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CESDI S.r.l. Centro di Ricerca e Documentazione Centro studi Documentazione Internazionali “Luigi Einaudi” V. Caboto 44 – Torino V. Ponza 4 – Torino RAPPORTO DI RICERCA LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA a cura di Giampiero Bordino, Egidio Dansero Torino, settembre 1999 Questo rapporto presenta i risultati di una ricerca svolta dal Cesdi srl (Centro Studi Documentazione Internazionali) e dal Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi” per conto della Compagnia di San Paolo. La ricerca è stata coordinata da Giampiero Bordino (Cesdi Srl) e da Egidio Dansero (Politecnico di Torino, Centro “Luigi Einaudi”). Alla ricerca hanno partecipato, oltre ai coordinatori, Giuseppe Russo e Giuseppina De Santis (Centro “Luigi Einaudi”), Giovanni Bressi, Rosella Barberis, Flavio Iano e Sergio Rossi (Cesdi srl), Luca Davico (Politecnico di Torino), Ruggero Cominotti (R&P), GianPaolo Vitali (Ceris/Cnr), Stefano Molina (Fondazione Giovanni Agnelli), Piero Bonavero (Università Cattolica di Milano), Sandro Lecca (Ufficio Studi CCIAA Milano) e l’Uniontrasporti (Milano). L’editing della ricerca è stato curato da Sabrina Cavallo. INDICE pag. 1 Demografia di Stefano Molina » 39 Sistemi formativi di Luca Davico » 53 La scatola nera della ricerca e sviluppo di GianPaolo Vitali » 73 Neoimprenditorialità di Giampiero Bordino » 99 Industria settentrionale: i limiti delle specializzazioni tradizionali e le nuove sfide di Giuseppe Russo e GianPaolo Vitali » 113 Il sistema dei servizi alle imprese di Flavio Iano » 133 Ricchezza, libertà, virtù. Il futuro del risparmio di Giuseppe Russo » 153 Il finanziamento del sistema imprenditoriale di Sergio Rossi » 167 La distribuzione commerciale di Sandro Lecca » 179 Il sistema dei trasporti a cura di Uniontrasporti » 191 Reti urbane e internazionalizzazione delle città di Piero Bonavero » 217 Il commercio estero di Rosella Barberis » 235 L’internazionalizzazione delle imprese: gli investimenti diretti da e per l’estero di Ruggero Cominotti » 251 Le prospettive dell’Italia settentrionale nel Duemila: una lettura di sintesi di Giampiero Bordino » 271 Le prospettive dell’Italia settentrionale nel Duemila: le ragioni e i fondamenti della ricerca di Egidio Dansero LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA: LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA Egidio Dansero* INTRODUZIONE – LA STRUTTURA DELL’INDAGINE – I TEMI ANALIZZATI – LO SFONDO – L’ITALIA SETTENTRIONALE: LA COSTRUZIONE DI UN PROBLEMA – L’ITALIA SETTENTRIONALE IN ALCUNE RECENTI RICERCHE – LA PROSPETTIVA D’INDAGINE – LA POSIZIONE GEOECONOMICA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE – ALLA RICERCA DI UN RUOLO EUROPEO: QUESTIONI APERTE – BIBLIOGRAFIA PROBLEMATICO DELLA RICERCA INTRODUZIONE** L’ITALIA SETTENTRIONALE IN UNA PROSPETTIVA EUROPEA Questa ricerca muove dalla considerazione che il processo di integrazione dei paesi dell’Unione Europea sarà sempre più caratterizzato dal protagonismo delle città e delle regioni europee nel contesto di una ridefinizione profonda del ruolo degli Stati e in una prospettiva di governance policentrica. Con sempre minore mediazione da parte dei rispettivi Stati nazionali e con sempre maggiore esposizione ad una globalizzazione potenzialmente destrutturante se non si è in grado di interpretarla positivamente, ciascun territorio è chiamato a ridefinire o ricercare un proprio ruolo all’interno del più ampio spazio unificato europeo. In particolare, è opinione consolidata che le regioni dell’Italia settentrionale1, per prossimità geografica ed economica, possano e debbano svolgere un ruolo cruciale sia nel completamento dell’integrazione territoriale europea, sia nei rapporti con i territori a Sud e a Est dell’Europa comunitaria. L’Italia settentrionale2 nel suo complesso, e il livello alto della sua rete urbana, appaiono rivestire un’importante funzione di mediazione o di cerniera tra il Mediterraneo in ritardo, l’Est in transizione e il nucleo avanzato dell’Europa. Questo ruolo appare giustificato dalla collocazione geografica dell’Italia settentrionale nel contesto europeo, dalle sue caratteristiche economiche e sociali, dalla sua apertura internazionale, ed è altresì confortato, come vedremo, da alcune immagini consolidate del territorio europeo che orientano le politiche comunitarie trasversali e settoriali. Occorre però interrogarsi sui presupposti e sui caratteri di questo ruolo di snodo, di intermediazione che l’Italia settentrionale potrebbe più esplicitamente assumere in una prospettiva europea. * Dipartimento Interateneo Territorio, Politecnico e Università di Torino Questo scritto è debitore di diversi riconoscimenti e ringraziamenti: in primo luogo a Giuseppe Russo del Centro Einaudi, per il suo fondamentale contributo sia nella fase di impostazione della ricerca sia nel suo divenire; a Giuseppina De Santis, Giampiero Bordino, Giovanni Bressi, Piero Bonavero e Paolo Giaccaria per i preziosi suggerimenti. Un grazie particolare va poi a Sabrina Cavallo, che si è occupata della raccolta della documentazione e dell’editing della ricerca e a Piergiorgio Cipriano, che ha curato la parte cartografica. 1 Nel corso della ricerca useremo indifferentemente, per ragioni espositive, le locuzioni “Italia settentrionale”, “Italia del Nord”, “Nord Italia” ecc. 2 Nella ricerca si è fatto riferimento ad una definizione “statistica” ufficiale dell’Italia settentrionale (le otto regioni), lasciando ad ogni singola scheda la possibilità di riferirsi ad altre articolazioni territoriali più pertinenti rispetto al tema indagato. ** 1 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA Si tratta in primo luogo di soffermarsi sulla fondatezza di queste ipotesi, peraltro abbastanza diffuse e condivise, ma non abbastanza scandagliate nei loro presupposti teorici ed empirici. In secondo luogo, occorre esplorare la capacità dei territori dell’Italia settentrionale di svolgere tale ruolo: quali i punti di forza su cui puntare, quali quelli di debolezza e i vincoli strutturali da superare. I VINCOLI STRUTTURALI DELL’ITALIA DEL NORD In questa prospettiva, la ricerca intende in particolare verificare la gravità di alcuni vincoli strutturali dell’Italia settentrionale che sembrano minacciare sia la sua continuità di crescita, sia la sua capacità di svolgere i nuovi impegnativi compiti che deriveranno dall’integrazione nell’Europa e da una localizzazione geoeconomica e geopolitica strategica. Le ipotesi di partenza della ricerca possono essere così schematizzate: • non si può dare per scontato o valutare tout-court soddisfacente il livello di sviluppo delle regioni dell’Italia settentrionale che hanno costituito e tuttora rappresentano, in una molteplicità di percorsi, il cuore propulsivo della crescita industriale dell’Italia; • negli ultimi dieci anni, il tasso di crescita delle regioni settentrionali non è stato uniformemente adeguato alle ambizioni di proseguire lo sviluppo e a imprimergli una qualità diversa, per esempio in termini di composizione settoriale della produzione di reddito, in termini assoluti e per addetto; • le prospettive di crescita dell’economia italiana del Nord non saranno incondizionatamente prospere, a causa di alcuni fattori strutturali oggettivamente critici e di alcune minacce incombenti, sulla base dei processi di integrazione economica europea, di internazionalizzazione delle imprese e di globalizzazione dei fenomeni economici; • il ritardo nel rimuovere tali fattori critici strutturali rischia di isolare l’Italia del Nord dai principali flussi ed assi di sviluppo e di impedire che l’area si garantisca quote di mercato in settori innovativi e strategici. Sulla base di tali premesse, la ricerca si propone di: • individuare i settori funzionali e istituzionali in cui l’Italia settentrionale e il suo sistema metropolitano dovranno sostenere il maggiore impegno per unire all’Europa centrale il sistema economico del Mezzogiorno d’Italia, del Mezzogiorno d’Europa e dei Paesi mediterranei non comunitari; • confrontare le principali dimensioni dell’economia e delle istituzioni economiche dell’Italia settentrionale con quelle di altre regioni europee; • individuare i fattori di minaccia sia al processo di sviluppo, sia alla capacità di svolgimento effettivo del ruolo di cerniera. LA STRUTTURA DELL’INDAGINE L’ITALIA DEL NORD ATTRAVERSO ALCUNE LETTURE TRASVERSALI La ricerca è organizzata in tredici schede tematiche, che affrontano alcuni nodi fondamentali della struttura dell’Italia settentrionale, evidenziandone prospettive, punti di forza e di debolezza, e fornendo alcune indicazioni di policies. Accanto ad un primo gruppo di schede di carattere strutturale (demografia, sistemi formativi, reti urbane, neoimprenditorialità, ricerca e sviluppo, risparmio e finanza d’impresa, trasporti e infrastrutture), un secondo gruppo di schede seleziona alcuni temi più specifici (la struttura manifatturie- 2 LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA ra, i servizi alle imprese e la distribuzione commerciale, il commercio estero e gli investimenti diretti all’estero). I temi approfonditi sono stati scelti in base alla criticità che rivestono per le prospettive di sviluppo dell’area. Il profilo dell’Italia settentrionale che emerge dalle schede tematiche non è certamente esaustivo, sia per il taglio fortemente selettivo delle singole schede, volto ad enucleare alcune istanze chiave, sia per i tanti temi che non vengono affrontati: dall’agricoltura, al turismo, all’ambiente – forse il tema che più conferisce unitarietà all’area oggetto di analisi, in particolare per la gestione delle risorse idriche a livello di bacino idrografico3 – agli aspetti istituzionali ecc. All’interno di linee generali comuni, ciascuna scheda interpreta l’Italia del Nord da una particolare angolazione in ragione sia della tematica specifica e della relativa disponibilità di dati e studi alle diverse scale territoriali, sia del diverso punto di vista e approccio disciplinare dei singoli esperti tematici. Anziché elemento di debolezza, questa eterogeneità di approcci ci è parsa la maniera migliore di interpretare in modo polifonico una realtà, quale quella dell’Italia settentrionale, multiforme e complessa, che richiede continui cambiamenti di scala e di prospettiva per essere colta nella sua diversità. LA RETE DEI COLLABORATORI IL PERCORSO Si è dunque costituita, sotto il coordinamento del Cesdi srl e del Centro “Luigi Einaudi”, una rete di collaborazioni specialistiche e pluridisciplinari (demografi, economisti, geografi, politologi e sociologi), appartenenti ad enti e istituzioni di ricerca pubblici e privati Ogni esperto ha fornito il proprio contributo sia attraverso l’elaborazione della scheda tematica nell’ambito delle proprie competenze, sia partecipando ad alcuni momenti di confronto sulle linee generali della ricerca. In particolare, il lavoro di indagine e riflessione si è così articolato: • raccolta e analisi della letteratura esistente sui diversi temi di ricerca, dei lavori empirici realizzati negli ultimi anni e, più in generale, della “letteratura grigia” disponibile. Ciò è avvenuto sia attraverso i tradizionali canali istituzionali e personali (fonti presso biblioteche, università, centri di ricerca pubblici e privati, ecc.) sia attraverso “navigazioni” telematiche su molteplici siti Internet pertinenti e significativi; • raccolte statistiche sistematiche, inerenti ai diversi temi, di provenienza sia nazionale sia internazionale (Istat, InfoCamere, Eurostat, Ocse ecc.); • colloqui e interviste, anche con la raccolta di contributi scritti, di esperti e testimoni privilegiati delle diverse aree tematiche indagate, sia interni alle reti di collaborazione Cesdi srl e Centro Einaudi, sia esterni a queste; • confronto, attraverso seminari interni al gruppo di ricerca, sulle ipotesi, sulle metodologie di lavoro e sulle fonti relative a ciascuna scheda tematica, definendo gli elementi di interconnessione tra le diverse schede (ad esempio, fra i temi della finanza innovativa e dell’innovazione tecnologica; 3 L’unico vero organismo sovraregionale padano è infatti l’Autorità di bacino del Po, che ha competenze dirette in materia di pianificazione e scelta delle priorità di intervento. Tuttavia, è interessante notare come proprio dal punto di vista della gestione delle risorse idriche (a livello di bacino) dal bacino del Po sia escluso il Nord Est, compreso nei bacini dell’Adige e del Piave-Tagliamento-Isonzo. 3 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA della trasformazione demografica e della formazione del capitale umano; della struttura manifatturiera e del commercio estero e dell’internazionalizzazione; delle reti urbane e dell’apertura internazionale delle città e del sistema dei trasporti); • impostazione e individuazione – attraverso una specifica riflessione comune – delle linee generali del saggio introduttivo e discussione delle principali tesi emergenti dalle singole schede e poi riprese nel saggio conclusivo, cui è affidato il compito di incrociare i differenti tagli trasversali offerti da ciascuna scheda. I TEMI ANALIZZATI LA DEMOGRAFIA Il primo aspetto preso in considerazione è quello demografico, dato che qualsiasi ipotesi di sviluppo dell’Italia settentrionale deve fare necessariamente i conti con questa variabile di fondo. Il parametro della compatibilità/incompatibilità con le proiezioni demografiche attese deve essere assunto come criterio di riferimento per la valutazione di qualsiasi progetto per il futuro dell’Italia settentrionale. Viene segnalata la prevedibilità di alcune fondamentali proiezioni demografiche nei prossimi 10-20 anni e, in particolare, viene evidenziata la rapidità e l’intensità dei mutamenti strutturali in corso, caratterizzati da una eccezionale caduta demografica. I SISTEMI Accanto ai caratteri demografici, i sistemi formativi si presentano come una delle variabili cruciali per valutare le prospettive di sviluppo dell’Italia settentrionale. La scheda delinea un quadro generale del sistema formativo dell’Italia settentrionale e delle sue tendenze evolutive, dei suoi punti di forza e di debolezza, e analizza i diversi “segmenti” di questo articolato sistema. Sono esplorati i fondamentali nodi critici del sistema formativo: il grado di innovazione, gli eventuali poli di eccellenza, i rapporti fra formazione e inserimento lavorativo, i rapporti di cooperazione/competizione tra le sedi del sistema formativo settentrionale. FORMATIVI IL SISTEMA DELLA RICERCA E SVILUPPO LA NEOIMPRENDITORIALITÀ Un’attenzione particolare viene dedicata alla ricerca e sviluppo, quale fattore strutturale di crescita. La scheda esplora le potenzialità scientifico-tecnologiche e innovative localizzate nell’Italia settentrionale, attraverso la sistematizzazione e interpretazione dei dati ufficiali e dei contributi della letteratura economica più recente. Si individua e analizza la posizione innovativa dell’Italia settentrionale nel quadro comparativo europeo, utilizzando alcuni indicatori di input (spese R&S, distribuzione dei centri di ricerca, ecc.) e output (attività brevettuale, dinamica delle esportazioni high tech) tecnologico. Si analizzano inoltre le strategie innovative delle imprese sia grandi sia medio-piccole diffuse nei distretti. Si esplora, nella misura del possibile per la scarsità dei dati disponibili, il ruolo (attuale e potenziale) di “mediatore tecnologico” dell’Italia settentrionale sia verso il Sud della penisola sia verso i paesi mediterranei sia infine rispetto alle aree europee centro-orientali. Un altro aspetto cruciale su CUI si è concentrata la ricerca è quello della neoimprenditorialità, della quale viene preso in considerazione uno spettro allargato di forme: da quella originaria agli spin off, al passaggio generazionale, 4 LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA alle forme di neoimprenditorialità “incentivata” dall’intervento pubblico. Viene anche considerato l’universo in espansione del lavoro autonomo e dell’autoimprenditorialità, ai confini tra le forme di lavoro tradizionali, quelle indipendenti e il vero e proprio “fare impresa”. LE SPECIALIZZAZIONI MANIFATTURIERE I SERVIZI ALLE IMPRESE Viene esaminata la struttura industriale dell’Italia settentrionale nei suoi comparti tradizionali e in quelli più avanzati, analizzandone la competitività rispetto ai competitori europei e internazionali. La scheda si sofferma in particolare sulle possibilità che l’economia dei distretti, del made in Italy e dei macchinari industriali, cardini dello sviluppo settentrionale, possa continuare a sorreggere l’Italia del Nord a fronte del recupero di competitività della grande dimensione d’impresa e di un ruolo sempre più marginale nei settori in crescita dell’alta tecnologia. Vengono presi in considerazione i servizi alle imprese ed in particolare quelli dell’information technology, considerati strategici per lo sviluppo delle capacità competitive dell’area in oggetto, analizzando il peso dell’Italia del Nord attraverso alcuni indici di densità. Viene altresì considerata la collocazione dell’area nel contesto internazionale, evidenziando il ritardo, che l’Italia nel suo complesso – ed anche il Nord Italia, seppur in misursa più contenuta – registra nei confronti degli altri paesi ad economia avanzata, sia per quanto riguarda l’offerta e la domanda interna, sia l’interscambio. Altra variabile strutturale è costituita dal risparmio delle famiglie e dalla finanza d’impresa, temi che vengono affrontati in due schede separate. IL RISPARMIO La scheda sul risparmio evidenzia la tradizionale grande intensità e capacità di risparmio dell’Italia settentrionale e, nello stesso tempo, le nuove prospettive che si aprono con l’euro e la progressiva internazionalizzazione del sistema bancario e finanziario. Viene altresì evidenziato il ruolo che l’Italia settentrionale potrebbe avere rispetto alla sua “frontiera” meridionale e mediterranea per quanto riguarda gli aspetti finanziari. Questo ruolo di “cerniera” sarà però sostenibile solo se l’Italia settentrionale riuscirà a “catturare” in misura crescente risorse finanziarie europee e internazionali, nel quadro dell’internazionalizzazione ed europeizzazione in atto nel mercato dei capitali. IL FINANZIAMENTO La scheda sulla finanza d’impresa fornisce un rapido excursus sul passato e le prospettive delle dinamiche di finanziamento del sistema imprenditoriale del Nord Italia. Si evidenzia come il sistema finanziario dell’Italia settentrionale si trovi ad un punto cruciale di svolta. Il processo di integrazione monetaria – con il venir meno di alcuni vantaggi comparati iniziali, quali la centralità geografica, la moneta utilizzata, le barriere normative e tecniche – pone infatti in maggior evidenza la contendibilità del mercato finanziario europeo, aumentando la competizione tra i diversi centri finanziari. DELLE IMPRESE LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE La modernizzazione delle reti distributive, con uno spazio di crescente autonomia rispetto all’industria, ha un ruolo sempre più rilevante nella trasformazione del sistema economico e territoriale. La scheda analizza il processo di adeguamento del Nord Italia nel colmare il ritardo che lo separa dai sistemi distributivi moderni in Europa. Particolare attenzione viene riservata al delicato rapporto tra il sistema distributivo sem- 5 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA pre più internazionalizzato e con un crescente controllo estero della grande distribuzione, e il sistema produttivo settentrionale, soprattutto nel comparto delle Pmi manifatturiere. IL SISTEMA DEI TRASPORTI LE RETI URBANE E L’APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ IL COMMERCIO CON L’ESTERO GLI INVESTIMENTI DIRETTI ALL’ESTERO Tra i nodi più critici nelle prospettive di sviluppo dell’Italia settentrionale emerge lo stato delle infrastrutture e dei trasporti in particolare. La scheda ne evidenzia la condizione di arretratezza, resa ancor più pesante dalla mancanza di una chiara consapevolezza della gravità di queste carenze tanto nell’opinione pubblica quanto nelle classi dirigenti. Vengono analizzate le diverse forme e modalità di trasporto e le loro interconnessioni, nella prospettiva non solo nazionale, ma soprattutto internazionale, lungo i due assi strategici continentali Nord-Sud e Ovest-Est, considerando che le potenzialità dell’Italia settentrionale di essere “ponte” e “cerniera” verso Sud e verso Est sono evidentemente subordinate allo sviluppo di questi assi. Nella convinzione che saranno soprattutto le città a giocare un ruolo decisivo nella connessione dei territori dell’Italia settentrionale alle reti globali e continentali, la scheda intende delineare un quadro generale delle reti urbane dell’Italia settentrionale anche rispetto ad altre aree geografiche europee, evidenziando le specificità italiane. Emergono punti di forza rappresentati dalla elevata densità urbana e dalla forte coesione economica e sociale della rete urbana in alcune aree e, nello stesso tempo, fattori di debolezza quali le carenze del sistema infrastrutturale di trasporti e comunicazione. La scheda esplora la collocazione dell’Italia settentrionale nel quadro degli scambi commerciali italiani ed internazionali (peso del commercio estero, grado di apertura, specializzazioni, contenuto delle esportazioni ecc.). All’interno di un andamento piuttosto differenziato tra Nord Est, il cui commercio estero è in continua crescita, e Nord Ovest, che sembra privilegiare la via degli investimenti diretti all’estero, emergono sia il rilievo dell’interscambio settentrionale nel contesto nazionale ed europeo sia, d’altra parte, i segnali di una perdita di competitività negli ultimi anni (in particolare nei settori ad alta tecnologia). La scheda prende in considerazione la collocazione della macro-regione settentrionale nel quadro degli investimenti diretti da e verso l’estero. Utilizza i dati più recenti e le serie storiche ricavabili dalle fonti ufficiali (Istat, Eurostat, Ocse ecc.). Si fonda anche sul patrimonio informativo più aggiornato contenuto nella banca dati Reprint R&P per gli investimenti diretti in entrata e in uscita dall’Italia. Sul piano del processo di internazionalizzazione, è evidenziata la crescente diffusione e rilevanza delle alleanze e degli accordi non equity, che rappresentano spesso un ponte verso forme di investimento diretto all’estero. Sono del pari analizzati i processi di investimento estero in entrata, nei loro diversi possibili aspetti e significati. LO SFONDO PROBLEMATICO DELLA RICERCA Tre temi fondamentali definiscono il quadro problematico della ricerca: il cammino dell’integrazione europea, dagli esiti tuttora incerti; i processi di globalizzazione – che iperconnettendo i singoli territori mettono in discussio- 6 LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA ne e richiedono una ridefinizione dei rapporti geopolitici e geoeconomici tra le diverse scale territoriali – la riforma dello Stato, con un ripensamento dell’articolazione territoriale italiana verso una qualche forma di federalismo che consenta alla forma Stato di tenere pur faticosamente il passo all’interno di processi che, dall’alto e dal basso, ne minano ruolo e senso. Si tratta di tre sfide principali che attraversano, a scale diverse (globale, europea e nazionale), il multiforme territorio oggetto di questo studio, intrecciandosi in un groviglio problematico che speriamo di poter contribuire a dipanare. LO SPAZIO UNIFICATO EUROPEO COME ORIZZONTE DI RIFERIMENTO In primo luogo, il processo d’integrazione europea si pone come una prospettiva di lungo periodo su cui articolare la riflessione. Lo spazio comunitario definisce sempre più l’ambito di riferimento a cui le diverse parti del territorio europeo si devono rapportare. È a scala europea che si ridefiniscono le gerarchie territoriali e i ruoli delle singole regioni e ciò è tanto più vero quanto più si afferma la funzione guida delle politiche europee nei diversi campi (infrastrutturale, economico, sociale, ambientale ecc.). I vecchi confini politici perdono progressivamente di importanza al cospetto di nuovi, anche se più sfumati, confini geoeconomici interni allo spazio europeo. Infatti, a fronte di una ormai avvenuta integrazione sul piano monetario e finanziario, si presenta ancora lungo il cammino dell’integrazione sul piano territoriale (cfr. ad esempio Bonavero e Dansero, 1997; Dematteis e Bonavero, 1998; Leonardi, 1995; Storti, 1998; Zani e Cerioli, 1997). Il “Sesto rapporto periodico sulla situazione economica e sociale e sullo sviluppo delle regioni della Ue” (EC, 1999) – pur all’interno di un trend di convergenza del Pil procapite delle regioni più povere verso la media europea – evidenzia differenze di sviluppo regionale tuttora oltremodo marcate. In nove dei dodici paesi che hanno delle regioni a livello Nuts 2, il Pil regionale procapite medio nel periodo 1994-96 delle regioni più ricche si aggira attorno al doppio di quelle più povere: è il caso, ad esempio, del Belgio (Bruxelles 172% rispetto alla media Ue, Hainaut 81%), della Spagna (Madrid 100%, Extremadura 55%), dell’Italia (Lombardia 132%, Calabria 59%) così come dell’Austria (Vienna 165%, Burgenland 71%). Vale la pena notare come, sulla base di alcuni indicatori statistici della disuguaglianza interregionale, l’Italia risulti al 1994 il paese in cui le disparità regionali appaiono più marcate, seppur con una leggera tendenza alla riduzione della disuguaglianza nel periodo 1982-94 (Storti, 1998). TRA GLOBALIZZAZIONE E LOCALISMO: TERRITORI IN COMPETIZIONE Il processo d’integrazione europea, nel porre il problema dei rapporti tra istituzioni comunitarie, Stati e i livelli macroregionali, regionali e locali, si connette al secondo tema fondamentale che fa da sfondo alla ricerca. Si tratta dei rapporti tra i processi apparentemente sempre più pervasivi e omologanti di globalizzazione economica, finanziaria, culturale ecc. e la frammentazione e la rimodellazione dei territori in unità funzionali autonome, di dimensione variabile (la regione, la città o singole parti di essa), alcune delle quali esplicitamente guardano all’autonomia politico-amministrativa (Ohmae, 1996). Assistiamo cioè a processi di articolazione e disarticolazione regionale dei territori: “ogni parte di essi, in quanto sede di attori locali che si collegano in qualche modo a reti globali (per esportare e importare merci, per attrarre investimenti, per scambi culturali ecc.), tende a rendersi funzionalmente indipendente dalle entità territoriali di cui fa formalmente parte” (Dematteis, 1997, p. 38). Città e regioni forti tendono a muoversi come attori sulla scena 7 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA internazionale, senza ricorrere al ruolo di mediazione dei governi nazionali se non in netto contrasto, con essi estendendo una sorta di paradiplomazia europea e internazionale, giuridicamente inconsistente (si veda, ad esempio, Pizzetti, 1999), ma sempre più attiva e alimentata in vari modi dalle istituzioni comunitarie. Su tutti, valga l’esempio delle “regioni forti” europee, che mantengono delegazioni permanenti a Bruxelles per trattare direttamente con la Commissione europea. Tra globalizzazione e localismo, sotto i riflettori si presenta ormai da diversi anni il ruolo dello Stato-nazione e con esso una nuova prospettiva regionalistica (Coppola, 1998; Sabel, 1998). In crisi irreversibile secondo alcuni (Badie, 1996; Ohmae, 1996), si tratterebbe secondo altri di una profonda ridefinizione di un ruolo comunque insostituibile (Le Gales, 1998; Veltz, 1996). Il dibattito relativo alla crisi dello Stato-nazione (Rusconi, 1993) parla, a questo riguardo, di “fine dei territori” (Badie, 1995), mettendo anche in evidenza l’emersione e il crescente protagonismo di entità territoriali intermedie e una maggiore attenzione per le differenze e le specificità locali (Pichierri, 1998; Dematteis, 1997). . La rivalutazione del locale non è solo il risultato della reazione difensiva di identità territoriali minacciate, ma è anche, in positivo, fonte di “vantaggi” che giocano un ruolo centrale nella competizione globale (Porter, 1991) o base di un modello di globalizzazione dal basso, in cui la valorizzazione dei diversi contesti locali è rivolta a costruire relazioni non gerarchiche e cooperative fra città e regioni. CAMBIAMENTI ISTITUZIONALI E RIFORMA DELLO STATO Questo dibattito apre la strada al terzo tema che fa da sfondo alla ricerca, e cioè i cambiamenti istituzionali e la riforma dello Stato – da alcuni anni al centro della riflessione scientifica e sempre rinviati nell’agenda politica – e con essi il ruolo delle istituzioni intermedie, delle autonomie funzionali e di altri soggetti economici. Nel contesto attuale dell’integrazione europea e della ristrutturazione del sistema economico internazionale, la scarsa efficienza e l’alto costo di un sistema amministrativo centralizzato e debole come quello italiano pongono l’urgenza di pensare ad una diversa organizzazione dello Stato che favorisca la trasparenza dei processi decisionali e la responsabilizzazione degli amministratori pubblici (Mainardi, 1998). Possedere una forte articolazione regionale si presenta come un vantaggio competitivo per lo Stato stesso. Sono i forti Länder tedeschi, piuttosto che le deboli regioni francesi, a saper sviluppare meglio le infrastrutture dello sviluppo economico (Perulli, 1998). La questione delle istituzioni intermedie e delle interpretazioni dell’Italia settentrionale diviene estremamente delicata per governare l’interconnessione dell’Italia settentrionale con il Centro Europa, con un ventaglio di prospettive quanto mai ampio, che si estende dalla piena integrazione in una macroregione, a prospettive federaliste differentemente “scalate” (macroregione padana, municipalismo, regionalismo ecc.). È proprio a partire dalla riflessione sull’Italia settentrionale, sulla scorta della preoccupazione delle derive secessioniste, che si è aperto un confronto sulle ipotesi di revisione dell’organizzazione territoriale dello Stato, tra regionalismi e federalismi forti e deboli (Deaglio, 1996; Bagnasco, 1996; Diamanti, 1996; Pacini, 1996; Bassetti, 1996, Piperno, 1997). 8 LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA L’ITALIA SETTENTRIONALE: LA COSTRUZIONE DI UN PROBLEMA Questi tre temi, cui si è fatto un superficiale accenno, si presentano saldamente intrecciati nell’esaminare le prospettive dell’Italia settentrionale. Rilevava, ad esempio, Bassetti (1996, p. 17) come, pur non essendo la “questione settentrionale” (da lui intesa come l’attrazione dell’Europa sul Nord Italia) e la “questione istituzionale” problemi recenti, siano tuttavia diventati esplosivi nell’attuale contesto storico. D’altra parte, non è un problema solamente italiano in quanto in tutta l’Europa “si ode sempre più la voce delle regioni ricche che, diversamente dal passato, non hanno più veramente bisogno delle periferie meno prospere (in particolare come fonte di manodopera) e che protestano contro il carico eccessivo rappresentato ai loro occhi dalle perequazioni organizzate su scala nazionale” (Veltz, 1998, p. 147). L’EMERGERE DELLA “QUESTIONE SETTENTRIONALE” Come sottolinea Diamanti in un suo intervento sul Sole 24 ore (8/2/97) è difficile non vedere dietro al cambiamento politico di questi anni una mappa precisa, sottolineata dal riferimento esplicito al territorio, che ha caratterizzato il confronto e al tempo stesso lo scontro politico. Fino agli anni Settanta l’unica “questione territoriale” che avesse senso e riconoscimento, nella percezione comune, era quella “meridionale”. Ecco allora che sembra imporsi una “Questione settentrionale”, ben diversa da come si presentava negli anni Sessanta, quando il problema era la diffusione territoriale dello sviluppo dal Nord Ovest alla periferia del Nord Est (Muscarà, 1967). Per Diamanti (1996) si fa ricorso a questo concetto per riassumere “Il Male del Nord”, e cioè l’insieme di tensioni e di trasformazioni che attraversano le principali aree settentrionali, non solo quelle ad economia diffusa, ma anche le aree metropolitane, le concentrazioni della grande industria, le città del terziario. Si tratta di un contesto unificato di insoddisfazione nei confronti dello Stato centrale e, in parte, della crescente integrazione con i mercati europei, ma al suo interno profondamente differenziato: per struttura sociale, tipo di regolazione, cultura politica. E quindi difficilmente rappresentabile in modo unitario. Per De Rita e Bonomi la questione settentrionale sintetizza un insieme complesso di gravi tensioni che caratterizzano le regioni settentrionali del Paese: “c’è stress imprenditoriale da competizione europea e mondiale; c’è paura di non farcela e quindi di esser destinati a regredire; c’è rabbia per la debolezza dei fattori competitivi non garantiti dai poteri pubblici (dalle infrastrutture ai servizi); c’è insopportazione per una pressione fiscale alta cui non corrispondono adeguate contropartite di efficiente azione pubblica; c’è bisogno di esaltare il localismo, lo spirito comunitario, il radicamento identitario come fattori di forza anche nella competizione internazionale; c’è il rancore verso lo Stato nazionale, visto come sede dell’inefficienza e come negazione delle identità e degli interessi locali. Le tensioni “nordiste” hanno quindi espressioni molteplici e forti; e vanno considerate come serie e sostanziali, mai etichettandole (quale che ne sia stata o ne sia la strumentalizzazione) come espressioni folcloristiche di orgoglio etnico (…) la questione setten- 9 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA trionale resta una dimensione strutturale del futuro del Paese” (De Rita e Bonomi, 1998, p. 106). UNA QUESTIONE PER TANTI NORD? Parlando di “questione settentrionale” si tende sempre più spesso a distinguere tra il Nord Est – caratterizzato, per usare le parole di Diamanti, da un “dinamismo un po’ anarchico, per definizione policentrico e privo di una capitale” sempre più insofferente verso le lentezze e i ritardi dello Stato nazionale – e il Nord Ovest. Come rileva il Censis (1997), soprattutto quest’ultimo appare caratterizzato, da più di un decennio, da una profonda trasformazione che lo porta a configurarsi più come porzione sud-orientale dell’ampia unione continentale che come Nord Ovest nazionale. La crisi del modello fordista della grande impresa ed i processi di globalizzazione e di integrazione europea si presentano come i due principali fattori causali di questa transizione. Rileva tuttavia Bagnasco (1997) come queste generiche macrodefinizioni di area (Nord Est e Nord Ovest) appaiano decisamente insoddisfacenti, sia per gli aspetti che lasciano in ombra, sia perché introducono l’idea che si possa facilmente immaginare il Nord Ovest come un modello unitario, quando i percorsi dei vertici del triangolo industriale appaiono irreversibilmente differenziati e quando gli stessi vertici non bastano più, se mai lo hanno fatto, a rappresentare le rispettive economie regionali. Secondo Bagnasco (1996, 1997) la “questione settentrionale” è piuttosto un insieme di “questioni settentrionali” appartenenti ai diversi Nord e si manifesta sostanzialmente in una mancanza di rappresentanza politica che dia voce al malessere della società, ribadendo con ciò la necessità di rifuggire da etichette accattivanti quanto semplicistiche, e di scandagliare più a fondo le differenze che caratterizzano l’Italia del Nord. L’ITALIA SETTENTRIONALE IN ALCUNE RECENTI RICERCHE A partire dai primi anni Novanta sono numerose e significative le ricerche che si sono concentrate sull’Italia del Nord, o più spesso su sue singole parti (il Nord Ovest, il Nord Est, il modello veneto, la specificità emiliana ecc.): dalle ricerche della Fondazione Agnelli sia su tutta la Padania (Bramanti e Senn, 1992) sia su parti di essa (Diamanti, 1998; Bonora, 1998; Janin, 1998), alle numerose indagini del Cnel sulla “questione settentrionale” (Cnel, 1996a,b, 1997a,b, 1998; Bonomi, 1997; Bonomi e De Rita, 1998) agli studi di Diamanti (1996) e di Magatti (1998), al convegno di Parma (1997) sulla “molteplicità dei modelli di sviluppo dell’Italia del Nord”, solo per citare i più noti4. 4 L’elenco delle ricerche sull’Italia del Nord nel corso degli anni Novanta sarebbe ancora lungo. Vi sono, ad esempio, ricerche come quella della Ccia di Torino (Detragiache e Rossetto, 1993) che, pur meno note, hanno esaminato a fondo da un punto di vista socio-territoriale “la Padania” come progetto possibile di un “marchio territoriale”, con l’intento di contribuire a “sostenere e rafforzare il ruolo di regione di scambio nei processi di sviluppo dell’Europa, le sue interdipendenze nello spazio economico globale, il suo apporto ai processi di integrazione europea”. È inoltre degno di nota il pregevole tentativo di sintesi compiuto dal geografo Roberto Mainardi nel suo saggio su “L’Italia delle regioni. Il Nord e la Padania” (1998). 10 LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA LA SCOPERTA DEI PLURALISMI TERRITORIALI LA RICERCA DELLA FONDAZIONE AGNELLI: LA PADANIA UNA REGIONE ITALIANA IN EUROPA A partire da punti di vista diversi, quanto a storie disciplinari, approcci ed obiettivi, questi studi hanno scandagliato in profondità l’Italia del Nord, restituendone un’immagine composita. Dal coro, spesso disarmonico e fuori tempo, delle indagini sociologiche, economiche e territoriali, la geografia politica, la geografia economica e quella sociale devono registrare non una, ma tante Italie del Nord: la sempre più consolidata contrapposizione tra il Nord Est e il Nord Ovest, che si sovrappone solo in parte alla distinzione tra Grande Nord (delle grandi concentrazioni urbane, industriali e terziarie) e Piccolo Nord (il popolo dei distretti); la scomposizione del vecchio “triangolo industriale” (che peraltro è dubbio sia mai esistito) (cfr. ad esempio Malfi, 1997); i “Sette Nord” proposti da Bonomi (1997) per definire la territorializzazione del capitalismo molecolare (la frontiera, l’asse pedemontano, le aree tristi, il sistema urbano industriale, la Padania, le aree cerniera, il Nord Est); i tre Nord di Bagnasco (1996) (le aree di piccola impresa, il Nord della grande concentrazione industriale, il Nord della metropoli, della finanza e del terziario diffuso) ecc. Nella bibliografia dei primi anni Novanta sulle regioni del Nord Italia ha una notevole rilevanza la ricerca della fondazione Agnelli del 1992 “La Padania, una regione italiana in Europa” (Bramanti e Senn, 1992). Essa spianava in qualche modo la strada a numerose altre successive ricerche che si sarebbero concentrate sull’Italia settentrionale, pur con obiettivi e approcci diversi, ed introduceva esplicitamente nel dibattito sulle trasformazioni economicoterritoriali il termine geografico “Padania”, divenuto ben presto troppo ingombrante e connotato politicamente per poter continuare ad avere un’accezione “neutra”. L’idea guida consisteva nella considerazione che, per poter procedere verso un riordino della vita nazionale, fosse indispensabile chiarire innanzitutto quali vie dovesse percorrere la riforma, ed in secondo luogo quali fossero i fondamenti su cui impostare il nuovo Stato. In merito al primo punto, la posizione della Fondazione Agnelli sembrava chiara già dal 1992, e verrà ribadita in un libro del 1996 (Pacini, 1996) atto a ricostruire il percorso di ricerca seguito dalla Fondazione in merito ai temi della riforma: “la Fondazione Giovanni Agnelli sostiene da tempo la necessità di una riorganizzazione dello Stato italiano in senso federale. Riteniamo infatti che né forme di decentramento amministrativo, sia pur estese, né un rafforzamento del regionalismo siano riforme sufficienti ad affrontare i problemi del paese. Pertanto (…) l’obiettivo che noi indichiamo come auspicabile svolta per la vita politica, per le istituzioni e per la società italiane è una revisione della Costituzione repubblicana come fondamento di un federalismo politico, amministrativo e fiscale.”. Per ciò che riguardava il secondo punto, la ricerca del 1992 aveva come scopo non tanto quello di verificare l’idoneità dell’attuale disegno regionale a realizzare obiettivi di crescita economica, progettualità, competitività internazionale, quanto quello di individuare criteri di razionalità economica attraverso cui procedere ad un nuovo ritaglio regionale non ancora definito. Ecco allora il perché di una ricerca sulle regioni del Nord Italia (seguita poi da una ricerca sul Centro e una sul Mezzogiorno): analizzare la situazione delle strutture economiche dei vari sistemi territoriali appare forse come l’unica via per la definizione delle caratteristiche dell’azione economica italiana. La scelta federalista comporta fondamentalmente due ordini di conseguenze: l’abbandono del centralismo e il conseguente spostamento dei poteri pubblici 11 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA verso nuove istituzioni. Si capisce però come ampi margini di discrezionalità vengano lasciati ai contenuti dei poteri di queste nuove istituzioni e ai relativi ambiti territoriali cui queste fanno riferimento. Tra l’ipotesi della Lega Nord che vede il nuovo assetto regionale basato su tre sole macro-regioni, e l’ipotesi che vede nelle venti regioni attuali le istituzioni capaci di attuare il disegno di uno Stato meno centralista, la proposta cui infine approda la Fondazione Agnelli è quella della costituzione di “12 regioni da realizzarsi con gradualità, attraverso il consenso dei cittadini che scopriranno progressivamente la convenienza di una più razionale dimensione del territorio regionale” (Pacini, 1996). In tale disegno, che riecheggia la proposta di Francesco Compagna (1964), la Padania sarebbe composta, anziché dalle otto regioni attuali, da quattro mesoregioni: la regione nord-occidentale (costituita da Piemonte, Liguria, Valle D’Aosta), la Lombardia, l’Emilia Romagna e la regione nord-orientale (Friuli, Trentino e Veneto). Le conclusioni della ricerca della Fondazione Agnelli possono così essere sinteticamente richiamate: • “la posizione della Padania continua ad essere potenzialmente felice. (…) essa può costituire un elemento di riequilibrio in Europa, impedendo che lo spostamento verso il Nord crei differenziali di sviluppo e quindi nuove patologie economiche. Si può quindi parlare di ruolo europeo della Padania perché certamente anche la Francia meridionale e la Spagna, per non parlare delle nuove Repubbliche slave, possono trarre giovamento da una Padania che sappia assumere un ruolo di leadership nell’Europa mediterranea (…); • la Padania può adempiere a questo ruolo europeo soltanto se conserva una sua centralità. Tale centralità si percepisce compiutamente ove si collochi la Padania nel sistema Italia, che continua a trovare nelle regioni padane il suo più efficace punto di forza e di penetrazione in Europa. Nello stesso tempo la Padania ha bisogno delle altre aree italiane perché costituiscono un elemento di sinergia e di potenziamento indispensabile per evitare di diventare area marginale in Europa. La Padania non sarà periferia europea finchè continuerà ad essere il principale “motore” del sistema economico italiano (…); • le regioni padane non sono però una realtà omogenea, bensì una realtà pluralista. Le strategie padane devono pertanto tenere presenti entrambi gli aspetti (…). L’interdipendenza padana è quella di realtà diverse ma collegate in modo funzionale che si trovano ad essere esposte a sfide, e soggette a vincoli comuni” (Bramanti e Senn, 1992). LA RICERCA DEL CNEL: LA QUESTIONE SETTENTRIONALE A metà degli anni Novanta, anche il Cnel (1996a,b; 1997a,b; 1998) si confronta con la “questione settentrionale”, e lo fa con un’ampia ricerca triennale che prende avvio dalla considerazione della gravità costante delle tensioni che caratterizzano le regioni settentrionali del Paese in precedenza richiamate: stress imprenditoriale da competizione europea e mondiale, con il timore di non farcela e quindi esser destinati a regredire; rabbia per la debolezza dei fattori competitivi non garantiti dai poteri pubblici (dalle infrastrutture ai servizi); difficoltà a sopportare una pressione fiscale alta cui non corrispondono adeguate contropartite di efficiente azione pubblica; bisogno di esaltare il localismo, lo spirito comunitario, il radicamento identitario come fattori di forza anche nella competizione internazionale; rancore verso lo Stato nazionale, 12 LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA visto come sede dell’inefficienza e come negazione delle identità e degli interessi locali (De Rita e Bonomi, 1998, p. 106). L’idea guida della ricerca è che qualsiasi disegno di nuovi assetti istituzionali debba essere ricondotto alle logiche di poliarchia che faticosamente, e a tratti contraddittoriamente, gli attori più dinamici ed avvertiti mettono in gioco. Questo deve essere un criterio d’azione metodologico che informi qualunque percorso si voglia intraprendere per riavvicinare dinamica socio-economica e livelli istituzionali, e la sua validità è testimoniata dalle difficoltà di tutte le esperienze di programmazione che intendano prefigurare le traiettorie evolutive della società indipendentemente dagli attori che ne sono protagonisti. La strada indicata per gli interventi è apparsa differente rispetto ai presupposti da cui era partito il Cnel. Non è cioè apparso possibile nel Nord Italia procedere per gemmazione di tante esperienze territorialmente circoscritte (come nel Mezzogiorno con i Patti territoriali), quanto piuttosto sviluppare “il massimo di potenza” sul piano strategico e istituzionale. La complessità socioeconomica del Nord, la sua compiuta modernizzazione sono infatti troppo elevate per lasciarle all’esclusiva competenza dei poteri locali. Ma è necessario evitare una sorta di protagonismo neocentralista, eludendo una relazione causale tra complessità socioeconomica e intervento sovraordinato di poteri centrali. Gli attori sovralocali possono intervenire ma rafforzando i processi poliarchici e non sostituendo protagonisti locali che sono privi di risorse, competenze e strategie appropriate per affrontare il governo della complessità. L’itinerario di ricerca del Cnel porta alle seguenti conclusioni. In primo luogo sembra di poter affermare che “nel Nord la sostanza socio economica è vitale, ma le forme politiche sono inerti”. Prendendo in considerazione la forte consistenza e la costante dinamica del sistema d’impresa, il peso delle organizzazioni padronali, di lavoro dipendente, sindacali, professionali, l’attivismo delle Amministrazioni provinciali, e l’impegno dei grandi sottosistemi territoriali del Nord Italia (Nord Est, Nord Ovest, modello emiliano, modello veneto…) è naturale che un tale vitalismo necessiti di forme di integrazione fra sistema sociale e forme politiche che tuttora non sussistono. In una tale situazione (perfettamente in linea con le premesse della Fondazione Agnelli), “lo snodo fondamentale diventa la ricerca di un assetto istituzionale nuovo, che sia capace di fare integrazione fra sostanza e forma del destino collettivo del Nord”. Ma mentre la Fondazione Agnelli vede come unica strada percorribile la soluzione federalista, il Cnel passa in rassegna un ventaglio di ipotesi delle quali la prima è, per gli autori, quella più percorribile, e cioè l’ipotesi di un “regionalismo forte” che assume le attuali regioni come forma politica futura della sostanza della società settentrionale. “L’opzione per un regionalismo forte è l’unica opzione che lo Stato nazionale e la dinamica politica attuale possono mettere in campo”. Le altre ipotesi, più sperimentali, sono: di fare istituzione complessiva del Nord (è l’ipotesi della Padania ); di rivisitare dal basso l’identità ed il potere delle regioni più forti; di fare partito sovraregionale; di sperimentare la logica di partenariato sociale; di studiare processi di integrazione anche internazionale fra le regioni. Posto che probabilmente nessuna di queste ipotesi si affermerà mai sulle altre, la via di uscita indicata dagli autori è quella di “un’accettazione esplicita 13 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA del policentrismo dei poteri, rendendolo sempre più ordinato e condensato, rendendolo sempre più poliarchia” (Bonomi e De Rita, 1998, p. 118): un policentrismo che è già presente e vitale a livello di unità di base, è in via di condensazione a livello intermedio (rinnovato ruolo delle Province, intercomunalità, Patti territoriali ecc.), ma che appare ancora vago in quanto disegno globale di tale condensazione. TRA DISORDINE E SCISMA. LE BASI SOCIALI DELLA PROTESTA DEL NORD Un’altra importante ricerca è quella, di taglio sociologico, condotta da Magatti (1998). Questo studio prende in considerazione la protesta in atto nel Nord del Paese, alla luce di quella che viene definita come una condizione di “disordine” della società italiana – che si è manifestata, negli anni Ottanta, come anomia politica sfociata in decomposizione dell’ordine precedente, e, negli anni Novanta, come ricerca di nuovi equilibri – per analizzare se esistano o meno i presupposti sociali per un vero e proprio “scisma”. Dopo aver analizzato il processo di trasformazione sociale (allo scopo di individuare i nuovi soggetti sociali che operano nel Nord e che formano il bacino di alimentazione della protesta), la riorganizzazione del sistema produttivo in concomitanza con la crisi del sistema politico-istituzionale nazionale e la dimensione culturale, l’autore arriva a sostenere che “le ragioni sistemiche che rendono plausibile lo scisma, sono le stesse che lo rendono implausibile”. Infatti Nord Est, Nord Ovest ed Emilia, a fronte di una marcata somiglianza nella struttura produttiva, presentano altresì profonde diversità culturali: non c’è sovrapposizione tra condizioni strutturali e livello socio-culturale. Il Nord è ben poco integrato al suo interno: dal punto di vista strutturale appare come un’area accomunata da un unico modello di sviluppo, ma priva di sufficienti interconnessioni interne. Inoltre per usare le stesse parole di Magatti “non c’è un potenziale etnico (o linguistico o religioso) accumulato o latente da evocare per costruire una nuova comunità immaginata (…). L’unica risorsa disponibile alla quale si può fare riferimento è il localismo, che da sempre caratterizza queste regioni italiane”. Tuttavia giocare la partita dell’identità etnica, puntando tutto sul localismo presenta una contraddizione di fondo difficilmente superabile: trasformare il localismo in mobilitazione etnico-territoriale significherebbe infatti scegliere di radicarsi in profondità presso quei gruppi ed in quelle zone dove l’istanza localistica è molto sentita, rischiando però di allontanare tutta quella componente sociale interessata esclusivamente agli aspetti economici ma diffidente nei confronti dei richiami relativi all’identità territoriale; e d’altra parte, rinunciare a muovere questa pedina significherebbe perdere l’unica risorsa a disposizione per compattare interessi differenziati ancorchè territorialmente concentrati. Dunque, i margini effettivi per la realizzazione di uno scisma appaiono, allo stato attuale, alquanto ristretti. Tuttavia l’azione svolta dalla Lega ha già avviato interi gruppi sociali ad abbracciare nuovi criteri di verità: aldilà degli esiti politici ci si domanda quale sarà l’identità culturale delle aree dove la protesta si è più radicata dopo dieci anni di propaganda leghista. In conclusione, l’autore sostiene che “il successo di ogni ipotesi riformatrice dipende prima di tutto dal ruolo che i soggetti sociali radicati nel territorio svolgeranno nei prossimi anni e dal contributo che sapranno dare alla ridefinizione di un diverso e più positivo rapporto tra pluralismo e cittadinanza, in un contesto tradizionalmente particolaristico. Se ciò non avverrà, la marea irrefre- 14 LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA nabile delle crescenti aspirazioni individuali si scontrerà inevitabilmente con l’inflessibilità dei sistemi, provocando anarchia e caos.” LA PROSPETTIVA D’INDAGINE La nostra indagine si colloca dunque in un ampio e variegato insieme di ricerche che ha analizzato nel corso degli anni Novanta l’Italia settentrionale, restituendo, pur con obiettivi, approcci e metodologie differenti, un’immagine composita e articolata dell’area. Anche quel malessere di fondo, che sembra fare da minimo comune denominatore della “questione settentrionale”, stenta a giocare un ruolo unificatore di una latente identità padana, come nelle prime interpretazioni leghiste, proprio perché quei comuni elementi rappresentati, in estrema sintesi, dal rancore verso la centralità statale e dall’ansia da competizione europea e globale, si combinano variamente con le differenze (culturali, sociali, economiche ecc.) che caratterizzano il territorio padano. Rispetto agli obiettivi di questo lavoro, è più interessante notare come le precedenti ricerche abbiano evitato, almeno in parte, di appiattirsi sulla prospettiva dello Stato-nazione nel considerare la sfida dell’integrazione europea e della globalizzazione, per avviare una riflessione a partire dalla misura regionale (Coppola, 1998). PARTIRE DALLA ETEROGENEITÀ ALLA RICERCA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE Un dato da cui questa ricerca è quindi dovuta partire è quello della eterogeneità dell’area, una realtà composita, dove non è possibile rintracciare un modello, quanto una molteplicità di modelli di sviluppo. Tuttavia, come rilevava la ricerca della Fondazione Agnelli (Bramanti e Senn, 1992), se l’Italia settentrionale è composta di realtà diverse, esse appaiono collegate in modo funzionale, apparendo come un sistema di sistemi, e sottoposto quindi a sfide e soggetto a vincoli comuni, che ricevono comunque risposte differenziate in ragione dei diversi contesti territoriali. Ed è in questa chiave sintetica che si è tentato di cogliere l’Italia settentrionale, alla ricerca di quegli aspetti che accomunando i singoli territori richiedono capacità di risposta di sistema. La questione che ci si è posta, cioè, non è tanto quella se l’Italia del Nord possa essere considerata come un unicum – domanda che, come si è visto, ha già ricevuto più di una risposta negativa – ma se possa agire come sistema, in date circostanze, a fronte di sfide e vincoli comuni. Che cosa intendiamo per Italia settentrionale? È indifferente parlare di Italia del Nord e di Padania? Quali sono i confini dell’Italia settentrionale? Di fatto l’oggetto di questa ricerca non è affatto definito. Si è scelto, nel nostro caso, di fare generalmente riferimento ad una definizione statistica, che sembra rivestire una sorta di pseudo-ufficialità e soprattutto offre il conforto di confini regionali amministrativi su cui poter basare la ricerca e l’analisi dei dati. Si tratta cioè del classico raggruppamento delle otto regioni che compongono il Nord Italia nelle statistiche Istat e Eurostat (dove il Nord Italia è ad un livello superiore suddiviso in quattro macroregioni Nuts 1): il Piemonte, la Valle d’Aosta, la Liguria (il Nord Ovest secondo le definizioni Eurostat Nuts1), la Lombardia e l’Emilia Romagna, e il Nord Est (Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino). Questa definizione statistica risente, giova sempre ricordarlo, della scarsa aderenza del disegno amministrativo alla realtà socio- 15 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA economica del territorio italiano, esito di un ritaglio regionale introdotto nel 1864 per fini statistici5. LE IMMAGINI DELL’ ITALIA SETTENTRIONALE LA PADANIA: UNA METAFORA ALLA RICERCA DI UN TERRITORIO È comunque più interessante soffermarsi sul significato implicito delle espressioni Italia settentrionale (o Nord Italia) e Padania e sul loro operare in quanto metafore geografiche evocatrici di significati più profondi che non limitarsi all’immediato riferimento territoriale. La Padania, letteralmente, dovrebbe corrispondere al bacino del Po, e proprio il suo legame con la dimensione orografica, che la avvicina ad una regione naturale, rafforza in apparenza la capacità di questo termine di esprimere una presunta dimensione etnico-nazionalistica; nel superare il riferimento al Nord, il termine prolunga la sua potenziale “comunità immaginata” verso il Centro (Giordano, 1999), abbracciando parte della Toscana e delle Marche. Come rileva Diamanti (Il Sole 24 ore, 12/3/98), la Lega per sottolineare la sua svolta secessionista ha sostituito il riferimento al “Nord”, carico di specificità economico-sociali, acon un’etichetta, la “Padania” che evocava non un territorio, ma una patria, una comunità di valori, storia, cultura. Ma – lo si è sottolineato da più parti (cfr. ad esempio Bagnasco, 1997; Magatti, 1998) – l’immagine della Padania non trova fondamenti sotto il profilo storico, piuttosto che etnico, culturale, economico o sociale. Essa appare dunque sempre più compromessa con le posizioni leghiste maggiormente rivolte all’ipotesi secessionista (peraltro piuttosto in disarmo), e sempre meno efficace nel trasmettere una qualche sorta di immagine unitaria all’Italia settentrionale, e tantomeno un “marchio” come auspicato in alcune ricerche a ciò finalizzate (Detragiache e Rossetto, 1993). Come emerge da alcuni indagini relativamente recenti, condotte su un campione di 900 persone del Nord Italia (Emilia Romagna esclusa), la Padania sembra scarsamente rappresentare una “etichetta” territoriale in cui i cittadini si possano riconoscere, mentre “identità locale” (la città) e, in subordine, “identità nazionale” prevalgono sugli altri riferimenti territoriali (tab. 1 e 2). Tab. 1 – Da Ovest a Est in crescita la frammentazione territoriale. A quale di queste aree lei sente di appartenere maggiormente? Due sondaggi a confronto Gennaio ‘98 % (1) Dicembre ‘96 % (2) Alla sua città 27,7 32,4 All’Italia 23,4 27,6 Alla sua regione 15,8 14,4 Al mondo intero 12,7 9,2 Al Nord 7,0 5,8 All’Europa 6,6 3,8 Al NO/Lomb./NE 4,7 3,7 Alla Padania 2,1 3,1 Totale 100,0 100,0 N.R. 0,3 1,5 Base (Val. ass.) 900 900 5 Per una efficace sintesi del dibattito sulla regionalizzazione del territorio italiano si vedano, ad esempio, Coppola (1998) e Bonora (1984). 16 LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA (1) Fonte: Sondaggio Poster, gennaio 1998 (2) Fonte: Sondaggio Poster-Limes, dicembre 1996 (tratta da Il Sole 24 ore, 12/3/98) 17 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA Tab. 2 – Percentuale fra i simpatizzanti di partito Rc Pds Ppi Fi Città 24,4 28,7 26,5 21,1 Regione 14,1 17,4 8,8 18,2 NO/Lomb./NE 1,3 2,6 5,0 6,0 Nord 4,9 3,4 6,8 9,2 Padania 1,4 1,9 4,0 1,1 Italia 24,5 22,1 26,4 31,4 Europa 9,5 8,5 6,6 7,7 Mondo 19,8 15,5 15,9 5,3 Fonte: Sondaggio Poster, gennaio 1998 (tratta da Il Sole 24 ore, 12/3/98) IL “NORD” COME SINONIMO DI SVILUPPO DALLE LETTURE DUALISTICHE … ALLA SCOPERTA DEL TERRITORIO AL PLURALE An 22,8 12,6 4,7 12,6 1,5 31,4 5,6 8,7 Lega 28,6 18,4 10,4 14,6 6,6 12,6 5,0 3,7 Mentre nel termine Padania c’è un collegamento con una dimensione naturale (da cui si presume, quale assunto non dimostrato, che ne debba derivare un’unitarietà storica, linguistica, culturale, economica ecc.), espressioni come “Italia del Nord” o “Italia settentrionale” hanno un riferimento geografico relativo, e si saldano con i dualismi dello sviluppo italiano e con l’immagine del Nord Europa trainante (in termini economici, ma anche, e forse soprattutto, sociali, politici, civili ecc.). La metafora geografica Nord/Sud opera pienamente come riferimento ad un “Nord” (italiano, europeo, mondiale) che appare sinonimo di sviluppo, rispetto ad un Sud arretrato, in ritardo. Lo schema dualistico, nella sua limpidezza cartesiana, sembra avere tuttora una forte rilevanza implicita, nonostante la scoperta della Terza Italia e, successivamente, dei pluralismi territoriali. Come rileva Coppola (1998, p. 31) “siamo ancora per molti aspetti orfani degli schemi dualistici (Nord/Sud), abbiamo appena fatto a tempo ad assimilare letture “trialistiche” (Nord/Ovest-Nord/Est-Centro/Sud), dobbiamo ora abituarci sempre di più a guardare alla pluralità dei modelli locali di sviluppo; mentre rimaniamo, al fondo, ben convinti che su piani diversi le varie partizioni trovino tutte ancora un proprio senso e vasti fronti di convivenza” accostando […] “visioni fortemente duali (per esempio, sul piano dello Stato sociale) con passaggi impregnati di scansioni trialistiche e con frammentazioni in chiave di localismi (soprattutto sul versante economico-industriale)”. Le immagini evocate per rappresentare l’Italia del Nord tendono sempre di meno a rappresentarla come realtà unitaria ed omogenea. Le differenze territoriali tra Nord e Sud sono state interpretate in maniera tale che l’identificazione di una scala di riferimento per comprendere l’Italia settentrionale si è fatta via via più difficoltosa (Conti e Sforzi, 1998). Il modello dualista Nord-Sud riduceva di fatto il Nord Italia al solo “triangolo industriale” Torino-Genova-Milano, impedendo agli osservatori di comprendere le trasformazioni che stavano modificando la struttura dell’Italia centrale e nordorientale. Successivamente le teorizzazioni della Terza Italia hanno portato a identificare un’area più o meno omogenea che comprendeva regioni come il Veneto, il Friuli, l’Emilia Romagna, la Toscana e le Marche, e quindi conducevano a una scala che, nei fatti, rendeva impossibile parlare dell’Italia settentrionale come di un unicum. Le rivendicazioni leghiste, in terza battuta, hanno introdotto una rottura nell’immagine della Terza Italia, evidenziando un’ipotetica Padania socio-economica che vede il cuore produttivo dell’area nel tessuto di imprese medio-piccole e di campagne urbanizzate che si estende dal Piemonte orientale al Veneto (Mainardi, 1998; Diamanti, 1998). Da un’opposta prospettiva, la concettualizzazione della Terza Italia è stata superata dal corpo di studi sullo sviluppo locale, che vede nel sistema locale (sia 18 LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA esso un distretto industriale o un’area di grande industrializzazione, un’area metropolitana o una località turistica) la scala fondamentale alla quale si coagulano identità territoriale e connessione al Sistema-mondo, e alla quale, soprattutto, dovrebbe essere risolto il problema della governabilità (Becattini, 1996; Sforzi, 1995). UNA LETTURA LONGITUDINALE Una chiave di lettura alternativa della geografia dello sviluppo della realtà socio-economica italiana è stata recentemente proposta dal Censis (1997): non più improntata sulla tradizionale contrapposizione Nord-Sud ma tra Est e Ovest, con il passaggio da una modellistica latitudinale al riconoscimento delle nuove fratture longitudinali, che sembra meglio garantire una lettura del possibile futuro del Paese (tab. 3). La frattura tra l’area centro-settentrionale e il Mezzogiorno cresce, ma essa cela in realtà una notevole dinamicità socioeconomica del Mezzogiorno adriatico ed un rallentamento dell’area nordoccidentale del Paese. La parte Est del Paese ha registrato incrementi di Pil superiori alla parte Ovest, così come in termini di apertura internazionale, dove l’Est sopravanza ormai l’Ovest. L’area Est-Sud ha registrato dei maggior incrementi di Pil (1981-95) rispetto all’Ovest-Nord. Tab. 3 – Nuove e vecchie geografie del Paese: la lettura Nord-Sud e la lettura Est-Ovest del Censis Composizione territoriale delle aree considerate Popolazione resi- V.A. servizi Export (mil. non destidente 1996 lire nabili alla migliaia % sul 1995) vendita di abitan- totale % sul (mil. Lire ti 1995) % sul totale totale Ripartizioni tradizionali Nord 25.519 44,4 56,9 75,8 Nord Ovest 15.023 26,1 34,1 45,3 Piemonte, Valle d'Aosta, Lombardia, Liguria Nord Est 10.496 18,3 22,8 30,5 Trentino A.A., Veneto, Friuli V.G., Emilia Romagna Centro 11019 19,2 20,3 14,9 Toscana, Marche, Umbria, Lazio Sud 20923 36,4 22,8 9,3 Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna Italia 57.461 100,0 100,0 100,0 Ripartizioni alternative Est 21094 36,7 40,2 48,3 Est-Nord 14051 24,5 30,9 41,2 Lombardia (prov. Como, Bergamo, Brescia, Cremona, Mantova), Trentino A.A., Veneto, Friuli V.G., Emilia Romagna Est-Centro 1448 2,5 2,6 3,1 Marche Est-Sud 5595 9,7 6,7 4 Abruzzo (esclusa prov. L'Aquila), Molise, Puglia, Basilicata (prov. Matera) Ovest 36367 63,3 59,8 51,7 Ovest-Nord 11467 20,0 26 34,6 Piemonte, Valle d'Aosta, Lombardia (prov. Milano, Lodi, Varese, Pavia, Sondrio), Liguria Ovest-Centro 9572 16,7 17,7 11,8 Toscana, Umbria, Lazio, Abruzzo (prov. L'Aquila) Ovest-Sud 15328 26,7 16,1 5,3 Campania, Calabria, Basilicata (prov. Potenza), Sicilia, Sardegna Fonte: Censis, 1997 19 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA LA POSIZIONE GEOECONOMICA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE UN’AREA FORTE NEL CONTESTO ITALIANO … Osservando i dati della tabella 3, risulta evidente il peso dell’Italia del Nord, considerando la tripartizione tradizionale dell’Italia: in quasi il 40% della superficie territoriale nazionale (di cui il 45% in territorio montano), occupando quasi il 60% delle zone di pianura a disposizione dell’Italia, troviamo il 44,4% della popolazione italiana. Rinviando alle singole schede della ricerca per dati più specifici e approfonditi, è sufficiente notare come l’Italia del Nord pesi per quasi il 57% del valore aggiunto dei servizi non destinabili alla vendita e per oltre il 75% delle esportazioni nazionali. Un dato strutturale di sintesi emerge dall’osservazione dell’indice di sviluppo economico e sociale elaborato da Confindustria a livello regionale e provinciale (tab. 4, fig. 1 e 2), costruito sulla base di una pluralità di indicatori e non sui soli dati di Pil6. Considerando i dati a livello regionale (fig. 2) emerge ancora forte la separazione Centro-Nord e Sud. Al vertice della graduatoria dell’indice di sviluppo, al 1996, troviamo la Valle d’Aosta (124), al secondo posto l’Emilia Romagna (135) seguita da Lombardia (132), Piemonte (143), Toscana (122), Veneto (120) mentre solo decima risulta la Liguria (102), preceduta dalle Marche (109), probabilmente per il più basso livello di imprese industriali e di esportazioni (Confindustria, 1998). Tab. 4 – Distribuzione delle province e della rispettiva popolazione residente secondo l’indice di sviluppo nel 1996 Ripartizioni terLivello dell’indice di sviluppo ritoriali Alto MedioMedio MedioBasso Totale alto basso NUMERO PROVINCE Nord Ovest Nord Est Centro Sud Isole Italia 8 9 4 21 9 8 3 20 7 5 9 21 5 9 6 20 14 7 21 24 22 21 23 13 103 9.104 3.985 13.089 15.023 10.496 11.019 14.159 6.764 57.461 POPOLAZIONE (migliaia di abitanti) Nord Ovest 5.898 Nord Est 5.307 Centro 1.759 Sud Isole Italia 12.964 Fonte: Confindustria, 1998 6.943 3.066 1.012 11.021 2.181 2.123 6.597 10.901 6 1.652 5.055 2.779 9.486 L’indice sintetico di sviluppo economico e sociale è costruito mediante l’elaborazione statistica delle seguenti serie di dati: forze di lavoro occupate, nuove iscrizioni in anagrafe della popolazione, consistenza imprese industriali, consumo di energia elettrica, autovetture immatricolate, vendita carburanti per auto, depositi bancari, spese per spettacoli e manifestazioni varie, pensioni erogate dall’Inps, esportazioni di merci (Confindustria, 1998). 20 LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA I dati a livello provinciale, se da un lato confermano le gerarchie territoriali, dall’altro svelano una realtà più articolata e vedono, sempre al 1996, ai primi 10 posti, nell’ordine (Prato, Modena, Reggio Emilia, Milano, Aosta, Bologna, Vicenza, Parma, Verona e Como). La tabella 4 (cfr. anche la fig. 2) riporta un quadro sinottico della distribuzione delle province e della popolazione secondo l’indice di sviluppo7 da cui risulta che nessuna delle province settentrionali viene classificata tra le ultime due categorie, dove invece troviamo tutte le province dell’Italia meridionale e insulare. Delle 24 province del Nord Ovest, ben 17 (85,5% della popolazione) si collocano nelle due categorie più alte ed una situazione quasi identica si ritrova per il Nord Est (17 province su 22, il 79,8% della popolazione). … CON PROSPETTIVE DIFFERENZIATE Se il peso del Nord Ovest è ancora prevalente, è ormai consolidato il crescente protagonismo del Nord Est, in particolare del Veneto, del Friuli Venezia Giulia e dell’Emilia Romagna, come risulta dalle tabelle 5 e 6, che riportano anche le proiezioni al 2002 e al 2010 elaborate da Prometeia nel maggio 1999. In particolare traspare, in prospettiva, il minor dinamismo del Nord Ovest, il cui numero indice in termine di Pil procapite scende dal 124,4 del 1988 al 120,0 al 2010 (secondo le stime Prometeia), mentre il Nord Est passa da 119,3 a 127,3, con un ulteriore balzo in avanti del Friuli Venezia Giulia e del Veneto, ma soprattutto dell’Emilia Romagna Tab. 5 – Pil a prezzi costanti 1990 (tassi di variazione medi annui) Regioni 1989-1993 1994-1998 1999-2002 2003-2010 Piemonte Valle d'Aosta Liguria Lombardia Trentino Alto Adige Veneto Friuli Venezia Giulia Emilia Romagna 0,1 1,4 0,9 0,7 1,9 2,0 1,5 1,4 2,1 1,4 0,9 2,1 1,6 2,5 1,7 2,1 2,1 2,5 2,7 2 1,9 2,2 2,3 2,7 2,5 2,5 2,4 2,6 2,6 3,0 3,0 3,2 Nord Ovest Nord Est Centro Sud 0,6 1,7 1,4 1,1 2,0 2,2 1,6 1,1 2,1 2,4 2,7 2,6 2,6 3,0 3,0 2,7 Italia 1,1 1,7 2,4 2,8 Fonte: Prometeia, Scenari regionali, maggio 1999 7 Nella tabella 4 le province sono state attribuite tra i diversi livelli dell’indice di sviluppo (Is) con il metodo dei quintili. 21 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA Tab. 6 – Pil per abitante a prezzi costanti 1990 (n. indice Italia = 100) Regioni 1988 1993 1998 Piemonte 116,8 113,1 116,5 Valle d'Aosta 132,4 131,6 128,2 Liguria 111,4 114,2 112,6 Lombardia 130,5 127,8 130,0 Trentino Alto Adige 122,8 126,0 122,9 Veneto 114,0 119,1 122,8 Friuli Venezia Giulia 113,9 118,4 120,2 Emilia Romagna 126,1 128,2 131,1 Nord Ovest 124,4 122,1 124,2 Nord Est 119,3 123,0 125,6 Centro 107,7 109,5 109,0 Sud 68,8 68,2 65,8 Italia 100,0 100,0 100,0 2002 116,2 127,0 116,9 126,8 119,1 121,5 121,0 132,7 122,8 125,4 110,0 66,3 100,0 2010 115,7 122,2 118,9 123,6 115,1 122,3 124,8 136,8 120,9 127,3 110,8 66,2 100,0 Fonte: Prometeia, Scenari regionali, maggio 1999 IL CONTESTO EUROPEO COME SCENARIO DI FONDO Se l’Italia settentrionale, pur con andamenti differenziati nelle sue diverse partizioni, mantiene comunque un peso determinante nell’economia italiana, come si ridefinisce la sua importanza all’interno dello spazio comunitario? Cercheremo di esaminare sinteticamente il tema della collocazione europea dell’Italia del Nord, come macroregione e nelle sue componenti regionali, attraverso il ricorso agli usuali indicatori statistici Eurostat, rinviando alle singole schede tematiche per alcuni approfondimenti (demografia, reti urbane, sistemi formativi, ricerca e sviluppo ecc.). In una prospettiva dell’integrazione europea modellata sul gradiente centroperiferia, l’Italia settentrionale si pone, apparentemente, quale naturale raccordo tra il “cuore” propulsivo dell’Europa comunitaria e le periferie in ritardo dell’Europa dell’Est, del Sud e del Mediterraneo. Questo tipo di lettura si presta logicamente ad assegnare all’Italia settentrionale un ruolo di cerniera fra regioni deboli e regioni forti. Essa ha ricevuto notevoli conferme, nel corso degli anni Ottanta e Novanta, dall’affermazione di alcune rappresentazioni di successo dell’assetto del territorio europeo. Si pensi in primo luogo al famoso studio francese della fine degli anni Ottanta (Brunet, 1989) che attribuisce al sistema urbano dell’Italia settentrionale un ruolo significativo nel quadro del sistema urbano continentale. Esso viene infatti individuato, da un lato, come estremità meridionale della “dorsale centrale europea” di importanza consolidata, dall’altro, come segmento orientale di una nuova direttrice di sviluppo cui viene attribuita la possibilità di controbilanciare (almeno in parte) la dominanza della dorsale centrale: una fascia ispano-franco-padana comprendente la Spagna nord-orientale, la Francia meridionale e, appunto, l’Italia settentrionale (si veda la figura 2 nella scheda sulle reti urbane). In questa prospettiva, viene appunto attribuito alla densa rete urbana padana, e in particolare lombarda, il ruolo di “snodo” fra questi due assi portanti del sistema urbano continentale, e alla conurbazione milanese quello di polo dominante nell’ambito del sistema urbano dell’Europa meridionale. 