Dai Campi Flegrei alla fabbrica, dalla fabbrica ai Campi Flegrei. La

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Dai Campi Flegrei alla fabbrica, dalla fabbrica ai Campi Flegrei. La
“Città-campagna: la sociologia di fronte alle trasformazioni del territorio”
Autore: Emilio Gardini
Ente di appartenenza: Dipartimento sociologia e comunicazione, “Sapienza”, Università di Roma.
E- mail: [email protected]
Sessione: Ricerca
Dai Campi Flegrei alla fabbrica, dalla fabbrica ai Campi Flegrei. La riqualificazione urbana
dell’area ex-Italsider di Bagnoli.
Emilio Gardini
La trasformazione urbana è il processo che descrive la città contemporanea e la sua nuova immagine.
Attraverso le dinamiche di riqualificazione urbana delle aree dismesse, le città recuperano la loro immagine
originaria e la connotano di nuove dimensioni tecnologiche e sostenibili. L’ambiente, la natura e la
tecnologia diventano i vettori del nuovo modo di intendere la città. Il case study dell’area dismessa exindustriale del quartiere di Bagnoli della città di Napoli, dove sorgeva l’Italsider, l’acciaieria che ha visto
occupati circa 10.000 operai, è attualmente uno dei più grandi siti in riqualificazione d’Europa che vedrà nel
corso degli anni la sua trasformazione in un luogo in linea con l’ambiente e la natura. La riqualificazione
urbana cerca nel passato dei Campi Flegrei, l’area geografica di cui il quartiere di Bagnoli fa parte, gli
elementi che permetteranno a questa zona di rigenerarsi dopo la fine della fase industriale.
Parole chiave: Riqualificazione urbana, aree dismesse, Bagnoli.
***
«Bagnoli, in questo periodo (tra il 1904 e 1910) è un grosso borgo che s'allarga
oltre la grotta di Posillipo scavata nel tufo, lunga, grigia, con la doppia fila dei
fanali, percorsa dal fragore dei veicoli e dallo schioccare delle fruste. Una larga e
anonima via bianca di siccità e arsa di polvere, in mezzo a una campagna
monotona dove ogni tanto sorge un villano in mutande e camicia con la vanga
sulle spalle, con sparse case coloniche dall'intonaco affumicato e dagli usci
polverosi come in una stampa del Vianello, con talune locande per occasionali
amanti clandestini, con vari ristoranti piuttosto pretenziosi sulla riva del mare
intervallati dalla rotonda di legno di qualche stabilimento balneare tutto merli,
pinnacoli e cuspidi, costruito sui modelli dell'Arte del Traforo» (Prisco, 1961, 13).
Siamo agli inizi del ‘900, nella zona occidentale della città di Napoli, tra il Golfo di Napoli e quello
di Pozzuoli, nella piana di Coroglio-Bagnoli, di fronte alla penisola di Nisida e sotto il costone di
Posillipo, allora non abitata che da poche case. Un’area che diventerà la sede di una delle più grandi
industrie siderurgiche del sud d’Italia che arriverà ad occupare, insieme con l’indotto che le
gravitava intorno, più di 10.000 operai. Una fabbrica siderurgica a ciclo integrato che sorge sul
mare nei primi del ‘900 per volere della commissione per lo sviluppo e la crescita della città di
Napoli istituita nel 1901 da Francesco Nitti, al fine di risolvere la critica situazione della città in
termini produttivi e socio-economici. A metà ottocento sulla spiaggia di Coroglio c’è già qualche
piccola azienda, uno stabilimento di prodotti chimici di Ernesto Lefevre e le vetrerie Melchiorre
Bournique, ma l’industrializzazione vera e propria inizia nel 1905 con la costruzione del grande
stabilimento siderurgico fondato dalla società anonima Ilva, che poi diventerà del gruppo I.R.I.
negli ani ’30 e muterà la sua ragione sociale in Italsider, in seguito alla fusione con la Cornigliano
S.P.A. nel ’61, proprio nell’anno in cui viene pubblicato il libro di Prisco da cui è tratto il trafiletto
che introduce questo paper.
