La psicologia del lavoro, l`ambiente. Gli strumenti di tutela d`urgenza

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La psicologia del lavoro, l`ambiente. Gli strumenti di tutela d`urgenza
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SOMMARIO
La psicologia del lavoro, l’ambiente.
Gli strumenti di tutela d’urgenza
1. «Stress» e «Mobbing»: ovvero lo stress da persecuzione psicologica. – 2. Il terrorismo psicologico nell’ambiente di lavoro. – 3. La dequalificazione e il quadro normativo. – 3.1. Il quadro normativo attuale nazionale ed estero. – 3.2. Alle origini: lo
«Statuto dei lavoratori». – 3.3. Dequalificazione, D.Lgs. n. 626/1994, Testo Unico
sulla Sicurezza e D.Lgs. n. 106/2009. – 3.4. Aspetti psicopatologici del mobbing. –
3.5. Dequalificazione del dipendente. – 3.6. Il mobbing contro i dirigenti e lo spoil
system. – 3.7. Procedura d’urgenza ex art. 700 c.p.c. – 3.8. Il quadro normativo del
lavoro flessibile.
Come nasce e si sviluppa la psicologia del lavoro e delle organizzazioni?
Prima di affrontare il tema «Mobbing» occorre accennare brevemente al termine «lavoro» ed a come si sviluppa la psicologia del lavoro.
Inoltre si affronteranno la motivazione e la soddisfazione correlate al lavoro.
Il termine «lavoro» deriva dal latino labor, che significa fatica, pena, sforzo.
È da intendere come qualsiasi forza di energia volta a un fine determinato.
In senso più specifico, il lavoro è l’applicazione delle potenzialità psico-fisiche
dell’uomo dirette alla produzione di un bene o di un servizio o, comunque, ad
acquisire un risultato tangibile di utilità individuale o collettiva.
Il Lavoro è un mezzo di espressione delle risorse fisiche, di intervento volto
al cambiamento, di sequenza produttiva, di rapporti e stili di relazione e di
convivenza e, infine, è un momento privilegiato di interazione e di scambio
con l’ambiente.
L’obiettivo della psicologia è «la produzione della conoscenza». Lo psico-
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logo del lavoro ha inoltre il compito di selezionare i dipendenti di un’azienda.
Obiettivo della Psicologia del Lavoro è anche quello di produrre la conoscenza sulle relazioni tra gruppo e individuo; tra gruppo e organizzazione; ed
infine tra gruppo e società.
La differenza tra la Psicoterapia e la Psicologia del lavoro è la seguente: nella
prima si ha la relazione tra lo psicoterapeuta e il paziente. Invece, nella seconda, si trova la relazione tra lo psicologo e il contesto della persona.
La psicologia del lavoro nasce con Bryan (1897), seguono Scott (1908),
Hunsterberg (1836-1916), ed infine W. Taylor (1856-1915), il quale si è occupato dell’organizzazione scientifica del lavoro.
Nel 1889, Patrizi fonda un laboratorio di psicologia sperimentale applicata
al lavoro, nella quale si esplicitano aree di intervento che vengono suddivise
in: Orientamento professionale (1906), Selezione del personale (settore dell’ergonomia) (1980), Formazione.
Nel 1955 nasce la Scuola di specializzazione in Psicologia del Lavoro e Psicotecnica.
Dal 1958 si sono susseguite varie occasioni di incontro, internazionali, di
psicologia applicata, fino ad arrivare alla nascita dell’Associazione Psicologi
Italiani del Lavoro, nel 1963. Per «Motivazione al Lavoro», viene inteso un
complesso processo delle forze che attivano, dirigono e sostengono il comportamento nel corso del tempo. Si tratta di analizzare delle variabili in grado di
dar conto del dispiegamento delle energie psico-fisiche. Per motivazione viene
intesa una spinta pulsionale a raggiungere un determinato obiettivo. La motivazione può essere alta o bassa a seconda del soggetto. Se il soggetto ha una
motivazione alta, vorrà dire che ha una notevole spinta pulsionale al lavoro; se
invece la motivazione è bassa, allora il soggetto si recherà al lavoro in modo
demotivato. Infatti, il lavoro è anche un ambito sociale in cui l’individuo spende
la maggior parte del suo tempo e nel quale esprime parti importanti di sé.
Attraverso le teorie fondamentali sulla motivazione, è possibile individuare
tre diversi approcci: approccio bisogni-motivi-valori; approccio della scelta
cognitiva; approccio dell’autoregolazione.
Nell’approccio bisogni-motivi-valori, si ravvisa un insieme composito di diverse teorie che, a loro volta, sono riconducibili a differenti orientamenti.