22 LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA LE MACROREGIONI PER UN NUOVO ASSETTO DEL TERRITORIO EUROPEO Sempre con riferimento alla scala continentale, si può infine ricordare come, nella suddivisione del territorio dell’Unione europea in dieci “macroregioni transnazionali” proposta nel noto rapporto Europa 2000 della Direzione Generale XVI della Commissione europea (CE DG XVI, 1995), il territorio del nostro paese venga a sua volta suddiviso in tre insiemi territoriali, ognuno dei quali compreso in una delle macroregioni individuate: • • • L’ITALIA SETTENTRIONALE: UNO SPAZIO DI INTEGRAZIONE TRANSFRONTALIERA l’Italia settentrionale (corrispondente alle otto regioni considerate nel nostro studio con l’esclusione della Liguria e con l’aggiunta delle Marche) viene a far parte della macroregione denominata “arco alpino”, comprendente anche le regioni alpine di Francia, Austria e Germania; la Liguria, la Toscana, il Lazio, l’Umbria e la Sardegna sono comprese nella macroregione denominata “arco latino” (o “Mediterraneo occidentale”), costituita dalla fascia costiera mediterranea di Spagna, Francia e Italia; le restanti regioni del Mezzogiorno, insieme alla Grecia, fanno invece parte della macroregione denominata “Mediterraneo centrale”. L’arco alpino, da barriera fisica sembra dunque venire sempre più interpretato come spazio strategico: da un lato, in quanto spazio di attraversamento delle reti lunghe infrastrutturali verso Nord e verso Est, dall’altro, in termini di contiguità territoriale, è il teatro di sempre più intense iniziative di cooperazione interregionale transfrontaliera e di formazione di euroregioni (la Comunità delle Alpi Occidentali, il progetto Alpi del Mare a Sud Ovest, i rapporti Torino-Lione, l’euroregione Insubria, il gruppo di lavoro delle Alpi Centrali, l’euroregione Tirolo Alpina, l’Arge Alpe Adria ecc.). Mentre le iniziative transfrontaliere presentano un notevole dinamismo – anche sulla spinta del timore che la fascia alpina partecipi in modo debole e passivo alle relazione fra la macroregione padana e gli spazi francese, tedesco, danubiano-balcanico – la realizzazione delle reti lunghe infrastrutturali procede a rilento con scenari dagli esiti ancora incerti per quanto riguarda l’Italia settentrionale e il suo assetto interno. Il che costituisce, come si è visto, uno dei temi dominanti di un malessere e di un disagio che attraversa l’Italia settentrionale. IL NORD ITALIA E LE REGIONI FORTI EUROPEE Da alcuni anni a questa parte, sulla scia degli studi a supporto delle politiche regionali della Ue e delle analisi sulla competitività dei territori europei, si sono moltiplicate le proposte di ranking delle regioni europee. All’interno di queste classifiche, generalmente basate sul Pil procapite o su indici sintetici di sviluppo, che in realtà non si discostano granché dal primo, le regioni dell’Italia settentrionale occupano posizioni medio-alte. Occorre sottolineare che un confronto tra l’Italia settentrionale e le regioni forti del territorio Ue non è immediato: ad esempio, quanto a taglia demografica l’Italia del Nord con i suoi 25 milioni di abitanti ha una dimensione pari a quella della somma di Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, superiore alla somma delle ricche regioni della Germania meridionale, Bayern e Baden Württemberg (rispettivamente 12 e 10 milioni di abitanti). La tabella 7 riporta la posizione delle regioni dell’Italia settentrionale in base al Pil procapite (calcolato in termini di parità di potere d’acquisto) con un 23 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA confronto tra il 1986 e il 1996 (vedi anche figure 4 e 5). Si può notare come al 1986 tutta l’Italia settentrionale risulti compresa tra le prime 37 regioni europee, situazione che risulta migliorata al 1996, quando l’ultima regione in base al Pil procapite in ppa è il Piemonte che si trova al 32° posto. Lombardia, Valle d’Aosta ed Emilia Romagna si trovano immediatamente a ridosso delle prime 10 regioni, tra cui troviamo le regioni dell’Europa centrosettentrionale. È interessante notare il balzo in avanti nel decennio 1986-96 da parte del Nord Est (qui inteso come regione Nuts 2, cioè senza l’Emilia Romagna), che passa dalla trentaduesima posizione alla ventunesima, mentre il Nord Ovest, ed il Piemonte in particolare, perde diverse posizioni. Dall’osservazione delle figure 4 e 5 emergono piuttosto distintamente tre grandi aree dello sviluppo europeo: una zona centro-settentrionale, compresa all’incirca in un triangolo che ha i suoi vertici in Londra, Parigi e Brema; la Germania meridionale (Baviera e Baden-Württemberg) con la regione viennese e, infine, l’Italia del Nord. UN NUOVO ASSE DI SVILUPPO: LA DIRETTRICE RENO-PO Queste semplici osservazioni risultano avvalorate da più approfondite analisi del processo di convergenza delle regioni europee. Rileva Leonardi (1995, p. 152), analizzando la dinamica delle regioni europee dal 1950 al 1995, come l’epicentro della forza economica europea si sia spostato gradualmente dalle sponde del Canale della Manica verso localizzazioni più a Sud lungo il Reno, e più di recente anche sorpassando le Alpi nell’Italia del Nord. “Ad eccezione della regione di Groningen che produce gas naturale, la lista delle regioni che risultavano le prime dieci nel 1995 sembra sorprendentemente simile all’asse nord-sud del conglomerato di regioni e città-stato che aveva dominato l’attività economica e i commerci in Europa durante il periodo del Rinascimento, cioè prima del consolidamento del sistema degli stati-nazione. Ciò diventa evidente quando si guarda al secondo gruppo di regioni al vertice (quelle classificate dall’undicesima alla ventesima posizione) nel quale troviamo il resto dell’Italia del centro-nord e i rimanenti Länder tedeschi”. La figura 6 ci propone una classificazione delle regioni europee sulla base della specializzazione produttiva (agricoltura, industria o servizi), calcolata sulla base della percentuale di occupati nel comparto. Si può notare come le regioni maggiormente dipendenti dai servizi siano raggruppate alle grandi città capitali del Centro Nord, ma includano anche un’area mediterranea tra Roma e la Costa Azzurra. Tra di esse spiccano Londra, l’Ile de France e i centri commerciali di Amsterdam e l’Aia. Le regioni a specializzazione manifatturiera si possono trovare nella Germania meridionale, nell’Italia del Nord (Piemonte, Lombardia e Veneto) e nella Spagna settentrionale. La specializzazione manifatturiera sembra più associata con città di minore dimensione rispetto alle metropoli specializzate nei servizi e a reti urbane policentriche (come nel Nord Est e nella Spagna settentrionale). 24 LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA Tab. 7 – L’Italia del Nord tra le regioni europee (Pil pro capite in ppa, Eur 15 = 100) Regioni 1986 rank Regioni 1996 rank Hamburg – D Région Bruxelles-cap. – B Île de France – F Darmstadt – D Greater London – Gb Wien – A Bremen – D Stuttgart – D Oberbayern – D Luxembourg – Lu 185 163 162 152 148 148 144 143 141 137 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Hamburg – D Région Bruxelles-cap. – F Darmstadt – D Luxembourg – Lu Wien – A Île de France – F Oberbayern – D Bremen – D Greater London – D Antwerpen – B 192 173 171 169 167 160 156 149 140 137 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Stockholm – Sve Åland – F Lombardia – I Uusimaa – F Valle d'Aosta – I Berlin – D Emilia Romagna – I Antwerpen – B Mittelfranken – D Karlsruhe – D Düsseldorf – D Grampian – Gb 133 132 132 129 129 128 125 124 124 123 122 122 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 Stuttgart – D Groningen – Nl Emilia Romagna – I Lombardia – F Valle d'Aosta – I Uusimaa – F Trentino Alto Adige – I Friuli Venezia Giulia – I Grampian – Gb Karlsruhe – D 135 134 133 132 131 129 128 126 126 126 125 124 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 Noord-Holland – Nl Köln – D Piemonte – I Nord Ovest – I Trentino Alto Adige – I Rheinhessen-Pfalz – D Alsace – F Liguria – I Salzburg – D Nord Est – I 117 117 117 116 115 114 114 114 113 112 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 124 123 123 121 121 120 119 119 118 118 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 Haute-Normandie – F Lazio – I Umbria – I Friuli Venezia Giulia – I Veneto – I 112 112 112 112 112 33 34 35 36 37 Nord Est – I Berkshire, Buckinghamshire, Oxfordshire – Gb Veneto – I Mittelfranken – D Stockholm – I Salzburg – D Noord-Holland – Nl Utrecht – Nl Düsseldorf – D Liguria – I Nord Ovest – I Piemonte – I Fonte: Eurostat, (EC, 1999) 25 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA ALLA RICERCA DI UN RUOLO EUROPEO: QUESTIONI APERTE In conclusione, intendiamo esaminare brevemente alcune questioni aperte circa il ruolo che l’Italia del Nord potrebbe (e dovrebbe) giocare in chiave europea. Si tratta di aspetti che vengono sfiorati dagli sguardi tematici che strutturano la ricerca, ma da cui ricevono delle indicazioni conoscitive e degli stimoli interpretativi su cui articolare un futuro approfondimento specifico. L’ITALIA DEL NORD COME PROGETTO … … PER “FARE SISTEMA” NELLA COMPETIZIONE TERRITORIALE Una prospettiva di fondo comune alle diverse analisi e riflessioni che si sono soffermate negli anni recenti sull’Italia settentrionale è la considerazione (quasi un assunto da non dimostrare) che l’Italia settentrionale possa e debba giocare un ruolo strategico per la sua collocazione geoeconomica e geopolitica. Per un certo periodo si è anzi ritenuto che l’evocare un termine, come quello di “Padania”, potesse contribuire in questa direzione, una sorta di marchio che il generico riferimento geografico “Italia del Nord” sembrava troppo debole per affermare (cfr. in particolare Bramanti e Senn, 1992; Detragiache e Rossetto, 1993). Come rilevava Mazza nella già citata indagine della Fondazione Agnelli (Mazza, 1992), la Padania di per sé, intesa come area di studio definita e riconosciuta dalle ricerche territoriali, non esiste. È soprattutto un’immagine progettuale politica che potrebbe diventare (ma non l’ha tuttora fatto, se si eccettuano i piani di bacino) un’immagine progettuale della cultura tecnica. Giustamente, concludeva Mazza (1992, p. 302), “non si tratta tanto di sapere se esista o quale sia la Padania, ma di decidere quale Padania si voglia eventualmente costruire od organizzare…”. Anche senza impiegare un termine, quello di Padania, ormai troppo connotato politicamente, il riferirsi – in modo più soft, come si è fatto in questa ricerca – all’Italia del Nord, il tentare di coglierne alcuni caratteri socioeconomici, significa implicitamente evocarne un significato progettuale. L’aver cioè scelto di articolare la riflessione sull’Italia del Nord è già una sorta di ammissione che questa partizione territoriale possa avere un senso in quanto progetto collettivo, a certe condizioni e per certi obiettivi che vanno esplicitati. Come si è visto, nel dibattito corrente i possibili riferimenti al Nord Italia si collocano tra due estremi opposti. A un estremo, l’Italia settentrionale appare come un aggregato un po’ desueto, una ripartizione statistica che scompare di fronte alle differenti dinamiche delle sue parti, per essere più efficacemente sostituita, ad esempio, da “tagli longitudinali” Est-Ovest come propone il Censis (1997); all’estremo opposto, essa acquista un senso forte in quanto soggetto politico in cerca di un qualche riconoscimento istituzionale, pur senza poterla ricondurre ad una qualche forma di omogeneità culturale, storica, economico-funzionale ecc., che, come si è visto, appare priva di fondamento. Questa ricerca – che, è bene ribadirlo, non si occupa direttamente di questioni istituzionali, oggetto di futuri approfondimenti – nel guardare all’Italia del Nord si colloca in una posizione intermedia, ritenendo che alcuni aspetti, in particolare le politiche infrastrutturali e ambientali, richiedano ai soggetti politici ed economici dell’area di comportarsi come un soggetto collettivo, di “fare sistema”, di costituire una “massa critica” su alcuni progetti chiave. La vicenda dell’aeroporto di Malpensa 2000 appare istruttiva al proposito, laddove si è progettato un hub internazionale che avesse come bacino di riferi- 26 LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA mento perlomeno il Settentrione, senza aver pensato ad una politica di rete per il sistema aeroportuale del Nord, ma concependo il progetto più come un gioco a somma zero. La crescente integrazione europea sembra rafforzare l’importanza, e in parte anche le possibilità, per l’Italia del Nord di ritagliarsi un ruolo, che, come rilevava Marcello Pacini, già nel 1992, “… va progettato e organizzato, non può essere frutto di meccanismi automatici ma deve essere voluto e perseguito affinché [la Padania] diventi l’area di eccellenza dell’Europa mediterranea e il raccordo fra questa e l’Europa del centro-nord” (Pacini, 1992, p. 7). A distanza di alcuni anni, è dubbio che si sia effettivamente lavorato in questa direzione con qualche risultato di rilievo (come emerge, ad esempio, dalla scheda sui servizi alle imprese), e sarebbe utile indagare il perché. Resta il fatto che rimane tuttora forte la necessità per l’Italia del Nord di definirsi più esplicitamente un ruolo europeo. Infatti, alcuni processi in corso, quali, in particolare, le prospettive di allargamento ad Est dell’Unione europea e lo spostamento della capitale tedesca a Berlino, sembrano rafforzare ulteriormente il Nord Europa con l’affermazione di un asse Ovest-Est che unisce il “centro delle capitali” con Berlino e con l’Est europeo, “tagliando fuori” l’Italia settentrionale. Appare quindi ancora più importante un disegno di riequilibrio del territorio europeo. Non solo occorre colmare il ritardo delle regioni meridionali della Ue, ma è necessario strutturare con maggiore attenzione una politica euromediterranea che sappia cogliere l’ambiguità del Mediterraneo, allo stesso tempo momento di convergenza e frontiera “calda” che separa grandi differenze economiche, demografiche, culturali e religiose. Rimane dunque del tutto aperta e urgente la possibilità-necessità di un ruolo attivo del Nord Italia in una prospettiva geopolitica e geoeconomica che, nel rivolgersi a Est, non dimentichi la strategicità del margine Sud del territorio comunitario. PERCHÉ E PER CHI UN RUOLO EUROPEO PER L’ITALIA DEL NORD La domanda che si pone è dunque come sia possibile far sì che l’Italia del Nord possa assumere un ruolo più consapevole in chiave europea, a partire dalle diversità interne che, lungi dall’indebolirla, possono essere un punto di forza. L’esigenza di agganciarsi positivamente alla locomotiva europea, sia sul piano territoriale, sia su quello economico e sociale, è sempre più percepita allo stesso tempo come opportunità e come necessità drammatica da parte dei singoli territori. Può essere l’Italia del Nord, nel suo complesso, un progetto territoriale sul quale aggregare interessi e risorse per strategie comuni che si ponga efficacemente come livello intermedio tra l’azione degli enti locali e delle regioni in particolare e l’azione statale e comunitaria? Ciò richiede di indagare sulle forze, sulle ragioni che possono spingere verso questo ruolo di raccordo, sulla capacità dell’Italia del Nord di sopportare le tensioni centrifughe verso Ovest, Nord ed Est che possono indurre a massimizzare la competizione territoriale interna per aumentare la capacità di connessione alle reti globali. Alcune ricerche, come quella del Cnel (1996a,b; 1997b) e in parte quella della Fondazione Agnelli (Bramanti e Senn, 1992; Diamanti, 1998; Bonora, 1998) hanno cercato di rispondere a questa domanda, che rimane tuttora aperta sia nello spazio dei soggetti economici che in quello della politica. La risposta esula evidentemente dall’ambito di questa ricerca, in quanto richiede l’analisi di una serie di fattori geopolitici (aspetti istituzionali, soggetti politi- 27 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA ci ed economici ecc.) che vanno al di là degli aspetti su cui ci si è concentrati, e si propone come ulteriore tema di indagine. LE IPOTESI DELLA CERNIERA TRA IL CUORE FORTE E LE PERIFERIE DEBOLI: ALCUNE IMMAGINI CONSOLIDATE “Cucitura”, “snodo”, “cerniera”, “ponte”, gateway, “intermediario” e così via, sono le espressioni più ricorrenti per indicare i possibili ruoli che l’Italia del Nord (o le sue singole parti) può ricoprire sulla scena europea, mediterranea, ecc. (si veda, ad esempio, Bassetti, 1996). Al di là delle immagini retoriche, delle espressioni giornalistiche che giocano comunque un ruolo performativo nella costruzione di immagini territoriali, queste metafore possono avere un senso effettivo sul piano geoeconomico e geopolitico? È interessante notare come le giustificazioni di questo ruolo di “cerniera” (per usare l’espressione più utilizzata) vengano fatte derivare soprattutto dalla storia e dalla geografia (si veda il saggio conclusivo). Si è del resto già evidenziata la rilevanza che i significati impliciti nei riferimenti geografici apparentemente neutri giocano in questa partita: “nord”, “sud”, “ponte” ecc. agiscono liberamente come categorie pure. Nella stessa espressione “il Nord del Sud” con cui l’Italia settentrionale (e in parte l’arco latino) è stata designata, sono efficacemente riassunte la drammaticità e l’ambiguità della posizione dell’area. Vale la pena soffermarsi su alcune questioni sottostanti all’utilizzo di queste metafore territoriali. La funzione di cerniera è evidentemente metaforica di legami materiali (flussi di beni, servizi, persone ecc.) e immateriali (sul piano politico, economico, culturale ecc.) che l’area dovrebbe essere in grado di attivare, in particolare tra il Nord Europa più ricco e il Sud e l’Est in ritardo. Da questo punto di vista è opportuno provare a distinguere tra due diversi tipi di spazi (e in parte anche di scale) in cui questi legami possono operare (Dematteis, 1998). Si tratta di una distinzione che solo in parte può essere ricondotta alla contrapposizione “reti lunghe-reti corte” (si veda ad esempio Bonomi, 1997), la quale non considera che i due tipi di reti operano in realtà in due diverse tipologie di spazi, con proprietà differenti. L’ITALIA DEL NORD TRA RELAZIONI DI PROSSIMITÀ E RELAZIONI DI RETE Un primo spazio è di tipo “areale”, basato su relazioni di prossimità tra sistemi territoriali contigui. Le relazioni “di prossimità” avvengono in uno spazio strutturato sulla distanza fisica, dove le forme fisiche e le eredità storiche giocano condizionamenti rilevanti. Da questo punto di vista l’Italia del Nord sembra ricoprire un ruolo dinamico di raccordo come ad esempio dimostrano, verso Nord, l’effervescenza delle iniziative di cooperazione transfrontaliera lungo tutto l’arco alpino (si veda la figura 7), così come le iniziative di cooperazione interregionale verso Sud (si veda ad esempio il Patto territoriale dell’Appennino tosco-emiliano). Ed è in questo tipo di spazio che si percepisce con più drammaticità il divario nella dotazione infrastrutturale, soprattutto di trasporto, rispetto alle regioni forti europee, anche quando si fa per esempio riferimento alle reti lunghe dell’alta velocità ferroviaria che dovrebbero connettere l’Italia del Nord alle grandi reti transeuropee di trasporto. Un secondo spazio è di tipo “reticolare”, discontinuo e disomogeneo, con relazioni di rete di lunga distanza, dove i sistemi territoriali agiscono come “nodi” di reti di interazioni sovra-regionali. Le relazioni “di rete” risentono scarsamente dell’ “attrito della distanza fisica”, ma riflettono la divisione del lavoro a scala sovra-regionale indicando il grado di globalizzazione dei sistemi urbani a cui fanno capo (Dematteis, 1998, p. 347). Le relazioni 28 LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA dell’Italia del Nord in questo tipo di spazio, e le sue capacità-possibilità di cerniera, sono il riflesso della proiezione internazionale (in entrata e in uscita) dell’area (si vedano in particolare le schede sulle reti urbane, sulla internazionalizzazione e sulla R&S), laddove la crescente apertura agli scambi con le reti globali sembra difficilmente conciliarsi con la coesione interna ai sistemi territoriali che compongono il mosaico dell’Italia settentrionale. A QUALE LIVELLO PUÒ OPERARE LA CERNIERA? PUNTI DI VISTA Una seconda questione riguarda il livello a cui si suppone debba operare questo ruolo di cerniera: a livello di singola città o contesto locale, a livello di regione (istituzionale e non) o a livello di macroarea dell’Italia del Nord? Come è forse connaturato con la dialettica globale-locale e in un’ottica di sempre più spinto “marketing territoriale”, ogni partizione territoriale intermedia al Settentrione tende a ritagliare più o meno legittimamente per sé un ruolo di cerniera: lo fa in particolare Milano in quanto è la città più globale dell’area e l’unica piazza quaternaria e finanziaria; lo fanno, con altre motivazioni, il Piemonte (e Torino in particolare), il Veneto o l’Emilia Romagna. Su questi livelli si registra un certo dinamismo – come le iniziative “Quattro motori per l’Europa” o “Il Diamante Alpino” ecc. – finanche un po’ affannoso. A livello di macroarea, con alcune debite eccezioni (il Club delle Camere di Commercio o su un altro piano il Comitato Promotore Transpadana), si riscontra una notevole difficoltà a “fare sistema” su iniziative comuni nei confronti dell’estero. Quest’ultima questione è infine legata al punto di vista da cui guardare alla cerniera, che può essere interno o esterno all’area. In altre parole si tratta di confrontare le immagini dei ruoli che l’Italia del Nord (o le sue singole parti) si autoattribuisce, con le modalità con cui, eventualmente, il ruolo dell’area viene rappresentato ai livelli nazionali, o al livello comunitario. All’interno dell’area, l’immagine e il ruolo dell’Italia Settentrionale appaiono molto diversi se guardati dal punto di vista di Torino, di Milano, del Nord Est (si veda, ad esempio la figura 8) o delle zone di frontiera, come hanno evidenziato le citate ricerche della Fondazione Agnelli e del Cnel. A loro volta queste immagini si devono confrontare con quanto emerge dalle politiche a livello nazionale e comunitario, o da come, ad esempio le altre regioni, in particolare quelle dell’arco latino mediterraneo, proiettano sé stesse nello spazio europeo. Un possibile e consapevole ruolo dell’Italia del Nord deve dunque partire dalla considerazione che la sua efficacia performativa dipende dalla capacità di considerare punti di vista differenti sia interni che esterni. 29 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA BIBLIOGRAFIA Badie B. (1996), La fine dei territori, Trieste, Asterios Editore. Bagnasco A. (1996), L’Italia in tempi di cambiamento politico, Bologna, Il Mulino. Bagnasco A. (1997), “Processi di globalizzazione e paralleli di regionalizzazione: ripartendo dalle ‘Tre Italie’”, Geotema, 9, pp. 33-36. Bassetti P. (1996), L’Italia si è rotta? Un federalismo per l’Europa, Roma-Bari, Laterza. Becattini G. 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Poiché il tempo della demografia scorre piuttosto lentamente, è probabile che il lettore possa scorgere in queste pagine orizzonti temporali più dilatati rispetto a quelli presentati nelle schede successive. Il minor grado di aleatorietà che contraddistingue le proiezioni demografiche rispetto ad altri apparati previsivi ci consente infatti di esplorare un futuro relativamente lontano: dal momento che gli italiani adulti del 2015 sono già tutti nati, siamo in grado di conoscere con largo anticipo una delle variabili dalle quali dipenderanno, a quella data, le dimensioni complessive delle immatricolazioni universitarie, della domanda di abitazioni, di servizi sanitari e così via. Una volta delineato lo scenario demografico futuro, con il suo sistema di risorse, di vincoli e di opportunità, sarà possibile sottoporre a verifica, per valutarne il grado di realismo, le diverse strategie di sviluppo attualmente considerabili per l’Italia settentrionale. LO STATO DELLA QUESTIONE DEMOGRAFICA Nelle otto regioni dell’Italia settentrionale risiedono attualmente 25 milioni e mezzo di persone: quasi la metà (il 44,4%) della popolazione italiana e circa un quindicesimo (il 6,9%) della popolazione appartenente all’Unione Europea. La speranza di vita alla nascita, indice della quantità, ma indirettamente anche rivelatore della qualità di vita di una popolazione, ha superato i 75 anni per gli uomini e gli 82 anni per le donne, valori che si collocano al di sopra della media europea. UN INSUFFICIENTE RICAMBIO GENERAZIONALE L’aspetto che caratterizza maggiormente la popolazione dell’Italia settentrionale è senza dubbio la difficoltà che essa incontra nel garantire il ricambio generazionale. Affinché le generazioni si succedano mantenendo dimensioni relativamente simili è necessario che il livello di fecondità si aggiri intorno ai due figli per donna1 (o per coppia). Durante gli anni Settanta e Ottanta la fecondità delle regioni dell’Italia settentrionale è scesa fino a stabilizzarsi, durante gli anni Novanta, intorno alla metà del livello necessario a garantire la sostituzione delle generazioni (si veda la tabella 1). È proprio questo limitato * Fondazione Giovanni Agnelli, Torino In verità, la soglia di sostituzione delle generazioni si colloca a un livello leggermente superiore, circa 2,05 figli per donna, dal momento che devono essere compensati due fenomeni che tendono a ridurre il numero delle madri potenziali: la mortalità infantile e giovanile, e la minor natalità femminile (su 1000 nati, in media si contano solo 485 femmine). 1 39 DEMOGRAFIA contributo offerto dalle regioni del Nord alla fecondità nazionale, mentre le regioni del Sud hanno mantenuto comportamenti in linea con i valori medi europei, ad aver determinato un non invidiabile primato italiano: con una media nazionale di 1,2-1,3 figli per donna, la fecondità italiana è infatti da oltre un decennio la più bassa al mondo. Tab. 1 – Tassi di fecondità in Italia (numero medio di figli per donna) 1967* 1977* Valle d’Aosta 2,12 1,65 Piemonte 2,08 1,67 Lombardia 2,26 1,71 Liguria 1,89 1,43 Trentino A.A. 2,77 1,82 Veneto 2,49 1,81 Friuli 2,01 1,51 Emilia 1,98 1,51 1987* 1,13 1,07 1,13 0,95 1,37 1,08 1,00 0,96 1997* 1,10 1,03 1,07 0,92 1,34 1,08 0,94 0,97 Italia settentrionale Italia centrale Italia meridionale 2,20 2,22 3,15 1,67 1,76 2,49 1,07 1,15 1,66 1,05 1,07 1,39 Italia 2,53 1,97 1,31 1,21 Francia Austria Svizzera Slovenia 2,83 2,70 2,61 2,43 1,93 1,80 1,61 2,18 1,81 1,50 1,52 1,72 1,70 1,40 1,48 1,29 Regno Unito Germania 2,89 2,50 1,81 1,48 1,79 1,37 1,70 1,25 Fonte: per gli anni dal 1967 al 1987, Notiziario Istat, “L’evoluzione della fecondità nelle regioni italiane”, serie 4, foglio 41, febbraio 1993; per il 1997, Istat, 1998. * Per la Francia e per l’Austria i dati sono relativi al 1965, 1975, 1985 e 1995: UNECE e UNPF, “Fertility and family surveys in the countries of the ECE region”. Standard Country report, New York and Geneva, 1998. Per la Svizzera, la Slovenia, il Regno Unito e la Germania, sempre riferiti al 1965…1995, i dati sono tratti da Eurostat, “Demographic Statistics”, Luxembourg, 1998. Pur all’interno di una tendenza piuttosto omogenea per l’intera circoscrizione settentrionale, tre regioni si dimostrano ancora più inclini delle altre a praticare un vero e proprio “sciopero della fecondità” (Liguria, Friuli ed Emilia); il Trentino Alto Adige si colloca invece su livelli relativamente più elevati, con la provincia di Bolzano perfettamente allineata sui valori medi dell’Austria, pari a 1,4 figli per donna. Se verso Nord, ossia nei confronti di Francia, Svizzera e Austria, differenze piuttosto sensibili nei livelli di fecondità segnalano l’esistenza di discontinuità nei comportamenti socio-demografici, verso Sud la sola analisi delle caratteristiche demografiche non consente di tracciare una linea di demarcazione tra le regioni dell’Italia settentrionale e quelle dell’Italia centrale. Ad esempio, la Toscana, che secondo la suddivisione Istat appartiene alla circoscrizione Centro, dimostra attualmente valori di fecondità pressoché identici a quelli emiliani (le donne toscane mettono oggi al mondo 0,98 figli a testa), a testimonianza di una continuità socio-culturale che possiamo ritrovare anche nelle altre analisi presentate in questo studio (il modo di fare impresa, di risparmiare, di vivere le città...). 40 DEMOGRAFIA Livelli bassissimi di fecondità, combinati con un’elevata speranza di vita, stanno provocando una deformazione della struttura per età della popolazione. Consideriamo le classi di età fino a 14 anni compiuti e da 65 in poi, ossia le due grandi fasce di popolazione per le quali il saldo netto tra produzione e consumo è generalmente negativo. Come si può osservare dalla tabella 2, le regioni dell’Italia settentrionale presentano oggi una quota di popolazione dipendente (giovani e anziani) inferiore a quella dei principali paesi europei. Tab. 2 – Struttura per età della popolazione. Confronti italiani ed europei (anno 1996) Piemonte Valle d’Aosta Lombardia Liguria Veneto Trentino A.A. Friuli Emilia quota% 0-14 anni 11,9 12,5 13 10,2 13,3 15,8 11,1 10,8 quota % 65 anni e più 19,1 17,7 16,3 23,3 16,8 16 20,5 21,3 quota totale popol. Dip. 31 30,2 29,3 33,5 30,1 31,8 31,6 32,1 Italia settentrionale 12,4 18,3 30,7 Italia 14,9 16,8 31,7 Francia Regno Unito Germania 19,6 19,4 16,3 15 15,7 15,4 34,6 35,1 31,7 Media UE 15 17,6 15,4 33 Fonte: Istat, 1998; Eurostat, 1998. Stiamo ancora vivendo una fase particolare della storia demografica italiana, quella in cui i tassi di dipendenza dei giovani si sono sensibilmente ridotti senza che si siano ancora eccessivamente dilatati quelli degli anziani. La presente stagione è quindi relativamente favorevole alla crescita economica, dal momento che ben sette decimi della popolazione totale appartengono alla fascia dell’età lavorativa. L’ILLUSIONE OTTICA DEL CONFRONTO FRA VALORI PRO CAPITE IN PRESENZA DI STRUTTURE DEMOGRAFICHE DIVERSE Per inciso, invitiamo a riflettere sul fatto che la presenza di strutture demografiche diverse altera i risultati dei confronti internazionali operati sulla base di indicatori pro capite (tipicamente il reddito nazionale oppure il prodotto interno lordo). Si consideri ad esempio il confronto di Pil pro capite tra Francia e Italia, che hanno una popolazione totale di dimensioni simili: la presenza al denominatore del rapporto francese di 3 milioni di giovani in più rispetto all’Italia (minorenni che non hanno partecipato, se non in minima parte, al processo produttivo) crea l’illusione ottica di una maggiore ricchezza pro capite prodotta dall’Italia, che tuttavia svanirebbe in presenza di una composizione più equilibrata della popolazione. Numerose considerazioni più o meno autocompiaciute sulla posizione raggiunta dall’Italia, in particolare dall’Italia settentrionale, nelle classifiche europee del benessere sono in realtà viziate da questa illusione ottica di non immediata decifrazione. Ritorniamo alla tabella 2. L’Italia è l’unico grande paese europeo in cui le persone anziane già oggi superano quelle più giovani. In alcune regioni del 41 DEMOGRAFIA Nord il rapporto anziani/giovani è addirittura di due a uno: il processo di anzianizzazione della popolazione, che sta investendo tutto il continente, si presenta dunque a uno stadio più avanzato proprio nelle regioni qui esaminate. Poiché la durata della vita media italiana è solo di poco superiore alla media europea, possiamo concludere che le anomalie della struttura per età dell’Italia e di alcune sue regioni sono prevalentemente imputabili all’intenso processo di denatalità in corso. LE CAUSE DELLA BASSA NATALITÀ Prima di addentrarci nell’esplorazione delle conseguenze future, riteniamo opportuno fare un breve cenno alle possibili cause di una così bassa propensione a procreare da parte delle giovani coppie italiane. Segnaleremo due diverse interpretazioni del fenomeno. Una prima linea interpretativa discende dalla constatazione che ad essersi ridotto non sia stato tanto il desiderio di figli, quanto piuttosto la possibilità di averli: le indagini condotte su campioni rappresentativi di giovani italiani2 confermano l’esistenza di un ampio divario fra aspettative di fecondità (è attualmente pari a 2,1 il numero di figli che i genitori intendono avere) e fecondità effettiva (il numero di figli avuti è invece di poco superiore all’unità). Entrano evidentemente in gioco ostacoli consistenti che costringono al ridimensionamento dei progetti procreativi: lo scarso grado di flessibilizzazione del mercato del lavoro (il lavoro part time, ad esempio, interessa circa il 7% degli occupati, un valore significativamente inferiore alla media europea), le rigidità del mercato immobiliare, l’insensibilità sinora dimostrata dal sistema fiscale alla presenza di carichi familiari, e così via. Da analitico-descrittivo, tale quadro diventa naturalmente prescrittivo: la miglior politica sociale per la popolazione consisterebbe dunque nella rimozione dei diversi vincoli alla formazione di nuove famiglie. Un secondo quadro analitico, di più recente definizione, colloca invece la scelta di avere o non avere un figlio all’interno di un processo decisionale complesso e a più dimensioni, difficile da ricondurre a un semplice rapporto di causa-effetto. Il declino della fecondità in Italia si inscrive in una generale ristrutturazione dei cicli di vita, con il consolidamento di una nuova età sociale: quella che emerge durante il passaggio sempre più rallentato dalla giovinezza all’autonomia della vita adulta da parte dei potenziali genitori. L’età del “giovane adulto” sembra attualmente caratterizzata dalla durata eccessiva dei processi di formazione scolastica, dal rinvio dell’inizio dell’attività lavorativa, dalla permanenza oltre i limiti un tempo considerati “leciti” nella famiglia di origine (si veda la tabella 3), dal rinvio del matrimonio e dell’esperienza di genitore. Tab. 3 – Giovani che abitano con i genitori in alcuni paesi UE al 1995 (valori %). MASCHI 15-19 anni 20-24 anni 25-29 anni Italia 97,3 92,2 66,0 Francia 94,8 61,6 22,5 Regno Unito 93,2 56,8 20,8 Germania 95,4 64,6 28,8 FEMMINE 15-19 anni 20-24 anni 25-29 anni Italia 95,3 82,4 44,1 2 Ricerche di Rossella Palomba. 42 DEMOGRAFIA Francia 90,9 41,6 Regno Unito 88,2 37 Germania 93,2 44,6 Fonte: Eurostat. Cfr. IRP-CNR, giovani che non lasciano il nido, Roma 1998. 10,3 10,8 12,7 Il problema della denatalità italiana nascerebbe appunto a seguito di tale concatenazione di decisioni rinviate. Nella sequenza, la decisione della procreazione si colloca all’ultimo posto: con il controllo biologico della fecondità diventato ormai assoluto, e con il controllo familiare e sociale che non abbassa la guardia sulle nascite fuori dalle unioni matrimoniali (è questa un’altra peculiarità italiana rispetto alla media europea), la coppia decide di mettere al mondo un figlio solo una volta che tutti gli altri passi sono stati compiuti: termine del percorso formativo, raggiungimento dell’indipendenza economica, distacco dalla famiglia di origine, matrimonio. Vincoli e ostacoli ai primi passi della sequenza ne ritardano il completamento. È evidente che dall’adozione di un tale quadro interpretativo risulta decisamente meno facile derivare quali siano gli interventi più opportuni per favorire comportamenti demografici maggiormente equilibrati. Passiamo ora ad esaminare alcune possibili conseguenze dell’evoluzione demografica in atto. VERSO UN RALLENTAMENTO DEL RICAMBIO DEL CAPITALE UMANO In questa sezione si descriveranno i mutamenti quantitativi della popolazione che attraversa una fase cruciale del ciclo di vita degli individui: quella generalmente dedicata alla formazione superiore e universitaria. LA RAREFAZIONE DELLA “CLIENTELA” UNIVERSITARIA Per la prima volta dall’unità d’Italia, con gli anni Novanta il numero potenziale di studenti universitari italiani, ossia di giovani compresi tra 19 e 24 anni, è in declino3. La riduzione si sta manifestando a un ritmo piuttosto intenso che, ovviamente, non potrà essere modificato, almeno nei prossimi due decenni, da un’eventuale ripresa della natalità. In questa sede osserveremo l’evoluzione quantitativa della popolazione dei diciannovenni per valutare le dimensioni potenziali delle future immatricolazioni universitarie; ma è bene ricordare che ragionamenti analoghi a quelli intorno alla rarefazione della “clientela” universitaria potrebbero essere estesi anche agli equilibri del mercato elettorale, dal momento che si modifica il numero di nuovi elettori; alle vendite attese dei principali beni di consumo e investimento, visto che il numero di neopatentati, ad esempio, offre un ordine di grandezza dei potenziali acquirenti di autovetture non sostitutive; alle dimensioni della popolazione arruolabile per il servizio militare e civile; e così via. Nel decennio che va dal 1991 al 2001 in Italia “spariscono” 250.000 diciannovenni. In particolare, Liguria, Friuli V.G. ed Emilia Romagna, ossia le regioni che, come abbiamo visto, hanno raggiunto negli anni Ottanta e Novanta i livelli minimi di fecondità, subiscono le variazioni negative più significative 3 Si veda Cammelli, Di Francia e Guerriero, “Le déclin des entrées à l’université italiénne d’ici 2008” Population, 2, 1997, pp. 365-380. 43 DEMOGRAFIA e assistono, in soli quindici anni, al dimezzamento dei loro cittadini giovani. Il “peso specifico” dell’Italia settentrionale nel suo complesso è destinato a ridursi: l’insieme delle otto regioni del Nord, che nel 1991 annoverava il 42% dei diciannovenni italiani, nel 2011 ne ospiterà solo il 37%. Tab. 4 – Popolazione diciannovenne delle regioni dell'Italia gliaia) 1991 1996 Piemonte e V.A. 61,3 51,3 Lombardia 132,2 111,1 Liguria 21,6 16,9 Veneto 68,1 56,6 Trentino-Alto A. 13,6 11,4 Friuli V. G. 16,8 13,5 Emilia Romagna 52,4 43,3 Italia settentrionale Italia Centro-Sud Italia 366 514 880 304 471 775 Numeri indice della Popolazione diciannovenne (1991=100) 1991 1996 Piemonte e V.A. 100 83,7 Lombardia 100 84,0 Liguria 100 78,2 Veneto 100 83,1 Trentino-Alto A. 100 83,8 Friuli V. G. 100 80,4 Emilia Romagna 100 82,6 settentrionale (valori in mi2001 38,9 85,1 12,2 43,3 9,9 9,5 30,7 2006 34,2 73,7 10,6 37,4 9,1 8,4 26,7 2011 34,1 75,4 11,1 38,5 9,5 8,6 28,4 230 398 628 200 352 552 206 345 551 2001 63,5 64,4 56,5 63,6 72,8 56,5 58,6 2006 55,8 55,7 49,1 54,9 66,9 50,0 51,0 2011 55,6 57,0 51,4 56,5 69,9 51,2 54,2 Italia settentrionale 100 83,1 62,7 54,7 56,2 Italia Centro-Sud 100 91,6 77,5 68,5 67,2 Italia 100 88,1 71,4 62,7 62,6 Fonti: Per il 1991, 13° Censimento Generale della Popolazione e delle Abitazioni, Istat, Roma, 1995; per gli anni successivi, elaborazioni dai dati delle Previsioni della popolazione residente per sesso età e regione. Base 1.1.96, Informazioni n. 34, Istat, Roma, 1997. Non dissimili, ovviamente, si presentano gli andamenti della classe di età dei 20-24enni (tabella 5), la cui riduzione interessa dal 1991 al 2001 un milione circa di italiani. Il compito del demografo si esaurisce con la presentazione delle dimensioni attese della popolazione futura; possiamo tuttavia provare a evocare alcune delle conseguenze che discendono dalle trasformazioni previste. I nuovi scenari demografici potrebbero condizionare, accelerandolo, quel processo riformatore della formazione superiore italiana che viene illustrato nella scheda dedicata alla formazione del capitale umano. 44 DEMOGRAFIA Tab. 5 – Popolazione 20-24enne delle regioni dell'Italia settentrionale (valori in migliaia) 1991 1996 2001 2006 2011 Piemonte e V.A. 328 308 226 185 171 Lombardia 708 664 489 404 374 Liguria 115 108 71 57 55 Veneto 360 337 250 204 189 Trentino-Alto A. 75 68 52 47 46 Friuli V. G. 88 83 58 45 42 Emilia Romagna 280 266 186 145 136 Italia settentrionale Italia Centro-Sud Italia 1953 2581 4534 1834 2541 4375 1332 2177 3509 1087 1895 2982 1013 1751 2764 Variazione della popolazione 20-24enne (1991=100 1991 1996 Piemonte e V.A. 100 94,0 Lombardia 100 93,8 Liguria 100 93,8 Veneto 100 93,7 Trentino-Alto A. 100 90,9 Friuli V. G. 100 93,9 Emilia Romagna 100 95,1 2001 68,9 69,1 61,7 69,5 69,5 65,6 66,5 2006 56,4 57,1 49,5 56,7 62,8 50,9 51,9 2011 52,2 52,8 47,8 52,6 61,5 47,5 48,6 Italia settentrionale Italia Centro-Sud Italia 68,2 84,3 77,4 55,7 73,4 65,8 51,9 67,8 61,0 100 100 100 93,9 98,4 96,5 Fonti: vedi tabella 1. ALCUNE CONSEGUENZE PER IL SISTEMA UNIVERSITARIO... Di fronte a un calo fisiologico dei “clienti potenziali” gli atenei, le facoltà e i singoli corsi si troveranno sempre più nella condizione di dover realizzare strategie competitive all’interno di “bacini di reclutamento” le cui dimensioni saranno definite dalla maggiore o minore propensione alla mobilità degli studenti. In tale prospettiva, meritano di essere sottolineate alcune tendenze plausibili: • la moltiplicazione degli sforzi miranti a combattere il fenomeno della dispersione e a innalzare la probabilità di completare con successo i cicli di studio, attualmente inferiore al 50%. L’allargamento dell’offerta formativa (come è avvenuto, ad esempio, attraverso l’introduzione dei diplomi universitari) e una certa flessibilizzazione dei percorsi vanno già in questa direzione (si veda la scheda dedicata alla formazione); • la ricerca di un equilibrio nel perseguimento di due obiettivi potenzialmente contrastanti, rappresentati dal completamento della gamma degli insegnamenti tradizionali localmente attivati (allo scopo di evitare l’allontanamento di studenti potenziali) e dalla creazione di nuovi corsi specialistici, più o meno coerenti con la cultura economica locale (anche per attrarre studenti dal resto d’Italia e dall’estero); • una possibile ridefinizione dei criteri di ammissione all’insegnamento superiore, con un’attenuazione del dibattito sull’introduzione del numero chiuso, almeno nelle sue forme più generalizzate; 45 DEMOGRAFIA • • • • una maggiore attenzione rispetto al passato per le strutture di accoglienza e di servizio per gli studenti (collegi e abitazioni, mense...), presenti solo parzialmente nelle sedi universitarie italiane; un impegno in direzione di un allargamento dell’utenza, nel tentativo di affiancare alla “clientela tradizionale” dei giovani diplomati nuove tipologie di fruitori, in un contesto più propizio alla formazione universitaria continua; la diffusione di alcune forme, di recentissima apparizione, di “marketing universitario”, ossia di cura dell’immagine e di promozione a largo raggio, nonché attraverso canali inediti, dell’offerta formativa; una competizione sul personale docente (che potrebbe introdurre elementi di differenziazione retributiva) sulla falsariga di quanto avviene nel sistema delle università statunitensi. Tali importanti trasformazioni dell’università italiana definiscono uno scenario coerente con il calo delle immatricolazioni potenziali. Peraltro, la considerazione degli ultimi due decenni di storia della scuola italiana ci ricorda come non sia affatto scontato che un mutamento demografico ampiamente prevedibile, sufficientemente previsto e puntualmente realizzato determini l’adozione delle misure conseguenti. Possiamo comunque affermare che la capacità di rispondere in maniera adeguata alle trasformazioni in atto (che, lo ricordiamo, investono con intensità diversa i nostri territori) dipenderà in modo significativo dal grado di autonomia che agli atenei e alle facoltà sarà concesso per l’esercizio del compito istituzionale loro assegnato. ...E PER IL MERCATO DEL LAVORO Occorre poi interrogarsi sulle conseguenze della rarefazione dei giovani per l’intero sistema economico dell’Italia settentrionale. Poiché il volume complessivo delle forze di lavoro è il risultato dell’interazione tra l’evoluzione demografica e le decisioni di individui e famiglie di partecipare o meno al mercato del lavoro, in assenza di importanti mutamenti nei livelli di attività della popolazione italiana, i numeri esposti nelle tabelle precedenti segnalano l’emergenza di un trade off tra due situazioni entrambe inedite: una riduzione, progressivamente sempre più intensa, nel numero assoluto di giovani altamente qualificati da inserire nel mercato del lavoro; oppure una relativa stabilizzazione degli ingressi di giovani qualificati per effetto di un ulteriore sensibile aumento dei livelli di scolarizzazione e di immatricolazione universitaria, a scapito tuttavia delle fasce dotate di qualificazioni più modeste. Un’ipotesi di mantenimento delle immatricolazioni universitarie italiane al livello del 1996 comporta una crescita della percentuale di iscritti sulla leva dei 19enni dal 44% attuale (comprensivo delle iscrizioni ai corsi di diploma universitario) al 54% del 2006 e al 62% del 2011, e contrae inevitabilmente la quota di giovani non studenti. Entrambi gli scenari (riduzione della popolazione universitaria o dei lavoratori giovani con bassi livelli di qualificazione), così come le loro infinite combinazioni intermedie, provocheranno nei mercati del lavoro dell’Italia settentrionale squilibri i cui primi sintomi sono già oggi avvertibili: si pensi alle sempre più frequenti dichiarazioni da parte di industriali che, soprattutto nelle aree caratterizzate da soddisfacenti tassi di sviluppo, incontrano crescenti difficoltà a reclutare personale. Va dunque sottolineato il ruolo fondamentale del sistema della formazione superiore, la cui mediazione finirà per orientare l’inevitabile contrazione di 46 DEMOGRAFIA offerta di lavoro verso alcuni specifici segmenti occupazionali. È quasi superfluo sottolineare come dal modo in cui si manifesteranno le possibili carenze di capitale umano discenderà la possibilità, o l’impossibilità, di realizzare i diversi progetti di sviluppo attualmente proponibili per l’area. TENDONO AD AUMENTARE LE RIGIDITÀ Spostiamo ora la nostra attenzione dalle classi giovanili a quelle adulte. Come è noto, nei prossimi anni il baricentro della popolazione tenderà a scivolare verso le età mature, trascinato dal dispiegarsi del ciclo di vita delle generazioni folte del baby boom. In questo paragrafo cercheremo di esaminare alcuni effetti di tale mutamento strutturale. GIÀ OGGI L’ETÀ MEDIA SUPERA I 42 ANNI L’età media della popolazione dell’Italia settentrionale si colloca attualmente intorno ai 42-43 anni, ed è in continuo aumento: supererà i 45 nel 2010 e raggiungerà i 48 nel 2020. In Liguria si passerà dai 45 anni attuali ai 48 del 2010, per poi toccare quota 50 nel 2020. Gli stili di vita, le preferenze di consumo e di risparmio, la partecipazione al lavoro dell’italiano medio non saranno indifferenti alle sue trasformazioni anagrafiche. Tab. 6 – Età media della popolazione nelle regioni dell'Italia settentrionale 1996 2000 2010 2020 Piemonte 42,9 43,9 46,1 48,5 Valle d’Aosta 41,9 42,7 44,7 47,0 Lombardia 41,1 42,2 44,6 47,1 Liguria 45,4 46,3 48,0 49,8 Veneto 40,9 42,0 44,6 47,4 Trentino-Alto A. 39,6 40,5 42,8 45,3 Friuli V. G. 43,7 44,6 46,6 48,9 Emilia Romagna 44,2 45,0 47,0 49,2 2050 52,0 50,6 50,9 52,6 51,9 49,4 52,3 52,6 Italia settentrionale Italia 51,6 49,4 42,2 40,3 43,2 41,3 45,4 43,5 47,9 45,7 Fonte: Previsioni della popolazione residente per sesso età e regione. Base 1.1.96, Informazioni n. 34, Istat, Roma, 1997, (ipotesi centrale). Con riferimento al possibile ruolo cerniera dell’Italia settentrionale, ponte tra l’Europa e il Mediterraneo, va segnalato come il cittadino della nostra area abbia attualmente un’età media doppia rispetto a quella dei cittadini del Nord Africa. Qualsiasi ambizione di mediazione tra aree economicamente e culturalmente diverse dovrà tener conto di questa ulteriore distanza misurabile in termini generazionali. CRESCONO GLI ELEMENTI DI RIGIDITÀ: Delle numerose conseguenze associabili al mutamento demografico in atto4 ne segnaleremo una in particolare. Se poniamo a un operatore economici la domanda “Cosa serve a un sistema economico per essere competitivo?” abbiamo buone probabilità di sentirci rispondere “un grado elevato di flessibilità”. Ora, l’attuale evoluzione demografica pare garantire l’esito opposto: vi 4 Seppur non recentissimo, merita di essere segnalato il volume curato da Giorgio Fuà, Conseguenze economiche dell’evoluzione demografica, Bologna, Il Mulino, 1986. 47 DEMOGRAFIA … NELLE FINANZE PUBBLICHE … NELL’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO … NELLA PROPENSIONE ALLA MOBILITÀ sono infatti fondati motivi per temere un aumento delle rigidità interne al sistema. Il primo e probabilmente anche il più noto fattore di rigidità riguarda le finanze pubbliche, con il prevedibile assottigliamento dei margini di manovra per la politica di bilancio. Entrate e spese pubbliche sono fortemente condizionate dalle caratteristiche anagrafiche dei cittadini: la quantità di imposte prelevate da un individuo, così come le dimensioni della spesa pubblica di cui egli beneficia variano notevolmente in funzione delle fasi del ciclo di vita. È curioso notare quanto asimmetrica sia la percezione degli effetti dell’evoluzione demografica sul bilancio pubblico: mentre i condizionamenti sul versante della spesa sono noti (è risaputo che l’invecchiamento della popolazione implica maggiori spese pensionistiche e sanitarie), quelli sulle entrate appaiono del tutto estranei ai grandi dibattiti. Sarebbe invece opportuno riflettere anche sulle implicazioni dell’evoluzione demografica per un sistema di finanza pubblica principalmente finanziato attraverso la tassazione sul lavoro. Senza addentrarci nella materia5, possiamo comunque segnalare come il finanziamento delle politiche dello sviluppo (infrastrutture, ricerca scientifica e tecnologica, istruzione e capitale umano) sarà sempre più vincolato da un lato dalla dilatazione fisiologica delle spese concorrenti, dall’altro dalle difficoltà crescenti da parte dei soggetti aventi potestà impositiva (Stato, regioni, enti locali) di prelevare risorse supplementari senza soffocare le attività produttive esistenti. Un secondo fattore di rigidità riguarda l’organizzazione del lavoro. In presenza di un invecchiamento della popolazione attiva la gestione delle risorse umane da parte delle imprese risulta estremamente più complessa: la pianificazione delle carriere diventa infatti problematica, mentre si registrano tensioni sul costo del lavoro, ancora fortemente ancorato (seppur meno che in passato) al criterio dell’anzianità di servizio. La presenza di personale non più giovane nelle imprese solleva inoltre il problema della riqualificazione sul posto di lavoro (ulteriore motivo di dilatazione dei costi), dal momento che le conoscenze acquisite nel passato diventano rapidamente obsolete. Infine, “è osservazione frequente che per ristrutturare la produzione si deve fare più conto sull’orientamento delle nuove leve di lavoro che sul riciclaggio degli anziani; e che un sistema produttivo, nel quale sia basso il rapporto tra le assunzioni e l’organico, si ristruttura con difficoltà”6. Un terzo fattore di rigidità è invece legato alla propensione alla mobilità, variabile in funzione dell’età degli individui. La mobilità spaziale dei lavoratori ha svolto nel passato un importante ruolo di compensazione rispetto agli squilibri territoriali tra domanda e offerta di lavoro. Ora, una caratteristica comune a tutte le popolazioni è la maggiore disponibilità allo spostamento da parte delle classi di giovani adulti (indicativamente tra 18 e 30 anni); oltre a una certa età, per una serie di fattori soggettivi e oggettivi –(quali la presenza di maggiori carichi familiari, a monte e a valle, la maggiore probabilità di essere proprietario della propria abitazione, la progressiva riduzione del numero 5 Per una disamina del rapporto tra conti pubblici e andamenti demografici si veda Nicola Sartor, Finanza pubblica e sviluppo demografico: un’analisi basata sui conti generazionali, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1997. 6 Giorgio Fuà, “Introduzione” a Conseguenze economiche dell’evoluzione demografica, a cura di G. Fuà, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 13. 48 DEMOGRAFIA di anni lavorativi da usare come base per il calcolo degli eventuali differenziali retributivi) – tale disponibilità tende a declinare. Si possono citare altri fattori, quali l’attenuazione dello spirito innovativo, le maggiori difficoltà nella trasmissione delle imprese familiari o il rallentamento nella diffusione di nuove tecnologie7. Attraverso tutti questi canali il mutamento strutturale della popolazione introduce a piccole dosi elementi di rigidità in un sistema che al contrario reclama, per essere competitivo, una maggiore flessibilità. In assenza di correttivi, la relativa esiguità delle risorse pubbliche non vincolate, l’espansione dei costi del lavoro, le difficoltà emergenti nella gestione delle risorse umane da parte delle imprese, la minor mobilità degli individui sul territorio potrebbero quindi influire negativamente sulle motivazioni occorrenti per nuovi investimenti nell’area, sia da parte di investitori locali, che da parte di stranieri. LE CITTÀ DI FRONTE AL DECLINO DEMOGRAFICO Esaminando le diverse prospettive delle popolazioni regionali abbiamo avuto modo di constatare come il futuro demografico dell’Italia settentrionale sarà caratterizzato da una certa uniformità. La prossimità relativa degli indicatori di fecondità, natalità e mortalità non deve tuttavia indurre alla conclusione, fuorviante, che gli effetti del declino demografico si spalmeranno uniformemente su tutto il territorio: dal momento che i giovani (ma, più in generale, le persone) diventeranno una risorsa scarsa non è implausibile ritenere che i territori avranno sempre più interesse a trattenerli e ad attirarli. I soggetti principali di questa competizione sulle risorse umane saranno, come in passato, le città. A questo proposito merita ricordare che una caratteristica del sistema dell’Italia settentrionale è la presenza di tutti i livelli della gerarchia urbana, dai centri minori di piccolissime dimensioni sparsi nelle aree rurali sino alla grande metropoli (vedi tabella 7 e, per una trattazione dell’argomento, la scheda sulle reti urbane). Tab. 7 – Distribuzione % della popolazione regionale per classe di ampiezza dei comuni abitanti fino a da 1000 da 10000 da 50000 oltre totale 1000 a 10.000 a 50000 a 250000 250000 1981 Italia settentrionale 3,0 35,7 25,5 17,1 18,7 100 Italia Centro-Sud 1,1 27,4 32,2 19,1 20,1 100 Italia 1,9 31,2 29,2 18,2 19,5 100 1991 Italia settentrionale 3,0 36,8 27,3 17,2 15,7 100 Italia Centro-Sud 1,1 26,7 33,6 20,7 17,9 100 Italia 2,0 31,2 30,8 19,2 16,9 100 1998 Italia settentrionale 2,8 36,9 29,1 16,3 14,9 100 Italia Centro-Sud 1,2 26,3 34,0 20,8 17,8 100 7 In quest’ultimo caso le barriere, più che anagrafiche, sono di natura generazionale, come dimostrano le statistiche sull’uso dei personal computer o di Internet. 49 DEMOGRAFIA Italia 1,9 31,0 31,8 Fonti: Censimenti e Annuario Statistico Italiano, 1998, Istat. 18,8 16,5 100 Negli ultimi decenni si è assistito in tutta Italia a un ridislocazione della popolazione che ha privilegiato i centri urbani di medie dimensioni, capaci evidentemente di offrire una qualità ambientale più elevata rispetto a quella delle grandi città e al tempo stesso un’offerta di servizi meno povera di quella dei centri più piccoli (tabella 8). Il fenomeno si è manifestato in misura più marcata nella circoscrizione settentrionale. Tab. 8 – Variazione % della popolazione regionale per classe di ampiezza dei comuni abitanti fino a da 1000 da 10000 da 50000 oltre totale 1000 a 10.000 a 50000 a 250000 250000 Dal 1981 al 1991 Italia settentrionale -1,1 1,4 5,4 -0,6 -17,4 -1,5 Italia Centro-Sud 7,0 -0,6 6,1 10,1 -9,6 1,9 Italia 1,4 0,5 5,8 5,6 -13,0 0,4 Dal 1991 al 1998 Italia settentrionale -3,5 1,3 7,7 -4,5 -4,4 1,0 Italia Centro-Sud 4,0 0,0 2,9 2,4 1,3 1,8 Italia -1,1 0,7 4,8 -0,4 -1,0 1,4 Dal 1981 al 1998 Italia settentrionale -4,6 2,8 13,4 -5,1 -21,0 -0,5 Italia Centro-Sud 11,3 -0,6 9,2 12,8 -8,4 3,7 Italia 0,2 1,1 10,9 5,2 -13,9 1,8 Fonti: Censimenti e Annuario Statistico Italiano, 1998, Istat. Dal 1981 al 1998 le dimensioni della popolazione residente nell’Italia settentrionale sono rimaste praticamente stabili (la variazione complessiva è stata una leggera contrazione, pari allo 0,5%). Se tuttavia consideriamo la popolazione ripartita per ampiezza dei comuni di residenza, le variazioni si amplificano sensibilmente: le grandi città (oltre 250.000 abitanti) perdono un residente su cinque, mentre i centri medi (da 10.000 a 50.000 abitanti) ne acquisiscono il 13,4% in più. Per inciso, va notato come proprio questi ultimi centri siano stati nel recente passato i principali beneficiari del processo di decentramento dell’offerta formativa. VERSO UNA BUONA MANUTENZIONE DELLE CITTÀ È difficile formulare una previsione circa la prosecuzione di una tendenza ormai consolidata. Quel che possiamo tuttavia ipotizzare alla luce delle prospettive precedentemente ricordate (declino della popolazione giovanile, elevati tassi di anzianizzazione, scarsa propensione alla mobilità), è che le nostre città difficilmente conosceranno nel futuro prossimo una nuova fase di espansione fisica. Si è definitivamente esaurita, almeno nella circoscrizione settentrionale, quella spinta che nei decenni passati ha favorito la costruzione di nuovi quartieri, la creazione di cinture esterne, l’emergenza di quelle continuità urbane che tanto interesse hanno suscitato tra gli studiosi del territorio. Il venir meno non solo della frenesia espansiva degli anni Cinquanta e Sessanta, ma anche del relativamente ordinato sviluppo dei decenni successivi, ci proietta verso una nuova dimensione urbana, dove, abbandonata l’esigenza di moltiplicare le superfici abitative, si rafforza la necessità di gestire e valorizzare il patrimonio esistente. L’enfasi si sposta dunque sulla buona manutenzione delle città, sugli interventi che garantiscono una migliore vivibilità, a 50 DEMOGRAFIA partire dagli interventi correttivi degli errori dall’espansione non sempre ordinata dei decenni scorsi. provocati proprio CONCLUSIONI Abbiamo descritto, senza pretesa di completezza, alcune possibili implicazioni dell’evoluzione demografica nelle regioni dell’Italia settentrionale. Pur senza condividere alcune interpretazioni catastrofiste, non possiamo negare che, in assenza di adattamenti da parte del sistema sociale ed economico, quella porzione di futuro che trapela dall’insieme di conseguenze evocate non pare spontaneamente propizia alla crescita economica. LA DIFFICOLTÀ DI INTERVENIRE A FRONTE DI TRASFORMAZIONI LENTE ALCUNI MARGINI DI MANOVRA LE POSSIBILITÀ OFFERTE DA UNA “NUOVA TERZA ETÀ” Peraltro, le diverse conclusioni alle quali siamo pervenuti vanno lette in una prospettiva di lungo periodo: occorre cioè evitare di cadere nella trappola di visioni eccessivamente schiacciate sul presente, le quali tendono a rappresentare in modo davvero meccanicistico il rapporto tra popolazione, economia e società, e conducono inevitabilmente alla drammatizzazione dei problemi. In realtà, la lentezza che caratterizza il mutamento strutturale della popolazione modifica in modo estremamente graduale, anno dopo anno, alcune delle condizioni dalle quali dipende la “flessibilità di sistema”, ossia la capacità dell’area di rispondere adeguatamente alle sollecitazioni della competizione permanente fra i territori. Prima che il mutamento della popolazione abbia prodotto i suoi effetti sarà possibile adottare una serie di misure in grado di attenuarne l’indesiderabilità. Non è scontato che questo avvenga: proprio la lentezza delle trasformazioni, che rende scarsamente visibili i mutamenti, condiziona negativamente la prontezza dell’intervento correttivo da parte di un sistema decisionale abituato a rispondere, anche con efficacia, sotto la pressione dell’emergenza. Paradossalmente, alcuni tradizionali punti di debolezza del sistema italiano, se adeguatamente modificati, potrebbero consentire la formulazione di risposte più efficaci. Alcune caratteristiche nostrane, che ancora oggi ci distinguono dal resto di Europa, potrebbero rivelarsi una sorta di assicurazione contro gli effetti del declino demografico: la massa di studenti che non riescono a portare a conclusione i cicli scolastici e i corsi universitari avviati, la maggioranza della popolazione femminile che rimane ancora estranea al mercato del lavoro, la scarsa attività, non solo degli anziani, ma anche dei cinquantenni, indicano infatti l’esistenza di abbondanti riserve di popolazione e garantiscono ampi margini di manovra per attenuare alcune delle conseguenze dirette dell’evoluzione demografica. Questi margini potrebbero essere ulteriormente dilatati dai miglioramenti sul versante, per il momento del tutto insoddisfacente, del sistema di formazione continua del capitale umano: non dovrebbe essere difficile, negli anni a venire, realizzare una politica della formazione degli adulti più efficace, sotto il duplice profilo qualitativo e della partecipazione, di quella attuale. Occorre inoltre evitare di interpretare l’evoluzione in atto attraverso schemi mentali eccessivamente rigidi. Con riferimento ai problemi dell’anzianizzazione, si impone una considerazione per certi versi ovvia, ma piuttosto trascurata: gli italiani che compiranno 65 o 75 anni nel prossimo decennio saranno rappresentanti di una terza età diversa da quella che abbiamo potuto 51 DEMOGRAFIA conoscere nei decenni passati. Gli anziani di domani hanno potuto svolgere tutta la loro vita lavorativa in una fase di crescita economica e di diffusione del benessere; saranno quindi detentori di mezzi economici che le precedenti generazioni non hanno avuto a disposizione, e potranno quindi soddisfare direttamente alcune delle proprie esigenze, senza gravare sulla collettività. Se adeguatamente incanalata, la nuova domanda di beni e servizi espressa da una terza età mai così benestante potrebbe svelare l’esistenza di un giacimento inesplorato di posti di lavoro (accompagnamento degli anziani sui mezzi di trasporto pubblico, consegna della spesa a domicilio, servizi di assistenza medica, offerta formativa, svolgimento di pratiche burocratiche…). Proprio la consapevolezza dell’esistenza di tale giacimento sta orientando la definizione di iniziative di politica del lavoro da parte di alcuni governi europei: è il caso, ad esempio, del programma francese “Nouveaux services, Emplois jeunes”. IMMIGRAZIONE E RIEQUILIBRIO DEMOGRAFICO: UNA QUESTIONE MAL POSTA MADRI O LAVORATRICI? UN DILEMMA APERTO Due considerazioni di contorno alle conclusioni. La prima riguarda l’immigrazione proveniente dall’esterno dell’Unione Europea e il suo presunto ruolo riequilibratore rispetto all’evoluzione della popolazione italiana. Il lettore avrà forse notato che nel corso di questa scheda non si è mai fatto riferimento all’idea, per la verità estremamente diffusa, di controbilanciare gli effetti del declino demografico italiano con i flussi immigratori; in realtà, l’idea non trova alcun fondamento scientifico nella letteratura sull’argomento. Per compensare l’effetto strutturale sulla popolazione europea determinato dal venir meno del baby boom occorrerebbero infatti “da 8 a 14 volte in più di immigranti rispetto a quanti ve ne sono oggi8”. Per le regioni dell’Italia settentrionale, dove il processo di denatalità si è manifestato con maggiore l’intensità, il riequilibrio implicherebbe moltiplicatori ancora più elevati, difficilmente compatibili con la sostenibilità degli attuali equilibri sociali ed economici. Questa conclusione, che abbiamo volutamente espresso in tono non equivocabile, si riferisce all’ipotesi di riequilibrio demografico; non va quindi estesa e confusa con le riflessioni, necessariamente più articolate e dai contorni più sfumati, sul ruolo complementare o competitivo svolto dalla popolazione immigrata sui mercati del lavoro italiani. Una seconda considerazione riguarda invece la modesta partecipazione delle donne italiane alla vita economica del paese9: è vero che parte degli effetti del declino demografico sul mercato del lavoro potrebbe essere bilanciata da un progressivo riallineamento dei tassi di attività femminile italiani sui valori medi europei; ma proprio la diffusione del lavoro femminile, seppur ancora prudente al confronto con altri paesi dell’Unione, viene presentata come una delle concause del bassissimo livello di fecondità italiana. Si hanno dunque fondati motivi per ritenere che uno dei nodi che l’Italia non ha ancora saputo sciogliere in modo soddisfacente, e che rimane uno dei fattori di ritardo dell’intera Europa del Sud rispetto al resto dell’Unione, sia quello della difficile conciliazione tra i due ruoli femminili di madre di famiglia e di lavoratrice. 8 Commissione Europea, La situazione demografica dell’Unione Europea, Lussemburgo 1996. Anche se occorre riconoscere che la distanza che separa i tassi di attività delle donne italiane rispetto ai valori medi europei è nella realtà inferiore a quella segnalata dagli annuari statistici, a causa della sottoregistrazione del lavoro femminile nelle attività economiche delle famiglie e della maggior diffusione di forme di lavoro sommerso. 9 52 SISTEMI FORMATIVI Luca Davico* UN QUADRO GENERALE – LE PROSPETTIVE DEI SISTEMI FORMATIVI AD ELEVATA QUALIFICA – LA QUALITÀ DEI SISTEMI FORMATIVI AD ELEVATA QUALIFICA – TRE MODELLI NEL SISTEMA FORMATIVO ITALIANO UNIVERSITARIO E POSTUNIVERSITARIO – BIBLIOGRAFIA UN QUADRO GENERALE LE POLITICHE DI FORMAZIONE DEL CAPITALE UMANO Le politiche di formazione del capitale umano si definiscono e si formano all’interno di un sistema complesso di istituzioni e di relazioni; con più soggetti che giocano ruoli diversi e strategici, in posizioni, situazioni, livelli e contesti differenziati, sovente in modo sinergico e complementare, ma talvolta in modo conflittuale. Nel caso del sistema formativo italiano (e qui in particolare dell’Italia del Nord1) occorre interrogarsi su quale sia il livello di omogeneità / eterogeneità interna, quali siano i punti di forza / debolezza del sistema, la sua capacità competitiva rispetto ai sistemi formativi concorrenti negli scenari nazionale ed internazionale. A proposito di quest’ultimo aspetto gioca un ruolo particolarmente strategico il sottosistema della formazione ad alta qualifica e di eccellenza (su cui ci si soffermerà nella seconda parte di questo contributo); ciò detto, è fondamentale muovere da alcune considerazioni relative alle dinamiche in atto ai livelli di base ed intermedi del sistema formativo; è qui infatti che si definisce il quadro complessivo delle risorse su cui può contare il sistema nel suo complesso, compresi i livelli di massima eccellenza formativa. LA FORMAZIONE DI BASE IN ITALIA Il quadro relativo alla formazione di base, in particolare per quanto riguarda i livelli del pre-obbligo e dell’obbligo, vede le scuole dell’Italia settentrionale mediamente meno numerose e meno affollate di quelle del Meridione, e ciò in modo piuttosto uniforme dalle materne alle medie inferiori: vi sono al Nord meno scuole, meno allievi e meno insegnanti che al Sud. Gli indicatori relativi all’affollamento delle classi o al rapporto allievi per insegnante fotografano invece una realtà nazionale non particolarmente differenziata internamente, tranne forse nel caso delle scuole elementari, in cui mediamente le scuole del Settentrione presentano un affollamento minore rispetto a quelle del Mezzogiorno. * 1 Dipartimento Scienze e Tecniche dei Processi d’Insediamento, Politecnico di Torino Da qui in poi si utilizzerà quasi sempre una distinzione tra Italia nordoccidentale e nordorientale, ritenendo che questa disaggregazione possa essere proficua per una migliore comprensione dei processi in atto. Senza scendere ad un livello di particolare dettaglio (singole province o sistemi locali del lavoro, ad esempio), si è ritenuto di mantenere l’analisi ad un livello intermedio, distinguendo cioè semplicemente le regioni del nord secondo l'appartenenza a due macroregioni: Italia nordoccidentale (comprendente Val d'Aosta, Piemonte, Lombardia e Liguria) e Italia nordorientale (Veneto, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, fino all'Emilia Romagna). Per quanto riguarda invece il Centro Italia, questa macroregione include, invece, le regioni dalla Toscana e dalle Marche, a nord, fino al Lazio, Abruzzo e Molise, a sud. L'inclusione di queste ultime due regioni nella macroregione del Centro Italia – abitualmente classificate, invece (ad esempio dall'Istat) tra le regioni meridionali – è dovuta agli stretti rapporti che legano il sistema formativo di queste regioni con quelli delle altre regioni dell'Italia centrale, e del Lazio in particolare. 