Nella descrizione di Prisco la terra arida e anonima è abitata da contadini che vanno in giro
seminudi in un contesto desolato che non si confà alla modernità. La zona sui cui sorgerà la grande
fabbrica è descritta come un grosso borgo con poche locande per amanti e qualche squallido
ristorante sul mare, “architettato” in modo così pretenzioso da sembrare quasi finto, come fatto col
traforo. È chiara nella descrizione di Prisco quella “spinta modernista” che vede nello sviluppo
industriale e nella vita urbana la vera essenza dell’uomo moderno. È la città la dimensione che più
si confà all’individuo moderno, che proietta verso il progresso.
Il giorno dell’inaugurazione dell’Ilva nel 1910 il Duca d’Aosta esclamò «Sembra uno dei più grossi
stabilimenti di Manchester!» (Prisco, 1961). L’industria rendeva la città di Napoli come le altre
grandi città europee, moderne e industriali; finalmente in un sud Italia che ancora stentava ad essere
come il nord si passava al modo di produzione industriale. Ecco cosa riporta “l'anonimo cronista” la
domenica 19 Giugno 1910, il giorno dell’inaugurazione:
«Era tutta gente costretta, dalle contrade di Fuorigrotta, Bagnoli, Pozzuoli, ad
emigrare ogni giorno a Napoli, per stentare un po' di guadagno in un lavoro
faticoso, che li rimandava stanchi e abbattuti, ogni sera, con la pioggia e con l'afa,
alle loro case lontane. Ora essi hanno il lavoro proficuo presso la loro casa, il
guadagno sicuro a due passi dalla moderna casetta (corsivo mio), e possono ben
auspicare alle sorti di questo immenso, colossale (il più grande in Italia)
stabilimento che dà loro il lavoro, l'agiatezza, la serenità dell'avvenire» (Prisco,
1961, 31).
Processi di urbanizzazione. Città vs campagna
Il processo di urbanizzazione ha caratterizzato la storia dei paesi industrializzati occidentali
addensando le esperienze del passato in un modello completamente nuovo di vita. Il passaggio dalla
vita rurale alla vita urbana è stato per gli individui ciò che ha segnato il nuovo modo di percepire lo
spazio della convivenza. Intorno ai primi del XIX secolo iniziano i primi grandi spostamenti verso
le città che vengono intese come luoghi della possibilità e della libertà per i nuovi venuti. La
differenza con la vita rurale è totale, i ritmi della vita e del lavoro cambiano, il legame con il tenore
di vita della natura si rompe e le relazioni sociali si fanno sempre più complesse ed ampie. Il
mutamento pervade tempo e spazio; ai tempi della vita rurale si sostituiscono i tempi della città,
dell’industria, del lavoro salariato, condizioni che segnano la struttura labile della nuova vita sociale
che iniziano a dar forma a quella che sarà la vita della città industriale. E con la città industriale
nascono i suburbi urbani dove, nei pressi delle fabbriche, vivevano gli operai in alloggi di fortuna
senza i minimi livelli di comfort e igiene, file di case con il minimo della sussistenza costruiti dai
Jerry Builders (Benevolo, 1998) speculatori che edificavano velocemente e con materiali scadenti.
Le città industriali, sorte in Europa per prime in Inghilterra nel periodo liberale, vedevano sorgere i
suburbi operai molto vicini alle fabbriche (Lichtenberger, 1993, 60) ad una distanza tale da poter
essere percorsa a piedi.
Ne La situazione della classe operaia in Inghilterra di Engels (Engels, 1973), il racconto della
miseria che coinvolge un’intera classe sociale della società, alla quale era assicurata solo la
sopravvivenza, è molto forte. Insediamenti operai putridi con il minimo necessario, senza
infrastrutture e servizi. Molti erano probabilmente abituati a vivere in condizioni difficili perché
venivano dalle campagne, ma la vita della città era effettivamente il peggio che potesse essere.
Nonostante ciò, lo stesso Engels che si oppone fortemente al potere borghese industriale, parla di
“idiozia della vita contadina”; ciò che fa sorgere nelle masse la coscienza della propria situazione è
la condizione operaia e la vita urbana. La città industriale è per Engels “anche” il luogo necessario
che ha in sé le condizioni per la liberazione delle masse dal giogo del capitalista.