Queste diverse teorie sono: la teoria dello sviluppo sequenziale dei bisogni di
Maslow, in cui si propongono le cinque categorie dei bisogni in bisogni fisiologici, bisogni di sicurezza, bisogni di appartenenza, bisogni di affetto e di stima,
infine, bisogni di autorealizzazione; la teoria bifattoriale di Herzberg, per la quale gli individui sono motivati da due diversi aspetti del contesto lavorativo: dai
fattori igienici e dai fattori motivanti; infine la teoria della motivazione al successo di McClelland, che, spiegando lo sviluppo e la decadenza delle diverse civiltà,
ha rivolto poi il suo interesse all’analisi delle prestazioni di lavoro.
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Nell’approccio della Scelta Cognitiva, si ha la teoria aspettativa «X valore»,
la quale muove dall’assunto che la persona si comporti in modo edonistico
quando sceglie tra compiti e livelli di impegno.
È una teoria cognitiva che parte dal presupposto che l’uomo sia un decisore fortemente razionale.
Vi è inoltre la teoria dell’orientamento al futuro di Raynor, in cui la motivazione a intraprendere o a svolgere un’attività è in parte determinata dalla
percezione da parte del soggetto interessato. Infine si ha la teoria dell’attribuzione di Weiner.
La ricerca sull’attribuzione incentra la sua attenzione sulle spiegazioni che
le persone adducono sugli eventi trascorsi. Infine l’approccio dell’Autoregolazione, incentra la sua analisi sui processi che mediano cognizioni ed emozioni,
guidando l’allocazione di tempo e di risorse per le attività finalizzate al raggiungimento di un obiettivo.
Si conclude accennando brevemente al concetto della «soddisfazione lavorativa».
Se abbiamo una buona motivazione al lavoro, questa deve essere poi soddisfatta, e la soddisfazione lavorativa è un sentimento di piacevolezza derivante
dalla percezione che qualunque attività professionale svolta consenta di soddisfare importanti valori personali connessi al lavoro.
Ci sono inoltre tre componenti riguardanti la soddisfazione lavorativa e sono: valori personali connessi al lavoro (ossia istanze soggettive, che trascendono i bisogni più elementari legati alla sopravvivenza e all’autonomia); l’importanza (le persone si differenziano non solo nella scelta dei valori ma, soprattutto, nella rilevanza a essi assegnata); la percezione (la soddisfazione lavorativa è
strettamente legata alla percezione e alla valutazione individuale sia dell’ambiente lavorativo che al contenuto del lavoro).
Sovente si rileva anche una «insoddisfazione lavorativa», in cui coesistono tre
categorie d’insoddisfazione: la prima delle quali connessa al contenuto del lavoro.
Una seconda categoria si riferisce all’ambiente sociale nel quale il lavoratore opera e alla dinamicità dei ruoli organizzativi. Una terza ed ultima categoria,
è legata a variabili dovute alle differenze tra individui. Le conseguenze dell’insoddisfazione lavorativa possono ricondursi a quattro categorie che sono:
problemi di equilibrio psico-fisico; assenteismo e turnover; sentimento di appartenenza all’organizzazione; abbassamento della prestazione.
L’individuo lavora non solo per soddisfare i bisogni legati alla sopravvivenza e alla sicurezza, ma anche per esprimere le sue esigenze.
Possiamo definire il «Ruolo» quale l’insieme dei comportamenti tipici che
caratterizzano la posizione di una persona nei contesti di lavoro.
Il leader, nel ruolo più alto, è un promotore, un attivatore, un gestore orientato al compito e agli obiettivi del gruppo, ma è anche un portatore di valori. Le
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funzioni della leadership sono: generare e mantenere il livello di impegno e di
tensione richiesto ai singoli individui che compongono un gruppo; direzionare
lo sforzo del gruppo lungo prospettive che promuovono la sopravvivenza del
gruppo e il raggiungimento degli obiettivi, gestire i compiti del gruppo e le dinamiche relazionali, facilitare e mantenere l’appartenenza al gruppo tenendo
uniti gli individui, soddisfacendo i bisogni dei membri del gruppo.
1. «Stress» e «Mobbing»: ovvero lo stress da persecuzione psicologica
Vanno sempre più diffondendosi forme di patologia lavorativa, fenomeni
di sofferenza psicologica che nascono nei contesti in cui si esercita la propria
professione e che poi si riversano nella vita personale e familiare dei soggetti
che ne sono coinvolti.
Tali sofferenze derivano, nella maggior parte dei casi, da vere e proprie forme di persecuzione, di maltrattamento, di molestia, di intimidazione.
