetti dove, mutuato dall’esperienza del New Urbanism, ancora veniva proposto il garden suburb. Il nuovo assetto morfologico fa leva sulla presenza dell’acqua e dell’infrastruttura portuale esaltandone le valenze paesaggistiche: ‘vento, aria, luce, profumi, riflessi solari, rifrazioni degli elementi naturali’, come materiali impiegati sostanziano il progetto, nell’esprimere e valorizzare questa inusuale situazione urbana. Si prefigurano case affacciate sull’acqua per godere della privilegiata condizione ambientale e conferire qualità abitativa, nonostante la scarsa disponibilità di suolo urbano e collettivo. Bassi edifici, organizzati in rigorosi comparti suddivisi in parcelle, si strutturano per bande, analogamente alla campitura del suolo predisposto per le coltivazioni più che all’ordinamento di un tessuto urbano, e generano un insediamento capace di vuoto e costruito in equilibrio tra continuità e varietà. Alternare edifici a piccoli slarghi, chiusure a cosmici orizzonti scandisce, in proficua interazione, il custodito dello spazio urbano dall’aperto di larghe viste. La trama regolare delle parcelle viene interrotta in corrispondenza di tre grandi vuoti dominati dalla presenza di blocchi edilizi scultorei, the meteorites, dislocati accidentalmente rispetto alle principali geometrie. Questi edifici, eccezionali per forma e tipologia, contrastano la continuità del parterre di tessuto edilizio a due-tre piani e rispondono alle sollecitazioni della grande scala della città e del fiume. La plasticità scultorea di questi volumi a blocco, deformati ed erosi per aprire ampi traguardi e poter introiettare i valori ambientali, come faceva della campagna la pittura fiamminga del Cinquecento, li staglia come segni riconoscibili nell’ampiezza dello skyline urbano, collega il ‘mare di abitazioni’ alla città e al paesaggio, offre l’occasione di manipolare e rinnovare le tipologie residenziali. Assumere il tessuto urbano come ‘metafora’, non come ‘modello’, permette di agire con spregiudicatezza, perturba le certezze presunte intorno alle categorie urbane e relativizza gli ambiti oppositivi di pubblico e privato. Tracciati, lotti, monumenti, svuotati di ogni valenza fondativa, si riducono a niente più che principi di organizzazione morfologica, a criteri di gestione delle pluralità per coordinare, all’interno di un progetto dagli esiti relativamente unitari, i trentacinque gruppi di architetti coinvolti. Fermandosi all’analogia, la ‘secolarizzazione’ dell’urbano permette di scostarsi dai riferimenti assunti - il lotto gotico, le fondamenta, i canali - e di avviare un lavoro di sperimentazione su singoli elementi che giunge perfino a rovesciare le categorie della città storica: e allora il ‘tipo’, frutto dei molteplici esperimenti attorno alla pluralità dei modelli abitativi, non implicherà più ripetizione ma varietà, e la ‘parcella’, invece di custodire il privato, si aprirà in visuali e trasparenze sulla strada e sui canali, e come loft e store sarà forma nuova del ‘pubblico’. La strada, solamente tracciato e principio di allineamento, si nega come fatto pubblico. La contrazione degli elementi convenzionali dello spazio pubblico, dei quali oggi al contrario si abusa in forme e contenuti, coincide con il conferimento di valenza collettiva al paesaggio del mare e al bacino portuale, qui vero ‘luogo pubblico’. Usato strumentalmente il ‘rapporto tessuto e monumento’, caposaldo della concezione dell’urbano, diventa pretesto paesaggistico per aprire visuali e trasparenze, per uscire dalla città e dialogare con le infrastrutture del porto e la scala geografica. Un progetto di trasformazione urbana che agisce alla ‘scala intermedia’, tra edificio e città, non può trascendere la scala minuta del singolo edificio. Anzi proprio a partire dall’innovazione dell’edificio è possibile rovesciare in efficacia vincoli e attriti della concezione morfologica alla scala urbana. Nei workshop, camera di compensazione tra individualità progettuale e strategia generale, oltre che cassa armonica delle creatività, si offrì la possibilità di reinventare, arricchendoli, i principi di progetto. Qui, al di fuori di vincoli accademici o di appartenenza culturale, la ricerca architettonica e tipologica, orientata da linee guida morfologiche, unì giovani architetti a firme affermate come Oma, Mateo, architeckten Cie, Mvrdv, Holl, Miralles. In un reciproco confronto essi prefigurarono modelli residenziali non convenzionali, cinque tipologie di base e un ricco spettro di variabili e pattern distributivi. Senza cadere in astratti esercizi linguistici o nella compilazione di un virtuosistico campionario di stili personali riuscirono a far si che una certa differenziazione architettonica e tipologica, sviluppatasi in corso d’opera, risultasse funzionale alla configurazione di un’unitarietà d’insieme: sea of houses, una continuità perseguita per produrre un’identità tanto forte da evocare un fatto paesaggistico o geografico. Una rete minore di percorsi, si sovrappone alle regolarità dell’insediamento e connette le due penisole attraverso tre ponti, progettati da West 8, per le loro qualità scultoree tratto distintivo dell’insediamento. Due ponti gemelli attraversano il bacino con una campata di cento metri. Uno per ciclisti e disabili corre sul filo dell’acqua, l’altro si impenna in altezza, evocando la struttura scheletrica di un gigantesco cetaceo, e al culmine dei suoi venti metri d’altezza diventa belvedere aperto sul paesaggio dei tetti e degli orizzonti del porto. Surplus d’immagine e di forma conferisce energia al quartiere e trasforma gli at-traversamenti in un fatto ludico e spettacolare. 36 37 Amsterdam, Borneo Sporenburg, Oostelijk Havengebied Borneo Sporenburg Progetto urbano e coordinamento: West 8 Società di sviluppo: New Deal Progetti e realizzazioni: 1993 - 2000 Java Java Progetto urbano e coordinamento: Sjoerd Soeters Società di sviluppo: Amsterdam Local Authority Progetti e realizzazioni: 1994 - 2008 2 3 6 5 2 5 Knsm Progetto urbano e coordinamento: Jo Coenen Società di sviluppo: Amsterdam Local Authority Progetti e realizzazioni: 1987 - 1996 2 4 4 3 2 4 5 1 Knsm 13 11 3 Handelskade 10 Handelskade Progetto urbano e coordinamento: DRO - Dienst Ruimtelijke Ordening Società di sviluppo: Amsterdam Local Authority Progetti e realizzazioni: 1997 - 2013 6 9 12 8 9 7 7 8 12 Sporenburg 1 1 The Bruggen: T. Venhoeven, J.Schaeferbrug 2 Residenza: Cruz & Ortiz 3 Residenza: K. Christiaanse 4 Residenza: S. Soeters 5 Residenza: Karelse & van der Meer 6 Edificio ibrido: Koetter & Salman 7 AWG: B. van Reeth 8 Edificio ibrido: CASA Architekten 9 Langhaus: Diener & Diener 10 Piraeus: H. Kollhoff 11 Skydome: W. Arets 12 Residenza: B. Albert 13 Emerald Empire: J. Coenen 14 Isolato: N. Riedijk, Claus en Kaan, Köther en Salman, R. Visser 15 Isolato: Atelier Zeinstra, van Sambeek & van Veen 16 Isolato: Heren 5, van Sambeek & van Veen 17 Isolato: JHK 18 Isolato: DKV, Höhne & Rapp, van Sambeek & van Veen 19 Isolato: Claus en Kaan, Heren 5, M3H, van Sambeek & van Veen 20 The Whale: De Architekten Cie 21 Isolato: Atelier Zeinstra 22 Isolato: JHK 23 Isolato: Atelier Zeinstra, DVK, van der Donk, Höhne & Rapp 24 Isolato: Claus en Kaan, van Sambeek & van Veen 25 Isolato: Köther en Salman, van Sambeek & van Veen 26 Isolato: Claus en Kaan 27 Isolato: Claus en Kaan, JHK 28 House: UNStudio 29 House: E. Milralles 30 Isolato: Atelier Zeinstra, Tupker & van der Neut, S. Sorgdrager, van der Pol 31 De Pacman: K. Van Velsen 32 Isolato: K. Christiaanse 33 Isolato: De Architectengroep 34 Isolato: Faro Architecten, Marge Architecten, R. Uytenhaak 35 Isolato: R. Uytenhaak, Heren 5 36 Isolato: Tupker & van der Neut, Atelier Zeinstra, S. Sorgdrager 37 Isolato: L. Mateo, Van Herk en De Kleijn 38 Ponti pedonali: West 8 0 50 m 15 14 18 11 17 16 10 15 21 16 23 22 28 27 13 14 26 24 19 38 25 38 32 31 18 30 20 33 29 19 Vrije kavels 17 37 36 35 Borneo 34 100 m 200 m 0 50 100 200m 1 2 4 3 5 6 8 7 9 10 11 12 13 PIANO PRIMO 14 15 16 17 19 18 20 Amsterdam, Zuidas Zuidas, comparto del Southern Axis, il piano di espansione lungo le autostrade, tra Amsterdam Sud e l’aeroporto di Schiphol, segna il punto di svolta nei processi di costruzione della città dei Paesi Bassi e anticipa gli sviluppi nella costruzione della città in Europa. Durante gli anni ottanta, nelle strategie di riconquista della città esistente, densificazione e infrastrutturazione furono il fulcro del programma di qualificazione urbana. Rivolgimenti produttivi e riforme infrastrutturali sollecitavano una riorganizzazione di aree dimesse e del waterfront. Una diversa contingenza accoglie il progetto Zuidas. Il mutamento radicale delle politiche urbane, inaugurato dagli orientamenti neo-liberisti, incalza la metamorfosi del progetto urbano, ne solleva questioni nodali, improntandone i futuri sviluppi. Rovesciando la precedente tendenza all’accentramento si prefigurano nuove espansioni, forme nuove di centralità fuori dalla città. Si pone l’accento sulla valorizzazione economica delle operazioni di costruzione urbana, assecondando le aspettative delle correnti forme di finanziarizzazione immobiliare. Le infrastrutture, lette in ottica neo-keynesiana, si vogliono volano nel rilancio degli investimenti: se la questione della riforma urbana avveniva prima in concomitanza alla riorganizzazione infrastrutturale, a generare nuove occasioni insediative sono ora le rendite posizionali, offerte da una nuova topografia delle accessibilità a seguito delle infrastrutturazioni in compimento. Valutandone le ampie implicazioni, socioeconomiche, ambientali e insediative, Zuidas non può essere considerato come sviluppo urbano contingente e transitorio, creatosi da un’occasionale coincidenza di fattori, quali la vicinanza all’aeroporto e la presenza di aree operabili e di infrastrutture della mobilità. Zuidas va letta come esperimento nella creazione di nuova centralità urbana che non si origina dalla città esistente, come ancora accade per Euralille, Seine Rive Gauche, Potsdamer Platz. Risulta nodo nel network delle ‘centralità globali’, che nella compressione spazio-temporale generata da mezzi di comunicazione a scala continentale fruiscono dell’alta accessibilità e, come gli aeroporti e le stazioni dell’alta velocità, godono dei vantaggi, e al contempo subiscono gli svantaggi, di un’intrinseca condizione di a-topicità. Recuperate le aree dimesse nel cuore delle città, riutilizzati gli scali ferroviari, riqualificati waterfront e dock, sembrano aprirsi ora nuove opportunità insediative in concomitanza di riforme infrastrutturali della mobilità di interscambio con gli aeroporti. La zona di prossimo sviluppo tra Bilbao e l’aeroporto di Sondica, l’area di PortaSud tra la città storica di Bergamo e l’aeroporto Milano Orio al Serio, i business park che stanno nascendo attorno agli aeroporti di Luton e Heathrow a Londra e vicino all’aeroporto di Francoforte, mostrano una forte propensione nel concepirsi come nodi di una rete globale che trascendono e superano la scala urbana e locale. Generate dall’alta accessibilità intermodale e aeroportuale enormi opportunità, economiche e sociali, chiedono di essere governate. Ma occorre rompere le consuetudine di configurare enclave monofunzionali e indirizzare invece le risorse verso la realizzazione di vere e proprie parti di città, multifunzionali e vitali. ‘Centri globali’, per citare Hall, Sassen o Castells, che possano tuttavia porsi a cerniera tra una rete di relazioni e di scambi transnazionali e le città esistenti, come occasione di reciproco rilancio e arricchimento. Aspirazione che Zuidas soddisfa, facendosi esempio emblematico. Generando sinergie intreccia tre aspetti nodali: il governo del potenziale economico indotto, la configurazione di un nuovo quadro di convergenze tra politiche urbane e territoriali, l’integrazione di molteplici finalità 57 insediative. Il potenziale economico è frutto di una convergenza di interessi: finanziari e immobiliari per le grandi banche olandesi propense a decentrare riunendo le loro sedi in prossimità dell’aeroporto, strategici per la municipalità di Amsterdam a cui urgeva riorganizzare i fasci infrastrutturali lungo la A10 e le linee dell’alta velocità. L’accordo siglato nel 2000 dalle istituzioni governative con le banche confermò l’impegno del capitale privato ad acquisire dal pubblico i diritti volumetrici generati dall’interramento dei fasci viari e ferroviari, a compenso degli oneri pubblici per riqualificare le infrastrutture. Ma nell’ambito delle politiche insediative diviene necessario mutare anche il quadro di riferimento normativo e procedurale. Zuidas incalza un rinnovamento normativo e legislativo e delle modalità decisionali, paragonabile, per portata, al superamento della pianificazione comprehensive operato dai ‘progetti speciali’ negli anni ottanta. Occorre infatti trovare piani di intesa tra decisioni d’ordine ‘locale’, riguardo per esempio la collocazione dei nuovi insediamenti, per lo più competenza degli enti locali, e le decisioni d’ordine ‘generale’, riguardanti per esempio la programmazione e realizzazione di infrastrutture territoriali, di pertinenza del governo centrale o di enti settoriali. Spezzare rigidità e separazione delle competenze ha permesso di rinvenire piani di convergenza e di intrecciare sinergicamente infrastruttura e città, due realtà ancora oggi difficilmente conciliabili. Dare origine a una parte di città reale e vitale presuppone un alto livello di complessità e intensità urbana. Significa cioè integrare molteplici finalità insediative e allacciare in proficua interazione prospettive differenti, paesaggistiche e infrastrutturali, ecologiche e di sostenibilità ambientale, sociali e culturali. Zuidas accogliendo una complessità e molteplicità di usi coinvolge, insieme ai quartieri residenziali a nord e a sud, ora separati dai fasci infrastrutturali, i dispositivi urbani limitrofi, il World Trade Centre, la sede della Free University, il RAI Exhibition Centre. Una città vivibile, di uffici, ma anche di case e giardini, di traffici pedonali e scambi. Diversa dal business district alla Défense o alla Canary Warf improntati prevalentemente sul lavoro. Qui il riferimento privilegiato va invece a Seine Rive Gouche e a Potsdamer Platz, dove multifunzionalità e mescolanza di modelli urbani producono realmente urbanità. Già nel primo masterplan, redatto nel 1998 da PI de Bruijn, partner di De Architekten Cie, in collaborazione con il DRO (Dienst Ruimtelijke Ordening), il dipartimento di progettazione urbana della municipalità, questi indirizzi si erano chiaramente palesati. Un nuovo suolo di isolati e blocchi urbani steso tra le sponde della trincea infrastrutturale va a relazionare spazi aperti, parchi e giardini con le attività già insediate, con i quartieri urbani di Berlage a nord e l’espansione residenziale di van Eesteren a sud. Un’interpretazione della Griglia che lascia ampi margini di flessibilità nel configurare edifici e spazi. Si implementa una strategia di sviluppo duttile, passibile di aggiustamenti e capace in corso d’opera di accogliere opportunità e assorbire impasse decisionali. Elasticità dimostratasi vantaggiosa nell’attesa di trovare soluzione alla querelle siglata dall’alternativa Dock o Dike. La questione dei fasci infrastrutturali (autostrada, ferrovia, metropolitana), che correndo nel centro di Zuidas costituiscono sicuramente un motore di sviluppo, apre infatti un cruciale dilemma nella scelta del modello insediativo. La soluzione del Dock, sebbene onerosa, convoglierebbe interamente in tunnel, per oltre un chilometro, le infrastrutture della mobilità che tagliano in due l’area di sviluppo. Una grande tolda artificiale - già sperimentata a New York, Londra, Parigi coprendo gli scali ferroviari consentirebbe il riutilizzo delle superfici ricavate, lasciando che una nuova città potesse erigersi sopra strade e binari. L’aumento della superficie fondiaria si sommerebbe ai vantaggi offerti dalla riunificazione dell’area e dalla diminuzione dell’inquinamento atmosferico e sonoro, generando quel plusvalore economico necessario a sopperire ai costi della trasformazione infrastrutturale. Pur raccogliendo, sin dalle prime formulazioni progettuali intorno alla fine degli anni novanta, consensi e il favore dell’amministrazione pubblica, ancor oggi permangono incertezze circa gli effettivi benefici e i reali costi che la realizzazione della proposta comporterebbe. Si calcola che la costruzione del Dock e la riforma infrastrutturale possa incidere sui costi della superficie costruibile generata di circa duemila euro al metroquadrato. Sovrapprezzo considerato troppo elevato rispetto gli attuali valori immobiliari. 