Alla forte urbanizzazione che spinge persone verso la grande città in cerca di lavoro nelle fabbriche
segue un processo di ghettizzazione che segna la zona limitrofa alla fabbrica come la zona in cui
risiedono le classi operaie; quelle che erano state le “classi popolari” delle realtà rurali, considerate
ormai come “sopravvivenze” di un mondo che aveva lasciato il passo alla società urbana. La storia
di quelle che Antonio Gramsci chiamava “classi subalterne” (Gramsci, 2007), sarebbe stata poi la
storia del proletariato urbano.
La pianificazione urbanistica andava di pari passo con la logica modernista della zonizzazione e
vedeva la pianificazione funzionale al progetto sociale, dibattito sempre aperto questo
nell’urbanistica moderna, fino a condurre a nuove posizioni ideologiche fortemente critiche. È negli
anni 60’ del XX secolo, che una prima forte critica alla pianificazione urbana moderna viene da
Jane Jacobs, sociologa che pubblica Vita e morte delle grandi città (Jacobs, 1969), un saggio che si
scaglia contro la piattezza urbanistica modernista accusata di non rispettare la differenza della
popolazione delle città generando ghettizzazione e criminalità diffusa. La Jacobs propone un nuovo
modo di guardare alla città; non bisogna considerare solo le sue funzioni strutturali, ma anche e
soprattutto la sua configurazione sociale, le sue prassi. La razionalità nella pianificazione non
sembra rispondere, secondo la Jacobs, alle esigenze dei cittadini, i suoi attacchi sono contro quella
che definisce «urbanistica ortodossa».
Il territorio urbano si estende in modo “invasivo” e, sempre negli anni sessanta viene coniata in
America una nuova parola che resta fortemente in uso anche in Italia, lo sprawl, che «indica la
crescita urbana senza forma (che) letteralmente significa “sdraiato”» (Ingersoll, 2004, 8). Lo urban
sprawl è l’urbanizzazione dello spazio rurale, lo sfaldamento della città che perde la sua unicità
territoriale dove i terreni rurali si trasformano in aree edificate (Licthenberger, 1993, 17), un
processo di suburbanizzazione esteso che comprende un ambito territoriale più ampio e meno denso
(Mela, 2006, 211).
Questo fenomeno, che in Europa si manifesta certamente in modo diverso rispetto agli Stati Uniti,
genera un’estensione senza limiti dello spazio urbano che trova spiegazioni nei processi di
suburbanizzazione successivi all’affermazione della fase fordista del capitalismo. Risulterebbe
riduttivo in questi casi parlare di segregazione o di esclusione verso l’esterno, è opportuno rilevare,
invece, come questo modo di annientare la concezione spazio-centrica della città genera un nuovo
modello di città, la città diffusa. Tra centro urbanizzato compatto e periferia consolidata nasce una
fascia periurbana ampia, a minore densità abitativa ma che colma gli spazi interstiziali (Mela, 2006,
210). Lo spostamento dal centro delle città è certamente dovuto a motivi di tipo economico, i prezzi
più bassi delle abitazioni per esempio, o dal fatto che da queste aree è possibile muoversi con le
auto verso il lavoro rispetto a quanto si possa fare dai centri urbani, o ancora, da una sorta di
desiderio di ritorno al verde (Ingersoll, 2004) che vede nella distanza dal centro urbano la soluzione.
Ciò che però maggiormente è interessante, è la nuova configurazione spaziale che genera lo sprawl,
un nuovo assetto urbano che crea “spaesamento” rispetto al carattere maggiormente connesso della
città storica (Ingersoll, 2004, 9), che di conseguenza porta a ripensare le categorie dicotomiche
centro/periferia e i processi d’interazione urbani. Da qui l’idea di una città a più centri, dove però la
spazialità delle relazioni trova territori reticolati ma allo stesso modo dispersi che generano processi
di ritorno e fuga dalla città, dove non contano più i concetti di intimità, solidarietà, ma sono
necessarie nuove categorie che comprendano la differenza interna alla vita metropolitana nella sua
morfologia più estesa.