A volte sono il risultato di una violenza che si perpetua nell’ambiente di lavoro.
Di mobbing si parla e si scrive molto negli ultimi anni, spesso però in modo
non esente da elementi di confusione ed ambiguità.
Per un corretto approccio alla complessità del fenomeno ed alle sue conseguenze sociologiche e psicologiche è necessario avere ben chiare alcune premesse concettuali: il mobbing è un fenomeno disfunzionale della relazione lavorativa causato da una serie duratura di eventi posti in essere nei confronti di
lavoratori, che siano dipendenti, pubblici o privati, con disegno vessatorio ed
illecito da parte del datore di lavoro e di soggetti in posizione sovraordinata
(mobbing verticale o bossing), ovvero da altri colleghi (mobbing orizzontale).
È un termine che definisce ed inquadra una problematica presente da tempo nel mondo del lavoro di cui oggi si parla in quanto studi recenti e numerosi
ne hanno evidenziato la dimensione ed i costi aziendali e sociali, ma anche per
gli adempimenti nuovi introdotti dalla normativa sulla sicurezza sui posti di
lavoro. Problematica che, ci dicono le cifre, è in aumento, anche in relazione
alle nuove tipologie di lavoro. Questa forma di maltrattamento determina considerevoli sofferenze mentali e fisiche. Il mobbing è una forma di terrore psicologico, caratterizzato dalla ripetizione protratta nel tempo, che viene esercitata
sul posto di lavoro, ad opera di un superiore o di colleghi di lavoro singoli o in
gruppo, con lo scopo di eliminare una persona ritenuta scomoda. Le forme
che esso può assumere sono molteplici: dalla semplice emarginazione alla diffusione di maldicenze, dalle continue critiche alla sistematica persecuzione, dall’assegnazione di compiti dequalificanti alla compromissione dell’immagine so-
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ciale nei confronti di clienti e superiori. È un termine mutuato dal mondo animale. Si riferisce a quel meccanismo per cui in una popolazione animale un
individuo viene espulso dalla comunità di appartenenza con dei comportamenti
propri di allontanamento o di aggressività, o perché considerato estraneo alla
comunità animale stessa, o perché ritenuto malato e in ogni caso pericoloso.
Negli anni Ottanta il termine venne ripreso dallo psicologo del lavoro Heinz
Leymann, il quale lo applicò ad un nuovo disturbo che aveva osservato in alcuni operai e impiegati svedesi sottoposti ad una serie di intensi traumi psicologici sul luogo di lavoro.
Da allora in poi per mobbing s’intendono: tutti quei comportamenti violenti che si verificano sul posto di lavoro attraverso atti, parole, gesti, scritti vessatori, persecutori, intenzionali e comunque lesivi dei valori di dignità di personalità umana e professionale, che arrecano offesa alla dignità e integrità psicofisica di una persona fino a mettere in pericolo l’impiego, o di degradare il
clima aziendale.
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I mobber fanno di solito affidamento sulla complicità o compiacenza dei colleghi. E varie possono essere le loro motivazioni e finalità. In base al bersaglio
della strategia vessatoria, il mobbing si può presentare sotto forma di tre tipologie diverse: dall’alto verso il basso, tra pari, dal basso verso l’alto. Nel primo caso,
il mobber è in una posizione superiore rispetto alla vittima, è cioè un dirigente,
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un capoufficio, un caporeparto, un collega di anzianità o di mansioni superiori .
Nel secondo caso, mobber e vittima sono allo stesso livello: due colleghi,
con pari mansioni e pari possibilità.
Nel terzo caso, il mobber è in una posizione inferiore rispetto alla vittima,
che vuole esautorare con la sua azione.
Il processo di mobbing è molto complesso e si articola in fasi successive.
Quasi sempre inizia con conflitti quotidiani. Questa conflittualità alimenta nella
vittima una sorta di terrore psicologico destinato ad incrementarsi. Dobbiamo
soprattutto ad Harald Ege (1996, 1998) una prima definizione.
Questi afferma che «con la parola mobbing si intende una forma di terrore
psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e
vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori». Inoltre, afferma che la scelta
di indirizzare il fenomeno del mobbing verso l’analisi contemporanea, è dovuta a tre fattori: il comportamento della vittima, il comportamento del mobber e
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Nome di colui che attua il mobbing, pl. mobbers (dall’inglese: Autore del Mobbing).