58 59 Amsterdam, Zuidas Progetto urbano e coordinamento: DRO, Zuidas Amsterdam Development Office Società di sviluppo: Zuidas Amsterdam Development Corporation Progetti e realizzazioni: 1998 - in corso 1 World Trade Center: KPF 2 Zuidplein 3 ABN Amro: Pei Cobb Freed & Partners 4 Uffici: R. Viñoly 5 Uffici: T. Ito 6 Uffici: SOM 7 The Baker & McKenzie House: M. Graves 8 Uffici: F. van Dongen 9 Uffici: E. van Egeraat 10 Uffici: UNStudio 11 Symphony: De Architekten Cie 2 Noordzone Beethoven 3 2 1 1 4 Zuidasdok 5 9 7 9 13 10 8 4 10 6 3 7 6 5 11 Mahler 4 12 8 14 11 Gershwin Ravel 0 0 50 m 100 m 200 m 500 m 50 100 200 500m 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 Barcelona, Vila Olimpica, Forum 2004 Concomitante alla riorganizzazione amministrativa partita nel 1979 con l’istituzione della Corporaciò Metropolitana de Barcelona, prende avvio un ripensamento generale sulla città e sul ruolo da essa giocato rispetto alla conurbazione cresciuta attorno. Le istanze di riqualificazione puntano a fare di Barcellona una capitale del Mediterraneo, e a tal fine avviano un progetto strategico. Prendendo congedo dalle previsioni espansive del Plan General del 1976, vengono accolti alcuni fermenti teorici che aleggiano in quegli anni in Europa e che, in alternativa all’espansione urbana, auspicano la ricostruzione della città su se stessa. La politica di urbanismo estratégico, che Oriol Bohigas in quegli anni propugna a Barcellona, conta su attuazioni puntuali, capaci di attivare la rigenerazione delle parti circostanti in “sorta di benefica ‘metastasi’ nel tessuto urbano”. Recuperation, la strategia messa in atto, agisce su più fronti e nell’iter dei lavori vede alternarsi diverse scale di intervento. In un primo momento la riqualificazione dei piccoli spazi urbani nel cuore del Ciutat Vella comporta un lavoro alla scala microurbana. In seguito parziali riorganizzazioni infrastrutturali intervengono sul trasporto pubblico e si recuperano a spazi collettivi aree marginali dell’Ensanche e della prima periferia storica. Quando il progetto urbanistico così avviato si innesta sul programma del 1985 per le Olimpiadi del 1992, cambiano portata e fine degli interventi. Un’idea-fuerza si impone e vorrebbe che le molteplici tematiche legate alle manifestazioni olimpiche - nuove accessibilità, nuovi servizi e strutture di accoglienza, nuove attrezzature sportive e ricreative - divenissero parte integrante di una più ampia azione di riqualificazione e ammodernamento, capace di prefigurare una nuova immagine della città da spendere anche nella compagine amplificata dei media. ‘Le olimpiadi durano quindici giorni ma la città rimane per sempre’ afferma il sindaco Maragall. L’ebrezza della ribalta e la volontà di rivalsa di una città che per decenni si è dovuta chiudere su se stessa impongono di mutare lo slogan iniziale: da recuperation in innovation. Riconoscendo nel ‘progetto urbano’ il metodo operativo per intervenire alla ‘scala intermedia’, tra morfologia della città e reale formalizzazione di spazi ed edifici, ci si oppone alle forme estreme di deregulation urbanistica. Si configura, al contrario, una strategia che, a partire da progetti concreti, efficaci nel convogliare risorse e opportunità, giunga, nel ripensare la forma urbis in relazione alla scala metropolitana, a riconquistare il mare e riformare il sistema delle infrastrutture. Nel 1985 il progetto strategico promosso da J. Busquets individua dodici ‘Nuove centralità’, concepite come veri e propri brani di città, complessi e articolati, dove, tra altre funzioni, si possano localizzare ‘anche’ le attrezzature olimpiche. Le ‘Nuove centralità’, sono tra loro relazionate e interconnesse dalle Rondes, strade di collegamento che la riforma dei Cinturones concepisce con criteri urbani, così da configurarsi come itinerari nella città e insieme permettere facile accessibilità. Nell’istaurare una relazione tra la collina di Montjuïc e la zona industriale del Poblenou emerge il problema della riconversione del waterfront, convogliando verso il mare le energie della città. Con forza e audacia il progetto rovescia un secolare rifiuto del fronte marino, che già Cerdà, spingendo le energie espansive verso l’entroterra, aveva messo in sottordine e a cui, nel corso del novecento, la città volgerà le spalle allocandovi la grande area industriale legata alla ferrovia e al porto. Nel 1984, il completamento del Moll de la Fusta su progetto di M. de Solà inaugurò, con la prima tratta della Rónda Litoral, un intervento di trasformazione che in meno di venti anni conquista 75 circa sei chilometri di mare e spiagge - dal Montjuïc verso la Barceloneta, per la Vila Olimpica e il porto turistico, per il Parque de Litoral e del Poblenou e le loro spiagge, fino alle operazioni di sviluppo della Diagonal mar, l’Esplanade del Forum 2004 e la riqualificazione della foce del Besòs - offrendo alla città uno spazio pubblico e paesaggistico così grande che ancora non ha avuto eguali in Europa. Paragonabile, per valore urbano e ambientale, e apertura a valenze collettive, solo ai grandi lavori roosveltiani, quando Moses portò New York sulle spiagge di Long Island. Guidato da principi di un’‘urbanistica urbana’ prese allora avvio un lungo processo, dimostratosi realmente capace di produrre segni stabili nella forma urbana. Nel 1985 lo studio Mbmp inizia a progettare la Vila Olimpica, a cui è riservato un ruolo d’importanza strategica nella trasformazione di Barcellona. Elemento chiave per la riconfigurazione del waterfront, dovrà riorganizzare lungo la costa il sistema infrastrutturale, cercandone la compatibilità con l’insediamento e dar vita a una parte varia di città, dove compresenza di usi, forme e spazi aperti offra un’abitabilità consona alle aspettative contemporanee. La messa in forma di una parte così complessa di città vedrà il progetto urbano affrontare questioni nodali nel processo di riorganizzazione. Dalla concezione sino alla realizzazione si dovrà misurare con il rinnovamento delle ‘convenzioni urbane’ in vista delle contemporanee esigenze fruitive, il governo degli equilibri tra continuità urbana e varietà edilizia, tra città esistente e nuovo assetto, la gestione dei conflitti tra le infrastrutture extraurbane e la fruizione urbana dei luoghi. La Vila Olimpica rappresenta una delle prime sperimentazioni contemporanee di ‘progetto urbano coordinato’. E ne ha messo alla prova le capacità, scandagliato potenzialità, implicazioni e limiti, mostrandone l’efficacia come strumento operativo, tanto da aprirne ampi seguiti in Europa. Nella volontà di ripercorrere e trascrivere le ‘convenzioni’ ereditate dalla città storica, le proposte morfologiche per la Vila Olimpica si riallacciano ai fermenti di revisione critica dell’urbanistica moderna, l’esperienza non ancora conclusa dell’Iba 84 a Berlino e i contributi teorici del ‘movimento di ricostruzione della città’. Lo spazio pubblico diventa fatto stabile e duraturo a cui ancorare la nuova urbanità, l’isolato urbano, reinterpretato dal revisionismo di Bohigas, rappresenta l’elemento intermedio che permette l’edificazione per singole parcelle edilizie da affidare a diversi progettisti. L’opzione tipo-morfologica si intreccia con la necessità di riorganizzare radicalmente le infrastrutture che tagliano e separano dal mare la città. La concezione d’insieme si lascia guidare dalle specificità del luogo: i tracciati regolari dell’Ensanche partiscono nuovi isolati, la linea sinuosa del litorale diventa matrice del parco lineare allacciato alla Ronda, il raccordo ferroviario si fa margine del nuovo insediamento sul Parque de la Ciutadela, l’affaccio sull’orizzonte sollecita la ‘palazzata a mare’ sul Parque de Litoral. La morfologia d’impianto, nella tradizione rinnovata della City beautiful, tiene in equilibrio le istanze urbane, suffragate dai tracciati dell’Ensanche, e il disegno delle nuove infrastrutture nella esaltazione dei pregi ambientali. Un substrato fisico e concettuale che intreccia assetto urbano, riorganizzazione infrastrutturale, paesaggio ed edificazione. Linee guida orientano il lavoro di una trentina di architetti, tra cui Amadò, Domènec, Boffill, Pinòn e Viaplana, Bach e Mora, Lapena-Torres, Bonell-Rius, Tusquets, col fine di produrre una controllata varietà, contrappunto a una prevalente uniformità morfologica. Un’area urbana, per anni consegnata alla frequentazione di abitanti e turisti, deve ora duramente competere con le nuove energie attrattive distribuite lungo la costa, confrontandosi con i nuovi modelli di trasformazione urbana avviati in occasione del Forum Universale delle Culture del 2004. Localizzato a nord del Poblenou lungo la Diagonal, tra Plaza Glories e la confluenza del Riu Besòs, il grande progetto urbano del Forum 2004 segna il mutamento delle politiche urbane della municipalità di Barcellona. Dal 1998 in deroga al Plan General Metropolitano, assecondano la tendenza al leverage planning, portato in Europa continentale dalla cultura anglosassone, vengono introdotti criteri di maggiore flessibilità e il ricorso alla pratica della negoziazione ‘caso per caso’. Per supplire alla scarsità di finanziamenti pubblici, si attirano nei processi di trasformazione urbana capitali privati, anche provenienti dall’estero, convogliandoli in investimenti immobiliari resi economicamente appetibili. Il cambiamento di scala nel passaggio da città a metropoli, indispensabile nella competizione globale degli investimenti, spinge verso l’accentuazione di particolari usi - convegnistici, espositivi, commerciali, ricettivi - per collocare Barcellona nel mercato delle attrazioni internazionali, rafforzandone la propensione a touristy city. Il Forum Universale delle Culture del 2004 rappresenta, come le precedenti Olimpiadi, occasione e stimolo per riqualificare parti marginalizzate e depresse della città e al contempo momento di riflessione intorno a un generale rinnovamento dell’immagine urbana. Ma se gli anni passati prospettavano una riqualificazione della città in continuità con i valori urbani esistenti, con il Forum 2004 muta il quadro dei riferimenti. Il rimando d’obbligo va ora all’ormai diffusa e predominante propensione ad avviare riforme urbane allestendo eventi di risonanza internazionale, il successo mediatico dei quali trascinerebbe la riuscita commerciale e immobiliare dell’operazione di trasformazione. Successo a cui comunque concorrono più fattori: l’immissione di nuove e dirompenti funzioni, la promiscuità di differenti usi e offerte fruitive e, non ultimo, l’uso spettacolare delle firme architettoniche. La nuova parte di città snodandosi lungo il mare appare come una collazione di differenti interventi, ognuno dei quali originato da una particolare tematica insediativa. Un approccio empirico asseconda la destrutturazione provocata dallo scontro tra l’irruente solco autostradale della Ronda Litoral e il regolare disegno delle propaggini dell’Ensanche. Brani di città e di paesaggi ‘in collisione’, direbbe Colin Rowe, dove un antagonismo di segni inscena un generic landscape di torri, piastre, suoli artificiali, giardini e svincoli, che affiorano tra nuove e vecchie infrastrutture. Appaiono, ai bordi dell’Esplanade di Lapena-Torres dispiegata per venti ettari come gigantesco foglio di origami, il flottante Forum di Herzog&deMeuron e, simile a un’infrastruttura portuale, il lungo Centro Convegni di Mateo. Dietro, a segnare l’imbocco della Diagonal, le torri del piano di Kpf si innalzano dal parco di Miralles-Tagliabue, triangolando, con la torre Agbar di J. Nouvel in Plaza Glòries e quelle di Som e Ortiz-Leon alla Vila Olimpica, la continuità orizzontale dell’Ensanche. A fulcro geometrico e simbolico dell’area un grande, rarefatto e dilatato vuoto, coperto per parti da possenti ombraculi-belvedere a sostegno della centrale fotovoltaica. Suoli staccati, spaccati dai segni infrastrutturali, piastre in lenta deriva, increspate e corrugate da dune vegetali o minerali, si raccordano a esplanade artificiali nell’Auditoria Park di Foa e nella Bathing area di Beth Galì, o travalicano infrastrutture e ingombri edilizi nel Parc de Litoral nord-est di Abalos&Herreros, parterre della grande centrale d’incenerimento assurta a monumento tecnico. 76 77 Diagonal mar 16 Vila Olimpica 14 7 22 8 8 19 1 11 10 10 4 17 3 6 2 2 19 12 5 11 14 22 4 6 24 Diagonal Mar Progetto urbano e coordinamento: KPF 20 18 25 16 Barcelona, Vila Olimpica, Forum 2004 Vila Olimpica Progetto urbano e coordinamento: MBMP Società di sviluppo: Nova Icària SA Progetti e realizzazioni: 1985 - 1994 26 23 13 3 1 21 Forum 2004 15 13 30 17 9 5 12 18 15 7 9 29 20 21 0 Società di sviluppo: Hines Progetti e realizzazioni: 1999 - 2004 Forum 2004 Progetto urbano e coordinamento: Josep Acebillo Progetti e realizzazioni: 1999 - 2004 50 m 100 m 200 m 500 m 1 Isolato: MBMP 2 Isolato: Correa & Milà 3 Isolato: Bonell & Rius 4 Isolato: Piñón & Viaplana 5 Isolato: Lapeña &Torres 6 Isolato: Tusquets & Diaz 7 Eurocity: Amadó & Domènech 8,9,10 Eurocity: Piñón & Viaplana 11 Central Telefonica: Bach & Mora 12 Torre Hotel Arts: SOM 13 Torre Mapfre: Ortiz.Léon 14 Centro Meteorologico: A. Siza 15 Parque del Litoral: MBMP 16 Port Olimpic, MBMP 17 Ronda del Litoral Promenade: Ravetllat Mira & Ribas Seix 18 Forum: Herzog & de Meuron 19 CCIB: MAP Arquitectos 20 Hotel Diagona: O. Tusquets 21 Centro Commeciale Diagonal Mar: R. Stern 22 Parque Diagonal Mar: Miralles & Tagliabue EMBT 23 Esplanade: Lapeña &Torres 24 Parc dels Auditoris: FOA 25 Bathing area: B. Galí 26 Parque del Litoral nord-est: Abalos y Herreros 0 50 100 200 500m 1 2 3 5 4 6 7 9 8 10 11 13 12 14 15 17 16 18 19 21 20 22 Berlin, Potsdamer Platz Dopo la caduta del muro, nel 1989, la prospettiva di una Berlino riunificata e nuovamente capitale divenne motivo per ripensare la città nella relazione tra le parti e per rintracciare altri luoghi di centralità. Da quando nel 1961 venne eretto il muro, giaceva, tra le cancellazioni a esso conseguenti e confinato ai margini, il fulcro geometrico e simbolico di Berlino: tra i bordi sfigurati della scacchiera di Federico II, tra le orme appena percepibili delle famose icone barocche della Leipziger Platz e Pariser Platz, tra le terre abbandonate lungo il confine inframmezzate da strade e binari interrotti. Per anni divise, due città si sforzeranno di costruire, in competizione tra loro, due opposti centri. Berlino Ovest asseconda la secolare tendenza della crescita urbana e privilegia la direttrice verso Charlottemburg. Berlino Est dispiega i vessilli del nuovo potere verso l’Alexanderplatz e lungo la Stalin-Allee. Allocare nuove centralità costituì prerogativa di una ricostruzione che, in realtà, avrebbe voluto porsi come nuova fondazione, implicando la rimozione fisica delle memorie. Intendimenti questi già esplicitati chiaramente, nel 1946, dal piano generale elaborato dal Collettivo diretto da Hans Scharoun. Il centro della nuova città riunificata era, agli inizi degli anni novanta, un vasto vuoto, per trent’anni il retro delle due città: un centro topologico pervaso da assenze che distanziavano parti di città in conflitto, frutto di frammenti di disegni e di prefigurazioni interrotte. Saranno questi vuoti a sollecitare la messa in atto di principi di ‘densificazione’ volti, di nuovo, a cancellare i segni dei conflitti e la storia recente. A differenza di quanto avvenuto durante la ricostruzione post-bellica, le cancellazioni procedettero in nome di una storia presunta, anziché di desideri futuri, con un’edificazione generalizzata anziché demolizioni. L’operazione, riecheggiando l’Iba 84, risveglia gli entusiasmi additando, nella Berlino degli anni novanta, la rinascita di un nuovo laboratorio en plein air di architettura e di urbanistica. Principi e metodi sono caduti in insanabili contraddizioni. La volontà d’innovazione inseguita con concorsi internazionali confliggeva con le regole di restaurazione della forma urbana. Tramutati in legge nel Planwerk, tali regole di Kritische Rekonstruktion diedero infatti luogo a compromessi e soluzioni non sempre all’altezza dell’eccezionalità dei luoghi. Le ricostruzioni attorno alla Porta di Brandeburgo, i completamenti della Friedrichstrasse, la nuova ‘città politica’ con il Reichstag sull’ansa della Spree, la riqualificazione dell’area della Potsdamer e le previste trasformazioni dell’Alexander Platz e della Spreeinsel mancano di una consapevole strategia di ammodernamento della città e denunciano lo sfruttamento occasionale nel centro urbano di aree ‘dismesse’, sulle quali vengono convogliati investimenti pubblici e capitali privati. Lucidamente Osvald Mathias Ungers, che da tempo studiava e progettava la città, si chiese: “Esiste un piano per Berlino, oppure si riduce soltanto a qualcosa di raffazzonato, a un modo di lavoricchiare ad hoc, a un programma adottato per acclamazione a seconda della situazione ideologica ed economica del momento o delle preferenze personali? […] bricolage di immagini, da dovunque esse provengano, non importa che sia dall’Italia o da Manhattan”. L’incoerenza delle regole lascia il campo a dissidi, evidenti nella lettera che Rem Koolhaas scrive al Frankfurter Allgemeine Zeitung, nel 16 ottobre del 1991 a commento della disputa scatenatasi in sede di premiazione del concorso per la Potsdamer/Leipziger Platz . “Sin dall’inizio progetti ricchi di intelligenza, potenzialità imprenditoriale e capaci di veicolare nuove visioni urbane sono stati esclusi a vantaggio di progetti considerati ‘normali’[…] che denunciano tutti le stesse debolezze perché 95 ancora legati alla classica morfologia ottocentesca che si fonda sul blocco urbano”. Perseguendo l’immagine di una Berlinische Architektur con temi derivati dalla Kritische Rekonstruktion, nel 1991 Hilmer & Sattler vincono il concorso per il masterplan della Potsdamer/ Leipziger Platz. Isolati, ritagliati dalle strade esistenti o da tracciati storici ripristinati, vengono inframmezzati a slarghi e parterre: i dettami della urban beautification non riescono a configurare un vero tessuto urbano né a sollecitare relazioni con la città attorno e con le afferenti infrastrutture della mobilità. Le inconciliabilità irrisolte ne vizieranno gli sviluppi, nonostante i progetti di concorso seguenti cerchino di attenuarne gli effetti più perniciosi. La decisione del Senato di attuare il masterplan con tre concorsi, da indirsi autonomamente da parte dei proprietari delle aree, senza nessun coordinamento generale, frammenterà ulteriormente l’insieme. Con interventi autocentranti, alla scala del pezzo di città che coincide con l’immagine della company, Sony, Debis, e Abb producono identità e riconoscibilità ciascuno per sé, ma non in relazione reciproca . La Neue Potsdamerstrasse è separazione e confine tra unità dotate di carattere e individualità propri: dispositivo di demarcazione tra competitor che agiscono sul mercato immobiliare e delle fruizioni urbane, offrendo prodotti analoghi in diverse forme e tematizzazioni. La Potsdamer Platz svuotata così d’usi e valenze urbane rimane mero fuoco geometrico di convergenza degli spigoli vivi degli edifici d’angolo. Più degli altri, il progetto dello studio Murphy & Jahn del 1992 per la Sony esprime autoreferenza. I volumi sulle strade si articolano esclusivamente a partire dal vortice generato dai flussi di ingresso: seguendo i dettami del retail planning e in totale indipendenza dal Tiergarten come dall’insediamento della Debis. L’impianto morfologico e l’architettura adottata, sottraendosi dai dettami della Kritische Rekonstruktion, configurano la propria unità d’intervento ibridando un perimetro di edifici allineati sulle strade con la figura centrale di una galleria ellittica. Due fulcri. Uno, alla scala della fruizione urbana, è il giardino tematico di Peter Walker, nel quale si snoda l’articolazione tra piano terra e piani interrati, tra hall pubbliche e i luoghi d’intrattenimento. L’altro, la torre sulla Postzdamer Platz, con le pelli sfogliate delle sue facciate trasparenti, come landmark si staglia nel paesaggio urbano, a evocare un mondo immateriale e light, connotazioni prescelte a simbolo del brand giapponese nella città. Giorgio Grassi vince nel 1993 il concorso per l’area Abb, rifiutando la mimesi dell’isolato proposta dal masterplan. Propone invece un’edificazione di blocchi a ‘C’ e a ‘H’ aperti verso la strada e il giardino. Con un’opzione tipo morfologica, anziché fare leva sull’isolato come elemento di definizione urbana, si riallaccia metaforicamente ai principi di costruzione di alcune parti della Berlino tardobarocca e neoclassica, come la Ehemalige Wilhelmstrasse. Riprende le strutture profonde della città come fattore di resistenza da contrapporre ai recenti interventi alla Potsdamer Platz, considerati riproduzione di un’urbanità d’immagine, superficiale tematizzazione di città. L’ampio scollamento che separa l’eroiche aspettative dalla ‘normalità’ dell’esito costruito induce a leggere le semplificazioni operate sulle strutture della storia foriere di analogie, più che differenze, rispetto a Hilmer & Sattler. Certamente un coordinamento d’insieme non avrebbe generato enclave separate tra loro, nonostante Renzo Piano abbia, per l’area Debis, operato un coordinamento e, nei limiti delle premesse, sia riuscito a dar vita a una parte relativamente varia e articolata di città. Quando nel 1992 Piano con Kohlbecker vince il concorso riforma pragmaticamente i condizionamenti del masterplan: da accorte modifiche, da usi e rituali diversificati ne sortirà un’urbanità meno astratta, pure nell’ambito di una simulazione. La città per isolati, voluta dai regolamenti edilizi secondo la tradizione di Kritische Rekonstruktion, viene ibridata con il modello di ‘downtown’, che già precedenti progetti di concorso per la Potsdamer/Leipziger Platz avevano proposto in quanto più confacente al ruolo di Berlino capitale e alla nuova scala degli investimenti immobiliari. Ai bordi dell’area, isolati a blocco si proiettano verso l’alto articolandosi in torri ed edifici d’angolo per rispondere ai fatti urbani salienti intorno, e per segnalare simbolicamente la pertinenza della corporate. L’‘unitarietà’, requisito indispensabile d’identità e riconoscibilità del brand entro logiche di competizione economica, dovrà qui rimanere in equilibrio con l’antitetico carattere di ‘varietà’, prerogativa ineludibile del dirsi città, e di quell’urbanità a ‘pronto effetto’ capace di garantire un’immediata spendibilità sul mercato. 