Le utopie urbane
Il rapporto tra città e campagna è, in modo ricorrente, rappresentato da una ambivalenza di fondo:
da una parte la “purezza” della vita rurale, caratterizzata talvolta da una vita semplice e a-moderna e
dall’altro la città, emblema della vita moderna, simbolo del progresso, del capitalismo. Queste
associazioni assiomatiche che la sociologia classica prende a modello per categorizzare le diverse
forme della trasformazione del vivere sociale, diventano elementi che connotano poi delle
dimensioni sociali alle quali corrispondono, un sistema comunitario da una parte e un sistema
societario dall’altra. Si tratta ovviamente solo di modelli che hanno descritto il mutamento che la
città ha visto nel corso degli anni, e non certamente di “assolutizzazioni” teoriche ma, nel tempo,
dal punto di vista della pianificazione invece, vere e proprie correnti “ideologiche”, hanno cercato
di realizzare la forma urbana in base a queste propensioni. Nell’arco del XX secolo questi due
modelli hanno visto una certa fusione che iniziava a declinare la complessità che la città andava
assumendo man mano che le sue dimensioni si trasformavano, ma è nel XIX secolo che gli studiosi
che si occupano di città iniziano a preoccuparsi della sua forma e della sua funzione (Parker, 2006,
76). Si incomincia a pensare anche alla città come modello, come qualcosa che si può trasformare e
sulla quale si può intervenire. È il caso del sogno utopico di Ebzner Howard e della garden city, che
fondava le basi per una pianificazione urbana che non annientasse del tutto l’idea “moderna” di città
ma si fondesse con essa attraverso una costellazione di città satelliti ben collegate con la city
centrale con degli spazi verdi di cesura che separano dalle parti edificate (Howard, 1902). Il
progetto di Howard sottendeva un valore comunitario di fondo che coniugava l’idea di città
giardino semi-autonoma alla grande città centrale. Di qui le città giardino si sono diffuse, più o
meno criticate da architetti e urbanisti, sono state, in qualche caso, la risposta alla “urbanizzazione
industriale diffusa”. Questo succede anche in un quartiere limitrofo all’area ex Italsider di Bagnoli,
Cavalleggeri d’Aosta, un quartiere che nasce negli anni ’60 - edificato per gran parte dal Piano Ina
Casa - che diventa residenza di moltissimi operai della fabbrica. È un quartiere che non ha una
struttura ben definita, non ha una forte imaegebility (Lynch, 2006), non è storicamente consolidato
come Bagnoli - dove già negli anni ’80 dell’800 il Conte Giusso, proprietario dei terreni, costruisce
il Rione Giusso - e non presenta elementi importanti che lo rendano un luogo “riconoscibile”. La
parte interna al grande viale centrale Cavalleggeri d’Aosta del quartiere è composta di case basse e
villette con giardini, qualche piccolissimo spazio con giardinetti pubblici sul modello della garden
city, che sono chiaramente la risposta che negli anni ’60 si vuole dare alla presenza di un così
grande sito siderurgico. Cavalleggeri d’Aosta è un quartiere oggi “molto anziano”, gran parte dei
residenti sono ex operai della fabbrica, e la dismissione dell’Italsider lo ha reso negli anni sempre
più un quartiere anonimo. Il processo di riqualificazione urbana della zona occidentale della città di
Napoli riguarda anche questo quartiere, nello specifico per interventi di tipo commerciale e
residenziale. Edificare un quartiere sul modello della città giardino, come è avvenuto in questo caso,
è una operazione urbanistica tipicamente “moderna” che dà risposta a condizioni socio-abitative di
fronte alla preesistente presenza del polo siderurgico. Si può definire un modello classico di
urbanizzazione che risponde a criteri specifici; da una parte la fabbrica dall’altra il verde urbano
secondo la formula dei giardinetti di una semi-periferia urbana.