Pensiamo anche a modalità aziendali di Mobbing, come ad esempio al Wakaresaseya, che è
un termine di slang giapponese e fenomeno che si può tradurre letteralmente come «rovina famiglia». Con esso ci si riferisce ad imprese specializzate nel distruggere relazioni (far divorziare,
scoraggiare le relazioni interpersonali, licenziare dipendenti scomodi o anziani). In Giappone
nel 2002 si seppe dell’esistenza di una dozzina di queste imprese, presenti tra Tokio ed Osaka.
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l’ambiente. Il mobbing è un fenomeno sociale e in quanto tale non si origina
da sé, ma è fatto, subito o favorito da esseri umani, con le loro paure, insicu3
rezze, crudeltà e difetti. Secondo H. Ege ci sono sei fasi nel mobbing. Data
una condizione «zero» ove la persona parte già con una serie di conflitti connaturati al suo essere individuo facente parte di una società (per cui problemi
legati alla condizione politica, economica, nonché a quella personale, lo pongono in una condizione di insicurezza), inizia il vero mobbing, dato dal conflitto mirato: qualsiasi problema viene imputato al Signor Rossi.
Dopo la condizione zero, arriva la prima fase, ossia quella del «capro espiatorio».
Nella seconda fase ha inizio il mobbing vero e proprio. Nella terza fase
hanno avvio i primi problemi psicosomatici legati al mobbing. Nella quarta fase iniziano gli abusi da parte dell’amministrazione del personale legati al fatto
che il «Signor Rossi» si assenta sempre più spesso per malattia. Nella quinta
fase l’azienda tutta è contro di lui.
Finché nell’ultima fase il malcapitato esce dal mondo del lavoro ed il mobber ha raggiunto l’obiettivo prefisso.
È un’azione aggressiva che vede sempre la presenza di due attori: l’aggressore, o mobber, e la sua vittima. È molto raro, però, trovare questi due personaggi da soli, uno di fronte all’altro come in un duello. Essi sono quasi sempre
circondati da un numero variabile di persone che possono fare semplicemente
da sfondo, oppure parteggiare apertamente per una delle due parti, quasi sempre la più forte. Anche loro, dunque, vanno considerati a pieno titolo come attori del mobbing.
Sulla definizione ci sono due posizioni nettamente separate. Da un lato c’è
chi cerca di definirlo e studiarlo in termini prevalentemente sanitari, come un
vero e proprio «malessere» individuale, suscettibile di diagnosi e cura. Dall’altro, c’è chi lo considera, più opportunamente, in termini prevalentemente
psicodinamici, come un fenomeno connesso ad una relazione organizzativa ed
interindividuale «problematica».
Questo secondo tipo di approccio sembra particolarmente promettente, in
quanto consente di prendere in considerazione contemporaneamente i fattori
precedentemente menzionati.
Sebbene non ci sia una categoria di persone predestinata a diventare vittima,
tuttavia ci sono situazioni in cui è più facile venire mobbizzati. In tali situazioni
sono stati riscontrati nelle vittime due tipi di comportamento, indipendenti dal
genere maschile o femminile: la reazione passiva e la reazione attiva.
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H. EGE, Mobbing: conoscerlo per vincerlo, Franco Angeli, Milano, 2002. Vedi anche, il
mobbing ovvero il terrore psicologico sul posto di lavoro, e la situazione italiana, in M.F. HIRIGOYEN, Molestie morali: la violenza perversa nella famiglia e nel lavoro, Einaudi, Torino, 2000.
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La reazione passiva si verifica quando la vittima incredula, ancora non crede di essere in una situazione di mobbing e tenta di continuare la sua quotidiana attività di lavoro. La reazione attiva si verifica, invece, quando la vittima
reagisce prontamente a quelli che considera dei veri e propri soprusi. Spesso,
in questo caso, cerca l’aiuto dei colleghi o tenta, per avere dei testimoni, di attirare la loro attenzione sul comportamento del mobber.
In ogni caso, raramente queste due reazioni sono delle difese efficaci.
Il fenomeno del mobbing non interessa soltanto l’individuo in quanto soggetto sano o malato, ma anche in quanto soggetto che lavora all’interno di aggregati sociali, ovvero in spazi dove le dimensioni affettiva ed organizzativa lo
sottopongono ad uno stress costante. Tale stress può sfociare, come è noto,
nella costruzione del «capro espiatorio», nel fenomeno del burnout, nell’aggressività verso l’utente, o, appunto, nel mobbing. Dovremo allora considerare sia
il percorso che dallo stress conduce al mobbing (nei soggetti che per contenere
lo stress si trasformano in mobber), sia quello che dal mobbing conduce allo
stress. In molte situazioni, come quella scolastica o sociosanitaria, s’incontrano
entrambe le dimensioni.
Mobbing e struttura, o contesto lavorativo, insomma, sono intimamente correlati. È solo all’interno della struttura, infatti, che il mobbing assume una configurazione precisa.