96 97 Planivolumetrico e costruito, impianto d’insieme e singole parti edificate vengono, con pragmatismo e disinvoltura, tra loro regolati coordinando diversi architetti. Tutto ciò che nella conduzione di altri progetti urbani coordinati si sarebbe rivelato funzionale e proficuo viene acquisito qui senza esitazione, e immesso nella struttura di produzione del progetto. Allineamenti, partiture edilizie, omogeneità di materiali e di sistemi costruttivi, sono regole, semplici, impartite a Koolhoff, Kohlbecker, Moneo, Isozaki, Rogers, Lauber+Wohr, con l’intento di montare sequenze spaziali entro un ‘tessuto edilizio’ coeso. Le ‘architetture’, progettate e costruite da Piano stesso, giocano di contrappunto, tra opacità e lucentezza, regola ed eccezione e alludono alla città storica, nell’alternanza di ‘monumento e tessuto’, che le varietà planivolumetriche riproducono in tematizzazioni. Il progetto degli spazi aperti risulta prezioso per conferire coerenza d’insieme, e un certo effetto di urbanità diffusa. Piano ridefinisce la proporzione tra altezza del costruito e larghezza della strada, precisa in dettaglio gli elementi architettonici di attacco a terra degli edifici, disegna gli elementi che assegnano carattere peculiare agli spazi aperti ritrascrivendo materiali e dettagli del centro storico, apre traguardi e trasparenze dilatando lo spazio urbano fin nelle hall degli edifici. Nel ‘townscape’ di Piano è l’approccio visivo e percettivo a guidare l’accostamento e la ricerca della sintassi tra edifici: costruisce viste, scorci, coglie in sequenza la correlazione di volumi e spazi. Dentro tali ‘quadri’ Piano colloca, in stretto rapporto coi propri, gli edifici degli altri architetti. Oppure enfatizza spettacolarmente un angolo o una verticalità. O ancora, contrappone, a contrastarla, la tettonica edilizia di Koolhoff alla smaterializzazione misiana delle sue torri imballate. L’approccio ‘visibilista’ costruisce variata unitarietà pure nella scelta di materiali ricorrenti. A prevalere non i materiali, bensì gli effetti visivi di un processo costruttivo light, di un montaggio a secco di elementi seriali industrializzati. I materiali si conformano in griglie, reticoli bidimensionali, pannelli traforati che Piano, Rogers, Isozaki, utilizzano per ottenere dissolvenze, trasparenze, ombreggiature al fine di esaltarne i valori percettivi e ambientali. Ciò concorre alla connotazione d’insieme: un ‘allestimento di città’, che in sorta di evento urbano si sottrae alla solidità della ‘Berlino di pietra’. Soltanto Kollhoff e Moneo oppongono resistenza, restii ad accettare tali premesse. Per contrapposizione i loro edifici evocano radicamento tipologico e solidità tettonica, in accordo con le aspirazioni alla neue Berlinische Architektur. Berlin, Potsdamer Platz Debis Progetto urbano e coordinamento: Renzo Piano, Christoph Kohlbecker Società di sviluppo: Debis Progetti e realizzazioni: 1993 - 2000 23 Sony Center Progetto urbano e architettonico: Murphy/Jahn Società di sviluppo: Sony Progetti e realizzazioni: 1996 - 2000 22 Park Kolonnaden Progetto urbano e coordinamento: Giorgio Grassi Società di sviluppo: Abb Progetti e realizzazioni: 1996 - 2002 1 Tower: R. Piano, C. Kohlbecker 2 Businnes center: H. Kollhoff 3 Debis center: R. Piano, C .Kohlbecker 4 Musicaltheater Casinò: R. Piano, C. Kohlbecker 5 Grand Hyatt: R. Moneo 6 Mercedes-Benz: Center: R. Moneo 7 Isolato: Lauber + Wöhr 8 Imax: R. Piano, C. Kohlbecker 9 Isolati: R. Piano 10 Arkaden: R. Piano 11 Berliner Volksbank: A. Isozaki 12 Isolati sulla Linkstrasse: R. Rogers 13 Sony Center: Murphy/Jahn 14 Uffici e commercio: Schweger & Partner 15 Uffici, G. Grassi: J. Sawade 16 Uffici e residenza: Diener & Diener 17 Bahnhof Potsdamer Platz: Hilmer & Sattler 18 Tilla-Durieux Park: DS Landschapsarchitecten 19 Ritz Carlton Hotel: Hilmer & Sattler 20 Delbrück-Haus: H. Kollhoff 21 Staatsbibliothek: H. Scharoun 22 Philharmonie: H. Scharoun 23 Tiergarten 3 21 13 6 Sony Center 2 4 5 7 4 5 Debis 7 9 8 3 9 19 10 2 20 11 12 9 1 6 17 18 1 8 16 15 14 Park Kolonnaden 10 0 10 50 100 200m 0 10 m 50 m 100 m 200 m 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Breda, Chassé Park Dalla metà degli anni ottanta l’amministrazione municipale di Breda, rilanciando la città nel mercato fieristico congressuale, dell’intrattenimento e del terziario avanzato, attiva programmi di riconversione industriale e li associa a politiche residenziali per affrontare, in ragione delle mutate condizioni lavorative e sociali, l’aumento di pensionati e l’arrivo di nuovi abitanti attratti dalle dinamiche economiche generate. Entro tale prospettiva, matura, nel 1994, l’ipotesi di riqualificazione del Chassé Terrain, ex area del demanio militare. Il progetto urbano viene affidato a Oma, che si avvale della consulenza paesaggistica di West 8. Ora riconquistato alla città, il Park Chassé insieme al Parksport, al Wilhelmina park e al Brabant configura un green-loop, un sistema verde chiaramente leggibile nell’icona della forma urbis che conferisce alla città particolari valori ambientali e di integrazione tra paesaggio e costruito. Su quattordici ettari si estende un’articolata offerta di housing e spazi aperti. Novecento abitazioni - appartementi di pregio, edilizia sociale in affitto, edilizia convenzionata, residenze per anziani e disabili – si inframezzano a uffici, nuove attività collettive e agli edifici pubblici esistenti che il progetto ha valorizzato: il municipio degli anni settanta, il teatro Chassé degli anni ottanta di Hertzberger, alcuni edifici militari di inizio ottocento ristrutturati per accogliere il Breda’s Museum en Archief nella Kloosterkazerne, il nuovo Holland Casino e il Mezz Muziekcentrum Il modello insediativo è il campus. Se lo spazio privilegiato attorno al quale gli edifici trovano la migliore rappresentazione figurativa è, nella città storica europea, la piazza, nella città moderna è sovente il giardino ad organizzare ed ordinare il costruito in raggruppamenti, autonomi ma reciprocamente interrelati. Nel passaggio dal paradigma della piazza a quello del giardino nuove libertà combinatorie tra edifici si dispiegano e nuove opportunità di relazione di questi con le infrastrutture e gli spazi urbani. Per Oma il campus, oltre ad essere il principio morfologico che riunisce e accomuna edifici differenti tra loro per peculiari qualità architettoniche e tipologiche, rappresenta l’opportunità di dare ascolto alle odierne aspirazioni e a diversificati modi di abitare. La dicotomia tra artificio e natura, suggellata dall’eroica visione lecorbusieriana nel modello abitativo dell’Unité, si disgrega qui in mescolanza di elementi eterogenei dislocati a formare un ‘ambiente continuo’. Si cerca una dimensione ecologica, si punta a raggiungere una sorta di climax in cui il costruito, gli elementi naturali, gli usi e il vivere, nelle sue disparate accezioni, possano ritrovare un nuovo equilibrio. Persino gli edifici ambirebbero ad essere parte di tale ecosistema in quanto capaci di esprimere carattere e costituizione dell’oggetto naturale e quindi una propria valenza ambientale: in questa tensione apparentati sì con l’Immeubles-Villas e gli insediamenti Roq e Rob di Le Corbusier. Infittiti gli alberi esistenti, a configurare la nuova parte di città un bosco continuo di querce e due ampie radure: la Chassé promenade e la court carré del Breda’s Museum. Un chiaro approccio di architettura del paesaggio: la dislocazione degli edifici e le loro relazioni reciproche vengono ricondotte ai principi di progettazione paesaggistica e le convenzionali regole di progettazione urbana ne risultano scompaginate. Nell’affrontare questa tematica insediativa Oma non si limita a dissociare, come la tradizione modernista, edificio e spazio. In un contesto inedito, non più piazza o strada, ma giardino, innesta temi di composizione urbana, visuali prospettiche, assialità, relazioni tra parti. La matrice collagistica che in Collage City C. Rowe ritrova nei Fori romani, nelle Acropoli, nei resti di ville imperiali e città ellenistiche apre qui 111 un’intrecciarsi di relazioni ariose, libera il rapporto tra architettura e spazio, a cui non manca una nota di pittoresco riassunta nelle viste accidentali. Attente strategie dislocative permettono al nuovo di interagire con l’esistente e con la città che sta ai bordi. Il gioco messo in atto trova empiricamente configurazioni sempre perfettibili: traguardi visuali e assi percettivi trapassano l’area e la trasformano in interspazio, poroso e permeabile agli accessi ed agli attraversamenti. A proseguire virtualmente l’asse della Molenstraat in uscita da centro storico il vuoto della Chassépromenade – un’esplanade pavimentata in mezzo al giardino. Distorsioni, disassamenti e rotazioni forzano gli edifici nel catturare con lo sguardo la guglia gotica della Grote Kerk. E per aprire un canale visivo sul Wilhelmina park vengono, senza esitazione, scavati e sollecitati a tipologie inconsuete gli edifici. Si vuole temperare il carattere di enclave, derivato dal modello insediativo e dall’ecosistema di usi, affinché l’insediamento possa aprirsi ad una spazialità fluida e pervasiva, lasciandosi attraversare, in studiati percorsi e attenti traguardi visuali, dalla città attorno. Architetti diversi per differenti edifici, che pur nella loro peculiare individualità architettonica e formale riescono a mantenere con l’esistente e con la città attorno momenti di un’interrelazione che trascenda la semplice continuità morfologica: autonomi ma stretti da una logica relazionale in insiemi articolati e differenziati, così da mantenersi sensibili alle reciproche sollecitazioni e alle interazioni dei rapporti di vicinanza. Di legami e reciproche parentele l’approccio prossemico misura convenienze e congruità: in un uso strategico delle contiguità controlla allineamenti e rotazioni, saggia la compatibilità di distanze e introspezioni. Equilibri relazionali, per successive prove e correzioni raggiunti, governano la dinamica di attrazioni e respinte circoscrivendo campi di forze equipollenti. Qualcosa è mutato radicalmente. Il coordinamento progettuale, strumento di sorveglianza per limitare difformità e disuguaglianze considerate inevitabili e conseguire un’omogeneità variata ma prevista, cede il passo ad un coordinamento come governo delle possibilità: una gestione aperta alle eventualità che sappia e voglia esaltare le differenze reciproche in orizzonti d’appartenenza di volta in volta costruiti. Se ad impartire regole relazionali non sono più modelli urbani noti - allineamenti, altezze di gronda, ordonnance – la legittimità di modi e forme di convivenza tra edificio ed edificio, tra spazi aperti e flussi, tra usi e rituali andrà cercata nel processo di costruzione del progetto e giustificata a partire solamente dal valore degli esiti raggiunti. Stratificazioni percettive di volumi costruiti e varietà controllata di linguaggi e materiali offrono, durante la percorrenza, inquadrature cangianti di matrice paesaggistica anziché urbana. Frammenti di complessità urbana, talvolta metropolitana si ritagliano invece all’interno degli edifici, articolati in complessi organismi morfologici. La sperimentazione di diverse modalità abitative raccoglie un campionario di ‘microcosmi’, ascendenze da disparati modelli di città riconciliati qui nella dimensione idilliaca del paesaggio: il cluster metropolitano di matrice Team X nelle torri di de Geyter, l’isolato urbano del ‘Carrè’ di Oma, gli esercizi di ricucitura e di infill di van Sambeek, il tessuto compatto low-rise di van Veen, l’het paleis che riassume la tematica dell’‘istituzionalizzazione’ dell’alloggio di Kollhoff, il blocco ibrido del residence di van der Torre. Nel solco della tradizione moderna delle Esposizioni Universali di architettura, la configurazione di una parte di città diviene, come per il Weissenhof di Stoccarda, il Qt8 di Milano, l’Interbau 57 a Berlino, un campo di riflessioni più ampie sui modi dell’abitare. Ma la sperimentazione nel Park Chassé, non riguarda la tipologia degli alloggi: non è interessata a mettere a punto nuove ‘cellule abitative’, come nel periodo eroico della modernità, e neppure a indagarne gli aspetti aggregativi, come facevano gli esponenti del Team X e i Metabolist. Prevale invece l’intenzione di prefigurare entro uno scenario di convivenza ‘mondi’ abitativi differenti e molteplici tematizzazioni dell’abitare. Dopo gli anni sessanta e settanta abbandonato quel modello di welfare state per cui si rispondeva all’emergenza abitativa con quartieri residenziali di massa, al Park Chassé gli orientamenti si dirigono verso una società modellata dal desiderio: collage non solo morfologico, ma di risposte alle diversificate aspirazioni dell’abitare. Non tanto per il linguaggio architettonico adottato, quanto per le disparate combinazioni degli alloggi standard a disposizione – con interspazi di connessione, elementi di passaggio tra interno ed esterno, ambiti di scambio tra accessibilità veicolare e atri di accesso, tra prolongements de logis collettivi e privacy dell’appartamento. Nuove prospettive che sollecitano maggiore complessità tra indoor e outdoor senza esimersi dal riflettere sulla spazialità interna dell’edificio e sulla sua peculiare individualità architettonica e dal cercare una qualità dell’abitare estesa all’interno dell’organismo edilizio. Con nuovo slancio ed entusiasmo viene riabilitata, con differenti esiti, la lezione dei grandi maestri, Alvar Aalto, Mies van der Rohe, Le Corbusier, e poi Albini, Gardella, Coderch, Martin, Lasdun, purtroppo, nelle esperienze di ‘ricostruzione critica’, dileguatasi in un’esclusiva attenzione verso la morfologia urbana. Come i parchi urbani dell’ottocento riuscivano ad inglobare ed addomesticare le infrastrutture allora ritenute incompatibili con le forme e gli usi urbani, allo stesso modo il giardino rappresenta qui potente mezzo per controllare le aree di stazionamento delle auto e i flussi veicolari di accesso alle abitazioni. L’articolazione dei parcheggi in differenti tipologie e una gestione accurata delle circolazioni automobilistiche riescono a tenere in equilibrio il dinamismo dei flussi con i valori ambientali di una contemporanea abitabilità. Si arriva a casa in auto con ritualità paesaggistica, senza sospensione e annullamento dell’esperienza nell’oscurità di tunnel o piastre interrate. Invenzione significativa, che dà energia a scala metropolitana a tutto l’insediamento, è il grande parchegio pubblico, baricentro del giardino e cerniera tra i nuovi edifici residenziali e gli edifici pubblici esistenti. La proficua sovrapposizione di visione bucolica di edifici nel paesaggio e dinamismo metropolitano è ben segnalata dalla qualità architettonica di questo luogo di approdo. La consueta condizione di marginalità cui viene relegato si rovescia nel significato di un grande spazio pubblico per ottocento automobili. Al piano interrato, dal parcheggio coperto ampio e illuminato, si afferisce direttamente agli edifici pubblici: luogo di vitalità urbana, simile ai mezzanini della metropolitana o agli atri delle stazioni ferroviarie accoglie strutture di servizio e piccoli spazi di commercio. Sono proprio gli usi a sancirne il successo, il che corrisponde alle aspettative progettuali. Paradossalmente è uno tra i luoghi più vitali e frequentati della città. Ampi e diffusi cavedi luminosi contengono le scale di risalita alla copertura, grande ‘mercatale’ le cui articolate geometrie tridimensionali in pietra grigia si raccordano ai tracciati dei giardini circostanti. Spazio smisurato, in bilico tra fatto geografico e inconsueto luogo urbano, cui l’ambivalenza di forme e pluralità di usi conferisce valore di infrastruttura necessaria, tema e matrice dell’insediamento. 