53 SISTEMI FORMATIVI Tab. 1 – Il sistema scolastico pre-obbligo e obbligo per macroregioni Scuole MaterScuole Sezioni Allievi Insegnanti All. .per ne classe Nord Ovest 5341 14471 351264 26519 24,27 Nord Est 4389 10862 255782 19241 23,55 Centro 4592 11961 276851 21952 23,15 Sud-Isole 11974 29812 698659 53596 23,44 ITALIA 26296 67106 1582556 121308 23,58 Scuole EleScuole Classi Allievi Insegnanti All.per mentari Classe Nord Ovest 4923 36034 611572 66220 16,97 Nord Est 3954 26502 419810 47852 15,84 Centro 3719 28301 484237 50545 17,11 Sud-Isole 7765 71065 1300509 121854 18,30 ITALIA 20361 161902 2816128 286471 17,39 Scuole Medie Scuole Classi Allievi Insegnanti All.per Inferiori Classe Nord Ovest 1895 18593 373469 47540 20,09 Nord Est 1482 13636 266524 34306 19,55 Centro 1471 15608 312473 38440 20,02 Sud-Isole 3572 43254 875890 106502 20,25 ITALIA 8420 91091 1828356 226788 20,07 Rapp. all./ins. 13,25 13,29 12,61 13,04 13,05 Rapp. All./Ins. 9,24 8,77 9,58 10,67 9,83 Rapp. All./Ins. 7,86 7,77 8,13 8,22 8,06 Fonte: Istat, A.S. 1995/96 A livello di scuola superiore si riscontra come, nella prima metà degli anni Novanta, il Mezzogiorno abbia conosciuto dinamiche in controtendenza rispetto al resto del territorio nazionale. Mentre infatti nel Centro Nord sono negativi i saldi sia di allievi, sia di insegnanti, sia del numero delle classi, tali valori presentano invece un segno positivo nel Sud Italia, che ha così acquisito una supremazia quantitativa sulle regioni settentrionali (dove sono stati più marcati gli effetti prodotti dal decremento demografico degli anni Ottanta; poiché, invece, i tassi di scolarizzazione permangono in crescita in tutta Italia). Il rapporto tra allievi e insegnanti è inoltre un po’ più elevato al Sud rispetto ad altre aree d’Italia; questo indicatore, tra l’altro, evidenzia come la situazione dell’Italia nordorientale tenda ad assomigliare più a quella del Centro che non del resto del Nord. A proposito dei diversi indirizzi formativi superiori non emergono particolari differenze tra Nord, Centro e Sud, fatta eccezione per una rilevanza dei Licei leggermente più elevata della media nazionale nelle regioni del Centro Italia. IL FENOMENO DELL'ABBANDONO: PIÙ ALTO AL SUD In termini di efficienza complessiva del sistema formativo superiore, si può osservare come il grave fenomeno dell’abbandono scolastico abbia determinato in questi anni la dispersione di oltre 200mila studenti l’anno, fenomeno che ha interessato, in termini assoluti, soprattutto gli Istituti tecnici. A livello di incidenza sul totale degli iscritti, il fenomeno dell’abbandono scolastico risulta di particolare gravità negli Istituti professionali, mentre si rivela di proporzioni decisamente più modeste della media nei Licei. A livello territoriale, il fenomeno dell’abbandono della scuola superiore risulta complessivamente meno marcato al Nord, pur se la situazione appare differenziata per indirizzi di studi: ad esempio, nell’ambito dell’indirizzo 54 SISTEMI FORMATIVI magistrale, i più alti tassi di abbandono si registrano proprio nell’Italia settentrionale. Tab. 2 – Iscritti, per tipo di scuola superiore e macroregione Istituti profes- Istituti tecnici Licei Istituti magisionali strali Nord 212979 457113 277674 57009 21% 45% 28% 6% Centro 101561 213906 165739 29554 20% 42% 32% 6% Sud-Isole 200107 488550 316015 88978 18% 45% 29% 8% ITALIA 514647 1159569 759428 175541 20% 44% 29% 7% Totale 1004775 100% 510760 100% 1093650 100% 2609185 100% Fonte: Istat, A.S. 1994/95 Tab. 3 – Il sistema scolastico superiore: evoluzione negli anni Novanta per macroregioni Scuole Classi Allievi Insegnanti All.per Rapp. Medie SupeClasse All./Ins. riori (A.S. 1994/95) Nord Ovest 1893 29719 609980 70827 20,53 8,61 Nord Est 1324 19704 438812 52648 22,27 8,33 Centro 1748 29600 621603 73340 21,00 8,48 Sud-Isole 2876 47662 1053320 116546 22,10 9,04 ITALIA 7841 126839 2723715 313361 21,47 8,69 Scuole Classi Allievi Insegnanti All.per Rapp. Medie SupeClasse All./Ins. riori (A.S. 1990/91) Nord Ovest 1951 31375 680808 75242 21,70 9,05 Nord Est 1296 22888 488719 55020 21,35 8,88 Centro 1788 31238 660869 75656 21,16 8,74 Sud-Isole 2876 47477 1025932 112815 21,61 9,09 ITALIA 7911 132978 2856328 318733 21,48 8,96 Scuole Classi Allievi Insegnanti All.per Rapp. Differenze tra Classe All./Ins. 1990/91 e 1995/96 Nord Ovest -58 -1656 -70828 -4415 -1,17 -0,44 Nord Est 28 -3184 -49907 -2372 0,92 -0,55 Centro -40 -1638 -39266 -2316 -0,16 -0,26 Sud-Isole 0 185 27388 3731 0,49 -0,06 ITALIA -70 -6139 -132613 -5372 -0,01 -0,27 Fonte: Istat Tab. 4 – Il fenomeno dell’abbandono, per tipo di scuola superiore e macroregioni n°. di abbandoni Istituti pro- Istituti tecnici Licei Istituti magifessionali strali Nord 25952 34325 8009 6256 Centro 13082 23297 6947 2587 Sud-Isole 29854 40285 10170 8094 ITALIA 68888 97907 25126 16937 Incidenza abbandoni Istituti pro- Istituti tecnici Licei Istituti magisugli iscritti fessionali strali Nord 12,19% 7,51% 2,88% 10,97% Centro 12,88% 10,89% 4,19% 8,75% 55 Tot 74542 45913 88403 208858 Tot 7,42% 8,99% SISTEMI FORMATIVI Sud-Isole ITALIA 14,92% 13,39% 8,25% 8,44% 3,22% 3,31% 9,10% 9,65% 8,08% 8,00% Fonte: Istat, A.S. 1994/95 LA FORMAZIONE PROFESSIONALE: UN SETTORE DI CRESCENTE RILEVANZA STRATEGICA Un settore formativo a crescente rilevanza strategica è quello della formazione professionale, sia come risposta al fenomeno della dispersione scolastica dei giovani, sia per formare/riformare adulti, sia per contribuire a flessibilizzare il panorama complessivo dell’offerta formativa. La cosiddetta formazione professionale è finalizzata, in genere, ad una qualificazione/riqualificazione di fasce di popolazione e di manodopera deboli o marginali: disoccupati, giovani a bassa qualificazione, adulti espulsi dal mondo del lavoro. Nel solo anno 1995/96, cui si riferiscono gli ultimi dati dell’Istat, oltre 193mila persone (in gran parte giovani) hanno seguito corsi di formazione professionale: in oltre 3 casi su 4 si tratta di corsi post obbligo, mentre nei restanti casi di corsi post diploma superiore. La concentrazione di corsi professionali risulta particolarmente marcata nelle regioni settentrionali, e specialmente in quelle dell’Italia nordorientale: nel Nord, infatti, si tiene circa il 60% di tutti i corsi di formazione professionale organizzati in Italia; nelle sole regioni del Nord Est se ne tiene un terzo. Tab. 5 – Iscritti a Corsi di Formazione professionale per una prima qualificazione Post obbligo Postdiploma Tutti i corsi M F tot % M F tot % M F tot N.Ovest 25010 17819 42829 29 4240 7117 11357 26% 29250 24936 54186 N.Est 26575 21309 47884 32 6089 9099 15188 34% 32664 30408 63072 Centro 12648 9952 22600 15 4614 7018 11632 26% 17262 16970 34232 Sud Isole 13769 21969 35738 24 2176 3849 6025 14% 15945 25818 41763 ITALIA 78002 71049 149051 100 17119 27083 44202 100% 95121 98132 193253 % 28 33 18 22 100 Fonte: Istat, A.S. 1995/96 È indubbia la crescente importanza della formazione professionale, anche per la maggiore flessibilità che spesso possiedono i “pacchetti” formativi (rispetto ai corsi scolastici più tradizionali), quindi meglio in grado di rispondere alle continue modificazioni del mercato del lavoro. A fronte di tale rilevanza strategica il panorama informativo attuale è però molto scarso, almeno nel nostro paese. Esistono pochi dati su cui poter ragionare, essenzialmente relativi al numero dei corsi, degli iscritti, all’entità dei finanziamenti. Ben poco si sa su tutto il resto. L’immagine della formazione professionale italiana non è generalmente molto positiva: diversi osservatori raccontano di carenze diffuse (in diversi casi pare addirittura che corsi finanziati non si svolgano nemmeno...). Nessuna informazione si ha sulle caratteristiche qualitative del corpo docente né, tanto meno, sulla reale utilità dei corsi. Per anni questa assenza di informazioni e di verifiche è stata attribuita all’ostruzionismo lobbistico di una parte delle agenzie formative, ostili all’idea di controlli e verifiche di gestione. Attualmente si stanno cogliendo i primi segnali positivi, con la promozione di parecchie ricerche sul settore, tanto a livello locale quanto sovralocale. Ai fini della presente analisi resta 56 SISTEMI FORMATIVI comunque il fatto che non esistono ad oggi molti dati comparabili a livello territoriale. Una delle poche informazioni in tal senso, come detto, è quella sull’entità dei finanziamenti europei. I dati rivelano come il maggior numero di azioni formative finanziate con il Fondo sociale europeo vengano organizzate nell’Italia Settentrionale (specialmente nel Nord Ovest), dove pure si registra la maggiore quota di utenti. Il numero medio di utenti è più basso nel Nordovest, mentre risulta un po’ più elevato nel Nord Est e nelle regioni centrali. I costi della formazione professionale sono molto più consistenti al Sud, sia in termini assoluti sia in termini relativi: nelle regioni meridionali si spendono oltre 11 miliardi di lire per ogni utente della formazione, contro i circa 5 milioni e mezzo del Nord e i 3 milioni del Centro Italia. L’utilizzo di fondi sociali europei copre, su scala nazionale, circa tre quarti delle spese, e viene massimizzato in particolar modo nelle regioni del Centro Italia. Tab. 6 – La Formazione professionale finanziata con il Fondo Sociale Europeo n.azioni n.utenti costi totali copertura n. utenti costo medio totali totali (miliardi) con il F.S.E. per azione per utente (milioni) Nord Ovest 9182 110469 612 71% 12,03 5,54 Nord Est 8838 157536 879 61% 17,82 5,58 Centro 4521 78064 300 83% 17,27 3,84 Sud-Isole 6440 101374 1140 72% 15,74 11,25 ITALIA 28981 447443 2931 73% 15,44 6,55 Fonte: Isfol, 1997; dati relativi all’anno 1995 ALTA QUALIFICAZIONE DEI GIOVANI: IL MEZZOGIORNO È IN RITARDO Per quanto riguarda il sistema universitario nazionale, si rileva come il maggior numero di iscritti e di laureati si abbia nelle Facoltà dell’Italia settentrionale, specialmente in quelle del Nord Ovest. Ciò vale tanto per i tradizionali Corsi di laurea quanto per i più innovativi Diplomi universitari. Negli Atenei dell’Italia settentrionale si ha pure la maggiore concentrazione assoluta di professori universitari. Gli indicatori di affollamento dei corsi – che possono fornire prime indicazioni circa l’efficienza del sistema – presentano valori più marcati per le sedi universitarie del Nord Ovest e quelle del Mezzogiorno; nel Nord Est si registrano invece indici di affollamento nettamente più bassi, su valori decisamente più vicini a quelli tipici delle Facoltà del Centro Italia. In termini di bilancio delle risorse umane immesse sul mercato del lavoro, risulta di particolare interesse la valutazione della quota di popolazione ad elevata qualifica, poiché questa costituisce un fondamentale bacino di risorse in termini di sviluppo locale e regionale. A questo proposito, un confronto comparativo in chiave internazionale consente di evidenziare come, nel suo complesso, il nostro paese si trovi in una posizione intermedia rispetto alla media dei paesi sviluppati: in Italia poco più della metà dei giovani dai 25 ai 34 anni risulta in possesso di un titolo superiore all’obbligo; contro, ad esempio, a valori superiori al 60% della popolazione giovanile in Canada o negli Stati Uniti. La posizione di metà classifica dell’Italia è dovuta essenzialmente al ritardo delle regioni del nostro Mezzogiorno, che presentano quote di giovani diplomati o laureati decisamente inferiori alle medie europee nelle altre aree 57 SISTEMI FORMATIVI del nostro paese – nel Nord, ma in modo ancora più marcato nelle regioni dell’Italia centrale – la quota di giovani ad elevata qualifica è del tutto simile a quella media di paesi come la Francia, la Germania o la Gran Bretagna. Tab. 7 – Iscritti all’Università (Corsi di laurea e Diplomi universitari) Iscritti CdL Iscritti DU Tot iscritti Laureati CdL Professori2 Rapporto I(nel 1995) scritti/Prof. N. Ovest 362359 16579 378938 28834 7028 53,92 N. Est 300111 12815 312926 21481 8883 35,23 Centro 474002 21580 495582 26355 11409 43,44 Sud-Isole 480668 17289 497957 28207 9876 50,42 ITALIA 1617140 68263 1685403 104877 37196 45,31 Fonte: Istat, A.A. 1995/96 Tab. 8 – Giovani dai 25 ai 34 anni in possesso di un Diploma o di una Laurea Incidenza % Incidenza % Canada 69 ITALIA 51 Usa 61 Olanda 48 Svezia 59 Irlanda 46 Centro (Italia) 57 Sud e Isole (Italia) 45 Francia 56 Austria 45 Nord Est (Italia) 55 Grecia 45 Germania 55 Danimarca 45 Gran Bretagna 55 Australia 41 Nord Ovest (Italia) 54 Spagna 37 Finlandia 53 Portogallo 23 Belgio 52 Lussemburgo 22 Fonte: Oecd, 1997 LE PROSPETTIVE DEI SISTEMI FORMATIVI AD ELEVATA QUALIFICA I destini dei sistemi formativi si giocano oggi (e si giocheranno sempre di più nei prossimi anni, sia a livello nazionale che internazionale) attorno ad un paio di macro-questioni strategiche: da un lato, quella delle reali capacità di innovazione del sistema formativo elevato, in particolare nella direzione di una crescente flessibilizzazione di percorsi e profili formativi, sempre più differenziati ed adattabili alle diverse esigenze di diversi segmenti del mercato, sia sul versante della domanda sia dell’offerta; dall’altro la questione della qualità della formazione, sia in termini di qualità diffusa (es: efficienza e produttività del sistema formativo) sia di qualità concentrata, in particolare nei luoghi della cosiddetta eccellenza formativa. PIÙ FLESSIBILITÀ NEI PERCORSI FORMATIVI: L’AFFERMAZIONE DEI DIPLOMI Quella di una flessibilizzazione sempre più spinta dell’offerta formativa appare oggi una caratteristica diffusa del sistema formativo nazionale, come risposta coerente ad una crescente esigenza di professionalità sempre più differenziate. Come noto, al tradizionale Diploma di laurea si sono aggiunti, negli ultimi anni, i Diplomi universitari (anche noti come “lauree brevi”), oltre ai vari titoli post lauream, rilasciati da Scuole di specializzazione, corsi di Master, UNIVERSITARI 2 Professori: Ordinari, Straordinari, Associati, Incaricati, a contratto. 58 SISTEMI FORMATIVI Dottorati di ricerca. La riforma del sistema universitario nazionale, nella logica del 3+2 anni, ancora troppo in divenire nella fase attuale per poter formulare qualunque valutazione, è comunque un ulteriore elemento che dovrebbe introdurre elementi di ulteriore flessibilità nei percorsi. Benché in termini quantitativi la rilevanza dei percorsi alternativi ai tradizionali Corsi di laurea appaia complessivamente ancora modesta, va detto altresì come questa stia crescendo di anno in anno. In questo senso, è emblematica la situazione dei Diplomi universitari, che in Italia coinvolgevano a metà anni Novanta appena un 4-5% della popolazione universitaria, e che però – anche in relazione alle numerose attivazioni di corsi di Diploma in molte Facoltà italiane nell’ultimo triennio – hanno acquisito un peso attorno al 10% di iscritti universitari. Tab. 9 – Innovazione nei percorsi formativi universitari, per regioni e macroregioni Iscritti totali Iscritti tot D.U. Iscritti D.U. su Iscritti totali Piemonte 96795 4451 4,60% Liguria 42548 2459 5,78% Lombardia 239595 9669 4,04% NORD OVEST. 378938 16579 4,38% Trentino A:A: 13922 635 4,56% Veneto 109497 4972 4,54% Friuli V:G. 34284 1837 5,36% Emilia R. 155223 5371 3,46% NORD EST 312926 12815 4,10% CENTRO 495582 21580 4,35% SUD - ISOLE 497957 17289 3,47% ITALIA 1685403 68263 4,05% Rapporto iscritti tot ai D.U. sul tot iscritti; fonte: Istat, A.A. 1995/96 Le strategie di flessibilizzazione dell’offerta formativa elevata seguono anche un’altra strada, quella della trasformazione fisica dell’offerta formativa. Ciò si traduce, da un lato, in un sempre più spinto decentramento delle sedi accademiche, coinvolgendo nuove province e nuove città nel sistema nazionale dell’offerta universitaria, dall’altro nell’adozione di nuovi strumenti didattici (come, ad esempio, la teledidattica). LE SEDI UNIVERSITARIE SI DECENTRANO Relativamente ai processi di decentramento delle sedi universitarie, si può osservare come questi interessino ormai in modo marcato tutte le maggiori regioni italiane, sia le metropoli – in cui è aumentato il numero di Atenei - sia le città medie e piccole della provincia italiana. Una tendenza diffusiva, tra l’altro, che già caratterizzava nei decenni scorsi le regioni dell’Italia nordorientale e centrale (dove sono molte le piccole città a forte tradizione universitaria) e che, durante gli anni Novanta, ha interessato in modo sempre più marcato anche l’Italia nordoccidentale: soltanto in Lombardia e in Piemonte, nella prima metà degli anni Novanta, ben 6 città sono diventate altrettante sedi universitarie autonome3. Si noti che qui sono state conteggiate soltanto le città sede di autonome Facoltà universitarie. In realtà, se si considerasse anche il decentramento di singoli Corsi di Laurea o di Diploma universitario, il 3 In parecchi casi il decentramento universitario si genera in stretto rapporto con il tessuto produttivo e con la società locale (es: D.U. specialistico per il settore tessile a Biella, o per le materie plastiche ad Alessandria). . 59 SISTEMI FORMATIVI quadro delle città coinvolte dal processo di diffusione dell'offerta universitaria sul territorio sarebbe ancora più ricco ed articolato. Per fare un solo esempio, in Piemonte sono ben 10 (oltre a Torino) le città interessate dalla presenza di corsi universitari: Alessandria, Biella, Casale Monferrato, Cuneo, Grugliasco, Ivrea, Mondovì, Novara, Orbassano, Vercelli. In generale, ormai, quasi la metà delle sedi universitarie sono collocate in provincia; nel Nord Ovest più della metà, nel Nord Est quasi i due terzi del totale delle sedi. Tab. 10 – Il processo di decentramento delle Sedi universitarie italiane4 A.A. 1961/62 A.A. 1971/72 A.A. 1981/82 A.A. 1991/92 A.A. 1995/96 Piemonte Liguria Lombardia Trentino A.A. Veneto Friuli V.G. Emilia R. Torino (3) Torino (3) Torino (3) Torino (3) Genova Milano (4) Pavia Genova Milano (7) Pavia Bergamo Brescia Genova Milano (7) Pavia Bergamo Brescia (2) Genova (2) Milano (7) Pavia Bergamo Brescia (3) Castellanza Venezia (2) Padova Trento Venezia (2) Padova Verona Feltre Trieste Udine Bologna (2) Parma Modena Ferrara Piacenza Trento Venezia (2) Padova Verona Feltre Trieste Udine Bologna (2) Parma Modena Ferrara Piacenza Trento Venezia (2) Padova (2) Verona (2) Feltre Trieste Udine Bologna (2) Parma Modena Ferrara Piacenza Trieste Bologna (2) Parma Modena Ferrara Torino (3) Vercelli (2) Novara Alessandria Genova (2) Milano (7) Pavia Bergamo Brescia (3) Castellanza Como (2) Varese Lecco Trento Venezia (2) Padova (2) Verona (2) Feltre Trieste Udine Bologna (2) Parma Modena Ferrara Piacenza Fonte: Istat Tab. 10 bis – Incidenza delle sedi decentrate, per numero di iscritti e regione Iscritti nel Capoluogo Iscritti in sedi decentrate Incidenza % Iscritti decentrati su Iscritti totali Piemonte Liguria Lombardia NORD OVEST Trentino A.A. Veneto Friuli V.G. Emilia R. NORD EST CENTRO 85001 40089 177524 302614 13287 28286 21902 93638 157113 327066 7343 0 52402 59745 0 76239 10545 56214 142998 146936 4 8% 0% 23% 16% 0% 73% 32% 38% 48% 31% Compaiono qui solo le sedi universitarie con proprie Facoltà, compresi gli Istituti universitari (es: Isef); non compaiono, invece, i comuni in cui vi è un semplice decentramento funzionale di alcuni corsi. Tra parentesi è inoltre indicato il numero di Atenei, quando ve ne siano più di uno per città. 60 SISTEMI FORMATIVI SUD-ISOLE ITALIA 287613 1074406 193055 542734 40% 34% Fonte: Istat, A.A. 1995/96 LA TELEDIDATTICA PER UNA FORMAZIONE A DISTANZA Un’altra frontiera dell’innovazione formativa – ancora in gran parte tutta da esplorare – è quella della riorganizzazione della didattica secondo modalità innovative, tese anch’esse a flessibilizzare l’offerta complessiva del sistema. Di particolare interesse, in questo senso, appaiono le prospettive della didattica a distanza (o teledidattica), che si vale di luoghi virtuali (quali canali televisivi o reti telematiche) come “sedi” di corsi, lezioni ed esercitazioni universitarie. Si tratta di un progetto ancora largamente connotato da un carattere sperimentale, finora utilizzato soltanto per 7 Diplomi universitari (6 dei quali della Facoltà di Ingegneria), in Atenei consorziati in Net.T.Un.O., il “NETwork Teledidattico per l’UNiversità Ovunque”. Tra i soci promotori del Consorzio (parte del mondo accademico, parte del mondo produttivo) vi sono i Politecnici di Milano e di Torino e l’Università di Napoli Federico II. Nei suoi 6 anni di vita, il Consorzio Nettuno ha progressivamente coinvolto altre 25 sedi universitarie nazionali, con una prevalente concentrazione nelle aree dell’Italia centrale e nordorientale. Le potenzialità innovative della didattica a distanza appaiono di estremo interesse, sia per attenuare ulteriormente i vincoli spazio-temporali, sia per ridurre i costi di produzione della didattica, in un’ottica maggiormente competitiva per le singole sedi. Tab. 11 – Le sedi universitarie consorziate in Nettuno, per la didattica a distanza sedi Tot sedi 5 Nord Ovest Università Torino Politecnico Torino Università Milano Politecnico Milano Università Genova 7 Nord Est Università Bologna Università Ferrara Università Modena Università Padova Università Parma Università Trento Università Trieste 11 Centro Università Ancona Università Camerino Università Cassino Università Firenze Università L’Aquila Università Pisa Università Perugia Università Roma Tor Vergata Università Siena Università Teramo Università Viterbo 5 Sud-Isole Università Bari Università Lecce Università Napoli II Università Napoli Federico II Università Salerno Fonte: Consorzio Nettuno, 1998 61 SISTEMI FORMATIVI LA QUALITÀ DEI SISTEMI FORMATIVI AD ELEVATA QUALIFICA QUALITÀ ED ECCELLENZA: DUE CONCETTI SFUGGENTI Ben più complesse appaiono le questioni legate alla qualità dell’offerta formativa. Sebbene in ambito accademico (e non) si discuta in misura crescente della questione, concordando sostanzialmente sul fatto che occorra introdurre metodi e criteri in grado di individuare, classificare e certificare la qualità dell’offerta, non sembra però esserci ancora concordanza non solo sui criteri valutativi ma nemmeno sull’oggetto (che cosa debba cioè intendersi come “qualità” della formazione). Dai diversi documenti delle commissioni nazionali e locali di valutazione/autovalutazione si desume come siano compresenti opinioni ed orientamenti piuttosto diversi tra loro: da chi, semplicemente, identifica qualità ed eccellenza formativa con il post lauream a chi, pragmaticamente, ritiene di qualità la formazione che garantisca un alto livello di completamento dei percorsi (il che, per inciso, nel caso della formazione professionale non è sempre così scontato); da chi valuta l’attrattività delle singole sedi universitarie anche per i giovani di altre aree, a chi si sofferma sull’efficienza con cui ogni sede risulta in grado di garantire mediamente il completamento dei percorsi formativi nel tempo prestabilito. A livello europeo, nazionale e in diversi contesti locali sono stati avviati da tempo progetti di osservazione e valutazione dei processi formativi. Ma sia i progetti europei (es: Evalue), sia l’Osservatorio nazionale per la valutazione del sistema universitario (istituito recentemente presso il Murst), sia gli Uffici e i Nuclei di valutazione di diversi Atenei stanno sostanzialmente vivendo una fase di messa a punto di criteri e strumenti. Tranne che nel caso dei Master – che sovente si ispirano ormai ad una certificazione di qualità tipo ISO – non vi è ancora nel panorama formativo elevato una standardizzazione ed una comunanza di criteri valutativi che consentano tra l’altro di rendere comparabili tra loro i “pacchetti” formativi delle diverse agenzie operanti nel panorama nazionale. Così è frequente ascoltare analisi – anche tra gli “addetti ai lavori” – che rimangono sostanzialmente percettive, ovvero che tendono a classificare questo o quell’Ateneo o altra agenzia formativa come “eccellente” o “di qualità” sulla base di punti di vista altamente soggettivi (talvolta pregiudiziali), piuttosto che fondarsi su parametri ed indicatori almeno un po’ oggettivi. NEL NORD EST E IN CENTRO ITALIA LE SEDI UNIVERSITARIE PIÙ ATTRATTIVE Provando ad uscire da questa impasse, può essere opportuno qui ricorrere ad alcuni indicatori, che permettano una prima classificazione e quindi un confronto tra diversi sistemi formativi locali. Una prima famiglia di indicatori ha a che vedere con le capacità attrattive delle diverse sedi universitarie, tanto sul piano interno (locale-nazionale) che esterno (internazionale). È indubbio che, ad esempio, una forte concentrazione di studenti “fuori sede” sia indicativa di una sede universitaria in qualche misura attrattiva. Sebbene possano essere molti e diversi i fattori, locali e non, che concorrono all’attrattività di una sede, è evidente altresì come questi abbiano anche in gran parte a che fare con aspetti relativi alla qualità della di- 62 SISTEMI FORMATIVI dattica, alla qualità dell’organizzazione e della logistica (es: servizi ed abitazioni per studenti), nonché ad una fama prestigiosa di cui gode una sede universitaria. In questo senso, da un confronto interno al panorama nazionale, si può osservare come la maggiore concentrazione di sedi universitarie con molti studenti provenienti da fuori regione si abbia nell’Italia nordorientale e nell’Italia centrale; aree seguite, ma ad una certa distanza, dal Nord Ovest; mentre appare molto bassa l’attrattività delle sedi universitarie meridionali. Per quanto riguarda le regioni del Nord Est e del Centro Italia, si rileva la presenza di alcune situazioni locali caratterizzate da una spiccata attrattività, probabilmente legata alla competitività di prodotti formativi (es: Dams, Facoltà “rare” come Psicologia o Sociologia) senza molti concorrenti o addirittura inediti nel panorama nazionale, almeno fino a poco tempo fa. L’ATTRATTIVITÀ INTERNAZIONALE In termini di attrattività internazionale, il nostro paese presenta saldi complessivamente negativi con la maggior parte dei paesi Ocse: il numero di studenti italiani in Università straniere è cioè maggiore di quello degli stranieri che vengono a studiare negli Atenei del nostro paese. Il sistema italiano risulta invece piuttosto attrattivo per gli studenti provenienti da stati asiatici e africani; e, in ambito europeo, soprattutto per gli studenti greci, che costituiscono la gran parte della popolazione straniera nei corsi universitari italiani. Distinguendo territorialmente all’interno del nostro paese, si rileva come anche gli indicatori di attrattività internazionale presentino valori più elevati nelle regioni del Centro Italia e del Nord Est. Nuovamente il Nord Ovest segue ad una certa distanza, ed il Sud conferma un livello molto basso di attrattività (nonostante la sua posizione geografica privilegiata nei confronti di aree fortemente rappresentate nei flussi di studenti diretti verso il nostro paese). Ancora una volta emergono specificità molto marcate, tanto a livello regionale (in questo caso si evidenzia i casi del Friuli Venezia Giulia o delle Marche), quanto a livello locale: le maggiori concentrazioni assolute di stranieri si hanno in Atenei del Centro e del Nord Est, come La Sapienza di Roma o le Università di Bologna, Trieste, Padova, Perugia. Fig. 1 – Studenti stranieri negli Atenei italiani, per aree di provenienza [fonte: Oecd, 1997] Grecia 36% resto Europa sud 1% Europa centrale 10% Europa nord 5% Oceania 3% America sud 6% America nord 5% Africa 13% Asia 21% 63 SISTEMI FORMATIVI Tab. 12 – Attrattività nazionale e internazionale dell’Università italiana, per regione Attrattività Attrattività internazionale nazionale Piemonte 19,22% 1,01% Liguria 21,36% 0,99% Lombardia 17,49% 1,27% NORD OVEST 18,50% 1,17% Trentino A.A. 35,61% 1,26% Veneto 26,83% 2,21% Friuli V.G. 22,15% 5,02% Emilia R. 38,81% 1,83% NORD EST 30,25% 2,29% CENTRO 26,82% 3,05% SUD-ISOLE 6,52% 0,64% ITALIA 19,76% 1,77% [Attrattività nazionale: rapporto % degli iscritti residenti in altre regioni sul totale iscritti in regione. Fonte. Murst, A.A. 1994/95] [Attrattività internazionale: rapporto % degli iscritti stranieri sul totale iscritti in regione; Fonte: Istat, A.A. 1995/96] GLI STUDENTI “FUORI CORSO”: UN PROBLEMA ITALIANO Un indicatore di efficienza formativa – sulla cui attendibilità c’è una diffusa concordanza – è relativo alle capacità di rispetto della tempistica prefissata per il completamento di un iter formativo. In proposito, è nota la situazione di ritardo del nostro paese rispetto alla maggior parte dell’Unione europea: mentre, ad esempio, in Belgio si laurea in corso il 26% degli studenti universitari, in Olanda il 19% o in Germania il 16%, in Italia solo 1 studente su 10 riesce a laurearsi in corso; solo in Svezia e in Danimarca si registrano valori peggiori (attorno all’8%). A proposito della situazione italiana è interessante rilevare che, là dove (come nei corsi di Diploma universitario) è stato prodotto in questi anni uno sforzo in direzione sia di un maggiore controllo degli accessi sia di una didattica più guidata ed assistita, i livelli di efficienza raggiunti finora (sebbene si possa per ora ragionare soltanto su piccoli numeri) sono generalmente migliori: oltre la metà degli studenti consegue in corso il Diploma universitario, contro un 10% degli studenti dei Corsi di laurea. A livello locale non sembrano invece emergere, da questo punto di vista, particolari differenze tra Nord, Centro e Sud; sembra piuttosto delinearsi un quadro di efficienza fortemente differenziato per singole sedi universitarie, con Atenei in cui l’incidenza del fenomeno dei “fuori corso” è minima ed altri in cui invece il fenomeno interessa metà della popolazione studentesca. 64 SISTEMI FORMATIVI Tab. 13 – Indici di efficienza, per regioni Indice efficienza Indice efficienza Indice efficienza Indice efficienza (Iscritti) (Diplomati) (Laureati) (Laur.+Dipl.) Piemonte 64% 57% 14% 17% Liguria 68% 63% 16% 20% Lombardia 66% 50% 10% 13% NORD OVEST 66% 53% 12% 14% Trentino A.A. 60% 30% 5% 7% Veneto 65% 41% 9% 11% Friuli V.G. 66% 38% 14% 15% Emilia R. 68% 57% 8% 11% NORD EST 66% 49% 9% 11% CENTRO 64% 48% 9% 12% SUD-ISOLE 69% 69% 10% 14% ITALIA 66% 53% 10% 13% [Indice efficienza Iscritti = rapporto % iscritti in corso sul totale iscritti CdL più DU] [Indice efficienza Diplomati e Laureati = rapporti % laureati e diplomati in corso sul totale di laureati e diplomati ; fonte: Istat, A.A. 1995/96] Tab. 13 bis – Indice di efficienza, per sedi universitarie rapporto % iscritti fuori corso sul totale iscritti Roma Biomedica NA II Università CO Università NO Università Roma Cattolica VA Università VC Università Roma SS Assunta LC Politecnico NA Benincasa CB Università Castellanza Roma Luiss VC Politecnico FG Università BS Cattolica CO Politecnico AL Università BS Università Roma Tor Vergata PC Cattolica AR Università MI Iulm BN Università AQ Università PD Università MC Università NA Navale BO Università CH Università SA Università BG Università MI Università ME Università FI Università TS Università PI Università TO Università PV Università BA Università 0 4 5 7 13 14 15 16 19 19 20 21 21 22 22 23 23 24 24 24 24 24 25 26 26 34 34 34 35 35 35 35 35 35 36 36 37 38 39 39 Roma III NA Università MI Bocconi MO Università Urbino Università LE Università RC Università CZ Università PA Università FE Università CT Università BA Politecnico VT Università AN Università SS Università TE Università PR Università SI Università VR Università UD Università GE Università PZ Università CA Università PG Università MI Cattolica 27 28 28 28 28 29 29 29 29 30 31 31 31 31 32 32 32 32 32 32 32 33 33 33 33 Meglio della Media nazionale In media nazionale VE Università CS Università TN Università TO Politecnico Camerino Università Cassino Università Roma Sapienza NA Orientale MI Politecnico Feltre Iulm VE Istit. Architettura PE Università 65 39 39 40 40 41 42 42 44 44 47 47 53 Peggio della media nazionale SISTEMI FORMATIVI Fonte: Istat, A.A. 1995/96 I PRODOTTI FORMATIVI POST LAUREAM A proposito dei luoghi dell’eccellenza formativa, in assenza per ora di condivisibili e condivisi criteri di classificazione e certificazione della stessa, una prima indicazione può provenire dal livello di diffusione di prodotti formativi cosiddetti “di terzo livello”, ossia successivi alla laurea. Da una prima analisi relativa alla diffusione territoriale di Scuole di specializzazione e di Master5 risulta, innanzitutto, una conferma del sempre maggiore coinvolgimento delle città medie e piccole. Non paiono invece emergere aree territoriali particolarmente “forti” dal punto di vista della presenza di corsi post lauream, con la parziale eccezione dell’Italia nordorientale, dove la concentrazione è un po’ più bassa della media nazionale. Emergono, piuttosto, delle specificità locali in specifiche aree formative. Così, ad esempio, se il Nord Ovest e il Nord Est si segnalano per una particolare presenza, rispettivamente, nell’area grafico-architettonica (il primo) ed economica (il secondo), in Centro Italia vi sono invece più corsi post lauream della media nazionale nei settori politico-sociale ed economico; nel Mezzogiorno, infine, emerge un’attenzione particolare per il settore agro-ambientale e per quello giuridico. Tab. 14 – Scuole di specializzazione post lauream e Master, per sede territoriale Scuole di specia- Master Scuole di specia- Master lizzazione lizzazione Milano 33 33 Pisa 8 2 Torino 9 11 Siena 5 0 Genova 6 0 Ancona 2 4 Pavia 6 2 L’Aquila 2 0 Cremona 2 1 Macerata 2 0 Cuneo 0 1 Camerino 1 0 Varese 1 0 Cassino 1 0 La Spezia 0 1 Perugia 1 0 1 0 NORD OVEST 57 49 Rimini Teramo 1 0 Bologna 12 7 CENTRO 59 25 Reggio E. 0 11 Padova 7 1 Napoli 45 5 Parma 6 0 Bari 16 12 Venezia 0 2 Palermo 7 0 Ferrara 2 0 Messina 5 0 Modena 2 0 Cagliari 3 0 Trieste 2 1 Catania 3 0 Ravenna 0 2 Lecce 1 0 Forlì 0 1 Siracusa 1 0 Udine 1 0 Sassari 1 0 Vicenza 0 1 Potenza 0 1 0 1 NORD EST 32 26 Salerno Matera 1 0 Roma 27 18 SUD-ISOLE 83 19 Firenze 8 1 ITALIA 231 119 5 È da evidenziare come qui siano state considerate tutte le Scuole di specializzazione tranne quelle dell'area medica, in quanto strutturate nelle Facoltà di Medicina e Chirurgia in modo troppo diverso rispetto ad analoghi percorsi formativi. Va poi ancora annotato come, nel caso delle Scuole di specializzazione, queste siano tutte emanazione diretta (anche se non sempre esclusiva) del mondo accademico, mentre nel caso dei Master l'organizzazione esclusiva da parte di Atenei riguardi appena un sesto dei casi, essendo i corsi di Master molto più frequentemente organizzati da agenzie formative private, del mondo delle imprese, o da consorzi misti pubblico-privato. 66 SISTEMI FORMATIVI Fonte: Fondazione G.Agnelli, “Filo di Arianna”, CD Rom, 1997 67 Tab. 15 – Scuole di specializzazione post lauream e Master, per area formativa e macroregione Economico- ChimicoGiuridico- Ingegnerist.- MatematicoAgroGraficoValori Asso- TOTALE finanziaria farmac. legislativa informatica Fisicoarchitetluti Sc.Spec.+ ambientale Naturalist. tonica Master 67 Nord Ovest Nord Est Centro Sud-Isole Italia 106 58 84 102 350 13 5 6 19 43 15 3 6 6 30 Politicosociale Psicologicoumanistica 24 18 27 13 82 5 3 5 12 25 4 3 8 15 30 14 8 3 10 35 12 8 12 7 39 2 5 9 6 22 17 5 8 14 44 Nord Ovest 100% 12% 14% 23% Nord Est 100% 9% 5% 31% Centro 100% 7% 7% 32% Sud-Isole 100% 19% 6% 13% Italia 100% 12% 9% 23% Fonte: Fondazione G.Agnelli, “Filo di Arianna”, CD Rom, 1997 5% 5% 6% 12% 7% 4% 5% 10% 15% 9% 13% 14% 4% 10% 10% 11% 14% 14% 7% 11% 2% 9% 11% 6% 6% 16% 9% 10% 14% 13% Valori % SISTEMI FORMATIVI SISTEMI FORMATIVI 67 SISTEMI FORMATIVI TRE MODELLI NEL SISTEMA FORMATIVO ITALIANO UNIVERSITARIO E POSTUNIVERSITARIO Nel panorama nazionale ci si trova di fronte ad una compresenza di modelli formativi tra loro fortemente differenziati, specie per quanto riguarda i livelli più elevati, di livello universitario e postuniversitario. In verità, una pluralità di modelli non è caratteristica tipica della sola Italia, bensì rispecchia perfettamente la situazione riscontrabile a livello comunitario. DAL MODELLO GENERALISTA, … A QUELLO SPECIALISTA ….A QUELLO LOCALE Tanto in Italia quanto nel resto d’Europa, infatti, sono riscontrabili almeno tre modelli distinti. Un primo modello, tipico delle grandi Università “storiche”, tendenzialmente generaliste, si caratterizza per un alto numero di iscritti, un affollamento dei corsi, un’articolazione interna in numerose Facoltà. Un secondo modello è quello degli Atenei “specialistici”, in genere di dimensioni medie, fortemente connotati da percorsi formativi professionalizzanti, quasi sempre in rapporti relativamente stretti con il mondo produttivo. Un terzo modello, particolarmente diffuso in alcune aree italiane, è quello della sede universitaria di provincia, in genere di piccole dimensioni, fortemente consolidata all’interno della propria società locale di appartenenza, a volte con un’importante tradizione storica alle spalle (ma più spesso nata di recente, a seguito dei processi di decentramento delle sedi accademiche degli ultimi decenni). Gli elementi di omogeneità e di differenziazione interni al panorama nazionale della formazione elevata sembrano quindi coglibili in modo adeguato soltanto facendo riferimento a questa grande articolazione tipologica; i maggiori elementi di omogeneità si rintracciano all’interno di questi modelli, piuttosto che a livello territoriale: così, ad esempio, molte piccole Università italiane presentano caratteri di forte similarità, e ciò in modo relativamente indipendente dalla loro collocazione geografica al Nord, al Centro piuttosto che al Sud. UN'ELEVATA SPECIFICITÀ DEI SINGOLI ATENEI Osservando il panorama della formazione universitaria dal punto di vista della collocazione territoriale degli Atenei, comunque, si riscontrano numerosi elementi che concorrono a definire un quadro ad elevatissima eterogeneità interna. Aspetti inerenti alla qualità della formazione, indicatori relativi alla propensione europea ed internazionale delle sedi, ma anche alla presenza di luoghi di eccellenza formativa, quasi mai tendono delineano una gerarchia tra diverse macroregioni, definendo piuttosto scenari “a macchia di leopardo”. Un’indiretta conferma di questo tipo di panorama nazionale è fornita, tra l’altro, dagli stessi dati ufficiali di fonte ministeriale. Questi vengono quasi sempre divulgati distinguendo per tipi di area formativa ed indirizzi di studi oppure per singole sedi accademiche, quasi mai per regioni o macroregioni; ad evidenziare, ancora una volta, come una lettura del sistema universitario nazionale per singole regioni (o macroregioni) non venga ritenuta, allo stato attuale, di particolare significato esplicativo. Lo stesso rafforzamento dell’autonomia dei singoli Atenei sembra, tra l’altro, favorire un’ulteriore accentuazione di caratteri e specificità locali; al contempo si evidenziano un aumento dei processi competitivi tra singole sedi universitarie, o addirittura tra singole Facoltà concorrenti. 68 SISTEMI FORMATIVI Questa tendenza si rivela in tutta la sua evidenza, ad esempio, nei casi sempre più frequenti di percorsi di studi ad elevata specificità, volutamente pensati in una logica di competizione con altre sedi universitarie, in un tentativo di conquistare ampie fette del mercato formativo nazionale per particolari figure professionali, specie quelle più rare ed innovative. NON ESISTE UN MODELLO FORMATIVO COMUNE NEL NORD ITALIA UNA TERZA ITALIA DELLA FORMAZIONE Questo quadro crescentemente competitivo tra singole sedi accademiche non deve tuttavia far pensare ad una sorta di selvaggio mercato della formazione elevata, in cui ogni Ateneo necessariamente si trovi da solo a combattere contro tutti gli altri. Sebbene con una frequenza non particolarmente elevata tuttavia si creano continuamente sinergie ed accordi tra diverse sedi universitarie. Ancora una volta, tuttavia, queste non sembrano in alcun modo assumere i connotati di una sorta di “alleanza” territoriale. Per quanto riguarda in particolare l’Italia settentrionale, non si ravvisano, allo stato, particolari segnali di una volontà di “fare sistema”, specialmente a livello macro regionale (al massimo si può riscontrare qualche debole tentativo di definire strategie reticolari privilegiate a livello di singola regione). Ragionando quindi in termini di similarità/dissimilarità tra i modelli formativi delle diverse macroregioni italiane, ma anche di strategie e politiche comuni, è indubbio come il Settentrione appaia fondamentalmente privo ad oggi di qualunque carattere di omogeneità e, ancor meno, di un grado coesione interna tale da farlo considerare come un sistema (almeno relativamente) integrato. Nel panorama formativo dell’Italia settentrionale si registra una evidentissima cesura interna tra i modelli formativi tipici del Nord Ovest e quelli del Nord Est; con questi ultimi dai tratti decisamente più simili (per molti aspetti) ai modelli che caratterizzano i sistemi formativi delle regioni del Centro Italia. Quella che, insomma, pare delinearsi è una sorta di “Terza Italia” della formazione (specie nei segmenti ad elevata qualifica), fondata su un diffuso, radicato e forte tessuto di piccole e medie città universitarie, che differenzia in modo piuttosto evidente il panorama formativo di quest’area del paese sia dal Nord Ovest sia dal Mezzogiorno. Di fronte ad eventuali proposte e ipotesi di politiche tese a creare un più coeso ed omogeneo “sistema” settentrionale della formazione, non si può quindi non rilevare l’attuale enorme distanza tra regioni del Nord Ovest e regioni del Nord Est. In particolare il modello del Nord Est (come quello del Centro Italia) appare caratterizzato da una situazione qualitativa generalmente migliore rispetto a quella riscontrabile nelle regioni nordoccidentali. Il Nord Ovest appare più in difficoltà del Nord Est quanto a livelli medi di qualificazione e di scolarizzazione dei propri giovani, ma anche a presenza di corsi professionali e di formazione permanente. Lo stesso sistema universitario delle regioni nordoccidentali si connota come mediamente meno attrattivo rispetto a quello dell’Italia nordorientale, specie a causa di una minore qualità della “cornice” strutturale dei corsi: dai problemi di accoglienza e sistemazione per studenti e docenti ai livelli di affollamento dei corsi. Probabilmente una delle differenze più rilevanti tra i sistemi formativi del Nord Est e del Nord Ovest si può riscontrare nei caratteri di una qualità maggiormente diffusa territorialmente (in singole sedi, città, regioni) nelle regioni 69 SISTEMI FORMATIVI nordorientali. Nel Nord Ovest si ha piuttosto la compresenza di singoli luoghi formativi ad elevata qualità e competitività (sia nazionale sia internazionale), i quali però convivono con realtà tutt’altro che particolarmente qualificate; e, soprattutto, non riescono (o non hanno intenzione) di produrre iniziative di sistema, per creare sinergie di sviluppo complessivo del sistema formativo locale. Specialmente nelle regioni nordoccidentali, dunque, appaiono particolarmente urgenti interventi tesi ad accentuare le tendenze innovative intraprese in anni recenti, ad esempio potenziando un (effettivo) decentramento delle sedi accademiche, migliorando altresì l’attrattività delle proprie sedi formative (potenziamento dei rapporti internazionali, miglioramento delle strutture di accoglienza.), ma anche favorendo processi sinergici in grado di mettere in rete quanto già esistente nel panorama formativo elevato locale. Tab. 16 – I sistemi locali della formazione in Italia: un quadro riassuntivo QUADRO Nord Ovest Nord Est Centro Sud-Isole GENERALE Quota di giovani posizione medio- posizione elevata posizione d’élite posizione medioalta in Europa in Europa in Europa bassa in Europa con Diploma o Laurea Iscritti alle Scuo- in forte contrale superiori zione in contrazione in contrazione in espansione Corsi di Formazione professionale media diffusione di corsi postobbligo e postdiploma forte diffusione di corsi postobbligo e postdiploma media diffusione di corsi postdiploma media diffusione di corsi postobbligo Iscritti all’Università elevato affollamento dei corsi basso affollamento dei corsi medio-basso affollamento corsi elevato affollamento dei corsi Percorsi postdi- per ora poco riploma innovativi levanti (D.U.,...) per ora poco rilevanti per ora poco rilevanti per ora poco rilevanti decentramento forte e consolidato delle sedi decentramento medio e consolidato delle sedi decentramento medio e consolidato delle sedi media Attrattività nazionale delle sedi universitarie elevata elevata quasi nulla Attrattività inter- medio-bassa nazionale delle sedi universitarie medio-alta elevata bassa medio-bassa in Europa medio-bassa in Europa media in Europa NODI CRITICI Flessibilizzazione territoriale dell’offerta universitaria Efficienza nel completamento del percorso di studi universitari decentramento forte e recente delle sedi media in Europa 70 SISTEMI FORMATIVI BIBLIOGRAFIA Centro Studi Orientamento (1998), A guide to Masters. Formazione e consulenza, Centro Studi Orientamento, Legnano (Mi). De Mauro T., De Renzo F. (1997), Le lauree brevi: edizione 1997, Bologna, Il Mulino. Fondazione Giovanni Agnelli (1997), Il filo di Arianna, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, CD ROM. Gentili C. et al. (1996), Minerva e Vulcano. I diplomi universitari e le imprese, Crui - Progetto Campus, Roma. Gentili C. et al. (1997), Minerva e Vulcano 2. I diplomi universitari e le imprese, Crui - Progetto Campus, Roma. Isfol (1996), L’avvio del diploma universitario. Successi e difficoltà di una nuova offerta formativa, Milano, Angeli. Isfol (1997), Rapporto Isfol 1997. Formazione e occupazione in Italia e in Europa, Milano, Angeli. Istat (1992), Indagine 1991 sugli sbocchi professionali dei laureati, Roma, Istat. Istat (1996), Inserimento professionale dei laureati. Indagine 1995, Roma, Istat. Istat (1996), Inserimento professionale dei laureati. Indagine 1995, Roma, Istat. Istat (1996), Statistiche della scuole secondarie superiori, Roma, Istat. Istat (1997), Statistiche dell’istruzione universitaria, Roma, Istat. Istat (1997), Statistiche della scuola materna ed elementare, Roma, Istat. Istat (1997), Statistiche della scuola media inferiore, Roma, Istat. Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica (1998), Osservatorio per la valutazione del sistema universitario, sito www.murst.it/osservatorio. Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica (1998), Guida all’Università, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato. Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica (1998), Il sistema universitario italiano. La popolazione studentesca a.a. 1997/1998, Roma, Sistema Statistico Nazionale. Oecd Ocde (1997), Uno sguardo sull’educazione. Gli indicatori internazionali dell’istruzione, Roma, Armando. Unione Europea (1996), Le cifre chiave dell’istruzione nell’Unione Europea, UE, Luxembourg. Commissione Europea (1997), Nouvelles universitaires européennes, Bruxelles. UR - Università Ricerca, bimestrale del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, Roma, annate dal 1990. 71 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO GianPaolo Vitali* SOMMARIO – IL PERCORSO – L’INPUT TECNOLOGICO – L’OUTPUT TECNOLOGICO – LE PICCOLE IMPRESE E LA DOMANDA-OFFERTA DI TECNOLOGIA NEL NORD ITALIA – IL TRASFERIMENTO TECNOLOGICO DAL NORD ITALIA – CONCLUSIONI – BIBLIOGRAFIA SOMMARIO Il livello tecnologico delle regioni settentrionali è nettamente più elevato di quello del resto dell’Italia, sia considerando le statistiche di input tecnologico (ammontare della spesa in R&S e addetti ad essa dedicati), che quelle di output tecnologico (brevetti depositati e numero di imprese che hanno introdotto innovazioni). Rispetto alle regioni industrializzate del centro Europa tale giudizio positivo si deve attenuare, in quanto si evidenzia un livello tecnologico nel complesso inferiore alle altre regioni europee di confronto (Rhone Alpes, Baden-Wurttemberg, Bayern, ecc.), pur essendoci alcune limitate aree di eccellenza. Tali differenze pongono l’Italia settentrionale in posizione mediana rispetto alle altre regioni di confronto, quelle europee nell’estremo superiore e quelle nazionali nell’estremo inferiore, e rappresentano gli effetti di modelli di crescita diversi. Infatti, le imprese del Nord Italia primeggiano a livello internazionale in settori definibili più o meno “tradizionali”, quali il tessile-abbigliamento, calzature, mobilio, macchinari. In tali settori le imprese settentrionali vincono la concorrenza internazionale utilizzando fattori competitivi di tipo non-price (al contrario di quanto accade nel Centro Sud d’Italia) – ma non di tipo tecnologico (al contrario di quanto accade nelle regioni avanzate europee) – derivanti principalmente da innovazioni organizzative e di marketing. In questo modo, il posizionamento competitivo delle imprese settentrionali permette loro di evitare sia la concorrenza di prezzo proveniente dal Centro Sud italiano e dai paesi in corso di industrializzazione, sia la concorrenza tecnologica proveniente dalle imprese high tech europee (che non sono così presenti, per l’appunto, nei settori “tradizionali”). Queste affermazioni tutto sommato positive non possono essere però estese alle possibilità future di mantenere l’attuale vantaggio competitivo nei confronti dei paesi in corso di industrializzazione e delle regioni del Centro Sud italiano. Per eliminare tali ombre sul futuro del sistema settentrionale sarebbe allora necessario modificare profondamente il modello di crescita attuale, incrementando la produzione e la diffusione sul territorio di innovazioni tecnologiche di tipo radicale. Il nuovo modello di crescita presuppone il parziale abbandono di quei settori “tradizionali” in cui sono possibili innovazioni solamente incrementali e non radicali. * Ceris-Cnr, Torino 73 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO IL PERCORSO I SISTEMI INNOVATIVI REGIONALI: UN PANORAMA DIFFERENZIATO Tra le regioni del Nord Italia e quelle del resto del paese si registrano elevate differenze non solamente per quanto riguarda le caratteristiche della struttura produttiva o quelle del reddito prodotto, ma anche in termini di potenziale tecnologico. I sistemi innovativi regionali mostrano infatti notevole diversità tra loro, in termini di quantità e di qualità degli input e degli output tecnologici; diversità che rappresentano modelli di crescita piuttosto variegati: le regioni che investono in R&S e che traggono frutti da tali investimenti hanno probabilmente un sistema industriale qualitativamente superiore a quello delle regioni che possiedono un basso potenziale tecnologico (Bramanti e Maggioni, 1997). Poiché è soprattutto grazie agli investimenti in innovazione che si gioca gran parte della possibilità di contrastare la concorrenza estera proveniente dai paesi industrializzati, risulta importante verificare il potenziale tecnologico delle regioni dell’Italia settentrionale, confrontandolo con quello delle regioni del Mezzogiorno e dei paesi europei. L’analisi di tali differenze, che a seconda della disponibilità di dati ufficiali è effettuata in termini quantitativi o solo qualitativi, verrà condotta con riguardo ai fattori di input tecnologici e a quelli di output tecnologici. Successivamente, si approfondiranno i principali fattori di successo tecnologico delle imprese settentrionali, il loro fabbisogno tecnologico, nonché l’offerta di servizi tecnologici disponibili. Il focus sui distretti, presente in questo capitolo, consente di esaminare le problematiche tecnologiche delle piccole e medie imprese, certi che la dimensione minore sia quella che più di ogni altra incontra difficoltà nel seguire i modelli vincenti di crescita tecnologica in auge in alcune regioni industrializzate europee1. Infine, poiché l’Italia settentrionale rappresenta una cerniera commerciale tra Nord e Sud, e tra Est ed Ovest, si cercherà di esaminare il processo di trasferimento di tecnologia tra le imprese del Nord Italia e quelle del Mezzogiorno e del Mediterraneo, nonché nei confronti dei paesi dell’Est europeo. Un capitolo conclusivo sintetizzerà i più importanti risultati della ricerca. 1 Con riferimento agli aspetti dimensionali, merita ricordare l’elevata concentrazione dimensionale delle spese in R&S: il 9% delle imprese italiane effettua il 90% delle spese in R&S totali. 74 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO L’INPUT TECNOLOGICO L’input tecnologico dell’Italia settentrionale è stato misurato tramite le statistiche relative alle spese in R&S effettuate dalle imprese e dalla Pubblica Amministrazione2, nonché con riferimento al numero di addetti dedicati all’attività innovativa. IL NORD-ITALIA E IL RESTO DEL PAESE Il ruolo della spesa in R&S effettuata dalla pubblica amministrazione è difficilmente valutabile a livello regionale, in quanto i dati Istat (1998) soffrono della distorsione introdotta dalla regione Lazio, sede contabile ed amministrativa dei principali Enti di ricerca nazionali (Cnr, Enea, ecc.). Il Lazio, infatti, nel 1994 assorbe da solo ben il 28% delle spesa in R&S pubblica, ammontare che in parte sarebbe da redistribuire alle singole regioni in funzione della presenza in esse degli istituti di ricerca appartenenti agli enti la cui “holding” amministrativa è localizzata a Roma. Per questo motivo non possiamo considerare pienamente attendibile il dato che mostra una R&S pubblica molto scarsa nelle regioni del Nord Italia, che al 1994 assorbono “solo” il 38% del totale nazionale (vedi tab. 1). Nell’area settentrionale, dopo la Lombardia, che assorbe il 12% della R&S pubblica italiana, si individua l’EmiliaRomagna con l’8%, il Veneto con il 5% ed il Piemonte con il 4%. Al contrario, il resto del paese fruisce del 62% della R&S pubblica, dato che al netto del contributo laziale si riduce però al 34%. Analizzando la distribuzione delle spese all’interno delle diverse componenti della R&S pubblica, si qualifica meglio la differenza esistente tra Nord, Lazio e resto del paese, e si trova conferma della distorsione statistica causata dal Lazio. I differenziali nella distribuzione della spesa non sono attribuibili al ruolo delle università, che pesano in modo simile tra Nord e Sud (42-45%), ma proprio agli Enti di ricerca, la cui spesa è concentrata nel Lazio per circa la metà del totale nazionale (contro il 29% del Nord ed il 20% del resto del paese). Al contrario, il peso degli istituti di ricerca (statali e non) che sono decentrati sul territorio riflette meglio l’importanza tecnologica dei singoli aggregati regionali: il Lazio assorbe “solo” il 29% della spesa totale, mentre l’Italia settentrionale ben il 52%. Le stesse affermazioni sono valide nel caso in cui la R&S pubblica sia valutata in numero di addetti e non in termini di spesa (vedi tab. 2). In termini di addetti dedicati alla R&S, l’Italia del Nord mostra al 1994 un peso leggermente superiore a quanto visto per la spesa (39%), peso che risulta pari a quello del resto dell’Italia al netto del contributo laziale. Quest’ultimo è sem- 2 Oltre agli aspetti quantitativi, tra le spese in R&S effettuate dalle imprese e quelle effettuate dall’operatore pubblico vi è soprattutto una elevata differenza qualitativa: le imprese investono soprattutto in ricerca applicata (che assorbe il 42% della R&S totale) e di sviluppo (il 56% della R&S totale), mentre la ricerca di base ha un ruolo residuale (2%); la pubblica amministrazione mostra maggiore interesse per la ricerca di base (il 43% del totale) e applicata (il 44% del totale), rispetto alla ricerca di sviluppo (13%). Le definizioni di tali tipologie di ricerca sono le seguenti (Istat, 1998): • ricerca di base: lavoro sperimentale o teorico finalizzato ad acquisire nuove conoscenze sui fondamenti dei fenomeni e dei fatti osservabili, ma non finalizzato ad una specifica applicazione o utilizzazione; • ricerca applicata: lavoro finalizzato ad una specifica applicazione o utilizzazione; • sviluppo: lavoro finalizzato a completare, sviluppare o migliorare materiali, prodotti e processi. 75 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO pre molto elevato (24%) ed attribuibile per la metà al ruolo degli enti di ricerca, il cui personale è concentrato per il 49% a Roma. NEL NORD PREVALE LA RICERCA PRIVATA Per quanto riguarda la componente della spesa in R&S proveniente dalle imprese, il ruolo dell’Italia del Nord rispecchia perfettamente il suo elevato potenziale industriale. Nella tabella 3 si nota come i tre quarti degli investimenti delle imprese in R&S avvengano nel Nord Italia, quota rilevante non solo per le imprese private, che destinano al Nord il 79% delle spese, ma anche per quanto riguarda le imprese pubbliche, che destinano al Nord il 71% delle loro spese. In generale, il livello delle spese private è comunque maggiore di quello delle imprese pubbliche. A fronte di una media nazionale che vede provenire il 65% della spesa dalle imprese private e solo il 35% dalle imprese pubbliche, al Nord il peso del privato è leggermente superiore (68%) mentre nel resto del Paese il peso del pubblico è sensibilmente maggiore della media (44%). Nei singoli ambiti regionali, si registrano solo due regioni del Nord in cui la spesa delle imprese pubbliche è più elevata di quella delle imprese private, Liguria e Valle d’Aosta, probabile frutto dell’intervento pubblico nella cantieristica/impiantistica e nella siderurgia. Tale rapporto a favore dell’impresa pubblica è invece più diffuso nel Sud d’Italia, specialmente in Sardegna, Sicilia e Calabria. Anche in questo caso il peso del Lazio è sovrastimato a causa della localizzazione a Roma di numerose holding di imprese pubbliche. Una conferma di tale situazione si ha nell’esame dei flussi interregionali delle spese di R&S: solo il 58% delle spese in R&S nel Lazio rimangono nell’ambito regionale, mentre una parte considerevole sono invece destinate ad imprese localizzate in altre regioni (42%, vedi tab. 17). Se l’importanza dell’attività in R&S delle imprese private e pubbliche viene registrata in base al numero di addetti impiegati nella funzione R&S si ottengono, più o meno, gli stessi risultati precedenti (vedi tab. 4). Nel complesso il Nord Italia assorbe il 76% degli addetti in R&S, percentuale che sale all’80% nel caso delle imprese private e scende al 67% nel caso di quelle pubbliche. Tale valore deve essere interpretato alla luce del notevole peso esercitato tout court dall’impresa privata, che rappresenta i tre quarti degli addetti in R&S dell’Italia settentrionale e solo il 62% nel resto del paese. LA QUALITÀ DELLA SPESA TECNOLOGICA Una diversa fonte statistica, quella relativa all’indagine Istat-Cnr, consente di evidenziare anche la diversa qualità della spesa tecnologica (tab. 5). Infatti, distinguendo tra spesa delle imprese effettuata per R&S/progettazione/sperimentazione” e quella effettuata per acquisto di macchinari innovativi/realizzazione di impianti innovativi si possono individuare due diversi modelli di crescita tecnologica portati avanti dalle regioni italiane. Mentre il peso del Nord Italia all’interno delle spese finalizzate alla R&S/progettazione/sperimentazione è molto elevato, raggiungendo quasi l’80% del totale nazionale, quello relativo all’acquisto/realizzazione di impianti innovativi è molto meno distante dal resto del paese (62% del Nord contro il 28% del Centro Sud). La differenza registrata potrebbe essere l’effetto di due diversi modelli di crescita tecnologica perseguiti dalle imprese italiane: mentre al Nord si privilegerebbe la crescita tecnologica per fonti interne, nel resto del paese si favorirebbe quella tramite l’acquisto di innovazione incorporata nei macchinari. 76 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO Come si vedrà successivamente, ciò potrebbe influenzare anche le tipologie di output tecnologico ottenuto: laddove vi è crescita interna si privilegerebbero le innovazioni di prodotto, mentre con l’acquisizione di macchinari innovativi si favorirebbe l’ottenimento di innovazioni di processo. IL RUOLO DELLE UNIVERSITÀ IL NORD-ITALIA E L’EUROPA UNO SCARSO PESO DELLA R&S SULLA RICCHEZZA PRODOTTA Un’ulteriore indicazione dell’input tecnologico presente nell’Italia settentrionale può essere desunta dal ruolo delle università, in termini di importanza della spesa scientifica da esse prodotta e delle vendite di beni e servizi da esse effettuate (tab. 6). Per quanto riguarda la spesa scientifica effettuata dalle università, a livello di macroaree non si riscontra alcuna differenza tra il comportamento in atto nelle università del Nord e quello delle università del Centro Sud: ovunque per la ricerca scientifica si spende solo il 2,6% del totale delle uscite universitarie. Il dato a livello regionale evidenzia tuttavia una notevole variabilità, passando dal 4,6% di Piemonte e Valle d’Aosta all’1,7% di Lombardia e Veneto. Si registrano forti differenze per quanto riguarda la produzione di economie esterne tecnologiche a favore delle imprese locali tramite la vendita di beni e servizi prodotti nelle università. Mentre al Nord tale vendita rappresenta il 3,9% del totale delle entrate, nel Centro Sud tale fenomeno ha un’importanza fortemente ridotta (solo 1,4%), indicando carenze nella domanda di innovazione (da parte delle imprese) e/o dell’offerta di innovazione (da parte delle università). Anche in questo caso il dato a livello regionale è piuttosto differenziato e vede prevalere la Lombardia (6,3%), grazie presumibilmente al forte intreccio tra il mercato ed un fitto insieme di università private. Come visto in precedenza, le spese in R&S effettuate dalle regioni settentrionali sono sensibilmente più elevate della media italiana. Per qualificare meglio tale importanza relativa si può estendere tale confronto tecnologico con le regioni industrializzate europee, aree in cui sono localizzate le imprese direttamente concorrenti di quelle settentrionali. Quest’ultimo aspetto fornisce a tale confronto una forte valenza strategica, in quanto evidenzierebbe parte delle strategie tecnologiche di medio-lungo periodo intraprese dalle imprese ed il livello delle economie esterne tecnologiche presenti sul territorio. Il primo elemento si manifesta nell’importanza delle spese in R&S effettuate dalle imprese e nel numero di addetti presenti nei loro laboratori di ricerca; il secondo elemento ha invece come riferimento le spese della R&S pubblica, e gli addetti ad essa dedicati. L’indagine condotta utilizza i dati statistici dell’Eurostat relativi al 1994, e consente di confrontare sia le singole regioni settentrionali con alcune regioni europee (quali Rhone-Alpes e Baden Wurttemberg), sia l’intero Nord Italia nel suo complesso con alcuni stati nazionali. Un primo esame può essere condotto con riferimento al livello delle spese in R&S. Poiché il dato assoluto non è facilmente confrontabile a causa della diversa dimensione delle regioni/nazioni, si è utilizzato il dato normalizzato con il Pil (vedi tab. 7). Tale indicatore di input tecnologico mostrerebbe il Nord Italia che primeggia tra le regioni italiane e tra gli stati mediterranei (Grecia e Spagna), ma che è fortemente distaccato dalle posizioni leader delle regioni e degli stati del centro Europa (Baden Wurttemberg, Rhone Alpes, Francia, Germania, Finlandia, Svezia, ecc.). I dati relativi alla spesa per la R&S indicano infatti come l’Italia settentrionale sia sicuramente arretrata rispetto ai suoi diretti concorrenti: a fronte di una spesa in R&S che nel 1994 77 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO rappresenta l’1.2% della ricchezza prodotta per l’Italia settentrionale, in Svezia tale rapporto ammonta al 3.2%, nel Baden-Wurttemberger al 2.9%, in Francia al 2.4%, in Germania e Finlandia al 2.3%, nelle Rhone Alpes al 2.2%. LA R&S PRIVATA: POSIZIONI DI ECCELLENZA EUROPEA PER LOMBARDIA E PIEMONTE Un secondo tipo di approfondimento può essere condotto confrontando le spese in R&S effettuate dalle imprese con quelle originate dall’operatore pubblico3. I dati della tavola 8 mostrano come all’interno del Nord Italia il peso della R&S condotta dalle imprese sia tra i più elevati in Europa, con Piemonte e Lombardia ai primi posti di tale classifica, seguiti da Baden Wurttemberg, Rhone Alpes, Svezia e dalla stessa aggregazione Nord Italia. Il confronto tra le diverse quote mostra che in Piemonte ben l’85% della R&S regionale proviene dall’impresa privata, nel Baden Wurttemberg tale percentuale è dell’81%, in Lombardia del 75%, nelle Rhone Alpes del 73%, in Svezia del 72%, nel Nord Italia del 70%. I primi posti di tale classifica possono essere confrontati con gli ultimi, per evidenziare il notevole divario esistente: ai paesi mediterranei Spagna (47%) e Grecia (26%) si affiancano nelle ultime posizioni anche le rimanenti regioni italiane, le aggregazioni Centro (33%) e Sud d’Italia (33%) nonché la media nazionale (52%). Inoltre, e questo è il dato più sorprendente, anche le rimanenti regioni del Nord Italia sono tra le ultime posizioni: il basso peso della R&S effettuata dalle imprese in Emilia-Romagna (46%) e nel Nord Est (48%) conferma la forte disomogeneità esistente all’interno del Nord Italia, fortemente polarizzato tra gli estremi positivi e negativi di tale classifica. Le stesse affermazioni sono valide se si considera il livello della spesa delle imprese private rispetto al Pil (tab. 9): il Piemonte (1.6% di rapporto tra R&S delle imprese private e Pil) è ancora tra le primissime posizioni europee, preceduto solamente Baden Wurttemberg (2.4%) e Svezia (2.3%). Dal confronto tra l’importanza della R&S tout court ed il peso della R&S prodotta dalle imprese rispetto al totale (o rispetto al Pil regionale) non emerge una stretta correlazione tra le due distribuzioni. Tuttavia, in tale confronto si nota facilmente come nella parte più bassa della classifica vi siano soprattutto Spagna, Grecia e le regioni italiane (ad eccezione del Nord Italia), indicando come in questo gruppo di aree i modesti input di R&S traggano origine da problemi di mancato sviluppo industriale e tecnologico, essendo diffusi tanto nella sfera pubblica quanto in quella privata. Al contrario, nelle aree in cui il rapporto tra R&S totale e Pil è basso ma si è in presenza di un elevato peso della R&S proveniente dalle imprese, i modesti input tecnologici sono soprattutto il frutto di limiti della spesa pubblica, essendo più che manifesta la volontà delle imprese di investire in ricerca. Le regioni che mostrano alti input tecnologici e alti pesi di spesa proveniente dalle imprese sono forse quelle che rappresentano meglio il modello di sistema innovativo a cui dovrebbero tendere le regioni italiane: Svezia, Baden Wurttemberg, Germania, Rhone Alpes e West Midlands. 3 Poiché le statistiche Eurostat distinguono le spese in R&S a seconda che esse siano state effettuate dalle imprese private, dalle imprese pubbliche/centri di ricerca e dalle università, si è provveduto a confrontare il peso delle spese sostenute dalle imprese private con quello che si riferisce all’ambito pubblico nel suo complesso (imprese pubbliche, centri di ricerca e università). 78 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO Un terzo tipo di esame riguarda gli addetti dedicati alla R&S, divisi anche qui tra addetti delle imprese private e addetti dell’operatore pubblico. Per quanto riguarda il livello dell’occupazione dedicata alla ricerca, espresso in termini normalizzati rispetto alla popolazione attiva, esso appare particolarmente basso in tutte le regioni italiane (vedi tab. 10). In negativo, emerge il dato relativo al Nord Est, a conferma della differenza esistente tra queste regioni e Lombardia e Piemonte. Il peso degli addetti che svolgono ricerca nelle imprese rispetto al totale degli addetti alla R&S pone le regioni leader dell’Italia settentrionale ai primi posti in Europa (tab. 11): il Piemonte (il 77% degli addetti R&S proviene dalla R&S d’impresa) è preceduto da Regno Unito (81%), Baden Wurttemberg (83%), West Midlands (84%), Bayern (87%), e precede Rhone Alpes (73%) e Lombardia (60%). L’OUTPUT TECNOLOGICO I risultati dello sforzo innovativo regionale, che si manifesta con gli investimenti in R&S e con le persone ad essa dedicate, possono essere esaminati con l’attività brevettuale avente origine nel territorio esaminato, nonché con riferimento al numero di imprese definibili “innovative“ in esso presenti. IL NORD-ITALIA E IL RESTO DEL PAESE Le performance tecnologiche delle singole regioni misurate nel numero di brevetti depositati dalle imprese in esse presenti confermano il ruolo egemone giocato dal Nord Italia (vedi tab. 12 e tab. 13). La relazione diretta esistente tra input e output tecnologico viene evidenziata nell’elevato peso delle regioni settentrionali per quanto riguarda i brevetti in esse prodotti, circa il 70% del totale nel 1995. I dati statistici consentono di distinguere tra le diverse tipologie di brevetto, rilevando una diversa presenza del Nord Italia a seconda della tipologia considerata. Distinguendo tra invenzioni, modelli d’utilità, modelli ornamentali e marchi d’impresa, nel 1995 il peso del Nord Italia (75%) è maggiore nella prima tipologia, proprio quella che probabilmente incorpora un maggior contenuto innovativo. Inoltre, se consideriamo la dinamica di tali statistiche tra il 1985 ed il 1995, possiamo osservare come il peso delle invenzioni prodotte nel Nord sia sostanzialmente costante e consolidato sui tre quarti del totale delle invenzioni italiane. Di contro, nei modelli di utilità e nei marchi di impresa le imprese settentrionali sono meno presenti, rispetto al resto del paese, passando dal 1985 al 1995. Tale distribuzione potrebbe essere l’indice di un diverso modello di sviluppo tecnologico perseguito dalle regioni italiane: mentre nel Centro e nel Sud d’Italia avrebbero una notevole importanza le innovazioni semplicemente “incrementali”, nel Nord le imprese riuscirebbero a produrre maggiori innovazioni “radicali”, cioè quelle che traggono origine da vere e proprie invenzioni. In generale, si nota una diversa dinamica delle varie tipologie di brevetti tra il 1985 e il 1995, con un forte aumento del peso dei marchi di impresa, frutto probabilmente della riorganizzazione in atto nelle funzioni commerciali e di marketing delle imprese che, dovendo puntare su fattori competitivi di tipo non-price, investono nella pubblicità e nel marchio aziendale. 79 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO IL NORD-ITALIA E L’EUROPA: UN OUTPUT TECNOLOGICO AL DI SOTTO DELLA MEDIA COMUNITARIA LE IMPRESE INNOVATIVE L’output tecnologico, misurato in termini di brevetti depositati4 dalle imprese, vede le regioni Settentrionali, come del resto tutte le regioni italiane, nei posti di più bassi della classifica dei valori assoluti e di quelli normalizzati con il numero di abitanti presenti. Per quanto riguarda il numero dei brevetti depositati, nel quinquennio 19901995 l’insieme delle regioni italiane mostra la stessa dinamica di incremento della media comunitaria (+2.3%), pur partendo da livelli molto inferiori alla media. Questi ultimi sono facilmente confrontabili tra loro se il numero di brevetti depositati in ogni area geografica viene normalizzato con il numero di abitanti ivi presenti. La tabella 14 indica come nel 1990 le regioni italiane possiedano un ammontare di brevetti depositati che raggiunge solo la metà della media europea (44 brevetti per abitante contro gli 89 della media UE). Tale caratteristica è tipica di tutte le regioni italiane, con la regione più attiva in questo campo, la Lombardia, che con 88 brevetti per abitante non supera nemmeno la media UE. Tale media è determinata da regioni leader che mostrano livelli altissimi di brevetti per abitanti, quali il Baden-Wurttemberg (327), il Bayern (248), la stessa media tedesca (174), a fronte di alcune aree a scarsissima intensità brevettuale, quali la Grecia (3 brevetti per abitante) e la Spagna (7). Purtroppo, la situazione al 1995 non risulta particolarmente migliorata per le regioni italiane, che mantengono le stesse posizioni precedenti. Anzi, in alcuni casi, come per il Lazio, l’arretramento è vistoso ed avvicina le regioni del Centro e del Sud Italia ai fanalini di coda della classifica rappresentati da Grecia e Spagna. Considerando la dinamica del fenomeno, espressa come variazione percentuale del numero di brevetti per abitante tra il 1990 ed il 1995, la variazione della media europea (2.2%) è simile a quella della media italiana (2.3%). Il dato europeo è la sintesi, da una parte, di regioni in forte regresso nel periodo 1990-1995, regresso che coinvolge regioni posizionate nel 1990 nella parte bassa della classifica (come il Lazio, con -24%) e nella parte alta (come il Bayern, con -23%); dall’altra, di regioni che aumentano sensibilmente il livello precedente, dinamica positiva che coinvolge, anche in questo caso, regioni più arretrate (come la Spagna, con +57%) e regioni più avanzate (come la Finlandia, con + 63%). La dinamica a livello italiano vede pochi casi di miglioramenti netti, come quelli avvenuti per l’Emilia Romagna (+48%), mentre tra le regioni in forte perdita, oltre al già citato Lazio, vi sono i capisaldi del Settentrione: il Piemonte (-18%) e la Lombardia (-9%). Il confronto tra imprese innovatrici e non innovatrici indica che mentre nel Nord Italia più di un terzo delle imprese risultano innovatrici, nel resto del paese solo un quarto delle imprese sono tali (tab.15). In aggiunta, all’interno della distribuzione delle imprese innovatrici emerge come il Nord Italia rappresenti ben i tre quarti delle imprese innovative italiane, mostrando un’egemonia che risulta in linea con la precedente distribuzione delle invenzioni e dei brevetti. All’interno del numero di imprese innovative è possibile distinguere in base al tipo di innovazione introdotta, a seconda che si tratti di innovazione di prodotto, di processo o di prodotto/processo (tab. 16). In questo ambito si 4 In realtà la statistica citata si riferisce alle richieste di brevetto, di cui i brevetti concessi rappresentano in media più del 95%. 80 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO conferma la diversa qualità del processo innovativo in corso: mentre nel Nord Italia le innovazioni di prodotto rappresentano il 23% del totale delle innovazioni prodotte, nel Centro Sud tale peso è solamente del 15%, essendo privilegiate le innovazioni di processo o di prodotto/processo. Del resto, l’82% delle innovazioni di prodotto sono state introdotte sul mercato da imprese settentrionali, fatto che può essere interpretato come il frutto di un diverso modello di crescita strategica dell’impresa: anziché puntare sul contenimento dei costi, ottenibili in primis con le innovazioni di processo, le imprese settentrionali sembrano puntare soprattutto sulla massimizzazione dei ricavi, ottenibile solo con un’adeguata e continua innovazione di prodotto. Poiché tale scelta è anche condizionata dalle strategie perseguite dai diretti competitori, è probabile che le imprese del Nord si confrontino soprattutto con competitori europei, nei cui confronti hanno maggior valore i fattori competitivi di tipo non-price, quali l’innovazione e la pubblicità, piuttosto che i fattori competitivi basati sul semplice contenimento dei costi produttivi. Questi ultimi sarebbero più importanti nei confronti dei competitori provenienti dai paesi in via di sviluppo. LE PICCOLE IMPRESE E LA DOMANDA-OFFERTA DI TECNOLOGIA NEL NORD ITALIA IL FABBISOGNO TECNOLOGICO DELLE PMI UNA DOMANDA PARCELLIZZATA … Il fabbisogno tecnologico delle imprese è in parte influenzato dalle caratteristiche della struttura e dell’organizzazione produttiva del sistema industriale dell’Italia settentrionale (Assolombarda, 1994). Infatti, le soluzioni tecnologiche che le imprese dell’Italia settentrionale richiedono a chi offre innovazione sono generalmente vincolate dal modello di sviluppo perseguito dal sistema industriale. In primo luogo, l’elevata presenza di piccole imprese riduce la possibilità di attivare progetti di R&S aventi quella massa critica indispensabile a superare le alte barriere all’entrata delle nuove tecnologie. In secondo luogo, la concorrenza proveniente dai paesi in via di sviluppo, che risulta vincente nei prodotti più standardizzati e di bassa qualità, spinge le imprese italiane a differenziare fortemente il proprio prodotto, tramite la pubblicità (come nei casi delle griffe dell’abbigliamento e, in misura più ridotta, delle scarpe), l’eccellenza qualitativa e l’innovazione tecnologica (con i nuovi materiali usati tanto nelle scarpe quanto nell’abbigliamento), il design. La differenziazione di prodotto favorisce la domanda di tecnologie non standardizzate, ma specifiche al tipo di differenziazione perseguito dall’impresa. In questo modo la domanda di innovazione è fortemente parcellizzata, a fronte di un’offerta che ricerca economie di scala in progetti di R&S piuttosto ampi e coinvolgenti un elevato numero di imprese. Un terzo elemento da considerare riguarda la qualità stessa dell’innovazione tecnologica utilizzata/introdotta in azienda: si tratta, per lo più, di innovazioni introdotte senza aver effettuato un processo formalizzato di R&S, ma che derivano dall’esperienza accumulata, o dalle conoscenze create in altri settori/imprese. Molto importante è l’appropriazione di informazioni che avviene in modo non codificato (spill-over), più che quella che avviene tramite i normali scambi di mercato (cessione di brevetti, licenze e know-how). 