Oggi, se guardiamo qualche caso di rigenerazione del territorio in ambito extra-europeo, avviene
qualcosa di diverso; i quartieri periferici esistono già ed hanno una configurazione abbastanza
solida, ciò che si tenta di fare invece, sono invece interventi al loro interno in direzione della qualità
urbana che diviene indicatore della qualità della vita. Negli Usa, per esempio, un certo tipo di forma
urbana, “postmoderna, nostalgica e post-periferica” - parafrasando il geografo urbano Edward Soya
- è voluta dal movimento del New Urbanism come risposta alla diffusione sprawl. Si tratta di una
corrente urbanistica contemporanea che coniuga le condizioni urbane preindustriali alla condizione
della città contemporanea (Soya, 2007, 287). I padri di questo movimento neotradizionale sono
Andres Duany, Jeff Speck, and Elizabeth Plater-Zyberk che nei loro progetti cercano di reintegrare
delle componenti della vita moderna – abitare, luogo di lavoro, shopping e svago - con dei quartieri
che siano compatti, percorribili a piedi, ad uso misto (Saab, 2007, 192). Con la loro svolta
“nostalgica” enfatizzano la “reintegrazione e la re-vitalizzazione” «presumendo l’esistenza di
un’integrata e vitale comunità come in passato» (Saab, 2007, 192). Questo movimento urbanistico
cerca di “re-instaurare” le qualità della vita urbana premoderna secondo una fusione tra i due
paradigmi teorici “modernismo e post-modernismo” (Hirt, 2009). Secondo la Hirt questo
movimento urbanistico interviene rigenerando città e quartieri americani non solo proponendo degli
interventi, ma proponendo stili che mescolano tendenze, sostenibilità, riciclo e consumi locali,
cercando in qualche modo di veicolare dei valori urbani. Questo movimento urbanistico persegue
una sorta di struttura tradizionale di quartiere a bassa densità e dispersione con un certo livello di
verde e con spazi pubblici che favoriscono l’incontro e lo spazio pubblico. È un modello urbano
utopico che cerca nella dimensione sociale del passato la forma della città contemporanea; Soya
considera infatti questo movimento «una banalizzazione storica contemporanea dell’ideale di città
nuova, piena di riferimenti nostalgici alle piccole cittadine e agglomerati urbani della vecchia
America riversati sulle outer cities e sulle inner cities odierne» (Soya, 2007, 289).
Il caso del New Urbanism è indicativo ai fini di ciò che diventa la città oggi; una componente
sociale che incorpora i valori urbani che la sociologia classica di Simmel, Benjamin e Durkheim
aveva indagato tra la fine del XIX° e l’inizio del XX° secolo, proiettando le sue tendenze culturali
verso un ripescaggio di istanze che generano una nuova forma urbana. La rigenerazione della città
avviene non più quindi in relazione a posizioni antitetiche, che pongono una di fronte all’altra la
città e la campagna, l’urbanesimo e il verde, viceversa avviene in relazione a modelli glocal,
modelli che integrano gli elementi della metropoli contemporanea con le dimensioni nostalgiche
della cittadella tradizionale in versione technocity.
Bagnoli dopo l’industria. Ritorno al passato
Negli anni ’70 e ’80, negli Usa e in Europa, la città ormai consolidata - che si era venuta a costruire
intorno al modello industriale – “vera espressione” della città moderna, incomincia a cambiare
dimensione di fronte al mutamento del sistema produttivo. Iniziano ad essere dismesse molte aree
delle città, industrie, stabilimenti, infrastrutture, e si iniziano a porre le basi per quelle che saranno
le città post-industriali. Il mutamento del sistema produttivo non implica solo il mutamento nella
struttura socio-economica della città, ma sarà anche il motivo per “pensare” diversamente la città.
Le periferie urbane non sono più solo le periferie industriali, ma diventano la sede delle città
giardino, dei luoghi del “consumo”, dei grandi shopping malls. Molte periferie diventano parte
integrata della città in seguito alla forma “diffusa” che assume la configurazione urbana, altre,
ancora restano “fuori” dalla spinta accentratrice della città “direzionale” divenendo i luoghi della
marginalità. Bagnoli può essere definita una semi-perferia per il suo carattere urbano tipico dei
quartieri napoletani, che sono “in parte dentro in parte fuori dalla città”; geograficamente è l’ultimo
quartiere della zona occidentale ma è, data l’estensione non molto ampia della città di Napoli, poco
distante dal centro storico e ben collegato con esso attraverso le linee ferrate della metropolitana e
della cumana. Una sorta di quartiere cerniera nei Campi Flegrei, una cerniera tra la città e la linea di
costa occidentale che si estende verso Pozzuoli, Bacoli, Torregaveta. La nascita della grande
fabbrica lo rende un quartiere periferico urbano che diventa centro di una singolare socialità in
seguito alla storia industriale, simbolo per l’intera città di Napoli, e per il suo carattere
“comunitario” che condensa l’esperienza operaia del passato con la “rappresentazione”, oggi, di ciò
che essa è stata. Il quartiere presenta una struttura urbana con stradine ortogonali che si incrociano e
convergono verso il viale centrale Campi Flegrei che ne fa un piccolo centro urbano. Bagnoli può
definirsi un quartiere urbano “popolare” di costituzione storica.