112 113 Breda, Chassé Park 1 2 Progetto urbano e coordinamento: OMA-Rem Koolhaas Progetto paesaggistico: West 8 Società di sviluppo: Chassépark Progetti e realizzazioni: 1995 - 2012 12 3 3 1 Chassé Promenade: West 8; Parcheggio: OMA 2 Theater houses: T. van Esch 3 Cluster: X. De Geyter 4 Giardino: P. Blaisse 5 Carré Building: OMA 6 Residenza: van Sambeek & van Veen 7 Het Paleis: H. Kollhoff 8 Patio villas: van Sambeek & van Veen 9 Winter Garden apartments: D. van der Torre 10 Mezz Muziekcentrum: E. van Egeraat 11 Breda’s Museum 12 Chassé Theater: H. Hertzberger 13 Kloosterkazerne 5 4 11 8 15 8 4 9 7 1 2 9 5 10 11 6 6 14 12 7 10 13 13 0 0 10 m 50 m 100 m 10 50 100m 1 2 3 4 5 6 7 8 9 11 10 12 13 14 15 Hamburg, HafenCity La decisione presa nel 1997 dalla Bürgerschaft di realizzare HafenCity, un nuovo centro urbano sulle aree del porto in dismissione, è avventa suscitando vivaci dibattiti in città. E anche provocando scontenti tra coloro i quali ritenevano megalomane un’operazione di trasformazione e sviluppo urbano corrispondente al quaranta per cento della città esistente. Duemilioni e mezzo di metri quadrati di superficie costruita, lungo oltre dieci chilometri di waterfront. Oltretutto nella parte sud della città, storicamente ritenuta meno apprezzata dal punto di vista della vivibilità e dell’attrattività, in quanto da sempre relegata alle attività portuali, industriali e del commercio all’ingrosso. Ma Amburgo, città stato, al centro, con i sui sette distretti, di una regione metropolitana di oltre quatto milioni di abitanti, ha voluto lanciare questa sfida. Proprio in virtù dell’avvenuta riconversione dei sistemi logistici spostati verso il mare, che ne ha confermato il ruolo di container terminal tra i più grandi al mondo, ma che ha al contempo rilasciato ampie porzioni in disuso di vecchio porto. Il masterplan concepito da Kees Christiaanse/Astoc, vincitore della competizione internazionale, indetta nel 1998 per sollecitare idee progettuali adatte alla formazione del nuovo centro, sembra ibridare i dettami del New-urbanism con i principi della Kritische Rekonstruktion. Isolati, strade, piazze, parchi, giardini, alta densità urbana con bassa altezza edilizia, sono gli ingredienti ritenuti adatti a generare un’urbanità nota e rassicurante. La visione è quella di una città unitaria, dove la figura dell’isolato urbano domina configurando strisce sinuose di edificato che assecondano l’andamento dei bacini portuali e reinterpretano lo Speicherstadt, la splendida ‘città di mattoni’ dei warehouse ottocenteschi. Il costruito, con i suoi fronti continui e organici, genera intervalli di parchi lineari, sorta di greenway che si insinuano confluendo nelle blueway dei bacini portuali. Lo spazio pubblico della città continua infatti nell’acqua dell’Elbe che viene, come nelle operazioni di ampliamento condotte dalla città barocca, inserita nella scena urbana e riconquistata alla fruizione degli abitanti. Questi principi di urbanistica tradizionale, acquisiti in modo pragmatico e senza pigli ideologici, si sono duttilmente prestati a essere reinterpretati nelle successive fasi avviate col processo di progettazione e poi nella costruzione. E ulteriori tematiche sono così emerse: la necessità di differenziare la morfologia e la tipologia dell’edificato in rapporto agli usi, il problema del controllo delle acque del fiume, la questione del trasporto pubblico e privato, i principi di sostenibilità ambientale e di risparmio delle risorse non rinnovabili, l’articolazione nel tempo delle costruzioni. Dopo l’approvazione del progetto di concorso avvenuta nel 1999 da parte della Bürgerschaft, l’implementazione del processo di coordinamento progettuale e realizzativo avviene in seno alla società a capitale misto HafenCity Hamburg GmbH, che risponde direttamente alla municipalità. La città di Amburgo, infatti, continua a esercitare una forte supervisione del processo di sviluppo di questa parte urbana, in quanto proprietaria di oltre il novanta percento delle aree, riunite sotto lo speciale assetto proprietario ‘Stadt und Hafen’. La società di sviluppo, oltre sovrintendere e coordinare le fasi progettuali, gestisce anche l’infrastrutturazione del suolo e il conferimento delle aree agli investitori, mediante competizioni aperte nelle quali vengono valutate contestualmente qualità progettuale e offerta economica complessiva. Anche i permessi di costruire sono gestiti direttamente dalla società, che facendosi così garante della qualità progettuale e congruità economica avanzate dai privati, può avviarli lungo un percorso privilegiato di approvazione, in una commissione appositamente istituita nella Bürgerschaft. Tale processo virtuoso genera vantaggi privati, per gli investitori che non si accollano i rischi, anche economici, connessi alle incertezze di approvazione e di mercato, e pubblici, come l’incameramento della rendita fondiaria, ridistribuita con opere pubbliche 129 e qualità urbana prodotta. Nella stesura del progetto urbano e nelle successive fasi realizzative, l’iniziale unitarietà del masterplan si è articolata in dodici quartieri. E questo è avvenuto anche rispettando maggiormente le specificità dei singoli moli e mantenendo parte degli edifici esistenti, quando esprimevano un particolare significato edilizio o urbano. Per esempio il Kaispeicher A su cui si sta edificando la nuova Elbphilharmonie e il Kaispeicher B, recuperato come sede dell’Internazionales Maritimes Museum Hamburg. Ma una tematica affrontata nella concezione d’insieme, che costituisce fattore determinate nel conferire unitarietà al tutto, pure nell’articolazione di parti, riguarda la scelta strategica di elevare tutte le banchine portuali di circa quattro metri e di fissare il piano dell’edificato a otto metri sopra il livello del fiume. Decisione avvenuta per preservare la nuova parte di città da eventuali innalzamenti delle acque, in alternativa alla costruzione di una diga perimetrale, che avrebbe costituito una barriera fisica e ambientale tale da pregiudicare la privilegiata condizione paesaggistica dell’area. Una nuova topografia artificiale, su cui gli isolati e le strade si devono adagiare, sollecita temi progettuali per edifici e spazi aperti, per relazionarsi alla città esistente e ai bacini acquatici presenti. Sandtorkai, il primo quartiere costruito, è quello che in modo più esplicito manifesta la tematica infrastrutturale del nuovo suolo. Otto blocchi edilizi, a destinazione mista residenza e uffici, poggiano su un basamento continuo che contiene parcheggi e depositi, innalzato di circa quattro metri sulla banchina e sulla strada proveniente dal centro città. Gli edifici, per esprimere questa condizione di sospensione, generano uno sbalzo dissimmetrico, proiettandosi verso il bacino lacustre. Reinterpretazione edilizia di un’immagine portuale, in bilico tra carroponti e gigantesche gru stazionate. I singoli blocchi sono progettati da architetti diversi che, interpretando variamente la tematica suggerita dal masterplan, hanno espresso aspetti ora maggiormente infrastrutturali, o macrostrutturali, ora edilizi. Nell’insieme essi configurano un’immagine relativamente unitaria, nella varietà edilizia, tale da sapersi confrontare con lo spazio ampio dei bacini portuali. Dal basamento continuo, verso la città esistente, ponti e passerelle dipartono generando un nuovo livello pedonale e ciclabile, che va a rammagliarsi alla rete di strade del centro città, dopo aver attraverso il vicino Speicherstadt, permettendone suggestive viste a una quota intermedia. Sandtorpark è concepito come un insieme di isolati articolati attorno a una square centrale. Ma la condizione stessa di spazio urbano costruito su un terrapieno artificiale, formato dai detriti delle bonifiche e aperto su un lato verso i bacini portuali, perturba la tipologia tradizionale dello square, e lo fa assimilare a un manufatto in bilico tra infrastruttura portuale e opera paesaggistica. Dalmankai reinterpreta maggiormente la figura dell’isolato urbano presente nel masterplan. Il basamento continuo rende però più complesse, e suggestive, le relazioni tra passeggiata pubblica a quota delle banchine e spazi semipubblici soprastanti. La testata di questo quartiere è segnata dalla Elbphilharmonie, l’edificio pubblico tra i più significativi presenti a HafenCity, che inorgoglisce gli abitanti ma al contempo solleva polemiche in città, riguardo la sua localizzazione da alcuni ritenuta ‘decentrata’, e anche per i suoi costi elevati. Herzog & de Meuron, vincitori di un concorso internazionale nel 2003, concepiscono questo edificio come addizione verticale dell’antico magazzino portuale. Estrudendo verso alto l’impronta dell’edificio esistente, generano un volume di vetro che si sfrangia nel cielo, come perturbato da raffiche di vento. Sorta di Stadtkrone, evoca reminescenze dell’espressionismo tedesco alla Taut o alla Scharoun, e si staglia come l’Opera di Sidney di Utzon nel basso orizzonte della baia portuale. Anche Uberseequartier reinterpreta la tipologia dell’isolato. Qui non è la tematica infrastrutturale a generarne gli sviluppi, quanto la volontà di costruire un centro commerciale e d’intrattenimento integrato alla forma della città. La grande decisione di concepire una variegata scena urbana su cui aprire i piani terra commerciali degli isolati genera un pezzo attrattivo di città, e permette, come nello Stadshart di Almere, di sottrarsi ai pericoli insiti nel produrre un centro commerciale come macrostruttura monofunzionale. Ma sono gli spazi aperti a esprimere maggiormente la mediazione tra la condizione infrastrutturale generata dalla nuova quota urbana e la volontà di produrre la morfologia della città compatta. La mediazione dei dislivelli di quota, tra le passeggiate lungo i bacini e gli ambiti soprastanti degli isolati, avviane configurando lo spazio pubblico in complesse geometrie. Terrazzamenti artificiali e giardini inclinati accolgono scalinate, passerelle e rampe che raccordano i dislivelli dell’orografia artificiale. Il modo di concepire l’assetto degli spazi aperti qui è differente rispetto ad analoghi interventi di riqualificazione portuale di altre città tedesche, come per esempio Colonia, Düsseldorf o Duisburg. Ad Amburgo, anche coinvolgendo due paesaggisti catalani come EMBT e B. Galì, vincitori di concorsi di architettura per la concezione degli spazi aperti, si è voluto far arrivare un frammento di Mediterraneo. E questo non solo importando forme paesaggistiche per innovare l’immagine complessiva dell’insediamento, ma anche come aspirazione a generare stili di vita diversi, maggiormente legati alla fruizione, anche serale e notturna, degli spazi aperti della città. Rituali sociali che risultano essere, come noto, molto più diffusi nelle città mediterranee che non in quelle del nord Europa. Il recupero del porto di Amburgo sembra intrecciare due modelli: quello adottato per riqualificare il porto di Amsterdam per quanto riguarda la scelta morfologica della città compatta, e quello adottato per rigenerare il lungomare di Barcellona, tendente a mescolare assetto urbano e infrastrutture in una nuova e più articolata visione paesaggistica. La stessa determinazione a unire qui più usi e più rituali collettivi fa riferimento, sia pure in modalità temperate, ai festival marketplaces, in cui mix di funzioni attrattive, luoghi di lavoro e svago generano un’abitabilità più ricca. Dopotutto, la città di Amburgo ha già saputo fare ciò anche nei secoli scorsi, nelle sue parti centrali più pregiate, alle quali HafenCity si collega, fisicamente e simbolicamente. 130 131 Hamburg, HafenCity Progetto urbano e coordinamento: ASTOC Architects & Planners, KCAP Architects & Planners Società di sviluppo: HafenCity Hamburg GmbH Progetti e realizzazioni: 1997 - in corso 1 Elbphilharmonie: Herzog & de Meuron 2 Uffici: Ingenhoven und Partner 3 Ocean’s End: Böge-Lindner Architekten 4 H2O: Spengler-Wiescholek Architekten 5 Doks 4: Schweger Associated Architects 6 Residenza: BRT Architekten 7 Harbour: M. Mathez 8 Residenza: APB Architekten 9 Residenza: J. Störmer 10 Amango: Böge-Lindner Architekten 11 Hamburg America Center: R. Meier 12 Katharinenschule: Spengler & Wiescholek 13 Uffici: D. Chipperfield 14 The Oval: Ingenhoven und Partner 15 Residenza: Böge-Lindner Architekten 16 Uffici: Meurer Architekten 17 Residenza: Schenk + Waiblinger Architekten 18 Residenza: Spine 2, APB, KBNK architects 19 Residenza: SML, SEHW 20 Residenza: C. Lorenzen, KBNK architects, L. Winkler 21 Residenza: PFP architekten 22 Residenza, NPS Tchoban Voss 23 Coffee Plaza: R. Meier 24 Residenza: KBNK architects, Astoc Architects & Planners 25 Hafenliebe: Architekturbüro Neitmann 26 Commercial Center: Baumschlager Eberle 27 Kühne + Nagel: J. Störmer 28 SAP: Spengler & Wiescholek 29 Marco Polo Tower: Behnisch Architekten 30 Unilever Germany: Behnisch Architekten 31 Isolati residenziali: E. van Egeraat 32 Isolati commerciali: Trojan + Trojan, D. Joppien 33 Germanischer Lloyd: von Gerkan Marg und Partner, J. Störmer, Antonio Citterio and Partners 34 Ericus Contor: H. Larsen Architects 35 Spigel Group: H. Larsen Architects 36 Magellan terrassen: Miralles & Tagliabue EMBT 37 Sandorpark: Miralles & Tagliabue EMBT 38 Marco Polo terrassen: Miralles & Tagliabue EMBT 39 Magdeburger Hafen: B. Galí 40 Maritime Museum: Hanssen, Meerwein, MRLV Architekten 35 16 34 12 33 33 Brooktorkai Ericus 39 14 Speicherstadt 40 1 17 2 4 3 9 8 7 6 5 13 11 37 4 23 Elbtorquartier Am Sandtorpark 36 31 24 Am Sandtorkai / Dalmannkai 15 6 2 3 18 32 11 10 5 12 26 13 25 14 15 16 7 22 1 17 19 18 21 20 8 27 Überseequartier 9 11 28 38 10 29 30 Strandkai 0 10 50 100 200m 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 14 13 15 16 17 18 Lille, Euralille Ad Euralille, ancor più dell’esito, sono gli approcci a suscitare interesse. Un processo continuamente governato fin dai primi momenti della sua attivazione; una politica orientata a relazionare la città e la sua conurbazione in un rilancio economico e sociale a scala internazionale; un montaggio innovativo precisatosi nel farsi stesso dell’operazione, nell’iterazione tra complessità infrastrutturali, variazioni programmatiche e aggiustamenti degli obiettivi; una concezione della città contemporanea in rottura con la continuità della città storica. Il progetto strategico costruito in sinergia tra politica urbana, gestione dello sviluppo e progetto urbano è riconducibile al sodalizio di tre persone: Pierre Mauroy, sindaco di Lille e presidente della comunità urbana, Jean-Paul Baïetto, direttore generale della società di gestione Saem Euralille, e Rem Koolhaas, autore del masterplan e coordinatore delle progettazioni e delle realizzazioni. Occorre risalire all’accordo ufficiale del 1986, tra Margaret Thatcher e François Mitterrand, che sanciva la volontà di unire Francia e Gran Bretagna con un tunnel sotto la Manica e che prefigurava il Tgv come collegamento veloce, perché inattese opportunità si mostrassero a quella comunità urbana policentrica della Region Nord-Pas des Calais, che si sarebbe venuta a trovare nel baricentro di flussi e di scambi tra Londra-Parigi-Bruxelles. Alla comunità di Lille, governata da Pierre Mauroy, non sfuggivano i vantaggi che un diverso interscambio tra locale e continentale avrebbe procurato in termini di ricaduta economica e sociale. In virtù delle sue relazioni politiche, come ex primo ministro, Mauroy riuscì ad ottenere da Chirac, nel dicembre 1987, la decisione di far passare, proprio nel centro dell’agglomerazione urbana di Lille, le linee del Tgv nordeuropeo, sconvolgendo i programmi che la rigida modellistica cristalleriana della Sncf aveva messo a punto, prevedendone il passaggio a 70 chilometri di distanza per interscambiare con l’aeroporto. La disponibilità di un’area demaniale di 120 ettari ad est della città di Lille, tra le antiche fortificazioni di Vauban e l’edilizia aperta di Villeneuve d’Ascq, faceva prefigurare un così fervido incontro tra infrastrutture e insediamento da esortare Mauroy agli inizi del 1988 a dichiarare: ‘I fiumi di autostrade e ferrovie ci sono, occorre costruirci sopra una turbina terziaria’. Costruire un insediamento in cui un’alta qualità architettonica ed urbana potesse veicolare, anche solo simbolicamente, l’idea di una parte attraente di città - e fare ciò nel breve arco temporale di un decennio – implicava mettere in atto una strategia gestionale particolarmente efficace, sciogliere i vincoli burocratici delle Sem e individuare nuove opportunità di montaggio economico-finanziario più consone agli obiettivi. Sono proprio le modalità con cui si è costruito il montaggio che hanno reso possibile giungere ai risultati. Come Baïetto sostiene ‘Il fatto principale è stato il coinvolgimento delle banche sin dall’inizio […] Le logiche eco-nomiche delle banche e delle assicurazioni sono a lungo termine e il lungo termine è di grande valore per l’architettura’. Costruire condizioni perché l’esercizio del progetto urbano possa svelare inedite opportunità ed inconsuete visioni di città diventa obiettivo primario e orienta il percorso di selezione del progettista. Baïetto si convince che ‘è un non senso fare un progetto urbano su concorso: il progetto urbano implica aspetti molteplici, e dunque bisogna scegliere un uomo piuttosto che un progetto’. Né disegni né modelli furono quindi ammessi alla consultazione ad inviti. Occorreva scegliere non un progetto ma un progettista, perché elaborasse, in un rapporto negoziale con le committenze, il masterplan generale e coordinasse altri progettisti lungo lo svolgimento del progetto e della realizzazione. Nel novembre del 1998 Rem Koolhaas all’unanimità viene prescelto poiché ‘il solo a proporre una visione di città a differenza dei concorrenti che presentano visioni di progetti’. Koolhaas in quella circostanza ebbe infatti modo di mettere in luce una serie di attitudini come progettista urbano, 149 avvalorate da riflessioni sulla città contemporanea da tempo maturate, e che trovarono concordanza con le aspettative dei committenti e una singolare coincidenza con le questioni inerenti la messa in forma di Euralille: in particolare in applicazione alla teoria del manhattanismo la tesi di una ‘cultura della congestione’ e la concezione di progetto urbano come processo, da governare all’emergere di conflitti e problemi. ‘Un progetto come Euralille impegna a fare la Metropoli’ asserisce sin dagli inizi Rem Koolhaas. Un progetto di metropoli si distingue da un progetto di città: pretende di organizzare insieme gli ingredienti strutturali della città e della periferia, aspira a mettere in forma e a conferire urbanità a strutture e dispositivi concepiti in alternativa e in antitesi alla città, stazioni, mall commerciali, complessi direzionali ed espositivi, infrastrutture della mobilità. Agli inizi del 1989, Oma in due workshop individua quegli intenti che nelle concertazioni successive sapranno guidare, lasciando libero gioco, le variazioni morfologiche e programmatiche: sciogliere il ‘nodo gordiano’ delle infrastrutture esistenti, esplicitare fisicamente e visivamente il rapporto tra Tgv e città, favorire accessibilità e attraversabilità dell’insediamento valorizzando frange e interspazi. Saldati agli elementi programmatici tali intenti danno origine a una classificazione tematizzata desunta dall’immaginario metropolitano: il centro d’affari come accumulo di torri, il triangolo tra le stazioni come piastra ibridata, il palazzo dei congressi come frammento macrostrutturale tra infrastrutture, il parco come collina al centro del quartiere residenziale. Un montaggio ‘elementarista’ di ascendenza lecorbuseriana trascrive in immagini urbane l’innesto di intenti e programma: componenti ‘semplici’, assemblate in configurazioni diverse marcano un interesse per l’‘interconnessione’ tra parti, più che per le parti stesse, e un’attenzione verso i risultati dell’‘interazione’ tra programmi, più che per i programmi stessi. Agli architetti, in seguito coinvolti nelle progettazioni, Koolhaas impone norme restrittive di integrazione così da ibridare infrastrutture, edifici ed interspazi: vincoli di ‘tematizzazione’ o di ‘incesto programmatico’, mai vincoli di forma. La composizione paratattica si avvale dell’aleatorio procedimento surrealista del cadavre exquis per spronare gli architetti a produrre ‘pezzi d’autore’ in libera competizione: primo caso forse in cui progetto e ‘firma’ del progettista conferiscono valore aggiunto ad una nuova parte di città. Accumulo collagistico - collisione di edifici e infrastrutture, spazi artificiali e naturali - sa evocare congestione e densità, ma allestendo uno spettacolo dinamico di una ‘tematizzazione metropolitana’ si sottrae al pericolo di uniformità a grande scala, sebbene alcune questioni avanzate nelle prefigurazioni iniziali rimangano irrisolte. Avventura giocata ai bordi, sui confini tra entità spaziali giustapposte, in un alternarsi tra flussi veicolari e pedonalità, frange vitali che separano il costruito. Euralille edifica la sua urbanità proprio sulle ‘frange’ di risulta, piuttosto che sui ‘monumenti’ che erige. Valorizzando la dimensione residuale generata dall’approccio collagistico koolhaasiano il parco Matisse di Gilles Clément è di questi interspazi il più significativo. Se Oma prefigurava uno spazio artificiale di ascendenza alphandiana soggetto ad una spettacolarizzazione infrastrutturale e minerale, la proposta di Clément muove invece dal riconoscimento e dall’esaltazione dei valori intrinseci a un terrain vague, ed è capace di