La via obbligata degli Stati Uniti d`Europa

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La via obbligata degli Stati Uniti d`Europa
La via obbligata degli Stati Uniti d’Europa
di Barbara Spinelli - Se è vero quello che disse una volta Jean Monnet –«l'Europa si fa nelle
crisi» –siamo davanti a un'occasione unica per diventare un'Unione autentica, capace di
pensare e agire con la propria testa.Unione non determinata all'esterno da Stati-tutori, non
corrosa all'interno dai vecchi imperativi dell'equilibrio fra potenze. È in crisi la sua economia, lo
sappiamo. Ma è in crisi anche la sua democrazia, perché pluralismo e alternanza sono sempre
più visti come ostacoli alle decisioni rapide, prese da pochi competenti: lo comprova il disastro
greco, e anche i timori che alcuni governi (Berlino in testa) sembrano nutrire verso la possibile
sconfitta di Sarkozy in Francia.
È poi in crisi la laicità, che della democrazia è condizione,
perché le chiese quando scorgono Stati fragili «si organizzano per vincere» (sono parole recenti
del cardinale Martini), non per affinare la capacità profetica, guardando lontano e profondo. Il
primato dato a non-negoziabili valori bioetici, il disinteresse manifestato soprattutto in America
per l'equità sociale, sono elementi di una lotta solo di potere.
Infine è in crisi la politica estera, legata in Europa agli schemi del dopoguerra e della guerra
fredda. Ignari delle mutazioni mondiali, gli europei faticano a prender atto che i centri di potere
si sono moltiplicati, che l'Occidente non è più ombelico dell'universo. Sono abituati a seguire
Washington, ma Washington non è più né l'autorità che ci garantisce come nella guerra fredda,
né il solo potere globale come supponevano Bush padre, Clinton, Bush figlio.
Che posizione hanno gli europei sul Mediterraneo, e su Israele, sull'Iran, sullo scontro fra Stati
sciiti e sunniti? Per ora non ne hanno alcuna: anche in politica estera esiste la tentazione del
laissez-faire (il mondo tolemaico che ruota attorno alla terra americana pensa per tutti noi). Ma
la svolta è vicina, anzi è già presente. Tocca prendere in mano il nostro destino, se non si vuol
ripetere l'inerzia e il non-pensiero che ci contraddistingue da vent'anni e più.
Se guardassero oltre il proprio naso, gli europei vedrebbero quel che sta succedendo nelle
presidenziali Usa. Vedrebbero che l'America è uno Stato debole, esposto a ogni sorta di
pressioni, e ansioso di liberarsene. Vedrebbero, sulla vicenda Iran, un'amministrazione che ha
proprie idee ma stenta ad attuarle perché incapace di imporre la condotta che ritiene razionale
a un minuscolo Stato – Israele – che ha il potere di condizionarla. Un potere abnorme, alla
lunga non sostenibile, dunque pericoloso per Israele stesso. Secondo Gideon Levy,
commentatore del giornale Haaretz, il peso è senza precedenti storici e finirà col ritorcersi
contro lo Stato ebraico. Non fosse altro perché chi difende Israele negli Usa (l'AIPAC, Comitato
Israele-America per gli Affari pubblici) rappresenta solo una parte del paese: i conservatori,
avvinti all'occupazione dei Territori da 45 anni.
In tre anni, Obama ha ceduto a tali pressioni, fino a seppellire i piani sullo Stato palestinese.
Ora Netanyahu lo spinge a posizioni bellicose sull'Iran, nel preciso momento in cui l'America,
spezzata da guerre perdute e inferma economicamente, non è pronta a nuovi atti militari. La
visita di Netanyahu a Washington, lunedì, ha confermato questo divario di esperienze e intenti,
dando l'impressione – falsa – di due potenze simmetriche. Domenica, all'AIPAC, Il Presidente
ha detto che «tutte le opzioni sono sul tavolo» (guerra inclusa), ma ha avversato «incontrollati
discorsi bellici»: «Per il bene della sicurezza di Israele, della sicurezza Usa, della pace e della
sicurezza del mondo, questo non è il momento di fare i gradassi».
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Netanyahu è avvisato: l'America non si farà trascinare in conflitti incontrollati, e senza lei
Netanyahu penerà a gettarsi in azioni militari. Resta il fatto che il suo governo entra nelle
elezioni Usa come primo attore, puntando su Obama disfatto.