L’industrializzazione a Bagnoli inizia nel primo decennio del ‘900 e negli anni ’70 i primi segnali
di crisi della siderurgia europea porteranno a limitare la produzione e alla definitiva chiusura dello
stabilimento nel 1993. Questa fase segna la fine del ciclo industriale e l’inizio del nuovo modo di
concepire la città. Oggi l’area ex Italsider dismessa negli anni ’90, dopo una fase molto lunga per
l’approvazione dei piani che si conclude nel 2005 con l’approvazione del Piano Urbanistico
Esecutivo (PUA) che stabilisce definitivamente quanto affermato nella Variante del 1998 al PRG, è
diventata un’area in trasformazione che concerne nel suo progetto di riqualificazione una sorta di
legame con i Campi Flegrei come luogo “mitico” legato al mare, alla natura, ai balneolis dell’età
greco-romana.
Il case study di Bagnoli e del processo di riqualificazione urbana dell’ex area Italsider, descrive
bene la trasformazione che vede la città nel suo ritorno ad una dimensione “sostenibile” legata al
passato e alla natura in proiezione del futuro. Questo carattere ambivalente connota gran parte delle
trasformazioni di molte grandi città in seguito ai processi di dismissione industriale; un ritorno al
passato e al rinvigorimento dell’ “identità locale” integrato da condizioni ambientali e tecnologiche.
Quello stesso territorio arido della piana di Bagnoli descritto da Prisco nella pubblicazione del 1961
diventa il luogo della vocazione naturalistica e ambientale dei Campi Flegrei nella variante al
P.R.G. del 1972 che stabilisce i criteri della trasformazione per la zona occidentale e nell'opera
divulgativa della Società di Trasformazione Urbana BagnoliFutura che si occupa della
trasformazione dell’ area.
Nella variante al P.R.G. l’idea è quella di riqualificare questa zona che è stata industriale in linea
con il turismo e con i servizi così da avvalorare le caratteristiche “suggestive” del territorio in una
direzione ben precisa. La STU BagnoliFutura che ha il ruolo, non solo di trasformare ma anche di
commercializzare le aree, fa convergere la sua politica in questa direzione creando, nella
commissione ai progettisti, quel legame tra passato e presente che ritrova nella natura e
nell’ambiente la nuova forma della città.
Nel progetto di riqualificazione urbana che stabilisce la variante al PRG approvata nel ’98, il
territorio da riqualificare viene ripartito in 9 aree tematiche che prevedono la costruzione di un
grande Parco Urbano che occupa circa un terzo di tutto il territorio. Il parco, definito come il
polmone verde della città, integra la parte del quartiere di Bagnoli pre-esistente con questa nuova
dimensione fruibile della città. Nel parco non potranno esservi cubature e rimarranno solo 16
elementi di archeologia industriale che verranno riconvertiti secondo altre funzioni. Nell’area 2,
contigua al Parco Urbano, sorge La Porta del Parco, un grande centro del benessere, ormai ultimato,
per il quale si sta procedendo al bando d’assegnazione. Si tratta di un complesso polifunzionale che
rimanda alle antiche tradizioni termali del luogo, ai balneolis dei Campi Flegrei.
Le aree tematiche prevedono tutte quindi la suddivisione del territorio in strutture turistico-ricettive,
per i servizi, il tempo libero, la cultura e la ricerca. Nell’area tematica 4 sorgerà il Polo Tecnologico
dell’Ambiente, un centro di ricerca per la produzione di servizi tecnologici per l’ambiente promosso
dalla Camera di Commercio di Napoli ed il Centro di competenza sui rischi ambientali AMRA.
L’area in trasformazione è una trama di territorio molto ampia di 300 ettari, di cui solo una minima
parte sarà destinata ad abitazioni (edilizia popolare convenzionata e sovvenzionata), nello specifico
nelle aree tematiche 3 e 5, rispettivamente Cavalleggeri e Diocleziano-Campegna. Nell’area
tematica 9 sorgerà il Parco dello sport, un centro sportivo attualmente in costruzione, le cui forme a
crateri “riprendono la morfologia dei luoghi e la natura vulcanica dei Campi Flegrei”, come si nota
dalle ricostruzioni digitali del progetto visibili on line. Nel rendering video si vede un progetto dove
le strutture del parco si integrano con la vegetazione esistente alle falde della collina di Posillipo.