Il mobber, può far leva su regole organizzative suscettibili di frustrare la professionalità del mobbizzato, saturandolo di incongruenze, discrepanze, ambiguità. Per questo il mobbing non può essere considerato semplicemente come
una serie di comportamenti e atteggiamenti individuali caratterizzate da angherie e soprusi, terrore e isolamento. Esso è qualcosa di più, in quanto testimonia anche a quali patologie relazionali possa contribuire una specifica logica organizzativa. Emblematico, al riguardo, è il mobbing che si produce all’interno della struttura ospedaliera. Qui esso è favorito, da un lato, dal fatto che
questa istituzione molto spesso sia contesa come un luogo di spartizione di potere e, dall’altro, dai tempi disumani e stressanti imposti agli operatori.
Dall’esperienza clinica, comunque, emerge che chi subisce il mobbing spesso non ha la percezione precisa di quello che gli sta accadendo e, perlomeno
inizialmente, tende ad interpretare gli accadimenti come dovuti a una propria
responsabilità, quale una propria «colpa». Più in generale, le dinamiche che
sottendono alle violenze psicologiche nei luoghi di lavoro non di rado avvengono senza che in coloro che ne sono in vario modo coinvolti vi sia una reale
consapevolezza della vera natura dei meccanismi che le governano, del grave
disagio che può derivarne e degli esiti spesso dannosi che ne conseguono. Con
tutta probabilità il mobbing è in qualche modo sempre esistito, ma, paradossalmente, ciò ne complica la definizione e la comprensione, giacché ne sottolinea implicitamente lo stretto legame con le complesse dinamiche sociali e in-
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terpersonali proprie della natura umana. In più, il fatto che il fenomeno abbia
radici profonde ed esista da tanto tempo spesso comporta che molte situazioni
siano date quasi per scontate e siano emotivamente vissute come praticamente
«normali». Dall’altro canto, occorre considerare che il mondo del lavoro è da
sempre considerato un teatro di tensioni e conflittualità. L’attività lavorativa e
il ruolo occupato nel lavoro svolgono, dunque, una funzione di rilievo nell’equilibrio generale del soggetto e spesso rappresentano un elemento fondamentale nella vita delle persone.
La posizione lavorativa è uno tra gli elementi che più contribuiscono a determinare il prestigio sociale, al quale corrisponde «un’immagine prestigiosa»
che tende ad essere sovraccaricata di significati di per sé arbitrari; basti pensare come, nella cultura corrente, l’immagine positiva di un determinato soggetto tenda a tradursi direttamente e acriticamente in un positivo giudizio di valore sulla persona.
Negli ultimi venti anni il fenomeno del mobbing è stato oggetto di notevole
attenzione da parte dell’opinione pubblica, di organismi e istituzioni internazionali e della comunità scientifica. È un fenomeno a tutt’oggi non ancora chiaramente definito per cui è necessario un confronto tra specialisti, sia medici del
lavoro, sia psichiatri che psicologi, che si occupano quotidianamente della materia. Nella realtà italiana gli sportelli antimobbing rappresentano l’unico e insostituibile punto di riferimento per le vittime della violenza sul lavoro. Ma
cosa chiedono i mobbizzati? Qual è la domanda di aiuto che rivolgono ai consulenti sindacali e alle ASL, per la tutela dai rischi lavorativi?
Da una prima analisi effettuata emerge che le persone vittime di questo fenomeno sono molte e spesso non sanno a chi rivolgersi, anche perché in Italia, a
differenza che in altri Paesi europei, al momento non esiste una normativa in
materia. Queste persone si presentano spesso spaventate, incerte se l’interlocutore al quale si stanno rivolgendo sia in grado di offrire loro una reale tutela legale. L’iter di accoglienza da parte dei consulenti sindacali, affiancati da psicologi, prevede un’analisi preliminare della condizione lavorativa alla quale i soggetti vengono sottoposti per verificare la loro integrità psicofisica. Certamente il
mobbing non è una malattia, ma una condizione lavorativa disfunzionale che, in
quanto tale, può comportare effetti negativi sulla salute delle persone coinvolte.
I soggetti che si presentano agli sportelli antimobbing appaiono sostanzialmente
scoraggiati, con un atteggiamento generale di scetticismo collegato principalmente alla paura di non essere creduti o comunque di apparire come vittime designate del sistema lavorativo nel quale prestano opera, pur essendo perfettamente consapevoli che realmente si trama alle loro spalle.