81 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO … E SENZA UN PROCESSO FORMALIZZATO DI R&S PREVALE L’INNOVAZIONE INCREMENTALE Un dato che si riferisce alla Lombardia (Provincia di Milano, 1997) ma che è facilmente estensibile a tutto il Nord Italia, riguarda le fonti dell’innovazione: nel 47% dei casi la fonte dell’innovazione risiede nell’imprenditore, nel 32% dalle richieste dei clienti, nel 22% dalla concorrenza e solo nel 17% dalla ricerca formalizzata. Un quinto fattore è individuabile nella natura del “sapere” utile per le piccole imprese, che è molto pratico e specifico, e quindi valorizzabile solo in un ambito economico molto ristretto. Ciò riduce le possibilità di avere rapporti con gli enti pubblici di ricerca e le università, dotati di personale avente un’elevata preparazione generica ma non specifica sul micro-problema che la piccola impresa deve risolvere. Infine, poiché il piccolo imprenditore è talvolta convinto che il successo aziendale non dipenda dall’eccellenza tecnologica, quanto piuttosto dalla flessibilità, dalla qualità della lavorazione e dal prezzo di vendita, si nota talora una ritrosia culturale ad investire tempo e risorse nella variabile tecnologica. Gli elementi citati concorrono a determinare un fabbisogno tecnologico delle piccole imprese settentrionali indirizzato al raggiungimento di innovazioni incrementali, e non teso a perseguire innovazioni di tipo radicale. Si tratta di una scelta strategica a livello di sistema industriale, in quanto si favorirebbe l’evoluzione dell’attuale modello produttivo verso miglioramenti qualitativi e di efficienza, sfruttando le conoscenze accumulate nel corso del tempo nel campo specifico in cui è presente l’impresa. In questo modo si riuscirebbe ad allontanare i competitori provenienti dai paesi in via di sviluppo senza dover abbandonare il settore di tradizionale presenza dell’impresa. A fronte di tale domanda di innovazione, l’offerta innovativa è fortemente variegata. Oltre alle università e agli Enti pubblici di ricerca, nei cui confronti le piccole imprese hanno rapporti praticamente inesistenti, essendo limitati al più a consulenze ai singoli ricercatori o docenti, vi è l’offerta proveniente dagli operatori privati (consulenti e centri di ricerca) e quella che trae origine dai centri di servizio, attori molto vicini alle problematiche delle imprese in quanto nati su iniziativa degli enti pubblici e delle associazioni di categoria locali. I CENTRI DI SERVIZIO PER L’INNOVAZIONE TECNOLOGICA NEL NORD ITALIA Nell’Italia settentrionale si contano ormai numerosi centri servizio che rappresentano un’importante fonte di offerta di tecnologia. Tali centri sono localizzati soprattutto nei distretti industriali, anche se rappresentano un punto di riferimento per tutte le tipologie di imprese (distrettuali e non). Un’indagine del Ceris-Cnr (1997) ha evidenziato la rilevanza di questo strumento di creazione e diffusione dell’innovazione, e le sue principali caratteristiche. I principali aspetti positivi di tali centri sono individuabili nella loro specializzazione settoriale: buona parte dell’attività del centro è infatti focalizzata sulla tecnologia più importante dell’area distrettuale in cui il centro è inserito, delegando ad altri enti la diffusione di tecnologie generiche e trasversali a tutti i settori industriali. 82 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO UN’OFFERTA SPECIALIZZATA, MA UNA DOMANDA ANCORA PIÙ SPECIFICA UNA FORTE RICHIESTA DI SERVIZI PER LA QUALITÀ L’INNOVAZIONE TECNOLOGICA NEI DISTRETTI INDUSTRIALI Purtroppo, nonostante tale specializzazione, la ricerca del Ceris-Cnr ha comunque rilevato una diffusa discrasia tra l’offerta di tecnologia proveniente dai centri servizio e la domanda di innovazione proveniente dalle imprese. Mentre l’offerta, pur essendo focalizzata sulla specializzazione del distretto, riguarda una tecnologia piuttosto “ampia” ed in grado di coinvolgere, più o meno intensamente, un elevato numero di imprese locali, la domanda proveniente dalla singola impresa riguarda una tecnologia molto specifica, talmente specifica che generalmente interessa solamente l’impresa proponente e non le sue concorrenti distrettuali, e come tale non può essere svolta a livello di Centro-servizi. I servizi tecnologici offerti dai centri servizio possono essenzialmente essere suddivisi fra le azioni che mirano alla creazione di innovazione e le attività dirette alla diffusione dell’informazione tecnologica. A queste due categorie vanno poi aggiunti i servizi che si ricollegano in senso lato alla politica della qualità: la consulenza e certificazione e i laboratori di prove e test. A seconda del servizio reso, i centri si trovano di fronte ad una domanda potenziale fortemente differente: mentre i servizi per la qualità mostrano una forte richiesta da parte delle imprese settentrionali, quelli più strettamente tecnologici hanno ancora una domanda molto ridotta, talmente ridotta da non consentire ai centri servizio una eventuale autosufficienza economica. È infatti per questo motivo che l’offerta di servizi del centro è molto ampia, e diretta anche verso quei servizi standard e tradizionali che sono di naturale appannaggio degli operatori privati: per raggiungere l’autosufficienza economica il centro servizio deve compensare, tramite l’offerta standard, gli scarsi introiti che avrebbe se offrisse esclusivamente servizi puramente tecnologici. Sempre per questi motivi i progetti tecnologici di ampio respiro trovano generalmente le risorse finanziarie nei finanziamenti pubblici (comunitari, statali, regionali, delle Camere di commercio) o in quelli di altri soggetti collettivi (Associazioni di categoria, Unioni industriali) in grado di apprezzare la natura di bene pubblico dei risultati della ricerca. I fattori che consentono alle piccole imprese dell’Italia settentrionale di essere competitive a livello internazionale sono solo in parte di tipo tecnologico, nell’accezione più pura del termine. Infatti, solo in minima parte le nostre piccole imprese riescono ad essere competitive grazie alle innovazioni tecnologiche introdotte in termini di nuovi materiali utilizzati, nuovi prodotti inventati, nuovi processi introdotti. Se poi consideriamo la scarsa diffusione in tali imprese dei laboratori di R&S ci rendiamo immediatamente conto come la realtà vincente nei distretti industriali non sia di tipo tecnologico, nel senso che non deriva dalle spese in R&S fatte all’interno dell’impresa, o dalla tecnologia acquisita dai laboratori pubblici di R&S o dalle università. Infatti, da numerose indagini (Belussi, 1992; Lanzara e Ferrucci, 1993 e 1997; Garofoli, 1995) svolte sui fattori che rendono competitive le imprese distrettuali emerge come l’innovazione più importante per tali imprese sia quella di tipo organizzativo: il modo di produrre, che si materializza nell’insieme delle relazioni tra le imprese, è diventato un importante elemento per determinare la vittoria internazionale di tale tipo di imprese. Tuttavia, se si considera in un maggiore dettaglio l’aspetto organizzativo, emerge come parte di tali innovazioni organizzative abbiano comunque un certo contenuto tecnologico intrinseco: 83 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO UNA FORTE CAPACITÀ • DI “INNOVAZIONI ORGANIZZATIVE” PER ADATTARE ALLE PROPRIE ESIGENZE TECNOLOGIE ESOGENE • • • • nell’uso di nuovi materiali che si affiancano, ma non si sostituiscono, a quelli tradizionali, come: nel mobilio, con l’introduzione di componenti in plastica e vetro; nel tessile, con la creazione di nuove “fibre” che associano la lana con “microfibre” sintetiche; nell’abbigliamento, dove il ruolo dei “complementi” è aumentato di importanza nel definire il contenuto di moda dell’intero capo; nelle calzature, in cui al tradizionale cuoio si sta affiancando l’uso di materie prime alternative, come la plastica, o tecnologiche, come i tessuti “gore”; nell’enfasi posta su alcune fasi di lavorazione, che utilizzano processi tecnologici innovativi semplicemente per ricreare le vecchie metodologie di lavorazione “tradizionale”: si pensi alla fase di finissaggio dei tessuti, in cui si sono recentemente depositati numerosi brevetti relativi a nuovi processi chimici e meccanici di finissaggio; nell’importanza della logistica, che rappresenta la necessaria minimizzazione dei costi per continuare a produrre con un modello basato su forti relazioni tra imprese, non solo di tipo verticale lungo la filiera, ma anche orizzontale all’interno delle stesse fasi di lavorazione: è il caso dell’uso comune e diffuso dell’informatica, per trasferire le informazioni all’interno del distretto nelle varie fasi del ciclo produttivo ormai esternalizzate dall’impresa assemblatrice finale; nell’importanza dei nuovi macchinari di progettazione, quali sono i computer che utilizzano il Cad: per esempio, tanto le componenti meccaniche che devono essere assemblate da altri produttori, quanto i tessuti più richiesti dal consumatore sono progettabili in breve tempo solo con l’uso del Cad. Inoltre, l’uso del Cad consente anche una maggiore efficienza nell’uso delle materie e dei processi produttivi; nell’importanza dei macchinari di produzione, che devono avere una elevata efficienza per ottimizzare il processo di decentramento produttivo per fasi di lavorazione, ma anche una elevata qualità di lavorazione, per rispettare il posizionamento di mercato dell’impresa. Ciò significa che buona parte delle innovazioni organizzative introdotte dalle imprese distrettuali nei settori e nei processi produttivi tradizionali non sarebbero state possibili senza una pari evoluzione tecnologica. Tuttavia, è possibile che tale evoluzione tecnologica sia avvenuta al di fuori del contesto in cui viene utilizzata: in settori apparentemente “lontani” da quelli tipici dei distretti, in imprese non-distrettuali, in altre aree nazionali o addirittura estere. In sostanza, poiché i distretti usano, magari modificando in base alle proprie esigenze, la tecnologia prodotta altrove emerge nettamente come un rilevante strumento di miglioramento del sistema produttivo settentrionale sia soprattutto quello relativo alla diffusione dell’innovazione tecnologica, piuttosto che la sua creazione tout court. In questo contesto, assumono maggiore incisività le affermazioni precedenti relative al ruolo dei centri servizio per l’innovazione tecnologica. Inoltre, emerge a questo riguardo tutta la problematica relativa alla solidità prospettica del sistema settentrionale, che perpetua un modello di crescita basato su settori tradizionali anziché su settori high tech. Il dibattito nella letteratura economica, da una parte, critica l’attuale configurazione produttiva dei distretti dell’Italia settentrionale basata su industrie aventi bassi tassi di crescita internazionale e alta concorrenza proveniente dai paesi in corso di industrializzazione, auspicando un’evoluzione verso indu- 84 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO strie high tech; dall’altra, ricorda come l’attuale configurazione consenta a molte imprese di avere un indubbio e stabile successo a livello internazionale, e che l’evoluzione verso i comparti a maggiore contenuto tecnologico non sarebbe, di per sé, garanzia di pari successo (vedi la crisi produttiva dell’Olivetti e del distretto tecnologico del Canavese). I VANTAGGI COMPETITIVI DEI DISTRETTI INDUSTRIALI A fronte di tali visioni opposte, si sta aprendo la strada un’interpretazione intermedia: le imprese distrettuali dovrebbero essere considerate imprese innovative che operano all’interno di settori ritenuti tradizionali. Ciò implicherebbe che anche nei settori tradizionali, il vantaggio competitivo conseguito dalle imprese settentrionali è in larga parte attribuibile all’introduzione di innovazioni di processo e di prodotto poste a complemento dei cicli produttivi tradizionali. Un dato comune a tutti i settori tradizionali in cui le imprese dei distretti settentrionali primeggiano è la capacità diffusa di adattare la tecnologia alle richieste del cliente. Inoltre, tale adattamento avviene con una elevata velocità di risposta. I PUNTI DI FORZA … Alcune evidenze empiriche ci informano come nell’attuale modello di sviluppo emergano anche alcuni paradigmi di competitività abbastanza unici (Irer, 1995a; Rolfo e Vitali, 1997; Regione Lombardia, 1997). In primo luogo, l’adattamento della tecnologia di base, anche importata, in modo difficilmente imitabile da terzi. Tale adattamento potrebbe essere addirittura considerato come un processo generatore di nuova innovazione, non originale ma derivata. In secondo luogo, la capacità di utilizzare la tecnologia in modo integrato con le altre leve competitive, quali campagne di marketing aggressive, la reputazione del marchio o dell’impresa, la qualità di processo, il design. Infine, la capacità di adattare il ruolo della tecnologia al mutare delle condizioni competitive. … E I LIMITI DEL A fronte di tali aspetti positivi, i limiti del modello settentrionale verrebbero individuati nella mancanza di posizioni di vera avanguardia nelle innovazioni radicali, dal rischio di spiazzamento in presenza di forti innovazioni tecnologiche, dalla scarsa dimestichezza all’impiego di capitale di rischio finalizzato all’innovazione tecnologica (Unione Industriale di Torino, 1993). Purtroppo, è ormai un dato acquisito di come l’industria italiana abbia ormai perso il treno della specializzazione nei settori high tech, quali le biotecnologie, la chimica fine, il farmaceutico, i personal computer, gli apparati di telecomunicazione, il software, la micromeccanica. Tuttavia ciò non deve significare necessariamente l’impossibilità di recuperare posizioni in tale direzione o quella di subire la concorrenza dei mercati internazionali, né che non si possano seguire strade di concentrazione degli investimenti in settori ancora emergenti (“in fieri“). In primo luogo, emergono anche nel territorio del Nord Italia alcune industrie high tech saldamente presidiate dalle imprese locali: una per tutte è la meccatronica, in cui sono leader alcune medie imprese lombarde e piemontesi. In secondo luogo, l’unico aspetto sicuramente negativo è che la struttura industriale del Nord Italia non è posizionata nei comparti dell’economia a forte crescita, e quindi che essa può aumentare le quote di mercato solo a scapito delle attività dei concorrenti. MODELLO SETTENTRIONALE D’INNOVAZIONE 85 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO Infine, il sistema industriale settentrionale sembra particolarmente presente nelle tecnologie di punta più facilmente inseribili, in modo diretto, nelle attuali configurazioni produttive. Molte indagini hanno ormai confermato come, nei settori high tech in cui l’industria settentrionale è presente, la tecnologia sia generalmente di processo o acquistabile sul mercato. Il fatto che poi essa riguardi soprattutto i nuovi materiali (con i quali costruire “vecchi” prodotti) o l’information technology (con la quale migliorare i processi esistenti) conferma tale processo di adattamento delle tecnologie sviluppate altrove. IL TRASFERIMENTO TECNOLOGICO DAL NORD ITALIA IL TRASFERIMENTO TECNOLOGICO VERSO IL MEZZOGIORNO … … E VERSO IL MEDITERRANEO E L’EST EUROPEO Una fonte statistica che indica le principali caratteristiche di questo fenomeno è la rilevazione Istat dei flussi di spese in R&S a seconda della regioni di provenienza (cioè di residenza dell’impresa che effettua la spesa in R&S) e di destinazione della spesa (cioè dove la spesa viene effettivamente effettuata). A livello generale, il rapporto tra spesa originata dal Nord Italia e spesa destinata al di fuori di esso è superiore al 10%. Infatti, la tabella 17 mostra come circa l’11% della spesa di R&S effettuata dalle imprese residenti nell’Italia settentrionale sia in realtà destinato ad attività di ricerca localizzata al di fuori di essa. Più in particolare, si individuano alcune regioni che mostrano una forte apertura verso il Centro Sud: la Liguria, che destina al proprio interno solo un quarto delle spese totali di R&S effettuate dalle imprese in essa residenti, mentre un altro quarto viene destinato alle altre regioni settentrionali e ben la metà del totale di R&S fluisce verso il Centro Sud (con particolare riferimento alla Puglia, che raccoglie il 39% delle spese liguri); il Piemonte, che destina al proprio interno solo il 71% delle spese totali di R&S effettuate dalle imprese in esso residenti, mentre l’11% viene destinato alle altre regioni settentrionali ed il 18% del totale di R&S fluisce verso il Centro Sud (con particolare riferimento alla Campania, che raccoglie il 9% delle spese piemontesi); la Lombardia, che con meno intensità rispetto a Liguria e Piemonte destina solo l’8% delle proprie spese al Centro Sud, mentre l’80% rimane all’interno della regione ed il 12% all’interno del Nord Italia. Di contro, le rimanenti regioni settentrionali sono particolarmente chiuse su se stesse, come il Trentino che concentra in sé il 91% delle spese, o chiuse all’interno del Nord Italia, come il Veneto che dedica al Settentrione il 13% delle spese (e solo l’1% al Centro Sud). Valutare l’intensità del trasferimento tecnologico verso i paesi in via di sviluppo, quali l’area del Mediterraneo e quella dell’Est europeo risulta quantomai difficile in assenza di statistiche ufficiali sull’argomento. Per questa ragione è possibile fornire alcune indicazioni sull’argomento solo esaminando l’evoluzione di altre variabili strettamente legate a quella tecnologica, quale potrebbero essere gli investimenti diretti esteri. È infatti probabile che dietro il processo di delocalizzazione dell’attività produttiva a maggiore contenuto di lavoro non qualificato verso i paesi mediterranei e quelli dell’Est europeo ci possa essere anche un forte trasferimento tecnologico relativo al know-how necessario a mantenere adeguatamente elevati i livelli qualitativi della produzione trasferita. 86 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO ALLA RICERCA DI MINORI COSTI DEI FATTORI PRODUTTIVI NELL’AREA MEDITERRANEA STRATEGIE PIÙ ARTICOLATE NEI CONFRONTI DELL’EST EUROPEO Per quanto riguarda i paesi del Mediterraneo, molte grandi imprese settentrionali hanno da tempo attivato impianti produttivi che si aggiungono, talvolta si sostituiscono, a quelli nazionali: si tratta soprattutto delle produzioni di tessile-abbigliamento e calzature, che vengono dirottate verso l’Egitto, la Tunisia ed il Marocco. Negli altri settori industriali l’attività internazionale delle imprese settentrionali è più ridotta, sempre per quanto concerne i paesi mediterranei. La finalità di questi investimenti produttivi è soprattutto di tipo resourceseeking, cioè l’impresa settentrionale è indotta ad investire in tali paesi mediterranei per sfruttare i minori costi dei fattori produttivi, lavoro in primis. In questo contesto, la totalità della produzione delocalizzata generalmente rientra sul mercato italiano ed europeo, in quanto risulta competitiva con quella proveniente dai paesi in corso di industrializzazione. Per quanto riguarda invece i paesi dell’Est europeo la finalità degli investimenti effettuati dalle imprese settentrionali è più ampia, in quanto alla ricerca di minori costi produttivi si associa anche quella di nuovi sbocchi di mercato. Per questo motivo, la produzione effettuata in tali paesi solo in parte viene importata in Italia o in Europa, essendo anche destinata a soddisfare la domanda locale. Merita a questo proposito citare l’investimento effettuato in Polonia dalla Fiat, sia perché la produzione di tale investimento è destinata in parte al mercato polacco, in parte a quello italiano ed europeo; sia perché dietro a tale investimento produttivo vi è comunque un rilevante trasferimento tecnologico a favore dei fornitori locali dell’impianto di assemblaggio finale (Balcet e Enrietti, 1998). Parte di tali fornitori locali sono a loro volta il frutto di jointventure tra imprese locali ed imprese provenienti dal distretto tecnologico torinese, che anche in questo caso hanno attivato significativi trasferimenti tecnologici. In generale, le imprese coinvolte nel trasferimento produttivo e tecnologico verso i paesi dell’Est europeo provengono da settori numerosi e molto differenti tra loro, rispetto a quanto visto con riguardo ai paesi mediterranei, sia perché le finalità dell’investimento sono più ampie, sia perché i fattori produttivi a costo ridotto sono più numerosi. Tra questi ultimi, oltre al lavoro, si elencano anche i minori costi ambientali ed energetici. Una ricerca condotta dal Ceris-Cnr ha sottolineato gli stretti legami esistenti tra la delocalizzazione produttiva verso i paesi dell’Est europeo attuata tramite joint-venture ed il trasferimento tecnologico intrinseco a tale processo di crescita internazionale (Vitali, 1996). Elaborando i dati di fonte Ceris-Cnr possiamo stabilire anche il ruolo delle imprese settentrionali all’interno del più vasto processo di trasferimento che interessa l’intero sistema industriale italiano: dei 233 casi di trasferimento tecnologico/produttivo effettuati dalle imprese italiane verso i paesi dell’Est europeo ed attivi nel 1995, ben 180 (il 77%) provenivano da imprese settentrionali. 87 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO CONCLUSIONI I dati relativi allo sforzo innovativo dell’italia del Nord in termini di input e output tecnologici ci consentono di formulare il seguente giudizio: PRIMI IN ITALIA … MA IN RITARDO IN EUROPA • l’ammontare della spesa in R&S, gli addetti ad essa dedicati, i brevetti ottenuti da tali investimenti, il numero delle imprese che hanno introdotto innovazioni mostrano una situazione particolarmente positiva delle regioni settentrionali rispetto al resto dell’Italia. • rispetto alle regioni industrializzate del centro Europa tale giudizio positivo si deve attenuare, in quanto si evidenzia un livello tecnologico nettamente inferiore alle altre regioni europee di confronto (Rhone Alpes, BadenWurttemberg, Bayern, ecc.). Per quanto riguarda le caratteristiche del fabbisogno tecnologico espresso dalle imprese settentrionali, dell’offerta di tecnologia e dei fattori innovativi utilizzati dalle imprese del Nord Italia per vincere la competizione internazionale, si nota una profonda differenza tra le diverse regioni, industrie e dimensioni aziendali. Per quanto riguarda le dimensioni aziendali, mentre le grandi imprese esprimono un chiaro fabbisogno tecnologico che sono in grado di soddisfare utilizzando l’offerta di tecnologia presente sul territorio locale, nazionale o internazionale, le piccole imprese hanno una strategia di crescita tecnologica piuttosto carente. In generale, esse non manifestano un elevato interesse per l’innovazione tecnologica, soprattutto se di tipo radicale, quanto invece una domanda per tecnologie incorporate nei macchinari o per innovazioni di tipo meramente organizzativo. LE DIFFICOLTÀ DELL’HIGH TECH E LA LEADERSHIP TECNOLOGICA NEI SETTORI TRADIZIONALI Per quanto riguarda i settori industriali, mentre i settori high tech soffrono ormai di uno strutturale ritardo tecnologico con i leader europei, nei settori “tradizionali” del tessile-abbigliamento-calzature, dell’occhialeria, del mobilio si registra una chiara leadership “tecnologica” internazionale da parte delle imprese settentrionali5. Ciò è valido soprattutto nel caso delle imprese di grandi dimensioni, in quanto per le piccole imprese la distinzione tra settori high tech e settori tradizionali è meno netta: le piccole e medie imprese posizionate nei settori high tech, quali quello dei macchinari, mostrano una certa vivacità innovativa (vedi il distretto biomedicale di Mirandola, o le aree di concentrazione dei piccoli produttori di macchinari), mentre quelle posizionate nei settori “tradizionali” hanno maggiori difficoltà a creare/utilizzare innovazioni non provenienti semplicemente dai fornitori di macchinari. Probabilmente, se si usassero indicatori di tipo indiretto o qualitativo di performance tecnologica, che consentissero di evidenziare anche il peso delle innovazioni non brevettate, delle spese di R&S non esplicite, ecc. forse il livello tecnologico delle regioni settentrionali sarebbe più vicino a quelle dell’Europa industrializzata. In tal modo si rileverebbe l’importanza delle innovazioni tecnologiche di tipo incrementale e quella delle innovazioni di tipo non tecnologico, ma organizzativo, che hanno un ruolo primario nel determinare il successo internazionale delle piccole imprese settentrionali. 5 È interessante notare come tale leadership internazionale si manifesti anche nelle modalità con le quali le imprese effettuano accordi tecnologici: nel settore del “made in Italy” gli accordi tecnologici sono soprattutto di cessione della tecnologia italiana verso gli altri paesi industrializzati, e non viceversa, come capita in altri settori dell’industria manifatturiera. (Vitali, 1998). 88 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO UN RIDOTTO TRASFERIMENTO TECNOLOGICO AL SUD ITALIA … E STRATEGIE PIÙ ARTICOLATE VERSO L’EST EUROPEO Infine, il terzo filone di analisi della scheda, e cioè il ruolo di “mediatore tecnologico” che l’Italia settentrionale possiede nel trasferire la tecnologia e l’innovazione verso il Mezzogiorno italiano e i paesi del Mediterraneo o dell’Europa Centro-Orientale, ha utilizzato le matrici regionali di input/output tecnologico per evidenziare come ci sia un ridotto trasferimento tecnologico dal Nord al Sud, processo esclusivo delle grandi imprese multilocalizzate che hanno i centri di ricerca al Nord e alcuni stabilimenti produttivi al Sud. Nei confronti dell’Est europeo e dei paesi del Mediterraneo, le indagini svolte sulle joint venture delle imprese italiane in tali paesi mostrano una buona presenza delle imprese del Nord: nel Mediterraneo sono presenti soprattutto le imprese del tessile abbigliamento e delle calzature; nell’Est europeo la presenza investe tutti i settori economici. Sicuramente, alcune singole realtà regionali sono più coinvolte in tale processo di trasferimento tecnologico: per esempio, in Friuli si evidenziano notevoli flussi di trasferimento tecnologico, legato alla delocalizzazione di impianti produttivi, verso la Slovenia e la Croazia; il Puglia è rilevante la delocalizzazione con la vicina Albania. In sintesi, il giudizio che emerge dall’analisi condotta sul livello tecnologico dell’Italia settentrionale è positivo, anche se presenta molte ombre circa la possibilità di perpetuare a lungo il modello di crescita attuale. Sembra infatti emergere la necessità di accelerare l’attuale processo di acquisizione delle nuove tecnologie da parte delle imprese settentrionali6. In particolare, si evidenzia un duplice terreno di possibile intervento: all’interno dell’attuale modello competitivo, basato sull’introduzione di innovazioni nei settori “tradizionali”, si dovrebbe perseguire la diffusione dell’innovazione tecnologica prodotta a livello nazionale o internazionale; all’interno di un nuovo modello di crescita, basato sulla nascita di imprese nei settori ad alta tecnologia, si dovrebbe perseguire non solo la semplice diffusione dell’innovazione ma anche la sua creazione in centri di eccellenza tecnologica nazionali, centri che rappresenterebbero i nuovi motori di sviluppo dell’industria high tech nell’Italia settentrionale. 6 Bisogna ricordare come in realtà lo sforzo tecnologico dell’intera nazione, misurato in termini di spese in R&S rispetto al Pil, si sia ridotto sensibilmente negli ultimi anni (Istat, 1998). 89 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO Tab. 1 – Spesa intra-muros della P.A. per regione al 1994 (% e milioni di lire) Tot. milioni Enti di Università Stato ed Totale Ricerca altri enti % di lire Piemonte 4,4 5,5 1,7 4,8 366934 Valle d’Aosta 0,0 0,0 0,1 0,0 670 Lombardia 7,0 12,4 34,8 12,2 1003852 Trentino-Alto Adige 0,6 0,9 3,9 1,0 68559 Veneto 4,0 6,7 0,6 5,2 436652 Friuli-Venezia Giulia 1,7 3,3 1,3 2,6 186698 Liguria 4,5 3,7 3,5 4,0 313251 Emilia-Romagna 7,0 9,8 5,9 8,5 719647 Nord Italia 29,3 42,4 51,8 38,3 3096263 Lazio 50,6 12,7 28,7 28,1 2345591 Centro Sud senza Lazio 20,1 44,9 19,4 33,6 2720787 Italia 100 100 100 100 8162641 Fonte: Istat, 1998 Tab. 2 – Personale della P.A. per regione al 1994 (% e numero di persone) Enti di ricer- Università Stato ed Totale ca altri enti % Piemonte 4,5 4,8 1,7 4,4 Valle d’Aosta 0,0 0,0 0,1 0,0 Lombardia 6,5 11,0 46,9 14,1 Trentino-Alto Adige 0,7 0,8 1,5 0,8 Veneto 3,9 5,7 2,0 4,8 Friuli-Venezia Giulia 1,3 2,5 2,3 2,2 Liguria 4,6 3,2 6,6 3,9 Emilia-Romagna 7,4 9,1 7,5 8,5 Nord Italia 28,9 37,0 68,6 38,8 Lazio 49,0 15,5 15,6 23,6 Centro Sud senza Lazio 22,1 47,4 15,9 37,6 Totale Italia 100 100 100 100 Fonte: Istat, 1998 Totale nr. persone 4966 10 16011 960 5479 2450 4454 9666 43996 26780 42671 113447 Tab. 3 – Spese in R&S delle imprese intra-muros per regione al 1994 (% e milioni di lire) Pubbliche Private Totale Totale % milioni di lire Piemonte 17,8 27,8 24,4 2280249 Valle d’Aosta 4,7 0,1 1,7 157104 Lombardia 35,8 31,8 33,2 3107108 Trentino-Alto Adige 0,0 0,8 0,5 47518 Veneto 1,8 5,5 4,2 391649 Friuli-Venezia Giulia 3,3 2,1 2,5 232059 Liguria 6,1 1,5 3,1 289517 Emilia-Romagna 1,1 9,1 6,3 593180 Nord Italia 70,7 78,6 75,8 7098384 Lazio 12,2 10,0 10,7 1005859 Centro Sud senza Lazio 17,1 11,5 13,4 1255653 Totale Italia 100 100 100 9359896 Fonte: Istat, 1998 90 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO Tab. 4 – Personale delle imprese addetto alla R&S per regione al 1994 (% e numero di persone) Imprese Imprese PubbliTotale% Totale numero Private che di persone Piemonte 27,1 15,2 23,5 16573 Valle d’Aosta 0,1 0,0 0,1 38 Lombardia 32,7 36,1 33,7 23707 Trentino-Alto Adige 0,8 0,0 0,6 390 Veneto 5,9 2,4 4,8 3407 Friuli-Venezia Giulia 1,7 4,3 2,5 1734 Liguria 1,9 7,3 3,5 2441 Emilia-Romagna 10,4 1,3 7,7 5420 Nord Italia 80,4 66,6 76,3 53710 Lazio 7,1 15,6 9,6 6764 Centro Sud senza Lazio 12,5 17,8 14,1 9928 Totale Italia 100 100 100 70402 Fonte: Istat, 1998 Tab. 5 – Ripartizione regionale delle spese sostenute per l’innovazione (1995) R&S, progettaz. Investimenti Totale Totale e marketing innovativi % milioni di lire Piemonte-Valle d’Aosta 24,0 20,2 22,2 4802233 Lombardia 36,1 20,5 28,7 6212527 Trentino-A.Adige 0,7 1,5 1,1 230949 Veneto 4,6 10,6 7,4 1604611 Friuli-V. Giulia 1,9 1,6 1,8 380361 Liguria 2,4 0,9 1,7 361282 Emilia-Romagna 9,3 6,8 8,1 1759462 Nord Italia 79,0 62,0 71,0 15351425 Centro Sud 21,0 38,0 29,0 6263032 Totale Italia 100 100 100 21614457 Fonte: Istat, 1998 Tab. 6 – Il ruolo dell’Università (1995) Spese per Totale spe- % ricerca / Vendita Totale en- Servizio/tot ricerca se totale spese beni e sertrate entrate scientifica vizi Piemonte-V.Aosta 25925 559481 4,6 22482 633766 3,5 Lombardia 28402 1660831 1,7 113461 1802045 6,3 Trentino-A.Adige 573 92334 0,6 3937 94216 4,2 Veneto 12565 742191 1,7 20216 791015 2,6 Friuli-V. Giulia 10531 294732 3,6 3541 299620 1,2 Liguria 15700 381882 4,1 17182 406362 4,2 Emilia-Romagna 28549 991828 2,9 18901 1128228 1,7 Nord Italia 122245 4723279 2,6 199720 5155252 3,9 Centro Sud 173118 6741025 2,6 100108 6964975 1,4 Totale Italia 295363 11464304 2,6 299828 12120227 2,5 Fonte: Istat, 1998 91 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO Tab. 7 – La spesa in R&S nella UE (% sul Pil) Anno 1994 Grecia 0,5 Belgio Sud Italia 0,6 Danimarca Lazio Nord Est 0,6 Centro Italia 0,8 Piemonte Spagna 0,8 Olanda Regno Unito Emilia-Romagna 0,9 Italia 1,1 Rhones Alpes Finlandia Nord Italia 1,2 Irlanda 1,3 Germania Francia Lombardia 1,3 Austria 1,5 Baden Wurttemberg West-Midlands 1,6 Svezia Fonte: Eurostat Tab. 8 – La spesa in R&S delle imprese private nella UE (% sul totale spesa R&S) Anno 1994 Grecia 26,9 Francia Lazio 30,4 Germania Centro Italia 33,4 Regno Unito Sud Italia 33,5 West-Midlands Belgio Emilia-Romagna 46,1 Spagna 47,2 Irlanda Nord Est 48,1 Nord Italia Olanda 52,0 Svezia Italia 52,9 Rhones Alpes Austria 56,0 Lombardia Danimarca 58,9 Baden Wurttemberg Finlandia 62,2 Piemonte Fonte: Eurostat Tab. 9 – La spesa in R&S delle imprese private nella UE (% sul Pil) Anno 1994 Grecia 0,1 Olanda Sud Italia 0,2 Danimarca Centro Italia 0,3 West-Midlands 0,3 Belgio Nord Est Spagna 0,4 Regno Unito Finlandia Emilia-Romagna 0,4 Lazio 0,6 Francia Italia 0,6 Germania Nord Italia 0,8 Piemonte Austria 0,8 Rhones Alpes Irlanda 0,9 Svezia Baden Wurttemberg Lombardia 1,0 Fonte: Eurostat 92 1,6 1,8 1,9 1,9 2,0 2,1 2,2 2,3 2,3 2,4 2,9 3,2 62,7 66,2 66,3 67,3 67,8 69,4 70,3 72,9 74,6 75,7 81,3 85,4 1,0 1,1 1,1 1,1 1,4 1,4 1,5 1,5 1,6 1,6 2,3 2,9 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO Tab. 10 – Addetti R&S rispetto alla popolazione attiva nella UE Anno 1994 Nord Est 0,5 Lombardia Sud Italia 0,5 Belgio Spagna 0,7 Piemonte Centro Italia 0,7 Danimarca Grecia 0,8 Francia Italia 0,8 Olanda Germania Emilia-Romagna 0,9 Rhones Alpes 1,0 Baden-Wurttemberg Irlanda 1,0 Fonte: Eurostat 1,0 1,2 1,2 1,5 1,5 1,5 1,6 2,2 Tab. 11 – Peso addetti R&S imprese private rispetto al totale nella UE Anno 1994 Grecia 14,7 Francia Lazio 20,2 Danimarca Sud Italia 20,4 Svezia Centro Italia 21,8 Belgio Spagna 28,4 Germania Emilia-Romagna 35,9 Lombardia Italia 38,3 Rhones Alpes Nord Est 38,4 Piemonte Olanda 39,6 Regno Unito Austria 40,9 Baden-Wurttemberg Irlanda 42,8 West-Midlands Finlandia 45,9 Bayern Fonte: Eurostat 50,1 50,4 51,5 51,8 55,4 59,7 73,2 76,9 81,1 83,1 83,6 86,6 Tab. 12 – Domande di deposito di brevetti presentate da residenti in Italia, secondo la tipologia del brevetto. Invenzioni Modelli Totale Modelli Marchi Totale d’utilità ornamentali d’impresa Anno 1985 Nord Italia 76 77 76 79 70 73 Resto del paese 24 23 24 21 30 27 Totale % 100 100 100 100 100 100 Totale valore assoluto 9849 6333 16182 4304 18912 39398 Anno 1995 Nord Italia Resto del paese Totale % Totale valore assoluto Fonte: Istat, 1998 75 25 100 8462 68 32 100 3126 93 73 27 100 11588 73 27 100 1860 67 33 100 32968 69 31 100 46416 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO Tab. 13 – Domande di deposito di brevetti presentate da residenti in Italia, secondo la tipologia del brevetto. Invenzioni Modelli Totale Modelli Marchi Totale Tot. val. d’utilità ornamentali d’impresa % assoluto Anno 1985 Nord Italia 26 17 43 12 46 100 28892 Resto del paese 23 14 37 9 55 100 10506 Totale 25 16 41 11 48 100 39398 Anno 1995 Nord Italia Resto del paese Totale % Fonte: Istat, 1998 20 15 18 7 7 7 27 22 25 4 3 4 69 75 71 100 100 100 32013 14403 46416 Tab. 14 – Richieste di brevetto europeo nella UE (per milione di abitanti) Anno 1990 Anno 1995 Variazione % 1990-1995 Grecia Spagna Irlanda Centro Italia Lazio Italia Emilia-Romagna Nord Est Belgio Piemonte Regno Unito Danimarca Lombardia EUR 15 Austria Francia Finlandia Olanda Svezia Rhones Alpes Germania Bayern Baden-Wurttemberg Fonte: Eurostat 3 7 23 27 28 44 45 48 70 72 82 83 88 89 94 97 102 122 145 170 174 248 327 Grecia Spagna Lazio Centro Italia Irlanda Italia Nord Est Piemonte Emilia-Romagna Regno Unito Lombardia Belgio EUR 15 Francia Austria Olanda Danimarca Rhones Alpes Finlandia Germania Svezia Bayern Baden-Wurttemberg 4 11 21 24 35 45 50 59 67 77 80 90 91 94 96 113 116 165 166 169 195 229 285 Lazio Piemonte Baden-Wurttemberg Centro Italia Lombardia Bayern Olanda Regno Unito Francia Rhones Alpes Germania Austria EUR 15 Italia Nord Est Belgio Grecia Svezia Danimarca Emilia-Romagna Irlanda Spagna Finlandia -25 -18 -13 -11 -9 -8 -7 -6 -3 -3 -3 2 2 2 4 29 33 34 40 49 52 57 63 Tab. 15 – Imprese innovatrici e non innovatrici per regione (1992) Imprese Imprese non Totale Tot. Imprese % imp. Inn.. innovatrici innovatrici % innovatrici su tot. Italia Piemonte-V.Aosta 38,1 61,9 100 2295 10,1 Lombardia 36,1 63,9 100 6737 29,6 Trentino-A.Adige 42,9 57,1 100 408 1,8 Veneto 33,7 66,3 100 3506 15,4 Friuli-V. Giulia 34,2 65,8 100 655 2,9 Liguria 34,7 65,3 100 320 1,4 Emilia-Romagna 38,2 61,8 100 2798 12,3 Nord Italia 36,3 63,7 100 16719 73,4 Centro Sud 24,5 75,5 100 6068 26,6 Italia 33,1 66,9 100 22787 100 Fonte: Istat, 1998 94 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO Tab. 16 – Imprese innovatrici per tipo di innovazione introdotta (1992) Solo Solo Sia prodotti Totale Tot. valore assoluto prodotti processi che processi % Piemonte-V. Aosta 14,5 17,7 67,7 100 874 Lombardia 41,2 44,5 14,3 100 1063 Trentino-A.Adige 15,4 16,6 68,0 100 175 Veneto 14,6 21,3 64,2 100 1181 Friuli-V. Giulia 20,5 16,1 63,4 100 224 Liguria 21,6 18,0 60,4 100 111 Emilia-Romagna 21,0 19,3 59,7 100 1069 Nord Italia 22,5 24,9 52,5 100 4697 Centro Sud 15,2 24,6 60,2 100 1488 Italia 20,8 24,8 54,4 100 6185 Fonte: Istat, 1998 Tab. 17 – Origine e destinazione delle spese in R&S (1994) Destinazione: Origine stessa regione Nord Italia Centro Sud Piemonte-Valle d’Aosta 71,3 11,1 17,6 Lombardia 80,2 12,1 7,7 Trentino-A.Adige 91,3 7,4 1,3 Veneto 86 12,8 1,2 Friuli-V. Giulia 86,7 10,5 2,8 Liguria 25,1 24,8 50,1 Emilia-Romagna 87,6 8 4,4 Nord Italia 77,9 11,6 10,5 Fonte: Istat, 1998 95 totale 100 100 100 100 100 100 100 100 LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO BIBLIOGRAFIA AA.VV. (1989), Dalla politica industriale ad una politica per l’industria, Torino, Associazione per Tecnocity. Antonelli C. (1986), L’attività innovativa in un distretto tecnologico, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli. Assolombarda (1994), Ricerca e innovazione tecnologica:analisi del fabbisogno delle aziende, Milano. 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POLITICHE “PER NASCERE” O POLITICHE “POST-NASCITA” PER CRESCERE? – BIBLIOGRAFIA LA DINAMICA DELLE NUOVE IMPRESE: FRA “SUCCESSI ANNUNCIATI” E OMBRE DI LUNGO PERIODO LA PROPENSIONE ALL’IMPRENDITORIALITÀ Negli ultimi anni i periodici comunicati di Unioncamere relativi alle rilevazioni realizzate da InfoCamere sul Registro delle Imprese offrono in misura crescente l’immagine di un’Italia segnata da una forte vocazione imprenditoriale, nella quale ormai non solo il Nord e il Centro, ma anche il Sud sono in grado di produrre un tessuto di imprese sempre più fitto. Sulla base dei dati del terzo trimestre 1998 (un saldo positivo di più di 20.000 imprese, equivalente ad un tasso di crescita nazionale dello 0,47%, derivante da uno 0,30% del Nord Ovest, uno 0,47 del Centro e del Nord Est e uno 0,63 del Mezzogiorno), il Presidente di Unioncamere Danilo Longhi commenta: “Di fronte a questi risultati, migliori dell’andamento del Pil, si ha la chiara conferma della forte vitalità economica degli italiani che cercano di costruire personali risposte imprenditoriali alle difficoltà di un’economia forse stressata da politiche di risanamento peraltro inevitabili”. In precedenza, agli inizi del 1998, il comunicato Unioncamere “di bilancio” sul 1997 diceva: “Il sistema imprenditoriale italiano mostra per il quarto anno consecutivo un saldo attivo fra le imprese iscritte e quelle cessate al Registro delle Imprese delle Camere di Commercio. I dati, relativi al totale delle imprese, con esclusione di quelle agricole, evidenziano (…) un saldo in valore assoluto pari a 33.240 imprese (equivalente ad un tasso di crescita percentuale dello 0,77%, derivante soprattutto da un tasso di crescita del Sud dell’1,54%, doppio rispetto a quello nazionale, dove spicca la relativa debolezza del Nord Ovest con solo lo 0,27% di incremento).” I saldi attivi più elevati riguardavano, nel bilancio 1997, i settori delle costruzioni e dell’intermediazione finanziaria, mentre i saldi maggiormente negativi emergevano nel settore del commercio e in quello manifatturiero. In relazione alla forma giuridica, il comunicato Unioncamere segnalava, per il 1997, come le ditte individuali avessero superato tutte le altre forme di impresa sia per numero di iscrizioni che di cancellazioni, costituendo nel loro insieme ancora la forma prevalente (55% dello stock totale) del tessuto produttivo italiano. Commentava ancora il Presidente Longhi: “L’evoluzione temporale delle ditte individuali conferma, dunque, l’elevato ricambio presente nel tessuto imprenditoriale italiano; la ditta individuale evidentemente è anche la forma in cui si manifesta il fenomeno dell’autoimpiego tipico delle * Cesdi srl 99 NEOIMPRENDITORIALITÀ fasi di difficoltà occupazionale. Ma questo fenomeno va colto anche come un segnale di grande vitalità e di fiducia della società italiana”. OMBRE SUI SUCCESSI ANNUNCIATI LA RIDUZIONE DEL NUMERO MEDIO DI ADDETTI PER IMPRESA IL LIVELLO DI INNOVAZIONE Se guardati più a lungo termine, nell’arco di almeno un quindicennio (1981 a metà 1997), i dati sulla demografia di impresa confermano solo in parte i “successi annunciati” (di tipo peraltro puramente quantitativo) dei comunicati Unioncamere. Per quanto riguarda le imprese individuali, come ha osservato Gallino (1998, p. 205) esse superavano già nel 1981, al netto di quelle agricole, sia pure di poco, la cifra di 2.300.000. “Una cifra in sostanza analoga a quella che si registrava a metà del 1997, ben sedici anni dopo, quando le imprese individuali registrate ammontavano a 2.336.000 (…). Il fatto è che una ditta individuale è più facile chiuderla che aprirla e farla crescere (...). Quando uno si sente strangolato dalle imposte e dagli adempimenti burocratici, può decidere da un giorno all’altro di cercarsi un posto da dipendente, o di eclissarsi nel sommerso”. In secondo luogo, per quanto riguarda le imprese non individuali, esse sono effettivamente cresciute in misura rilevante nell’arco di tempo considerato, da 510.000 a 1.326.000, con un balzo di ben 816.000 unità. Questo numero crescente di imprese, tuttavia, non ha prodotto alcun significativo incremento occupazionale, data la contemporanea consistente riduzione del numero medio di addetti per impresa. Ecco una delle più rilevanti “ombre di lungo periodo” che si staglia sui “successi annunciati” dei comunicati Unioncamere: questa riduzione ha fatto sì che “le piccole imprese non abbiano generato tra il 1981 e il 1997 nemmeno tanti posti di lavoro quanti ne sono andati persi nelle grandi imprese e in agricoltura (…)” (Gallino, 1998, p. 208). Ciò fa emergere – crediamo – qualche legittimo dubbio sulla possibilità che per il futuro, nonostante gli indubbi successi tipicamente italiani (e più in specifico “padani”) dei distretti e dei sistemi di piccola impresa, si possa ancora fare affidamento esclusivamente o prevalentemente su questo “modello” di creazione di lavoro e di sviluppo. Vi è poi una rilevante seconda “ombra di lungo periodo” ad oscurare i successi della demografia d’impresa italiana, e in particolare settentrionale: quella del grado di innovazione (di processo e soprattutto di prodotto) delle nuove imprese, in comparazione con le imprese concorrenti europee. Vi sono molteplici anche se parziali segnali, in questo senso, di una carente innovatività del nostro sistema di imprese. Il Quarto Rapporto Eurostat su “Le imprese in Europa” (pp. 67-69), sulla base di un’analisi su 8 paesi relativa al periodo 1990-1992, evidenzia come la percentuale di Pmi italiane che hanno introdotto innovazioni di prodotto nel settore dei beni di consumo sia del 21,5%, di contro al 23,9% di quelle francesi, il 50,7 di quelle tedesche, il 24,7 di quelle spagnole, il 42,6 di quelle olandesi. Va segnalato che questo tasso risulta comparativamente il più basso anche nelle innovazioni di processo (21,8%), ed anche in tutti gli altri settori considerati nell’indagine (chimica e prodotti chimici e fibre artificiali, caucciù e materie plastiche, prodotti minerali non metallici, metalli di base e prodotti metallici, automobile). Pur tendendo conto del peso relativo negativo che possono aver giocato su questi dati le imprese meridionali, ed anche degli eventuali condizionamenti “congiunturali” del periodo di rilevazione, resta comunque legittimo il dub- 100 NEOIMPRENDITORIALITÀ bio se il sistema imprenditoriale settentrionale – quale è, e ancor più quale tende ad evolvere attraverso la dinamica demografica di impresa – sia davvero “attrezzato” per competere con successo, nell’epoca dell’euro e della globalizzazione, con i sistemi imprenditoriali concorrenti. AI CONFINI DELL’IMPRENDITORIALITÀ: LA “GALASSIA” DEL LAVORO AUTONOMO COME “VIA ITALIANA” ALLA FLESSIBILITÀ E AL POST-FORDISMO LA VOCAZIONE ALL’AUTOIMPRENDITORIALITÀ LA VIA ITALIANA ALLA FLESSIBILITÀ Un altro fenomeno recente che, pur di “confine” rispetto all’imprenditorialità in senso stretto, contribuisce a dare dell’Italia, e in particolare della sua parte settentrionale, un’immagine particolarmente dinamica e suggestiva è quello dell’ “esplosione” del lavoro autonomo, sia nella forma del cosiddetto “popolo delle partite Iva” sia in quella del lavoro parasubordinato (il cosiddetto “popolo del 10%”, oggi più precisamente del 12%). Si tratterebbe, in ogni caso, di segnali di una forte vocazione all’autoimprenditorialità nella società italiana. Tali segnali, uniti a quelli ricavabili dallo sviluppo di nuove imprese e, “letti” alla luce della strutturale densità sistemica (distretti e sistemi locali di impresa) del tessuto produttivo italiano, e particolarmente centro-settentrionale, sembrerebbero fare dell’Italia il principale esempio europeo di “capitalismo diffuso”. In effetti il lavoro indipendente oggi in Italia, nelle sue diverse forme (imprenditori, liberi professionisti, altri self-employed) assomma a circa il 28% della forza lavoro occupata, una quota fra le più elevate in Europa, tre volte superiore a quella della Germania e più che doppia rispetto a Francia, Gran Bretagna, Danimarca e Olanda, paragonabile solo a quella della Spagna (22%), del Portogallo (26%) e della Grecia (34%). In questo quadro, è la parte settentrionale dell’Italia a concentrare in sé la maggior quota di lavoro indipendente e, in particolare, delle nuove forme di lavoro parasubordinato (autonomi coordinati e continuativi), con il 44% del totale nazionale rappresentato da solo tre regioni (Lombardia, Veneto, Piemonte; dati 1997). È sul significato di questi dati, tuttavia, che sono possibili “letture”, interpretazioni e scenari di sviluppo diversi. Intanto quella dei self-employed è una “galassia” che contiene al suo interno almeno due “mondi” assai differenti: quello degli ultraquarantenni con un know how professionale qualificato e alla ricerca di un modello di lavoro migliore e, per contro, quella dei giovani solitamente alla ricerca di primo impiego, con scarsa formazione e redditi assai più bassi, spinti al lavoro autonomo non tanto da una pretesa “vocazione all’autoimprenditorialità” quanto dalla mancanza di altre valide alternative. Ma, al di là delle articolazioni interne del mondo del lavoro autonomo parasubordinato, che richiederebbero “letture” altrettanto disarticolate del loro significato, è possibile trovare almeno un aspetto unificante, e quindi un’interpretazione unitaria del fenomeno. Come osserva Magatti (1998, “Il lavoro parasubordinato nel modello di sviluppo del Nord”, Impresa e Stato, n. 46, p. 3), “il lavoro parasubordinato va inquadrato in un trend molto più generale che tende a modificare il mercato del lavoro (...) lavoro interinale, contratti d’area, contratti di formazione lavoro (…) stanno effettivamente trasformando il modo in cui domanda e offerta si incontrano. Basti dire che al Nord ormai più del 50% degli avviamenti è a tempo determinato”. Si tratta “di quella che potremmo chiamare la via italiana alla flessibilità, da sempre 101 NEOIMPRENDITORIALITÀ basata sulla presenza di un numero di lavoratori autonomi incomparabilmente più elevato di quello delle altre economie avanzate”. Più in generale, osserva ancora Magatti (ibidem, p. 4), “si tratta di un elemento costitutivo di quella via italiana al post-fordismo di cui gli elementi fondamentali sono ormai ben noti: prevalenza della piccola e piccolissima impresa, specializzazione manifatturiera, concentrazione territoriale e localismo economico, spiccata mobilitazione individualistica, rilevanza di quella zona grigia costituita appunto dalle varie forme di lavoro indipendente”. LAVORO AUTONOMO E IMPRENDITORIALITA’ Vi è infine ancora un’ultima considerazione necessaria per collocare nel suo giusto spazio la “galassia” in espansione delle nuove forme di lavoro autonomo, e quindi valutare più realisticamente lo “stato di salute” dell’Italia settentrionale. Vi è “una certa confusione – osserva Contini (1998, “Lavoro autonomo e flessibilità”, Impresa e Stato, n. 46, p. 35) – tra il concetto di lavoro autonomo e quello di imprenditorialità (…). Una cosa è scegliere di fare l’imprenditore, di organizzare attività altrui, esponendosi al rischio di impresa, altra cosa è mettersi in proprio a svolgere un’attività di softwarista (con partita Iva) dietro parcella, ovvero di fare assistenza agli anziani ricevendone un compenso in nero. Tutte due attività assai dignitose, (…) ma comunque attività che, in un contesto istituzionale diverso da quello italiano, verrebbero normalmente svolte con un normale lavoro alle dipendenze”. LE DEBOLEZZE (E I CORRETTIVI) DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE: MOLTE IMPRESE, MA SEMPRE PIÙ PICCOLE, TROPPO PICCOLE LA DIMENSIONE MEDIA D’IMPRESA Il Censimento intermedio dell’industria e dei servizi, che recentemente è stato reso pubblico dall’Istat, prospetta un quadro complessivo del sistema imprenditoriale italiano, articolato per regioni e macro-aree. Fra i molti, vi sono alcuni punti rilevanti che emergono: a fine 1996, le imprese operanti nei settori dell’industria e dei servizi sono 3,5 milioni (erano 3.123.000 nel 1991), con un’occupazione pari a 13,8 milioni di addetti e una dimensione media di 3,9 addetti per azienda (2,9 nei servizi e 6,5 nell’industria). Il 95% del totale delle aziende ha meno di 10 addetti e soltanto 2.600 imprese hanno almeno 250 addetti (0,07% delle imprese e 2,8 milioni di addetti). Nel settore industriale, in particolare, il numero medio di addetti non ha fatto che scendere nel corso degli anni: da 7,7 per azienda nel 1991 a 6,5 nel 1996. In questo quadro nazionale, su cui pesa evidentemente il “nanismo” imprenditoriale del Mezzogiorno (soltanto 2,6 addetti per impresa nell’industria e nei servizi), anche le altre aree territoriali presentano tuttavia dati molto lontani da quelli europei dei paesi più avanzati. Le imprese del Nord Ovest hanno una dimensione media di 4,7 addetti, quelle del Nord Est e del Centro di 4,3. Come osserva in un’intervista Enrico Giovannini, direttore delle statistiche economiche su istituzioni e imprese dell’Istat (Il Sole-24 Ore, 19 dicembre 1998), “si ha una riduzione della dimensione media delle imprese, sia nell’industria che nel terziario; in realtà, gran parte di questa riduzione è concentrata nelle costruzioni e nei servizi alle imprese. È l’effetto dell’outsourcing, delle reti, della terziarizzazione dell’economia in generale. Tra il 1991 e il 1996 cade il numero delle imprese con almeno 250 addetti, cosicché accanto a poche grandi aziende vi è una rete molto fitta di piccole e piccolissime aziende”. 102 NEOIMPRENDITORIALITÀ DIMENSIONI ED OCCUPAZIONE I DUE CORRETTIVI ALLA DEBOLEZZA DIMENSIONALE Il Censimento intermedio segnala anche il calo dell’occupazione manifatturiera, con l’eccezione di due sole piccole regioni meridionali (Molise e Basilicata) ed una certa “resistenza” del Nord Est (un calo occupazionale limitato all’1,8% di fronte ad un calo medio nazionale del 6,8%). Dunque è confermato il trend di fondo che già abbiamo in precedenza segnalato: vi sono sempre più imprese ma, a causa della contemporanea riduzione del numero medio di addetti, tutto ciò non crea lavoro e occupazione. Sembrano confermate, dai dati del Censimento, le preoccupazioni di Gallino (1998, pp. 203-208) circa le trasformazioni del nostro modello di sistema produttivo nel lungo periodo. Nel 1981 le imprese non individuali non agricole avevano in media 20 addetti; a metà 1997 si sono ridotti a 7,8. “Nei confronti internazionali, l’Italia risulta avere oltre 1,2 milioni di imprese in più rispetto ai due paesi europei di dimensioni paragonabili che la sopravanzano sia come Pil pro-capite sia come livello generale di modernizzazione, la Francia e la Germania; inoltre, il 99,9% di esse assorbe quasi il 15% di occupati in più, ossia più dell’80% contro meno del 65% degli altri due paesi. La loro dimensione media è però circa la metà: meno di 8 dipendenti contro circa 14” (p. 208). Infine, è bene ricordare – come osserva ancora Gallino – che le grandi imprese (oltre 500 addetti) in Francia sono 2 volte e mezzo e in Germania circa 4 volte quelle italiane. In più, in questi due paesi le grandi imprese raccolgono oltre il 35% di tutti gli occupati, contro il 15-16% dell’Italia. Guardando più in specifico all’Italia settentrionale – come osserva Magatti (1998, p. 92) – e in particolare a Lombardia, Piemonte e Veneto, si può verificare che “anche nelle regioni più evolute del paese, esiste una sorta di incapacità a dare vita a forme organizzative complesse capaci di competere in modo duraturo sui mercati. Nelle tre regioni in esame, tra il 1971 e il 1991, si è passati da 307 a 218 imprese con più di 1000 addetti, con una riduzione di quasi il 30%, mentre quelle con più di 50 dipendenti (che nel 1991 erano 10.000) rimangono un’esigua minoranza (meno dell’1%!)”. Certo il sistema italiano, e in specifico quello centro-settentrionale, non può essere “letto” solo alla luce della dimensione media di impresa, e dei conseguenti confronti negativi con i grandi paesi europei di forte industrializzazione. Ci sono almeno due fenomeni che agiscono da “correttivi” alla debolezza dimensionale italiana, uno dei quali – le reti di piccole imprese, i distretti, il territorio, con il loro patrimonio di “economie esterne” alla singola impresa – particolarmente potente e ormai universalmente celebre (e celebrato) per i suoi successi nel “made in Italy”. Più precisamente i due “correttivi” in discorso sono: 1. la crescita dei “gruppi” (o “imprese economiche”), intesi come aggregazioni di varie imprese costituenti soggetti giuridici autonomi, ma controllate da un unico soggetto economico e sottoposte ad un gestione unitaria. Una recente indagine (Balcone, Moisello, Mutinelli, “La fine della polarizzazione: le caratteristiche e la crescita dei gruppi medi italiani”, Economia e politica industriale, 1998, n. 97, pp. 25-76) sostiene la tesi che “sia ormai emerso in Italia un ‘ceto medio’ imprenditoriale che costituisce una novità di tutto rispetto nel contesto manifatturiero del nostro paese…” (p. 26). In sostanza, se l’unità di riferimento delle analisi fosse l’ “impresa economica” e non solo quella “giuridica”, il grado di polveriz- 103 NEOIMPRENDITORIALITÀ zazione del tessuto imprenditoriale italiano risulterebbe assai minore di quanto possa a prima vista apparire; 2. in secondo luogo, come già si è detto, l’esistenza dei distretti e dei sistemi locali di impresa, che “corregge” a sua volta la scarsa dimensione media delle singole imprese. Anche in questo caso, se l’unità di riferimento delle analisi non fosse tanto o soltanto l’impresa giuridica, ma il territorio con tutte le sue reti e le sue risorse, la situazione imprenditoriale italiana apparirebbe assai meno debole e polverizzata di quanto possa risultare dai dati statistici e censuari. ALCUNE CONSIDERAZIONI CRITICHE SUI GRUPPI Rispetto ad entrambi questi “correttivi”, è tuttavia possibile introdurre almeno qualche considerazione critica e qualche dubbio. Sul ruolo dei “gruppi” valgono alcune “ammissioni” degli stessi ricercatori, che brevemente menzioniamo di seguito. D’IMPRESA • • • • • “Certamente rispetto agli altri paesi industrializzati in Italia sono emerse un minor numero di grandi imprese economiche. La crisi delle imprese pubbliche ha portato inoltre alla caduta dei già pochi giganti e l’anomalia dell’Italia oggi consite nella presenza ormai di un unico gigante…che sovrasta tutti gli altri in modo molto netto” (cit. p. 54). “Così si deve prendere atto del fatto che nei settori a più elevato contenuto tecnologico, le macchine elettriche e la farmaceutica, sono le imprese straniere…a detenere una posizione di marcato predominio” (p. 56). “Effettivamente, l’intreccio impresa-famiglia non favorisce una presenza italiana forte nei settori a più elevato contenuto tecnologico, che, infatti, in assenza di una politica pubblica in grado di compensare gli squilibri generati dalle tendenze spontanee, sono divenuti appannaggio delle imprese estere” (p. 59-60). Per quanto riguarda la crescita delle imprese (fra 1990 e 1995, relativamente ad un campione di 223 imprese, sostanzialmente rappresentativo dell’universo di imprese economiche assunto nella banca dati dei ricercatori), emerge “l’andamento dell’occupazione (…) assai deludente (…) Questo effetto è in buona misura dovuto alla specializzazione delle imprese italiane in crescita nei mercati maturi: qui gli attori più competitivi, in generale, possono solo crescere sottraendo quote di mercato agli attori più deboli, o eliminandoli o assorbendoli. Nuova occupazione si crea solo sviluppando ed essendo presenti in nuovi mercati: nel sottolineare la debolezza sotto questo aspetto torniamo a ribadire i limiti di uno sviluppo industriale basato su uno strettissimo legame imprese/famiglie” (pp. 5556). “L’evidenza empirica presentata in questo saggio mostra che le imprese italiane nell’ultimo decennio hanno saputo realizzare un doppio inseguimento: a livello dimensionale e multinazionale. Ciò che invece non si è realizzato è l’inseguimento tecnologico, nel senso di una progressiva modifica della struttura delle specializzazioni verso i settori a più elevato contenuto tecnologico (...) la struttura industriale è rimasta inchiodata sui settori a contenuto tecnologico basso o medio e pezzi pregiati dell’apparato produttivo del paese proprio nei settori più innovativi sono stati conquistati dalle multinazionali estere (…) Nonostante le inefficienze del sistema finanziario, del mercato del controllo e del mercato delle imprese, i gruppi italiani sono cresciuti, potendo basarsi sull’autofinanziamento. Ma nei settori innovativi dai rendimenti differiti 104 NEOIMPRENDITORIALITÀ è molto difficile che nuove imprese nascano e crescano all’interno del contesto esistente” (p. 73-74). LE INCOGNITE SULL’EVOLUZIONE DEL MODELLO DISTRETTUALE NEL PROCESSO DI GLOBALIZZAZIONE In secondo luogo, rispetto ai distretti e ai sistemi locali di impresa, e ai loro indubitabili grandi successi, restano a nostro parere legittimi alcuni dubbi, che allungano le loro “ombre” sulle sorti dell’economia italiana, e in particolare sulle reali potenzialità – nel nuovo secolo e millennio - delle regioni più avanzate ed “europee” del paese: • che il modello dei distretti, essenzialmente in settori tradizionali e maturi, possa continuare a reggere a lungo di fronte alla crescita negli stessi settori dei paesi in via di sviluppo o “in transizione” verso l’economia di mercato; • che le reti e le solidarietà di distretto possano continuare a mantenersi a lungo anche di fronte ai processi centrifughi indotti dalla globalizzazione; • che i problemi derivanti dalla scarsa, ed anzi sempre più debole negli anni, presenza italiana nei settori ad alta tecnologia possano essere affrontati attraverso il modello tradizionale dei sistemi locali di piccola impresa, o al contrario, almeno in questo campo, nessuna “economia esterna” derivante dal territorio possa compensare davvero le carenze di investimenti “a profitto differito” e di innovazione derivanti dalla dimensione media troppo piccola delle imprese (non sarà un caso che, come osserva Laura Pennacchi – “Doppio handicap per lo sviluppo”, Il Sole-24 Ore, 23 dicembre 1998 – mentre fra il 1980 e il 1996 la quota di prodotti hi-tech sul totale degli scambi mondiali è cresciuta dal 15 al 30%, nello stesso periodo invece la quota relativa italiana di prodotti ad alta tecnologia sulle esportazioni mondiali è scesa dal 3,4 al 2,7%). LE TIPOLOGIE DI NEOIMPRENDITORIALITÀ. I PROBLEMI CRITICI DELLO SPIN-OFF E DELLA SUCCESSIONE GENERAZIONALE Fra le diverse forme di neoimprenditorialità (originaria, di spin-off, per passaggio generazionale, “incentivata” dall’intervento pubblico) comunemente considerate, due in particolare meritano qualche considerazione specifica per il peso rilevante che possono avere sulle sorti presenti e future dell’economia settentrionale: lo spin-off e la successione generazionale. LO SPIN-OFF Alla prima forma, intesa nella sua accezione più ampia (singoli individui che lasciano il lavoro dipendente per dare vita ad una nuova iniziativa imprenditoriale; dismissione di una specifica attività dell’impresa originaria e sua collocazione in una nuova unità giuridicamente indipendente) è riconducibile presumibilmente l’origine di più del 50% delle nuove imprese (relativamente alla Lombardia è stato stimato che circa due terzi delle nuove iniziative imprenditoriali derivino dalla decisione di un lavoratore precedentemente alle dipendenze di “mettersi in proprio”). Dunque l’osservazione di questa tipologia di neoimprese è fondamentale per impostare qualsiasi politica di supporto alla nascita e alla crescita del tessuto imprenditoriale, soprattutto nelle regioni settentrionali dove le occasioni e le opportunità di spin-off – data la densità del tessuto imprenditoriale preesistente – sono maggiori che nel resto d’Italia. Due ricerche recenti, relative una a Milano e provincia e l’altra al Piemonte, “fanno pensare” a questo proposito. 105 NEOIMPRENDITORIALITÀ Quella milanese è un’indagine condotta da IRER Lombardia e CCIAA di Milano su un campione di imprese (4.104 estratte in origine, ma solo 147 pertinenti, disponibili ed effettivamente intervistate) appartenenti al settore manifatturiero nate nella provincia di Milano nel periodo fra gennaio 1989 e dicembre 1990 e sopravvissute al 1995 (in “Milano produttiva 1997”, Camera di Commercio di Milano). Quella piemontese è una ricerca qualitativa condotta dall’IRES Piemonte per conto dell’Agenzia di sviluppo Codex su due gruppi delimitati di “imprese-madri” e di “imprese-figlie” (Quale spinoff? Riorganizzazioni aziendali, creazione di imprese, nuovi imprenditori, 1998, Torino, Codex scrl). In breve, la ricerca milanese individua tre gruppi fondamentali di neoimprese: il più piccolo (15% dei casi) è quello delle imprese “innovative”, nei prodotti e/o nei processi; il secondo, più vasto (39,3%), è quello delle imprese “difensive”, nate dalla necessità di evitare rischi sulla carriera o sul posto di lavoro; il terzo e più numeroso (45,7%), infine, è quello delle imprese “che hanno origine da unità produttive di maggiori dimensioni e che si caratterizzano essenzialmente per due aspetti: la minimizzazione degli investimenti in innovazione e il contenimento dei costi fissi in struttura (…). È probabile che queste aziende siano semplicemente funzioni di produzione, separate dall’impresa di origine per essere collocate in un contesto organizzativo e gestionale in grado, a causa delle dimensioni più ridotte e delle basse spese di coordinamento, di comprimere sensibilmente i costi totali di produzione”. La ricerca piemontese, a sua volta, evidenzia come le imprese nate da riorganizzazioni aziendali siano caratterizzate quasi sempre dalla “mancanza di novità nelle attività (prodotti, servizi, tecnologie) per le quali le nuove imprese sono state costituite”, e ciò sembra allontanare “le situazioni esaminate da un modello ideale di spin-off pro-attivo, motore di un nuovo sviluppo a livello locale” (p. 9). Come si vede, sia l’indagine milanese che quella piemontese convergono nel segnalare come “punto critico” la scarsa innovatività delle nuove imprese di spin-off, pur in contesti avanzati come la provincia di Milano e il Piemonte. Si tratta di “segnali” non positivi sul sistema produttivo dell’Italia settentrionale che, come vedremo meglio in seguito, dovrebbero almeno suggerire qualche ripensamento sulle politiche fin qui prevalentemente seguite per il sostegno alla neoimprenditorialità. LA SUCCESSIONE GENERAZIONALE Per quanto riguarda la seconda tipologia di neoimprenditorialità indicata all’inizio, la successione generazionale, pochi dati bastano a evidenziarne la particolare criticità per le prospettive future dell’Italia settentrionale e, più in generale, per l’Italia e per l’intera Europa. Secondo la Commissione Ue (“Comunicazione della Commissione relativa alla trasmissione delle piccole e medie imprese”, in GUCE C 93 del 28 marzo 1998), nei prossimi anni oltre 5 milioni di imprese europee, pari al 30% del totale, dovranno fare fronte al problema della trasmissione. Per quanto riguarda in specifico l’Italia settentrionale, le imprese nate fra il 1960 e il 1970, e quindi “mature” per la successione generazionale, su dati InfoCamere aggiornati al maggio 1998, risultano essere quasi 125.000 (quasi 47.000 nella sola Lombardia, quasi 23.000 in Emilia Romagna, 19.500 nel Veneto, 18.600 in Piemonte), su un totale nazionale di 239.000 circa. Proporzionalmente, si può stimare che siano almeno 60.000 le cariche sociali affida- 106 NEOIMPRENDITORIALITÀ te nell’Italia settentrionale a persone con più di 65 anni (su un totale nazionale stimato da InfoCamere in 110.000). Il problema della successione societaria è dunque anch’esso, come quello dello spin-off, un nodo strategico per le sorti presenti e future della parte più avanzata dell’Italia. LE POLITICHE DI SUPPORTO ALLA NEOIMPRENDITORIALITÀ. POLITICHE DI SOSTEGNO SOCIALE O POLITICHE DI SVILUPPO PRODUTTIVO? POLITICHE “PER NASCERE” O POLITICHE “POSTNASCITA” PER CRESCERE? Soprattutto a partire dal 1986, con l’emanazione della legge n. 44 sull’imprenditoria giovanile, si sono moltiplicate nel nostro paese – sia a livello nazionale che regionale e locale – le iniziative legislative e di sostegno alla nascita di nuove imprese. Nel contempo anche l’Unione Europea ha lanciato programmi e politiche in questa direzione, contribuendo in questo modo a offrire ulteriori risorse, progettualità e legittimazioni alle specifiche iniziative italiane. UNA LOGICA DI POLITICA SOCIALE Guardate nel loro insieme, le politiche realizzate ai diversi livelli – comunitario, nazionale, regionale e locale – per il sostegno alla neoimprenditorialità manifestano una prevalente caratteristica comune: l’assumere come destinatari principali le cosiddette “categorie svantaggiate” (e soprattutto nelle aree territoriali a loro volta svantaggiate): disoccupati, giovani, donne, immigrati. Inoltre, una seconda caratteristica prevalente e comune è quella di prevedere interventi di supporto (finanziari e non) “alla nascita”, per rendere possibile comunque, indipendentemente dai giudizi selettivi del mercato, la formazione delle nuove imprese. È particolarmente significativa, in queste direzioni, l’analisi empirica della prevalente legislazione delle regioni nell’ultimo decennio. Fra il 1986 e il 1996, la sola regione Lombardia ha emanato ben 8 leggi a sostegno della creazione di impresa e del lavoro autonomo, i cui titoli sono particolarmente rivelatori: interventi a sostegno della cooperazione per la salvaguardia e incremento dei livelli occupazionali; interventi a sostegno di nuove iniziative imprenditoriali giovanili (con priorità per le donne); interventi a sostegno dei lavoratori in difficoltà occupazionale (con priorità per le donne); interventi per agevolare l’accesso al credito delle imprese artigiane (destinatari fino a 35 anni e con priorità per le donne); interventi regionali per lo sviluppo delle imprese minori (con priorità per le donne), ecc. Leggi analoghe si ritrovano in tutte le altre regioni dell’Italia settentrionale, come in Piemonte (ad esempio, la legge 67/94 che ha per destinatari le cooperative costituite in maggioranza da giovani tra 18 e 35 anni oppure da soggetti deboli del mercato del lavoro, cioè cassintegrati, lavoratori posti in mobilità, iscritti alla prima classe del collocamento, emigrati piemontesi, donne; la legge 22/97 che ha per destinatari nuove imprese di qualsiasi forma e settore costituite da giovani fra i 18 e i 35 anni, donne, emigrati piemontesi oppure soggetti deboli del mercato del lavoro iscritti alle liste di mobilità e disoccupati da almeno 2 anni; ) o in Liguria (ad esempio, le leggi n. 43 del 1994 e n. 107 NEOIMPRENDITORIALITÀ GIOVANI E IMPRENDITORIALITÀ L’ASSISTENZA ALLE NEOIMPRESE LE “DISTORSIONI” DELLE ATTUALI POLITICHE DI SVILUPPO 41 del 1995 rispettivamente di sostegno alla costituzione di nuove imprese e di sostegno all’occupazione e all’autoimprenditoria). È anche importante osservare come questa logica di politica sociale, più che di politica industriale, continui a ispirare anche le nuove e più recenti iniziative di molti attori istituzionali e sociali. Nell’ottobre 1998, ad esempio, l’Unione Industriale e l’Associazione delle aziende metalmeccaniche hanno dato vita a Torino ad un accordo con la IG S.p.a (Società per l’imprenditoria giovanile, a cui è affidata la gestione degli interventi previsti dalle leggi n. 44/86 e n. 236/93). È stato lanciato un “Progetto giovani” che prevede interventi per diffondere tra i ragazzi la cultura di impresa e del lavoro autonomo, utilizzando le apposite leggi di sostegno esistenti. “ In provincia di Torino, i giovani in cerca di occupazione – è stato detto dai promotori presentando l’iniziativa (Il Sole-24 Ore, 27 ottobre 1998) – sono 69 mila e rappresentano oltre il 60% della forza lavoro; il loro tasso di disoccupazione è pari al 24,2% e sale al 31,8% per le ragazze”: ecco trovata la ragione fondamentale dell’iniziativa avviata per promuovere lo spirito imprenditoriale fra i giovani, che avrebbero fra l’altro una potenziale forte vocazione all’autoimprenditorialità, se non all’imprenditorialità vera e propria. Va detto che quest’ultima convinzione, piuttosto diffusa, appare invece smentita da alcune ricerche empiriche, come, in particolare, quella recente del Cnel (II Rapporto sulla condizione giovanile elaborato dalla Consulta delle forze sociali giovanili e reso pubblico nel novembre 1998), dalla quale si ricava che pur di avere un lavoro dipendente un giovane su tre si accontenterebbe di qualsiasi forma di contratto e ben due su tre sarebbero disposti ad accettare qualsiasi orario, anche il più disagevole. Dall’indagine emerge che solo il 30% del campione aderisce all’idea del lavoro autonomo e che, in più, esso è visto da molti come un “ripiego”. Va ricordato che l’impegno in favore di una neoimprenditorialità assistita e incentivata è notevole in Italia anche sul piano delle strutture di supporto e dell’erogazione di servizi reali. Centri di servizio alle nuove imprese, Business Innovation Center (BIC), parchi scientifici e tecnologici, incubatori si sono moltiplicati negli anni in tutte le regioni, con una forte presenza in quelle settentrionali. Il solo sistema delle Camere di Commercio, molto impegnato in questo campo, aveva in piedi nel 1997 60 punti di accesso distribuiti sul territorio nazionale come “Servizio Nuove Imprese” (SNI); partecipava a 18 BIC; aveva dato vita a 90 iniziative di sensibilizzazione (seminari e convegni); rendeva disponibile un sistema di rilevazione della domanda di lavoro delle imprese (Progetto Excelsior) utilizzabile anche a fini di politiche di sostegno alla neoimprenditorialità. In Lombardia, per fare uno specifico esempio settentrionale, già dal 1994 è in atto il progetto “Creare la propria impresa in Lombardia” promosso dall’Unioncamere regionale, da quella nazionale e dall’Ente Regione, con 15 sportelli di informazione e orientamento dislocati sul territorio. Tutto questo fiorire di iniziative, che abbiamo brevemente e parzialmente delineato, soffre però – a nostro parere – di due tipi di “distorsioni” fondamentali, che andrebbero in prospettiva almeno corrette: la prima, già segnalata, è quella di essere ispirata più a strategie di politica sociale che di politica di innovazione e di sviluppo economico. 