sospendere, sia pure per mo-menti, la condizione di sradicamento e omologazione, portato della nuova città. Clément prende distanza dalle illusioni neo-illuministe di poter manipolare in modo incondizionato il mondo e critica gli entusiasmi trasformativi alimentati dall’operazione Euralille. Come opera di riparazione, di manutenzione, la ricostruzione idealizzata di un frammento di foresta primaria europea ‘inviolata’ viene innalzata sul podio dell’Ile Derborence. Nel Bois des Transparences, lungo percorsi d’ombra, jardins planétaires, jardins en mouvement, pyro-paysages, ricreati per frammenti, lasciano cogliere per scorci i volumi vetrati e le superfici cangianti della ‘città degli affari’, affioranti tra le fronde alberate come ready-made paesaggistici. Una lettura diacronica del suolo ed il recupero della temporalità, nel giardino à reation poetique di Clément riescono a perturbare, nel contrasto tra modernità edilizia posta sullo sfondo e natura primigenia in cui si è immersi, le illusioni di ricreare hic et nunc un equilibrio olimpico di matrice corbuseriana, che soggiace, sopito tra le pieghe, al dinamico congegno koolhaasiano ‘immerso nell’aria e nella luce’. Dal giardino, attraverso le arcate del Viaduct Le Corbusier, si accede al triangolo ribassato, a convergenza delle geometrie dell’insediamento e simbolo della collisione tra edifici e infrastrutture: la piazza Mitterrand. Interspazio irregolare suscita interesse il suo carattere di risulta e l’accumulo di visioni urbane eterogenee e conflittuali prodotte, più che la forma dei manufatti che la delimitano. Luogo di interazione visiva e fruitiva, di coesistenza di più ‘attori urbani’ ad ognuno dei quali è riservato l’ambito di una scena, è set o punto di ripresa nel gioco di reciproco rispecchiamento. Le giaciture principali si allineano ai fasci di binari della stazione esistente di Lille Flandres, lungo cui si appoggia il Centre des gares di Nouvel, e alla nuova stazione del Tgv Lille Europe di Duthilleul scavalcata dalle torri di Vasconi e de Porzamparc. Lontana dal monumentalismo esuberante delle stazioni progettate negli stessi anni dalla Sncf, la stazione Lille Europe è una semplice successione di balconate coperte dalla leggera struttura metallica di Rice, che da piazza Mitterrand risale al Boulevard de Turin. Da qui si scorgono gli interventi incrementali della ‘seconda fase’ di Euralille, che densificano le frange tra le infrastrutture viarie e la stazione: la Cité des affaires di Delhay, la Cité de l’Europe di Mateo e il quartiere St. Maurice di de Geyter e Roubest su piazza Valladollid. Pontile di legno sospeso sull’autostrada la piazza accoglie i percorsi provenienti dai nuovi insediamenti sorti ai margini della conurbazione. E’ l’atrio all’aperto da cui si accede allo ‘spazio piranesiano’, cubo estruso in profondità per circa quaranta metri che pesca i viaggiatori provenienti dal Meteor per convogliarli, a livelli diversi, ai parcheggi, alla stazione o alla città: camera di decompressione urbana, smista flussi veicolari e movimenti umani e ripropone, nella versione di impronta scavata, i temi del cubo ibrido e congestionato già sperimentati da Oma nel Zkm di Karlsruhe e nel progetto per la Très Grand Bibliothèque di Parigi. Nel 1997, dopo la deviazione del Boulevard Phéripérique est in attraversamento al Parc des Dondaines, si trasforma in viale urbano la strada espressa a fianco del Gran Palais di Oma così connesso alla città. Contenitore ibrido tripartito lungo l’asse dell’ellisse, esprime dissimmetria tra lato urbano e lato verso le infrastrutture. L’uso brutalista di materiali poveri e apparentemente poco durevoli rimanda a dispositivi quali stadi e padiglioni fieristici e rinuncia all’ambizione di evocare la firmitas di un improponibile monumento civico. La parete ondulata e sfuggente permetterà di scorgere dal boulevard urbano i futuri ampliamenti, Euralille 2000-2010. Con un approccio incrementale si sta costruendo sui margini liberi tra l’insediamento di Oma e la città attorno, fruendo dei successi precedenti. Volumi disarticolati densificano lo svincolo del Grand Boulevard del quartiere Romanin, mentre l’infill di immobili traslucenti del quartiere St. Maurice sottolinea la geometria infrastrutturale. Il ‘bois habité’ e la nuova sede della Regione North-Pas de Calais concluderanno le frange a sud. Il successo di questi interventi vive della precedente operazione, che ha saputo trasformare un terrain vague, problematico, in una vitale parte di città, e tra infinite contraddizioni ed esiti difformi dalle aspettative, generare effetti duraturi. 150 151 6 1 4 14 6 10 1 3 2 5 13 5 9 11 9 4 3 4 2 7 8 8 7 12 10 11 Lille, Euralille Progetto urbano e coordinamento: OMA Società di sviluppo: Seam Euralille Progetti e realizzazioni: 1991 - 2009 1 Ccial Euralille: J. Nouvel 2 WTC: C. Vasconi 3 Credit Lyonnais: C. De Portzamparc 4 Gare Lille Europe: J.M. Duthilleul, P. Rice 5 Viaduct Le Corbusier: F. Deslaugiers 6 Parc Matisse: G. Clément, Empreinte 7 Crown Plaza: M. e F. Delhay 8 Axe Europe: L. Mateo, F. Andrieux 9 Lille Grand Palais: OMA 10 Saint-Maurice: X. De Geyter, Laloux & Lebecq, F. Fendrich (progetto urbano) 11 Euralille 2 - Bois Habité: F. Leclercq, M. Guthmann, TER (progetto urbano) 0 0 20 m 10 50 m 50 100 m 100 200m 200 m 1 2 3 4 5 6 7 9 8 10 11 13 12 14 Lisboa, Expo98, Gare do Oriente, Parque do Tejo La realizzazione di Expo 98 ‘Mari e Oceani’ sta a coronamento della nomina, nel 1994, di Lisbona capitale europea della cultura e dell’entrata del Portogallo nella Comunità Europea. Una nuova dinamica d’investimenti pubblici e privati si traduce in progetti di grande respiro urbano: il recupero di aree industriali abbandonate, la costruzione di nuove infrastrutture viarie, l’ammodernamento della rete ferroviaria esistente, la definizione di grandi luoghi di svago e intrattenimento a scala metropolitana, il ripensamento della relazione tra città e Tejo, un affaccio lungo quasi venti chilometri. Avviato nel 1992, il piano strategico di Lisbona interrompe la passività degli anni ottanta e implementa un insieme di progetti settoriali che, accompagnati da programmi di riqualificazione sulla città esistente, aprono inaspettate prospettive di rinnovamento e ammodernamento per l’intera conurbazione metropolitana. In particolare il Progetto di Espansione della Metropolitana, i Piani di Ordinamento per l’Area Portuale e l’Area Metropolitana, il progetto Expo 98, i progetti di riforma infrastrutturale con nuovi ponti viari e ferroviari sul fiume Tejo hanno permesso di convogliare, in una poliarticolata ma coesa strategia urbana e paesaggistica, investimenti nazionali e internazionali, privati e pubblici, inaugurando per Lisbona orizzonti sino allora sconosciuti. Costruita l’opportunità di realizzare l’Expo 98 si coglie l’occasione per avviare una capillare riconversione della zona portuale e industriale a est della città, uno dei settori più degradati e dequalificati di Lisbona. Sebbene localizzare la struttura dell’Expo 98 in una simile zona abbia comportato ingenti risorse finanziarie e tecniche, impegnando la città per oltre otto anni, l’onere maggiore spettò alla riconversione urbanistica di un’area industriale di cinque chilometri di lunghezza. Si dovette procedere al risanamento ambientale e con il Parco delle Esposizioni - Parque das Naçöes - alla dotazione di grandi attrezzature urbane. Per favorire l’integrazione con la città storica e la conurbazione esistente vennero costruite nuove infrastrutture di trasporto e prolungate la rete metropolitana e ferroviaria, confluite nel nuovo polo intermodale della Gare do Oriente. D’altra parte le strutture connesse all’Expo non vennero pensate per la transitorietà dell’evento ma come elementi durevoli e nodali nella fisiologia urbana: così è dell’Oceanario, il Padiglione degli Sport, il Padiglione del Portogallo, i Padiglioni dei Paesi Partecipanti recuperati a usi fieristici, il Padiglione Atlantico multiuso riutilizzato ora come Centro Congressi, i Giardini Garcia de Orta, il Parco do Tejo. Proprio al centro di quest’ampia riqualificazione urbana e paesaggistica, che finalmente conquista l’affaccio sul Tejo, si colloca la Gare do Oriente, principale nodo intermodale del Portogallo. Per l’eccezionalità dell’evento e la situazione d’emergenza creatasi, enti pubblici e aziende municipalizzate hanno dovuto superare divisioni settoriali e di competenza e le reciproche diffidenze: solo un dialogo allargato, una convergenza di intenti e una proficua cooperazione hanno consentito all’infrastruttura urbana in costruzione di interscambiare con diverse modalità di trasporto. Per la prima volta in Portogallo, metropolitana, ferrovia, e autolinee, giungono al centro della conurbazione metropolitana di Lisbona, in soluzione unificata. Nel 1994 Santiago Calatrava vince il concorso per la Gare do Oriente con un progetto che Barata, citando lo storico d’arte viennese Riegl, definisce “monumento intenzionale”: un monumento alla contemporaneità a ridosso del centro di Lisbona perchè il “bisogno di un’iconografia moderna non sia limitato ai nuovi agglomerati urbani, ma interessi anche il centro 165 storico della città europea, già denso di monumenti e di palazzi antichi d’ogni genere”. Con un colpo d’ala Calatrava supera l’idea di stazione come ‘architettura civile’, che informa ancora la stazione di Moneo a Madrid o quella di Cruz y Ortiz a Siviglia. Abbandonata la retorica energetica che quattro anni prima aveva dato forma alla Stazione del Tgv Lione-Satolas, riscopre qui una sorta di monumentalità smaterializzata, light. Come fosse una grande serra o un umbraculo nel parco, sublima l’edificio stazione dissolvendolo negli elementi infrastrutturali costitutivi: ponti, pensiline, passerelle, tettoie, rampe. Se l’approccio progettuale può sembrare simile alla Stadelhofen di Zurigo, nella Gare do Oriente è una finalità squisitamente urbana a risemantizzare in un contesto altamente reattivo la difficile concentrazione di organismi complessi, laddove nella Stadelhofen domina la dimensione paesaggistica, giunta in città con l’infrastruttura. Accuratamente Calatrava apre la città alle spalle della ferrovia verso il Tejo, sorreggendo l’impalcato dei binari - cento metri di larghezza - con una successione di cinque elastici ponti ad arcate ribassate in calcestruzzo. Gigantesca piattaforma elevatrice colta nell’atto di sollevare una placca di suolo per raddoppiarne gli usi urbani, idealizzata rappresentazione di uno sforzo in movimento. Earthwork direbbe Frampton, sconfinato coperto che accoglie servizi per il pubblico, discese alla metropolitana, pensiline dei bus. Sopra, svettante sul podio un ‘giardino’ di palme metalliche, uno straniato paesaggio surrealista che smista i viaggiatori della ferrovia in sostituzione dell’‘edificio stazione’ che non ha più ragione d’essere. Gare do Oriente è la simbolica porta d’accesso alla città che nasce attorno all’evento espositivo. Le sue arcate lasciano indovinare la Doca, vecchia darsena dei cantieri navali che Manuel Salgado, autore del masterplan e degli spazi aperti del Parque das Naçöes, colloca emblematicamente e figurativamente al centro del recinto espositivo. Come città di fondazione, tracciati ortogonali delimitano gli isolati, ritagliano spazi urbani pubblici e accolgono gli assi provenienti dai quartieri a nord inglobando paludi fluviali e l’impronta infrastrutturale della darsena, su cui affacciano il Padiglione del Portogallo di Alvaro Siza, l’Oceanario di Peter Chermayeff, il Padiglione della Conoscenza dei Mari di Carrilho da Graça, e il Padiglione Multiuso di Cruz e SOM. L’idea forte del progetto urbano sta nell’aver conferito valore strategico al disegno del suolo, inteso come intreccio solidale tra figura degli spazi aperti e piano delle infrastrutture. La Calçada in pietra bianca è il grande manufatto dotato di sufficiente autonomia e complessità tecnica in grado di assorbire in forma stabile le disparate componenti tecnologiche interrate e le reti dei sottoservizi. Grande spazio pubblico che definisce gli argini del Tejo, le piazze tra gli interventi edilizi, le passeggiate lungo i parchi e i giardini, la Calçada è anche l’elemento che conferisce resistenza alla forma urbana, nella metamorfosi da recinto dell’Expo a vera e propria parte di città. A nord/est la maglia urbana si deforma e sfrangia davanti ai fatti infrastrutturali territoriali, fino a perdersi nella dissolvenza orografica del largo paesaggio del Parque do Tejo e Trancao alla confluenza degli omonimi fiumi. Un complesso dispositivo ecologico di risanamento e purificazione di acqua e aria si offre negli usi e nella fruizione come parco metropolitano. Questa grande infrastruttura urbana, estesa per oltre novanta ettari, disloca attività sportive e del tempo libero, impianti di fitodepurazione e riciclaggio di rifiuti e ingloba gli svincoli della viabilità autostradale raccordati al Ponte Vasco da Gama, costruito in concomitanza all’Expo. Campi da gioco, tennis, aree equestri, anfiteatri d’erba per spettacoli e festival convivono con il più grande, per Lisbona, sistema di laminazione di acque, raccolte, decantate e poi immesse nel Tejo. Al suo interno, un centro di ricerca ambientale monitora le attività di bonifica, operando come interfaccia tra lavoro, ricerca, educazione con il compito di sensibilizzare visitatori e di illustrare le problematiche ambientali ed ecologiche. I progettisti George Hargreaves e Joao Nunes nella bonifica delle paludi modellano tre metri di suolo artificiale, corrugando in un susseguirsi di crinali e vallette la piatta topografia del sito incassata sotto la quota fluviale. La manipolazione plastica che scava e riporta in superficie, a formare dune e banchine, i sedimenti di drenaggio, se per un verso rimanda alla lenta azione di vento e acqua, alla millenaria corrosione che ha sagomato l’estuario del fiume, dall’altro innesca il processo di trasformazione del lungo lavoro di modellazione orografica. Con un avvicendarsi di interventi di deviazione, regolazione e canalizzazione delle acque, la massa di detriti sedimentari trasportati dalle correnti viene sospinta a depositarsi in particolari punti strategici. Accortamente guidato, il naturale processo di sedimentazione delle acque fluviali attua la rigenerazione ambientale, e ingloba, in un increspata geometria frattale in perenne mutazione, viabilità e dispositivi tecnici per conferire al parco unitarietà e figuratività a grande scala: alla scala territoriale del lungo viadotto di cui si fa contrappunto e che riassorbe nello spettacolo di un paesaggio monumentale. 166 167 6 8 1 9 7 5 4 2 13 3 3 5 4 6 10 2 7 9 12 14 11 8 1 15 10 Lisboa, Expo 98, Gare do Oriente, Parque do Tejo 0m 50 m 100 m 200 m Progetto urbano del Parque das Naçöes: Vassalo Rosa, Manuel Salgado Progetto architettonico Gare do Oriente: Santiago Calatrava Progetto Parque do Tejo e do Trancão: George Hargreaves, João Nunes Società di sviluppo: Parque Expo Progetti e realizzazioni: 1993 - 1998 1 Gare do Oriente: S. Calatrava 2 Padiglione del Portogallo: A. Siza 3 Oceanario: P. Chermayeff 4 Padiglione Atlantico: R. Cruz, SOM 5 Padiglione della Conoscenza dei Mari: C. da Graça 6 FIL Feira Internacional de Lisboa 7 Giardini Garcia de Orta: J. Gomes da Silva 8 Torre Vasco da Gama: L. Janeiro, SOM 9 Parque do Tejo e do Trancão: G. Hargreaves, J. Nunes 10 Ponte Vasco da Gama 0 50 100 200m 1 2 3 4 5 6 8 7 9 10 11 12 13 14 15 London, Canary Wharf Dagli anni ottanta, prendendo distanza dal generale orientamento europeo in tema di politiche urbane, la Gran Bretagna indirizza spiccatamente i propri approcci di trasformazione urbana verso il mercato degli investimenti privati. Accantonata la lunga tradizione della pianificazione regolativa e comprehensive e guidati dalle pratiche e politiche nord americane, si vanno a configurare metodiche di apertura all’intrapresa privata, inaugurando un diverso scenario di intervento nelle operazioni di rinnovamento urbano, che il resto d’Europa continuerà, fino alla metà degli anni novanta, a condurre primariamente con iniziativa e capitale pubblici. Margaret Thatcher, eletta primo ministro alla fine degli anni settanta, mise in atto una politica liberista, affine a quella intrapresa da Ronald Regan negli Stati Uniti, sintetizzata in tre assunti programmatici privatisation, deregualtion, marketisation, riversatisi poi negli approcci di costruzione e rinnovamento della città. Il thatcherismo si impegnò a sciogliere il legame tra urban planning e welfare state che da tempo connotava la tradizione regolativa dei governi laburisti. Forti ripercussioni ebbe sui processi di riforma urbana e di costruzione della città, nel momento in cui, per la recessione che investiva in quegli anni la Gran Bretagna, prendeva inizio una fase di deindustrializzazione e dismissione industriale. La rilocalizzazione produttiva lasciò aree dismesse nei centri urbani di Manchester, Liverpool, Birmingham. L’evoluzione del trasporto commerciale marittimo verso container e piattaforme di scambio off-shore, aprendo una delle più pesanti crisi urbane e sociali del secolo, ridusse fino a fermare le attività portuali londinesi, abbandonando chilometri di dock. Contrariamente a quanto proposto e attuato dalle politiche pubbliche degli anni cinquanta e sessanta, il governo affrontò l’emergenza incentivando e coinvolgendo la ‘libera intrapresa’ in investimenti di trasformazione urbana a grande scala, che avrebbero creato nuova occupazione e favorito la rigenerazione fisica dei luoghi. L’ingerenza pubblica si sarebbe limitata a fenomeni di leverage, per attrarre e al contempo ottimizzare, con effetti moltiplicatori, gli investimenti di capitale privato. Istituito nel 1980 l’Urban Development Corporation (Udc), una tra le più importanti introduzioni del governo della Thatcher, innesta principi di leverage planning di ascendenza americana sulle antecedenti pratiche di intervento edilizio pubblico, ampiamente sperimentate dal New Town Development Corporation nella costruzione di new town. Come il New York State Development Corporation del 1968 non investe capitale pubblico, abbandonato il ruolo di developer, si riserva come promoter la sola implementazione di operazioni di sviluppo immobiliare nei settori urbani critici, innescando in diversi modi il processo di valorizzazione delle aree: redige land-use plan per identificare nuove funzioni, elabora progetti infrastrutturali al fine di ottimizzare e incrementare l’accessibilità, lancia operazioni di marketing urbano per aprirsi al libero mercato, attiva politiche di defiscalizzazione per attrarre capitali finanziari. Le principali città industriali del Regno Unito, agli inizi degli anni ottanta, già contavano la costituizione di tredici di questi organismi, tra cui la London Docklands Development Corporation (Lddc), artefice del recupero dei Docklands di Londra. In quest’ultimo caso un ulteriore e fondamentale strumento per attrarre investimenti e creare occasioni di sviluppo immobiliare fu l’Enterprise Zone (EZ). Costituitasi per la prima volta nel 1982 per Canary Warf all’Isle of Dogs nei Docklands