L’area in trasformazione di Bagnoli viene così ridisegnata come un habitat dove l’ambiente e la
tecnologia hanno un ruolo importante. Il piano proietta Bagnoli indietro nel tempo verso un passato
“mitico”, quello dei Campi Flegrei, dei baneolis, dei luoghi termali, del mare e della natura, tutti
elementi che la fabbrica ha sottratto ai luoghi ma salvaguardato dalla speculazione edilizia, come
sostiene il prof Rocco Papa, presidente della STU BagnoliFutura, nelle sue dichiarazioni. Le qualità
ambientali del luogo vengono sempre più “esaltate” dalla STU BagnoliFutura e, in sostituzione
della fabbrica che ha dato lavoro ma anche inquinamento, arriva il “risarcimento” alla città e al
quartiere attraverso la valorizzazione dell’ambiente in linea con il turismo.
Bagnoli diviene così, nel piano di trasformazione dell’area dismessa, un luogo legato al suo passato
in chiave futura. La Bagnoli dei racconti degli anziani, quella del rapporto stretto col mare e con la
pesca, con la vita di quartiere, con la “comunità”, sembra intravedersi nel progetto di
trasformazione urbana, ma le speranze dei bagnolesi non sono tutte positive. Non tutti a Bagnoli ne
sono convinti anche se molti pensano che nel ritorno al passato ci sia la risposta per quello che sarà
un progetto per la rinascita. Le rappresentazioni collettive rimandano alla Bagnoli degli anni ‘40,
’50 e ‘60 del ‘900, col porticciolo, la spiaggia, il mare balenabile, un quartiere animato dagli operai
che vi trascorrevano del tempo; in più, oggi, nei Campi Flegrei, col grande progetto si pensa anche
ai turisti in un ritorno al “passato contemporaneo”. Le tante narrazioni che sopravvivono a Bagnoli,
come avviene in tutti i quartieri che conservano una memoria che si auto-perpetua nel tempo, si
mescolano con quello che sta accadendo, e l’oggi viene visto talvolta con speranza talaltra con
delusione, in un vortice di idee che compongono il ciclo della città di oggi. Lo spazio della natura
sembra poter essere riconquistato per diventare però ancora lo spazio della città.
Conclusione
I processi di riqualificazione urbana oggi segnano la trasformazione della città contemporanea. I
caratteri urbani si connotano di una dimensione ambientale che valorizza il verde e il senso del
luogo, la città diventa sempre più city lite (lite urbanism), una città leggera, senza definizione, una
città dei divertimenti dove intrattenersi, visitare, fare compere, fruire di servizi (Soya, 2007, 286),
ma che ripesca nella storia, rielabora e riproduce contesti, habitat e forme sociali. La city lite non è
una città senza storia, piuttosto la recupera, “la inventa” talvolta attraverso “l’architettura
simbolica” (Amendola, 1984). Il divertimento, il consumo, il tempo libero oggi incontrano la
dimensione urbana in una fusione di stili e di tempi: un ritorno alla forma originaria e pura quando i
luoghi erano privi di manufatti, un ritorno alla natura proprio quando la maggior parte del mondo è
urbanizzato. E la fabbrica resta come archeologia industriale che conserva la memoria operaia e le
rappresentazioni della comunità. I “vuoti urbani” si riempiono, la green city sostituisce la dark city
industriale, i muri delle fabbriche vengono abbattuti e la città si apre verso l’esterno, nascono i
parchi verdi, i parchi tecnologici, le città della cultura e della scienza.
Dov’è allora la relazione fra le due immagini di Bagnoli? Quella del terreno arido della fase preindustriale abitata dal “villano in mutande” e quella di oggi, dove si immagina un ritorno al verde
che valorizzi lo splendore dei luoghi. La risposta sta tutta nella città contemporanea, che si reinventa e si rappresenta, riproduce e recupera, conserva e dimentica, crea e distrugge, ricicla e
ricrea. La città postmoderna (Amendola, 2003), una città leggera ma attenta alla sua forma e alla
sua identità. L’antitesi tra verde e urbanizzazione probabilmente non esiste nella città di oggi, anzi il
verde ritorna ad essere il motivo per “urbanizzare”. Fare città significa oggi fare spazi sostenibili in
linea con il genius loci, anche se è ormai lontano nei tempi e sedimentato solo nell’immaginario.