108 NEOIMPRENDITORIALITÀ Ne consegue un’alterazione di prospettiva: non conta principalmente quali imprese nascano, come nascano, se siano in grado davvero di stare da sole e in modo competitivo sul mercato, quanto e in quali tempi crescano, ma più semplicemente conta quante imprese nascano. Va osservato, a proposito di questo tipo di “distorsione”, che alcune ricerche empiriche realizzate proprio nell’Italia settentrionale confermano come non siano le cosiddette “categorie svantaggiate” quelle con maggiori potenzialità di successo imprenditoriale. Ad esempio, da una ricerca dell’IRES Piemonte svolta su un campione di imprese piemontesi nate dopo il 1985 e attive nel 1993 (appartenenti a vari comparti manifatturieri e di servizio) risulta che molto raramente i “nuovi imprenditori sono dei giovani e/o disoccupati”, e “quand’anche lo siano registrano tassi di sviluppo inferiori (…)” (Abburrà 1998). La seconda “distorsione” fondamentale sta nel fatto che i sostegni pubblici, in particolare finanziari, sono essenzialmente sostegni “all’entrata”. Come osserva uno dei maggiori studiosi italiani della neoimprenditorialità, Marco Vivarelli (1994, p. 126-127), “l’autorità sceglie di intervenire ex-ante e di finanziare iniziative verso le quali ancora non si conosce il responso del mercato (…) si sostituisce al mercato (…) infine non richiede un’impegnativa presa di responsabilità da parte del beneficiario…”. Si tratta, secondo Vivarelli, di una politica che non tiene sufficientemente conto del fatto che molti ingressi di nuove imprese possono essere mossi “da un semplice intento esplorativo della possibilità di essere ‘self employed’ piuttosto che da una convinta predisposizione agli affari” (p. 107). È utile ricordare, a questo proposito, come i “tassi di turbolenza” (somma dei tassi di natalità e di mortalità) siano particolarmente elevati in Italia rispetto alle medie europee e come, in connessione, siano particolarmente numerosi i casi di fallimento prematuro delle nuove imprese (vari studi sul fenomeno dello start-up imprenditoriale indicano un tasso di mortalità del 50% nei primi anni di vita; comparativamente, è significativo osservare come l’INSEE francese indichi un tasso di mortalità al 35% in tre anni per le neo-imprese di quel Paese). SUSSIDI ALLA NASCITA O ALLA CRESCITA? Dunque, si può concludere con Vivarelli, per il futuro appare necessario che l’autorità economica, nazionale o regionale, scelga “se erogare un sussidio alla nascita (con ciò rischiando di incentivare iniziative intrinsecamente fallimentari) o in momenti successivi alla nascita…” (p. 131). Si può fondatamente sostenere, a questo proposito, “l’opportunità di articolati piani di sostegno post-entry che tengano conto in qualche misura della razionalità della selezione di mercato…” (p. 131). Ciò appare, a nostro parere, tanto più opportuno per l’Italia settentrionale, dove il problema fondamentale non è certo quello di infittire ulteriormente il tessuto già eccezionalmente denso delle imprese, ma di farne crescere adeguatamente le dimensioni e il livello di capacità innovativa, contribuendo in questo modo allo sviluppo di nuove tecnologie, di nuovi mercati, di nuovi prodotti, senza i quali l’Italia settentrionale rischia nel nuovo secolo di perdere il passo con l’Europa e con il mercato globale che la circonda. 109 NEOIMPRENDITORIALITÀ Tab. 1 – Tassi di natalità (N), mortalità (M) e sviluppo (S) delle imprese al netto del settore agricolo per regione, 1995-1997* 1995 1996 1997 Regioni N M S N M S N M S Piemonte 17,6 16,2 1,3 14,2 7,9 6,3 8,1 8,5 -0,5 Valle d'Aosta 7,8 6,5 1,3 8,7 6,6 2,1 7,4 6,4 1,0 Lombardia 7,3 6,5 0,8 7,6 6,5 1,1 7,1 6,6 0,5 Trentino-A. A. 6,7 5,5 1,2 7,1 5,2 1,9 6,8 5,7 1,1 Bolzano 6,4 5,2 1,3 7,4 4,9 2,4 7,0 5,3 1,7 Trento 7,0 5,8 1,2 6,8 5,5 1,4 6,6 6,1 0,5 Veneto 8,1 6,2 1,9 8,0 6,6 1,5 7,8 6,9 0,9 Friuli-Ven. Giulia 7,7 7,0 0,7 7,6 6,9 0,7 7,4 7,3 0,1 Liguria 8,2 6,8 1,4 9,4 7,1 2,3 7,9 7,3 0,6 Emilia-Romagna 8,1 6,7 1,3 8,7 7,0 1,7 7,8 7,1 0,6 10,1 9,1 1,0 9,6 6,9 2,6 7,5 7,2 0,3 7,9 6,4 1,5 8,2 6,7 1,5 7,7 7,0 0,7 Nord Ovest Nord Est Centro 13,0 11,8 1,3 7,2 6,3 0,9 7,0 6,5 0,5 Sud-Isole 7,9 6,5 1,4 6,9 5,2 1,7 7,7 6,2 1,5 Italia 9,7 8,4 1,3 8,0 6,2 1,8 7,5 6,7 0,8 I tassi di natalità, mortalità e sviluppo sono calcolati rapportando iscrizioni, cancellazioni e il saldo tra iscrizioni e cancellazioni al totale delle imprese registrate. Le imprese sono computate al netto di quelle del settore agricolo interessate dai nuovi criteri di iscrizione. Fonte: rielaborazione da Censis su dati Infocamere (1997, 31° Rapporto; 1998, 32° Rapporto) Tab. 2 – Distribuzione delle imprese attive per settore e regione al 31/12/1997 (val. %) Regioni A** E M* C* S* NC* Tot Piemonte 21,4 13,3 11,8 52,4 1,1 100,0 Valle d'Aosta 26,9 8,8 15,9 46,4 1,9 100,0 Lombardia 9,7 18,4 13,0 58,4 0,6 100,0 Trentino-A. A. 36,1 10,3 10,2 42,5 0,8 100,0 Bolzano 37,1 10,5 8,8 43,0 0,5 100,0 Trento 35,0 10,2 11,7 42,0 1,2 100,0 Veneto 28,5 15,7 10,9 44,4 0,5 100,0 Friuli-Venezia Giulia 28,8 12,9 10,5 47,6 0,1 100,0 Liguria 14,0 10,9 12,9 61,8 0,5 100,0 Emilia-Romagna 24,6 14,6 11,0 49,6 0,2 100,0 13,9 15,9 12,7 56,7 0,7 100,0 Nord Ovest Nord Est 27,7 14,5 10,8 46,5 0,4 100,0 Centro 20,8 14,7 11,3 52,6 0,6 100,0 Sud-Isole 30,5 10,4 10,1 47,9 1,0 100,0 Italia 23,7 13,6 11,2 50,8 0,7 100,0 * A= agricoltura, caccia, foreste, pesca; EM= energia, estrazioni e manifatturiere; C= costruzioni; S= servizi ** I dati del settore agricolo risentono dei nuovi criteri di registrazione camerali. Fonte: rielaborazione da Censis su dati Infocamere (1998, 32° Rapporto) 110 NEOIMPRENDITORIALITÀ Tab. 3 – Imprese attive per 1.000 abitanti, 1996-1998 Imprese attive per 1.000 abitanti Regioni 1996 al 30-6-97 (a) 1997 al 30-6-97 (b) * Piemonte 80,8 90,4 90,4 90,8 Valle d'Aosta 83,2 109,6 109,2 107,9 Lombardia 73,8 80,0 79,8 79,4 Trentino-Alto Adige 73,4 105,3 104,9 105,2 Bolzano 74,6 119,8 111,7 112,7 Trento 72,2 106,7 98,2 97,9 Veneto 77,4 98,6 98,9 99,5 Friuli-Venezia Giulia 74,9 90,5 89,0 88,2 Liguria 70,8 80,0 80,6 80,5 Emilia-Romagna 80,7 102,9 102,5 101,5 Nord-Ovest 75,5 83,2 83,2 83,0 Nord-Est 78,0 99,9 99,7 99,5 Centro 65,4 77,8 77,9 78,1 Sud e isole 54,1 71,2 73,7 74,7 Italia 66,3 80,9 81,7 82,0 * Calcolata sulla popolazione residente al 28 febbraio 1998. Fonte: rielaborazione da Censis su dati Infocamere, Istat (1998, 32° Rapporto) (b) - (a) 0,4 -1,7 -0,6 -0,1 -7,1 -8,8 1,0 -2,3 0,5 -1,4 -0,2 -0,4 0,3 3,4 1,2 Tab. 4 – Struttura per classi dimensionali delle imprese private del settore non primario, 1996 Austria Belgio Danimarca Finlandia Francia Germania Grecia Irlanda Italia Lussemburgo Olanda Portogallo Spagna Svezia Regno Unito EU Islanda Liechtenstein Norvegia Svizzera non-EU Europa-19 Imprese Dimensione Classe di(*1000) media d’impre- mensionale sa (n. add.) dominante * 220 11 SME 800 5 Very small 230 7 SME 205 5 LSE 2085 7 LSE 3440 8 LSE 580 3 Very small 80 11 LSE 3345 4 Very small 15 12 SME 530 10 LSE 690 4 SME 2335 5 Very small 285 7 LSE 3760 5 LSE 18590 6 LSE 25 3 SME 3 6 Very small 185 6 SME 245 10 SME 460 8 SME 19050 6 LSE Produttività relati- Redditività relava del lavoro ** tiva *** SME LSE SME LSE 83 130 0 0 82 148 0 0 84 138 -4 5 79 126 -87 69 79 141 -8 8 103 95 -7 11 78 181 17 -27 68 131 1 0 79 184 -3 4 98 104 2 -4 85 124 -3 3 69 217 -23 28 66 230 -10 11 82 126 -5 5 87 120 -3 3 84 130 -6 7 109 69 -14 72 89 133 0 0 79 151 -14 18 83 135 -2 3 83 139 -7 9 84 131 -6 7 Un paese si definisce very small, SME (small and medium-sized) o LSE (large scale enterprises) se rispettivamente le imprese di piccola o media o larga scala possiedono la quota più larga sul totale degli occupati. ** La produttività del lavoro (valore aggiunto per soggetto occupato) è intesa come percentuale della media del paese. *** Differenza tra valore aggiunto e costo del lavoro (includendo i salari imputati al lavoro proprio) intesa come percentuale del valore aggiunto; risultato per classi dimensionali comparato con la media del paese. Fonte: Stima dell’EIM Small Business Research and Consultancy; adattato dall'Eurostat/DG XXIII: Enterprises in Europe, Fifth Report, Brussels/Luxembourg(97). 111 NEOIMPRENDITORIALITÀ BIBLIOGRAFIA Abburrà L. (1998), “Creare nuove imprese di successo in aree a rischio di declino. Un’indagine empirica tra letteratura economica e politiche pubbliche”, Economia&Lavoro, n. 2, pp. 49-72. Arcaini E., Arrighetti A., Vivarelli M. (1998), “Da impresa nasce impresa”, Impresa e Stato, n. 43, pp. 4-16. Balconi M., Moisello A, Mutinelli M. (1998), “La fine della polarizzazione: le caratteristiche e la crescita dei gruppi medi italiani”, Economia e politica industriale, n. 97, pp. 25-77. Belussi F., Pozzana R. (a cura di) (1995), Natalità e mortalità delle imprese e determinanti dell’imprenditorialità, Milano, Franco Angeli. Bianco M., Sestito P. (1993), “Entrate, uscite e struttura di mercato: una rassegna della letteratura”, L’industria, 14, 1, pp. 87-108. Bologna S., Fumagalli A. 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Teorie e verifiche empiriche, Milano, EGEA. 112 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE Giuseppe Russo* e Giampaolo Vitali** LE SPECIALIZZAZIONI DELL’INDUSTRIA ITALIANA NEL CONTESTO INTERNAZIONALE – L’INDUSTRIA “TRADIZIONALE” NEL NORD ITALIA: ALCUNE SPECIALIZZAZIONI SETTORIALI – L’EVOLUZIONE DI LUNGO PERIODO DELLA OCCUPAZIONE INDUSTRIALE NEL NORD ITALIA (1951-91) – LA RIDUZIONE DI OCCUPATI MANIFATTURIERI NELL’ITALIA DEL NORD: DEINDUSTRIALIZZAZIONE O RIORGANIZZAZIONE DELLE FASI PRODUTTIVE? – IL RUOLO DELLE DIMENSIONI D’IMPRESA NELL’INFLUENZARE LA COMPETITIVITÀ INDUSTRIALE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE – LA CREAZIONE DEL VALORE NELLE REALTÀ AZIENDALI DEL NORD ITALIA – L’ORGANIZZAZIONE PRODUTTIVA DEL SISTEMA INDUSTRIALE DEL NORD ITALIA – I SEGNALI POSITIVI NEL CONTESTO DI MAGGIORI RISCHI E OPPORTUNITÀ – BIBLIOGRAFIA LE SPECIALIZZAZIONI DELL’INDUSTRIA ITALIANA NEL CONTESTO INTERNAZIONALE Quali sono i tratti caratteristici dell’industria italiana? Le sue specializzazioni settoriali sono sufficienti a garantirne la competitività nel contesto europeo? E se no, su quali altri vantaggi competitivi essa può contare? Intanto, è bene chiarire perché affrontiamo l’argomento del futuro dell’industria settentrionale partendo da alcune considerazioni sul complesso dell’industria nazionale. Per opportunità, innanzi tutto, poiché la mole di informazioni sulle industrie nazionali europee è assolutamente maggiore rispetto alle informazioni sui settori regionali. Ma anche perché per approssimazione poi non eccessiva, il cuore dell’industria nazionale sta nell’Italia centro-settentrionale (79,9 per cento degli addetti nazionali). La maggior concentrazione industriale si trova nel Nord Ovest, che con il 26 per cento della popolazione occupa il 37 per cento degli addetti industriali, seguito dal Nord Est, che dà lavoro a un ulteriore 24 per cento degli occupati del settore secondario (contenendo una popolazione pari al 18 per cento del complesso nazionale). Avvertiamo poi che in questo paragrafo ci comporteremo con trasparenza nell’esposizione dei dati, ma non cureremo, per mancanza di spazio in questo primo lavoro, tutti gli aspetti caratteristici dell’industria italiana. In altri termini, vogliamo darne acquisiti e scontati i punti di forza, in prevalenza risiedenti nel modello organizzativo, settorial-territoriale dei “distretti industriali”, più volte guardato come un esempio da imitare. Pure apprezzandone il valore, temiamo che nel tempo questo modello sia andato sovraccaricandosi di aspettative, sia da parte degli operatori, sia soprattutto dai decisori di politica economica. Noi nutriamo il dubbio che i vantaggi competitivi scaturenti dalle specializzazioni distrettuali possano – da soli – rimediare agli svantaggi e alle debolezze eventualmente emergenti in altri campi. UNA SCARSA DINAMICA DELLA PRODUZIONE INDUSTRIALE ITALIANA NEGLI ULTIMI 5 ANNI A prova di questo argomento vi è l’evidenza dei dati. Abbiamo messo a confronto le variazioni percentuali osservate dagli indici della produzione industriale dei maggiori paesi industrializzati (Unione Europea, Stati Uniti e Canada) tra il 1993 e il 1998, ossia nell’ultimo quinquennio. La fonte dei dati è Eurostat. La scelta del periodo non è stata casuale. Nel 1993 l’Italia usciva * Centro “Luigi Einaudi”, Torino Ceris-Cnr, Torino ** INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE dalla crisi della lira del 1992, la svalutazione ripristinava un valore della nostra divisa coerente con le parità dei poteri di acquisto e si compensava lo svantaggio competitivo che, negli ultimi anni, aveva penalizzato la produzione interna. Ebbene, tra il 1993 e il 1998, nonostante il recupero di competitività di prezzo del “made in Italy”, la produzione industriale italiana ha fatto segnare la variazione percentuale più bassa in Europa. Il nostro +13 per cento è in “buona compagnia”, se si considera che né il Regno Unito, né l’Olanda avrebbero saputo fare meglio. Ma trascuriamo il fatto che nel Regno Unito si è avuto una parallela crescita del comparto dei servizi, e che anche l’Olanda ha puntato sui servizi e sulla esportazione del suo modello d’impresa. Le multinazionali olandesi sono state nell’ultimo decennio, particolarmente nei servizi, i veri modelli da imitare. In Italia l’industria ha segnato il passo senza che i servizi andassero oltre un semplice consolidamento. Come dire che “abbiamo fatto il compitino” richiesto dall’Unione europea, ma abbiamo osato poco o nulla di più. Fig. 1 – Produzione industriale nei principali paesi industrializzati (variazione 1983-93) Produzione industriale (var. % 1993-'1998) 120,0 100,0 104 80,0 60,0 40,0 48 20,0 0,0 13 13 13 14 15 16 PT FR 16 17 17 18 BE GR EF MU 21 23 26 27 29 49 31 0 JP NL IT UK DE LU AT US DK NO ES S1 SE FI IR Fonte: Eurostat Le ragioni dello scarso dinamismo dell’industria nazionale sono diverse: ma prima di chiamare in causa complicati concetti organizzativi e i limiti del nostro capitalismo, per decenni incline, e in parte obbligato, a schivare la concorrenza del mercato internazionale dei capitali, piuttosto che a misurarsi con essa, possiamo incominciare a riflettere sulle nostre specializzazioni settoriali. Si tratta di specializzazioni tradizionali, che, purtroppo, non hanno saputo rinnovarsi. 114 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE LE SPECIALIZZAZIONI DELL’INDUSTRIA ITALIANA SU TUTTI: PELLE, CUOIO, CALZATURE, TESSILI E ABBIGLIAMENTO PRODOTTI IN METALLO, MECCANICA E BENI STRUMENTALI: SPECIALIZZATI, MA IN BUONA COMPAGNIA IL SETTORE DEI MOBILI: IL PESO DELLO STILE LA RITIRATA DELLA CHIMICA E DELL’ELETTRONICA Il front end dell’industria italiana, quella che si trova ogni giorno a sostenere una concorrenza continentale e globale sempre più agguerrita, è caratterizzato da un’ampia presenza di prodotti e produttori tradizionali, da una limitata quota, pur crescente, di beni ad alta tecnologia, da una ridotta presenza, nonché stabile, di prodotti e produttori che impiegano un contenuto input di capitale. Attingiamo l’evidenza per sostenere queste affermazioni dalle fonti internazionali. Gli indici di specializzazione della tabella 1 parlano chiaro. Quelli italiani superano il valore di equilibrio di 100 (ossia il valore che indica una presenza settoriale omogenea con la media dei paesi appartenenti all’Ocse) nei settori della pelle, del cuoio, delle calzature, nei settori tessile e dell’abbigliamento. In questi stessi settori la presenza industriale di paesi come la Germania e il Regno Unito è specularmente più bassa, con indici di specializzazione inferiori al livello di equilibrio. L’Italia mostra poi una specializzazione nell’industria dei prodotti in metallo, della meccanica non elettrica ed elettrica, in quella dei beni strumentali. Il che sarebbe un punto di forza del sistema industriale italiano, dato che questi settori sono tradizionalmente fortemente esportatori, se non fosse che il nostro indice di specializzazione di 143 è tallonato dal 134 della Germania, dal 130 dell’Austria, dal 129 finlandese e superato dal 145 danese. Il che riporta “la palla al centro”, e fa vedere come alcuni dei ricorrenti punti di forza nazionali non sono che situazioni di parità, non appena si restringa il confronto ai paesi di punta tra quelli concorrenti. Inoltre, non si deve dimenticare che anche il Giappone ha un coefficiente di specializzazione elevato nei beni strumentali (117), avendo in termini di volumi una “bocca di fuoco”, ossia una capacità produttiva che da sola sfiora la metà di quella dell’intera Unione Europea. Il mercato mondiale dei beni strumentali, necessariamente in crescita con lo sviluppo mondiale, incomincia poi ad attrarre i migliori tra i paesi emergenti. Come la Corea del sud, che sembra seguire da vicino il pattern di sviluppo settoriale nipponico, e si appresta a divenire un concorrente agguerrito nelle macchine utensili, come è già nel campo automobilistico. L’ultimo dei settori dove la specializzazione italiana è significativamente superiore a quella media nei paesi Ocse è quello dei mobili, il che in parte ci accomuna ad alcuni paesi avvantaggiati per l’ampia disponibilità di legname (Finlandia e Svezia, in primis), e in parte ci vede apparentati agli ultimi paesi entrati a fare parte dell’Unione Europea (Spagna e Portogallo), nei confronti dei quali il vantaggio competitivo italiano risiede nell’elemento aggiuntivo stilistico, il che vale non per tutto il mercato dell’arredamento, ma per la fascia alta del mercato. Tuttavia, nonostante l’indubbia buona salute del settore del legno, anche recentemente confermata nelle statistiche nazionali, difficilmente l’arredamento potrebbe fornire quello slancio di creazione di posti di lavoro ben remunerati cui la nostra economia aspirerebbe. Per questi ultimi bisogna rivolgersi, come è noto, ai settori a maggiore intensità di capitale, di innovazione, di lavoro qualificato, ma in questi settori la presenza italiana è sotto la media Ocse. I coefficienti di specializzazione rivelano, per esempio, che siamo sottopesati (98,5) nella chimica, che lasciamo nelle mani dei francesi (133), dei belgi (126), degli olandesi (159), dei tedeschi (108), dei britannici (127). Siamo poco presenti nell’elettronica da ufficio (90,8). La riconversione del 115 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE distretto di Ivrea dall’elettronica alle telecomunicazioni evidenzia una storia di successo solo a metà, poiché le telecomunicazioni emergenti sono nate sull’appassimento di un intero distretto dove nella metà degli anni Ottanta si concepivano e producevano personal computer di livello tecnologico pari allo “stato dell’arte” mondiale. L’uscita italiana dalla chimica e dall’elettronica sono storie parallele che si associano strettamente alle vicissitudini di due delle maggiori imprese italiane (Montedison e Olivetti1), e che fanno riflettere come per decenni la storia industriale d’Italia sia stata legata alla storia di pochi soggetti. Sotto questo profilo, la vicenda dei distretti, cresciuti al di fuori della logica dei maggiori gruppi italiani, è senza dubbio una storia da sottolineare positivamente, non solo per aver saputo inventare e vendere prodotti e creare lavoro anche quando le maggiori imprese ristrutturavano o chiudevano, ma anche per averlo saputo fare con tutte le limitazioni e i razionamenti, particolarmente del capitale finanziario, che hanno caratterizzato lo sviluppo delle Pmi italiane negli anni passati. Ovvio, peraltro, che in queste condizioni non si potesse attendere che le imprese dei distretti si specializzassero pure nelle produzioni che richiedevano intensità di capitali, intensità di ricerca, o fattori di scala significativi. AUTO, BIOMEDICA E STRUMENTI DI PRECISIONE: UNA SPECIALIZZAZIONE INFERIORE ALLA MEDIA OCSE Un settore nel quale l’industria nazionale è nuovamente sotto-pesata è, quasi a sorpresa, quello automobilistico, ossia un campo di tradizionale vocazione storica (e sportiva) dell’industria nazionale. In Italia si producono appena 1,3 milioni di vetture all’anno, contro gli 1,8 milioni del Regno Unito, i 2,1 milioni della Spagna, i 2,6 della Francia, e i 5,2 milioni delle autovetture prodotte in Germania. Infine, pesa, tra i fattori di debolezza, la pallidissima presenza italiana nel campo degli strumenti di precisione e delle tecnologie biomedicali: il relativo indice di specializzazione è 51,6, contro il 90,8 del Regno Unito, il 102 della Germania, il 154 degli Usa. 1 La rapidità della crisi dell’Olivetti è impressionante, quanto quella del suo primo successo e dell’esito positivo della sua riconversione. Una riconversione che segna però anche l’uscita italiana dal settore dei computer. Nel 1987 l’impresa era ancora fortemente in crescita e attiva nei merger internazionali: l’azienda era protagonista di joint ventures (JV) con società del rango di Eds (USA), Seat (I), Microsoft (USA), acquistava partecipazioni rilevanti o di controllo in Ibimaint, in Systema (I), Olamtel (SP, telecomunicazioni), Logos (I). Nel settembre del 1988 si riorganizza in quattro divisioni, e quasi contemporaneamente annuncia di varare una strategia di espansione nelle comunicazioni cellulari insieme a Cellular Communication e Shearson Lehman. Nel 1989 annuncia nuove JV e si lancia in operazioni diversificate internazionalmente, riacquista la quota di ATT, ma annuncia anche la chiusura di Hermes. Il 1990 è il primo anno del deterioramento. Pochi annunci nella prima parte dell’anno, ma verso la fine ci sono le dimissioni “per divergenze” di Tatò (AD di Olivetti Office) e l’annuncio del taglio di 7000 posti (4000 riguardano l’Italia). Nel 1991 cede Olinet a France Telecom. Alla fine dell’anno Carlo De Benedetti assume tutte le deleghe e concentra i poteri gestionali. Sono previsti 2500 tagli nel 1992. Corrado Passera affianca C. De Benedetti. Tra il ‘93 e il ‘94 la società cede il controllo di Teknecomp, di Radiocor, di Triumph Adler. Nel 1995, anno di nascita di Infostrada, Olivetti chiede denaro fresco al mercato e annuncia altri 5000 tagli. La strategia di riconversione nel settore delle telecomunicazioni è decisa, ma i business in perdita, come quello dei PC, pesano quasi insostenibilmente sui conti. La situazione precipita nel 1996, quando De Benedetti è costretto a cedere tutte le cariche. La società “consuma” due AD prima di finire nelle mani di Colaninno. Le cessioni non sono terminate. Omnitel, appena nata, è parzialmente ceduta a Mannesmann. France Telecom entra in Infostrada. Le attività informatiche sono cedute a Wang e quelle nei PC a una nuova società (Piedmont), che tuttavia al 1999 non ha ancora risalito la china. Le telecomunicazioni dell’Olivetti producono utili, e la società – alleggerita dei rami in perdita – è nuovamente in nero prima di ogni favorevole previsione, tanto da lanciarsi, attraverso la controllata Tecnost, nell’Opa vittoriosa su Telecom. Dell’originaria vocazione nell’industria dei computer non c’è quasi più traccia, consumata in meno di dieci anni. 116 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE UNA VISIONE DINAMICA DELLE SPECIALIZZAZIONI DELL'INDUSTRIA ITALIANA ALCUNE IPOTESI INTERPRETATIVE Se si passa dalla fotografia delle specializzazioni, che evidenziano una struttura che potremmo definire come molto tradizionale, alla visione dinamica dei fenomeni descritti, sia pure con un certo grado di aggregazione delle variabili, ecco emergere un quadro in movimento non così rassicurante: • la presenza relativa di imprese ad alta intensità di capitale è andata costantemente diminuendo fin dai primi anni Novanta. Le imprese capital intensive, rappresentano il 27 per cento del totale, secondo l’Eurostat, 8 punti in meno del Regno Unito, 10 in meno rispetto alla Germania e 5 in meno rispetto ai valori italiani di dieci anni fa, rispetto ai quali siamo in regresso; • l’high tech in Italia è andato crescendo in dieci anni dal 7 al 9,5 per cento dell’industria, ma il peso di quello francese è dell’11,5 e di quello britannico è del 12,5 per cento; • i flussi di investimenti diretti all’estero e dall’estero sono particolarmente modesti. Nei primi ci superano la Germania e la Francia, che fin dal 1994 hanno dimostrato una maggiore comprensione della incombente realtà di un mercato europeo più grande, nel quale occorreva che le industrie nazionali più competitive si muovessero in anticipo per conquistare le posizioni. Non siamo però neppure particolarmente attraenti come “piattaforme di atterraggio” di investimenti dall’estero, i quali sembrano preferire la Spagna e il Regno Unito. Tutto questo suggerisce alcune riflessioni, che riprenderemo dopo avere esaminato in maggiore dettaglio l’industria del Nord Italia. Per il momento ci sembra di potere avanzare le seguenti ipotesi: a) non vi è stato un radicale cambiamento delle specializzazioni dell’industria italiana in accordo con la domanda mondiale di prodotti e servizi a forte contenuto tecnologico e innovativo, in grado di remunerare con un premio di prezzo i fattori che li producono; b) il mantenimento delle specializzazioni tradizionali è stato realizzato pagandone il costo in termini di “dimagrimenti produttivi e occupazionali”, piuttosto sensibili, non compensati da una pari crescita di settori e vocazioni nuove; c) il fenomeno dei “distretti” ci pare un eccellente esempio di “adattamento” imprenditoriale e territoriale a una serie di vincoli del sistema, e in particolare al “razionamento finanziario” delle Pmi, alla carenza di intermediari di capitale di rischio, alla dotazione limitata di risorse umane ad elevata formazione (certi livelli di competenze sono infatti più semplici da mantenere all’interno di un distretto, anche senza percorsi formativi ad hoc); d) il fenomeno dei distretti, tuttavia, non sarebbe in grado di svolgere tutte le funzioni dell’innovazione. In particolare, l’innovazione dei distretti è incrementale, e la nascita di nuove vocazioni è improbabile, se non nell’intorno di quelle esistenti. Una strategia di migrazione settoriale verso campi nuovi, come quello della multimedialità o dell’Internet business, difficilmente può nascere dai distretti storici d’Italia. Allo stesso modo, i distretti di Pmi possono supplire alle strozzature dimensionali quando si tratti di produrre, ma non quando si tratti di “concepire e realizzare strategie di crescita a scala globale”. Il limitato numero dei global player italiani, e il loro concentrarsi, nello scorso decennio, nelle strategie di sopravvivenza anziché in quelle di espansione, è responsabile dello scarso peso del capitalismo italiano nel capitalismo europeo e mondiale. 117 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE L’INDUSTRIA “TRADIZIONALE” NEL NORD ITALIA: ALCUNE SPECIALIZZAZIONI SETTORIALI IL PESO DEL “MADE IN ITALY” … … IN UN’ANALISI DI LUNGO PERIODO GLI ALIMENTARI E LE BEVANDE LA FILIERA DELLA MODA Per mettere in luce le peculiarità del sistema industriale del Nord Italia si è in primo luogo esaminato il ruolo del comparto “tradizionale”, definito come il macro-settore che comprende al suo interno le industrie tipiche del cosiddetto “made in Italy”, e cioè quelle industrie in cui le imprese italiane hanno mostrato, fino a oggi, un elevato vantaggio competitivo a livello internazionale. Tali industrie sono quelle in cui si sono specializzati i distretti del Nord Italia: il tessile, con Biella e Como; l’abbigliamento, con Carpi, Castelgoffredo, la Lomellina, l’Oltrepo’ Mantovano; le calzature, con Vigevano, Montebelluna, la Riviera del Brenta, San Mauro Pascoli; l’alimentare, con San Daniele, Parma, Alba, Modena; il legno e il mobilio, con l’Alto Livenza, Forlì, Saluzzo, Cantù; la lavorazione dei minerali non metalliferi, con Sassuolo, Castellamonte, la Valpolicella, Murano, Possagno, la Val di Cembra, Val Fontana Buona; il comparto residuale delle “altre industrie manifatturiere”, che comprende anche i giocattoli (Canneto sull’Oglio), i pennarelli (Settimo Torinese), i gioielli (Valenza Po e Vicenza). Per sottolineare il carattere strutturale dell’analisi, distinguendolo dall’approccio “congiunturale”, si è deciso di usare dati di lungo periodo, grazie alla recente pubblicazione di statistiche omogenee dei censimenti industriali che coprono il periodo 1951-1991, nonchè al loro aggiornamento tramite il censimento intermedio del 1996. Alcuni dati derivati dalle rilevazioni dell’Istat relative ai conti economici regionali, completeranno la fonte delle nostre informazioni. Si esamini il peso di ciascun settore del “made in Italy” nell’Italia del Nord: • la tabella 2 mostra come gli alimentari e le bevande rappresentino l’8% dell’occupazione manifatturiera al 1996. Si tratta di un settore nel quale il vantaggio competitivo si è tradizionalmente basato su fattori non di prezzo, come la qualità e la pubblicità, ed in cui le imprese italiane hanno la possibilità di vincere la concorrenza internazionale nonostante le loro ridotte dimensioni. Ed è proprio a causa di tali ridotte dimensioni che le imprese leader italiane sono persino rimaste “vittime del proprio successo”, nel senso che buone parte di esse sono state acquisite dalle grandi multinazionali estere in virtù della loro elevata visibilità e potenzialità di crescita. I casi di Galbani, comprata dalla francese Danone, Martini & Rossi, acquisita dalla Bacardi, Cinzano, appartenente al gruppo Remy Martin, Buitoni, entrata nel gruppo Nestlè, sono solo alcuni degli innumerevoli esempi di imprese dell’Italia settentrionale che hanno potuto crescere grazie all’utilizzo delle risorse finanziarie, e distributive, dei grandi gruppi internazionali; • la filiera della moda, con i comparti del tessile, abbigliamento, calzature e pelli-cuoio, rappresenta un altro tipico settore dell’Italia settentrionale, essendo il suo peso in termini occupazionali pari al 16% del sistema industriale del 1996 (vedi tabella 2). Nel settore della moda i vantaggi per l’impresa settentrionale sono legati alle innovazioni organizzative, cioè all’uso del decentramento produttivo nazionale o internazionale, più che alle innovazioni tecnologiche. Anche questo settore, come il precedente, è fortemente polarizzato tra pochi grandi leader, che hanno comunque una dimensione relativamente piccola se confrontata con quella media europea, e tantissimi piccoli imprenditori, che in buona parte non possie- 118 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE L’INDUSTRIA DEI • MOBILI E DELLA LAVORAZIONE DEL LEGNO I MINERALI NON • METALLIFERI LE ALTRE INDUSTRIE MANIFATTURIERE UNA STRETTA INTERDIPENDENZA TRA IL “MADE IN ITALY” E IL COMPARTO DEI MACCHINARI INDUSTRIALI • dono un marchio proprio e producono per le grandi firme. La filiera della moda è il tipico comparto che trae rilevanti vantaggi dalle economie esterne presenti nei distretti italiani (Ceris-Cnr, 1997); come il caso precedente, anche l’industria dei mobili e della lavorazione del legno ha una lontana e solida presenza nell’Italia del Nord grazie all’accumulo di competenze originatesi sin dall’inizio della rivoluzione industriale. Nell’attuale struttura industriale il settore del legno rappresenta quasi l’8% del totale manifatturiero e mostra una configurazione produttiva basata sulla qualità della produzione finale; produzione che si lega alle innovazioni dello stile, alla deverticalizzazione del ciclo produttivo per fasi di lavorazione (vedi il penultimo paragrafo di questa scheda), nonché all’introduzione di nuovi materiali di arredamento (è un tentativo, talvolta riuscito, di inserire innovazioni di prodotto); i minerali non metalliferi rappresentano una nicchia di mercato in cui le imprese settentrionali hanno accumulato una buona esperienza rivendibile a livello internazionale. All’interno di questo comparto, merita sottolineare il ruolo dell’industria della produzione di ceramiche, ove le esportazioni italiane rappresentano una rilevantissima quota delle esportazioni mondiali. È altresì importante rilevare come il vantaggio competitivo in tutto il settore non derivi tanto dalla presenza della materia prima in loco (le cave pre-alpine di pietra o di granito), quanto dall’organizzazione produttiva delle imprese italiane e dall’innovazione di prodotto tramite gli strumenti della moda e del design; nel comparto residuale delle altre industrie manifatturiere sono anche presenti alcuni comparti tradizionali comunque importanti per l’Italia settentrionale: si tratta dell’industria dell’oreficeria e di quella dei giocattoli. Soprattutto nel primo caso, il vantaggio competitivo deriva da fattori non-price, quali la moda ed il design: anche in questo caso, l’importazione di materie prime e la riesportazione di prodotti ad elevato valore aggiunto sono la conferma del know-how posseduto dalle imprese italiane. In generale, merita poi sottolineare come il comparto tradizionale, qui esaminato nei suoi dettagli infra-settoriali, mostri uno stretto legame di interdipendenza con il comparto a medio-alta tecnologia dei macchinari industriali. Il rapporto di interdipendenza si manifesta sia dal lato della elevata domanda proveniente dagli utilizzatori di macchinari (le industrie tessili, alimentari, del legno ecc.), sia dal lato dell’offerta dei produttori di macchine innovative e ad alta produttività, che favorisce la competitività degli utilizzatori nazionali rispetto agli esteri. Tale interdipendenza è evidente anche a livello distrettuale, in quanto ovunque vi sia una leadership nei settori tradizionali si nota una pari leadership internazionale nel corrispondente comparto dei macchinari: i produttori di macchine per gli alimentari e le bevande, di quelle per i tessili, di quelle per la lavorazione della pietra ecc. sono particolarmente presenti nelle regioni settentrionali, e proprio nelle aree distrettuali in cui si concentrano le imprese del “made in Italy”. Tale fatto indica come siano positive le sinergie tra utilizzatori e produttori di macchinari in termini di efficienza d’impresa e di innovazione di prodotto. 119 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE L’EVOLUZIONE DI LUNGO PERIODO DELLA OCCUPAZIONE INDUSTRIALE NEL NORD ITALIA (1951-91) I SETTORI TRADIZIONALI: UN PESO STABILE NELL’EVOLUZIONE DELL’INDUSTRIA MANIFATTURIERA UNA DUPLICE LETTURA DELL’IMPORTANZA DEI SETTORI TRADIZIONALI DEL NORD ITALIA I dati Istat consentono di esaminare l’evoluzione del sistema industriale dell’Italia del Nord nel corso degli ultimi 50 anni: la tabella 3 mostra come dal 1951 al 1996 l’industria manifatturiera del Nord Italia sia cresciuta, da 2.464.000 occupati a 3.254.000, pur non mostrando un percorso di crescita lineare. Infatti, dopo un crescita rapidissima dal 1951 al 1981, negli anni successivi si avverte un calo della presenza manifatturiera. Tale calo ha sollevato un intenso dibattito sul futuro “industriale” del Nord Italia e sulla sua evoluzione verso le configurazioni tipiche dell’era post-industriale (vedi infra). A questo riguardo è interessante sottolineare come l’andamento dei settori tradizionali segua un percorso abbastanza simile all’evoluzione dell’industria manifatturiera. Anche se dal 1951 al 1981 i settori tradizionali aumentano di meno della crescita dell’intera industria manifatturiera e dal 1981 al 1996 il loro calo è leggermente maggiore di quello che registra il manifatturiero nel suo complesso (tabella 4), il loro peso si mantiene più o meno stabile negli ultimi trent’anni (intorno al 39%). Stesse affermazioni valgono per il peso dei settori tradizionali del Settentrione rispetto al sistema industriale nazionale: la tabella 5 indica che esso si mantiene nell’intorno del 60%. L’importanza che i settori tradizionali ancora possiedono in un’area ad alta industrializzazione qual è il Nord Italia si presta a una duplice lettura: da un lato, è un indice della difficoltà di emersione di imprese/settori innovativi, dall’altro, rivela una non comune capacità dell’industria italiana di concepire e applicare innovazioni di processo e organizzative cost reducing, che sono comunque alla base della competitività di ogni sistema economico. Per quanto riguarda la composizione interna al macro-comparto tradizionale, non si segnalano rilevanti cambiamenti di peso nel corso del tempo. Nell’Italia settentrionale, l’industria degli alimentari e delle bevande cresce leggermente tra il 1961 ed il 1996; quella della moda stabilizza il proprio peso intorno al 16-18% del totale manifatturiero, dopo aver perso notevole importanza negli anni precedenti; il comparto dei mobili mantiene la buona posizione raggiunta nel 1981. LA RIDUZIONE DI OCCUPATI MANIFATTURIERI NELL’ITALIA DEL NORD: DEINDUSTRIALIZZAZIONE O RIORGANIZZAZIONE DELLE FASI PRODUTTIVE? IL PROCESSO DI DEINDUSTRIALIZZAZIONE Il forte calo mostrato dall’industria manifatturiera del Nord Italia nel suo complesso tra il 1981 ed il 1996 è stato talvolta interpretato come l’indicazione dell’esistenza di un processo di “deindustrializzazione”. Dal punto di vista della teoria economica, con questo termine si intende il processo di impoverimento continuo e irreversibile di un’area industrializzata per quanto attiene l’ammontare della produzione industriale prodotta in loco ed il numero di lavoratori occupati nelle imprese corrispondenti. Il termine deindustrializzazione fu introdotto nella letteratura anglosassone negli anni Sessanta, periodo di forte ristrutturazione e riconversione dell’industria inglese, anche se il vero e proprio periodo di deindustrializzazione il Regno Unito lo visse più tardi, negli anni Settanta ed Ottanta, con il passaggio verso l’economia finanziaria e dei servizi. 120 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE I DUBBI SULL’ATTUALE IDENTITÀ INDUSTRIALE DEL NORD ITALIA SPIEGAZIONI “OTTIMISTICHE” DEL CALO DI OCCUPAZIONE MANIFATTURIERA GLI EFFETTI DELLE INNOVAZIONI LABOUR SAVING L’OUTSOURCING DELLE FUNZIONI DI SERVIZIO DALL’IMPRESA MANIFATTURIERA Con riferimento al “caso Nord Italia”, nel corso degli anni Settanta si è parlato di deindustrializzazione soprattutto nelle regioni del Nord-Ovest – in Piemonte, Lombardia e Liguria – quando le pessime relazioni industriali di allora comportavano l’ingovernabilità dei maxi-sistemi produttivi che, associata all’esplosione dei prezzi delle materie prime, ponevano seri dubbi sul modello di sviluppo del sistema industriale (Vitali, 1989). Recentemente, il termine deindustrializzazione è stato anche utilizzato per descrivere l’evoluzione dell’industria del Nord-Est (Benincasa, 1998). Comunque, i dubbi sull’identità industriale dell’Italia settentrionale derivano oggi dalla sua minore attrattività di iniziative industriali, nazionali o estere, e dalla mancata sostituzione delle industrie rese obsolete dall’evoluzione tecnologica con le nuove industrie ad alto contenuto di ricerca e innovazione. Parziali conferme del processo di deindustrializzazione in atto nascono dalla constatazione che le imprese “innovative” non vengono localizzate nell’Italia del Nord-Ovest, ma in altre regioni europee, evidenziando un “deficit” di rigenerazione imprenditoriale dell’area da cui il mercato sta eliminando le produzioni obsolete. È anche possibile, in un’ottica ottimistica, che il calo di occupati manifatturieri possa essere semplicemente l’effetto del progresso tecnologico laboursaving, che a parità di output prodotto necessita di minori input di forza lavoro, o dell’esternalizzazione delle attività di servizio precedentemente internalizzate dalla grande impresa manifatturiera2. Nel primo caso, il cambiamento tecnologico ha favorito le innovazioni di processo, aumentando eccezionalmente la produttività del fattore lavoro e l’intensità di capitale nell’impresa: le innovazioni labour-saving introdotte dagli anni Ottanta rendono strutturalmente in esubero la manodopera organizzata in schemi produttivi ormai superati dall’introduzione della lean production. La bassa presenza di innovazioni di prodotto non ha creato nuovi mercati di sbocco sufficienti ad assorbire la perdita di occupazione generata dagli incrementi di efficienza del sistema, favorendo quindi un saldo occupazionale negativo. La mancanza di nuovi business si è associata alla saturazione dei mercati tradizionali, la maggior parte dei quali sono ormai di “sostituzione” e non più di “primo acquisto”. Le nuove forme organizzative della lean production, nate dall’unione dell’innovazione tecnologica e di quella organizzativa, richiedono personale più qualificato, ma in minor quantità rispetto alle strutture tradizionali (Gros-Pietro, 1994). Nel secondo caso, a fronte di un’esternalizzazione delle funzioni di servizi dall’impresa manifatturiera, si assiste anche ad un aumento della quantità di servizi che la produzione manifatturiera stessa richiede. Il contenuto di servizi presente nel manufatto industriale tende ad aumentare per cause tanto esogene quanto endogene al sistema produttivo. Con le prime intendiamo la maggiore complessità della società e del governo dei mercati che comporta maggiori oneri burocratici e specialistici (ad esempio, per la politica fiscale, ambientale, del lavoro ecc.). Con le seconde ci riferiamo alla necessità di dotare il prodotto manufatto di tutta una serie di elementi “immateriali” acquisibili solamente sul mercato del cosiddetto “terziario avanzato”: si tratta so2 È il fenomeno di outsourcing delle funzioni di servizi dall’impresa manifatturiera a favore di imprese specializzate nella prestazione di tali servizi a prezzi inferiori. 121 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE prattutto di particolari servizi a supporto delle vendite e che generalmente non possono essere prodotti all’interno dell’impresa, quali i servizi finanziari per il credito al consumo, i servizi di manutenzione, di installazione e di assistenza post-vendita, le attività di pubblicità e di promozione ecc. Il dibattito tra gli economisti è quindi aperto tra chi prevede la deindustrializzazione del Nord Italia, con un abbandono delle produzioni “tradizionali” e la mancata nascita delle produzioni innovative, e tra chi prevede una sostanziale tenuta delle produzioni manifatturiere e la maggiore importanza dei “servizi avanzati” per il sistema manifatturiero stesso. Entrambe le interpretazioni sono però coerenti con gli effetti individuati nella tabella 3: una perdita di addetti nei settori tradizionali e nell’intero sistema industriale. IL RUOLO DELLE DIMENSIONI D’IMPRESA NELL’INFLUENZARE LA COMPETITIVITÀ INDUSTRIALE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE L’evoluzione del numero delle unità produttive nel corso del tempo mostra una sorta di ciclicità, tanto nell’industria manifatturiera settentrionale, che nell’aggregato dei soli settori tradizionali (tabella 6). Il ciclo dal 1981 al 1996 è chiaramente basato sulla riduzione di tale numero, invertendo la tendenza precedente. Il confronto tra l’evoluzione mostrata dagli addetti e quella assunta dalle unità locali utilizzate nella produzione si sintetizza nella dimensione media aziendale. Negli anni Novanta si arresta, in pratica, il trend di riduzione del numero di addetti per unità produttiva, calo iniziato dal 1971 (tabella 7). Si può pertanto affermare che il tasso di contrazione delle dimensioni medie si è fortemente ridotto, anche se non si è ancora annullato. Tale evoluzione è in parte il frutto delle modifiche organizzative introdotte dalle imprese settentrionali. ANNI SETTANTA E OTTANTA: IL VANTAGGIO DELLA PICCOLA DIMENSIONE Merita infatti ricordare, come negli anni Settanta e in quelli Ottanta l’adeguamento delle imprese alle incertezze dei mercati (di approvvigionamento e di sbocco) è reso difficile dalle forti rigidità che le organizzazioni produttive di quel tempo possedevano (rigidità presenti non solo nell’utilizzo della forza lavoro e del capitale investito, ma anche nei processi di decisione aziendale). Per tali motivi all’inizio degli anni Ottanta le piccole dimensioni si trovano notevolmente avvantaggiate rispetto alle grandi. In realtà, la migliore situazione economica delle piccole imprese è anche attribuibile allo sfruttamento delle potenzialità insite nelle nuove tecnologie di produzione di allora, come, ad esempio, i macchinari a controllo numerico. L’evoluzione della tecnologia favorì una parallela evoluzione della divisione del lavoro: anziché concentrare in un’unica impresa tutte le fasi di produzione (mantenendo quindi l’elevata integrazione verticale dei modelli produttivi degli anni Sessanta e Settanta) fu possibile riorganizzare l’industria con specializzazioni per fasi o parti produttive: ciascuna impresa, collegata in rete con il resto del sistema, effettua una sola fase produttiva, la cui specializzazione consente la riduzione dei costi (per la continua saturazione degli impianti), l’aumento 122 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE delle competenze (per l’apprendimento da accumulazione) e l’ampliamento della clientela a tutte le imprese a valle di tale ciclo di lavorazione3. ANNI NOVANTA: LA RIVINCITA DELLE ECONOMIE DI SCALA … MA IN NUOVI AMBITI DI APPLICAZIONE L’EURO: UN VANTAGGIO SOPRATTUTTO PER LA GRANDE DIMENSIONE D’IMPRESA IN ITALIA PREVALE LA PICCOLA DIMENSIONE … … MA OCCORRE TENERE CONTO DELLA DIFFUSIONE DEI GRUPPI INDUSTRIALI La rivincita ed il recupero della grande impresa avvengono negli anni Novanta grazie, nuovamente, all’evoluzione tecnologica. L’uso dell’informatica assume un aspetto sistemico con la sua estensione dall’area meramente produttiva a tutte le rimanenti funzioni aziendali, ottimizzando in tal modo non solo la linea produttiva, ma anche tutto ciò che sta a monte e a valle di essa: i magazzini di entrata e uscita, la progettazione, i servizi alla clientela, la raccolta degli ordini ecc. Solo la grande impresa può permettersi di effettuare gli elevati investimenti che le innovazioni di sistema comportano, talvolta aiutata in ciò dai capitali freschi raccolti in borsa4. Negli anni Novanta, il ritorno all’importanza delle economie di scala avviene tuttavia in nuovi ambiti di applicazione: non più economie di scala tecniche, che afferiscono all’ampiezza degli stabilimenti produttivi, ma soprattutto economie di scala economiche, finanziarie, distributive, tecnologiche, di gamma prodotta. In questo contesto di rinascita del vantaggio della grande impresa, le imprese del Nord Italia registrano dimensioni nettamente inferiori ai concorrenti europei, sollevando alcuni dubbi sulla loro capacità di contenere la concorrenza dei grandi gruppi internazionali. Del resto, la realizzazione della moneta unica avvenuta nel 1999 è un ulteriore catalizzatore dello sviluppo della grande dimensione: i vantaggi di efficienza garantiti dai minori costi transazionali che la moneta unica consente sono sfruttati soprattutto dalle grandi dimensioni che operano in tutto il mercato europeo come se si trattasse di un grande mercato domestico. Chi non ha le dimensioni per fare ciò, cioè chi non possiede le adeguate risorse finanziarie e manageriali per gestire un’impresa in ambito europeo, non può sfruttare i benefici dell’Unione Economica e Monetaria, subendone comunque la maggiore concorrenza determinata dalla trasparenza dei prezzi. Una recente pubblicazione Eurostat ha messo in luce che in Italia il 47,5 per cento dell’occupazione totale è presente in imprese con meno di 10 dipendenti, contro una media comunitaria di 32,8 per cento. Ancora, le imprese con 10-49 dipendenti occupano il 21,4 per cento degli addetti contro una media del 18,9 per cento nei quindici. Solo il 30,8 per cento degli addetti italiani è occupato in imprese con almeno 50 dipendenti: la corrispondente percentuale media europea è del 48,2 per cento. A parziale temperamento di tale visione sostanzialmente pessimistica esiste un’altra scuola di pensiero che vede la struttura dimensionale del sistema produttivo influenzata anche, e forse soprattutto, dagli assetti proprietari tipici del Nord Italia: i lavori di Banca d’Italia (Barca, 1994) e del Mediocredito Centrale (1997) indicano che la struttura del gruppo industriale è molto diffusa anche tra le piccole imprese, probabilmente per ragioni connesse agli oneri fiscali, alla legislazione sul lavoro e a quella sui fallimenti d’impresa. 3 In molti casi l’ampliamento del mercato di riferimento avviene addirittura a livello internazionale, nella subfornitura dei grandi gruppi internazionali. 4 Il ricorso alla borsa da parte delle piccole imprese del Nord Italia è reso difficile anche dalla particolare struttura proprietaria di tali imprese che, basate sul cosiddetto “capitalismo famigliare” accedono prevalentemente a capitali provenienti dalla “famiglia” (eventualmente allargata) e non da terzi “estranei”. 123 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE L’effetto di tali configurazioni proprietarie comporterebbe una sottostima statistica delle reali dimensioni medie del sistema industriale settentrionale, probabilmente maggiori di quanto le stime farebbero apparire. LA CREAZIONE DEL VALORE NELLE REALTÀ AZIENDALI DEL NORD ITALIA IL “MADE IN ITALY”: UN CRESCENTE CONTRIBUTO ALLA RICCHEZZA NAZIONALE … … GRAZIE A UN PROFONDO PROCESSO DI RISTRUTTURAZIONE … MA LE STRATEGIE BASATE SUL RECUPERO DI EFFICIENZA NON BASTANO PIÙ I dati sul valore aggiunto regionale relativi al periodo 1980-96 indicano come il Nord Italia abbia risentito della crisi congiunturale dei primi anni Ottanta in misura maggiore rispetto al resto del paese, tant’è che il peso del valore aggiunto manifatturiero sul totale nazionale cala dal 68.3% del 1980 al 65.7% del 1984 (tabella 8). Successivamente la dinamica del dato del Nord Italia migliora e si mantiene nell’intorno del 67% rispetto al totale nazionale. Se all’interno del manifatturiero si esaminano distintamente i settori tipici del “made in Italy”, si nota come questi ultimi seguano un’evoluzione completamente diversa: non subiscono la crisi dei primi anni Ottanta e migliorano continuamente il loro peso sul dato nazionale. Per esempio, il valore aggiunto degli alimentari aumenta dal 61.6% del 1980 al 66.2% del 1996, quello del tessile-abbigliamento dal 59.5% del 1980 al 67% del 1996. Il miglioramento generalizzato del valore aggiunto prodotto da tali imprese settentrionali negli anni Novanta è il frutto di un profondo processo di ristrutturazione che ha modificato la realtà imprenditoriale dell’Italia settentrionale mediante innovazioni di processo e innovazioni organizzative. Tra gli effetti della ristrutturazione merita sicuramente attenzione il tentativo di usare meno, e di usare meglio, i fattori produttivi a disposizione. Tale tentativo è all’origine della minore remunerazione dei fattori produttivi interni, a cui ha fatto seguito anche un minore utilizzo di essi (soprattutto per quanto riguarda il fattore lavoro). Del resto, bisogna ricordare che questa strategia è la più semplice e quella che si è dimostrata vincente nel passato, quando la risposta alle crisi congiunturali veniva in primo luogo affrontata aumentando la produttività dei fattori interni di produzione: grazie alle nuove tecnologie che permettevano un rapido recupero dell’efficienza dei fattori, in termini di maggiore produttività, le imprese delle industrie “tradizionali” riuscivano a contrastare la concorrenza di prezzo proveniente dai paesi in via di sviluppo. Purtroppo, tale strategia scricchiola se messa di fronte alle sfide future, in quanto le profonde modifiche avvenute nel contesto competitivo europeo impongono di affiancare al recupero dell’efficienza anche un allargamento dei mercati attuato mediante l’internazionalizzazione e l’innovazione tecnologica, soprattutto quella che si riferisce a nuovi prodotti. Come peraltro si è discusso in altri contributi, è difficile che l’attuale contesto industriale possa continuare a supportare la creazione di ricchezza nelle regioni settentrionali. È probabile che sia auspicabile un progressivo spostamento delle attività industriali verso i nuovi settori innovativi, al cui interno dovranno nascere nuove imprese e opportunità di investimento dei capitali locali. 124 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE L’ORGANIZZAZIONE PRODUTTIVA DEL SISTEMA INDUSTRIALE DEL NORD ITALIA L’evoluzione dell’organizzazione produttiva nell’ultimo decennio è stata in gran parte determinata dalle varie forme di decentramento produttivo. Poiché nei periodi in cui più è acuta la concorrenza tra gli operatori diviene cruciale la scelta strategica tra l’operare all’interno dell’impresa (make) o sfruttare l’attività dei fornitori (buy), si può ben comprendere l’importanza che riveste il concetto del decentramento nelle decisioni aziendali degli anni Novanta. Il modello di crescita dell’impresa basato sull’esternalizzazione di parte della produzione, all’interno di rapporti orizzontali definiti nelle “reti di imprese” e di rapporti verticali che fanno capo alla cosiddetta “impresa-rete”, è stato ampiamente studiato nella letteratura economica (Bramanti e Maggioni, 1997; Garofoli, 1994; Varaldo e Ferrucci, 1997), ed appartiene alla cronaca consolidata industriale dell’Italia degli ultimi quindici anni. L’EVOLUZIONE DEL DECENTRAMENTO PRODUTTIVO … ANNI OTTANTA: DAL CONTROLLO DELLA FORZA LAVORO A ESIGENZE DI ORDINE STRUTTURALE E CONGIUNTURALE Per approfondire le caratteristiche del processo di decentramento della produzione occorre in primo luogo fare riferimento all’evoluzione della tecnologia produttiva e alla diffusione dell’innovazione all’interno del sistema. L’elaborazione dei dati Istat sull’innovazione tecnologica ha evidenziato come le imprese del Nord Italia rispondano alla recessione e all’evoluzione del contesto competitivo utilizzando innovazioni di processo e di prodotto (vedi la scheda sulla ricerca e sviluppo). In entrambi i casi, l’impresa innovativa per ottenere un miglioramento della redditività, perseguito sia dal lato dei costi sia da quello dei prezzi, deve supportare l’innovazione di prodotto e/o di processo con una parallela innovazione organizzativa. La nuova organizzazione utilizza il decentramento produttivo nelle sue diverse forme di attuazione. Se agli inizi degli anni Ottanta il decentramento è finalizzato al maggior controllo della forza lavoro, negli anni successivi esso risponde soprattutto a problemi di ordine strutturale (ricerca di una più efficiente organizzazione aziendale) oltre che congiunturale (risposta alla elevata variabilità della domanda); la sua attuazione permette di rendere più flessibile l’utilizzo dei fattori produttivi, di ridurre i fabbisogni per gli investimenti, sia sotto forma di capitale fisso che di capitale circolante, e di aumentare il grado di utilizzo della capacità produttiva. Merita ancora aggiungere alcune caratteristiche che qualificano meglio il concetto di decentramento produttivo. Infatti questa forma organizzativa permette di conseguire una maggiore flessibilità produttiva, concetto a sua volta distinguibile in versatilità, cioè la capacità di lavorare contemporaneamente più prodotti appartenenti alla medesima famiglia, e in convertibilità, ossia la possibilità di ampliare o sostituire la gamma dei prodotti lavorati. Entrambe le esigenze derivano dalla brevità del ciclo di vita dei prodotti: per recuperare i costi dei nuovi impianti occorre, da una parte, essere in grado di modificare rapidamente la composizione della produzione per lavorare più prodotti contemporaneamente (bisogno di versatilità), dall’altra, poter utilizzare i medesimi immobilizzi tecnici (con qualche piccolo investimento aggiuntivo) nel caso in cui si debba sostituire la gamma produttiva (bisogno di convertibilità). 125 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE … ANNI NOVANTA: IL DECENTRAMENTO SI ESTENDE ALLA PROGETTAZIONE E ALLO SVILUPPO DEL PRODOTTO L’INTEGRAZIONE MONETARIA IMPONE NUOVI MODELLI DI DECENTRAMENTO Con gli anni Novanta si assiste ad un’evoluzione ed un ampliamento della tradizionale forma di decentramento attuata dalle imprese settentrionali: soprattutto la grande impresa tenta di esternalizzare non solo le fasi di produzione ma anche quelle di progettazione e di sviluppo del prodotto (Calabrese, 1997). Si tratta di nuove configurazioni organizzative che legano più strettamente l’impresa terminale e i suoi fornitori: questi ultimi vengono coinvolti nel ciclo produttivo fin dalla fase di progettazione, in modo da applicare fin dall’inizio del ciclo le loro specifiche conoscenze. Ciò implica la presenza nelle imprese fornitrici di conoscenze e capacità gestionali prima assenti, in quanto non necessarie per lo svolgimento del compito produttivo. Stesse affermazioni riguardano gli investimenti per acquisire gli strumenti e i macchinari necessari a svolgere il nuovo ruolo, basti pensare ai sistemi Cad o alle reti informatiche con cui dialogare con l’impresa terminale. Tale modello ha favorito forti legami tra le imprese distrettuali del Nord Italia e, solo in un secondo tempo, tra queste e le imprese del Mezzogiorno. Al contrario, il modello non ha determinato la ricerca di partner internazionali, al contrario di quanto successo nei rimanenti paesi europei. In questi ultimi, i settori tradizionali sono stati progressivamente delocalizzati nei paesi in corso di industrializzazione, al fine di sfruttarne i minori costi produttivi. È quindi molto probabile che con l’avvento della moneta unica, e quindi con l’impossibilità di guadagnare competitività di prezzo tramite la svalutazione della lira, il modello di decentramento utilizzato dalle imprese del Nord Italia si modifichi sull’esempio dei modelli europei, sostituendo progressivamente il contesto nazionale (e distrettuale) con quello internazionale. Le fasi dei processi produttivi dei prodotti tradizionali destinate a restare in Italia saranno certamente quelle più ricche di valore aggiunto, ma alla questione occupazionale interna sarà sempre più difficile trovare risposte all’interno dei modelli di adattamento dei settori tradizionali. Occorrerebbe una proiezione imprenditoriale “verso il nuovo”, che ancora ci pare lontana dal manifestarsi. I SEGNALI POSITIVI NEL CONTESTO DI MAGGIORI RISCHI E OPPORTUNITÀ IL MODELLO COMPETITIVO DELL’INDUSTRIA DEL NORD È A UN PUNTO DI SVOLTA Forte dell’aver fatto lavorare l’Italia, di avere esportato merci sufficienti a garantire l’approvvigionamento di importazioni e una solida posizione finanziaria verso l’estero, nondimeno il sistema industriale settentrionale è a un punto di svolta. Il nuovo contesto in cui esso si trova inserito mostra i limiti del modello di adattamento dei decenni scorsi, basato sull’innovazione cost reducing nei settori tradizionali, associata allo sfruttamento delle esternalità distrettuali. In zona grigia sono rimaste, però, l’innovazione di prodotto, la crescita dimensionale delle imprese, lo sviluppo di strategie di internazionalizzazione complesse, non più semplicemente basate sulle esportazioni, ma sulla crescita internazionale delle reti produttive e, forse più importanti ancora, delle reti distributive. Più innovazione, maggiore inserimento nei nuovi settori ad elevato valore aggiunto, più crescita dimensionale e internazionale non si sarebbero probabilmente mai conseguite nel contesto istituzionale e di mercato precedente all’integrazione monetaria europea. Il che supporta l’ipotesi che i “distretti” 126 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE L’INTEGRAZIONE MONETARIA MODIFICA GLI ORIZZONTI DI RIFERIMENTO ALCUNI PROVVEDIMENTI LEGISLATIVI SEMBRANO FAVORIRE NUOVE DIREZIONI DI SVILUPPO abbiano costituito un modello adattivo di successo a un ambiente economico di riferimento largamente imperfetto, rispetto all’ideale degli economisti. L’Unione Monetaria mette a nudo le debolezze del sistema industriale dell’Italia del Nord e dei suoi distretti. Ne restringe le già modeste dimensioni medie relative delle imprese, e le mette in concorrenza non solo con “i soliti” partner europei, ma soprattutto con l’industria extra-Ue, che punta sul mercato europeo vedendovi, a ragione, non solo il maggiore mercato continentale integrato del globo, ma anche il mercato più agevole, dato il livello di armonizzazione economica e di integrazione monetaria raggiunta tra le economie dei “quindici”. Il legislatore europeo, consapevole di questa “messa a nudo” dei punti di debolezza che riguarda prevalentemente i paesi che avevano avuto mercati più chiusi e protetti, ha però favorito l’adozione di numerosi provvedimenti legislativi che vanno nella direzione di risvegliare dal torpore gli animal spirits del capitalismo mediterraneo. Alcuni esempi sono d’obbligo: • nel mercato borsistico, Easdaq e soprattutto il “Nuovo mercato”, modellato sul modello del Neue Markt tedesco e del Noveau Marchè francese, mettono finalmente fine in Italia al tradizionale razionamento delle Pmi nel capitale di rischio, da destinare a progetti di crescita e sviluppo; • sotto il profilo del capitale finanziario, non solo i fondi di investimento esteri in capitale di rischio di Pmi sono più liberi di agire, data anche l’assenza di un rischio di cambio all’interno dell’Unione, ma la legislazione italiana è stata aggiornata per permettere la nascita di tali soggetti di diritto italiano, regolandone anche la capacità di raccolta di risparmio sul mercato; • la fine dei monopoli pubblici in settori come la telefonia e l’energia va anch’essa salutata con favore, con effetti non solo sul benessere dei consumatore, ma anche effetti supply side. Infatti, è noto che uno degli effetti negativi dei monopoli pubblici sull’innovazione di prodotto sia l’ostacolo alla nascita di Pmi in settori innovativi, che il nuovo contesto legale dovrebbe invece, finalmente, favorire; • il razionamento di risorse umane con preparazione tecnica dovrebbe anch’esso essere sulla via di migliorare, grazie all’introduzione di un più ampio ventaglio di titoli, corsi e indirizzi universitari (come i Diplomi) e grazie all’autonomia delle Scuole e delle Università, più libere che in passato di rispondere direttamente ai bisogni di preparazione al lavoro emergenti dall’economia e dalla società; • successivi interventi legislativi, infine, hanno ridotto la barriera di impermeabilità tra il mondo della ricerca e quello dell’impresa, favorendo lo scambio di risorse umane, e per questa via oliando i canali e i meccanismi, fin qui assai imperfetti, del trasferimento dei risultati della ricerca in innovazioni commercialmente sfruttabili; • l’Euro ha portato in Italia la stabilità dei prezzi e i minori tassi di interesse degli ultimi venticinque anni; • il contesto fiscale per le imprese è in miglioramento, in primo luogo perché la pressione fiscale ha cessato di crescere; in secondo luogo perché l’introduzione dell’Irap, e la connessa ristrutturazione della fiscalità sulle imprese, ha ridotto, sia pure di poco, il costo del lavoro e ha eliminato la distorsione della preferenza fiscale per le (piccole) società di persone ri- 127 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE spetto alle (maggiori) società di capitali; in terzo luogo perché l’investimento nelle imprese è incentivato, anche se con misure “a termine”. QUALCHE TIMIDO SEGNALE POSITIVO Non sappiamo ancora se e in che grado il nuovo contesto sia sufficiente a garantire che il sistema industriale settentrionale prenda gradualmente nuove direzioni di sviluppo, aumentando la propria specializzazione nei nuovi settori e nell’hi-tech, favorendo l’aggregazione di imprese per creare soggetti capaci di competere nel contesto europeo e di proiettarsi al di fuori di esso. Ci sembra, in linea generale, che dopo un periodo di inerzia durato dal 1996 al 1998, qualcosa si stia finalmente muovendo e che, sia pure con ritardo rispetto agli altri paesi5, le strategie dell’industria italiana vadano finalmente nelle giuste direzioni. Nulla che possa essere rilevato dalle statistiche, per le quali ci vorranno anni di dati e di verifiche empiriche. Ma da alcuni mesi gli investimenti e le acquisizioni di imprese italiane all’estero si sono intensificate, così come la nascita di imprese in settori innovativi. Finalmente, poi, questi processi si intrecciano con la crescita, qualitativa e quantitativa, dei diversi mercati di Borsa (tabella 9). Tutte ragioni per essere, se non tout-court ottimisti, almeno possibilisti sul fatto che, magari in ritardo, il sistema industriale italiano e settentrionale non è più soltanto chiuso in difesa, ma sta incominciando ad approfittare delle opportunità emergenti. Nel mercato globale non c’è spazio per una crescita senza assunzione di rischi: una lezione che va progressivamente appresa. 5 Nel mese di settembre 1999 risultava solo una società italiana quotata nel sistema EuroNuovo Mercato, contro le oltre 160 europee complessive. 128 Tab. 1 – Indici di specializzazione manifatturiera rispetto alla media dei paesi Ocse (1995) 129 Paesi Belgio Danimarca Germania Grecia Spagna Francia Irlanda Italia Lussemburgo Olanda Austria Portogallo Finlandia Svezia Regno Unito Norvegia Svizzera Turchia Stati Uniti Canada Messico Giappone Australia N. Zelanda tessili Abbipelli, legno e gliament cuoio, prodotti o confe- concia, (eccetto zioni calzature mobili) carta e stampa combu- gomma e altri pro- metalli e macchi- computer meccani- apparec- strumen- autoveialtri mobili e suoi ed edito- stibibili e materie dotti da prodotti nari e e mac- ca elettr. chi radio- taz. mecoli e mezzi di altri beni prodotti ria prodotti plastiche minerali in metal- attrezza- chine da e appa- televisivi dicale, rimorchi trasporto manifatchimici non me- lo (escluture ufficio rec. non e per le ottica di turieri talliferi se ataltrove comuni- precis. (nac) trezz.) classif. cazioni orol. 127,7 63,2 198,8 51,2 39,1 75,5 74,8 85,8 216,2 334,3 72,4 85,5 96,2 136,3 61,9 105,5 84,5 140,1 69 70,1 61,4 81,2 72,5 75,2 203,7 205 245,6 304,2 178,7 93,8 72,9 55 155,8 75,4 114,1 160,9 297,1 112,7 87,5 94,7 128 47,1 95 104,2 105,6 63,4 80 94,1 248,2 210,1 55,2 68,4 38,8 59,4 32,9 127,4 89,2 140,4 225,3 263,1 604,3 68,3 56,8 58,4 55,8 135,3 203,3 15,9 0 24,1 8,3 64,9 181,4 247,7 62,3 32,1 30,2 47,7 82,6 139,9 110,6 98,4 138,2 56,4 129 199,2 122,8 69,7 140,6 189,2 368,7 380,8 851,3 172 86,9 91,2 92,7 25 35,6 56,2 53,2 307,3 514,2 115,8 36,1 46,6 33 4,6 25,7 374,7 359,2 5,5 125,4 226,1 97,3 77,8 97,8 48,7 89 119,3 169,8 91,7 39,4 20,7 22,9 167,9 146,7 142,5 92,9 82,6 74 86,9 64,6 115,4 48,7 136,8 100,2 316,2 457,5 269,1 66,6 38,2 79,3 34,5 98,6 76,9 91 118,9 47,8 117,7 127,3 115,9 100,2 71,6 84,3 83,3 43,6 252,7 208,9 80 163,3 216,1 71,4 32,7 54,5 7,8 92,7 18,6 77,5 84,6 87,7 64,3 73,9 78,3 77,2 100,9 153,3 55,6 102,4 159,9 118,8 155,9 66,9 128,1 224 50,4 92,4 197,8 147 340,7 159,3 103,1 Fonte: Monthly Panorama of European Industry, Competitiveness Report, 4/97 126,3 67,4 108,2 144,2 91 133,5 8,3 98,5 16,2 159,2 88,8 93,6 67,2 67,4 127,4 80,9 121,8 181,4 107,5 84,4 130,3 75,6 89,3 70,6 100,6 91,2 107,5 68,6 99 93,2 55,1 85,5 420,3 72,8 77,4 53,4 57,8 28,7 116 39,6 77,2 75,3 100,4 85,7 78,8 108,7 92,7 89,2 144,8 115,1 117,5 197,1 182,4 97,9 67,4 129,6 269,8 91,4 191,7 212,9 64,7 21,7 90,3 73,2 110,8 149,5 73,2 52,4 172,7 106 135 75,6 85,3 71,8 108,3 105 106,3 92,4 31,2 104,1 385,8 89 131,9 62,4 116,5 104,7 84 118,9 95,7 117,7 89,6 90,2 142,3 108,9 180,7 76,1 67,1 144,9 134,3 30,6 56,4 71,1 38,4 143,1 63,1 72,5 130,4 43,2 129,9 79,2 78,3 192,7 94,9 49,4 88,4 65 30,4 117,4 53,1 42,2 9,5 18,6 51,2 3,9 24,8 75,8 548,2 90,8 56,2 45 86,7 1,9 84,2 27,9 146 13 119 1,1 109,5 59,8 45,5 135 75,8 65 75,1 72,5 167,6 72,6 76,3 88,2 64 101,6 69,7 41,4 96,2 75,9 93,4 87,2 74,1 64,9 94,9 44,5 70 46,4 48,8 132,6 65,9 64,8 49,5 43,4 41,8 29,5 30,9 59,5 65,3 48,1 0 90 92,9 66,1 106,7 207,5 62,5 41,4 101,7 46,2 97 45,1 24 176 4,1 52,5 29,4 106,7 102,4 7,4 31,1 102,1 143 51,6 35,1 55,8 49,2 27,6 57,9 156,2 90,8 28,2 243,4 6,7 154,5 23,3 14,3 74,3 37,1 18,1 146,1 12,4 112,9 5,7 104,4 112,9 6,7 54,5 3,8 32,4 57,2 46,9 9,4 190,6 76,4 44,2 252,7 58,2 90,6 194,7 165,6 105,1 64,6 46,2 31,7 85,7 66,8 86,2 80,6 98,1 32,9 86,7 12,2 90,7 22,7 34,5 105 90,8 120,4 122,9 245,6 20,2 131,1 47,8 3,8 92,5 88,3 128,4 109,9 228,9 105,6 44,9 126,7 83,2 94,6 148,4 5,1 71,1 132,6 123,2 68,6 19,3 83,5 81,3 100,7 21,1 114,3 100,7 42,7 79,9 119,9 100,7 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE Settori alimenta- tabacco ri e bevande INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE 129 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE Tab. 2 – Composizione percentuale degli addetti nei settori “tradizionali” nel Nord Italia 1996 1991 1981 1971 1961 1951 Alimentari, bevande e tabacco 7,9 7,7 6,9 6,9 7,0 7,6 Tessile, abbigliamento, cuoio e calzature 16,4 18,4 18,9 20,9 25,4 33,3 Legno e mobili 7,6 7,4 7,6 7,3 7,2 6,9 Minerali non metalliferi 4,4 4,3 4,8 5,1 5,5 4,7 Altre industrie manifatturiere 2,0 1,8 1,4 1,6 1,3 0,0 Totale “made in Italy” 38,4 39,6 39,5 41,7 46,4 52,4 Totale industria manifatturiera 100 100 100 100 100 100 Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Tab. 3 – Evoluzione dell’occupazione nei settori “tradizionali” del Nord Italia 1996 1991 1981 1971 1961 1951 Aliment., bevande e tabacco 256901 267331 268688 249369 225314 187843 Tessile, abb., cuoio e calzat. 532348 637794 737627 757171 814228 819341 Legno e mobili 248287 255696 295669 262747 231850 169043 Minerali non metalliferi 144571 149872 185283 182635 174911 114849 Altre industrie manifatt. 66168 63655 52673 57140 42622 0 Totale “made in Italy” 1248275 1374348 1539940 1509062 1488925 1291076 Tot. industria manifatturiera 3253693 3470289 3900498 3614678 3207219 2463725 Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Tab. 4 – Evoluzione dell’occupazione nelle imprese settentrionali (variaz. % sul periodo precedente) 1996 1991 1981 Alimentari, bevande e tabacco -3,9 -0,5 7,7 Tessile, abbigliamento, cuoio e calzature -16,5 -13,5 -2,6 Legno e mobili -2,9 -13,5 12,5 Minerali non metalliferi -3,5 -19,1 1,4 Altre industrie manifatturiere 3,9 20,8 -7,8 Totale “made in Italy” -9,2 -10,8 2,0 Totale industria manifatturiera -6,2 -11,0 7,9 1971 10,7 -7,0 13,3 4,4 34,1 1,4 12,7 1961 19,9 -0,6 37,2 52,3 n.d. 15,3 30,2 1951 n.d. n.d. n.d. n.d. n.d. n.d. n.d. Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Tab. 5 – Occupazione nelle imprese del Nord Italia nei settori “tradizionali” (peso % sul tot. Italia.) 1996 1991 1981 1971 1961 1951 Alimentari, bevande e tabacco 57,5 56,4 55,4 57,8 53,2 45,5 Tessile, abbigliamento, cuoio e calzature 57,7 59,8 60,1 65,8 70,1 74,4 Legno e mobili 64,1 63,2 62,7 62,4 60,8 57,6 Minerali non metalliferi 57,6 54,2 54,8 55,8 54,9 55,6 Altre industrie manifatturiere 65,5 66,3 65,2 74,1 76,7 Totale “made in Italy” 59,2 59,3 59,1 62,7 63,6 64,1 Totale industria manifatturiera 67,0 66,6 66,9 70,9 71,3 70,4 Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat 130 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE Tab. 6 – Evoluzione del numero di unità locali nel Nord Italia 1996 1991 1981 1971 Aliment. Bevande e tabacco 33613 30913 28114 24397 Tessile, abb., cuoio e calzat. 54379 68149 86201 72400 Legno e mobili 50194 51719 62607 53703 Minerali non metalliferi 13247 13280 12853 11211 Altre industrie manifatt. 11370 10976 9092 6375 Totale “made in Italy” 162803 175037 198867 168086 Tot. industria manifatturiera 333125 338962 360741 272548 1961 21883 109850 52728 9185 1945 195591 311517 1951 27484 134163 52929 7412 0 221988 313580 Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Tab. 7 – Evoluzione della dimensione media nel Nord Italia (addetti per unità locale) 1996 1991 1981 1971 1961 1951 Alimentari, bevande e tabacco 7,6 8,6 9,6 10,2 10,3 6,8 Tessile, abbigliamento, cuoio e calzature 9,8 9,4 8,6 10,5 7,4 6,1 Legno e mobili 4,9 4,9 4,7 4,9 4,4 3,2 Minerali non metalliferi 10,9 11,3 14,4 16,3 19,0 15,5 Altre industrie manifatturiere 5,8 5,8 5,8 9,0 21,9 Totale “made in Italy” 7,7 7,9 7,7 9,0 7,6 5,8 Totale industria manifatturiera 9,8 10,2 10,8 13,3 10,3 7,9 Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Tab.8 – Valore aggiunto dell’industria settentrionale (peso % sul totale nazionale) totale industria tessile carta e legno, gomma e anni manifatturiera alimentari abbigliamento stampa e altre manifatt. 