presenta una complessa e ancora dibattuta origine. Derivata in parte dall’American Urban Developement Grant del 1977, viene prefigurata dalle intuizioni di Peter Hall, quando nel 183 1975, coniando la definizione di non-plan-area, prende a riferimento la deregulation attuata da Hong Kong e dalle ‘Tigri asiatiche’. Nell’implementazione di una EZ si fa assegnamento sulla predisposizione di strategie ‘flessibili’ ‘guidate dalla domanda’, piuttosto che da criteri direttivi offerti da piani morfologico e programmatici. Anzi Canary Warf, e altre EZ posteriori, mancano totalmente di pianificazione e guida morfologica: furono gli stessi developer ad elaborare il progetto, proponendone il mix funzionale e il piano d’investimenti. Criticato per aver leso i principi democratici delle procedure decisionali, tra discussioni, rimostranze e il disappunto delle comunità locali, il progetto di Canary Warf, con la costruzione di oltre un milione metriquadrati di slp, ventiquattro blocchi d’uffici e tre torri di 250 metri, viene comunque approvato in due settimane, ricorrendo alla procedura ‘fasttrack’, a decorso rapido. A differenza di altre assai meno contestate Ez di riuso e recupero di strutture edilizie industriali esistenti, ciò che qui ha destato perplessità e allarmato opinione pubblica, urbanisti e architetti è la costruzione ex novo di un pezzo di città diversa, che avrebbe non solo trasfigurato completamente l’Isle of Dogs ma soppiantato, come alternativa insediativa e simbolica, nientemeno che il mile square della City. Più di altro fu l’immagine urbana proposta dalla SOM per la canadese Olympia & York a generare riserve e apprensione: l’eredità Beaux Arts transitata in America attraverso la ‘Great Good City’ di Daniel Burnham ritornava in Europa, un secolo dopo, in un esercizio di composizione urbana. Gigantesca simulazione in forma di urbanità, nota e stereotipata per essere prontamente immessa nel mercato delle fruizioni. Sovente se ne rintracciano assonanze e ascendenze nei modelli europei come la Défense, ma questo theme park dal soggetto urbano-finanziario guarda piuttosto ai festival marketplaces di James Rouse, in cui mix di funzioni attrattive e di intrattenimento, si mescola a centri commerciali, uffici, residenze tematiche, connotato dalle qualità ambientali di paesaggio e acqua. Per il waterfront di Baltimore, Rouse infatti attiva strategie disneylandiane per attirare milioni di visitatori e consumatori, costituendo il generale modello di riferimento della waterfront regeneration, promossa negli anni ottanta e novanta nei più grandi porti nord americani, Boston, Miami, New York, di cui proprio la canadese Olympia & York fu uno dei principali developer. I temi attrattivi dei festival marketplaces ricorrono d’altra parte, opportunamente temperati, nelle riqualificazioni degli anni novanta di altre città portuali europee, Barcellona, Genova, Rotterdam, Oslo. Nonostante controverse vicissitudini realizzative, tra cui un cambio di proprietà dopo la crisi recessiva sul finire degli anni ottanta, si può dire che Canary Warf, ottenuto con il Limehouse Link Tunnel e la Jubilee Line Extension un adeguato e veloce collegamento con la City, rappresenta ora una tra le parti più attrattive e vitali di Londra. Occorre riconoscere che, nel contesto della competizione globale tra New York, Tokio, Francoforte, il distretto finanziario Canary Warf ha permesso a Londra di riaffermarsi, vincendo la banking race, tra le maggiori piazze mondiali del mercato finanziario. Una struttura urbana per blocchi cerca di riprodurre una città densa: dispone isolati lungo i bacini portuali esistenti che inglobati nella morfologia d’insieme conferiscono al contesto particolari valori ambientali. Spazi urbani di tradizione Beaux Arts, nella declinazione americana 184 degli anni venti, semplificati e adattati all’uso dell’automobile, strutturano il Mall centrale sopra la galleria commerciale e i parcheggi. Portici, scalinate e parterre dilatano la fruizione pubblica fin nelle hall degli alberghi e degli uffici direzionali. La torre per la sede della HSBC di Foster and Partners e quella per la Upper Bank di Kpf affiancano il precedente landmark di C. Pelli su Canada place innalzandosi dal parterre centrale in un modello ibrido, blocco-torre, che evoca lo skyline congestionato di un down-town americano ergendosi, visibile a distanza, segnale territoriale. Un tale svettare di torri, legittimato da aspirazioni simboliche e rappresentative, scatenò da principio rimostranze e proteste per l’eccessiva ‘americanizzazione’ che il modello veicolava, dal momento che la densità edilizia proposta non era molto superiore a quella della Bloomsbury giorgiana. Piazze, giardini, aperti, viali alberati, atri degli edifici, gallerie commerciali, parcheggi, e le grandi hall della stazione ferroviarie e della recente metropolitana, allacciati nella continuità di uno spazio pedonale, per esteso percorribile, risulta appena perturbato dal transito di corsie veicolari, peraltro riservate ai taxi e al trasporto pubblico. Si può senz’altro affermare che SOM, nell’ideazione dell’impianto morfologico, si sia mossa a partire proprio dalla concezione degli spazi aperti: sin dagli inizi coinvolse e affiancò nella progettazione i landscaper dello studio Hanna/Olin. Precisata la ‘parte profittevole’ del progetto divenne fondamentale stabilire il ‘carattere’ d’insieme, studiare a fondo spazi urbani e facciate degli edifici. I concorsi di progetto e le consultazioni, a cui tra altri parteciparono Kpf, Koetter, Kim, Aldo Rossi, Troughton McAlsan, erano riservati alla sola progettazione di facciate, poiché sagome volumetriche, tematiche di attacco a terra , portici, androni e distribuzione interna degli edifici erano già stati, in modo rigoroso, fissati da SOM. Negli anni ottanta, la prima fase dell’operazione costruisce sulle anse del Tamigi, attorno al West Ferry Circus e a Cabot square. Gli edifici progettati da SOM, Kpf, Koetter, Kim, Pei Cobb Freed, riproducendo e simulando una fantomatica metropoli americana ripropongono un architettura storicista, accennando alla New York decò degli anni trenta, e pescando in sfocate reminescenze dagli eroici anni della Scuola di Chicago. Affacciati sulla penisola di Greenwich, e attorno a Canada place e al Jubelee park, gli edifici della seconda fase, progettati da C. Pelli, Foster & Partners, SOM, Kpf, HOK si sono con disinvoltura accodati al trend dell’architettura tecnologica: lucentezza e leggerezza, espresse in grandi hall vetrate, materiali, griglie metalliche, lastre riflettenti di acciaio e bronzo lucidato, vetri strutturali. Persino la concezione degli spazi aperti, dapprima incline al recupero di ‘convenzioni urbane’, quali circus, piazze, boulevard, avenue, si affievolisce, lasciando che giardini e sistemazioni paesaggistiche, il Jubelee park e le uscite vetrate dalla Jubelee Line, vivano una maggiore e libera integrazione tra architetture, infrastrutture, spazi aperti e valori ambientali presenti. La spinta trasformativa che Canary Warf esercita sull’intorno è notevole. Il riuso di edifici e warehouse affacciati sui bacini d’acqua adiacenti, è riuscito ad innescare un processo di riqualificazione di un intero brano di città industriale dimessa, mentre altri recenti interventi con uffici, residenze e attività commerciali assieme cercano di contaminare l’iniziale vizio monofunzionale e attenuare l’originario destino di inner city, per aprirsi ad una fruizione più ampia e allargata. 185 London, Canary Wharf Progetto urbano e coordinamento: SOM Società di sviluppo: Canary Wharf Group Plc Progetti e realizzazioni: 1986 - in corso 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 Westferry Circus: Hanna & Olin 1, 2,11 Westferry Circus: SOM, Koetter & Kim, Perkins & Will 15 Westferry Circus: Farrell & Partners 17 Columbus Courtyard: Gensler & Associates 20 Columbus Courtyard: SOM Credit Suisse: Pei Coob Freed & Partners 25 Cabot Square: SOM 20 Cabot Square: KPF 10 Cabot Square: SOM Cabot Square: Hanna & Olin Docklands Light Railway Station 25 North Colonnade: T. McAslan, Adamson Associates 30 South Colonnade: KPF One Canada Square: Pelli & Associates 5 Canada Square: SOM 8 Canada Square: Foster & Partners 33 Canada Square: Foster & Partners 25 Canada Square: Pelli & Associates Canada Square Park: Hanna & Olin 15 Canada Square: KPF Canada Place: C. Taylor 20 Canada Square: SOM One Churchill Place: HOK 20 Bank Street: SOM 25 Bank Street: Pelli & Associates West Wintergarden: Pelli & Associates 40 Bank Street: Pelli & Associates East Wintergarden: Pelli & Associates 50 Bank Street: Pelli & Associates 10 Upper Bank Street: KPF Jubilee Park: P. Wirtz 25 Churchill Place: KPF 20 Churchill Place: KPF 5 Churchill Place: HOK 10 8 3 2 4 9 5 15 12 16 20 23 6 34 1 4 11 10 19 14 21 33 5 3 7 8 13 17 22 18 32 7 2 11 32 31 1 6 13 30 24 25 26 27 28 29 9 12 0 10 0 10 m 50 m 100 m 200 m 50 100 200m 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 Milano, Grande Bicocca Grande Bicocca entra nella storia urbana milanese agli inizi degli anni ottanta, facendosi largo tra politiche di riorganizzazione urbana che con difficoltà stavano delineandosi. In quegli anni, in alternativa all’urbanistica del piano, aleggiavano in Europa i ‘progetti speciali’, di cui si inizia a parlare a Milano con il Documento Direttore del Progetto Passante del 1984. Tentando di rispondere alla crisi urbana degli anni settanta, legata alle dismissioni industriali, si avviano grandi progetti connessi al riassetto del sistema infrastrutturale metropolitano. Il Passante ferroviario avrebbe potenziato l’asse nord/ovest – sud/est, asse storico di strutturazione delle relazioni della città con il territorio, tramite collegamento sotterraneo della Stazione Bovisa delle Ferrovie Nord, con le stazioni Garibaldi, Vittoria e Rogoredo delle Ferrovie delle Stato. La nuova accessibilità urbana e territoriale avrebbe favorito nelle aree dismesse lungo il tracciato la localizzazione di ‘funzioni forti’. Di fatto la poca attendibilità degli strumenti attuativi del Documento Direttore, i ‘progetti d’area’, e la lentezza nella realizzazione del Passante impediranno l’implementazione dei progetti e l’avvio delle trasformazioni. In questa fase di stallo si fa avanti, sulle aree Bicocca in dismissione della Pirelli Spa, il progetto del ‘Polo tecnologico’, sancito con il Protocollo di intesa nel 1985 e promosso da un concorso internazionale di architettura vinto nel 1987 dalla Gregotti Associati. Dal punto di vista strategico è chiaro come un grande intervento di trasformazione alla Bicocca si ponesse in antitesi alle politiche urbane che faticosamente si andavano delineando. Se legittimo e necessario fu porre la questione della ‘città diffusa del nord-est milanese’, e aver intravisto nella Bicocca il baricentro virtuale di tale conurbazione, si deve ora riconoscere, a progetto quasi completato, che è contestualmente mancata una strategia alla scala urbana complessiva, quella che a Barcellona per esempio ‘riporta la città al mare’, o che a Parigi riconquista l’est, o ancora ad Amsterdam riannette il porto alla città. In una Milano che dagli anni ottanta vedeva la costante frammentazione degli interventi, anche il progetto Bicocca acquisì i risvolti di una Enterprise Zone, che Pirelli Spa fu fermamente intenzionata ad attuare. Una circostanza questa che certamente impose limiti al progetto urbano, costretto a operare nell’enclave dei vincoli di proprietà, ma ancor più per l’impossibilità di collocarsi in una ampia strategia urbana condivisa. Accenni a uscire dal recinto per introdursi fisicamente nella città attorno vennero ipotizzati da Gregotti, Rossi e Valle nei rispettivi progetti di concorso, a dimostrazione che il progetto avrebbe dovuto agire a ‘scala intermedia’, tra nuovo insediamento e città, giungendo a livelli di complessità capaci di interconnettere sistemi urbani diversi: edilizio, infrastrutturale e dei trasporti pubblici. Con l’obiettivo di configurare un ‘centro storico della periferia’, strutturare cioè una nuova centralità e un riferimento per la conurbazione nord di Milano, il progetto Bicocca fissa una struttura d’ordine, laddove una caotica diffusione territoriale degli insediamenti mescola resti di periferia industriale in trasformazione. Nella concezione dei caratteri morfologici si palesa l’opzione per una città regolare, ordinata e organicamente interrelata, da risultare così riconoscibile nella dispersione metropolitana. Cinque superblocchi articolati in diverse morfologie e assoggettati a un asse di simmetria costituiscono la ‘spina centrale’, principio d’ordine che struttura l’impianto: determina le articolazioni tra spazi e costruito, si raccorda con il perimetro dell’unità d’intervento e, riprendendo le scansioni delle strade esistenti e la scala degli edifici 201 industriali dimessi, organizza una nuova gerarchia di rapporti interni e di relazioni con la città. ‘Asse attrezzato’ interagisce con tre sistemi, strutturati perpendicolarmente a esso. A nord, un ‘bastione’ con parcheggi e giardini attraversa il centro sportivo esistente per concludersi nell’insula residenziale che si innalza in un blocco edilizio bipartito. Al centro, l’‘Esplanade’ lungo viale Sarca si impernia simmetricamente su ‘La Piazza’, centro commerciale ribassato circondato da torri residenziali. A sud, l’asse di simmetria di via Emanueli riunisce i Dipartimenti scientifici dell’Università degli Studi, le corti residenziali e la stazione FS di Greco. Negli spazi di ‘risulta’, tra città e figure gerarchizzate, il triangolo del Teatro degli Arcimboldi, la ‘Collina dei Ciliegi’, e le sedi del gruppo Pirelli. Come nella Università delle Calabrie, progettata negli anni settanta dal gruppo Gregotti, un leggero ponte pedonale riunisce singoli manufatti per configurare una struttura d’ordine a scala territoriale, così alla Bicocca un asse virtuale di simmetria inanella in sequenza i superblocchi della spina centrale per oltre un chilometro di lunghezza. Tenere uniti cinque manufatti, dovendo rinunciare a una reale continuità di costruito, induce Gregotti ad attuare un’attenta strategia dislocativa, organizzata in gerarchie compositive e sostanziata da rimandi morfologici e architettonici: simmetria bilaterale, articolazione planivolumetrica, reiterazione di ordinamenti architettonici e linguistici, che tuttavia solo una mano progettuale unica e fortemente determinata avrebbe potuto contenere in un insieme organico. La Gregotti Associati, struttura di progettazione unitaria, all’interno del contesto virtuale del planivolumetrico e del contesto reale, via via determinato per successive aggiunte, costruisce di volta in volta, di manufatto in manufatto i presupposti di una logica relazionale tra le parti. La figura dell’architetto coordinatore assume perfino il ruolo di autore di tutti i manufatti e di tutti gli spazi aperti: un ‘auto-coordinamento’ quindi, che ha il significato di inverare il planivolumetrico e i progetti preliminari, temperando nel processo realizzativo la frammentazione di tempi e spazi generata da una dinamica gestione dell’operazione. Nemmeno le mutazioni programmatiche e i cambi d’uso intercorsi, che da ‘Tecnocity’ negli anni ottanta passando per il ‘Centro storico della periferia’ negli anni novanta giunsero nel duemila alla ‘Grande Bicocca’, poterono scalfire l’organica struttura d’insieme, tale fu la determinazione a costruire secondo regole planivolumetriche fissate. La fermezza con cui Gregotti persegue l’immagine unitaria sembra essere risposta e insieme cautela nei confronti di tale frenetica gestione: temeva che potesse sfuggirgli di mano il controllo sulla qualità insediativa. In simili circostanze, che vedono una frammentarietà degli interventi accompagnarsi al mutamento radicale in corso d’opera di obiettivi, destini e usi, bisogna riconoscere che anche il patto di solidarietà tra progettista e committente sia stata indispensabile garanzia di controllo morfologico. Con provvedimenti prettamente architettonici e compositivi si fissano differenti livelli di relazione tra parti e tutto. Applicata a scala urbana, una sorta di teoria combinatoria alla Durand si concretizza in forme pescate nell’antologia delle passioni architettoniche gregottiane: l’organicismo di Oud e Dudok, il razionalismo di Libera e Terragni, il classicismo moderato di Berhens e di Poelzig. Una dispositio, attuata alle diverse scale interagenti, avviene in differimento di spazi e tempi mantenendo nel planivolumetrico la partitura fissa. Alla ‘scala della città’ si ricorre al contrappunto delle emergenze: landmark stagliati nell’autonomia di segno e al contempo tra loro relazionati da una ricorrenza di ordinamenti architettonici. Alla ‘scala urbana intermedia’, per conferire forma agli spazi aperti si esprime un ordine gigante di scansioni edilizie e bowwindow. Alla ‘scala edilizia’, sequenze regolari di bucature, griglie ordinatrici, pannellature modulate, elementi architettonici ripetuti rafforzano un principio di omologazione, identificando l’insediamento rispetto l’eterogeneità dell’intorno. Varchi, portali e ritagli nei volumi rendono inoltre percepibili gli assi di simmetria, mentre una strategia dislocativa di colori e materiali ricorrenti individua insiemi relazionati. La volontà di perseguire organicità e continuità favorisce un’osmosi tra architettura industriale preesistente e nuova architettura. La regolarità su grande scala degli stabilimenti precedenti viene riproposta nelle scansioni modulari del nuovo, così come i linguaggi adottati per i nuovi elementi compositivi si riversano a loro volta sugli edifici da recuperare, così omogeneizzati e assimilati all’insieme. Allo stesso fine si recupera Perret quando a Le Havre cerca equilibrio tra varietà edilizia e organicità d’insieme in un linguaggio sostanziato da fatti costruttivi e tecnici e da un sistema di modulazione che supporta il montaggio di elementi standardizzati. Aleggia alla Bicocca, ripetutamente evocata dai dettagli di facciata, la standardizzazione a grande scala di un mondo industriale. Ma di evocazione si tratta: rivestimenti, pelli, cappotti, pareti ventilate riproducendone gli effetti percettivi rimandano a sistemi di industrializzazione edilizia, laddove permangono invece modalità costruttive tradizionali. Gregotti interpreta l’isolato urbano come modulo d’una struttura d’ordine organica e unitaria di origine macrostrutturale e la progettazione prende forma a partire dal ‘pieno’ del costruito. In forma di isolato, manufatti relativamente indipendenti trovano entro i loro perimetri la propria ragion d’essere. Istaurano con la strada prevalentemente relazioni di collegamento e accessibilità riassorbendo al loro interno l’energia urbana. Le strade sono unicamente principio di perimetrazione e collegamento funzionale delle unità di intervento, gli spazi urbani sono meri ‘vuoti’, risultato della giustapposizione dei volumi edilizi. Nel 2009, la società di sviluppo Pirelli RE, decide di ampliare l’insediamento verso Nord, inglobando le aree Ex Ansaldo. Il progetto urbano e paesaggistico di completamento della Grande Bicocca, elaborato da Giuseppe Marinoni, ancorandosi all’impostazione delle grandi assialità presenti, provenienti da Bicocca e da Ansaldo, introduce elementi di continuità, ma anche di forte discontinuità, con il quartiere esistente. Innanzi tutto il nuovo progetto dà valore fondativo allo spazio aperto, e non più, e unicamente, al costruito. Tale inversione di campo si prefigge di produrre un assetto relativamente unitario nella fruizione e nella percezione degli spazi urbani configurati. Quattro grandi giardini entrano in relazione sinergica, sia morfologica sia d’uso, con gli spazi urbani esistenti. Nuovi percorsi configurano i giardini e al contempo hanno valore di tracciati fondativi nel delineare la dislocazione dei nuovi edifici, strategicamente collocati per dialogare con il quartiere esistente e per definire gli spazi aperti generati. 