Non è l'unico gruppo di pressione a operare in tal modo, profittando dell'indebolita democrazia
americana. Altre lobby (etniche, confessionali, finanziarie) la comprimono: ricordiamo gli
evangelicali o i cattolici. A proposito di questi ultimi sono preziose le analisi di Massimo Faggioli,
professore di teologia in Minnesota, sui giornali L'Europa o L'Unità. In maniera abnorme, anche
qui, la Chiesa influenza il voto Usa: con i cattolici bianchi attratti dai valori bioetici (la
contraccezione, oggi) e i cattolici non bianchi (neri, ispanici) «più attenti alle esigenze di
giustizia sociale che alla morale sessuale».
L'affievolirsi della sovranità politica americana, la sua dipendenza da poteri esterni e lobby
interne: sono deperimenti che dovrebbero indurre l'Europa a divenire potenza sovrannazionale
non solo economicamente, non solo per fare dei singoli debiti sovrani un comune debito
dell'Unione, ma anche in politica estera, di difesa. Così come non potremo in futuro affidare il
mondo multipolare a una moneta di riserva internazionale, il dollaro, che riflette i bisogni di una
sola nazione, così non possiamo affidare la nostra politica estera a una potenza fattasi più
influenzabile da paesi, chiese, interessi economici coi quali dobbiamo imparare a costruire un
nostro rapporto, fondato sulla lealtà e la storia d'Europa – compresa la storia degli ebrei
d'Europa – ma anche sulla laicità (esiste un imperativo di deconfessionalizzazione del mercato
e delle diplomazie, oltre che delle chiese). Il caso della Chiesa cattolica è significativo;
nonostante gli irrigidimenti anti-conciliari, in Europa è più difficile che i cattolici trascurino l'equità
sociale come in America.
L'America stessa non potrà farsi guidare da lobby sino a divenire loro ombrello e collettore.
Dovrà trovare se stessa, e – l'abbiamo visto – questo potrebbe sfociare in uno scontro con
Israele. Tornando a Teheran: la politica che s'impernia sul ricorso ineluttabile alle armi potrebbe
esser sostituita in un secondo tempo da altre visioni, fondate sull'arbitrato anziché la guerra. La
nuclearizzata Corea del Nord non minaccia il Giappone meno esistenzialmente di quanto
l'atomica iraniana insidi Israele – eppure Tokyo non ha lo stesso peso sulla politica
statunitense. Il 29 febbraio si è aperta una fase negoziale, giudicata con interesse
dall'Economist, ma Pyongyang non rinuncia alle testate che ha. Promette di congelare
l'arricchimento dell'uranio – in una sola centrale – in cambio di copiosi aiuti alimentari. Perché lo
stesso non potrebbe avvenire con l'Iran, un giorno? Perverso, nella storia nordcoreana, è che
dotarsi di bombe è stato propedeutico ai negoziati odierni. Questo conferma che nessuno Stato
può sopportare la spada di Damocle di una guerra preventiva continuamente minacciata. Prima
o poi, fatalmente, desidererà dotarsi dell'atomica e santuarizzarsi, proprio per poter meglio
trattare e aprirsi. È quel che ha fatto il Nord Corea. È quel che forse medita il governo iraniano.
Dipendere dall'America significa oggi, per l'Europa, dipendere da una democrazia scossa, da
un'economia fragile, da una difesa non più prodiga di garanzie. Vale la pena, per l'Europa come
per Israele, uscire dai ghetti e cominciare a costruire il proprio destino etsi deus non daretur,
come se non esistesse un Dio-custode oltre Atlantico. Quale amministrazione scegliere,
migliore di quella di Obama?
Nel 2014, cioè domani, si voterà per il nuovo Parlamento europeo. È sperabile che fra tanti
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partiti ce ne sia uno che abbandoni gli occhiali nazionali (non fanno vedere più nulla) e inforchi
gli occhiali cosmopolitici che vedano e progettino gli Stati Uniti d'Europa. La non – Europa già ci
è costata tanto, troppo. Il federalismo non è un'opzione tra le altre: è una via obbligata. Gli
Stati-nazione sono più gracili di un'unione. La storia americana, e i suoi regressi, ce lo mostrano
con evidenza.
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