1980 68,30 61,65 59,53 69,37 71,06 1981 68,07 62,44 59,20 69,67 70,87 1982 67,01 61,94 59,40 69,22 70,33 1983 66,39 61,50 60,89 68,64 70,24 1984 65,68 60,86 59,90 68,70 69,26 1985 66,32 62,66 60,95 68,18 68,80 1986 66,67 63,10 63,53 68,66 69,12 1987 66,93 65,11 65,48 68,35 70,07 1988 67,42 65,25 65,34 69,05 70,12 1989 67,46 62,72 65,30 69,29 69,81 1990 67,42 65,09 66,41 67,89 70,82 1991 66,26 65,51 65,18 67,25 69,86 1992 65,51 64,34 65,34 66,17 69,94 1993 65,59 64,49 66,64 65,85 70,48 1994 66,21 64,94 67,41 66,47 70,89 1995 66,80 65,70 66,96 66,15 70,44 1996 66,88 66,24 66,97 65,86 70,55 Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat 131 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE Tab. 9 – Società italiane prossime alla quotazione (elenco aggiornato al 13/9/99) Titolo Flottante Mercato Sponsor Settore Acsm Como 25% Caboto-Sim Utilities Ais Software Astaldi Costruzioni Bco Bilbao Vizcaya 10% Bnl Banche Biosearch Farma Cassa Risp. Firenze Banche Cent Latte To Mediobanca Alimentare Cifa Meccanica Datanord Multimedia Rothschild Hi-Tech Direct E-Commerce Eleca Bca Aletti Meccanica Enel (2-3/11/99) Etnoteam Finmatica Gandalf Airlines Grandi Navi Veloci Gruppo Basic Gruppo Tessile Monti Kariba I.Net Industriale Cesena Mannesmann Pol-Geox Poligrafica S.Faustino Prima Industrie Tecnodiffusione Tiscali Fonte: www.bullbear.it 15% Mediobanca Merrill Lynch Afv Milla Euromobiliare Sim Banca Imi Abn Amro 50%++ 55-60% 20-25% 33% 50%++ 25% 20% ristretto nuovo mercato? nuovo mercato nuovo mercato Cofimo/Price Wat Foglia Ventura Sim Caboto-Sim Comit/Dt.Bank Bca Aletti Comit/Nomura Interb/Fleming Abn Amro/Bcaimi Utilities Informatica Informatica Trasporti Trasporti Finanziario Tessile Meccanica Internet Impianti Hi-Tech Calzature Editoriale Elettronica Hi-Tech Tlc BIBLIOGRAFIA Barca F. (1994) (a cura di), Assetti proprietari e mercato delle imprese, Bologna, Il Mulino. Benincasa G. (1998), I processi di deindustrializzazione nelle economie avanzate e il caso veneto, Economia e società regionale, n.4. Bramanti A., Maggioni A. (1997), La dinamica dei sistemi produttivi territoriali: teorie, tecniche, politiche, Milano, Franco Angeli. Calabrese G. (1997), Fare Auto, Milano, Franco Angeli. Ceris-Cnr (1997), Innovazione, piccole imprese e distretti industriali, Documenti Cnel n.7, Roma Eurostat (1997), Regioni: annuario statistico, Lussemburgo. Garofoli G. (1994), Modelli locali di sviluppo, Milano, Franco Angeli. Gros-Pietro G.M. (1994), “Aree industriali in crisi”, relazione al convegno Uno spazio vitale per l’industria, Unione Industriale di Torino, 25 febbraio 1994, Torino Irer (1995), Deindustrializzazione e innovazione in Lombardia: il problema della competitività, Milano Mediocredito Centrale (1997), Indagine sulle imprese manifatturiere, Milano, Il Sole 24 Ore libri. Rolfo S., Vitali G. (1997), “Distretti industriali e innovazione: i limiti dei sistemi tecnologici locali”, Working Paper Ceris, n.12, Torino, luglio Varaldo R., Ferrucci L. (1997), Il distretto industriale tra logiche di impresa e logiche di sistema, Milano, Franco Angeli, Vitali G. (1989), Il sistema industriale del Piemonte, Bologna, Il Mulino. 132 IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE Flavio Iano * PREMESSA – L’OFFERTA DI BUSINESS SERVICES – I SERVIZI ALLE IMPRESE NEGLI SCAMBI CON L’ESTERO – LA COLLOCAZIONE NEL CONTESTO INTERNAZIONALE – IL SETTORE DELL’INFORMATION TECHNOLOGY – BIBLIOGRAFIA PREMESSA Nelle economie più sviluppate un ruolo rilevante e di crescente importanza è assunto dalle attività di servizio di tipo professionale ed in particolare da quelle attività terziarie che più direttamente si possono qualificare come servizi alle imprese o Business Services (BS). Le attività di BS costituiscono un aggregato molto eterogeneo dal punto di vista delle prestazioni fornite dai suoi operatori; ma è un aggregato che al contempo trova una propria identità d’insieme nella funzione di supporto all’attività delle imprese e, più complessivamente, allo sviluppo del sistema economico. La natura composita delle attività di BS richiede, in ogni caso, una definizione che permetta di circoscrivere l’aggregato e di precisarne i contenuti. Ai fini dell’analisi empirica, tuttavia, una definizione di tipo univoco appare difficilmente applicabile stante la disomogeneità che si riscontra nelle fonti statistiche e/o il grado di dettaglio che può essere raggiunto in relazione al tipo di variabile e/o al riferimento territoriale in base al quale l’analisi viene condotta. Di seguito verranno precisate di volta in volta le attività di riferimento considerate a seconda dei dati utilizzati. L’OFFERTA DI BUSINESS SERVICES Per valutare l’offerta di BS nelle regioni italiane la fonte più sistematica e aggiornata alla quale si può fare ricorso al momento della stesura di questo documento sono i dati del censimento intermedio 1996, di recente resi disponibili dall’Istat. I DATI DI RIFERIMENTO Con riferimento a questi dati le attività di BS considerate ai fini di questo studio sono: • informatica e attività connesse; • ricerca e sviluppo; • servizi professionali e imprenditoriali. Il dato principale esaminato è quello degli addetti alle unità locali; esso viene qui utilizzato come indicatore della consistenza di tali attività in diversi ambiti territoriali. Le attività di BS così definite contano in Italia un totale di 1.375 mila addetti, cioè circa un decimo degli addetti alle imprese industriali o di servizio complessivamente registrati dal censimento. * Cesdi srl, Torino 133 IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE Nel Nord Italia in queste attività operano 779 mila addetti, pari al 56,7% del corrispondente totale nazionale. Si tratta di una quota rilevante ma, sia pure di poco, inferiore a quella che i dati censuari permettono di attribuire all’intero sistema imprenditoriale dell’area (59,0%). La quota degli addetti alle attività di BS è invece significativamente superiore a quella che compete all’area in termini di popolazione (44,4%) o anche di occupazione (51,8%), se, in questo ultimo caso, si includono anche gli occupati nell’agricoltura, nella pubblica amministrazione e nelle attività non profit, cioè quelle componenti del sistema economico oggetto di rilevazione per il conteggio dei dati del censimento intermedio. UN’OFFERTA PROPORZIONATA AL SISTEMA DELLE IMPRESE SETTENTRIONALI L’offerta di BS che si è sviluppata nel Nord Italia è quindi ampia, ma di fatto semplicemente dimensionata in proporzione alla consistenza del sistema delle imprese presente nello stesso territorio. Il riscontro di quanto detto diventa ancora più immediato se si valuta direttamente la consistenza delle attività di BS in termini relativi; si può a questo proposito fare riferimento a tre indicatori di densità: 1. addetti alle unità di BS per 1000 abitanti 2. addetti alle unità di BS per 1000 occupati 3. addetti alle unità di BS per 1000 addetti alle unità locali delle imprese industriali e di servizio. Si può così osservare (tab. 1) che, rispetto alla media nazionale, la densità delle attività di BS nel Nord Italia è: • del 28% superiore se calcolata sulla popolazione; • del 9% superiore se misurata in rapporto all’ occupazione totale • del 4% inferiore se riferita alle dimensioni del sistema delle imprese Il profilo dei BS e la loro distribuzione sul territorio si differenzia tuttavia in misura notevole in relazione alle diverse attività che lo compongono. A questo proposito, si può tentare in primo luogo una ripartizione delle attività di BS distinguendo quelle relativamente più tradizionali, da quelle di tipo più moderno o potenzialmente innovative e sulle quali è particolarmente opportuno soffermare l’ attenzione. Per valutare la consistenza delle attività di BS nelle sue forme più moderne, si sono isolate alcune voci della classificazione economica (vedi tab. 2). Il ventaglio delle attività risulta evidentemente piuttosto ampio dal momento che esso copre funzioni terziarie nel campo della promozione e della comunicazione, della ricerca e sviluppo e del design industriale, dell’ analisi e dell’informazione economica e di mercato, della consulenza e progettazione in campo tecnico, della consulenza e della certificazione in materia finanziaria, di gestione e di organizzazione dell’impresa, dell’elaborazione e del trattamento dei dati o della impostazione e realizzazione dei sistemi informativi, della acquisizione, qualificazione e gestione delle risorse umane. UNA NOTEVOLE PRESENZA DI BS “MODERNO” I dati del Censimento Intermedio permettono di rilevare che nel Nord Italia, in termini di addetti, le componenti di tipo moderno rappresentano il 30,8% delle attività di BS, con una incidenza superiore a quelle che si riscontra nel dato medio nazionale (27,8%). Utilizzando anche in questo caso indicatori di densità rispetto a popolazione, occupati totali e addetti alle imprese si osserva (fig. 1) più direttamente che: 134 IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE • • il divario esistente nella densità di BS tra il Nord Italia ed il resto del paese tende a ridursi nel caso dei servizi più tradizionali, mentre si accentua quando si considerano le forme più moderne; la densità al Nord dei BS moderni appare particolarmente elevata se rapportata agli abitanti o anche, ma in misura più limitata, all’occupazione complessiva. Il divario dalla media nazionale è molto più modesto, tuttavia, se la densità è calcolata in rapporto alla estensione del sistema delle imprese. Il fatto che nel Nord Italia si concentri una quota importante dell’offerta nazionale di BS di tipo moderno (63%) qualifica certamente l’economia di questo territorio, ma in una misura che è sostanzialmente coerente con le dimensioni del suo sistema di imprese e, quindi, poco più che in linea con il suo potenziale interno di domanda. La presenza di forme moderne di BS può tuttavia essere meglio qualificata e interpretata spingendo l’analisi ad un maggiore livello di dettaglio sia per quanto riguarda la disaggregazione dei dati a livello territoriale, sia per quanto concerne le tipologie dei servizi. L’OFFERTA DI BS A LIVELLO REGIONALE UNA TIPOLOGIA DI REGIONI A livello di geografia economica aspetti significativi emergono già esaminando i dati a livello delle quattro ripartizioni in cui viene abitualmente suddiviso il territorio italiano e ancor più confrontando tra di loro gli indicatori calcolati su scala regionale. Per quanto riguarda il Nord emergono in primo luogo differenziali significativi in merito alla presenza di forme moderne di BS tra area di Nord Ovest e area di Nord Est. Nel Nord Ovest il sistema dei BS di tipo moderno ha una densità che rimane superiore alla media nazionale sia che l’indicatore considerato faccia riferimento alla popolazione, sia che venga calcolato in relazione alla occupazione complessiva o a quella che fa capo alle imprese. Nel caso del Nord Est invece le componenti più moderne dei servizi alle imprese hanno una presenza sul territorio abbastanza elevata in rapporto alla popolazione, ma al di sotto della media nazionale, se tale presenza viene rapportata al potenziale economico e imprenditoriale corrispondente. Gli indicatori utilizzati per misurare la densità dei BS su scala territoriale permettono anche di ricostruire una tipologia che ripartisce chiaramente le regioni italiane in tre gruppi ben distinti (fig. 2). 1. Nel primo gruppo si posizionano tutte le regioni del Mezzogiorno: qui la presenza di forme moderne di BS è largamente al di sotto della media nazionale sia in rapporto alla popolazione, sia in rapporto alle dimensioni del sistema delle imprese. 2. Nella secondo gruppo si collocano le regioni del Nord Est , le regioni del Centro (escluso il Lazio) ed anche le due regioni più piccole del Nord Ovest (Liguria e Valle d’Aosta). Qui la densità degli addetti ai BS moderni tende ad allinearsi o a superare di poco quello medio italiano se riferita alla popolazione, ma si posiziona comunque sempre sotto i livelli medi quando viene rapportata alle dimensioni del sistema delle imprese. 3. Del terzo gruppo fanno parte Piemonte, Lombardia e Lazio; in queste tre regioni la presenza di forme moderne di servizio alle imprese eccede la media nazionale qualunque sia il parametro in base al quale si propone il confronto. 135 IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE Mentre i primi due gruppi di regioni appaiono ben delineati e piuttosto omogenei al loro interno, il terzo gruppo presenta differenze abbastanza marcate tra le regioni che lo compongono. Da un lato è evidente che il caso del Lazio va letto con una logica che non può rientrare in un semplice schema comparativo. Qui la consistenza dei servizi moderni è largamente superiore a quella che si potrebbe prefigurare in base alle dimensioni del sistema di imprese della regione; ma il dato va messo ovviamente in relazione allo sviluppo di una domanda di servizi che qui trae origine dalla concentrazione di istituzioni dello Stato e di apparati amministrativi nazionali nella capitale o da opportunità localizzative indotte dalla prossimità ai centri decisionali e alle sedi politiche. Per quanto riguarda il Nord, la Lombardia in primo luogo, ma anche il Piemonte, si confermano invece come le due aree dove l’offerta dei servizi alle imprese nelle sue forme più moderne si addensa in misura maggiore e, soprattutto, sembra eccedere in parte il potenziale diretto di domanda che l’economia di queste due regioni è in grado di esprimere. IL PROTAGONISMO DI LOMBARDIA E PIEMONTE La densità di BS che caratterizza Lombardia e Piemonte, ma con una analisi più fine, meglio si potrebbe dire Milano e Torino, trova probabilmente molteplici spiegazioni, tra queste sicuramente occorre ricordare: 1. il fatto che queste attività, per svariate ragioni, trovano spesso il loro habitat più congeniale nei grandi contesti urbani; 2. il fatto che in queste aree si concentra la presenza di grandi imprese, delle sedi di grandi gruppi o di centri direzionali, di istituzioni e centri culturali che esprimono direttamente o generano indirettamente livelli di domanda più elevati in termini di servizi avanzati e di funzioni terziarie innovative; 3. il fatto che in queste stesse aree si collocano le più importanti infrastrutture di mercato, o principali snodi dei trasporti e delle comunicazioni; attraverso di essi realizzano movimenti di persone, di merci o di idee, scambi di danaro, di informazione o di conoscenze, cioè quell’insieme di flussi economici e sociali che le attività di terziario più moderno sono chiamate a supportare, promuovere, gestire o controllare. In altri termini l’addensamento dei servizi più moderni in regioni come la Lombardia o il Piemonte e in città come Milano e Torino, esprime di fatto la diversa posizione che queste regioni occupano nella gerarchia dei territori: la loro centralità nella guida dei processi di sviluppo economico e la loro funzione altrettanto centrale nell’organizzazione di molte delle relazioni attraverso le quali il sistema economico del Nord Italia interagisce e si raccorda con altri sistemi economici su scala internazionale. La domanda che ci si può porre è tuttavia se queste regioni esprimono una centralità altrettanto significativa se la scala territoriale per la quale tale centralità viene valutata passa da un livello nazionale ad uno europeo ed internazionale. La domanda è cioè se il Nord dell’Italia, attraverso i poli terziari lombardo e piemontese possa aspirare ad una posizione di centralità su scala continentale o se al contrario Milano e Torino non si limitino invece a svolgere un ruolo di raccordo tra le aree forti dell’Europa e un Nord dell’Italia, magari ricco e con una solida base industriale, ma sostanzialmente periferico nella gerarchia dei territori del continente per quanto riguarda talune funzioni che sono strategiche per il governo ed il controllo di processi economici. 136 IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE I SERVIZI ALLE IMPRESE NEGLI SCAMBI CON L’ESTERO La centralità di Lazio, Piemonte e Lombardia nel settore dei BS nel contesto italiano ha un riscontro anche più puntuale se per le attività di servizio alle imprese si analizzano i dati di interscambio con l’estero. La fonte di riferimento è in questo caso UIC - Banca d’Italia, che permette di rilevare periodicamente debiti e crediti relativi ai servizi e, nello specifico, movimenti relativi a diverse prestazioni identificate sotto la voce “servizi alle imprese” (si veda la tabella 4 per un maggiore dettaglio dei contenuti di questa voce). A livello nazionale la voce servizi alle imprese ha determinato nel 1998 un movimento complessivo di 35 mila miliardi. Escludendo dal computo le componenti non attribuibili territorialmente, si può osservare (tab. 3) che circa i quattro quinti del movimento compete al Nord Italia e che in particolare quasi i due terzi riguardano l’area di Nord Ovest. In realtà non si tratta tanto di un discorso di area, quanto piuttosto di poli terziari: Milano concorre da sola alla formazione del 40,9% dell’interscambio, precedendo largamente nella graduatoria delle province italiane sia Roma (14,4%), sia Torino (11,3%). Il capoluogo lombardo e, sia pure in misura minore, quello piemontese, si confermano quindi come i due centri nodali delle attività di BS: è attraverso di essi che transitano le operazioni di scambio internazionale relative alla domanda e alla offerta di prestazioni e servizi alle imprese di interesse per l’economia italiana e più in particolare per il sistema economico del Nord. UN INTERSCAMBIO CON L’ESTERO FORTEMENTE PASSIVO Un dato rilevante sul quale è opportuno soffermare l’attenzione è inoltre il fatto che nella bilancia degli scambi con l’estero il saldo è fortemente passivo (– 6.727 miliardi a livello nazionale). Nel caso del Nord Italia nel 1998 i crediti del periodo (9.735 miliardi) hanno coperto poco più del 70% dei debiti ed il saldo negativo (– 3.813 miliardi) ha rappresentato il 16,4% del corrispondente movimento. Di fatto il sistema economico italiano, in generale, e quello del Nord Italia, in particolare, alimentano verso l’estero una domanda di servizi alle imprese ben superiore rispetto a quanto riescono a realizzare direttamene sull’estero in termini di offerta. Gli elementi di debolezza dell’offerta di servizi alle imprese sul piano degli scambi internazionali possono essere meglio identificati se si passa ad una analisi più fine dell’aggregato servizi alle imprese in termini di attività e prestazioni specifiche. I dati (tab. 4) in questo caso riguardano esclusivamente il livello nazionale, ma vanno ovviamente considerati come rappresentativi soprattutto del Nord Italia se si considera il peso decisivo che, come si è visto, questa area ha nei rispettivi movimenti in entrata e in uscita. In primo luogo è opportuno sottolineare che un saldo negativo si determina per quasi tutte le voci attraverso le quali gli interscambi di servizio vengono classificati. A titolo di esempio si può evidenziare il saldo negativo consistente dei servizi di pubblicità, che è rilevante sia in termini assoluti (- 603 miliardi nel 1998), sia in termini relativi se si considera che l’export (crediti) compensa soltanto 137 IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE il 71% dell’import (debiti). Lo stesso discorso vale, sia pure su una scala più ridotta di valori, per le ricerche di mercato dove i crediti (140 miliardi) raggiungono poco più della metà dei debiti (267 miliardi). Una categoria di servizi sui quali è poi opportuno fissare l’attenzione è quella dei servizi informatici, per i quali il saldo dei movimenti verso l’estero risulta pesantemente negativo (- 859 miliardi nel 1998): in questo caso l’export (498 miliardi) copre soltanto una quota modesta (37%) dell’import (1357 miliardi). Passivo infine è anche il risultato che si evidenzia analizzando complessivamente i movimenti relativi ai servizi tecnologici ( - 1.354), anche se in questo caso in termini relativi il rapporto debiti crediti mostra un maggiore equilibrio (79%). UNA COLLOCAZIONE DEBOLE NEL CONTESTO INTERNAZIONALE LE DIRETTRICI DI INTERSCAMBIO I dati che emergono dall’esame delle diverse componenti dell’interscambio di servizi sono suscettibili di interpretazioni diverse a seconda della natura delle prestazioni specifiche prese in esame. Debiti elevati possono talora essere la conseguenza di sostenuti livelli di attività delle aziende italiane sui mercati esteri, mentre in altri casi crediti modesti e saldi negativi consistenti vanno più propriamente letti come indicatori di un mutato sviluppo e/o di una scarsa capacità competitiva dell’offerta interna. È evidente comunque dall’insieme dei dati che il sistema economico italiano ed anche quello del Nord Italia non appare in grado di sviluppare autonomamente, ed in misura adeguata, molte funzioni di terziario moderno, né tanto meno di proporsi come bacino di offerta di rilievo internazionale e strutturato per proporsi complessivamente come area di riferimento su scala continentale. Un ulteriore elemento che permette di meglio comprendere la collocazione del Nord Italia nel sistema internazionale con riferimento specifico al sistema dei servizi alle imprese si evidenzia osservando le direttrici lungo le quali si sviluppano i movimenti in entrata e in uscita (tab. 5 e 6). Anche in questo caso i dati sono a livello nazionale ma continua a valere quanto detto in precedenza circa la loro significatività soprattutto per le regioni dell’Italia settentrionale. A questo proposito si può mettere in rilievo quanto segue: 1. l’interscambio, sia nei movimenti in entrata, sia in quelli in uscita, è estremamente concentrato e coinvolge in misura significativa un numero ristretto di paesi. Il 90% circa dei crediti e dei debiti riguarda 14 paesi e per l’80% è riferito a 7 paesi soltanto; 2. in entrambe le direzioni i movimenti di un qualche rilievo riguardano esclusivamente le economie forti e i paesi avanzati. I dati rilevati non evidenziano in particolare un export diretto di servizi verso aree economiche come il Nord Africa o l’Est europeo. Il sistema dei servizi alle imprese non sembra, quindi, anche da questo punto di vista, alimentare relazioni internazionali indotte dalla capacità di svolgere un ruolo autonomo di collegamento e da punto di riferimento nei confronti di economie geograficamente vicine ma più distanti sotto il profilo del livello di sviluppo. 138 IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE Nell’analisi dei dati si può rilevare inoltre che la graduatoria dei paesi che determinano i movimenti nelle diverse componenti dei servizi alle imprese mostra un profilo ben diverso di quello che si registra per l’interscambio di merci. Basta osservare che gli Stati Uniti occupano in assoluto la prima posizione e che da soli incidono per il 16,1% sul versante dei crediti e per ben il 23,7% su quello dei debiti. La Germania, invece, che costituisce il nostro principale partner commerciale nell’import-export di beni, si posiziona in questo caso soltanto al quarto posto, preceduta in Europa non solo dalla Francia, ma anche e soprattutto dalla Gran Bretagna. Di rilievo sono anche i movimenti che si determinano in direzione di Svizzera, Paesi Bassi e Belgio, soprattutto se commisurati alle dimensioni modeste di questi paesi. Il sistema economico del Nord Italia sul terreno dei servizi alle imprese si trova quindi inserito in un complesso di relazioni che fa perno sugli Stati Uniti o su quelle regioni/nazioni europee che da tempo hanno impostato il loro sviluppo economico sul terziario e che sulle attività terziarie moderne si sono da tempo candidate a fungere da poli di riferimento di primo livello su scala internazionale o quanto meno continentale. Nei confronti di queste aree l’Italia è decisamente un importatore netto di servizi alle imprese, posizione che l’Italia ha mantenuto inalterata nel corso di tutti gli anni Novanta (tab. 7) UNA DEBOLE AUTONOMIA RISPETTO AL SISTEMA MANIFATTURIERO Il Nord dell’Italia, come peraltro accade per molte aree sviluppate della Germania, sembra mantenere il suo punto di forza economico nel sistema manifatturiero. I servizi alle imprese appaiono in questo caso configurarsi più come una componente che si sviluppa secondo logiche e valenze funzionali interne piuttosto che come componente che tende ad organizzarsi ed evolvere secondo logiche autonome, più direttamente collegate ad una transizione in chiave terziaria della sua economia. A differenza della Germania tuttavia, le logiche e le valenze funzionali interne sono riferite ad un sistema economico e ad una realtà imprenditoriale che esprimono una domanda per molti versi di basso profilo. LA COLLOCAZIONE NEL CONTESTO INTERNAZIONALE I dati sull’interscambio internazionale certamente danno sostegno all’ipotesi di un sistema di servizi alle imprese insufficientemente sviluppato, strutturalmente debole per sostenere il confronto con quello di altri paesi europei e per proporsi come soggetto capace di competere con successo in un mercato a scala internazionale. Conferme anche più puntuali di quanto affermato si possono ottenere se si analizzano alcuni dati comparativi a livello europeo. Per questo tipo di analisi non è possibile operare su cifre aggregate, ma occorre esaminare separatamente alcuni “settori” rappresentativi, senza la pretesa di fornire un quadro esaustivo della situazione. La fonte principale di riferimento utilizzata a questo scopo è l’edizione 1997 del “Panorama of EU Industry” curato da Eurostat. 139 IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE UNO SCARSO PESO NEL CONTESTO UE: L’ESEMPIO DELLE RICERCHE DI MERCATO … … DELLA PUBBLICITÀ Indicazioni di rilevante interesse si ricavano ad esempio se si esamina il settore delle ricerche di mercato. Nel 1994 il giro d’affari delle società di questo settore risultava in Italia di 273 milioni di ECU contro i 610 milioni della Francia, i 675 della Gran Bretagna, i 780 della Germania. Il senso di queste cifre diventa ancora più evidente se si osserva che in questo settore la quota dell’Italia nella “Europa a 12” risultava del 9%, a fronte di una incidenza del 16% in termini di popolazione e del 15% in termini di PIL. Del tutto simili sono le indicazioni che si ricavano esaminando la spesa pubblicitaria. Il mercato italiano della pubblicità risultava in termini assoluti meno della metà di quello britannico, meno di un terzo di quello tedesco e solo un poco più ampio di quello spagnolo. Con 73.6 ECU di spesa pro capite l’Italia si colloca al penultimo posto della graduatoria dei paesi comunitari (prima di Portogallo, ma dietro Spagna e Grecia), su livelli ben distanti dalla media dei paesi dell’Unione Europea (129.4 ECU). Settori come le ricerche di mercato e la pubblicità dove l’Italia mostra, come si è visto in precedenza, un saldo negativo non indifferente si accompagnano quindi all’esistenza di un mercato poco sviluppato in termini di domanda interna. Analogamente l’offerta nazionale non trova spesso rappresentazione nelle società leader sul mercato internazionale. Nel caso delle ricerche di mercato, sempre nel 1994, nella graduatoria delle 10 “top companies” mondiali, accanto a 4 società americane e una giapponese, comparivano due società tedesche, due francesi e una britannica. L’assenza di operatori italiani nelle posizioni di testa del ranking internazionale è peraltro una caratteristica che, con poche eccezioni, accomuna molti dei settori di servizi alle imprese. … E DEI SERVIZI DI INFORMAZIONE ELETTRONICA Allo stesso modo mercati di dimensioni ridotte rispetto alla consistenza del sistema economico si rintracciano in molte altre attività. Emblematico è il caso dei servizi di informazione elettronica dove la domanda interna (353 miliardi di ECU nel 1994) è ben lontana non solo dai livelli britannici (1174 milioni di ECU) ma anche da quelli tedeschi (594,5) e francesi (585,7). In queste attività il mercato europeo è largamente dominato dalle società inglesi che realizzano più del 70% dei loro ricavi all’estero. D’altra parte nei servizi di informazione elettronica un terzo del fatturato è ricavato da informazioni di tipo finanziario ed un quarto da informazioni relative ai bilanci delle imprese. Parallelamente, più del 40% della domanda europea è a sua volta alimentato da società e operatori che operano nel campo dei servizi finanziari. La centralità di Londra come piazza finanziaria europea genera quindi un mercato interno dell’informazione elettronica di dimensioni notevoli e compatibili con lo sviluppo di una offerta capace di trovare poi sbocchi autonomi sui mercati internazionali. Ma si tratta soltanto di un esempio del legame che di norma si determina tra sviluppo dei servizi e la leadership che un’area è in grado di assumere e mantenere sul piano delle infrastrutture logistiche e nell’organizzazione dei mercati. Dall’esame di questi pochi, ma significativi, spaccati settoriali si può rilevare che un’offerta robusta e competitiva anche su scala internazionale si sviluppa in contesti dove la domanda si esprime su livelli elevati e dove le strutture e 140 IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE le infrastrutture economiche sono in grado di alimentare con forza la crescita e lo sviluppo del mercato. In questo contesto la posizione di debolezza del sistema italiano dei BS, a cui si sottrae solo in parte quello delle regioni del Nord, va certamente messa in relazione con la scarsa propensione del sistema economico italiano a “consumare” servizi ed in particolare ad incorporare quegli apporti professionali qualificati e innovativi che le forme moderne di terziario sono in grado di produrre e di mettere in circolazione nel sistema delle imprese industriali e non. Le ragioni di tutto questo sono da rintracciare in alcune caratteristiche del sistema imprenditoriale italiano e in alcuni tratti di fondo che per molto tempo hanno accompagnato lo sviluppo economico nazionale. ALCUNI FATTORI STRUTTURALI DELLA BASSA DOMANDA DI BS La presenza di un sistema manifatturiero basato su prodotti tradizionali e maturi e con realtà di impresa privata in larga misura di piccola dimensione, da un lato, la sottrazione al confronto con la concorrenza e/o alla competizione internazionale di una fetta consistente dell’economia, attraverso il controllo pubblico, la presenza per diverso tempo di monopoli e/o il mantenimento di barriere protettive, dall’altro lato, non sono che due delle condizioni strutturali che certamente hanno contribuito a comprimere la domanda di BS. Per avere una indicazione di conferma su questo ultimo aspetto basta osservare gli effetti dinamici sulla spesa pubblicitaria, che si sono determinati a seguito delle privatizzazioni e della creazione di un mercato più aperto alla concorrenza nel settore delle telecomunicazioni. Questi aspetti ed altri nodi strutturali rilevanti sono certamente alla base della arretratezza che caratterizza anche il mercato dei servizi informatici e la posizione di dipendenza in cui si trova complessivamente il settore della information technology non solo nei confronti degli Stati Uniti ma anche rispetto alle maggiori e più sviluppate economie europee; ma a questa area dei servizi e a questo settore è opportuno dedicare maggiore spazio ed approfondimento. IL SETTORE DELL’INFORMATION TECHNOLOGY Un discorso che riguarda l’informatica circoscritto alle sole attività di servizio è certamente riduttivo e rischia di diventare per taluni versi fuorviante. Hardware, software e servizi informatici si basano in realtà su un intreccio di tecnologie correlate; la loro produzione e il loro consumo danno vita ad un mercato con forti elementi di connessione e di interdipendenza; è pertanto opportuno riportare l’esame dei servizi informatici ad una analisi di tipo più ampio, che si estende al settore e mercato dell’information technology visti nella loro globalità. La rapidità con la quale le tecnologie del settore evolvono, gli elevati tassi di crescita del mercato a cui esse danno vita, da un lato, il notevole impatto diretto e indiretto che tali tecnologie hanno sull’organizzazione dei sistemi economici e sociali, dall’altro lato, stanno alimentando in questo ultimo periodo la produzione di un numero crescente di indagini, ricerche e studi a livello nazionale ed internazionale, che sarebbe in questo contesto difficile riassumere in modo sistematico anche solo per gli aspetti di più diretto interesse per questo lavoro. 141 IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE Vi sono tuttavia alcune considerazioni e indicazioni di fondo sulle quali molti studi convergono o apportano contributi convergenti e sulle quali è opportuno soffermare l’attenzione. UNA SCARSA PENETRAZIONE DELL’IT NEL MERCATO ITALIANO UNA DINAMICA DI CRESCITA INFERIORE AI PAESI LEADER EUROPEI Esaminando in particolare la spesa EDP in rapporto alla popolazione e agli occupati o misurandone l’incidenza sul Pil, è evidente il forte divario che separa gli Stati Uniti dalle altre grandi economie, ed in particolare dai maggiori paesi europei, nella diffusione delle tecnologie informatiche. Altrettanto netto è l’ulteriore ritardo che emerge confrontando i dati dell’Italia con quelli dei maggiori partner continentali. La spesa EDP pro capite dell’Italia è circa la metà di quella che si registra in Francia, Germania e Gran Bretagna. Sul piano della penetrazione delle tecnologie informatiche l’Italia si colloca quindi in una posizione decisamente periferica rispetto ad una Europa che, a sua volta, è in posizione altrettanto periferica rispetto agli Stati Uniti. Indicazioni che vanno ad ulteriore sostegno di quanto appena affermato si possono ricavare confrontando la consistenza relativa del parco installato di personal computer, dove l’Italia, con 10,3 pc per abitante, è ben lontana dagli standard europei. Dall’insieme dei diversi indicatori si ricava l’immagine di un paese, l’Italia, nel quale lo sviluppo assunto dalle tecnologie informatiche è più prossimo a quello che si registra in paesi del Sud dell’Europa, come la Spagna, che non a quello delle aree forti del continente (fig. 3). Ad una penetrazione scarsa delle tecnologie informatiche fa ovviamente riscontro un mercato di dimensioni assolute piuttosto modeste se comparato con quello di altri paesi. Le stime EITO consentono di valutare in 16,3 miliardi di ECU il mercato italiano dell’IT nel 1998, una cifra ben lontana dai 34,1 miliardi di ECU del mercato francese, dai 40,4 di quello britannico, dai 44,9 di quello tedesco. Oltre ad essere di dimensioni limitate, il mercato italiano presenta dinamiche meno sostenute di quelle che si registrano in altri mercati. Si tratta di un fenomeno che contraddistingue peraltro già da molto tempo il nostro paese, ma che sembra al contempo destinato a perdurare: • tra il 1987 ed il 1994, ad esempio, i dati Ocse evidenziano un tasso di crescita del Mercato italiano dell’IT del 5% contro il 9,1% medio europeo; • nel 1997 il rapporto Assinform mostra l’Italia all’ultimo posto tra i paesi Europei per quanto riguarda la crescita del Mercato IT rispetto all’anno precedente; • le stime EITO per il periodo 1997-2000 del mercato IT prospettano per l’Italia ritmi di crescita inferiori a quelli medi europei (tab.8) e comunque al di sotto di quelli che si indicano per Francia, Germania e Gran Bretagna. Pur crescendo a ritmi superiori a quelli del Pil, il mercato italiano dell’IT presenta dunque dinamiche che non lasciano in ogni caso prevedere realistiche possibilità di colmare in tempi ragionevolmente brevi almeno parte del divario che si è cumulato nei confronti delle altre economie europee. Si è già visto che in un mercato debole come quello italiano sono pesantemente in rosso i saldi negli scambi internazionali di servizi e che in questo non fa certamente eccezione il mercato dei servizi informatici. 142 IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE Il discorso investe comunque anche l’hardware. I dati Istat dell’interscambio con l’estero dei prodotti informatici (Macchine per elaborazione dati e loro parti), elaborati dall’Osservatorio SMAU, evidenziano un saldo negativo di 1387 miliardi nel 1998 e la presenza di una forbice tra export ed import che si è andata progressivamente ampliando negli ultimi tre anni. Il mercato italiano dell’IT rivela paradossalmente segnali di arretratezza anche nel modesto assorbimento di prodotti/servizi di provenienza diretta dagli Stati Uniti, dal paese che detiene cioè la leadership tecnologica in questo settore. I dati di fonte NSF riportati nello studio dell’Ocse “Information Technology Outlook 1997” mostrano, ad esempio, che l’Italia (1994) rappresenta l’1,7% dell’export di prodotti software americani, contro il 3,7% della Francia, l’8,2% della Gran Bretagna, l’8,4% della Germania. Questo e numerosi altri indicatori, che si possono ricavare dallo stesso studio o da altre fonti, dimostrano una volta di più che l’Italia, oltre ad esprimere una domanda debole e a dipendere in misura rilevante dall’estero, si inserisce in una posizione piuttosto marginale nei circuiti di interscambio internazionale attraverso i quali si alimenta lo sviluppo del settore dell’IT. Il mercato italiano dell’Information technology, visto nel suo insieme, finisce quindi per configurarsi come un mercato nel quale l’offerta interna è insufficiente a coprire le esigenze ed i livelli di domanda, ma nel quale la domanda al contempo non può essere di per sé stessa considerata particolarmente robusta e attrattiva nei confronti dell’offerta internazionale più qualificata ed avanzata. Le conseguenze che da questo possono derivare vanno valutate sotto diversi punti di vista e, tra i tanti, in termini di circolazione di know how, di disponibilità e a prodotti e servizi fortemente innovativi, di modalità, articolazione e livello delle presenze degli operatori esteri. Il che certamente non può in prospettiva andare a vantaggio della crescita del settore, né consentire al sistema delle imprese di accedere in modo tempestivo ed efficiente a risorse che stanno diventando sempre più strategiche nella competizione internazionale. I RISCHI DI UNO SCARSO SVILUPPO DEL MERCATO DELL’IT La situazione in cui si trova il mercato il settore pone in sostanza interrogativi molteplici, che, per semplicità, si possono schematizzare in relazione con due ordini diversi di problemi: 1. perdita di opportunità di sviluppo in un settore molto dinamico, con forti potenzialità di crescita diretta e in grado di condizionare la nascita e l’espansione di business complementari; 2. gap complessivo del sistema nei meccanismi che gli permettono di incorporare strumenti e conoscenze o nell’accedere a tecnologie fondamentali per poter evolvere secondo le logiche di una organizzazione economica moderna, attrezzata per competere nel mercato globale, un mercato nel quale sempre di più conta la capacità dei soggetti economici di organizzare e controllare reti di relazioni e di gestire in tempi sempre più stretti flussi informativi via via più articolati e complessi. In questo contesto diventa per molti versi quasi emblematico il ritardo che caratterizza l’Italia nello sviluppo di Internet sia nella diffusione dell’accesso alla rete, sia nell’utilizzo economico da parte degli operatori, sia infine come volano per generare opportunità in nuovi business. Affrontare sia pure sommariamente le problematiche poste dallo sviluppo di Internet implicherebbe tuttavia di allargare il discorso a temi tecnologici diversi e ad affrontare aspetti inerenti il mercato e le infrastrutture di telecomu- 143 IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE nicazione, che si intrecciano certamente con quelle dell’IT, ma che conducono a considerazioni rilevanti ben al di là dei confini in cui si colloca questo lavoro rivolto principalmente a tracciare un quadro del settore dei servizi alle imprese. Dalla posizione che l’Italia occupa come paese nel contesto internazionale non si può ovviamente prescindere quando si intende esaminare più da vicino la realtà dei servizi informatici o più in generale del settore dell’information technology nelle regioni del Nord. IL MERCATO DELL’IT: IL PESO DEL NORD ITALIA A LIVELLO NAZIONALE UN RAFFRONTO INTERNAZIONALE Non si può comunque fare a meno di iniziare con la constatazione che sul piano interno l’area settentrionale presenta sicuramente una significativa concentrazione di attività di servizio collegate con le tecnologie dell’informazione. In particolare si può rilevare che gli addetti alle unità locali delle imprese del settore, al censimento intermedio 1996 risultavano in Italia 203 mila, di cui 122 mila (60%) al Nord. La quota delle regioni settentrionali va da un minimo del 56% nelle attività di “Fornitura di software e consulenza in materia di informatica” ad un massimo del 64% nei servizi di “Elaborazione elettronica dei dati”. Si tratta di quote elevate, ma sostanzialmente in linea con quelle rilevate per molte altre attività di BS e coerenti con le dimensioni del sistema economico e imprenditoriale dell’area. Proporzioni analoghe sono attribuibili alle regioni del Nord Italia se si esamina la ripartizione territoriale delle spese nel settore IT: nel 1997, in base ai dati Assinform, la quota del Nord Italia risulta pari al 58% del totale nazionale. Rapportando i valori assoluti alla popolazione e agli occupati si osserva che i differenziali più significativi riguardano la posizione di evidente arretratezza del Mezzogiorno rispetto al resto del paese; esistono tuttavia anche scostamenti di un certo rilievo tra Nord Ovest e Nord Est. In questa ultima area in particolare si registra una spesa per occupato sul mercato informatico, che, sia pure di poco, è al di sotto della media nazionale. Il fatto che il Nord nel suo insieme, e l’area di Nord Ovest, in modo particolare, presentino un livello abbastanza elevato di spesa informatica, non è comunque un indice che autorizza a collocare questo territorio tra le aree europee a più forte penetrazione per quanto riguarda l’information technology. Anche se non è possibili disporre di dati di raffronto diretto è sufficiente assumere come termine di paragone un’area come quella costituita complessivamente da Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo. Qui la popolazione (circa 26 milioni di abitanti) è di poco superiore a quella presente nel Nord dell’Italia (25,2 milioni), ma il mercato dell’information technology, in base ai dati EITO per il 1998, raggiunge i 15,4 miliardi di ECU, cioè una cifra prossima a quella dell’intero mercato italiano (16,3 miliardi). È indubbio pertanto che anche sul piano dell’information technology, il livello raggiunto dall’Italia del Nord, sia pure con divari attenuati, rimane distante da quello dei paesi economicamente più sviluppati, soprattutto da quell’area che, facendo perno su capitali e importanti città e sedi europee, come Londra, Parigi, Amsterdam, Bruxelles, si è da tempo candidata come sistema integrato e interdipendente di poli terziari avanzati del continente. 144 IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE ALLEGATI STATISTICI Tab. 1 – Addetti alle unità locali di Business Services, 1996 – Indicatori di densità Nord Italia Densità: Indice Numero Numero Italia = 100 - per 1000 abitanti 24,2 30,9 128 - per 1000 occupati 68,5 74,9 109 - per 1000 addetti alle imprese 99,7 95,7 96 Fonte: elaborazioni su dati Istat Tab. 2 – Incidenza delle aree del Nord Italia nell’offerta di Business Services di tipo moderno, 1996 (% calcolate sugli addetti alle unità locali) di cui: Attività (codice ATECO e descrizione) Nord Nord Nord Ovest Est 72.10.0 Consulenza per installazione di elaboratori elettronici 61,6 36,9 24,7 72.20.0 Fornitura di software e consulenza in materia di informatica 55,8 39,1 16,7 72.30.0 Elaborazione elettronica dei dati 63,7 36,9 26,8 72.40.0 Attivita’ delle banche di dati 59,8 25,3 34,5 72.60.1 Servizi di telematica, robotica, eidomatica 59,2 52,7 6,5 72.60.2 Altri servizi connessi all’informatica 61,8 48,3 13,4 73.10.0 R&S sperim. nel campo delle scienze naturali e ingegneria 58,2 46,9 11,3 73.20.0 R&S sperim. nel campo delle scienze sociali e umanistiche 59,3 36,2 23,1 74.12.2 Attività delle società di certificazione di bilanci 75,2 50,6 24,5 74.13.0 Studi di mercato e sondaggi di opinione 66,2 52,2 14,1 74.14.1 Consulenze finanziarie 54,4 30,4 24,0 74.14.2 Consulenze del lavoro 55,9 31,7 24,3 74.14.4 Amministraz. di società ed enti, consulenza e pianificazione 69,9 45,8 24,1 aziendale 74.14.5 Pubbliche relazioni 70,2 49,6 20,5 74.14.6 Agenzie di informazioni commerciali 64,1 45,9 18,2 74.20.3 Servizi di ingegneria integrata 68,6 52,2 16,4 74.30.1 Collaudi e analisi tecniche di prodotti 71,0 46,7 24,4 74.30.2 Controllo di qualità e certificazione di prodotti 67,7 45,0 22,7 74.40.1 Studi di promozione pubblicitaria 74,6 52,0 22,6 74.50.0 Servizi di ricerca, selezione e fornitura di personale 61,4 44,4 16,9 74.83.1 Organizzazione di convegni 57,5 35,8 21,7 74.83.3 Traduzioni e interpretariato 73,8 44,4 29,3 74.84.2 Agenzie di recupero crediti 61,5 48,7 12,8 74.84.5 Design e stiling di tessili, abbigl., calzature, gioielli, mobili 73,5 49,1 24,4 ecc. Fonte: elaborazioni su dati Istat 145 IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE Fig. 1 – Densità dei Business Services di tipo moderno Addetti ai Business Services Moderni (Indici ITALIA =100) x 1000 Abitanti x 1000 Occupati x 1000 Addetti alle imprese 200 180 168 160 Indici ITALIA = 100 154 150150 146 140 129 122 121 116116 115 100 117 95 128 122 112 103 99 94 94 87 85 81 84 66 49 38 0 NORD OVEST CENTRO NORD EST SUD E ISOLE Lombardia Emilia-Romagna Piemonte Veneto Toscana Fonte: elaborazioni su dati Istat 146 Lazio IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE Fig. 2 – Posizionamento delle regioni italiane nel sistema dei Business Services di tipo moderno Addetti ai BS moderni x 1000 addetti alle imprese Laz 40 Lom Pie Lig Umb Bas Sar 20 CalSic 0 EmR VdA Mar Cam Pug Mol FVG Tos TAAVen Abr 4,5 9 x 1000 abitanti Fonte: elaborazioni da dati Istat Tab. 3 – Incidenza delle diverse componenti territoriali nell’intercambio con l’estero dei servizi alle imprese, 1998 (% sul totale Italia) Crediti (C) Debiti (D) Movimento M = C+D Totale Italia (*) 100,0 100,0 100,0 area: NORD 79,3 77,2 78,1 - Nord Ovest 67,7 62,9 64,9 - Nord Est 11,6 14,3 13,2 regione: Piemonte 17,0 10,6 13,3 Lombardia 46,6 49,0 48,0 Veneto 4,1 5,4 4,9 Emilia-Romagna 5,2 5,6 5,4 Lazio 15,1 14,9 15,0 provincia: Torino 15,0 8,7 11,3 Milano 41,1 40,8 40,9 Roma 15,0 14,0 14,4 (*) totale ripartibile a livello territoriale Fonte: elaborazioni su dati UIC – Banca d’Italia 147 13,5 IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE Tab. 4 – Bilancia dei crediti e dei debiti dei servizi alle imprese per tipo di servizio a livello nazionale, 1998 (valori in miliardi di lire) Crediti Debiti C D Servizi di Pubblicità 1.477 2.080 Ricerche di mercato 140 267 Servizi legali 153 230 Cons. fiscale e contabilità 221 307 Compensi professionali 835 930 Spese di rappresentanza 1.467 1.581 Servizi informatici 498 1.357 - Software 199 865 - Manut.-riparazione com42 35 puter - Data process. e database 16 131 - Altri servizi iinformatici 241 326 Servizi tecnol. e assistenza 5.016 6.370 - Brevetti 109 213 - Licenze 450 1.241 - Know how 123 231 - Marchi di fabbrica 222 310 - Disegni industriali 15 14 - Servizi ricerca/sviluppo 987 1.149 - Ass. per brevetti./licenze 896 973 - Consulenze/studi tecnici 1.960 1.534 - Formazione personale 44 72 - Altri servizi tecnologici 210 633 Affitti e noleggi 1.311 2.351 Altri servizi per le imprese 3.082 5.456 TOTALE SERVIZI PER 14.200 20.929 LE IMPRESE Fonte: elaborazioni su dati UIC – Banca d’Italia 148 Copertura del debito Movimento Saldo M = C+D 3.557 407 383 528 1.765 3.048 1.855 1.064 77 S = C-D -603 -127 -77 -86 -95 -114 -859 -666 7 C/D 0,710 0,524 0,665 0,720 0,898 0,928 0,367 0,230 1,200 147 567 11.386 322 1.691 354 532 29 2.136 1.869 3.494 116 843 3.662 8.538 35.129 -115 -85 -1.354 -104 -791 -108 -88 1 -162 -77 426 -28 -423 -1.040 -2.374 -6.729 0,122 0,739 0,787 0,512 0,363 0,532 0,716 1,071 0,859 0,921 1,278 0,611 0,332 0,558 0,565 0,678 IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE Tab. 5 – Bilancia italiana dei crediti e dei debiti dei servizi alle imprese per paese, 1998 (valori in miliardi di lire) Crediti Stati Uniti Regno Unito Francia Germania Svizzera Paesi Bassi Belgio Spagna Lussemburgo Austria Irlanda Giappone Svezia Danimarca Altri paesi TOTALE C 2288 2065 2052 1624 1288 1053 894 296 366 141 122 254 134 84 1539 14200 Debiti D 4961 3193 2537 2371 1546 1506 677 412 261 380 278 193 225 117 2270 20927 Movimento M = C+D 7249 5258 4589 3995 2834 2559 1571 708 627 521 400 447 359 201 3809 35127 Saldo S = C-D -2673 -1128 -485 -747 -258 -453 217 -116 105 -239 -156 61 -91 -33 -731 -6727 Copertura del debito C/D 0,461 0,647 0,809 0,685 0,833 0,699 1,321 0,718 1,402 0,371 0,439 1,316 0,596 0,718 0,678 0,679 Fonte: elaborazioni su dati UIC – Banca d’Italia Tab. 6 – Bilancia italiana dei crediti e dei debiti dei servizi alle imprese per paese, 1998 (composizione percentuale) Crediti Debiti Movimento C D M = C+D Stati Uniti 16,1 23,7 20,6 Regno Unito 14,5 15,3 15,0 Francia 14,5 12,1 13,1 Germania 11,4 11,3 11,4 Svizzera 9,1 7,4 8,1 Paesi Bassi 7,4 7,2 7,3 Belgio 6,3 3,2 4,5 Spagna 2,1 2,0 2,0 Lussemburgo 2,6 1,2 1,8 Austria 1,0 1,8 1,5 Irlanda 0,9 1,3 1,1 Giappone 1,8 0,9 1,3 Svezia 0,9 1,1 1,0 Danimarca 0,6 0,6 0,6 Altri paesi 10,8 10,8 10,8 TOTALE 100,0 100,0 100,0 Fonte: elaborazioni su dati UIC – Banca d’Italia 149 IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE Tab. 7 – Andamento della bilancia italiana dei crediti e dei debiti dei servizi alle imprese negli anni Novanta (valori in miliardi di lire) 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 Crediti Debiti Movimento Saldo C 5.587 5.964 7.786 8.791 9.598 10.970 11.620 13.984 14.200 D 7.319 8.897 11.241 12.963 13.855 15.419 16.480 17.677 20.927 M = C+D 12.906 14.861 19.027 21.754 23.453 26.389 28.100 31.661 35.127 S = C-D -1.732 -2.933 -3.455 -4.172 -4.257 -4.449 -4.860 -3.693 -6.727 Copertura del debito C/D 0,763 0,670 0,693 0,678 0,693 0,711 0,705 0,791 0,679 Fonte: elaborazioni su dati UIC – Banca d’Italia Tab. 8 – Dinamica del mercato dell’IT nei principali paesi europei (tassi di variazione calcolati su valori in ECU) 1998/1997 1999/1998 EUROPA 9,4 9,7 Italia 8,3 8,3 Francia 9,8 10,1 Germania 9,5 10,0 Regno Unito 9,8 9,8 Spagna 9,5 9,4 Fonte: EITO 1999 2000/1999 9,5 8,7 10,8 9,3 9,9 9,8 Fig. 3 – Penetrazione delle tecnologie informatiche, 1997. Confronti internazionali Diffusione delle tecnologie informatiche PC installati per 100 abitanti 45 USA 30 Regno Unito Germania Francia Giappone 15 Spagna Italia 0 0 450 900 Spesa EDP per abitante (dollari USA) Fonte: elaborazioni su dati ASSINFORM/Gartner Consulting 150 IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE BIBLIOGRAFIA (Principali fonti statistiche e riferimenti documentari) Istat (1996), Censimento intermedio dell’industria e dei servizi, banca dati on-line. Banca d’Italia (1998), Relazione Annuale. UIC – Bollettino statistico. Eurostat (1997), Panorama of EU Industry. Assinform (1998), Rapporto sull’informatica e le telecomunicazioni. Osservatorio SMAU sull’information & communication technology 1999. European Commission DGXXIII.A3 (October 1997), Evolution of the Internet and WWW in Europe (by Databank Consulting, IDATe, TNO) – Final report. Eito (1999), Il Mercato dell’IT in Europa, documento diffuso sul sito Internet de “Il sole 24 Ore”. Oecd (1997), Information technology outlook. 151 RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO Giuseppe Russo* LE RADICI DEL BENESSERE – IL RISPARMIO DEL SETTENTRIONE: STORIA DI VIRTÙ E DI NECESSITÀ – DA UN AUREO PASSATO A UN FUTURO INCERTO LE RADICI DEL BENESSERE Quali basi finanziarie hanno sostenuto lo sviluppo economico dell’Italia del Nord? Quali i principali cambiamenti in queste basi? Si va in direzione di un loro rafforzamento, come i processi di consolidamento nel settore finanziario farebbero supporre, oppure esiste un concreto rischio di impoverimento delle risorse necessarie per lo sviluppo delle regioni settentrionale del paese? Cercheremo le risposte a queste domande, facendo anzitutto parlare i dati. Non vi è sviluppo senza processo di accumulazione di beni d’investimento o capitali. L’accumulazione – a sua volta – si origina dal risparmio, ossia dai redditi non destinati al consumo immediato, ma accantonati e investiti nella crescita della capacità produttiva. Il circolo virtuoso generato da redditorisparmio-investimenti è alla base di qualunque processo di crescita. La premessa del risparmio è, dunque, la produzione del reddito, e in quanto a produzione la pianura padana, e in particolare il suo cuore industriale e terziario, rappresenta forse il principale “motore economico” d’Italia. Nelle regioni che vanno dalla Valle d’Aosta al Friuli, e si spingono a sud fino all’Emilia Romagna, l’economia privata produce il 57 del valore dei beni e servizi vendibili, mentre la quota di popolazione (circa 25,6 milioni) della stessa area è del 43 per cento. Della robustezza del motore produttivo padano si discute in un’altra sezione della ricerca. Citiamo comunque il fatto che la comparsa di aree di recente industrializzazione in altre regioni del paese, come nella costa adriatica, non sia avvenuta in competizione con le aree storiche della crescita industriale d’Italia. Quando, a partire dagli anni Ottanta, queste ultime hanno più o meno marcatamente segnato il passo, ciò non è avvenuto per l’emergere di aree nuove protagoniste, ma per le difficoltà competitive che alcuni settori dell’industrializzazione storica hanno dovuto affrontare, talora non avendo ancora risolto i problemi della globalizzazione della concorrenza e della relativa minaccia alle specializzazioni tradizionali delle attività produttive padane. UNA CAPACITÀ DI REDDITO… In ogni caso, come anzi si evidenziava, la produzione di risorse che ogni anno si realizza in Italia settentrionale è assai consistente: la regione vantava nel 1995 un Pil di 974 mila miliardi, pari a 38 milioni pro capite1. Fatta pari a 100 tale somma, il reddito pro capite in Francia vale 101, in Germania 108, in Spagna 58, in Austria 106, in Slovenia 41, in Croazia 18. Il tenore di vita nell’Italia settentrionale è potenzialmente2 assai elevato, data la capacità di * Centro “Luigi Einaudi”, Torino La media della restante parte d’Italia è di 25 milioni di lire pro capite (1995) 2 Introduciamo questo aggettivo, per anticipare che in realtà non è detto che tutto il reddito prodotto in una certa regione sia disponibile per il consumo o il risparmio nella stessa, ma si 1 153 RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO acquisto di tale reddito. Per averne un’idea si può confrontare il reddito per abitante del settentrione, calcolato a Psa3, con quello delle regioni europee di frontiera. Il reddito medio per abitante a Psa (nel triennio 1994-’96) va dai 20.390 Ecu nel Nord Ovest, ai 21.432 nel Nord Est, ai 22.740 nell’EmiliaRomagna. La media italiana è di 17.732 Ecu, inferiore a quella settentrionale, benché simile a quella Europea (EU-11), pari a 17.616 Ecu. I valori settentrionali sono poi superiori sia a quelli dell’Austria (19.334 Ecu), sia a quelli della Francia meridionale (15.439 Ecu, con una punta di 16.260 Ecu in Rhones Alpes-Costa Azzurra). Il tenore di vita dell’Italia del Nord è pressoché comparabile con quello della ricca Baviera, pari a 21.886 Ecu, naturalmente sempre a PSA. Collocata in prossimità del vertice della classifica europea per produzione di Pil, e con una popolazione pari a tre volte quella di un paese come l’Austria, è legittimo attendersi che l’Italia settentrionale sia capace di accantonare annualmente un ammontare piuttosto considerevole di risorse, in prima approssimazione per destinarle al processo di riproduzione e di accumulazione del proprio stock di capitale produttivo. Figura 1 Tassi di risparmio complessivo nelle suddivisioni dell'Italia (percentuali del reddito, 1980-1994, elaborazione su dati di contabilità regionale ISTAT, cfr nota 4) 30,0% 25,0% 20,0% 15,0% 10,0% 5,0% 0,0% 1980 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 Italia settentrionale … DA REGIONE FORTE EUROPEA … 1988 ITALIA 1989 1990 1991 1992 1993 1994 Resto d'Italia Come si può osservare dalla figura 1, tra il 1980 e il 1994 il risparmio regionale, sulla base di un calcolo effettuabile dai dati di contabilità regionale, che pure non permettono l’individuazione separata del residuo fiscale4, è oscillato in Italia settentrionale tra il 25 e il 28 per cento del reddito regionale prodotto. Il valore medio italiano è inferiore di circa 8-9 punti, ossia pari al 18 per cento. Il risparmio del resto d’Italia, ossia nella regione che si ottiene aggregando il “non Settentrione”, si ferma intorno al 13 per cento5. possono concepire diverse forme di trasferimento (momentaneo o definitivo, a seconda del titolo che lo genera) del potere d’acquisto prodotto. 3 Psa, Parità Standard di Acquisto. Eurostat, News release n°11/99, 9/2/1999. 4 I valori di risparmio esposti nelle figure 1 e 2 sono ottenuti attraverso la formula: S = Y - C G = I + dS - In (dove dS è l’investimento involontario in scorte e In le importazioni nette dal resto del mondo). Il residuo fiscale sarà oggetto di attenzione nel seguito della scheda. 5 Si consideri, che in quest’ultimo caso abbiamo un consumo di risparmio fiscale (residuo fiscale negativo), il che farebbe diminuire il tasso di risparmio complessivo presentato. 154 RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO Se poi si passa da questi valori, indicativi della potenzialità di accumulazione della regione, alle somme per abitante, si trova che il risparmio (privato) per abitante era di 8,9 milioni di lire per abitante (nel 1994) in Italia settentrionale, e solo di 2,4 milioni nel resto dell’Italia. Per questa ragione, l’economia dell’Italia settentrionale e i suoi protagonisti erano e sono responsabili di generare oltre i due terzi del risparmio nazionale (69 per cento del complesso, figura 3), e non è eccessivo affermare che sulla formazione e sull’impiego di questo surplus si sia basata, nei decenni dello sviluppo industriale, la capacità di crescere e progredire dell’economia nazionale. Figura 2 Il risparmio regionale pro capite (elaborazione su dati di contabilità regionale ISTAT, 1994, cfr nota 4) 10.748.972 8.337.869 8.714.912 8.331.488 8.920.137 7.359.571 6.304.504 5.242.561 5.119.754 2.767.227 6 Resto d'Italia ITALIA Italia settentrionale Emilia Romagna Liguria Friuli 2.345.948 Veneto PIÙ DA PRIMATO Trentino A.A. ELEVATA, MA NON Lombardia RISPARMIO Valle d'Aosta FORMAZIONE DI Per offrire un confronto completo delle virtù risparmiatrici dell’Italia settentrionale, e quindi della sua non comune capacità di accumulazione, può risultare convincente un confronto internazionale. Il risparmio settentrionale del 28 per cento del Pil si paragona a un tasso di risparmio del 26 per cento in Olanda, 24 per cento in Austria, 23 per cento in Belgio: tutti paesi ad alto reddito e limitate dimensioni. Se si osservano i valori di paesi più grandi, il tasso di risparmio complessivo scende al 23 per cento del reddito in Germania, al 21 in Francia e Spagna, al 19 nel Regno Unito6. Piemonte … E UNA Dati internazionali riferiti al 1997 (fonte: World Bank, World Development Report, 1998-99). 155 RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO Fig. 3 – Quote di formazione del risparmio in Italia (1993) Italia settentrionale Resto d'Italia 31% 69% IL RISPARMIO DEL SETTENTRIONE: STORIA DI VIRTÙ E DI NECESSITÀ Virtuosi, o forzati? Un po’ entrambi gli aggettivi si possono utilizzare per indicare gli agenti economici del Nord Italia. Virtuosi, certo, perché il risparmio delle imprese deriva dalla redditività delle attività produttive, e quindi dalla loro efficienza, e dal tasso di innovazione. Virtuosi altresì perché il risparmio volontario delle famiglie deriva da un modello culturale di comportamento che sa vedere oltre il quotidiano e riconosce un adeguato valore civico e culturale, oltre che individuale, all’accantonamento di una parte delle disponibilità. Ma anche forzati del risparmio, in quanto il risparmio positivo della pubblica amministrazione è il riflesso dei più elevati prelievi fiscali operati nel settentrione d’Italia, con lo scopo di perequare i livelli di spesa e di garantire diritti di cittadinanza equivalenti a tutti gli abitanti della penisola. Ma quali sono le cifre in gioco, e quali le tendenze in corso? LA VIRTÙ /1: Partiamo dal risparmio delle imprese, formato dai profitti che, in luogo di essere distribuiti, sono destinati all’investimento nelle attività medesime. Non disponiamo del dettaglio regionale di quest’ultima grandezza, ma di quella sulla quale essa si basa, ossia sul risultato di gestione delle unità produttive del settore privato, abbiamo una documentazione statistica sufficiente. Nel 1995 il risultato lordo di gestione scritto nei conti nazionali è ammontato complessivamente in Italia a 857 mila miliardi di lire, rappresentando una percentuale del 60 per cento circa del valore aggiunto prodotto nel settore privato. … IMPRESE PICCOLE, Si intuisce, prendendo in considerazione anche solo questa informazione, quale straordinaria caratteristica sia quella italiana, di essere un’economia pe- 156 RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO culiarmente costituita da piccole e piccolissime imprese, aziende famigliari, artigianali e studi professionali individuali. … RICCHE, Ebbene, 459 mila miliardi del risultato lordo di gestione del settore privato sono prodotti nell’Italia settentrionale, che da sola genera il 60 per cento delle forme di reddito imprenditoriale della penisola. Il restante 40 per cento si ripartisce così: 17 per cento nel centro d’Italia e 23 per cento nel mezzogiorno. Per confronto, la popolazione nazionale è distribuita per il 43 per cento al nord, per il 20 per cento nel centro d’Italia e per il restante 37 per cento nel mezzogiorno (e isole). Stimando i redditi distribuiti delle imprese e delle attività individuali, sulla base dei consumi delle relative famiglie e della propensione al risparmio famigliare per tali categorie professionali, è possibile giungere a una determinazione indiretta del risparmio al netto delle imposte generato delle imprese settentrionali: esso sarebbe ammontato a circa 98 mila miliardi nel 1995. Un valore notevole: è quasi come se ogni anno le imprese settentrionali riuscissero a ricreare l’equivalente di un’impresa a larga capitalizzazione, come la Telecom. Il tasso di accumulazione endogeno delle imprese settentrionali è tale che appena sette anni e mezzo sarebbero sufficienti, con un tasso di rendimento normale (comprendente un piccolo premio di rischio), per replicare la capitalizzazione dell’intera Borsa di Piazza Affari7. Al di là dell’osservazione, piuttosto naturale, che l’evoluzione di questa massa di risorse che si crea nuovamente ogni anno è ovviamente ciclica, come ci si aspetta normalmente dai redditi aziendali, e pertanto è suscettibile di rallentamenti congiunturali anche vistosi, sembra più interessante chiedersi se e che cosa stia cambiando in merito alla destinazione del capitale di nuova formazione. Da un lato, infatti, l’ampia presenza delle piccole e micro imprese, per non dire delle imprese individuali, porta a supporre che l’impiego del risparmio delle imprese sia prevalentemente locale, così come la sua formazione. Se questa osservazione è vera nei termini generali, il risparmio delle imprese settentrionali, ovviamente quello rimanente dopo l’imposizione fiscale nazionale e locale, tenderà a restare nella stessa Italia settentrionale e a impiegarsi nell’ulteriore sviluppo della sua economia. … CHE SI INTERNAZIONALIZZANO Accanto a questa affermazione, che fornisce una base di verità sostanziale, si deve affiancare un giudizio sulla tendenza, che invece non ci consente una uguale tranquillità. In primo luogo, infatti, le grandi imprese, anch’esse prevalentemente presenti nel Nord Italia, sono spinte a globalizzarsi, perdendo il vestito nazionale che per troppo tempo l’imprenditoria italiana ha preferito indossare, accumulando ritardi nella sua presenza internazionale rispetto ai concorrenti esteri. In secondo luogo, occorre considerare che la creazione di un mercato unico europeo, reso completo da un’unica moneta, ha improvvisamente diminuito la dimensione relativa delle piccole imprese italiane. Le più dinamiche hanno così incominciato a guardarsi intorno, con l’obiettivo di investire all’estero: crescere per non scomparire. Non si può certo dire che quest’ultima sia una tendenza già consolidata, ma è almeno una tendenza emergente, spinta dal bisogno di competere e, oltre tutto, sostenuta dal fatto 7 Il che, per il vero, non è solo un indicatore indiretto della capacità di accumulo delle imprese settentrionali, e della rilevanza del loro risparmio, ma anche della esiguità del mercato di Borsa italiano rispetto all’economia reale sottostante. 157 RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO che alcuni strumenti finanziari per la crescita esterna delle imprese stanno diventando normalmente disponibili anche sul mercato italiano8. LA VIRTÙ /2: Le famiglie dell’Italia settentrionale, 8 milioni per quasi 26 milioni di abitanti, contribuiscono in modo determinante alla formazione del risparmio locale, e quindi alla formazione del capitale che, potenzialmente, potrebbe essere destinato al rafforzamento del tessuto regionale. Il risparmio delle famiglie settentrionali ammontava nel 1995 a circa 85 mila miliardi, e rappresentava il 60 per cento del complesso italiano. Distribuendo tale risparmio sul numero degli abitanti dell’Italia del Nord esso ammontava, mediamente, a 3,8 milioni di lire pro capite. Un analogo calcolo riferito al resto d’Italia porta a un aggregato inferiore a 55 mila miliardi, ossia ad appena 1,5 milioni di lire per ogni abitante delle regioni centro-meridionali della penisola. … CRESCITA, Certo, le basi di tale disposizione alla parsimonia, che fa sì che gran parte della formazione del capitale nazionale trovi le sue basi nel Nord Italia, non sono solo di tipo comportamentale. Il maggior risparmio del Nord Italia è anche il frutto della maggiore creazione di reddito. Come la povertà di reddito genera la sua stessa trappola, impedendo il risparmio, l’investimento e la crescita, allo stesso modo la relativa abbondanza di reddito alimenta il circolo virtuoso opposto: dai maggiori redditi, al maggiore risparmio, al finanziamento degli investimenti, per finire – o ricominciare – con la raccolta dei redditi incrementali conseguenti alla catena. È un po’ come affermare che partendo in vantaggio si ha migliori probabilità di affermarsi mantenendolo: una regola che chi si occupa di sviluppo conosce bene. Fin qui le buone notizie. Ma le incoraggianti valutazioni puntuali sulla ricchezza – o forse sull’opulenza – dell’Italia settentrionale richiamano alcune precisazioni, in chiave comparata e dinamica. OPULENZA … … E CRISI Intanto, il risparmio delle famiglie italiane, anche settentrionali, non è più così sovrabbondante come nel passato. È un fatto, che la propensione al risparmio delle famiglie eccedesse nel 1980 di ben 11 punti la media dei paesi europei (23 per cento contro il 12 per cento); nel 1990 il vantaggio si era ridotto a soli 7 punti (17 contro 10 per cento) e nel 1998 i due valori, italiano ed europeo, si sono rivelati schiacciati intorno all’11 per cento9. In secondo luogo, queste tendenze aggregate si ritrovano, sia pure con qualche differenziazione, all’interno dell’Italia settentrionale, poiché è quest’ultima a produrre la maggior parte del risparmio nazionale. Per entrare nei comportamenti regionali delle famiglie, ci rivolgiamo all’indagine annuale Bnl-Centro Einaudi, realizzata intervistando un campione di circa 1000 famiglie. 8 Ciò avviene sia grazie alla libertà di accesso di fornitori europei di servizi finanziari, favorita dalla nascita dell’Euro e dalle liberalizzazioni collegate, sia grazie allo sforzo del legislatore nazionale per colmare i divari con le realtà finanziariamente più progredite, per esempio in materia di strumenti di investimento per le famiglie, che rappresentano strumenti di raccolta per le imprese: si pensi al caso dei certificati di investimento, o al lancio dei fondi chiusi, alcuni prossimi alla quotazione sul mercato di Borsa. 9 Il calo della propensione italiana al risparmio da parte delle famiglie non si è riflessa completamente sul tasso di risparmio aggregato, sia per il recupero di redditività delle imprese, sia perché il settore pubblico ha progressivamente ricondotto in attivo il suo bilancio, passando da un “consumo” di risparmio a una “generazione”. 158 RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO Ebbene, come si può osservare dalla tabella 1, la caduta del risparmio famigliare tra il 1984 e la rilevazione del 199810 risulta confermata, sia in termini di aumento delle famiglie “escluse dal risparmio”, sia in termini di riduzione della percentuale media di entrate nette accantonate dai risparmiatori. All’interno della regione padana, tuttavia, le tendenze riscontrate dividono gli ultimi quindici anni nei due periodi che vanno fino al 1990 e da quell’anno ad oggi, segnando il ‘90 l’ultimo anno di espansione sostenuta dell’economia. Nei due sottoperiodi così delimitati, è difficile riconoscere un pattern comune per i territori nordoccidentali e quelli nordorientali. Durante gli anni Ottanta e fino al 1990 i risparmiatori e i tassi di risparmio si sono mostrati stabili su livelli leggermente superiori alle medie nazionali nel Nord Ovest, mentre andavano fortemente aumentando nel Nord Est fino a un massimo del 18 per cento, probabilmente in ragione del successo del modello di sviluppo del Nord Est medesimo, nel quale allora si fondevano l’economia delle imprese con quella delle famiglie, i processi di formazione del risparmio con quelli di accumulazione del capitale produttivo. … LA PARABOLA DEL REDDITO E DEL RISPARMIO NEI BILANCI FAMILIARI ANNI OTTANTA: UN ANDAMENTO DIFFERENZIATO TRA NORD EST E NORD OVEST Dopo il 1990 la congiuntura girò decisamente all’ingiù: la sopravvalutazione della lira finì per punire sia le regioni di più antica che di più recente industrializzazione, specialmente quelle che avevano basato le loro fortune su una decisa penetrazione dei loro prodotti all’estero. Inoltre, dal 1992 in avanti i redditi disponibili più elevati incominciarono ad essere erosi dalle manovre fiscali, che colpirono con particolare intensità tutte le regioni settentrionali11. Dal 1990 in poi si trovano così tracce di pattern del risparmio piuttosto simili tra il Nord Est e il Nord Ovest, ed è appunto in quest’ultimo periodo che si ha la maggiore erosione sia del numero delle famiglie risparmiatrici (dal 70 al 61 per cento nel Nord Ovest e dal 71 al 59 per cento nel Nord Est), così come dei tassi di risparmio: esso subì ancora un piccolo calo dal 14 al 13 per cento nel Nord Ovest, ma crollò di ben 4 punti, dal 18 al 14 per cento del reddito, nel Nord Est. I dati regionali sul risparmio confermano l’interpretazione di un andamento duale dell’economia settentrionale. Appare particolarmente interessante osservare come le due metà dell’economia padana abbiano avuto andamenti differenziati negli anni Ottanta e abbiano finito col convergere negli anni Novanta, quando dovettero riconoscersi ambedue avvolte in una crisi che fino all’inizio dell’ultimo decennio non le aveva interessate entrambe: all’inizio si trattava di una crisi di ristrutturazione del triangolo industriale, dunque non una crisi geograficamente estesa, né socialmente diffusa. Essa non aveva infatti riguardato né l’Est del Settentrione, né le classi sociali intermedie, come quella dei “colletti bianchi”, che in seguito finirono con l’essere anch’esse al centro delle ristrutturazioni e delle richieste di sacrifici per risanare il bilancio pubblico. 10 Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi (AA.VV.), Il risparmiatore affronta l’Euro, Guerini ed. e BNL edizioni, Milano-Roma, 1998. 11 Il costo della convergenza verso l’UEM venne ripartito tra Nord e Sud, in modo che al primo toccarono circa i due terzi di esso, particolarmente attraverso maggiori tributi, mentre il Mezzogiorno contribuì prevalentemente assorbendo tagli di prestazioni. 