Quale è allora il ruolo della sociologia di fronte al nuovo modo di concepire le trasformazioni
urbane? In una concezione “modernista”, spazio-centrica, di derivazione dalla città medievale dove
il centro è espressione del potere e delle sue funzionalità, la città accentra i suoi poteri; viceversa
oggi li disloca altrove, laddove sorgevano le fabbriche, i cantieri, gli impianti dimessi. E lo fa non
senza esercitare quello stesso potere che determina il policentrismo urbano. La trasformazione oggi
va letta in una chiave diversa; il mutamento è una dinamica che capovolge e ritorna, e poi
rivoluziona ancora. E il mutamento sociale è oggetto di studio della sociologia. Gli studi urbani
sociologici - spesso orientati alla sola comprensione della città – hanno bisogno sempre più di
intervenire “nella città”. La sociologia urbana non può più solo osservare le trasformazioni della
città ma deve dare contributi insieme con i progettisti. La produzione dello spazio (Lefvebre, 1978)
– per citare Lefvebre – diviene produzione della cultura dello spazio in una società come quello
contemporanea dove la produzione non è che la ri-produzione di modelli che poi si autodeterminano.
Herbert Gans parla di una sociologia dello spazio use-centered, orientata all’uso dello spazio che ne
fanno gli individui (Gans, 2002). L’effetto dello spazio sulla società è per Gans determinato
dall’azione degli individui, di conseguenza il modo in cui vengono costruiti gli edifici, abitati gli
spazi, i rapporti di vicinanza, il valore del territorio, sono tutte condizioni generate dall’agency
sociale. Questo avviene perchè il senso del luogo viene veicolato da una qualche pratica, ma ogni
luogo costruito, e al quale viene attributo senso, diventa poi “agente”, inizia a pervadere le pratiche
locali, “a contagiarle”, a sedimentare identità e culture che veicolano altre forme sociali e generano
altre condizioni di habitat. Il ruolo della sociologia è duplice allora: da una parte osservare l’uso che
gli individui fanno dello spazio per comprenderne le dinamiche di affiliazione al territorio, e
dall’altro osservare “lo spazio che produce luogo”, lo spazio nella sua forma materiale che genera
cultura, identità, contesti e altrettanti habitat.
Ma quali saranno le nuove trasformazioni della città? Quanto scrive James Ballard in un suo
racconto del 1976, Ultimate city, «La città definitiva» (Ballard, 2006) è interessante per la nostra
riflessione: in un tempo probabilmente non molto lontano dall’oggi la gente ha ormai abbandonato
le metropoli per vivere nelle società rurali autosufficienti, mangiando esclusivamente cibi
vegetariani, utilizzando macchinari per il riciclaggio e sfruttando l’energia solare. Halloway è un
giovane che vive in una di queste comunità, Garden city, dalla quale vola via con un aliante fino ad
arrivare oltre la laguna in una metropoli abbandonata abitata solo da un vecchio industriale,
architetto visionario, Buckmaster, da sua figlia Miranda, da Olds, un uomo di colore che parla
attraverso un calcolatore che porta sul polso e da Stilmann, un avanzo di galera. Il giovane cerca di
rimettere in vita la metropoli abbandonata diventando una sorta di nuovo fondatore, e con l’inizio
delle migrazioni dalle comunità rurali, riesce a far rinascere un nuovo sistema urbano che dà i suoi
primi segni di successo con l’esplodere del caos, dell’inquinamento, dei crimini. Quella di
Halloway è una vera e propria operazione di «rinnovamento urbano» che però sfocia nell’anarchia
più totale tanto da spopolare nuovamente la metropoli che finisce con l’essere abbandonata ancora
da tutti i nuovi venuti che fanno ritorno alle loro comunità rurali. Quanto scrive Ballard nel suo
racconto, è un po’, in termini paradossali, una buona rappresentazione della vita urbana: la
metropoli viene abbandonata per una vita “tecnologicamente” più sana e lasciata vuota al perimetro
della Garden city, poi si ripresenta la voglia di ritornarci, col desiderio di immergersi nel caos e nel
turbinio urbano, e poi l’abbandono e ancora un ritorno alla comunità rurale, per ritornare forse, in
futuro chissà, ancora una volta alla «città definitiva» (Ballard, 2006).
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