L’Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro nell’attività degli sportelli antimobbing utilizza un questionario che non misura una psicopatologia, ma dà un indice del disagio lavorativo esplorando tre grandi aree
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che includono le caratteristiche principali del mobbing: mansioni e condizioni
di lavoro (si fa riferimento a carichi di lavoro, livelli di sicurezza ed eventuali
cambiamenti nell’organizzazione d’azienda); relazioni interpersonali e comunicazione d’impresa: si parla dei rapporti con i superiori, colleghi e collaboratori
(sistema di comunicazione interno ed esterno); clima organizzativo (idoneo impiego delle proprie competenze e riconoscimento dei risultati raggiunti).
La condizione psicofisica dei soggetti si ricava dai colloqui effettuati e viene
poi spesso confermata da un’analisi approfondita condotta attraverso l’uso di
test psicologici, che possono rilevare tratti di sofferenza psichica di vario tipo.
Per la maggior parte, la soluzione è la presentazione delle dimissioni, per altri,
invece, è da ricercare nei meandri di una tutela legale ancora inesistente nel
nostro Paese. Nell’ambiente di lavoro risultano frequenti anche azioni mobbizzanti nei confronti di dipendenti che non corrispondono più alle attese (a
causa di lunghe assenze per congedi parentali, o per malattie serie, verso portatori di handicap).
In questo modo l’azienda assume il ruolo di mobber. Lo scopo è quello di
indurre il dipendente ad andarsene e la modalità è quella di farlo vivere in una
situazione insostenibile, attraverso critiche e minacce, al punto di indurlo a
dimettersi dal luogo di lavoro.
L’origine del mobbing secondo molti autori nasce da un conflitto, e negli
anni ’30 del XX secolo, si riteneva che il conflitto fosse un fenomeno negativo
che doveva a tutti i costi essere represso. Invece da più parti si esalta il ruolo
del conflitto quale fonte di energia, fonte di crescita e diventa deleterio quando determina una diminuzione della produttività, un abbassamento del morale dei lavoratori, l’innescarsi a catena di altri conflitti. Di conseguenza è fondamentale che le direzioni aziendali gestiscano al meglio i conflitti che possono trovare origine in diverse situazioni: insicurezza del posto di lavoro, mancanza di informazioni, richieste eccessive o insufficienti, isolamento.
Il «mobbizzato», cioè la vittima di una persecuzione psicologica, è portato
inevitabilmente a mettersi da parte, perché «avvilito» e «rattristato» per quanto gli sta accadendo, rinunciando ad una collaborazione positiva con l’azienda
e quindi lasciando via libera al proprio capo, cioè al «mobber».
Le patologie più frequentemente registrate nei casi di danno biologico da
mobbing rimandano prevalentemente a quadri nosograficamente inquadrabili,
secondo i criteri del DSM-IV-TR, nell’ambito del Disturbo d’Ansia Generalizzato, del Disturbo dell’Adattamento, del Disturbo Distimico e del Disturbo
Post Traumatico da Stress, e studi recenti dimostrano un aumento delle patologie coronariche in soggetti mobbizzati.
La diagnosi più frequente – sulla base dei criteri proposti dal DSM-IV-TR –
è stata quella di «Disturbo Distimico» (6 casi su 20) e di «Disturbo dell’Adattamento con Ansia ed Umore Depresso Misti» (6 casi su 20), seguita in ordine
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di frequenza da quella di «Disturbo Depressivo Maggiore» (3 casi su 20) e dal
«Disturbo Post Traumatico da Stress» (3 casi su 20).
In pochi casi è stata posta la diagnosi di «Disturbo d’Ansia Generalizzato»
ed in pochi altri la diagnosi parla di «Disturbo di Somatizzazione».
Alla luce della nostra esperienza, possiamo affermare che la valutazione clinica e medico-legale delle patologie causate dal mobbing non è certamente agevole anche, ma non solo, perché in tale contesto è possibile trovarsi di fronte a
pazienti che strutturano un disturbo psicopatologico direttamente ed intimamente derivabile dal mobbing, ovvero di fronte a pazienti già affetti da patologia
psichiatrica o caratterialmente «predisposti» al disturbo psichiatrico, nei quali il
mobbing può agire come fattore destabilizzante, attivando quindi una patologia
preesistente, aggravandola o facilitandone la ricaduta.
Ciò rende pienamente ragione delle difficoltà che si presentano ai medici ed
agli esperti di volta in volta chiamati ad esprimere un parere diagnostico e medico legale nell’ambito delle controversie aventi come oggetto le patologie da
mobbing, ma non esime dal poter affermare che il fenomeno rappresenti una realtà oggettiva da prendere in seria considerazione sul piano dell’allarme sociale.