202 203 Milano, Grande Bicocca Progetto urbano e coordinamento: Gregotti Associati Progetto paesaggistico: Andreas Kipar-Land Progetto urbano e paesaggistico ‘Nuovo Centro Grande Bicocca’: StudioMarinoni Società di sviluppo: Pirelli RE Progetti e realizzazioni: 1987 - in corso 1 Deutsche Bank: G. Valle 2 Uffici: Gregotti Associati 3 Gruppo Siemens: Gregotti Associati 4 Dipartimenti scientifici Università degli Studi di Milano: Gregotti Associati 5 Sede del Consiglio Nazionale delle Ricerche: Gregotti Associati 6 Residenza cooperativa: Gregotti Associati 7 Collina dei Ciliegi: A. Kipar-Land 8 Residenza Esplanade: Gregotti Associati 9 Residenza Le torri: Gregotti Associati 10 Teatro Arcimboldi: Gregotti Associati 11 Residenza cooperativa: Gregotti Associati 12 Università degli Studi di Milano: Gregotti Associati 13 Pirelli Headquarter: Gregotti Associati 14 Centro Ricerca Pneumatici Pirelli: Gregotti Associati 15 Centro Ricerca Cavi Pirelli: Boeri Studio 16 Bicocca Village: B. Camerana 17 Hangar Bicocca: Cerri & Colombo Associati 18 ‘Nuovo Centro Grande Bicocca’: StudioMarinoni 9 10 15 18 12 7 1 13 8 3 14 4 12 12 7 1 2 3 4 18 9 16 11 6 8 2 6 5 10 5 11 17 0 0 50 m 100 m 200 m 50 100 200 500 m 500m 1 2 3 4 5 6 7 8 9 11 10 12 Milano, Nuova Portello Il Documento Direttore del Progetto Passante del 1984 inaugura a Milano l’era dei ‘progetti speciali’ come alternativa alla pianificazione comprehensive del Piano regolatore vigente, causa di inerzie procedurali e scarsa incisività nel generare qualità insediativa nei processi di trasformazione. Tale documento è uno dei primi tentativi, sia pure analitici ed esplorativi, di soppesare il portato delle aree in dismissione e cogliere come opportunità una risorsa territoriale, che tra brownfield e scali ferroviari conta oltre un quarto della superficie comunale. Le aree dismesse dei gasometri alla Bovisa, dell’ex Alfa Romeo al Portello, della Montedison a Rogoredo, del Garibaldi Repubblica, unite agli scali Farini, Vittoria e Romana diventano nel Progetto Passante potenziali nuove centralità, parti di una strategia urbana complessiva di riorganizzazione infrastrutturale e urbana che ha nel Passante ferroviario il suo punto di forza: potenziare l’asse storico nord/ovest - sud/est tramite il collegamento sotterraneo della Stazione Bovisa con le stazioni Garibaldi, Vittoria e Rogoredo. Tra questi ‘progetti speciali’, Nuova Portello, sulle aree dismesse ex Alfa Romeo ed ex Lancia, è quello che maggiormente ha contribuito a generare qualità urbana e insediativa, avviando un processo di riqualificazione del comparto nord/est della città di Milano che comprende la riorganizzazione del polo urbano fieristico e congressuale e, successivamente, la riqualificazione dell’ex quartiere fieristico con il progetto CityLife. Porta di accesso alla città dal sistema autostradale nord, Nuova Portello si trova a cavallo della circonvallazione di viale Serra, nel tratto delimitato dalle due direttrici di nord/ovest che collegano il centro città alle autostrade. Nel 2001 il Comune e le società Nuova Portello e Auredia stipulano l’accordo di programma per attuare il Programma integrato di intervento con l’obiettivo di costruire una parte di città, che integrandosi al tessuto urbano circostante possa dare forma al vuoto lasciato dalle demolizione dei capannoni industriali. Il mix funzionale è comune a molti altri quartieri avviati nelle aree semicentrali di Milano in quegli anni: residenza, un centro commerciale, parcheggi, uffici, e metà della superficie territoriale destinata a parco. Se gli esiti qualitativi di Nuova Portello differiscono enormemente dagli altri quartieri costruiti in quegli anni a Milano, quasi tutti piuttosto deludenti, lo si deve unicamente alla qualità del progetto urbano e architettonico di Gino Valle e alla gestione di una committenza illuminata guidata da Ennio Brion. Il progetto urbano si configura qui come un planivolumetrico che fissa l’assetto del costruito e la configurazione degli spazi aperti. Tant’è che ai progettisti successivamente coinvolti è chiesto di sviluppare il progetto architettonico proprio a partire dai principi urbani individuati da Valle. Una sorta di collage tra città per isolati ed edifici disposti en plein air inscena Valle. La volontà e quella di ricomporre la forma della città esistente centrata sul tridente generato da piazzale Accursio, e rispondere al contempo all’irruenza infrastrutturale del viale Scarampo proveniente dall’autostrada e del viale Serra che taglia in due l’area. Già nella scelta della dimensione degli isolati che definiscono i bordi di via Traiano si comprende la volontà di mettere in collisione due modelli urbani: edilizia a cortina per definire il fronte della strada ed edilizia aperta con torri e blocchi, ritenuta più consona a esprimere l’affaccio sul parco. 216 217 Anche il centro commerciale si scompone in questo progetto, per articolarsi come insieme di isolati urbani di differenti dimensioni riuniti in aggregato: una cittadella, dove edifici commerciali, spazi aperti e parcheggi interrati si integrano esprimendo una dimensione urbana che riesce anche a sottrarsi ai limiti di una tematizzazione. Motore economico di un’operazione di sviluppo immobiliare, il centro commerciale diviene qui, unicamente per la lungimiranza ideativa e gestionale di progettista e committente, anche motore morfologico dell’intero complesso. E’ infatti dagli spazi aperti dell’aggregato commerciale che dipartono le lunghe assialità dei tracciati che generano gli spazi aperti e la dislocazione degli edifici. L’aggregato commerciale concepito da Valle è composto da cinque blocchi: sorta di collage tipologico tra la grande scala delle ‘piastre’ commerciali e il ‘tessuto’ dei negozi. Una strategia dislocativa improntata su una morfologia a più scale interagenti permette di generare ‘vie’ e ‘piazze’, ibridando il modello del centro commerciale con il modello dell’outlet. Con questo esempio ci si avvicina, per la prima volta in Italia, agli esempi europei di urban commercial district, rappresentati in questo libro dallo Stadshart di Almere. Un modello che, allontanandosi dal contenitore monofunzionale di stampo megastrutturale, cerca di generare una varietà morfologica e di usi che echeggi il ‘centro commerciale naturale’, così come lo si ritrova in alcuni centri urbani europei e italiani. Una pensilina alta quindici metri identifica il ‘coperto’ della piazza principale e diviene il fulcro simbolico e funzionale del sistema degli spazi aperti. Da qui, l’arrivo delle scale e tappeti mobili connette il piano urbano al piano interrato dei parcheggi e delle zone espositive e di servizio. Tutta la zona è pedonalizzata. E strategicamente Valle disloca gli accessi automobilistici e di servizio in più punti, raccordandosi con maestria al sistema viario della città attorno, senza introdurre morfologie viabilistiche extraurbane, come spesso avviene in dispositivi di questo tipo. Valle, con questo esempio, cerca di stemperare la carica dirompente della funzione, lavorando strenuamente sulla concordanza con i valori della città attorno. Il complesso congegno proposto in centro città come sistema di isolati urbani è esemplare nel dimostrare quanto un intervento di tali dimensioni, circa settantamila metri quadrati di superficie, possa anche esprimere valenze urbane, integrandosi alla città esistente. Gli edifici sono realizzati con elementi prefabbricati in cemento armato, ed esprimono quel carattere pragmatico e sobrio che contraddistingue le architetture per il terziario e l’industria del ‘periodo friulano’ di Valle. Pensiline e balconate dislocate lungo le strade pedonali riescono a conferire un carattere urbano all’insieme e al contempo garantiscono una continuità coperta al percorso dello shopping, necessaria al funzionamento della ‘macchina’ commerciale. Un timido tentativo di introdurre una sorta di plurifunzionalità avviene sulla via principale di ingresso dalla città, dove un edificio a più piani ospita, oltre ai negozi al piano terreno, uffici e servizi urbani ai piani superiori. Siamo comunque ancora distanti dagli esempi europei citati in questo libro come lo Stadshart di Almere, la Debis a Potsdamer Platz o HafenCity di Amburgo, dove a un’ibridazione morfologica corrisponde anche un’ibridazione di usi e funzioni, tra piano terra commerciale e piani superiori residenziali o terziari: esempi di proficua ri-creazione di reale vivacità urbana, oltre che di varietà di forma. Varietà formale, nella relativa omogeneità d’uso, ricercata in modo parossistico anche da C. Zucchi, immettendo una dimensione paesaggistica, sia morfologia sia di linguaggio architettonico, nel planivolumetrico ereditato da Valle. Partendo dai tracciati identificati nel progetto urbano, Zucchi introduce una libera sequenza di torri come interpretazione dell’approccio combinatorio già sperimentato da Valle nell’aggregato commerciale. E accompagna così in modo significativo l’ingresso al parco urbano, centro della nuova parte di città. Collage di tipi edilizi, l’isolato di Zucchi rispecchia in modo vagamente funzionalista le categorie d’uso residenziali: edilizia libera, edilizia convenzionata, riuso a residenzaservizi della ex mensa Alfa Romeo. E così, mentre gli edifici in linea delimitano con un solido basamento lapideo l’isolato lungo via Traiano, le torri si stemperano in un pulviscolo divisionista di logge, pannelli vetrati, parapetti metallici e campiture di intonaco variamente colorate, dialogando con le sinuosità del parco di C. Jencks e A. Kipar su cui si affacciano. Un giardino di ‘colline’, quest’ultimo, che si relaziona fisicamente e morfologicamente al Monte Stella concepito da Piero Bottoni nel Dopoguerra e, idealmente, ai rilievi prealpini rimirabili nelle giornate terse dai piani alti degli edifici. Trascritto come opera di Land art, tale giardino, utilizzando le terre di scavo degli interrati dei parcheggi, costruisce una sequenza fluida di forme concavo-convesse in reciproco rispecchiamento: soggiacendo alla geometria dominante a spirale, il vuoto del lago si materializza nel pieno del vortice del promontoriobelvedere. Anche il super-isolato progettato dallo Studio Canali cerca di rispondere alle due forti presenze del luogo: la città a nord e il nuovo parco a sud. Un’edificazione a cortina consente di ricavare un ampio giardino semipubblico, mediazione tra città e parco e luogo per accogliere una sequenza di torri di evocazione wrightiana, sia per le esplicite citazioni architettoniche che per l’inclinazione a mescolare organicamente ‘artificio e natura’. La scomposizione paesaggistica ha guidato Valle anche nella configurazione morfologica della piazza con i tre edifici del terziario collocati a ridosso di Fiera Milano City. Alla difficile condizione di relazionarsi al fuori scala del timpano, concepito negli anni ottanta da M. Bellini come testata monumentale dei padiglioni della fiera, Valle risponde con una lieve opera di decostruzione: tre semi-timpani liberamente dislocati sul suolo. Nella configurazione d’insieme essi acquisiscono una carica geografica capace, con il grande parterre unitario concepito da Topotek, di fare da contraltare al parco al di la del viale, al quale si riunisce con l’agile balzo fatto compiere da Arup alla pensilina strallata. 218 219 Milano, Nuova Portello Progetto urbano: Studio Valle Architetti Associati Coordinamento strategico: Ennio Brion Coordinamento generale: Pirelli RE Progetto paesaggistico: Charles Jencks, Andreas Kipar-Land Società di sviluppo: Ennio Brion-Nuova Portello, Auredia Progetti e realizzazioni: 2002 - in corso 1 Aggregato commerciale: Studio Valle Architetti Associati 2 Parco: C. Jencks: A. Kipar-Land 3 Residenze isolato nord-ovest: Cino Zucchi Architetti 4 Residenze isolato nord-est: Canali Associati 5 Asilo: Canali Associati 6 Uffici comparto sud-est: Studio Valle Architetti Associati 7 Piazza comparto sud-est: Topotek 8 Passerella ciclopedonale: Arup Italia 2 3 3 1 1 7 4 5 8 8 6 2 7 4 5 6 9 6 0 10 50 100m 1 2 3 4 5 6 7 8 9 Paris, Parc Bercy, Seine Rive Gauche Quando, verso il finire degli anni settanta, Parigi prende coscienza dei vuoti lasciati a est della città, nuove pratiche di costruzione urbana si stavano da poco affacciando dal panorama architettonico contemporaneo. Cominciava allora a balenare nella concezione degli insediamenti l’esigenza di una profonda revisione di metodi e principi, occorreva contrapporsi al modello di metropoli dissolta nel territorio realizzata con i grands ensembles. Già il Plan d’Occupation du Sol del 1974 ipotizza una mutazione di intenti nelle pratiche trasformative: Apur (Atelier Parisien d’Urbanisme) dopo accurato studio sui tessuti della città, delinea un approccio al recupero urbano, distinguendo aree di rénovation da quelle di restauration. Riprendere l’allineamento stradale, i limiti di altezza e la partizione per isolati mostra i nuovi intendimenti emersi dalle ricerche sulla città storica, che preannunciano l’emergere di una nouvelle vague urbanistica. La ‘riconquista’ dell’est parigino caldeggiata dal motto Paris se lève à l’est, inaugura il cambiamento di rotta: l’urgenza di rimettere in uso le aree obsolete, abbandonate dalla dismissione industriale, e di riorganizzare l’assetto ferroviario guida il processo di espansione del centro, o meglio l’estensione delle sue qualità fisiche e spaziali. Adottato nel 1983 dalla municipalità, allora retta da Jacques Chirac, il Plan Programme de l’Est de Paris inquadra diverse pratiche di trasformazione entro una generale strategia di politica urbana, tesa a valorizzare proprio questa parte di città. Gli strumenti e le modalità attuative sono noti e già collaudati: la procedura di attuazione urbanistica della Zac (Zones d’Aménagement Concerté) consente di intessere pratiche negoziali sottraendosi alle previsioni di piano, mentre la Sem (Société d’Economie Mixte), costituisce il braccio operativo ed economico che permette all’operatore pubblico di assumere il controllo della trasformazione urbana. Nell’aspirazione a produrre morceaux de ville, parti di città capaci di riassumere le spazialità e l’alta densità del centro, si prendeva distanza sia dalle pratiche di zonizzazione per grands ensemble attuate dal piano precedente, sia dagli esercizi di spettacolarizzazione architettonica voluti da François Mitterrand. Le ‘politiche’ del Sindaco entrano in competizione con i ‘Progetti’ del Presidente, siglando non tanto un conflitto istituzionale quanto la contrapposizione di due differenti nozioni di città: una sulla scia delle teorie emanate dal Ciam VIII ‘Il cuore della città’, esalta nel monumento isolato l’emblema della rappresentatività collettiva, rilanciando simbolicamente le istanze di rinnovamento della città. L’altra, ripercorrendo la lezione hausmanniana, fa leva sullo spazio pubblico nelle sue connotazioni di qualità, per dispensare urbanità nella periferia dilagata. Entro tale polarità, i Grands Projets presidenziali da una parte e dall’altra il lavoro più minuto dell’aménagement, promosso dalla municipalità parigina con cinquanta o forse più Zac. Una contrapposizione che è andata esaurendosi. Oggi le due politiche urbane e le due opzioni culturali si sono proficuamente ‘con-fuse ’. Il rinnovamento dell’architettura, perseguito dal programma politico-culturale di Mitterrand e prodotto nell’‘eccezionalità’ dei nuovi temi progettuali avanzati, si è infatti riversato sui progetti di trasformazione urbana, giungendo a connubi interessanti nella Zac Bercy e nella Zac Seine Rive Gauche. La grande area dei depositi vinicoli a Bercy, a differenza della maggior parte della aree industriali dimesse, presentava spiccate qualità insediative ed ambientali anche prima della riqualificazione. Depositi ed edifici di un certo pregio della fine dell’Ottocento, allineati su strade selciate perpendicolari al corso della Senna, si intercalavano ad oltre cinquecento alberi secolari, eredità dei settecenteschi giardini di Bercy, antico luogo di villeggiatura della nobiltà parigina. Valenze 233 ambientali che risultano esaltate dalla nuova configurazione morfologica, dominata dal grande parco. Rispetto ai modelli di riferimento adottati, gli square londinesi e gli spazi monumentali del centro parigino, il parco di Bercy svolge in questo assetto urbano un ruolo strategico passivo. Non governa i principi insediativi delle edificazioni e delle infrastrutture attorno, ma, a posteriori, riesce a rintracciare relazioni conferendo senso agli interventi incrementali, via via collocati ai bordi della perimetrazione di piano, per anni senza definizione formale. Nel progetto di concorso vincitore della consultazione internazionale del 1987 Huet e Ferrand esprimono la volontà di riunire e riposizionare i frammentari interventi edilizi ed infrastrutturali, trovatisi accidentalmente e senza alcun coordinamento ai bordi del parco. Abbandonata la rigida struttura urbana del neo-haussmaniano approccio della Apur, il parco cerca di prender senso a partire da un’attenta interpretazione dei pochi resti del vecchio tessuto dei magazzini. Con pazienza archeologica si riabilitano i tracciati obliqui e irregolari di discesa alla Senna, mettendo in risalto i filari d’alberi secolari esistenti e i frammenti di costruito rimasti. Una nuova trama di percorsi si sovrappone in filigrana ai tracciati che corrono paralleli alle strade rinvenute. In sequenza tre diversi tipi di giardini - la prairie, les parterres, le jardin romantique - mettono in relazione il Palazzo Omnisports con il Bercy Village. Verso la Senna i giardini si affacciano con una lunga terrazzata. Sorta di infrastruttura articolata, che accoglie negli spazi sottostanti parcheggi, strutture di servizio e una cisterna d’acqua. Solida barriera difensiva nei confronti della strada espressa proveniente dal Boulevard Périphérique che preclude però il rapporto del parco con la Senna. In felice integrazione il parco di Huet si raccorda con il costruito sul bordo est progettato da Hammoutène, Chaix, Morel, Montes, Lion, Dusapin, Leclercq, de Portzamparc, Ciriani, con il coordinamento di Buffi e con la testata sulla prairie di Gehry. Momento d’eccezione rispetto alle coeve trasformazioni urbane, cerca di attenuare le incongruenze