La stessa vittima del mobbing, spesso entra nel gioco in modo assai attivo,
agendo in modo tale da non bloccare il processo. La stessa vittima, in effetti, si
osserva, può divenire il peggior persecutore di se stesso.
I suoi tentativi di risoluzione del problema spesso contribuiscono ad aggravare progressivamente il quadro relazionale ed anche quello patologico.
Importantissimo in questi casi è il continuo rapporto tra psichiatra o psicologo clinico ed avvocato. Nella gestione di un caso di mobbing entrambe queste
professioni forniscono al cliente un aiuto diverso e complementare. Oltre al legale ed allo psichiatra o psicologo, in un caso complesso di mobbing spesso intervengono anche il medico del lavoro, il sindacalista ed il medico legale. Tutte
queste professioni devono saper parlare e collaborare nell’interesse del cliente.
Lo «stress da capo», cioè il «mobbing», sta assumendo proporzioni assai
preoccupanti, tanto da indurre un gruppo di parlamentari a presentare un progetto di legge affinché venga riconosciuto come malattia professionale.
Il sindacato è da tempo mobilitato per arginare questo grave fenomeno, avvalendosi anche della collaborazione dell’Associazione italiana contro lo stress
psicosociale. Il problema che, secondo un’indagine compiuta dall’Unione europea, sta interessando oltre 12 milioni di lavoratori coinvolge anche le aziende,
che vengono a subire una minore resa produttiva.
Ci sono tre cose capaci di rendere il lavoro estremamente stressante:
a) un ritmo esasperato, sempre sotto l’assillo di fare in fretta, di fare di più,
di correre avanti e indietro. (Chi lavora con l’ansia, alla preoccupazione della
produttività, consuma almeno tre, quattro volte più energia di chi lavora con
calma e senza costrizioni);
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b) continue interruzioni del lavoro che si sta svolgendo, per badare ad altre
cose;
c) lavorare o studiare avendo altre cose o preoccupazioni che assillano.
Lo stress correttamente inteso non è la causa o un insieme di cause concomitanti, bensì la reazione o l’insieme di reazioni psicologiche e fisiologiche a determinate situazioni o eventi.
Lo stress, quindi, non è la causa di un disagio, ma la reazione del cervello
ad essa.
Lo stress biologico è creato dal cervello, in risposta, a stimoli reali o immaginari. Le molte risposte fisiologiche associate allo stress aiutano a proteggere
il corpo ed il cervello dai pericoli che ha innescato causando dolore fisico o
psicologico.
Il Dr. Hans Selye, biologo dell’università di Montreal (Canada), descrisse
lo stress intorno al 1936 per la prima volta: stava compiendo esperimenti nel
corso dei quali iniettava a dei topi vari preparati ghiandolari.
Il termine stress, significa in inglese: pressione, sollecitazione e sforzo ed è stato usato proprio per indicare questa spinta a reagire esercitata sull’organismo.
Viene definito tra gli anni ’73 e ’75 quale sindrome generale di adattamento,
ossia chiave interpretativa per lo sviluppo psicogeno ad una serie disturbi per
la loro natura legati ad una eziologia psichica piuttosto che organica.
Il termine stress indica le modificazioni che avvengono nel nostro corpo e
nel nostro cervello di fronte a stimoli, richieste o pressioni da parte del mondo
esterno.
Quando un lavoratore si trova in situazioni negative per la propria sopravvivenza esistenziale, è possibile che si sviluppino comportamenti persecutori.
Lo stress nasce inoltre dalla percezione di essere incapaci di risolvere le difficoltà che si presentano.
2. Il terrorismo psicologico nell’ambiente di lavoro
Alcuni ricercatori tendono ad individuare, oltre alla qualità dell’ambiente
di lavoro, altri possibili concause che intervengono nell’insorgenza del fenomeno.
Mentre secondo Leymann le variabili relative alla personalità dei soggetti
mobbizzati non sono da considerarsi come concause potenziali di mobbing,
Zapf sostiene che tra le vittime di mobbing, esistano gruppi di persone con disturbi d’ansia e depressivi preesistenti.
Poiché tali soggetti presentano deficienze nel comportamento sociale ri-
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spetto ai colleghi, ciò li rende più esposti al rischio di divenire vittime nel contesto lavorativo.
Baron e Folger hanno posto l’attenzione sul modello comportamentale c.d.
di tipo «A». Questo modello individua personalità che hanno una forte tendenza all’irritabilità interpersonale e che percepiscono gli altri come ostacoli
nel raggiungimento dei propri bisogni personali. Secondo questi autori la tipologia di persone in esame, assume una potenziale auto pericolosità nell’ambiente lavorativo e la loro tendenza al disfattismo ed alla non fiducia nel prossimo, li porta al mobbing.
Secondo questi autori, a differenza di Leymann, situazioni pregresse, coinvolgenti sintomi e stati d’animo particolari, determinano il rischio del mobbing
determinandone genesi e sviluppo.
Sembra, sempre secondo gli studi più recenti, che uno studio plurifattuale
del fenomeno, possa renderlo maggiormente conoscibile.
A causa della presenza di un elevato numero di variabili, il mobbing è un
fenomeno che ben si presta ad essere indagato secondo una prospettiva multidisciplinare, che si avvale del contributo di professionisti appartenenti a campi
differenti, raggruppabili in tre macrocategorie: Medicina (medico competente,
psichiatra, medico legale, medico del lavoro), Psicologia (psicologi clinici e psicologi del lavoro) e Giurisprudenza (avvocati e magistrati).
I ricercatori hanno utilizzato una gamma di metodi di ricerca sintetizzabili
in tre importanti categorie.
Vi sono i metodi «interni» al soggetto mobbizzato, che si focalizzano sulla
valutazione della sua esperienza soggettiva di mobbing: a tale approccio appartengono metodi quali i questionari, le interviste, i focus group, i resoconti personali attraverso diari ed alcune tecniche proiettive.
Vi sono poi i metodi «esterni», che prendono in considerazione il contesto
entro cui si colloca l’esperienza di mobbing. In tale prospettiva occorre osservare il lavoratore con diverse tipologie di osservazione: a questo proposito saranno utili interviste o questionari somministrati ai colleghi di lavoro, oppure
registrazioni audio e video nonché lo studio di documentazioni provenienti
dagli uffici delle risorse umane.
Esistono infine i metodi «integrati» che utilizzano ed integrano tra loro sistemi sia interni che esterni.
La metodologia più utilizzata è quella riferita alla misurazione della percezione di mobbing, consistente nella rilevazione di un’esperienza soggettiva.
Ad essa potrebbe non corrispondere, per diverse ragioni, un’effettiva presenza, nel contesto di lavoro, del mobbing stesso.
Attraverso queste tipologie di rilevazioni le risposte potrebbero anche essere intenzionalmente alterate e si potrebbero riscontare delle inesattezze dovute
alla caducità dei ricordi e delle testimonianze sui fatti.
La psicologia del lavoro, l’ambiente. Gli strumenti di tutela d’urgenza
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Come di recente rilevato da Cowie (1999), non sono state a tutt’oggi sviluppate metodologie di valutazione pienamente condivise e accettate.
Il mobber, può far leva su regole organizzative suscettibili di frustrare la professionalità del mobbizzato, saturandolo di incongruenze, discrepanze, ambiguità. Per questo il mobbing non può essere considerato semplicemente come
una serie di comportamenti e atteggiamenti individuali caratterizzate da angherie e soprusi, terrore e isolamento. Esso è qualcosa di più, in quanto testimonia anche a quali patologie relazionali possa contribuire una specifica logica organizzativa.
Come indicato dall’Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del
Lavoro, viene usato dagli operatori degli sportelli antimobbing un questionario
che non misura una psicopatologia, ma dà un indice del disagio lavorativo esplorando tre grandi aree che includono le caratteristiche principali del mobbing.
La condizione psicofisica dei soggetti si evince dai colloqui effettuati e viene poi spesso confermata da un’analisi approfondita condotta attraverso l’uso di
test psicologici che possono rilevare tratti di sofferenza psichica.
Il Conflitto può essere spesso fonte di energia, fonte di crescita ma può divenire controproducente quando apporta conseguenze negative, determinando una diminuzione della produttività, un abbassamento del morale dei lavoratori, l’innescarsi a catena di altri conflitti
Ad affrontare i problemi inerenti al mondo del lavoro possono essere persone competenti, in campi diversi, che possono porre tra loro integrazione di
conoscenza e correlazione:
a) lo psicologo del Lavoro;
b) lo psicologo clinico;
c) lo psichiatra;
d) il medico competente;
e) il medico legale;
f) l’avvocato del lavoro.
3. La dequalificazione e il quadro normativo
3.1. Il quadro normativo attuale nazionale ed estero
Negli anni, data la complessità della fattispecie, coinvolgente diverse ipotesi fattuali di dequalificazione e mobbing, vi è stata la costante ricerca di una
disciplina giuridica che permettesse, da un lato, la tutela del lavoratore ed il
risarcimento per i danni subiti in conseguenza dei comportamenti persecutori
sul lavoro e che, dall’altro, sanzionasse e scoraggiasse detti comportamenti.