di un quartiere che vuole ergersi a vera parte di città. Il lungoparco di Bercy nasce da un progetto coordinato che senza sistemi regolativi coercitivi ha saputo connettere impianto morfologico d’insieme e singoli edifici. Liberamente acquisiti dagli architetti, principi di costruzione urbana vengono reinterpretati nella condivisione di una ‘comune cultura’ attorno l’architettura moderna della città. Nel fronte costruito di 600 metri affacciato sul nuovo parco si aprono porosità tra giardino e città che sta alle spalle. Così è la nuova condizione ambientale a reclamare per il modello dell’isolato la ricerca di specifici e appropriati temi, un isolato da ripensare nella complessità delle sue articolazioni, e non semplicemente dedotto dalle convenzioni urbane. Nuove regole di découpage organizzano le relazione entro e fuori l’isolato e i rapporti reciproci tra i diversi isolati. A ciascun progettista vengono affidati porzioni di isolato e uno spazio urbano, anzichè ‘parcelle edilizie’. Il processo analitico attorno all’isolato produce una frammentazione delle parti e una successiva declinazione plurale delle stesse perché il fronte del parco possa raccogliersi in una figura d’insieme: una dissolvenza divisionista degli elementi che sensibile ai valori della luce e dell’aria, si fa controcanto al quadro ambientale e vegetale che fronteggia. Quando la Zac Bercy era già in costruzione, la Parigi stretta tra l’acqua della Senna e i binari ferroviari della Gare d’Austerlitz ancora si presentava come un’enorme enclave ferroviaria: un paesaggio di periferia industriale tra il Boulevard Périphérique e il Jardin des Plantes, a due chilometri da Notre-Dame. Dal 1992 la municipalità con la SNCF ne avvia il progetto di riqualificazione sull’esempio del Parco Bercy al di là della Senna. Ma qui non è il parco a suggerire la morfologia del nuovo quartiere. Una dalle ininterrotta, nuovo suolo artificiale scavalca i fasci dei binari ferroviari per far posto alla città: la diversa relazione che istaura con la città e l’infrastruttura l’allontana dal modello città-macchina, sperimentato, con risultati controversi, negli anni sessanta alla Défence. Nuovi equilibri allacciano sottosuolo e soprasuolo. Smantellato lo scalo ferroviario a ridosso della Senna, una nuova parte urbana si innalza sopra i quai e la città attorno. L’Avenue de France, asse del nuovo insediamento, corre dieci metri più in alto del sedime ferroviario su quale poggiano, tra i binari, le strutture di sostegno alla piattaforma e insieme di fondazione per gli edifici soprastanti. Su progetto di Ch. Devillers, il quartiere Austerlitz ripensato nella morfologia di strade e isolati, si incune fin dentro la città. R. Schweitzer concepisce il quartiere Tolbiac attorno alla Bibliothèque Mitterrand di D. Perrault, centro simbolico dell’insediamento e landmark per tutta Parigi. Nel quartiere Masséna che giunge fino ai bordi del Boulevard Périphérique, Ch. de Portzamparc ibrida un allineamento su strada prettamente urbano con un’edilizia aperta dislocata nel giardino. Come di prassi nel progetto urbano coordinato diversi progettisti in progetti distinti individuano impianto morfologico e linee guida per i numerosi architetti in seguito coinvolti. Isolati e singoli edifici pur seguendo i dettami delle convenzioni urbane sono realizzati in forme e materiali contemporanei, e rimandano alla Bibliothèque Mitterrand. In una leggerezza visiva e percettiva tessuti edilizi, griglie metalliche e di legno, pennellature vetrate si relazionano riflettendo le qualità ambientali del sito, luce, acqua e vegetazione. Varchi e vetrate spalancano traguardi visivi e trasparenze destabilizzando e al contempo arricchendo modelli morfologici convenzionali. Riappacificate con la città le infrastrutture, né completamente annullate né parossisticamente esaltate, partecipano alla più generale fruizione urbana, offrendosi per frammenti agli sguardi dagli spazi urbani soprastanti. Insieme ad altre coeve sperimentazioni - l’Avenue Wilson di M. Corajoud a copertura della A1nella Plaine Saint-Denis e la Gare de Montparnasse con i soprastanti giardini di …..Penà rappresenta un felice esempio di copertura di grandi infrastrutture della mobilità. Adagiata su un nuovo ‘suolo’ anziché sospesa su una ‘piastra’, questa incoraggiante declinazione di città pensile mescola urbanità, paesaggio e infrastrutture, accordando ricchezza e varietà oltre che valenze qualitative inedite ad un brano di città compatta. Parc Bercy e Seine Rive Gauche sono tra i più significativi episodi nella riconquista dell’est parigino. Sebbene aver lasciato che le due aree divenissero oggetto d’interventi operativi autonomi e indipendenti impedì una visione complessiva del settore urbano compreso tra i due scali ferroviari dismessi e venne così accantonata la ricerca di un rapporto con la Senna e di una possibile relazione tra le due rive. Due limitrofe parti di città, intorno al parco di Bercy e imperniato sulla Bibliothèque Mitterrand, si sono innalzate in relativa indipendenza. Le torri angolari della Bibliothèque che vediamo spuntare dal parco Bercy e dall’elegante invaso geografico della Passerelle Simone-de-Beauvoir, lasciano presagire le possibilità di una concezione urbana attenta alla Senna e ai suoi quai e pronta ad assegnare loro un ruolo significativo nella configurazione d’insieme. Nelle prime riflessioni elaborate per l’Expo 89 alcuni progetti organici illustrarono ampiamente i vantaggi offerti da una sistemazione ‘traversante’ la Senna, pregi già oltremodo evidenti nell’assetto di alcuni spazi monumentali della città. 234 235 Paris, Parc Bercy, Seine Rive Gauche Parc Bercy Progetto urbano: Apur - Atelier Parisien d’Urbanism Coordinamento del Fronteparco: Jean Pierre Buffi Progetto del Parc Bercy: B. Huet, M. Ferrand, J. Feugas, B. Le Roy Società di sviluppo: Semest - Zac Bercy Progetti e realizzazioni: 1989 - 1995 Seine Rive Gauche Progetti urbani e coordinamento: Austerlitz Nord: Christian Devillers Tolbiac Nord: Roland Schweitzer Masséna Nord: Christian de Portzamparc, Ateliers Lion Masséna Chevaleret: Bruno Fortier, Jean-Thierry Bloch, Ateliers Lion Società di sviluppo: Semapa Progetti e realizzazioni: 1988 - in corso 0 10 m 20 m 6 1 5 5 6 7 8 8 12 11 4 3 Parc Bercy 1 Cinémathèque Française: F. Gehry 2 Residenza: F. Hammoutène 3 Residenza: Chaix & Morel 4 Residenza: F. Montes 5 Residenza: Y. Lion 6 Residenza: Dusapin & Leclercq 7 Residenza: C. de Portzamparc 8 Residenza: H. Ciriani 9 Parc Bercy: B. Huet, M. Ferrand, J. Feugas, B. Le Roy, I. Le Caisne, P. Raguin 10 Bercy Village: Valode & Pistre 11 Ministère de l’Economie: Chemetov & Huidobro 12 Palais Omnisports: Andrault & Parat 13 Passerelle Simone de Beauvoir: D. Feichtinger 14 Caisse des Dépôts et Consignations: C. Hauvette 15 BPCE: Jodry & Turner 16 Le Fulton: Valode & Pistre 17 Residenza: J. Roca 18 Uffici: Chaix & Morel 19 Residenza: P. Gangnet 20 Residenza: F. Hammoutène 21 Equinoxe: Thin & Cianfaglione, P. Gravereaux 22 Bibliothèque François Mitterrand: D. Perrault 23 MK2: Namur & Wilmotte 24 Residenza: F. Soler 25 Athos: J. Charpentier 26 Uffici: Dusapin & Leclercq 27 Residenza: R. Bofill, Giraud & Hecly 28 Residenza: Brenac & Gonzales 29 Residenza: E. Girard 30 Uffici: A. Grumbach 31 Residenza: C. Furet 32 Residenza: J. Pargade 50 m 100 m 33 Residenza: C. Devillers 34 Residenza: A. Stinco 35 Grands Moulins Université Paris 7: R. Ricciotti 36 Esplanade des Grands Moulins: Interscène Paysagistes 37 Banque Populaire: C. Devillers 38 Residenza: H. Gaudin 39 Université Paris 7: Chaix & Morel 40 Ministère de la Jeunesse et des Sports: J. Viguier 41 Residenza: Brenac & Gonzales 42 Département-Ville de Paris: Chementov & Huidobro 43 Jardin Cyprien-Norwid: Atelier Tournesol 2 3 10 9 7 4 2 12 13 Austerlitz Nord 1 15 Tolbiac Nord Masséna Nord 17 14 19 15 28 17 Austerlitz Gare 16 Austerlitz Sud 27 10 15 14 9 13 38 34 32 24 22 20 31 19 29 35 36 16 18 21 33 18 23 25 26 11 30 37 13 Tolbiac Chevaleret 39 40 42 41 43 22 Masséna Chevaleret 21 20 0 10 m 20 m 50 m 100 m 0 10 20 50 100m 1 3 2 4 5 7 6 8 9 11 10 12 13 15 14 16 17 18 19 20 21 22 Saint-Denis, Plaine Saint-Denis Con criteri paesaggistici un ambizioso progetto urbano riqualifica a nord di Parigi l’ampio territorio che per circa 700 ettari si allunga tra il Boulevard Périphérique e la cattedrale di SaintDenis: la Plaine Saint-Denis. La conurbazione metropolitana qui sorta, ha nel corso del tempo visto un frenetico stratificarsi di usi e infrastrutture. L’ottocento vi colloca industrie chimiche e manifatturiere per la presenza di scali ferroviari e del canale navigabile di Saint-Denis, il novecento le infrastrutture della grande viabilità di collegamento tra il nord della Francia e la capitale, infine negli anni sessanta grands ensambles residenziali andranno a densificare la fascia di piccoli borghi compresa tra Parigi e le villes nouvelles, congestionando ulteriormente la già sterminata banlieue parigina. Un progetto di ampio respiro che incrina i confini tra città ed infrastruttura, tra città e paesaggio e tra progetto urbano e progetto paesaggistico. Scompaginate le convenzionali regole di costruzione urbana, le attuali sperimentazioni colmano vecchie divisioni. La dicotomia paesaggio-città, costruito-natura, che ancora improntava l’eroismo modernista, dissoltasi in una coesistenza di elementi plurimi lascia il posto a complesse e stratificate ibridazioni insediative. D’altronde le odierne pratiche di progettazione urbana sembrano fondersi e confondersi con la progettazione paesaggistica. Con pazienza a Plaine Saint-Denis ci si è proposti di costruire assieme città e paesaggio, lavorando in promiscuità di materiali e tecniche. La manipolazione contestuale di edilizia, vegetazione, infrastruttura e geografia senza ergersi a precetto aprioristico, a poetica o stile, diventa infatti la condizione operativa che permette di esercitare un’azione efficace di trasformazione e miglioramento della realtà trovata. Terrain vague, ‘spazi eterotopici’, infrastrutture sottoutilizzate, resti di dismissioni produttive, non più segni da annullare, sono piuttosto frammenti di paesaggio che fanno l’eterogenea ricchezza della città contemporanea. Con tali presupposti, il gruppo di architetti e paesaggisti Hippodamos 93 (Y. Lion, M. Corajoud, P. Riboulet, Ph. Robert) agli inizi degli anni novanta fissa i contenuti di una trasformazione qualitativa e di una riqualificazione ambientale in tre chiari principi: “valorizzare gli elementi paesaggistici presenti nel sito”, “fondare lo spazio pubblico con determinazione”, “innestare un progetto economico nel progetto urbano”. Ciò che M. Corajoud definisce gli horizons-paysages, sono qui le peculiarità paesaggistiche di un luogo che mette in relazione la collina di Montmartre, la basilica di SaintDenis e la geografia della Senna. E’ la nuova concezione di paesaggio veicolata, inedita sia in termini percettivi che di uso, che rende interessante il loro approccio. Paesaggio sono le testimonianze significative della precedente storia industriale, i larghi orizzonti sugli scali ferroviari, le curvature dei tracciati ferroviari e delle anse dei canali, i segni e i manufatti infrastrutturali. Se ne preferisce il ‘recupero inclusivo’ che sappia far tesoro di stratificazioni conflittuali depositate nel corso del tempo, anziché decretarne la cancellazione in nome di un paesaggio naturale preesistente da ripristinare o in nome di operazioni puramente estetiche di camouflage. Artificiale, certo, ma è anche questo paesaggio. Non si risponde con convenzionali nozioni di spazio urbano alla necessità di “fondare lo spazio pubblico”. Una paziente ricerca trova nuovi modi di prefigurare spazi aperti, riscopre trame, legge nell’esistente inedite relazioni, mescola elementi vegetali a pavimentazioni, costruito ad infrastrutture. Ad un principio di strutturazione gerarchica degli spazi urbani e delle infrastrutture contrappone una visione ‘rizomatica’ e pervasiva, che 255 spinge i nuovi spazi aperti ad insinuarsi tra gli interstizi del costruito e a destabilizzare la consueta divisione di pubblico, semipubblico e privato. Una nuova geografia, costruita per continue inclusioni e aggiustamenti, si produce da un principio che governa successive approssimazioni in un processo in divenire, più che dalla determinazione a raggiungere nel tempo un disegno preordinato. Principio che permette di accogliere in itinere progetti ed occasioni come il nuovo Stade de France per i Mondiali del 1998 o il villaggio Olimpico qui previsto dopo la candidatura parigina. L’ambizione di Patrick Braouezec, il sindaco di Saint-Denis che ha avviato l’operazione coinvolgendo le municipalità confinanti, è di innestare un progetto economico nel progetto urbano. Voleva un rilancio economico e sociale delle comunità locali elevando le qualità ambientali di un’ampia porzione di territorio intercomunale. Il lavoro nel paesaggio, volto a conferire significati d’uso e qualità a spazi e luoghi, collega con una rete di nuove relazioni parti funzionalmente e fisicamente separate conferendo nuova immagine alla città, come offerta per attrarre investitori e nuovi abitanti. Tredici Zac sono tuttora state lanciate, anche se finora non sembra prevalere la qualità progettuale e realizzativa auspicata dal gruppo Hippodamos. Nella capillarità e pluralità degli interventi spiccano però alcuni fatti: l’Avenue Wilson ricavata dalla copertura di un tratto dell’autostrada A1, la nuova parte di città imperniata sull’avenue du Stade de France, il canale navigabile di Saint-Denis recuperato e reimmesso nei circuiti della fruizione collettiva, la realizzazione della stazione RER Plaine-Stade de France e la Plaine de la Plaine ancora in fase di progetto, parco abitato e nuovo quartiere urbano a baricentro dell’area. La copertura dell’autostrada A1 è considerata da Michel Corajoud e dall’equipe Hippodamos 93 come imprescindibile condizione per attuare il recupero urbano e ambientale di questa parte di territorio. L’operazione acquisisce una valenza dimostrativa: un progetto di paesaggio deve sapere avviare atti trasformativi, riparare e risarcire non solo appianare contraddizioni occultandole con opere ‘verdi’ di mascheramento. “Riparare come ad un danno di guerra, riparare all’espropriazione di territorio ed alla mutilazione urbana”, commessa nel 1960 cancellando l’antico asse reale, che con una monumentale alberatura di ippocastani collegava la Basilica di Saint-Denis a Notre Dame, per realizzare in trincea l’autostrada che dal Boulevard Périphérique attraversa i quartieri abitati a nord-est. Non serve mitigarne gli effetti nefasti con ‘impacchi di vegetazione’, come Alain Roger chiama le opere decorative apposte alle ferite inferte nel paesaggio. Occorre invece offrire nuovi usi, produrre nuove relazioni fisiche e spaziali, con modifiche ‘strutturali’, capaci di interrelare le parti divise della città. Proposta già alla fine degli anni sessanta, la copertura potrà realizzarsi solo grazie agli investimenti giunti in occasione della World Cup 1998 per la costruzione dello Stade de France nella parte a nord della Plaine. Centro di un nuovo quartiere realizzato con la procedura della Zac, con alberghi, uffici, luoghi di intrattenimento e abitazioni, il nuovo stadio e gli investimenti indotti hanno fornito un implulso decisivo per l’avvio di opere di riqualificazione già previste nel progetto urbano e paesaggistico della Plaine. Realizzata nel 1999 dal paesaggista Corajoud, il lighting designer Fashard per l’illuminazione e l’architetto Lion per le parti edilizie, la copertura si configura come una dalle di circa cinque ettari lunga un chilometro e mezzo che organizza in successione giardini piantumati, parterre con aree di sosta e di gioco, spazi per i mercati rionali e piccoli equipaggiamenti per gli usi del quartiere. In bilico tra un giardino artificiale ed un’infrastruttura urbana il manufatto, appoggiato con travature perpendicolari al tracciato autostradale, risolve, nel suo limitato spessore, la funzione di barriera osmotica tra il sopra della città ed il sotto del tunnel viario. Griglie di areazione, pozzi con pavimento vetrato, prese di luce riaffiorano in superficie nel giardino lineare soprastante integrandosi al disegno dei parterre piantumati e delle pavimentazioni, due mondi inconciliati che episodicamente interagiscono. Affiancata da due controviali alberati prosegue quei tracciati interrotti dal solco autostradale e ristabilisce la rete e la relazione viaria e pedonale tra i diversi quartieri. Piccoli edifici di testata, collocati sui lati corti, fungono da ingressi alle diverse parti del giardino; visibili segnali dai tracciati urbani riabilitati, sottolineano la presenza a distanza di questo nuovo ‘centro traversante’ che innerva l’intero insediamento. Elaborato dal gruppo francese Mosbach Paysagistes, nel 2000, il progetto per la riqualificazione dei bordi del canale Saint-Denis modifica e nobilita i percorsi e le aree che si affacciano sulla riva sinistra. Costruito in epoca napoleonica per portare le acque dal bacino della Villette alla Senna, il canale di Saint Denis presenta l’omogeneità di una infrastruttura paleoindustriale. Mediante l’inclusione di materiali residuali, lasciati dalle attività insediatesi in diverse epoche, l’intervento riscopre nuove relazioni tra gli insediamenti e il canale ed esprime spazialmente l’interferenza di varie situazioni locali con la scala geografica dell’infrastruttura. Una passeggiata rivela in sequenza gli elementi della periferia industriale, i silos, i ponti girevoli, le chiuse riconquistati come parti di un nuovo inclusivo paesaggio. Per sette chilometri, parallelamente al corso dell’acqua, fra la città e il canale, una fascia verde continua, banquette végétale, e variamente piantumata accompagna il percorso, interrompendosi solo in corrispondenza delle chiuse. Diversi fasci di percorsi articolano la passeggiata: una striscia di cemento ruvido désactive segna la via d’accesso dei veicoli di servizio, mentre la pista ciclabile è di cemento lisciato. All’interno del bordo verde sentieri differentemente articolati e diverse aree di sosta si arricchiscono di differenti piantumazioni e pavimentazioni e del rapporto con il territorio circostante. I colori lungo il canale ripetuti e riproposti con materiali, cartelli stradali, segnaletica e vege¬tazione tendono a rafforzare il carattere unitario della passeggiata e al contempo la articolano rispetto le specificità dell’intorno. 256 257 Saint-Denis, Plaine Saint-Denis Progetto urbano e paesaggistico: Sem PCD, Hippodamos 93 - M. Corajoud, P. Riboulet, Y. Lion, P. Robert Società di sviluppo: Sem Plaine Commune Développement Progetti e realizzazioni: 1992-2002 8 1 Avenue Wilson: M. Corajoud, P. Riboulet, Y. Lion, P. Robert 2 Promenade Canal Saint-Denis: Mosbach Paysagistes 3 Stade de France: Macary, Zubléna, Costantini, Regembal 4 ZAC du Cornillon Nord 5 Canal Saint-Denis 2 5 2 10 2 9 11 4 15 3 12 3 14 13 2 1 4 7 1 6 5 1 0 100 200 500m 1 2 3 4 6 5 7 8 9 10 11 12 13 14 15 Bibliografia Aa. 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