159 RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO FINE ANNI NOVANTA: UNA CONVERGENZA VERSO IL BASSO Dal 1992 la crisi finì così col raggiungere tanto i redditi disponibili (e le possibilità di risparmiare) dell’Est quanto l’intera “middle class” settentrionale. Data la particolare sensibilità degli italiani al tema del risparmio e della sua preziosità, non è difficile riconoscere in queste tendenze alcune delle probabili cause dei malumori del Nord: malumori che finirono, proprio in quegli anni, con l’assumere anche manifestazioni e forme di rappresentanza politica, con diverso radicamento territoriale tra Nord Est e Nord Ovest. Il che, nuovamente, è ben comprensibile se si considerano le diverse genesi, e non solo i diversi tempi, della crisi del Nord Ovest e di quella del Nord Est. Tab. 1 – Il risparmio delle famiglie in Italia (per area geografica) Anni Media CES SUD 1984 1990 1998 NON RISPARMIATORI (in percentuale degli intervistati) 31.2 43.3 27.0 44.6 35.2 29.8 29.0 28.5 31.8 32.2 39.1 41.5 35.9 40.9 41.1 43.3 40.8 48.1 1984 1990 1998 RISPARMIATORI (in percentuale degli intervistati) 68.8 56.7 73.0 64.8 70.2 71.0 71.5 67.8 60.9 58.5 64.1 58.9 56.7 59.2 51.9 1984 1990 1998 TASSO MEDIO DI RISPARMIO (in percentuale delle entrate famigliari) 13.0 15.3 15.8 12.3 18.7 14.7 14.3 18.0 13.9 14.5 17.7 15.2 13.2 13.4 12.7 11.3 13.5 12.9 NOV NES CEN 55.4 68.2 59.1 Fonte: Indagine annuale Bnl-Centro Einaudi su risparmio e risparmiatori in Italia (anni vari) LA NECESSITÀ. IL “RESIDUO FISCALE” E L’EUROCONVERGENZA Le risorse prodotte in una regione facente parte di un’economia più vasta non vengono tutte necessariamente impiegate all’interno. I processi economici alla base della redistribuzione regionale delle risorse sono la bilancia commerciale e la formazione di un residuo (attivo o passivo) tra ciò che le amministrazioni pubbliche spendono (o trasferiscono) in sede regionale e quanto vi prelevano. Il primo processo non necessariamente conduce a un impoverimento delle risorse regionali. Gli avanzi commerciali di una regione (verso il resto del mondo) si traducono in crediti, ossia in accumulo di ricchezza che servirà a riscuotere in futuro i consumi o i beni di investimento cui si è rinunciato oggi. Diverso è il caso della formazione di un residuo fiscale positivo12, che è segno di prelievo netto di risorse da parte degli agenti pubblici. In tal caso, i re12 Il residuo fiscale non è una grandezza contabile, né un saldo di bilancio, bensì una grandezza statistica, ottenuta attribuendo convenzionalmente a un ipotetico agente unico tutte le spese, i trasferimenti e i prelievi effettuate da qualsiasi autorità pubblica, locale o centrale, in una regione considerata o a vantaggio di essa. Se il residuo è positivo, la regione in questione è trasferente netta di risorse. Se è negativo, è prenditrice netta. La somma algebrica dei residui regionali dovrebbe coincidere con il saldo globale di finanza pubblica. Se nel calcolo del residuo si considerano gli interessi passivi sul debito pubblico, i criteri di ripartizione possono deter- 160 RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO sidenti della regione trasferente non consumano (quindi risparmiano) parte delle risorse create, senza necessariamente ricevere in cambio una promessa restitutoria dall’autorità fiscale. Per questo, in questi casi, la virtù del risparmio diventa piuttosto necessità del risparmio. Ci introdurremo in un territorio dove ci sarebbe difficile orientarci, se provassimo a definire a quale benchmark dovremmo riferire i valori empirici di residuo fiscale. Per limitarci ai fatti, diremo che non esiste uno Stato unitario che non prelevi un residuo in alcune regioni, per trasferirlo in altre. E diremo che l’entità dei residui regionali, in valore assoluto, tende a crescere al crescere dei divari regionali di reddito, sviluppo e produttività. I residui assoluti sono ovviamente crescenti anche sulla base dell’entità, completezza e ricchezza del pacchetto dei diritti di cittadinanza che si vogliono garantire uniformi su tutto il territorio della nazione13. Sulla base di ciò, è facile intuire che i residui italiani siano significativi. Da un lato, l’Italia è un moderno e ricco paese che offre un esteso e uniforme pacchetto di diritti di cittadinanza, indipendentemente da dove risiedano i propri abitanti. Si pensi, per fare un esempio, alla generosità – quasi certamente non a lungo sostenibile – del pacchetto universale di diritti pensionistici. In più, secondo una recente ricerca dell’Unione Europea, l’Italia è il paese dei quindici che presenta i più ampi divari di sviluppo tra le sue stesse regioni. I due fatti, insieme, producono i risultati riportati nella tabella che segue. Tab. 2 – Evoluzione del residuo fiscale in Italia settentrionale 1989 lit correnti x mille totale per abitante Piemonte Valle d'Aosta Lombardia Liguria Trentino A.A. Veneto Friuli Emilia Romagna Italia settentrionale Italia centro-sud Italia 1995 lit correnti x mille totale per abitante 4.797.870.000 (956.455.000) 21.239.379.000 (3.150.048.600) (3.987.841.600) 3.620.192.800 (2.495.931.200) 4.627.252.000 1.100 (8.317) 2.385 (1.818) (4.504) 826 (2.072) 1.180 10.551.060.000 (607.562.400) 48.641.378.000 (1.002.631.500) (4.053.450.000) 14.416.871.200 (355.245.800) 13.775.856.000 2.430 (5.097) 5.398 (591) (4.430) 3.238 (298) 3.488 23.694.417.400 (91.994.516.100) (68.300.098.700) 929 (2.872) (1.187) 81.366.275.500 (59.543.450300) 21.822.825.200 3.169 (1.822) 374 Fonte: Maggi, Piperno 1998, cit. minare stime molto diverse tra loro del residuo medesimo. Per un approfondimento: Maggi M., Piperno S. Dal risanamento all’Euro. Evoluzione del residuo fiscale nelle regioni italiane, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, ottobre 1998. 13 Dal che, le strade per ridurre i residui sono essenzialmente due: ridurre i divari di sviluppo – terreno sul quale hanno fallito per decenni le politiche regionali – oppure per ristrutturare il pacchetto nazionale dei diritti di cittadinanza, magari introducendo pacchetti regionali nell’ambito di un sistema statale a matrice regionalista o addirittura federalista. 161 RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO UN “RESIDUO FISCALE POSITIVO” PER L’ITALIA SETTENTRIONALE … … E IN CRESCITA TRA IL 1989 E IL 1995 Nel 1989, gravava su ogni residente nell’Italia settentrionale l’onere di trasferire 929 mila lire al resto del paese. A quell’epoca, come pare evidente, era forse addirittura più fondata la questione distributiva fiscale tra le diverse regioni dell’Italia settentrionale, che non la questione del trasferimento fiscale nord-sud. Peraltro, il trasferimento di risorse dell’Italia settentrionale non bastava che a soddisfare un quarto (23 mila miliardi di lire) del fabbisogno di risorse dell’Italia centro-meridionale (pari a 92 mila miliardi di lire), e il bilancio pubblico non poteva che chiudere in disavanzo (68 mila miliardi). Il finanziamento del disavanzo con l’emissione di titoli del debito pubblico chiudeva il circuito, rendendo più “tollerabili” le differenze. E’ semplice: i più numerosi sottoscrittori del debito pubblico erano le famiglie settentrionali, che oltre a qualche tributo in più ricevevano anche un titolo di credito nei confronti dello Stato centrale, sul quale contavano per riscuotere interessi reali elevati. Ma nel 1995 la situazione diventava complessivamente diversa. A causa della necessità di convergere entro la fine del 1997 verso il massimo di 3 per cento di deficit pubblico (compresi gli interessi) sul Pil, le manovre dei Governi portavano in positivo il saldo di bilancio primario (21 mila miliardi). Tenendo conto della non-autosufficienza delle finanze pubbliche delle regioni centro meridionali, pur migliorate passando dall’essere prenditrici nette di 2,8 milioni di lire per abitante a soli 1,8 milioni, l’ingresso nell’Euro ha quasi quadruplicato, da 0,9 milioni a 3,2 milioni di lire per abitante il residuo fiscale netto prelevato nell’area padana. E ciò avveniva mentre cessava l’effetto “anestetico” degli eccessivi tassi di rendimento reali sul debito pubblico, e mentre poco appena si faceva per risolvere le questioni fiscali distributive interne al Settentrione. All’interno dell’Italia del Nord lo sforzo del risanamento non si distribuì egualmente. Se il Piemonte e la Lombardia raddoppiarono il loro contributo, l’Emilia Romagna lo più che triplicò, e il Veneto addirittura lo vide quadruplicare. Pare pertanto che si possa concludere che, sotto il profilo del risparmio pubblico, il Settentrione d’Italia, con ampie (spiegabili?) differenziazioni interne, abbia contribuito fino a oggi soprattutto a trasferire risorse. Parsimoniosi per necessità, quindi, sotto questo profilo, anche se più di una volta non senza dare vita a forme di protesta o rimarcando che sottrarre risorse al “motore produttivo” d’Italia potrebbe rivelarsi un errore strategico di lungo periodo per tutto il paese. Uno sguardo verso il futuro, purtroppo, non ci permette conclusioni preliminari ottimiste. Per due ragioni: perché il vincolo europeo continuerà a gravare a lungo sui conti dell’Italia, richiedendo un sostanzioso avanzo di bilancio primario, per via del Patto di stabilità e crescita e a causa dell’elevato quoziente tra debito e Pil, la cui erosione richiederà decenni. In secondo luogo, le riforme sul decentramento e sulla semplificazione amministrativa non incideranno che su una delle chiavi strutturali del residuo, cioè sull’inefficienza e sul costo totale della Pubblica Amministrazione, intatte le altre maggiori cause. E a questo proposito all’orizzonte non sembra apparire né una riforma in chiave federale dello Stato, né un politica efficace contro i divari di sviluppo economico14. 14 I patti territoriali sembrano essere una applicazione odierna di modelli di politica dei redditi già abbandonati negli anni sessanta: allo stato, è dubbio che gli investimenti che susciteranno 162 RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO DA UN AUREO PASSATO A UN FUTURO INCERTO Il quadro delle risorse finanziarie endogene delle regioni della pianura padana è del tutto confortante, se si ragiona sulla entità attuale di tali risorse; esso diviene problematico se invece si cercano di proiettare gli scenari futuri. Pur costituendo uno dei bacini di ricchezza e risparmio più importanti d’Europa, in un contesto di progressiva liberalizzazione dei flussi di investimento e di moltiplicazione dei canali di intermediazione finanziaria, rispetto al tradizionale canale bancario, le minacce di abbandono regionale di una quota crescente degli impieghi sono realistiche. L’investimento all’estero di una parte del risparmio delle imprese costituirà il naturale esito delle strategie di internazionalizzazione, e ancor prima di europeizzazione del sistema produttivo padano. La via degli investimenti esteri sarà pressoché obbligata anche per le Pmi, tradizionali investitori interni regionali, date le nuove dimensioni del mercato europeo da servire e i collegati requisiti di competitività e di aumento della scala minima efficiente15. LE INCOGNITE SULLA FORMAZIONE DI RISPARMIO … La formazione e soprattutto il mantenimento regionale del risparmio delle famiglie presenta aspetti ancora più problematici. Intanto, v’è da chiedersi se la caduta del tasso di risparmio (cfr. supra) sia strutturale, adeguandoci noi progressivamente ai modelli comportamentali del tipo “ciclo vitale”, che prevedono l’intero consumo, nell’arco della vita, dello stock di ricchezza accumulata. Tali modelli comportano tassi di risparmio aggregati ridotti rispetto ai modelli nei quali gli agenti traggono utilità personale dal tramandare un’eredità alla generazione successiva16. L’ipotesi dell’affermarsi di modelli del tipo “ciclo vitale”, più consumistici, troverebbe tra le altre conferme indirette il recente forte sviluppo del credito al consumo. Potrebbe tuttavia darsi che l’emergenza pensionistica, con l’emersione di fabbisogni previdenziali che fino a qualche tempo fa si supponevano coperti dal sistema pubblico, tenda a spingere, se le condizioni dell’economia e dei bilanci lo permetteranno, i tassi di risparmio nuovamente verso l’alto. Pure in questa seconda ipotesi, che ci lascerebbe relativamente tranquilli a proposito della formazione continua di nuova ricchezza da accumulare, anno dopo anno17, non dobbiamo distogliere l’attenzione dal fatto che la probabilisaranno aggiuntivi, anziché sostitutivi. I patti territoriali presentano tuttavia il vantaggio di avere reso flessibile, sia pure in un modo indiretto e “regolamentato”, i ventagli salariali in Italia, il che rappresenta – come è noto – una condizione essenziale per l’appartenenza a un’Unione Monetaria priva di un forte potere fiscale centrale e con regioni potenzialmente esposte a shock asimmetrici. 15 Ovviamente, l’uscita di queste risorse potrebbe corrispondere all’entrata di risorse estere, nel caso in cui le dotazioni fattoriali (e le condizioni al contorno, ivi comprese quelle fiscali) fossero tali da consentire tassi di rendimento netti competitivi con quelli internazionali. Le attività di marketing territoriale per promuovere gli investimenti esteri possono essere utili a questo proposito, ma si trovano in uno stadio appena iniziale in tutta l’area in esame. 16 Altre ragioni per una riduzione strutturale del tasso di risparmio familiare ai livelli attuali sono il raggiungimento della proprietà di un’abitazione da parte di oltre il 66 per cento delle famiglie nel Nord Ovest e oltre l’80 per cento nel Nord Est. 17 “L’età dell’oro” del risparmio cesserà insieme al passare delle generazioni del baby boom. La prima generazione di baby boomers andrà in pensione, cessando di accumulare risparmi, tra il 2010 e il 2015. L’ultima tra il 2025 e il 2030. L’aggregato annuale del risparmio incomincerà a erodersi dopo il 2010, e l’erosione diverrà importante dopo il 2020. Più o meno in quello 163 RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO tà che le risorse generate in un territorio tornino a investirvisi dipendono crucialmente dal canale imboccato dal risparmio dopo la sua formazione. Negli anni Settanta esso veniva impiegato in depositi presso banche (che avevano – particolarmente allora – forti radici locali), fino a che tali depositi non consentivano l’acquisto di una casa. Le case hanno la proprietà di essere non solo beni immobili, ma anche fortissimi attivatori (direttamente e indirettamente) dell’economia locale, il che garantiva che il risparmio delle famiglie servisse prevalentemente proprio ai bisogni di sviluppo del territorio dove esso si era formato. Negli anni Ottanta (fino al 1988) la situazione rimase più o meno la stessa, con la variazione che l’investimento temporaneo preferito non era più – o non era soltanto – il deposito in una banca, ma il titolo di Stato a breve termine o indicizzato. Nulla cambiava però nella sostanza del circuito reale, che continuava a mettere la casa, e quindi l’economia locale, al primo posto. … E SULLA CAPACITÀ DI TRATTENERLO NEL SETTENTRIONE Con la nascita dell’Euro tutto ciò sta venendo meno in tempi rapidi. Una volta formato, il risparmio che prenderà la via dell’intermediazione creditizia potrà essere offerto all’interno di un’area monetaria di ben undici paesi. Il risparmio che imboccherà la via delle gestioni professionali (collettive, pensionistiche, individuali, assicurative) verrà poi investito senza una priorità regionale o locale, ma solo secondo criteri professionali e di redditività, confrontata con il rischio. La tendenza a investire all’estero sarà evidentemente maggiore che in passato, data la scomparsa del rischio di cambio all’interno dell’area degli undici. Tutto ciò rappresenta certamente un progresso per i risparmiatori, per la concorrenza e l’efficienza nel settore finanziario, per l’efficienza allocativa del capitale nell’economia europea. Ma una conseguenza di ciò è che nel medio periodo l’Italia settentrionale potrebbe vedere un’erosione della base di risorse finanziarie disponibili. Non vi saranno infatti più i recinti normativi, né quelli dettati dalle consuetudini, a proteggere il mercato regionale del risparmio. Per continuare a essere attrattivi, nei confronti del risparmio locale così come di quello estero (non bisogna dimenticare che l’Euro ha due facce assolutamente simmetriche), occorrerà invece offrire tassi di remunerazione competitivi, il che chiama in causa la struttura e la qualità dell’economia reale, il suo tasso di innovazione, la capacità di organizzarsi per competere con successo nel grande mercato unico. La dimensione continentale del mercato finanziario in Euro, confrontata con la dimensione regionale dell’economia dell’Italia settentrionale non costituirà necessariamente un punto di debolezza per lo sviluppo di quest’ultima. A parte le considerazioni in merito al drenaggio del residuo fiscale, che il mercato unico non cambia, restando intatta la sovranità nazionale nel determinare i flussi di trasferimento fiscale all’interno di ogni nazione18, a flussi di risparmio privato più liberi di uscire corrisponderanno flussi di risparmio estero più liberi di entrare. In qualche campo, una minore protezione del mercato stesso periodo i Fondi pensione che stanno per nascere diverranno venditori importanti di attività finanziarie, con effetti da valutare anche sui prezzi delle medesime. 18 L’Unione Europea non ha poteri redistributivi del reddito e/o della domanda aggregata tra le regioni, fatta eccezione per la destinazione dei Fondi strutturali. Questi ultimi, in prospettiva futura, è naturale che tenderanno a rivolgersi per lo più verso i paesi e le regioni di prossima ammissione, secondo il calendario di massima di “Agenda 2000”. Dal punto di vista delle regioni sviluppate dell’Unione, già beneficiarie dei Fondi (es. Obiettivo 2) questa prospettiva aumenta il residuo fiscale positivo e contribuisce al drenaggio di risorse regionale. Torino, per esempio, rischia di uscire dalla distribuzione dei Fondi strutturali già dalla prossima tornata pluriennale. 164 RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO finanziario interno, compensata dalle maggiori opportunità del mercato europeo, potrebbe produrre risultati positivi. Si pensi, per esempio, alla opportunità di attrarre risorse finanziarie internazionali private sui grandi progetti infrastrutturali di cui l’intera regione è carente, attraverso l’uso del project financing. Tuttavia, non vi saranno premi assicurati né benefici garantiti. La distribuzione delle risorse avverrà attraverso il mercato, e per mantenere o eventualmente accrescere la nostra quota sarà centrale l’effettiva capacità di competere degli agenti economici regionali, nonché l’impegno a sostenerne la competitività da parte dei decisori politici. 165 IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE Sergio E. Rossi* IL SISTEMA TRADIZIONALE DI FINANZIAMENTO – IL – LA RIALLOCAZIONE DEI FLUSSI DI RISPARMIO- – LA BORSA VALORI – I MERCATI DI BORSA PER LE PMI – IL SETTORE DEL PRIVATE EQUITY – LE DEBOLEZZE DAL LATO DELLA DOMANDA – IL CIRCOLO VIZIOSO – NOTE CONCLUSIVE – BIBLIOGRAFIA INVESTIMENTO SISTEMA FINANZIARIO DELL’ITALIA SETTENTRIONALE ITALIANA IL SISTEMA TRADIZIONALE DI FINANZIAMENTO Il miracolo economico italiano, concentrato in larga misura nelle regioni dell’Italia del Nord, è stato sostenuto da un contesto macroeconomico, in particolare fiscale e monetario, che seppure con notevoli storture si è rivelato funzionale al modello di sviluppo del nostro paese. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta lo sviluppo del sistema imprenditoriale del Nord Italia è stato oggettivamente agevolato dalle politiche economiche adottate in quegli anni, un ibrido non bello, ma efficace di politiche di stampo keynesiano accompagnate da una politica fiscale blanda. Il mix di credito a buon mercato, incentivi pubblici all’industria e bassa fiscalità con ampi margini di elusione ed evasione hanno favorito lo sviluppo tumultuoso di un sistema imprenditoriale diffuso e dinamico. L’abbandono delle politiche keynesiane nel corso degli anni Ottanta, se pure ha imposto una ridefinizione delle condizioni di contesto a causa degli elevati tassi di interesse reali sperimentati in quegli anni, non ha inciso in misura radicale sulla capacità di accumulazione del sistema produttivo. Gli ampi margini di evasione fiscale e gli elevati rendimenti offerti dalle attività finanziarie hanno comunque consentito la creazione di profitti in buona misura reinvestiti nel sistema produttivo locale. ANNI OTTANTA: UN SISTEMA BANK ORIENTED CON FORTI CONNOTAZIONI LOCALISTICHE Nonostante l’effetto di spiazzamento, causato dalla crescita abnorme dei rendimenti e dei volumi dei titoli del debito pubblico, i profitti delle imprese e i risparmi delle famiglie hanno continuato a trovare una collocazione prevalentemente locale, sia attraverso forme di investimento immobiliare, sia attraverso le dinamiche di intermediazione largamente sostenute dal sistema finanziario. Si trattava di un sistema fortemente bank-oriented in cui la stessa fiscalità, e non solo l’organizzazione istituzionale, ha favorito il ricorso al credito bancario penalizzando altre forme e strumenti di reperimento di risorse finanziarie per lo sviluppo. Esso era per di più incentrato su un sistema bancario frammentato, diffuso sul territorio, con rilevanti influenze politiche che se da un lato aveva numerosi elementi di inefficienza allocativa, dall’altro presentava degli indubbi vantaggi per il sistema produttivo. Ha garantito un impiego locale del risparmio e, talvolta, l’adozione di metodologie di valutazione del merito del credito che – seppure non ortodosse – hanno consentito il superamento di situazioni di crisi o il consolidamento e la crescita di alcune iniziative imprenditoriali. Lo sviluppo di questo sistema fortemente bank oriented con forti connotazioni localistiche è risultato in ultima analisi funzionale sia alle dinamiche dei * Cesdi srl, Torino 167 IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE grandi gruppi industriali, che in molti casi hanno potuto esercitare una forte pressione sulle scelte di credito di istituti bancari (non sempre con buoni risultati), sia allo sviluppo di un sistema produttivo minore fortemente caratterizzato da una proprietà di tipo familiare. In questo caso il ricorso a forme di finanziamento improprie, come la pratica del multiaffidamento o del rinnovo dei fidi a breve termine ha consentito, infatti, di sostenere lo sviluppo dell’azienda anche distogliendo a vantaggio del patrimonio familiare potenziali risorse utili alla capitalizzazione dell’impresa. Il funzionamento di questo modello di finanziamento dello sviluppo imprenditoriale era fortemente legato alla dimensione nazionale del mercato. Ha potuto, cioè, funzionare in modo efficace fintanto che barriere normative e valutarie hanno impedito, o quantomeno rallentato, sia gli effetti della competizione globale sul sistema delle imprese, sia gli effetti della globalizzazione finanziaria sui flussi di risparmio. Con l’accelerazione dei processi di integrazione valutaria e l’approfondirsi delle dinamiche di globalizzazione dei mercati i punti deboli del sistema hanno cominciato a cedere e il modello è entrato strutturalmente in crisi. LA RIALLOCAZIONE DEI FLUSSI DI RISPARMIOINVESTIMENTO Alla fine degli anni Ottanta e nel corso degli anni Novanta l’efficacia delle tradizionali dinamiche di risparmio-investimento è stata messa in crisi dall’approfondirsi del processo di globalizzazione del sistema economico e dalla creazione del mercato domestico europeo. Questi due fattori hanno, infatti, modificato profondamente i comportamenti dei tre attori economici: Stato, famiglie e imprese. LA CRISI DELLE TRADIZIONALI DINAMICHE DI RISPARMIO E INVESTIMENTO La crisi fiscale dello Stato e gli impegni assunti in chiave europea, hanno portato ad una politica fiscale vieppiù restrittiva, con conseguente aumento del livello di tassazione e una forte contrazione delle politiche di sostegno finanziario all’attività imprenditoriale. Questi due fenomeni, particolarmente rilevanti (si veda la scheda sul risparmio), nelle regioni del Nord Italia hanno avuto effetti importanti sul sistema imprenditoriale, poiché hanno limitato in misura consistente il ricorso agli incentivi finanziari ed aumentato in modo sostanziale la pressione fiscale, se pure non ridotto l’area dell’evasione. Nello stesso periodo le famiglie, il cui risparmio è stato eroso dalla stessa politica di rigore fiscale che ha interessato il sistema delle imprese, hanno sostanzialmente modificato la composizione del loro portafogli impieghi. Dal 1990 al 1998 la quota di depositi bancari detenuta dalle famiglie è passata dal 28 al 16% mentre i fondi comuni sono cresciuti dal 2 all’11%. Si è registrata, di fatto, una sottrazione del risparmio dai tradizionali centri di allocazione, le banche, a vantaggio di gestori professionali che investono il denaro raccolto in una dimensione non più locale, ma internazionale. 168 IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE Tab. 1 – Impieghi del risparmio delle famiglie italiane (consistenze % sul totale). IMPIEGHI ‘89 ‘90 ‘91 ‘92 ‘93 ‘94 ‘95 ‘96 ‘97 ‘98 Biglietti e Monete 2,7 2,5 2,7 2,8 2,5 2,8 2,7 2,5 2,4 Depositi bancari 28,7 29,3 28,4 27,3 24,9 25,4 24,6 22,7 18,4 Depositi postali 5,1 5,2 5,1 5,0 4,7 5,6 6,0 4,3 4,2 Titoli di Stato 27,4 28,1 27,5 25,7 23,1 24,9 26,0 22,8 17,7 Obbligazioni 3,0 3,2 4,4 4,3 4,8 5,8 5,9 7,3 9,5 Pronti/Termine 3,2 2,6 2,2 3,1 2,5 2,3 Azioni/partecipazioni 21,8 20,5 20,6 20,1 25,5 19,2 17,2 21,8 25,3 Fondi comuni 2,3 2,2 2,2 2,2 3,3 4,1 3,8 5,3 8,9 Attività previdenziali 8,2 8,4 8,6 8,9 8,2 9,4 10,2 10,2 10,5 Altre attività 0,8 0,6 0,4 0,4 0,5 0,5 0,5 0,6 0,8 Totale 100 100 100 100 100 100 100 100 100 Attività finanzia166,7 168,1 175,6 182,4 207,6 190,8 188,8 194,9 208,3 rie/PIL (%) 2,2 16,6 3,9 14,9 9,1 1,9 29,3 11,3 9,9 0,8 100 - Fonte: Investimenti finanziari su dati Banca d’Italia. IMPRESE PIÙ PICCOLE IN UN MERCATO PIÙ GRANDE L’effetto combinato globalizzazione/Euro sul sistema delle imprese è stato più complesso ed articolato, interessando in modo strutturale le stesse dinamiche competitive e il modo di fare ed essere impresa in un nuovo mercato. Il processo di globalizzazione dell’economia e l’integrazione monetaria europea hanno determinato “improvvisamente” una diminuzione della dimensione relativa delle imprese italiane. Queste, per poter competere, hanno avviato strategie di crescita e di riorganizzazione produttiva che hanno determinato un effetto duplice sul sistema delle imprese, sia dal lato della domanda, sia dal lato dell’offerta di capitali. Dal lato della domanda, le strategie di riorganizzazione tecnologica, produttiva e dimensionale richieste dal nuovo contesto competitivo necessitano di nuove e più articolate forme di finanziamento, non più limitate al ricorso al credito bancario, nonché di strutture consulenziali in grado di assistere sia le grandi, sia le piccole imprese in progetti di ingegneria finanziaria. Dal lato dell’offerta, i processi di internazionalizzazione richiesti dal nuovo contesto competitivo impongono un allargamento territoriale degli investimenti che non sono limitati né al territorio circostante né all’ambito nazionale. Il recente dato rimarcato dalla Banca d’Italia circa gli “eccessivi” investimenti esteri delle imprese italiane va dunque letto come uno degli effetti della tanto auspicata internazionalizzazione attiva delle imprese italiane. È tuttavia indubbio che un effetto “sostituzione” non possa che avere effetti depressivi sulla dinamica del sistema produttivo dell’Italia settentrionale. È noto, infatti, che molte nuove imprese nascevano e altre si sviluppavano su sollecitazione e partecipazione, diretta ed indiretta, di imprese della filiera. Il quadro che si evince da un’analisi seppur sintetica del nuovo scenario è che il cambiamento nelle scelte di investimento delle famiglie e delle imprese italiane ha allentato il tradizionale controllo bancario degli impieghi, mentre il sistema imprenditoriale manifesta l’esigenza di nuove forme di finanziamento in grado di supportare l’attivazione di nuove e più complesse strategie competitive. Quanto la rottura delle barriere nazionali comporterà il rischio di una fuoriuscita del risparmio dell’Italia settentrionale verso altre occasioni di investimento dipende e dipenderà dalla capacità della piazza finanziaria milanese di offrire opportunità di investimento attrattive sia per il risparmio “nazionale”, 169 IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE sia per il risparmio europeo. Dipende e dipenderà anche dalla misura in cui la business community dell’Italia settentrionale sarà realmente in grado di organizzare un mercato nel quale domanda e offerta di finanza si incontrino attraverso nuove forme e strumentazioni operative in grado di soddisfare le esigenze degli investitori e le necessità del sistema imprenditoriale. IL SISTEMA FINANZIARIO DELL’ITALIA SETTENTRIONALE C’È UN POTENZIALE DI CRESCITA MA OCCORRE UNA PIAZZA FINANZIARIA AVANZATA LA DEBOLEZZA STRUTTURALE DELLA PIAZZA FINANZIARIA MILANESE In linea teorica l’Italia settentrionale dispone di alcune delle premesse di base per lo sviluppo di un efficiente ed efficace mercato finanziario: nonostante il calo fatto registrare in questi ultimi anni possiede un’ingente massa di risparmio e vanta uno dei maggiori bacini europei di imprenditorialità. Un’offerta e una domanda che potenzialmente potrebbero favorire, nel corso dei prossimi anni, la nascita e lo sviluppo di un dinamico mercato finanziario rivolto in particolare alle imprese di piccola e media dimensione. Gli spazi di crescita dovrebbero essere garantiti anche dal fatto che, come osservato dallo stesso amministratore delegato di Borsa Spa, “il tessuto industriale non ha ancora scoperto la borsa pur avendo società leader di settore a livello europeo, mentre da uno studio della Consob, risulta che sono almeno 500 le società italiane, di cui la maggior parte del Nord Italia, che hanno i requisiti e le caratteristiche ideali per accedere al listino e per accrescere la quota di capitale di rischio". Per far sì che dalle premesse si possa passare alla realizzazione di un nuovo “circolo virtuoso” è indispensabile l’esistenza di una piazza finanziaria, fatta di mercati, intermediari, strumenti che agiscano da volano allo sviluppo di un nuovo sistema finanziario in grado di supportare lo sviluppo del sistema imprenditoriale. In questo senso per “piazza finanziaria” si intendono, quindi, tutte le funzioni collegate al mercato, non solo l’intermediazione e la negoziazione, ma anche l’accesso ad un ampia gamma di servizi, che vanno dalla corporate finance alle diverse forme di finanziamento e assistenza alle imprese agli strumenti per la raccolta e la gestione del risparmio. Da questo punto di vista, la piazza finanziaria milanese, pur continuando ad essere il “centro finanziario” italiano e a costituire uno dei poli europei, evidenzia preoccupanti segnali di debolezza soprattutto nella prospettiva dei processi di concentrazione in atto sul mercato europeo. Segnali di debolezza già evidenziati da Abraham et al. (1993), secondo cui la piazza di Milano mostra un generale svantaggio competitivo rispetto alle maggiori piazze europee, e, anche se più ridotto, rispetto a piazze minori come Bruxelles, Copenaghen e Madrid. Le manifestazioni più evidenti di questa debolezza sono una borsa valori sottodimensionata, il ritardato sviluppo di un mercato dedicato alle Pmi, la scarsa rilevanza di operatori specializzati nel corporate finance, l’assenza di un mercato informale dei capitali di rischio. In un contesto di mercato unico la piazza finanziaria milanese non sembra raggiungere quelle soglie minime di efficienza, quella dimensione adeguata che consenta al centro finanziario di creare esternalità di rete e economie di agglomerazione, che con l’aumento dei contatti tra gli operatori (face to face contacts) e la maggiore liquidità del mercato siano in grado di innescare un processo “autonomo” di sviluppo, 170 IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE aumentando la forza relativa e il vantaggio comparato di un centro finanziario rispetto a un altro. Questa debolezza strutturale interessa anche il mercato del credito, da sempre perno del sistema finanziario italiano. Nonostante i processi di concentrazione effettuati, basti pensare a San Paolo-IMI o Unicredito Italiano, gli istituti bancari presenti nel Nord hanno una dimensione relativa inferiore alla media europea. Lo stesso si può dire per quanto concerne le banche d’affari, le società di gestione del risparmio. Solo il settore delle assicurazioni, grazie soprattutto al Gruppo Generali, può vantare realtà dimensionalmente comparabili con i competitori europei. LA BORSA VALORI ITALIANA POCHE IMPRESE QUOTATE … L’analisi della piazza finanziaria dell’Italia settentrionale non può che partire dalla borsa valori che rappresenta – o dovrebbe rappresentare - il traguardo del circolo virtuoso finanza-impresa, ma che in ogni caso è la cartina di tornasole dei limiti e degli ostacoli che si frappongono allo sviluppo di questo circolo virtuoso. La borsa di Milano presenta, infatti, numerosi elementi di criticità in termini di dimensione e di rappresentatività del tessuto produttivo italiano. Nonostante la crescita delle quotazioni abbia consentito nel corso dell’ultimo triennio di raggiungere una capitalizzazione pari a circa 569 miliardi di dollari, con solo 243 società nazionali quotate la borsa di Milano non è in grado di ottenere quelle necessarie economie di scala e di ampiezza che, oltre alle presenza delle sufficienti infrastrutture tecniche e ad adeguate risorse umane, sono necessarie per competere adeguatamente con le altre piazze finanziarie. Lo scarso numero di imprese quotate si traduce in una scarsa rappresentatività del mercato reale anche perché più del 72% della capitalizzazione totale, pari a circa 569 miliardi di dollari, e circa il 75% degli scambi si concentra sui trenta maggiori titoli, mentre sono quasi del tutto assenti società di medie dimensioni. Fig. 1 – Società nazionali quotate e loro capitalizzazione* sulle principali piazze europee al dicembre 1998 (mercato principale e secondario) 2500 2399 2297 Numero di società nazionali quotate Capitalizzazione 2000 1500 1094 985 1000 784 741 481 500 156 569 402 247 243 0 Londra Parigi Francoforte Bruxelles *In miliardi di dollari Fonte: FIBV. 171 Madrid Milano IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE ... CON UNA SCARSA DINAMICA Se in termini di rapporto capitalizzazione/Pil la borsa di Milano ha registrato nel corso dell’ultimo triennio notevoli progressi, passando dal 20 a oltre il 40%, in termini di numero di imprese lo sviluppo è stato lento. Anche se nel 1998 ci sono stati circa 25 nuovi ingressi, contro i 15 e i 13 rispettivamente del 1997 e del 1996, il saldo netto delle società quotate è rimasto sostanzialmente immutato e anche in termini di capitalizzazione e liquidità complessiva del listino l’apporto delle matricole è stato tutto sommato modesto. In termini di nuove quotazioni il listino azionario è cresciuto appena dell’1,9% annuo dal 1960 al 1998. Il lento sviluppo del numero delle imprese quotate nella borsa milanese è ancora più evidente se confrontato con quello delle principali borse europee. Negli ultimi due anni, mentre le altre piazze europee hanno visto una crescita media delle nuove quotazioni pari a circa il 6%, l’andamento della piazza milanese è stato stabile se non addirittura negativo con un leggero calo di circa l’1%. Un efficace indicatore dello scarso sviluppo della borsa di Milano è dato dalla scarsa capacità di attrazione del listino italiano nei confronti delle imprese estere: a Milano sono quotate solo 4 imprese straniere contro le 178 di Parigi e le 521 di Londra. I MERCATI DI BORSA PER LE PMI Nonostante la rilevante presenza di imprese di piccole e medie dimensioni, nel recente passato i tentativi di sviluppare mercati dedicati alle Pmi sono stati ripetutamente frustrati. Il mancato sviluppo del terzo mercato, l’utilizzo improprio del mercato ristretto, utilizzato prevalentemente per la quotazione di Banche Popolari, il fallimento del Metim hanno, nel tempo, allargato il gap del mercato finanziario milanese rispetto alle altre realtà europee. NUOVE OPPORTUNITÀ FINANZIARIE IN EUROPA PER LE PMI Negli ultimi tre anni, infatti, sono stati istituiti in Europa secondi mercati regolamentati specializzati per la quotazione di imprese innovative di piccolamedia dimensione, non adatte per profilo di rischio ad essere quotate sulle borse principali. Questi mercati sono caratterizzati da requisiti minimi di ingresso molto bassi o assenti e da procedure di ammissione più snelle, quindi particolarmente idonei all’ammissione in borsa di imprese di minori dimensioni e per la dismissione di partecipazioni azionarie tramite iniziali offerte pubbliche di vendita. In Europa hanno raggiunto importanti risultati il mercato paneuropeo Easdaq e la borsa circuito Euro-Nm lanciata dal Nouveau Marchè di Parigi, che comprende il Neue Markt di Francoforte, il Nouveau Marchè belga e il Niewe Markt di Amsterdam. Tab. 3 – I mercati minori europei dedicati alle imprese e ad alto potenziale di crescita. Euro Nm Easdaq (Rete europea) (Bruxelles) Società quotate Capitalizzazione* 150 40 28.400 19.230 * In milioni di dollari Fonte: Euro-Nm e Esdaq 172 IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE A questo circuito si è collegato il recente “nuovo mercato” dedicato a piccole e medie imprese ad elevata potenzialità di crescita: presentato agli inizi di maggio, dovrebbe diventare operativo con la quotazione delle prime imprese entro la fine dell’estate. Tuttavia, nonostante le attese della vigilia e l’euforia della novità, anche questo mercato pare essere circondato da un diffuso scetticismo. È come se il ritardo fin qui accumulato nello sviluppo di mercati dedicati alle Pmi, sebbene colmabile, avesse pregiudicato lo sviluppo di una cultura del capitale di rischio per le Pmi. In realtà, le ragioni di tale scetticismo trovano la loro ragion d’essere in una serie di elementi di contesto che nel corso degli ultimi decenni hanno contribuito ad alimentare un sistema di finanziamento sostanzialmente fondato sull’indebitamento. Dal lato della domanda, un contesto fiscale che almeno fino al varo della dual income tax (oggi peraltro ancora insufficiente) penalizzando il ricorso a interventi di finanza strutturale non ha favorito lo sviluppo di una cultura del capitale di rischio. Dal lato dell’offerta gli elevati rendimenti dei titoli di Stato e gli ampi margini di intermediazione nel sistema creditizio hanno ritardato lo sviluppo di nuovi intermediari e strumenti alternativi per il finanziamento del sistema imprenditoriale. IL SETTORE DEL PRIVATE EQUITY UN SETTORE IN RITARDO Anche se il settore del private equity1 ha in questi ultimi anni registrato un’importante accelerazione, oltrepassando nel 1997 per la prima volta la soglia dei 1000 miliardi di investimenti e attestandosi a circa 1800 miliardi nel corso del 19982, l’Italia evidenzia ancora un evidente ritardo rispetto ai maggiori paesi europei sia in termini di volume, sia in termini di modalità delle operazioni di investimento. Le ragioni di questo ritardo sono indubbiamente molteplici. Oltre che dalle già citate condizioni generali di contesto, il ricorso al capitale di rischio e lo sviluppo del settore del private equity è stato limitato dalla mancanza di un efficiente mercato secondario dedicato alle Pmi per lo smobilizzo delle partecipazioni e dal ritardo con cui sono stati introdotti nuovi investitori, quali i fondi pensione che all’estero svolgono un ruolo particolarmente rilevante nella raccolta di capitale di rischio per le operazioni di venture capital. Il problema dello sviluppo del private equity non è tuttavia limitato alla raccolta dei capitali, quanto piuttosto al loro impiego. I principali operatori del settore, merchant bank, società di venture capital, fondi chiusi di sviluppo, società finanziarie regionali non sono riusciti di fatto ad esprimere un’attività di investimento significativa. Basti pensare che i 6 fondi chiusi attualmente operativi hanno investito meno del 30% dei capitali, circa 940 miliardi, raccolti. 1 Per private equity si intendono, in questo contesto, tutte le operazioni di finanza straordinaria, dalla raccolta dei capitali per l’avvio, all’ingresso di soci finanziari, che interessano le diverse fasi di vita dell’impresa, dalla sua nascita alla quotazione di borsa. 2 I nuovi fondi raccolti nel 1997 sono stati 2069 miliardi di lire contro i 1424 del 1996, che rappresenta un aumento del 45% e sono stati investiti circa 1164,4 miliardi di lire in 234 operazioni di investimento, che corrispondono a 209 imprese. Vi è stato un incremento del 17% sull’ammontare totale investito e un aumento del 18% del numero delle operazioni effettuate rispetto all’anno precedente (998,5 miliardi investiti e 198 operazioni nel 1996, AIFI YearBook 1998). 173 IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE SCARSI INVESTIMENTI NELLO START UP DI NUOVE IMPRESE… … E NELL’HIGH TECH L’altro dato rilevante è che questi intermediari specializzati perseguono strategie di investimento incentrate prevalentemente su un target di imprese medio-grandi e in operazioni che privilegiano le fasi successive del ciclo di sviluppo dell’impresa. Si assiste pertanto a una situazione paradossale per cui le offerte degli investitori si addensano su un numero ristretto di imprese, mentre la gran parte di imprese medio piccole, sotto i 30 miliardi di fatturato, non vengono partecipate. Tali considerazioni, che vengono spesso fatte dagli stessi operatori del settore e riportate dalla stampa specializzata, sembrano in parte contraddette dai dati raccolti dall’Aifi in base ai quali risulta che nel corso del 1997 ben il 12% dell’ammontare degli investimenti è stato effettuato in operazioni di start-up e oltre il 31% è andato a finanziare imprese con meno di 19 addetti. Tali dati includono, in realtà, l’attività di alcuni soggetti pubblici che hanno operato prevalentemente al Sud, quali la IG (Imprenditoria Giovanile) che, da sola, nel corso dei dodici anni di attività, ha partecipato a oltre 930 neoimprese (di cui solo 8 al Nord Italia) per un importo di oltre 2.000 miliardi di lire. Se si escludono, quindi, gli investimenti effettuati dall’operatore pubblico si può ragionevolmente affermare che gli operatori oggi presenti sul mercato italiano non partecipano a imprese di piccola dimensione e, per loro stessa ammissione, non finanziano le attività di imprese nascenti. Un altro elemento negativo è dato dal fatto che, nonostante un’inversione di tendenza registrata nel corso del 1998, gli investimenti tramite capitale di rischio si sono rivolti prevalentemente a imprese di settori industriali tradizionali con il 94% dell’intero ammontare investito, mentre i settori ad alta tecnologia rappresentano solo una minima parte con il 6% del totale. Anche se questo dato è in parte spiegabile con il fatto che questa suddivisione corrisponde in gran parte alle stesse caratteristiche del tessuto produttivo italiano, sarebbe tuttavia opportuno chiedersi quanto il mancato sviluppo del mercato del venture capital non sia una delle cause che penalizzano la nascita nel nostro Paese di imprese high tech. Il reperimento di risorse finanziarie per nuove iniziative imprenditoriali nei settori high tech è un problema ovviamente non limitato all’area del Nord Italia. In altre regioni d’Europa si è cercato di rispondere a questa necessità attraverso la creazione e l’organizzazione di mercati informali del capitale di rischio che consentano l’incontro fra potenziali investitori privati (business angels) e neo imprenditori. Tali mercati, tipicamente locali poiché normalmente l’investitore opera su imprese prossime di cui può seguire attivamente l’evoluzione, dopo aver registrato un indubbio successo nel Regno Unito sono stati adottati anche nella vicina Francia dove recentemente è stato creato il Professional Network SA che raggruppa le 12 diverse iniziative regionali/locali dedicate alle nuove iniziative imprenditoriali. Nel Nord Italia, così come d’altra parte nel resto del Paese, non esistono di fatto iniziative analoghe. Alcuni progetti sono stati avviati, ad esempio il Club delle tecnologie promosso dalle Camere di Commercio di Milano e Torino, ma sono a livello sperimentale e non sufficientemente sostenute né dalle istituzioni né dagli operatori di mercato. 174 IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE LE DEBOLEZZE DAL LATO DELLA DOMANDA Nelle analisi relative ai problemi del finanziamento delle Pmi si sottolineano, a ragione, oltre alle condizioni di contesto soprattutto fiscali e normative, le carenze dell’offerta. Nel caso in questione, riteniamo tuttavia opportuno analizzare anche alcune caratteristiche della domanda di capitali. Le ragioni del mancato sviluppo di un moderno mercato finanziario per le Pmi del Nord Italia vanno infatti ricercate, a nostro avviso, anche in alcune caratteristiche tipiche del sistema imprenditoriale locale e precisamente nella dimensione delle imprese, nella loro scarsa contendibilità e nella specializzazione produttiva. PMI TROPPO PICCOLE … ... E TROPPO FAMILIARI ... SPECIALIZZATE IN SETTORI POCO ATTRAENTI PER GLI INVESTITORI PROFESSIONALI La dicitura Pmi utilizzata per definire e spesso celebrare l’universo della imprenditoria italiana nasconde una realtà ampiamente riconosciuta, ma spesso trascurata: la dimensione prevalente delle nostre imprese è “piccola” e non “media”, nettamente inferiore a quella dei nostri partner europei. Una dimensione inferiore alle soglie minime di efficienza sia dal lato dell’offerta sia da quello della domanda. Questa dimensione è inadeguata sia per gli investitori e gli intermediari specializzati i quali non riescono a “spalmare” i costi fissi di istruttoria su operazioni di entità limitata e per lo sviluppo, sia per l’impresa che deve affrontare costi di ricerca e di “presentazione”, business plan, due diligence, certificazione di bilancio, spesso superiori ai benefici attesi. La dimensione ridotta si ricollega per molti versi alla proprietà prevalentemente familiare del nostro tessuto produttivo. Un assetto proprietario che peraltro interessa anche i maggiori gruppi industriali italiani e che limita fortemente sia la capacità di crescita dell’impresa sia la sua contendibilità sul mercato. È indubbio che questo modello, che pure ha avuto un forte ruolo di sviluppo del sistema imprenditoriale dell’Italia del Nord per tutto il dopoguerra grazie al trasferimento di risorse sia finanziarie sia lavorative dalla famiglia all’impresa, possa oggi costituire un limite al suo consolidamento. Troppo spesso, infatti, l’impresa segue i destini della famiglia e si estingue con essa, incapace di trovare nuove risorse e nuovo slancio da imprenditori e manager subentrati alla famiglia originaria. Insieme alla dimensione ridotta e alla scarsa contendibilità, l’ulteriore vincolo della domanda è dato dalle specializzazioni produttive del tessuto imprenditoriale dell’Italia settentrionale. Gran parte delle imprese operano, infatti, in settori tradizionali del “made in Italy”, della meccanica e della subfornitura (si veda a questo proposito la scheda sulle specializzazioni manifatturiere). Questa specializzazione tradizionale non attrae investimenti degli operatori professionali. Gli investitori e gli intermediari specializzati prediligono, infatti, settori high-tech, quali biotecnologie, information technology, telecomunicazioni, che pur avendo un più elevato rischio di fallimento presentano prospettive di redditività superiori alla media. Queste caratteristiche della domanda finiscono, in ultima analisi, col rendere poco appetibile per gli investitori/intermediari specializzati gli investimenti nelle Pmi del Nord Italia. Il dato più evidente del fallimento o quantomeno delle difficoltà di questo settore è testimoniato, oltre che dal ritardo nello sviluppo del mercato del private equity, anche dall’incapacità del nostro sistema imprenditoriale di attirare “capitali di ventura” stranieri, in particolare statu- 175 IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE nitensi e britannici, che preferiscono insediarsi ed operare in altre aree europee, in particolare Germania, Olanda e Francia. IL CIRCOLO VIZIOSO Al di là dell’evidenza ci si deve chiedere se il fenomeno non sia da leggere come biunivoco. Se cioè è vero che la mancanza di un adeguato tessuto imprenditoriale penalizza lo sviluppo di nuovi strumenti/intermediari dedicati al finanziamento delle Pmi, non può essere altrettanto vero che la mancanza di un adeguato sistema finanziario costituisce un ostacolo alla nascita di nuove imprese innovative e alla crescita dimensionale del tessuto produttivo del Nord Italia? Attraverso questa chiave di lettura si possono, a nostro avviso, leggere e interpretare alcuni dei nodi critici del sistema imprenditoriale delle regioni settentrionali: la scarsa natalità di imprese nei settori ad alta tecnologia, la mancanza di una diffusa innovazione di prodotto, la mancata crescita dimensionale, la scarsità di imprese da portare alla quotazione. IL FINANZIAMENTO DELL’AVVIO DI NUOVE IMPRESE: ASPETTI CRITICI: 1) L’IMMATERIALITÀ DEI PROCESSI INNOVATIVI 2) LE DIMENSIONI MINIME L’area padana continua ad essere fucina di nuova imprenditorialità. Tuttavia, in alcune aree, quali Piemonte e Liguria, la natalità imprenditoriale è relativamente bassa, mentre più in generale le nuove imprese si caratterizzano per un basso contenuto innovativo e spesso sono riconducibili a strategie di outsourcing, o a iniziative di autoimpiego piuttosto che a vere e proprie iniziative imprenditoriali (si veda a questo proposito la scheda sulle neoimprenditorialità). La ragione di ciò è certamente riconducibile ad una serie complessa di fattori di contesto, fra cui lo scarso funzionamento di un sistema di istruzione universitaria che non riesce a produrre – al contrario di quanto accade in altri paesi – spin-off imprenditoriali. Tuttavia è indubbio che il mancato sviluppo di un mercato dedicato al finanziamento degli start-up giochi un ruolo fondamentale. La sempre maggiore complessità e l’immaterialità dei processi di innovazione tecnologica richiedono risorse finanziarie non più legate alla prestazione di garanzie collaterali al finanziamento. Ciò vale soprattutto per le innovazioni di prodotto o le innovazioni connesse a settori high-tech. Anche in questo ambito il mercato non ha saputo valorizzare nuovi strumenti, intermediari e/o procedure di finanziamento. La crescita delle unità produttive al fine di raggiungere soglie minime di efficienza è stata spesso frustrata dalla mancanza di strumenti di finanziamento idonei, oltre che da una serie di vincoli ed incentivi che premiavano e, almeno in parte premiano ancora, la piccola dimensione. L’assenza di partner finanziari credibili per processi di crescita rapida fa sì che le imprese intraprendano percorsi di crescita interna o attraverso fusioni e/o acquisizioni prevalentemente mediante il ricorso a risorse proprie o all’utilizzo di strumenti tradizionali. In alcuni casi la consapevolezza di non riuscire a raggiungere soglie dimensionali competitive fa si che l’impresa venga ceduta al competitore di riferimento. 176 IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE 3) IL PROBLEMA DEI MERCATI FINANZIARI PER LE PMI La quotazione in borsa, dedicata o non, dovrebbe costituire la fase conclusiva di un processo di accompagnamento dell’imprenditore da parte di consulenti/partner finanziari che nelle diverse fasi di vita sostengono attivamente lo sviluppo dell’impresa. Nelle diverse esperienze estere sono, infatti, i partner finanziari a sostenere la quotazione dell’impresa come way-out al loro investimento. Anche in questo caso, dunque il rapporto è ambivalente: la mancata realizzazione di un mercato secondario dedicato alle Pmi costituisce un vincolo alla pubblicizzazione delle imprese perché frena gli investitori a cui viene meno il principale canale di disinvestimento, dall’altra lo scarso spessore di un mercato “informale” dei capitali fa sì che la “fonte” che dovrebbe alimentare questo mercato sia, in realtà, abbastanza arida. NOTE CONCLUSIVE Un rapido excursus sul passato e le prospettive delle dinamiche di finanziamento del sistema imprenditoriale del Nord Italia non può che essere, per sua natura, presuntuoso nelle intenzioni e carente nella struttura. Tuttavia, il dato che sembra condiviso da molti osservatori è che il sistema finanziario del Nord Italia si trova ad un punto cruciale di svolta. I RISCHI DI EMARGINAZIONE FINANZIARIA DEL NORD ITALIA LE OPPORTUNITÀ COMPETITIVE E DI SPECIALIZZAZIONE PER LA PIAZZA MILANESE Il processo di integrazione monetaria, con il venir meno di alcuni vantaggi comparati iniziali, quali la centralità geografica, la moneta utilizzata, le barriere normative e tecniche, pone infatti in maggior evidenza la contendibilità del mercato finanziario europeo, aumentando la competizione tra i diversi centri finanziari. Per la piazza finanziaria di Milano esiste quindi il rischio di venire emarginata dalla concorrenza di quelle maggiori, tramite un processo di centralizzazione di gran parte del mercato finanziario verso le principali piazze europee. In questo contesto Milano e più in generale il Nord Italia rischiano di venire subordinati al processo di concentrazione dei maggiori centri finanziari europei. Se ciò dovesse accadere il danno per il nostro sistema imprenditoriale potrebbe essere rilevante. Soprattutto per le nuove e le piccole e medie imprese che hanno maggiori difficoltà ad accedere e utilizzare strumenti finanziari innovativi attivati in altri paesi. D’altra parte le capacità competitive della piazza finanziaria milanese e quindi la sua “sopravvivenza” quale nodo cruciale del network finanziario europeo dipendono paradossalmente a nostro avviso proprio dalla capacità del mercato dell’Italia del Nord di progettare e sviluppare mercati, strumenti e servizi per la piccola e media impresa. Per i centri periferici, come Milano, per poter competere e integrarsi con i centri maggiori è infatti indispensabile valorizzare i vantaggi competitivi rispetto alle piazze centrali. E il più evidente vantaggio della piazza finanziaria milanese sta proprio nella ricchezza imprenditoriale dell’Italia settentrionale, nella migliore conoscenza del mercato locale, nella maggiore accessibilità e velocità di elaborazione delle informazioni. L’importanza dei contatti diretti con gli imprenditori e tra gli operatori è, infatti, fondamentale sia per la creazione di nuovi “prodotti”, sia per la rapida e corretta interpretazione delle informazioni. Mentre, quindi, il futuro mercato europeo delle blue chip o dei derivati sarà sicuramente globale, omogeneo e delocalizzato, per la gestione della corporate finance, che richiede alta professionalità e molti contatti, è probabile che si creino poche e specializzate localizzazioni. 177 IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE Che la piazza finanziaria di Milano voglia e sia in grado di sfruttare queste opportunità è un augurio. Le strategie da avviare sono molteplici e comunque non facilmente percorribili poiché hanno bisogno della risposta di tutti gli operatori e interessano problematiche più generali di riorganizzazione del sistema finanziario nazionale. Il rischio dell’immobilità appare, d’altra parte, troppo elevato per non cercare di trovare, rapidamente, soluzioni. BIBLIOGRAFIA AIFI (1999), Capitale per lo sviluppo, rapporto annuale. Abraham J. et al. (1993), “The Competitiveness of European Financial Centres”, Research Monographs in Banking and Finance n.1, University College of North Wales. Baffigi M., Pagnini F., Quintiliani G. (1997), “Industrial District and Local Banks: Do the Twins Ever Meet?”, relazione presentata al convegno La molteplicità dei modelli di sviluppo nell’Italia del Nord, Parma. Banca d’Italia (1994), Il mercato della proprietà e del controllo delle imprese: aspetti teorici ed istituzionali, Roma Barca F. (1988), “La dicotomia dell’industria italiana: le strategie delle piccole e delle grandi imprese in un quindicennio di sviluppo economico”, in Atti del seminario Ristrutturazione economica e finanziaria delle imprese, Banca d’Italia, Roma. Bisoni C et al. (1994), Banca e impresa nei mercati finanziari locali, Il Mulino, Bologna. 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Spatial Formation, Sage, London. 178 LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE Sandro Lecca∗ SOMMARIO – UNA MODERNIZZAZIONE RITARDATA RISPETTO ALL’EUROPA – L’EVOLUZIONE DELLA RETE COMMERCIALE NEL NORD ITALIA: LA CRESCITA DELLA GRANDE DISTRIBUZIONE – LE IMPLICAZIONI DELLA MODERNIZZAZIONE: LA CRESCITA DEL RUOLO STRATEGICO DELLA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE – CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE: I RISCHI E LE OPPORTUNITÀ PER L’ECONOMIA SETTENTRIONALE – BIBLIOGRAFIA SOMMARIO La presenza di forti vincoli amministrativi e la stessa dispersione del tessuto produttivo hanno giocato un ruolo frenante nel processo di concentrazione della rete distributiva italiana, che al Nord è stato di certo più intenso, ma di entità inferiore nei confronti di quanto avvenuto nei paesi commercialmente avanzati d’Europa. Segni di questo ritardo non sono soltanto la minore incidenza della grande distribuzione organizzata e il permanere di una più elevata frammentazione della rete, ma anche e soprattutto il deficit di internazionalizzazione “attiva”, ossia di presenza nei mercati esteri, che continua a caratterizzare le nostre imprese commerciali. Tuttavia il primo, lungo e “temperato” ciclo della modernizzazione del settore distributivo (acceleratosi negli anni Ottanta) può considerarsi, almeno con riferimento alla realtà del Nord, sostanzialmente concluso. Esaurita e vinta la concorrenza con il piccolo dettaglio tradizionale (che – occorre ricordarlo – esercitava peraltro un’importante funzione sociale di conservazione della vitalità del territorio), la distribuzione moderna, forte anche di una maggiore autonomia nei confronti dell’industria, si trova oggi ad affrontare la sfida di una nuova e più complessa fase competitiva. Questa sembra richiedere il realizzarsi di due condizioni di fondo. La prima, interna al settore distributivo, implica la concentrazione delle funzioni strategiche e direzionali (acquisti, logistica, marketing, finanza) quale presupposto per il rafforzamento della stessa piccola impresa commerciale. La seconda riguarda la migliore qualificazione del rapporto tra la distribuzione moderna e le Pmi manifatturiere, che richiede lo sviluppo di relazioni cooperative o di partnership. Entrambi i passaggi – che consistono sostanzialmente nell’innescare meccanismi di maggiore razionalità sistemica – appaiono indispensabili per consentire al “sistema” del Nord di porsi con qualche chance di successo davanti alla sfida della crescente internazionalizzazione degli assetti distributivi e produttivi. UNA MODERNIZZAZIONE RITARDATA RISPETTO ALL’EUROPA UNA STRUTTURA COMMERCIALE ALL’AVANGUARDIA IN ITALIA … Con il 19% del complesso delle unità locali, il 16% degli occupati totali e il 14% del valore aggiunto dell’intera economia, il settore del commercio continua a ricoprire un ruolo fondamentale nello sviluppo economico e sociale dell’Italia del Nord. È qui che si concentra il 40,4% dei punti di vendita dell’intera rete distributiva al dettaglio fisso nazionale, ma soprattutto il 47% ∗ Ufficio Studi, CCIAA Milano 179 LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE dei supermercati, il 52,4% degli hard discount e ben il 69,6% degli ipermercati. Dati, questi ultimi, che testimoniano chiaramente come la diffusione del commercio moderno sia stata più ampia nelle regioni settentrionali rispetto al resto del paese. … MA IN RITARDO RISPETTO ALL’EUROPA PIÙ AVANZATA La struttura commerciale del Nord Italia appare peraltro meno moderna se la si paragona a quella degli altri paesi avanzati dell’Europa. La prima è infatti caratterizzata: • da una maggiore frammentazione, come mostra il suo più elevato indice di densità commerciale (numero di punti di vendita al dettaglio per 10.0000 abitanti): 105 contro 78 della Francia, 67 dell’Olanda, 58 della Gran Bretagna, 54 della Germania, uno scarto che si accentua ulteriormente considerando il solo comparto non alimentare; • da una minore dotazione di commercio alimentare moderno (supermercati e grandi ipermercati di oltre 5.000 mq.), che raggiunge complessivamente i 113 mq. per 1.000 abitanti, contro i 231 della Francia e i 193 della Germania. Inoltre gli ipermercati in senso ampio (oltre 2.500 mq) assorbono nel Nord Italia il 27% circa dell’intera superficie moderna contro il 55% della Francia, il 57% della Germania e il 29% della Spagna; • dalla forte prevalenza di esercizi di piccolissime dimensioni (una media di neanche 3 addetti per punto vendita contro i 4,5 della Francia e i 6,6 della Germania), in cui domina il lavoro indipendente (55% dell’occupazione commerciale contro il 22% della Francia e il 15% della Germania). Anche nelle regioni più ricche e avanzate del Nord Italia la rete distributiva presenta quindi un chiaro deficit di modernizzazione, almeno nei confronti di quei paesi europei che hanno avviato la “rivoluzione commerciale” con molto anticipo rispetto al nostro paese. Un ritardo temporale che possiamo forse misurare in una dozzina di anni, dal momento che soltanto oggi il Nord raggiunge densità commerciali paragonabili a quelle che, per fare un esempio, la Francia deteneva già nel 1986. LE RAGIONI DEL RITARDO Tale ritardo è dovuto, come è ben noto, alla combinazione di diversi fattori: dalle barriere amministrative (legge 426/1971) che ponevano vincoli alla diffusione delle grandi superfici di vendita, ai caratteri strutturali dell’industria produttrice dei beni di consumo durevoli fondata su una miriade di piccole e medie imprese specializzate in mercati di nicchia, alla sostanziale subordinazione dei distributori dall’industria di marca, sino alla stessa configurazione fisica e urbanistica del territorio. In queste condizioni di freno alla crescita dimensionale e allo sviluppo dell’innovazione, l’attività di commercio ha finito spesso per costituire un’alternativa al lavoro dipendente, rispondendo quindi più a obiettivi di assicurazione del reddito famigliare che di rafforzamento e ammodernamento aziendale. L’EVOLUZIONE DELLA RETE COMMERCIALE NEL NORD ITALIA: LA CRESCITA DELLA GRANDE DISTRIBUZIONE Per via dei limiti sopra segnalati, il passaggio dalle forme tradizionali a quelle moderne è stato, nel Nord Italia, meno rapido e dirompente rispetto alle aree commercialmente più evolute e dinamiche dell’Europa, ma si può dire che esso costituisca ormai un fatto compiuto, almeno per quanto riguarda la di- 180 LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE stribuzione alimentare, mentre analoghi processi di cambiamento si stanno progressivamente estendendo anche al non alimentare. È quindi utile e opportuno tracciare qui di seguito un rapido quadro dei rilevanti cambiamenti che hanno caratterizzato, specie negli anni più recenti, l’evoluzione della rete distributiva nelle regioni del Nord. LA RETE ALIMENTARE: UNA FORTE SPINTA ALLA RAZIONALIZZAZIONE E ALLA CONCENTRAZIONE A partire dalla metà degli anni Ottanta si assiste, in Italia, a un consistente fenomeno di razionalizzazione e concentrazione della rete distributiva alimentare, che appare più accentuato nelle regioni dell’Italia settentrionale e in particolare del Nord Est. Nel periodo 1981-1994 il numero dei punti di vendita si riduce di circa un terzo, con un ritmo di diminuzione in media annua intorno al -3%, che si intensifica notevolmente tra il 1996 e il 1997 (-12% nel Nord Ovest e -13,5% nel Nord Est). Ne consegue la forte contrazione della densità commerciale, che passa dai 57-58 esercizi per 10.000 abitanti del 1981 ai 2930 attuali (contro una media nazionale di 36). Questi dati indicano come la componente moderna abbia di fatto sostituito quella tradizionale. L’evoluzione della rete distributiva moderna, che implica una maggiore articolazione delle formule di vendita, può essere sinteticamente rappresentata come segue: • crescita vistosa dei supermercati (ossia degli esercizi con superficie di vendita compresa tra i 400 e 2.500 mq), che sin dalla fine degli anni Cinquanta sono stati all’origine del processo di modernizzazione, sviluppandosi prima al Nord, e con maggiore intensità nel Nord Est, per poi diffondersi nel resto d’Italia. Si tratta peraltro di una formula ormai matura, se non in declino, come indica la contrazione di 43 unità intervenuta tra il 1994 e il 1996 nel Nord (a fronte di una tendenza nazionale ancora in aumento, seppure contenuto); • diffusione, a partire dalla metà degli anni Ottanta, degli ipermercati (oltre 2.500 mq), che si è concentrata soprattutto nel Nord Ovest e in particolare nel Piemonte e nella Lombardia (queste due regioni, da sole, assorbono, in termini di unità di vendita, il 62% del totale Nord e il 43% di quello nazionale). Come si è già osservato, oggi gli ipermercati settentrionali detengono il 27% (6% nel resto d’Italia) dell’intera superficie alimentare moderna; • comparsa negli anni più recenti (1993) e crescita rapida - specie in Lombardia e nell’Emilia Romagna - dell’hard discount (400-800 mq), un fenomeno che lungi dal portare alla sostituzione delle altre formule commerciali innesca nuove dinamiche competitive specie per quanto riguarda le politiche di prezzo. Esploso in una fase di recessione produttiva e di contrazione dei consumi (1993-1994), oggi il “boom” degli hard discount appare esaurito, mentre si evidenzia, in particolare nel Nord Est, una tendenza al ridimensionamento, indotta anche dalla reazione competitiva delle altre forme distributive (come, ad esempio, la massiccia introduzione di prodotti di primo prezzo o il ricorso a strategie di fidelizzazione da parte dei supermercati); • maggiore penetrazione della rete di vendita moderna nel Nord Est (specie nel Veneto, la regione commercialmente più “avanzata” d’Italia, almeno nel settore alimentare), che detiene un più elevato indice di dotazione complessiva: 153 mq per 1.000 abitanti (considerando l’insieme di supermercati, ipermercati e hard discount) contro i 132 del Nord Ovest. La differenza si spiega con il forte sviluppo assunto nelle regioni del Nord 181 LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE Est dal supermercato, formula che svolgendo un servizio di prossimità appare particolarmente funzionale alle caratteristiche urbane di quei territori. LA RETE NON ALIMENTARE: UNA POLVERIZZAZIONE ANCORA ACCENTUATA … È soltanto a partire dal 1991 che nella rete distributiva non alimentare iniziano a manifestarsi processi di concentrazione di una qualche intensità. Tra il 1991 e il 1994 diminuisce infatti, per la prima volta dal 1981, il numero dei punti di vendita, nella percentuale del -2,7% nel Nord Ovest e -4% nel Nord Est (contro il -3,4% della media Italia), una tendenza che, anche a causa della contrazione dei consumi, si rafforza negli anni successivi (-2,6% nel Nord Ovest e -2,4% Nord Est in un solo anno, ossia tra il 1996 e il 1997). Si riduce quindi il grado di polverizzazione della distribuzione non alimentare, che continua peraltro a presentare valori nettamente superiori a quelli osservabili negli altri paesi avanzati dell’Europa: 77 punti di vendita per 10.000 abitanti nel Nord Ovest e 82 nel Nord Est contro i 54 della Francia, i 46 della Germania e i 35 della Gran Bretagna. L’accentuata polverizzazione del commercio non alimentare italiano - in cui dominano il piccolo negozio specializzato e il ricorso al lavoro autonomo costituisce di certo un’evidente anomalia nel contesto distributivo europeo, ma appare del tutto coerente alle caratteristiche sia del tessuto economico di riferimento, esso stesso fortemente segmentato (non a caso la densità è maggiore nel Nord Est), che di una domanda di consumi impregnata di localismo. Tali determinati strutturali, limitando la standardizzazione dei beni, hanno reso difficoltosa l’introduzione di quelle economie di scala (concentrazione degli acquisti, della logistica, del marketing, della finanza) che al contrario hanno maggiormente caratterizzato lo sviluppo della rete commerciale non alimentare degli altri paesi europei. In questo quadro si spiega il ruolo marginale assunto in Italia dai grandi magazzini (2.000-2.500 mq) e magazzini popolari (1.000-1.500 mq.), la cui quota di mercato è passata dal 2,4% del 1980 al 3,1% del 1990. Il loro numero, negli ultimi anni, risulta inoltre stazionario o in diminuzione in tutte le regioni del Nord, con la sola eccezione della Lombardia, dove sembra essere in atto un tentativo di rivitalizzazione di questa formula allo scopo di reggere la concorrenza con i centri commerciali integrati. … MA IN VIA DI RIDUZIONE Il processo di modernizzazione della rete non alimentare – che si trova ancora in una fase iniziale – è testimoniato dallo sviluppo assunto da formule distributive moderne quali: • i centri commerciali al dettaglio, che si concentrano nel Nord Italia (68% delle strutture e 73% della superficie), aumentano le loro dimensioni medie (+10,2% nel Nord Ovest e + 29,9% nel Nord Est tra il 1991 e il 1996), offrono una varietà di servizio sempre più completa, allargata alle stesse attività di “entertainment”, e si localizzano nelle aree extra-urbane, spesso accanto ad altri “attrattori” commerciali (ipermercati, superfici specializzate); • le grandi superfici (più di 400 mq.) specializzate per funzioni di consumo (arredamento, articoli sportivi, bricolage, ecc.), a prevalente localizzazione extraurbana, che operano con i criteri di gestione tipici della grande distribuzione alimentare (libero servizio, economie di scala, presenza di marche commerciali), praticano politiche di prezzo a discount e costitui- 182 LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE scono quindi una seria minaccia (una vera e propria category killer, come sono state denominate) per il commercio specializzato di minori dimensioni. Si tratta di una formula innovativa per l’Italia, affermatasi soprattutto nelle regioni del Nord Est ed esposta alla penetrazione delle insegne estere (Ikea è l’esempio più noto). LA CRESCITA DEL FRANCHISING LA PRESENZA DELLE IMPRESE ESTERE In questi ultimi anni si è assistito in Italia a un rilevante sviluppo delle reti di franchising, a cui ricorrono sia i produttori che i distributori intenzionati a innovare le proprie strategie distributive attraverso una maggiore strutturazione dell’offerta, conseguendo nello stesso tempo obiettivi di riduzione dei costi e di migliore copertura territoriale delle insegne. Tra il 1996 e il 1998 il numero degli esercizi commerciali operanti in franchising – concentrati in buona parte nel Nord Italia – è cresciuto del 40% circa (toccando le oltre 12.500 unità, di cui 2.000 localizzate nella sola Lombardia), un aumento ancor più significativo se si considera la parallela e pronunciata contrazione del dettaglio tradizionale. Il franchising è oggi interessato da una crescente processo di internazionalizzazione, che tuttavia investe ancora marginalmente le imprese italiane: basti che dire i punti di vendita affiliati alle prime 20 insegne nazionali operanti all’estero risultavano nel 1994 (comprendendo anche il settore dei servizi) poco più di mille, ossia meno della metà dei 2.600 negozi esteri affiliati ad una sola insegna come quella francese di Intermarché. Con lo sviluppo dell’innovazione delle formule commerciali, alcune delle quali importate da altri paesi europei (l’ipermercato dalla Francia, l’hard discount dalla Germania), cresce notevolmente – a partire dai primi anni Novanta, soprattutto nel Nord Italia e nel settore alimentare – la presenza delle grandi imprese estere della distribuzione. Queste oggi controllano, direttamente o indirettamente, quote significative della superficie di vendita degli ipermercati (15% nel Nord Ovest e 8% nel Nord Est), degli hard discount (25% nel Nord Ovest e quasi 40% nel Nord Est) e dei cash & carry (25% nel Nord Ovest e 15% nel Nord Est), una presenza che in questi ultimi anni si sta sempre più estendendo anche alla gestione delle grandi superfici specializzate non alimentari. A causa delle ridotte dimensione delle imprese nazionali – nessuna di queste, ad esempio, figura tra i primi 15 gruppi europei della distribuzione specializzata – e del livello di saturazione ormai raggiunto dai mercati di diversi paesi, l’Italia continua ad offrire ampi spazi e nuove opportunità alle aziende straniere intenzionate a svilupparsi in un mercato europeo sempre più integrato. La presenza degli operatori esterni – che fanno ricorso alle diverse modalità d’ingresso (apertura diretta, acquisto di piccole-medie catene nazionali, partecipazioni di minoranza, accordi di joint-venture, contratti di franchising) è quindi destinata a rafforzarsi nei prossimi anni, specie nel settore non alimentare, che presenta più elevati margini di crescita. Dalla nostra analisi emerge una conclusione di fondo: seppure con velocità diverse tra alimentare e non alimentare e il permanere di un certo ritardo rispetto ai paesi europei commercialmente più avanzati, la prima fase di modernizzazione della rete distributiva può ritenersi, nell’Italia del Nord, sostanzialmente compiuta. Il confronto competitivo e la turbolenza, accentuati dai fenomeni di internazionalizzazione, si spostano all’interno del settore moderno, mentre la dinamica dell’offerta commerciale tende ad adeguarsi alla do- 183 LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE manda dei consumatori sulla base di meccanismi non più (o non solo) di tipo “amministrativo”, ma di mercato. Ciò significa che a rendere moderna una rete distributiva non è tanto la presenza delle grandi superfici di vendita, quanto lo sviluppo della differenziazione e della specializzazione delle formule (oggi, tra l’altro, a crescente contenuto di servizio) fondato sulle dinamiche concorrenziali tipiche del libero mercato. LE IMPLICAZIONI DELLA MODERNIZZAZIONE: LA CRESCITA DEL RUOLO STRATEGICO DELLA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE Le conseguenze della “rivoluzione commerciale” affermatasi nelle regioni del Nord sono molteplici e investono non solo gli equilibri interni alla distribuzione, ma anche quelli connessi ai rapporti che il commercio intrattiene con le diverse componenti del sistema globale (industria di produzione, logistica, mercati esteri, comportamenti di acquisto dei consumatori, qualità della vita, territorio, e così via). In questa sede ci limiteremo ad evidenziare i cambiamenti e i nodi problematici con riguardo a tre aspetti “sistemici” di cruciale importanza: l’impatto sull’industria, la “minaccia” proveniente dai processi di internazionalizzazione, il rapporto con il territorio. IL RIBALTAMENTO DELLA DIPENDENZA DEL COMMERCIO DALL’INDUSTRIA I CAMBIAMENTI INDOTTI NEL SETTORE INDUSTRIALE Con lo sviluppo della distribuzione moderna viene meno il tradizionale rapporto di dipendenza del commercio dall’industria. Non soltanto il distributore aumenta il proprio potere contrattuale nei confronti del produttore (da cui ottiene migliori condizioni di acquisto), ma assume un ruolo imprenditoriale maggiormente autonomo. Questo processo di emancipazione del settore distributivo è ben testimoniato dal fenomeno delle “marche commerciali”, attraverso cui si il distributore si appropria di competenze e di fasi del ciclo produttivo (progettazione e marketing dei prodotti) che nel passato costituivano prerogativa unica dell’industria di marca. Il ricorso alle nuove tecnologie informatiche, che consente di conoscere in tempo reali gli orientamenti e i bisogni dei consumatori, rafforza poi il potere del dettagliante: questi può infatti non solo porsi come interlocutore adeguatamente informato dell’industria, ma anche orientare la domanda verso quei prodotti che presentano per lui i margini più elevati. Come si vede, siamo ormai agli antipodi della situazione tradizionale che vedeva nel distributore un mero intermediario di prodotti “prevenduti” dall’industria. Il rapporto risulta oggi sostanzialmente ribaltato: non è più l’industria a influenzare la distribuzione, ma il contrario. Un cambiamento che produce sul settore industriale almeno due rilevanti conseguenze di natura strutturale, ossia: • una tendenza alla polarizzazione del tessuto produttivo. Lo sviluppo del commercio moderno genera infatti, da una parte, una spinta alla concentrazione di quelle industrie, di solito multinazionali (come è successo nel settore alimentare), che continuano a perseguire politiche di marca e, dall’altra parte, favorisce la crescita di una schiera di produttori di piccole e medie dimensioni. Questi ultimi, peraltro, devono mostrare di possedere i requisiti competitivi richiesti (flessibilità produttiva, rapporto prezzo/qualità, efficienza logistica, ecc.) per poter operare come imprese forni- 184 LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE trici della grande distribuzione, godendo dei relativi vantaggi (misurabili, soprattutto, in termini di aumento dei volumi di produzione); • una maggiore esposizione dell’industria alla concorrenza estera. La grande distribuzione, ormai libera di scegliere i propri fornitori, può infatti approvvigionarsi direttamente dai produttori esteri, che a loro volta sono facilitati nella penetrazione commerciale dei mercati locali da una struttura distributiva meno frammentata. Ciò può anche tradursi in un’opportunità di crescita internazionale per le stesse piccole e medie industrie che riforniscono le imprese commerciali operanti nei mercati esteri. Tra industria e distribuzione si definiscono quindi nuovi rapporti ed equilibri, che appaiono nel loro complesso maggiormente orientati a criteri di efficienza, competitività e trasparenza, con evidente vantaggio per il consumatore finale. Alcuni autori (Pini, 1988) sottolineano peraltro come lo sviluppo di un’autonoma capacità di progettazione dei prodotti da parte della grande distribuzione implichi il rischio di un impoverimento progettuale delle piccole e medie imprese industriali – o almeno di una parte di esse, tra cui quelle operanti nei distretti – che verrebbero declassate al ruolo di semplici subfornitori di beni intermedi. L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLA DISTRIBUZIONE E L’INDEBOLIMENTO DEL PESO RELATIVO DELL’ITALIA ENTRA IN CRISI LA TRADIZIONALE FUNZIONE SOCIALE DEL PICCOLO COMMERCIO SUL TERRITORIO Come si è già osservato in precedenza, l’Italia rappresenta un’area di espansione molto appetibile per le grandi catene distributive estere che operano su scala internazionale, concentrando quote crescente del mercato (alimentare e non). Il confronto competitivo con queste multinazionali della distribuzione – che da tempo sono attive anche nel mercato italiano – costituisce una minaccia alla crescita delle imprese commerciali nazionali. Il pericolo maggiore proviene dalle imprese straniere la cui penetrazione commerciale nel nostro paese – sino ad oggi più intensa nelle regioni del Nord – avviene non tanto attraverso l’apertura di nuovi punti di vendita, quanto mediante l’acquisizione di aziende già operanti nel contesto nazionale e in particolare di quelle che detengono una posizione di leadership nei mercati regionali o locali. Vi è quindi un rischio di indebolimento dell’identità commerciale del nostro paese e delle nostre regioni. A seguito della localizzazione suburbana delle grandi strutture di vendita (centri commerciali, ipermercati e superfici specializzate), i flussi di acquisto tendono a orientarsi sempre più verso le aree commerciali periferiche a scapito di quelle intermedie e centrali, che vanno così incontro a rischi di impoverimento. In questo quadro viene parzialmente meno la funzione sociale svolta dagli esercizi di piccole dimensioni, che attraverso il valore del servizio di prossimità rivolto agli abitanti contribuiscono a conservare la vitalità dei luoghi (dai centri storici alle periferie), nonché a fornire sostegno economico alle zone meno urbanizzate. Con un peso fortemente ridotto dallo sviluppo della grande distribuzione – che costituisce ormai un fenomeno irreversibile –, il piccolo commercio può diventare competitivo valorizzando al massimo le componenti non di prezzo dei servizi di vendita (prossimità, assistenza, assortimento, ecc.) o instaurando rapporti di cooperazione con le grandi imprese commerciali fondati su criteri di autonomia e flessibilità operativa. La riconversione e l’investimento in reti di franchising dei piccoli e medi distributori specializzati può inoltre co- 185 LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE stituire un’altra modalità di risposta alla crisi del dettaglio tradizionale o di minori dimensioni. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE: I RISCHI E LE OPPORTUNITÀ PER L’ECONOMIA SETTENTRIONALE L’AFFERMARSI DI UNA “QUESTIONE COMMERCIALE” UNA “VIA ITALIANA” ALLA RIVOLUZIONE COMMERCIALE? Rilevanti processi di concentrazione, intensificazione della concorrenza, crescente internazionalizzazione: sono queste le tendenze di fondo che definiscono, nelle regioni del Nord, lo scenario competitivo con cui oggi devono misurarsi non solo le imprese del commercio, ma anche quelle dell’industria e, oltre queste, la rete dei servizi, le istituzioni, i cittadini, ossia una pluralità vasta di attori e interessi. È così che nel Nord prende forma una vera e propria “questione commerciale”, intesa non tanto come il permanere di ritardi (che pure, nei confronti dell’Europa, in qualche misura sussistono), quanto come ricerca di equilibri più avanzati e rivolti alla modernizzazione complessiva del sistema economico e territoriale. In altre parole, il commercio conquista una posizione centrale, si spoglia definitivamente della sua atavica subalternità all’industria, non è più la zona borderline dell’economia, rifugio più o meno protetto di famiglie in cerca di un qualche reddito, ma si fa luogo esposto ai meccanismi della concorrenza e dell’innovazione, diventa agente delle nuove morfologie urbane e della qualità della vita di quella “città diffusa” che è ormai il territorio del Nord. Lo sviluppo del commercio moderno appare come un dato sostanzialmente “unificante” le otto regioni settentrionali, potendosi al più segnalare qualche differenza in termini di ritmo: più lento nel Piemonte e nella Liguria, più accelerato in Lombardia e nel Veneto, con una direttrice est o di “bassa padania” comunque maggiormente dinamica e la capitale a Milano. Ma il modello “fordista” della grande distribuzione è uguale dappertutto: e il fatto che abbia avuto maggiore successo proprio nelle regioni meno fordiste sta a significare il carattere altrettanto poco fordista assunto dalla “via italiana” alla rivoluzione commerciale, dove anche gli ipermercati sono piccoli. E se fosse proprio questo – nelle nuovi condizioni poste dall’ulteriore dispersione delle unità produttive e dallo sviluppo dell’impresa a rete – il modello distributivo da valorizzare, in quanto basato su una sorta di “concentrazione temperata”? Anche nel commercio, “moderno” non è più necessariamente sinonimo di “grande”. Più che alle economie di scala delle superfici di vendita occorre quindi guardare alle economie di scala delle funzioni centrali (acquisti, marketing, finanza). È soltanto concentrando tali funzioni, attraverso l’associazionismo o il franchising, che si creano gruppi e reti di distribuzione capaci non solo di rafforzare il ruolo della piccola impresa commerciale, ma anche di competere nei mercati internazionali. In questo modo la grande scala delle decisioni strategiche si rende compatibile con la piccola scala della gestione autonoma e flessibile dei punti di vendita diffusi nel territorio. La creazione di gruppi “autoctoni” sempre più forti, capaci di interagire e stringere accordi con altri gruppi esteri, sembra in qualche modo costituire la strada obbligata per il recupero di quel deficit di internazionalizzazione attiva (o in uscita) che caratterizza ampiamente la distribuzione italiana. Altrimenti il destino del Nord, e con esso dell’Italia, appare in qualche modo segnato: 186 LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE essere “terra di conquista” delle grandi insegne straniere, ossia degli “IDE commerciali” in entrata (si veda la scheda sugli IDE). La penetrazione nei mercati esteri costituisce la sfida più impegnativa per il futuro del commercio italiano. Sfida che implica anche la ricerca e lo sviluppo di nuove e originali formule distributive, caratterizzate cioè da una propria identità commerciale e in grado di promuovere nel mondo i caratteri peculiari delle produzioni italiane, ossia del paese delle “cento città”. VERSO UNA NUOVA PARTNERSHIP TRA RETI DI DISTRIBUZIONE E PMI INDUSTRIALI Vi può essere quindi un contributo specifico delle imprese commerciali moderne nel rendere virtuoso il nesso tra locale e globale. Ciò richiede peraltro che le imprese della distribuzione moderna e le piccole e medie imprese industriali si pensino e agiscano come partner all’interno di relazioni non di tipo conflittuale o a egemonia variabile, ma fondate sulla logica e i meccanismi della cooperazione competitiva. Anche perché si sono notevolmente accorciate, se non annullate, le distanze tra produzione e distribuzione e siamo ormai in presenza di un unico “sistema distributivo-produttivo” integrato, percorso da filiere e reti ora più lunghe ora corte. Date le sue caratteristiche di flessibilità, di radicamento territoriale e di innovazione, la piccola impresa produttiva può in effetti costituire il partner ideale di una distribuzione moderna sempre più interessata a differenziare e ampliare la gamma dei prodotti offerti al consumatore e a rispondere tempestivamente alle variazioni del mercato. In sostanza, grande distribuzione organizzata e piccole e medie imprese industriali si trovano oggi a dover affrontare assieme un’unica sfida, che è quella dell’internazionalizzazione. Soltanto vincendo questa sfida competitiva – amplificata dall’arrivo dell’Euro e dallo sviluppo del “commercio elettronico” che costituiscono ulteriori stimoli al cambiamento – il sistema distributivo del Nord potrà definitivamente europeizzarsi e svolgere una funzione di traino per la modernizzazione commerciale di tutto il paese. 187 LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE Tab. 1 – Punti di vendita alimentare in sede fissa per area geografica (variazioni % nei periodi 1981-1994 e 1996-1997) 1981 -1994 1996-1997 Variaz. Totale periodo Variaz. Media annua Nord Ovest -30,1 -2,3 -11,9 Nord Est -32,6 -2,5 -13,5 Italia -27,1 -2,1 -10,3 Fonte: Elaborazioni Cescom su dati Istat (1991-1994) e Infocamere (1996-1997) Tab. 2 – Densità del commercio alimentare al dettaglio in sede fissa per regione dell’Italia settentrionale (numero di punti vendita per 10.000 abitanti) 1981 1991 1997 Piemonte 58 46 Valle d’Aosta 82 63 Liguria 82 65 Lombardia 51 39 Trentino Alto Adige 56 43 Veneto 55 40 Friuli Venezia Giulia 59 48 Emilia Romagna 62 45 Nord Ovest 57 44 Nord Est 58 43 Italia 62 48 Fonte: Elaborazione Cescom su dati Istat (1981 e 1991) e Infocamere (1997) 30 47 48 26 31 28 31 29 30 29 38 Tab. 3 – Nuovi supermercati e ipermercati (1984, 1994 e 1996) per regione dell’Italia settentrionale (valori assoluti) Supermercati Ipermercati 1984 1994 1996 1984 1994 1996 Piemonte 178 362 341 5 25 30 Valle d’Aosta 7 9 8 1 1 1 Liguria 58 150 156 0 1 6 Lombardia 363 796 806 14 62 73 Trentino Alto Adige 104 174 159 0 1 1 Veneto 215 627 609 2 22 31 Friuli Venezia Giulia 94 206 215 1 4 4 Emilia Romagna 146 395 382 0 17 21 Nord Ovest 606 1.317 1.311 20 89 110 Nord Est 559 1.402 1.365 3 44 57 Italia 1,959 5.600 5.677 30 182 240 Fonte: Cescom Tab. 4 – Hard discount per regione dell’Italia settentrionale (valori assoluti) Variazioni assolute 1993 1994 1995 1996 93-94 95-96 Piemonte 12 101 186 185 89 -1 Valle D’Aosta 4 4 Liguria 1 35 90 92 33 2 Lombardia 26 201 407 421 175 14 Trentino Alto Adige 1 15 24 26 14 2 Veneto 36 159 231 218 123 - 13 Friuli Venezia Giulia 1 36 58 63 35 5 Emilia Romagna 14 131 231 227 117 -4 Nord Ovest 40 337 687 702 297 15 Nord Est 52 341 544 534 289 - 10 Italia 99 1.033 2.210 2.359 934 149 Fonte: Elaborazione Cescom 188 LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE Tab. 5 – Dotazione rete alimentare moderna per regione dell’Italia settentrionale al 1996 (mq per 1.000 abitanti) Supermercati Ipermerc. Hard discount Totale Piemonte 64 Valle d’Aosta 46 Liguria 65 Lombardia 73 Trentino Alto Adige 122 Veneto 110 Friuli Venezia Giulia 132 Emilia Romagna 73 Nord Ovest 70 Nord Est 100 Italia 76 Fonte: Ns. Elaborazioni su dati Cescom 35 67 14 49 5 39 16 33 41 31 23 19 14 20 22 11 17 11 25 21 22 18 118 127 99 144 138 166 159 131 132 153 117 Tab. 6 – Punti di vendita non alimentari in sede fissa per area geografica (variazioni % consistenza 1981-1994 e 1996-1997) 1981 -1994 Variaz. tot. periodo Variaz. media annua 1996-1997 Nord Ovest 4,5 0,3 -2,6 Nord Est 5,5 0,4 -2,4 Italia 7,3 0,6 -1,6 Fonte: Elaborazioni Cescom su dati Istat (1991-1994) e Infocamere (1996-1997) Tab. 7 – Densità del commercio non alimentare in sede fissa per regione dell’Italia settentrionale (numero di punti vendita per 10.000 abitanti) 1981 1991 1997 Piemonte 70 77 71 Valle d’Aosta 100 103 93 Liguria 85 96 84 Lombardia 70 76 65 Trentino Alto Adige 68 77 83 Veneto 73 81 73 Friuli Venezia Giulia 80 84 79 Emilia Romagna 84 93 81 Nord Ovest 72 79 69 Nord Est 78 86 78 Italia 75 83 76 Fonte: Elaborazioni Cescom su dati Istat (1981 e 1991) e Infocamere (1997) Tab. 8 – Grandi magazzini e magazzini popolari per regione dell’Italia settentrionale Valori assoluti Variazione assoluta 1991 1996 1991-1996 Piemonte 66 62 -4 Valle d’Aosta 1 1 Liguria 34 31 -3 Lombardia 126 156 30 Trentino Alto Adige 17 17 Veneto 59 55 -4 Friuli Venezia Giulia 40 25 -15 Emilia Romagna 49 52 3 Nord Ovest 229 250 21 Nord Est 165 149 -16 Italia 849 902 53 Fonte: Cescom, 1998 189 LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE Tab. 9 – Centri commerciali per regione dell’Italia settentrionale Valori assoluti 1991 1996 Piemonte 27 45 Valle d’Aosta 0 1 Liguria 2 7 Lombardia 59 102 Trentino Alto Adige 4 5 Veneto 28 59 Friuli Venezia Giulia 2 6 Emilia Romagna 47 69 Nord Ovest 89 155 Nord Est 81 139 Italia 249 435 Fonte: Cescom, 1998 Variazione assoluta 1991-1996 18 1 5 43 1 31 4 22 66 58 186 BIBLIOGRAFIA Caiati G, (1997), “Le politiche e le strategie mercantili della moderna distribuzione alimentare”, in D. Casati (a cura di), Evoluzione e adattamenti nel sistema agroalimentare, Milano, Franco Angeli. Cescom, (1998),VII Rapporto Cescom, L’Italia del commercio: i sistemi distributivi regionali al 1997, Milano, Università Bocconi. Pellegrini L. (a cura di), (1996), La distribuzione commerciale in Italia, Bologna, Il Mulino. Pini G., (1998), “Verso la liberalizzazione del settore distributivo”, in Commercio, Rivista di Economia e Politica Commerciale, 62, pp. 123-142. Raimondi V., “Gli adattamenti nel settore della distribuzione alimentare”, in D. Casati (a cura di), Op. cit., pp. 459-508. Terracina S. (a cura di), Pianeta Franchising. Rapporto 1996, in Largo Consumo, suppl. al n. 2/1996. Zanderighi L., (1998), “Il sistema distributivo al dettaglio”, in G. Bertinetti, A. Farinet, A. Nova, L. Zanderighi, Sistema Italia. Sviluppo o declino?, Milano, Etas Libri, pp. 99-135. 190 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE Uniontrasporti* L’ITALIA SETTENTRIONALE NEL CONTESTO EUROPEO: UN SISTEMA INFRASTRUTTURALE DEBOLE – GLI SQUILIBRI IN EUROPA E LA PROSPETTIVA DI UNA RETE TRANSEUROPEA DEI TRASPORTI – LE NECESSITÀ STRATEGICHE: 1. LA VALORIZZAZIONE DEI PORTI – LE NECESSITÀ STRATEGICHE: 2. INTERCONNETTERE I NODI INFRASTRUTTURALI – LE NECESSITÀ STRATEGICHE: 3. LE PRIORITÀ PER FERROVIE E SISTEMA VIARIO – I “NODI” DELLE RISORSE FINANZIARIE E DEL PROCESSO DECISIONALE – ALLEGATI: LE CARATTERISTICHE STRUTTURALI DEL SISTEMA DEI TRASPORTI DEL NORD ITALIA E GLI INTERVENTI STRATEGICI PER IL SUO SVILUPPO – BIBLIOGRAFIA L’ITALIA SETTENTRIONALE NEL CONTESTO EUROPEO: UN SISTEMA INFRASTRUTTURALE DEBOLE IL PESO ECONOMICO DELL’ITALIA SETTENTRIONALE LA SATURAZIONE DEL SISTEMA DEI TRASPORTI IL RITARDO INFRASTRUTTURALE E LA CADUTA DEGLI INVESTIMENTI L’Italia settentrionale rappresenta senza dubbio l’area della penisola economicamente più importante: le otto regioni italiane che la compongono raccolgono il 44% dell’intera popolazione nazionale e generano il 54% del valore aggiunto. Da esse originano l’80% degli scambi con l’estero. Lungo le grandi direttrici del Centro-Nord – quella Ovest/Est (Torino-Trieste) e Nord/Sud (Milano-Firenze) – si concentra il “nocciolo duro” delle capacità produttive italiane. A metà degli anni Novanta, nelle sole province gravitanti sull’asse padano si produce per 434.000 miliardi e si esporta per 154.000 miliardi. Lungo la Milano-Firenze il Pil prodotto è di 292.000 miliardi e l’export di 103.000 miliardi. Tuttavia le infrastrutture di trasporto che attraversano queste regioni risultano del tutto inadeguate per rispondere alle esigenze dell’attuale sistema economico: la rete stradale e ferroviaria sfiora i livelli di saturazione creando forti disagi per la mobilità delle merci e dei passeggeri e il sistema portuale risente dell’assenza di adeguati investimenti in infrastrutture e servizi (si vedano i dati riportati negli allegati 1, 4, 5). Il sistema aeroportuale, inoltre, è a sua volta fortemente deficitario, come è evidenziato in particolare dalla situazione critica del “cuore” economico dell’area padana, cioè la Lombardia e Milano. Una ricerca dell’Università Bocconi, commissionata da Unioncamere Lombardia, ha recentemente segnalato gli svantaggi comparativi dell’area rispetto al resto d’Europa. Dallo studio, che prende come riferimento l’area di Londra assegnandole il massimo punteggio (100), emerge che Milano, pur avendo un alto indice demografico (50) ed economico (61), ha un indice di accessibilità pari a 22,1, superata da Roma con 49. L’indice di Milano corrisponde a meno di un quarto rispetto alle valutazioni su Londra e Parigi (88,6), ma è anche nettamente inferiore rispetto all’hub di Amsterdam che è pari a 78,9. Come ha osservato il Censis (“Senza reti niente Europa”, 1997), “in 25 anni l’Italia ha aumentato dell’89% la sua capacità di produrre ricchezza e risorse economiche (in termini di Pil), del 29% gli investimenti fissi lordi, ma ha ridotto del 16,2% gli investimenti infrastrutturali”. L’incidenza degli investimenti infrastrutturali sul Pil vede l’Italia all’ultimo posto in Europa, con il * Uniontrasporti, Milano 191 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE 3,6% rispetto ad una media comunitaria del 5,8%. Secondo lo stesso Censis (1997), “il divario di dotazione infrastrutturale dell’Italia rispetto all’Europa è valutabile fra il 35 e il 50% in meno. Del Mezzogiorno rispetto alla media italiana del 21,5% in meno”. Più recentemente (1999), il Cnel ha elaborato una classifica del livello di dotazione infrastrutturale in alcuni paesi, in cui l’Italia risulta al 14° posto, dopo tutti i principali paesi europei, ad eccezione di Spagna, Portogallo e Grecia (tab. 1) Tab. 1 – Livello di dotazione infrastrutturale in alcuni Paesi (livello max = 100)| Graduatoria Paesi Indicatore infrastrutture 1 Belgio 100.0 2 Olanda 85.2 3 Lussemburgo 84.8 4 Giappone 76.6 5 Danimarca 72.9 6 Austria 70.2 7 Germania 68.1 8 Francia 64.1 9 Regno Unito 63.4 10 Svezia 57.7 11 Canada 57.0 12 Stati Uniti 55.8 13 Norvegia 55.6 14 Italia 54.1 15 Irlanda 44.4 16 Finlandia 42.0 17 Spagna 35.2 18 Portogallo 32.1 19 Grecia 24.3 Fonte: Elaborazione Cnel su dati di Di Palma e Mazziotta (1998) e World Bank (1994) (tratta da Il Sole 24ore) LE DISECONOMIE PER LE IMPRESE Tutto ciò penalizza la competitività del nostro sistema imprenditoriale rispetto a quello del Nord e Centro Europa che può contare su fluide vie di collegamento terrestri e strutture portuali che garantiscono standard di qualità, affidabilità e sicurezza decisamente superiori a quelle italiane. Le imprese italiane devono sopportare gli alti costi economici e sociali derivanti da queste inadeguatezze. Da un’indagine su un campione rappresentativo di imprenditori (Censis, 1997) le carenze maggiori risultano essere relative alla rete viaria (90,6%), agli interporti (89,3%) e alle reti ferroviarie (82,8%). GLI SQUILIBRI IN EUROPA E LA PROSPETTIVA DI UNA RETE TRANSEUROPEA DEI TRASPORTI GLI OBIETTIVI DELLA RETE TRANSEUROPEA DEI TRASPORTI La stessa Unione Europea è consapevole degli squilibri esistenti tra il sistema dei trasporti nord europeo e quello del sud Europa, e in quest’ottica – con la codecisione n. 1692/CE del Parlamento Europeo, della Commissione e del Consiglio del 23 luglio 1996 – ha definito gli orientamenti che devono guidare la costituzione delle reti transeuropee dei trasporti (TEN). 192 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE Gli obiettivi primari sanciti sono infatti: • il riequilibrio territoriale; • la coesione economica e sociale tra le regioni comunitarie; • lo sviluppo dell’area mediterranea. Tuttavia da un bilancio delle opere realizzate con fondi TEN fino al 1997 risulta che gli investimenti si sono concentrati per oltre il 50% tra il Centro Europa e il Nord Europa. Ciò è essenzialmente dovuto a situazioni storicamente in atto prima dell’entrata in vigore del Trattato di Maastricht. Pertanto occorre un deciso intervento da parte dei Governi del sud Europa affinchè, nella stesura del nuovo Libro Bianco per la pianificazione degli investimenti nelle TEN, vengano rispettati gli orientamenti che hanno ispirato ab origine il concetto delle stesse TEN. In un recente incontro tenutosi a Genova, l’Ing. Salvarani, Direttore responsabile del progetto TEN presso la DG VII ha dichiarato che i principi guida che orienteranno la stesura del Libro Bianco saranno: • lo sviluppo di nodi multimodali (porti, interporti, aeroporti); • la produttività della rete; • il migliore sfruttamento di strumenti soft (quali la telematica) che implicano minori investimenti con grandi risultati in termini di efficienza; • lo sviluppo di corridoi multimodali, in particolare del corridoio Est-Ovest quale naturale asse di equilibrio rispetto agli ormai saturi corridoi NordSud; • l’attenzione non rivolta soltanto al lato dell’offerta ma anche al lato della domanda, con l’intento di soddisfare quelle che sono le esigenze dell’utenza (cittadini, realtà socio-economiche, realtà locali) offrendo inoltre servizi sempre più affidabili. Sarà compito quindi degli Stati Membri del Sud Europa far sì che questi divengano concretamente principi guida per la futura pianificazione degli investimenti nelle TEN. UNO SQUILIBRIO TIPICAMENTE ITALIANO: IL TRASPORTO SU STRADA LE “PIATTAFORME LOGISTICHE” CONTINENTALI: QUELLA PER IL SUD-EUROPA È ANCORA DA COSTRUIRE Va ancora segnalato che uno squilibrio specifico e tipico del sistema di trasporti italiano, e in particolare settentrionale, è dato dall’eccessivo peso relativo del trasporto stradale rispetto alle altre modalità di trasporto. L’Italia registra, a questo proposito, i valori massimi con una quota dell’85,7% rispetto al 61,1% della Francia e al 63,4% della Germania. La saturazione e l’ingolfamento che ne conseguono penalizzano fortemente i sistemi di piccole imprese dell’Italia settentrionale, come è particolarmente evidente nella realtà del Nord Est. Alla luce di tutto ciò appare particolarmente rilevante il ruolo che lo sviluppo di un efficiente sistema di trasporto del Nord Italia assumerà non solo in ambito nazionale ma nel più generale contesto europeo. In questo contesto, sembrano rilevabili, almeno in prospettiva, due grandi “piattaforme logistiche” continentali: • la prima, già esistente ed anzi consolidata nonché in ulteriore sviluppo, centrata sul Benelux, “cuore” logistico del Nord Europa; • la seconda, solo potenziale (nascerà se si faranno, e in tempo, adeguate politiche infrastrutturali) centrata sul Sud Europa, nell’area dell’Italia set- 193 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE tentrionale, che potrebbe appunto diventare la “piattaforma logistica” di supporto dei flussi fra il Mediterraneo e il Nord Europa. Dal quadro problematico sopra descritto, emergono alcune necessità strategiche per l’Italia settentrionale (valorizzazione dei porti, interconnessione dei nodi e definizione delle priorità), che verranno sinteticamente prese in considerazione. LE NECESSITÀ STRATEGICHE: 1. LA VALORIZZAZIONE DEI PORTI Ormai da qualche anno pare si stia avviando un’adeguata valorizzazione dei porti italiani (si veda in allegato la sezione dedicata ai porti) sia dal lato tirrenico che dal lato adriatico (ivi compreso il lontano porto di Gioia Tauro). L’economia della Italia del Nord (e gran parte dell’economia del nostro Paese) potrà uscire vincente sul piano europeo e mondiale soltanto se prenderà consapevolezza delle opportunità offerte dai porti che a lei fanno capo. Infatti, la penisola italiana è un “molo” naturale sul Mediterraneo, occupando una posizione strategica che, del resto, è stata storicamente sfruttata. Ne sono conferma i successi ottenuti dal porto di Gioia Tauro in questi ultimi anni (si veda in allegato la sezione dedicata ai porti) e il forte interesse delle compagnie straniere rispetto ai porti situati nel Sud Italia, quale ad esempio Taranto. I traffici sviluppati da queste nuove realtà hanno influenzato positivamente l’andamento di tutti i porti, compresi quelli dell’alto Tirreno e Adriatico. L’ITALIA DEL NORD COME RETROTERRA LOGISTICO VERSO L’EUROPA SETTENTRIONALE UNA NUOVA CONCEZIONE DEI PORTI L’Italia settentrionale è il retroterra di questi porti e deve attrezzarsi come una grande piattaforma logistica per lo smistamento dei traffici con l’Europa, con il Mediterraneo e con i mercati transoceanici oltre Suez e Gibilterra. L’applicazione della legge 84, approvata dopo lungo travaglio, ha fatto imboccare alla portualità italiana la direzione giusta verso una sua rinascita al reale servizio dell’economia italiana e dell’Europa. Le “Autorità portuali”, istituite da questa legge, sono gli strumenti su cui ciascun porto può contare per portare a sintesi operativa, sulla base delle considerazioni prima esposte, il recupero realistico della propria identità e dei limiti del proprio sviluppo. Il processo di razionalizzazione del sistema portuale italiano, cui la l. 84 ha dato inizio, sarà più o meno lungo e produrrà risultati più o meno efficaci per l’economia italiana, in stretta dipendenza, innanzitutto, dalla capacità di ogni singola Autorità portuale di cogliere le tendenze del mercato mondiale e locale della navigazione marittima e di inserire in queste lo strumento “Porto” di cui ciascuna è responsabile, con una visione realistica dei limiti e delle capacità operative di cui lo strumento dispone. È necessario rendersi conto della ragione del successo dei porti del Mare del Nord, che in gran parte è il frutto del ragionato e intenso impegno di quei porti – e dei rispettivi governi – per un’adeguata organizzazione del loro retroterra centro-europeo. Esperienze come il creando Distripark di Genova rappresentano la risposta di alcuni imprenditori all’esigenza di concepire il porto non solo come punto di 194 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE origine/destinazione delle merci ma come una piattaforma logistica per una gestione integrata dei flussi di traffico. Le potenzialità di sviluppo ulteriore della portualità italiana, a partire proprio dalla recente “scoperta” di Gioia Tauro (va rilevato come ancora nel 1996 molti operatori logistici asiatici ignorassero il Mediterraneo e trasportassero quindi i loro container per altri 1800 km fino in Olanda), pongono oggi al nostro Paese la necessità di riconsiderare con maggior attenzione il sistema di trasporto – in particolare delle merci – non solo per razionalizzare e modernizzare l’esistente ma anche perché, in realtà, questo può essere fonte di sviluppo economico e sociale. In questo contesto si rende sempre più necessario intervenire nella riorganizzazione della rete infrastrutturale e telematica che consenta ai diversi nodi intermodali – in particolare porti e interporti – di essere tra loro collegati. LA NECESSITÀ DI INVESTIRE NELLE INFRASTRUTTURE DI COLLEGAMENTO Investire nelle infrastrutture di collegamento tra porti ed interporti diviene sempre più una priorità, se si vuole aumentare il grado di competitività del nostro paese e in generale dei paesi mediterranei, rispetto ai paesi del Nord Europa. Le merci devono poter viaggiare con mezzi veloci, affidabili ed ecologici. Questi sono gli obiettivi imposti dalla politica comunitaria in materia di trasporto. I terminals inland (situati negli interporti) devono essere facilmente collegati a quelli portuali cosicchè si possa creare una vera e propria rete. LE NECESSITÀ STRATEGICHE: 2. INTERCONNETTERE I NODI INFRASTRUTTURALI Dopo i porti, è indispensabile organizzare e collegare gli interporti, gli aeroporti e i centri di scambio, che già esistono e sono in via di sviluppo nel retroterra padano (si veda in allegato la sezione dedicata agli interporti e agli aeroporti). L’organizzazione di questo retroterra esige collegamenti degli interporti fra essi, con i porti e gli aeroporti. LE RETI INFORMATIVE E TELEMATICHE Altro presupposto fondamentale perché si realizzi la rete è la possibilità per i vari soggetti di poter colloquiare tra loro, usufruendo di sistemi telematici adeguatamente compatibili. L’EDI (Electronic Data Interchange) costituisce uno strumento di supporto di estrema utilità non soltanto per gli operatori portuali ma per tutti i soggetti che intervengono nella catena intermodale, producendo un vantaggio in termini di snellimento delle procedure connesse al trasporto, e quindi di tempi, nonchè di acquisizione di conoscenze. Anche in questo caso bisogna sottolineare che, mentre per i porti del Mediterraneo la gestione delle informazioni rappresenta una innovazione ancora in fase di sviluppo o di sperimentazione, per gli scali del Mare del Nord l’EDI è uno strumento di supporto dell’operatività portuale a regime da tempo, naturalmente soggetto a continui miglioramenti ed aggiornamenti. Gli investimenti in questi settori si rivelano quindi particolarmente strategici per il rilancio del nostro sistema trasportistico. 195 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE LE NECESSITÀ STRATEGICHE: 3. LE PRIORITÀ PER FERROVIE E SISTEMA VIARIO Vanno definite, infine, le priorità da realizzare per eliminare le criticità strategiche nel settore infrastrutturale ferroviario e viario e nel settore organizzativo. Si citano, qui di seguito, i soli titoli di queste priorità: • realizzazione della trasversale ferroviaria ad alta capacità Lione – Torino – Milano – Lubiana; • ammodernamento della rete ferroviaria “storica” che, in connessione con la nuova trasversale ferroviaria Ovest – Est, dovrà potenziare il trasporto merci per ferrovia; • realizzazione della galleria ferroviaria di valico del Brennero; • realizzazione del terzo valico tra Milano e Genova; • realizzazione della galleria di valico della Linea Pontremolese; • progettazione e realizzazione del collegamento tra Milano e Lugano, e tra Genova / Milano con Domodossola per immettersi sul nuovo sistema svizzero dall’Alptransit, che la Svizzera ha definitivamente approvato; • realizzazione del nodo logistico dell’intermodalità della Lombardia e di Milano, cui la Regione Lombardia sta attendendo e che è di importanza strategica cruciale per tutti i traffici del Nord Italia. Ciò comporta la creazione ed il funzionamento di una doppia corona di interporti e centri logistici ipotizzati attorno a Milano; • nel campo viario, realizzazione della nuova autostrada Milano-Brescia e della Pedemontana, di collegamento tra Piemonte, Lombardia e Veneto; • non minore urgenza esiste nel campo telematico, a cui si dovrà mettere mano in un settore dove il sistema Italia risulta, rispetto allo sforzo di ricerca e di applicazione in atto in Europa, particolarmente arretrato. Evidentemente, il problema non può essere risolto per la sola Italia del Nord, ma riguarda tutto il nostro Paese. Tuttavia è qui, nel Nord, che si sentono fin d’ora i maggiori danni per l’impresa e per l’economia derivanti dalla carenza di una rete telematica che connetta porti, interporti, aeroporti, ferrovie e reti viarie e sia a disposizione dell’utenza con le reti particolari e aziendali già esistenti (si veda in allegato il dettaglio degli interventi strategici per lo sviluppo della rete dei trasporti nel Nord Italia). I “NODI” DELLE RISORSE FINANZIARIE E DEL PROCESSO DECISIONALE Le opere di ammodernamento infrastrutturale (sia sul piano tecnologico, sia su quello organizzativo) e le nuove iniziative necessarie resteranno un “libro dei sogni” se non ci si renderà conto una volta per tutte che, per realizzare quelle iniziative, occorre saperle finanziare. Con il pretesto della scarsità crescente dalle risorse pubbliche si rischia di creare un alibi al “non fare”. COME PORTARE I CAPITALI PRIVATI A INVESTIRE NELLE L’Unione Europea indica invece decisamente come strada per uscire da questa situazione il partenariato pubblico privato, per portare veramente i capitali privati a investire nelle infrastrutture e nella loro gestione. Per percorrere questa strada ci sono molti ostacoli da superare. Anzitutto un ostacolo cultu- INFRASTRUTTURE? 196 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE rale: da sempre siamo abituati a finanziare le infrastrutture pubbliche con il quasi esclusivo impiego delle risorse pubbliche. Cambiare atteggiamento significa obbligarci a una vera e propria rivoluzione legislativa e normativa. D’altronde, non c’è alternativa e la Legge Merloni– ter, recentemente approvata dal Parlamento apre solo un timido spiraglio per avvicinare l’intervento dei capitali privati nelle opere pubbliche. Tuttavia, il movimento in questa direzione deve accelerare: e devono preoccuparsi di accelerarlo soprattutto i soggetti territoriali, come quelli della Valle Padana, che più soffrono dell’arretratezza delle infrastrutture di cui dispongono. È questo un compito non semplice. Affrontare tale compito potrebbe produrre risultati positivi ove le istituzioni (Regioni, Camere di Commercio, Associazioni produttive e finanziarie private), riconoscendo le priorità del problema, sapessero “far massa” nei confronti degli organi decisori nazionali, studiando e proponendo soluzioni adeguate. In un sistema democratico e pluralistico, non si può negare che il metodo per giungere a decisioni circa le opere prioritarie da realizzare e circa il modo di realizzarle costringa all’impegno, da parte di tutti, di tanta buona volontà e di molta, moltissima fatica. IL METODO DELLA CONCERTAZIONE Tuttavia, non esiste allo stato attuale un’alternativa valida ad un approccio basato sulla concertazione. Forse troppo ottimisticamente, si può ritenere che già oggi, e ancor di più nel breve e medio termine, sia così evidente il rischio di un freno irreversibile allo sviluppo derivante dalla situazione del sistema dei trasporti dell’Italia del Nord, che i fattori istituzionali e produttivi coinvolti non dovrebbero avere eccessive difficoltà a constatare i problemi prioritari da affrontare in comune e a “far massa “ per chiedere ed ottenere delle soluzioni che paiono sempre più obbligate. In prospettiva dunque, la via della concertazione sembrerebbe poter produrre orientamenti e proposte operative comuni con minori difficoltà che in passato. Va ricordato che l’arretratezza di cui si parla sul piano infrastrutturale tecnologico e organizzativo del sistema dei trasporti del Nord Italia non è un “modo di dire” generico, ma una realtà che si aggrava anno per anno, essenzialmente nei confronti della realtà dell’Unione Europea, nella quale le imprese e tutto il sistema Italia devono competere. Ogni “buco” che permane o si allarga sul nostro sistema è un ulteriore ostacolo al cammino delle nostre imprese verso i mercati su cui esse devono competere. In tal senso si può affermare che quanto più permane e si aggrava l’arretratezza infrastrutturale tecnologica e organizzativa del sistema dei trasporti nazionali e, in modo diretto e determinante, del sistema dei trasporti dell’Italia settentrionale, tanto più noi ci allontaniamo dall’Europa. Le regioni settentrionali, potrebbero dunque giungere non difficilmente, attraverso il metodo della concertazione – sia interregionale sia con le istituzioni e le associazioni produttive che in esse operano – al riconoscimento delle priorità da affermare ed a linee di politica comune da sostenere in sede nazionale ed europea per attuare le priorità qui definite. In Italia, un primo esempio di avvio di concertazione interregionale sul problema dei trasporti è rappresentato dall’intesa fra le Regioni di Toscana, Marche, Umbria, Abruzzo e Lazio, che sta lavorando costruttivamente. 197 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE LA NECESSITÀ DI UN TAVOLO DI CONCERTAZIONE INTERREGIONALE Un tavolo di concertazione interregionale dell’Italia del Nord, a somiglianza di quanto si sta facendo con successo nelle regioni del Centro Italia, sarebbe utile e necessario in fase di ridefinizione degli obiettivi e delle regole del nostro sistema dei trasporti nazionali mediante la revisione in corso del Piano Generale dei Trasporti. Un’intesa delle regioni dell’Italia settentrionale basata su una piattaforma minima – da tutti condivisa – di programmi e di priorità da attuarsi nel medio e lungo termine per scongiurare il rischio di un aggravamento dello stato attuale di arretratezza infrastrutturale tecnologica e organizzativa del sistema dei trasporti del Nord, potrebbe contribuire a imprimere alla revisione del Piano Generale dei Trasporti gli indirizzi giusti di cui il sistema-Paese ha urgente necessità. I contenuti di un’eventuale intesa – siano essi tutti quelli accennati oppure solo una parte di essi – non potrebbero essere ignorati dagli estensori del nuovo Piano Generale dei Trasporti, poiché essi rappresentano le esigenze minime indifferibili di un’area territoriale, l’Italia settentrionale, la cui economia costituisce l’asse portante dell’intera economia nazionale. A fronte di una “questione meridionale”, si deve evitare che, tardando ad intervenire organicamente, si consolidi – con conseguenze ben gravi per il nostro Paese – una “questione settentrionale” (si veda il saggio introduttivo). La proposta qui suggerita, ci pare, al momento, l’unico apporto costruttivo che possa essere fornito per cominciare a fare uscire il sistema dei trasporti dell’Italia settentrionale dall’attuale stato di arretratezza in cui esso versa. L’accettazione e l’attuazione di tale proposta non può essere condizionata dalle differenze partitiche esistenti fra i governi delle varie regioni: essa è basata infatti su esigenze “tecniche” minime su cui tutti, quale sia il colore dei propri orientamenti e la forza dei propri interessi localistici, dovrebbero riconoscere un superiore interesse comune. L’accettazione e l’attuazione della proposta dipenderà, quindi, dal grado di responsabilità verso il bene comune di cui sapranno dare prova le classi dirigenti pubbliche e private sia dei territori dell’Italia settentrionale, sia, poi, di tutto il Paese. 198 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE ALLEGATI: LE CARATTERISTICHE STRUTTURALI DEL SISTEMA DEI TRASPORTI DEL NORD ITALIA E GLI INTERVENTI STRATEGICI PER IL SUO SVILUPPO In queste sezioni prenderemo in considerazione i principali nodi di interconnessione fra le diverse modalità di trasporto. In particolare verranno considerati i più importanti porti, interporti ed aeroporti del Nord Italia descrivendone le caratteristiche infrastrutturali, i dati di flusso, il loro inserimento nelle grandi direttrici di traffico. Successivamente verrà tracciata una panoramica generale sullo stato della rete ferroviaria e stradale. Verrà fornito infine un quadro sintetico degli interventi infrastrutturali considerati strategici per lo sviluppo della rete dei trasporti del Nord Italia, lungo le direttrici Ovest-Est e Nord-Sud. ELENCO ALLEGATI: 1. I PORTI DEL NORD ITALIA 2. GLI INTERPORTI DEL NORD ITALIA 3. IL SISTEMA AEROPORTUALE DEL NORD ITALIA 4. LA RETE STRADALE DEL NORD ITALIA 5. LA RETE FERROVIARIA DEL NORD ITALIA 6. GLI INTERVENTI STRATEGICI PER LO SVILUPPO DELLA RETE DEI TRASPORTI NEL NORD ITALIA 199 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE ALLEGATO 1 – I PORTI DEL NORD ITALIA I trasporti marittimi esercitano da sempre, per posizione geografica e tradizioni storiche, un’influenza rilevante nell’economia italiana. Bisogna inoltre rilevare che in questi ultimi anni abbiamo assistito ad un incremento rilevante dei traffici (in particolare containers) dovuti essenzialmente alla riforma portuale verificatasi con la legge 84 del 28.01.94 che ha istituito le Autorità Portuali e al “fenomeno Gioia Tauro”, che ha ridato nuovo significato al ruolo strategico della nostra penisola nell’intero panorama europeo e mediterraneo. Ne è dimostrazione il fatto che dal 1990 al 1997 la quota del traffico container del Mediterraneo è passato da 4.370.000 TEU a 9.864.000 TEU, conquistando circa l’8% dei traffici dei porti del Mare del Nord. Per le finalità che questo lavoro si prefigge prenderemo in considerazione i seguenti porti: Savona, Genova, La Spezia, Livorno, Gioia Tauro, Ravenna, Venezia, Monfalcone, Trieste. Considerata la sua particolarità, il porto di Gioia Tauro verrà analizzato separatamente. LO STATO DELLE INFRASTRUTTURE Si riportano di seguito i dati relativi alle infrastrutture dei porti considerati tratte dal Conto Nazionale dei Trasporti 1997. Per ogni porto viene indicato il numero di accosti, la lunghezza, la superficie dei piazzali. Gli accosti vengono distinti a seconda che siano utilizzati per movimentare merci secche o per movimentare prodotti petroliferi. Tab. 2 – I porti del Nord per tipo di operazioni effettuate (1995) TIPO DI OPERAZIONI EFFETTUATE Merci secche e passeggeri Prodotti petroliferi Accosti Lungh. Tot. Superficie Accosti Lungh. Tot. PORTi N. Accosti (m) Piazzali mq N. Accosti (m) Savona-Vado 18 4.326 407.500 4 2.004 Genova 38 15.680 490.760 (a) 12+2 3.481 La Spezia 24 3.933 305.120 3 971 Livorno 25 7.830 561.160 6 236 Ravenna 34 11.306 1.217.520 5 1.251 Venezia 88 21.739 581.445 57 3.487 Monfalcone 3 1.698 220.000 Trieste 41 13.405 424.000 8 2.922 Fonte: Conto Nazionale Trasporti, 1997 Tab. 3 – I porti del Nord Italia. Lunghezza delle banchine in ml. per fondali 1993) fino a da da da 10 a da 12 a da 14 a oltre 18 Totale PORTi 5m 5 a 8 m 8 a 10 m 12m 14 m 18 m m ml. Savona-Vado 1.344 2.814 1.830 372 Boe 6.360 Genova 505 1.947 6.421 7.085 2.272 931 Piattaf. 19.161 La Spezia 472 1.329 771 751 810 4.133 Livorno 30 875 4.497 1.185 1.479 8.066 Ravenna 3.597 6.279 270 - 10.146 Venezia 2.272 3.154 12.991 5.716 453 640 - 25.226 Trieste 1.563 6.041 2.947 431 570 3.460 - 15.012 Totale 4.842 18.287 36.720 17.268 5.584 5.403 - 88.104 Fonte: Conto Nazionale Trasporti, 1997 200 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE ANDAMENTO DEL TRAFFICO MERCI DAL A conferma della ripresa dei porti italiani in atto, riportiamo di seguito i dati relativi all’andamento del totale imbarchi/sbarchi e quello al netto dalle rinfuse liquide per gli anni 1995-1996-1997. 1995 AL 1997 Tab. 4 – Andamento totale imbarchi/sbarchi (valori in ton x 1.000.000) 1995 1996 1997 Tot. Escluse Tot. Escluse Tot. Escluse PORTI Imb/sbar rinf. liq. Imb/sbar rinf. liq. Imb/sbar rinf. liq. Savona-Vado 13,300 5,582 11,989 4,675 10,619 4,434 Genova 46,511 20,190 46,736 21,979 42,699 27,036 La Spezia 12,700 11,990 11,281 10,324 12,026 9,703 Livorno 20,462 12,453 21,584 13,080 21,360 12,437 Ravenna 20,130 11,239 18,740 10,448 19,347 11,552 Venezia 24,850 14,460 24,054 13,596 24,117 13,511 Monfalcone 2,961 2,961 2,591 2,591 2,635 2,635 Trieste 37,732 8,894 41,460 11,073 46,411 9,687 Fonte: Conto Nazionale Trasporti, 1997 Come si può notare dalla tabella qui sopra riportata, se dal totale dei traffici movimentati si escludono le rinfuse liquide (in particolare prodotti derivanti dal petrolio e gas naturali liquefatti), merci meno ricche e meno interessanti, si può constatare una tendenziale crescita. Più in particolare Livorno, Venezia, Monfalcone e La Spezia mostrano un andamento pressochè costante. Savona-Vado ha avuto una flessione dovuta essenzialmente alle tariffe portuali e a motivi legati al mercato. La Spezia presenta un calo nel traffico delle merci containerizzate connesso all’apertura di Gioia Tauro, terminal di proprietà della medesima società che gestisce il terminal container del porto ligure. Il porto di Genova presenta un forte decremento sul totale degli imbarchi/sbarchi (circa 4.000.000 di ton), essenzialmente imputabile al trasferimento di un oleodotto collegato con la Germania, dal capoluogo ligure a Trieste. Come si può notare, infatti, se si escludono i traffici oil il porto di Genova mostra un incremento notevole del volume movimentato (circa 7.000.000 ton). Infine i lavori di dragaggio per aumentare il pescaggio del porto di Ravenna, sono all’origine della flessione registrata in questi due ultimi anni. Il considerevole aumento delle rinfuse liquide movimentate dal porto friulano è strettamente connesso a quanto sopra detto per il porto di Genova. IL PORTO DI GIOIA TAURO: UN NODO SEMPRE PIÙ CENTRALE Il porto di Gioia Tauro, situato pochi chilometri a nord di Reggio Calabria, è diventato nel giro di tre anni il più importante terminal containers italiano. Gestito dalla Medcenter Container Terminal, il porto ha ottime caratteristiche strutturali che gli consentono di accogliere le grandi “navi giramondo”: NELL’ECONOMIA MEDITERRANEA Imboccatura Bacino di rotazione - Sud Bacino di rotazione - Nord Banchina lo-lo (Est) Banchina ro-ro (Nord) Canale Larghezza Diametro Diametro Lunghezza Lunghezza Larghezza min 201 250 m 750 m 350 m 3011 m 144 m 200 m fondale fondale fondale fondale fondale navigabile 20 m 15 m 12,5 m 15/12,5 m 12,5 m 170 m IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE Anche i mezzi di movimentazione presenti nel porto hanno permesso di fronteggiare adeguatamente la forte crescita della domanda: Gru a portale Gru mobili Straddle carriers Reach stackers Fork lift Trattori Semirimorchi n. n. n. n. n. n. n. 14 3 45 6 1 11 60 Riportiamo di seguito un grafico che mostra l’andamento del traffico containers nel porto di Gioia Tauro, comparato a quello degli altri porti presi in considerazione nei paragrafi precedenti. Fig. 1 – L’andamento del traffico containers (Teus x 1000) 1600 1400 Gioia Tauro 1200 Genova 1000 800 600 La Spezia Livorno 400 Venezia, Trieste Ravenna 200 0 1995 1996 1997 Trieste 150 177 204 Monfalcone 0,2 0,4 0,4 Venezia 128 169 212 Ravenna 193 191 188 Savona 47 20 13 Genova 615 826 1179 La Spezia 965 871 615 Livorno 424 416 520 Gioia Tauro 17 572 1448 Savona, Monfalcone Risulta evidente l’elevato trend di crescita del porto calabrese rispetto agli altri porti. Tuttavia è importante sottolineare come questo andamento abbia influenzato positivamente anche il traffico containers degli altri porti, verso cui infatti partono da Gioia Tauro servizi feeder (in particolare verso Genova e Trieste). L’importanza di Gioia Tauro è stata riconosciuta dalla Commissione Europea stessa, che ha deciso di promuovere l’integrazione del porto nelle reti transeuropee, considerata la rispondenza di questo “nodo di interscambio merci” a quanto stabilito dalla Decisione 1697/96. Nel piano direttore comunitario si fa riferimento alla rete del combinato ferroviario merci, i cui servizi logistici si dovranno attestare nel porto di Gioia Tauro, sia sul terminal transhipment, mediante treni completi per il trasporto di containers in banchina, sia nell’interporto da realizzarsi in prossimità del 202 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE sedime portuale dell’area di sviluppo industriale, che interesserà il traffico delle unità di carico (semirimorchi e casse mobili) provenienti per i servizi di cabotaggio Ro-Ro, dalle banchine specializzate del porto. Nel porto di Gioia Tauro si sta quindi realizzando una duplice integrazione modale con le reti transeuropee TEN costituita: • dalla rete autostradale, che è collegata con il porto e diventerà la via per il trasporto dell’unità di carico su mezzo stradale sul territorio nazionale e comunitario; • dalla rete ferroviaria, che è stata potenziata in funzione dello sviluppo di servizi al trasporto combinato sulle banchine portuali e nell’interporto. In tal senso è stata attivata una “freeway”, che interessa Italia, Germania, Austria e Olanda. Il porto di Gioia Tauro ha quindi un importante ruolo per realizzare l’interconnessione terrestre e marittima con i paesi dell’Unione Europea e con quelli extracomunitari e questo fatto ha diretta e indiretta incidenza sul funzionamento del sistema dei trasporti del Nord Italia. ALLEGATO 2 – GLI INTERPORTI DEL NORD ITALIA La legge n. 240 del 4 agosto 1990 definisce con il termine interporto “un complesso organico di strutture di servizi integrati e finalizzati allo scambio di merci tra diverse modalità di trasporto, comunque comprendenti uno scalo ferroviario idoneo a formare o ricevere treni e in collegamento con porti, aeroporti e viabilità di grande comunicazione”. L’interporto è pertanto in grado non solo di razionalizzare i flussi delle merci su ferrovia e su strada (e, ove necessario, per via marittima, idroviaria ed aerea), ma anche di fornire un sistema di servizi agli scambi e agli operatori, portando ordine sul territorio ed aumentando l’efficienza di tutto il sistema economico. Gli interporti previsti dal Piano Generale dei Trasporti sono 10 di cui 3 in fase di realizzazione e 7 operativi. In questi ultimi sono presenti n. 406 aziende su una superficie coperta operativa al momento di circa un milione di mq, con un numero complessivo di 56 binari e con 31 gru operative. Il totale delle merci movimentate nei terminal operativi nel 1996 ha raggiunto 9,5 milioni di tonnellate. Il totale movimentato corrisponde al 15 % delle merci trasportate dalle ferrovie italiane ed è di oltre il 40% circa dei traffici intermodali italiani. Per le finalità del presente rapporto prenderemo in considerazione i seguenti interporti: Torino Orbassano, Novara, Rivalta Scrivia, Bologna, Parma, Verona Quadrante Europa, Padova (si veda la tab. 5i). Tab. 5 – I principali dati infrastrutturali degli interporti presi in esame Torino Novara Rivalta Parma Bolog. Verona Padova Tipologia dati Orb. Scrivia Mq tot magazzini copertii 350.000 4.100 291.000 190.000 250.000 205.000 100.000 Mq tot dedicati ad attività intermodale 140.000 60.000 300.000 190.000 560.000 350.000 350.000 N. binari tdel terminal 2 3 5 2 15 12 14 Lunghezza dei binari 600 330 400 450 650 650 450 Distanza (Km) dalla linea F.S. 0,60 2,50 1,50 5,00 5,00 0,50 4,00 N. gru operanti nel terminal 3 3 1 2 2 12 8 Fonte Assointerporti 203 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE I PROGRAMMI E LE PROPOSTE DELLA COMMISSIONI EUROPEA PER LO SVILUPPO DELL’INTERMODALITÀ Lo scenario europeo del trasporto intermodale si presenta caratterizzato da una grande varietà di situazioni e da una forte complessità. Si può anzitutto rilevare come ormai da molti anni le autorità comunitarie abbiano individuato nell’intermodalità una delle chiavi di volta di una politica per la mobilità sostenibile ed abbiano incentivato una rilevante attività di ricerca in materia. Tuttavia i risultati di un tale impegno non sono stati certo tali da poter essere definiti incoraggianti: L’intermodalità continua a rappresentare una minima quota (circa il 4%) rispetto alle altre modalità di trasporto. Partendo da questa consapevolezza la Commissione europea sta in questa fase ricalibrando l’intera strategia per lo sviluppo dell’intermodalità. I capisaldi di questa riflessione strategica sono: • conseguenze della rivoluzione logistica. Una logistica efficace è ormai un fattore essenziale di competitività. Infatti, accanto alla ricerca di una ottimizzazione delle prestazioni interne dei diversi modi di trasporto e della catena delle operazioni intermodali, comincia a farsi strada la consapevolezza che è altresì necessario inserire l’intermodalità nel cuore del ciclo logistico; • individuazione ed eliminazione dei “costi di frizione”. Il trasporto intermodale, in ragione della complessità delle operazioni che richiede, genera elevati costi di frizione dovuti alla carenza di interconnessioni ai seguenti tre livelli: a) infrastrutture e materiali di trasporto; b) operazioni e utilizzazione dell’infrastrutture, in particolare dei terminal; c) servizi e regolamentazioni orientati sui singoli modi. L’abbattimento di questi costi richiede sia investimenti, sia interventi sia regolativi; • completamento ed interoperabilità delle reti. È questo l’elemento essenziale per un adeguato sviluppo dell’intermodalità ed è strettamente legato al punto precedente. Comunque l’obiettivo è perseguito come uno degli obiettivi principali della creazione della Rete Transeuropea dei Trasporti (in base alla Co-decisione n. 1692/CE del Parlamento europeo, della Commissione U.E. e del Consiglio dei Ministri e successive modifiche); • rivedere l’imputazione dei costi per assicurare una corretta competizione ed integrazione tra i modi di trasporto. I prezzi e le tariffe sono stabiliti in maniera diversa secondo i differenti modi di trasporto e si constatano importanti variazioni nella copertura dei costi di infrastruttura e dei costi esterni. Da un lato si verifica quindi una distorsione delle scelte modali dovuta alle differenze fra i tassi di copertura dei costi e alla diversità delle basi utilizzate per l’imputazione dei costi; dall’altro la coesistenza di differenti sistemi di tariffazione implica che i carichi applicabili ai diversi elementi dalla catena (strada e ferrovia, per esempio) si fondano su principi differenti e a volte contraddittori; • utilizzo esteso delle applicazioni telematiche. La Commissione si sta orientando alla definizione di un’architettura comune di sistemi intermodali di informazioni elettroniche che possa garantire le seguenti funzioni: la fornitura di informazioni (orari, operatori e terminali, prezzi medi, tempi medi di transito ecc.); un sistema di prenotazione di spazi e di servizi; tracking e tracing dei carichi. Un particolare impegno è promesso per una concertazione sulle procedure doganali attraverso la messa in opera del programma “Dogana 2000”. Comunque, in questo settore, i responsabili italiani sono “al traino” degli altri Paesi europei, quanto allo sviluppo della ricerca e ad applicazioni, con notevoli danni per gli sviluppi delle applicazioni telematiche ai trasporti che ap- 204 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE paiono ingenti in tutto il Paese, ma soprattutto nel sistema dei trasporti dell’Italia settentrionale. ANDAMENTO DEI TRAFFICI E CRITICITÀ PER LO SVILUPPO DELL’INTERMODALITÀ NELL’INTERPORTO Si riportano, nella tabella di seguito riportata, i dati relativi all’andamento dei traffici nei terminal degli interporti considerati. I dati sono relativi al periodo 1994-1996 suddivisi in migliaia di tonnellate, migliaia di Teu, e migliaia di casse mobili/semirimorchi. Si rileva una tendenziale crescita del traffico movimentato negli interporti considerati: come si può notare dal grafico che segue l’incremento maggiore è stato registrato dall’interporto di Verona, mentre l’interporto di Novara ha registrato una lieve flessione. Tab. 6 – L’andamento dei traffici negli interporti considerati 1996 1997 Interporto ton teu cm/sr ton teu cm/sr (000) (000) (000) (000) (000) (000) Torino 637 35 841 3 38 Novara* 1.560 1.490 83 56 Rivalta S. 1.282 95 33 1.370 100 36 Bologna 1.556 71 57 1.459 58 54 Parma 564 6 24 657 6 30 Verona 3.839 11 178 4.069 6 192 Padova 1.620 142 29 2.000 201 35 Ton (000) 206 406 351 450 150 1.100 505 31/03/98 teu cm/sr (000) (000) 1 9 22 15 26 10 17 14 1 7 2 50 51 10 * Si fa presente che l’interporto di Novara è operativo dal 17 ottobre 1995. Fonte Assointerporti Fig. 2 – L’andamento dei traffici negli interporti considerati (tonn x 1000) 4500 4000 3500 3000 2500 2000 1500 1000 500 0 Torino Novara Rivalta S. Bologna Parma Verona Padova 1996 1997 Fonte Assointerporti 205 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE ALLEGATO 3 – IL SISTEMA AEROPORTUALE DEL NORD ITALIA Il trasporto aereo italiano dopo anni di immobilismo è attivamente interessato da sostanziali modifiche normative e organizzative, sollecitato dalla spinta del processo di liberalizzazione comunitario. In particolare si possono richiamare i seguenti cambiamenti: • gli aeroporti non dovranno costituire più strutture da finanziare a carico della collettività, ma dovranno divenire organismi efficienti in grado di produrre utile; • le gestioni aeroportuali dovranno essere presto riordinate e affidate a società di capitale; • alcune posizioni di monopolio dovranno essere temperate; • gli organismi pubblici preposti al settore hanno intrapreso una sostanziale riorganizzazione per rispondere meglio alle nuove esigenze; • è imminente la creazione di un ulteriore organismo che investigherà sugli incidenti e inconvenienti aeronautici e che avrà il compito di prevenzione degli stessi. IL TRAFFICO NEI PRINCIPALI AEROPORTI DEL NORD ITALIA In Italia nel 1996 il traffico aereo civile (commerciale e di aviazione generale) si è svolto in 97 aeroporti. Si allegano di seguito i dati relativi ai movimenti aerei nazionali ed internazionali nei principali aeroporti del Nord Itala. Tab. 7 – Traffico commerciale negli scali del Nord Italia (1996) (in ordine di traffico) Passeggeri (arrivi Passeggeri in Merci (tonn. imbar+ partenze) transito cate + sbarcate) MILANO Linate 12.638.429 53.747 66.048 MILANO Malpensa 3.363.961 430.483 97.834 VENEZIA Tessera 2.636.280 6.428 8.986 BOLOGNA Borgo Panigale 2.155.124 54.511 7.853 TORINO Caselle 1.994.461 5.640 44.618 VERONA Villafranca 1.278.946 18.450 1.627 GENOVA Sestri 834.275 11.045 2.709 TRIESTE Ronchi dei Leg. 504.603 820 686 BERGAMO Orio al Serio 367.764 0 45.867 RIMINI Miramare 260.880 4.981 1.018 TREVISO Sant’Angelo 113.716 3.589 1.882 PARMA 25.568 132 1.192 CUNEO Levaldigi 4.779 0 0 VICENZA 4.066 0 0 AOSTA 1.036 0 0 ALBENGA 727 0 0 PADOVA 146 0 0 BIELLA Cerrione 26 0 0 TOTALE NORD 26.184.787 589.826 280.320 TOTALE CENTRO-SUD 38.676.306 756.155 289.936 nel quale, ROMA Fiumicino 22.707.864 328.039 259.288 TOTALE ITALIA 64.861.093 1.345.981 579.256 L’AEROPORTO DI MALPENSA 2000: HUB DEL NORD ITALIA L’aeroporto di Malpensa 2000 è stato inserito tra i 14 progetti prioritari della Rete Transeuropea dei Trasporti dell’Unione Europea. L’aeroporto viene considerato un hub, cioè perno centrale nel sistema dei collegamenti diretti, che permette di raggiungere destinazioni diverse non collegate direttamente fra loro. Malpensa 2000 giocherà quindi un ruolo strategico 206 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE per lo sviluppo socio-economico della Lombardia e di tutto il Nord Italia, potendo competere con gli altri aeroporti europei e recuperando quelle quote di mercato che fino ad ora sono gravitate quasi esclusivamente negli hub del nord Europa. Il 25 ottobre 1998, nonostante i problemi sollevati dalla Commissione Europea sulla sua accessibilità, è stato inaugurato. Tuttavia per un adeguato sviluppo dell’hub e affinchè realmente possa competere con gli altri concorrenti europei, è necessario pervenire i tempi brevi alla realizzazione dei collegamenti prioritari stradali e ferroviari: • rete stradale: potenziamento della A8, prolungamento della SS336, collegamento della Malpensa – A4 (Boffalora) – SS11; • rete ferroviaria: realizzazione del prolungamento della linea delle FNM da Busto Arsizio fino all’aeroporto, Malpensa Express, potenziamento dell’atrio della stazione Cadorna. Sono da considerarsi invece strategici i seguenti interventi: • rete stradale: prolungamento della Malpensa – A4 (Boffalora) – SS11 sino alla tangenziale Ovest, la variante alla SS 33 del Sempione da Milano a Gallarate, la variante alla SS 341 a Semarate e suo collegamento sino alla autostrada A8, la diramazione della bretella Malpensa 2000 – autostrada A8 a Legnano con interconnessione alla Gronda intermedia, il sub-sistema della Gronda Intermedia da Legnano (A8) a Dalmine (A4), il sub-sistema comasco, il sub-sistema varesino; • rete ferroviaria: collegamento di Malpensa con Milano Centrrale, connessione tr FNM e Fs e riassetto del nodo di Novara, connessione con la linea del Sempione (Malpensa-Gallarate), linea Arcisate-Stabio, Gronda Nord ferroviaria (Novara – Saronno – Seregno – Bergamo – Brescia). Infine nell’ambito della realizzazione del sistema aeroportuale sono previsti ulteriori interventi che consentiranno di mettere in relazione i tre aeroporti (Orio al serio, Linate e Malpensa 2000) facilitando i collegamenti: il raddoppio della linea ferroviaria Bergamo – Treviglio e la bretella Bergamo – Orio al Serio. Il successo di Malpensa 2000 e del più generale sistema aeroportuale del nord Italia dipende senza dubbio dall’affidabilità e dai tempi di realizzazione di queste opere. ALLEGATO 4 – LA RETE STRADALE DEL NORD ITALIA A livello di aree geografiche, la rete stradale e autostradale italiana presenta la ripartizione di infrastrutture che si evince dalla seguente tabella (nella quale non sono compresi i raccordi autostradali). Il Nord Italia presenta uno sbilanciamento marcato in favore delle strade comunali extraurbane, molto più estese in lunghezza rispetto alle autostrade e alle strade statali e provinciali. Disaggregando l’analisi al livello delle singole regioni del Nord, si noti come la Valle d’Aosta presenti la quota più considerevole di strade nel territorio di tipo autostradale e comunale, laddove il Friuli - Venezia Giulia presenta la quota maggiore di strade statali e la Liguria di strade provinciali. Tab. 8 – La rete stradale e autostradale in Italia (dati espressi in km) 207 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE Autostrade Strade statali Strade provinciali Nord 3.320 15.507 42.239 Centro – Sud 3.153 29.623 72.203 Italia 6.473 45.130 114.442 Fonte: Ministero dei Trasporti, I Trasporti in Italia, 1997. Strade comunali extraurbane 76.652 65.014 141.666 Tab. 9 – La rete stradale e autostradale nell’Italia del Nord (dati espressi in km) Autostrade Strade sta- Strade pro- Strade cotali vinciali munali extraurbane Piemonte 788 2.949 10.977 16.436 Valle d’Aosta 94 153 496 1.299 Lombardia 560 3.273 4.764 15.202 Trentino A.A. 207 1.698 2.672 4.501 Veneto 457 2.363 7.303 13.828 Friuli V.G. 207 1.179 2.169 2.491 Liguria 374 1.027 3.623 4.508 Emilia Romagna 633 2.865 7.235 18.387 Totale 3.320 15.507 42.239 76.652 Fonte: Ministero dei Trasporti, I Trasporti in Italia, 1997. Tab. 10 – La rete stradale e autostradale nell’Italia del Nord (dati percentuali) Autostrade Strade stata- Strade proStrade coli vinciali munali extraurbane Piemonte 2,53 9,47 35,24 52,76 Valle d’Aosta 4,60 7,49 24,29 63,61 Lombardia 2,01 11,77 31,53 54,69 Trentino A.A. 2,28 18,70 29,43 49,58 Veneto 1,91 9,87 30,49 57,73 Friuli V.G. 3,42 19,50 35,87 41,20 Liguria 4,38 12,04 42,46 52,84 Emilia Romagna 2,17 9,84 24,85 63,14 Totale 2,41 11,26 30,67 55,66 Fonte: Ministero dei Trasporti, I Trasporti in Italia, 1997. 208 Totale 137.718 169.993 307.711 Totale 31.150 2.042 27.799 9.078 23.951 6.046 8.532 29.120 137.718 Totale 100,00 100,00 100,00 100,00 100,00 100,00 100,00 100,00 100,00 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE ALLEGATO 5 – LA RETE FERROVIARIA DEL NORD ITALIA Qui di seguito si riportano i dati relativi all’estensione della rete ferroviaria italiana, che per il 18% è gestita da società concessionarie o in gestione commissariale. Si noti come le linee a doppio binario sono pressochè completamente elettrificate (98%), mentre si ha una percentuale di elettrificazione del 59% sul totale delle linee, dato che si abbassa al 37% nell’ambito delle ferrovie in concessione. Tab. 11 – La rete ferroviaria italiana (dati espressi in km all’anno 1995) A binario semplice A doppio binario Totale Tot. Elett. % tot. Elett. % tot. Elett. % elett. elett. elett.. Rete FS 9.935 4.294 43 6.020 5.908 98 15.956 10.202 64 Rete in concess. 3.297 1.120 34 230 201 87 3.527 1.321 37 o in gestione commissariale Totale 13.232 5.414 41 6.250 6.109 98 19.483 11.523 59 Fonte: Ministero dei Trasporti, I Trasporti in Italia, 1997. Tab. 12 – La rete ferroviaria nell’Italia del Nord (dati espressi in km all’anno 1995) A binario semplice A doppio binario Totale Tot. Elett. % tot. Elett. % tot. Elett. % elett. elett. elett.. Piemonte 1.169 495 42 668 668 100 1.838 1.163 63 Valle d’Aosta 83 0 0 0 0 0 83 0 0 Lombardia 987 633 64 578 578 100 1.565 1.212 77 Trentino A.A. 170 105 62 196 196 100 367 302 82 Veneto 578 83 14 515 504 98 1.093 587 53 Friuli 219 106 48 268 268 100 487 374 77 Ven.Giulia Liguria 212 190 89 287 287 100 500 478 95 Emilia Romagna 575 416 72 477 477 100 1.052 893 84 Totale Nord 3.993 2.028 51 2.989 2.978 99 6.982 5.006 72 Totale Cen5.942 2.266 38 3.031 2.930 96 8.974 5.196 58 tro.Sud Totale Italia 9.935 4.294 43 6.020 5.908 98 15.956 10.202 64 Fonte: Ministero dei Trasporti, I Trasporti in Italia, 1997. 209 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE ALLEGATO 6 – INTERVENTI STRATEGICI PER LO SVILUPPO DELLA RETE DEI TRASPORTI NEL NORD ITALIA Si riporta di seguito un quadro sintetico delle principali infrastrutture considerate strategiche per lo sviluppo della rete trasportistica del nord Italia. Per comodità di esposizione le varie tratte sono state suddivise in segmenti. Segmento : MARSEILLE - NICE – VENTIMIGLIA Intervento TGV Cote d’Azur Tipo Linea ferroviaria alta velocità Liason Est - Ouest Collegamento autostradale Collegamento autostra- Autostrada dale Marseille - Pertuis (collegamento A8 / Liason Est - Ouest e A 51) Note Nuova linea ad alta velocità > 250 Km/h inserita nello “Schema directeur du reseau europeen des train a grand vitesse”, prevista per traffico passeggeri. Ancora in fase di proposta. Collegamento tra Avignone Pertuis Draguignan Tratto autostradale sulle Alpi Marittime per sgravare parte del traffico della A8. In fase di prima progettazione Collegamento autostradale Marseille – Pertuis (collegamento A8/Liason EstOuest e A51). In fase di prima progettazione. Segmento : LYON - CHAMBERY – TORINO Intervento Tipo Linea ferroviaria ad Linea ferroviaria alta velocità / capacità alta velocità e nuovo traforo del Frejus Autostrada S. Pierre d’A.- San Jean de Maurienne tunnel del Frejus (A43) Potenziamento dei due terminal intermodali di Lyon e Avignon Potenziamento dell’interporto di Orbassano Terminal Intermodale Note Nuova linea ferroviaria ad alta velocità e capacità > 200 Km/h prevista nello “Schema directeur du reseau europeen des train a grand vitesse”, e definita “Key Link”. Traffico misto passeggeri/merci Attualmente in fase di progettazione preliminare. Collegamento tra St. Pierre d’A. ed il tunnel del Frejus. Costruita fino a San Jean de Maurienne, in costruzione per la rimanente parte. Realizzazione del potenziamento dei terminal Terminal Intermodale Realizzazione del potenziamento dell’interporto Collegamento autostradale 210 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE Segmento : NICE - CUNEO – ASTI Intervento Autostrada internazionale Nice- Cuneo Tipo Autostrada e traforo Nuova autostrada Cuneo-Asti Autostrada Note Nuova autostrada con traforo del Mercantour. L’intervento è in fase di prima definizione progettuale. Nuovo collegamento autostradale in fase di progettazione. È prossima l’apertura della Conferenza dei Servizi Segmento : VENTIMIGLIA - GENOVA Intervento Ferrovia tradizionale Ventimiglia - Genova Tipo Note Raddoppio ferro- Costruzione secondo binario nella tratviario ta Finale Ligure - San Lorenzo al Mare che permetterà il passaggio dagli attuali 90 a 180 treni al giorno. Variante alla autostrada Autostrada L’opera ha come obiettivo di decongeA10 stionare il nodo di Genova Ovest che rappresenta una strozzatura ai collegamenti Est - Ovest ma anche ai traffici che dal porto si dirigono verso l’entroterra. Segmento 12 bis: SAVONA - TORINO Intervento Completamento raddoppio autostrada Torino - Savona Tipo Raddoppio autostradale Note Costruzione della seconda carreggiata nella tratta Fossano - Mondovì e realizzazione del nodo di Millesimo. In fase di costruzione, da completare entro il 2000. Segmento : GENOVA - MILANO - SVIZZERA (SEMPIONE - GOTTARDO) Intervento Tipo Ferrovia alta capacità Ferrovia alta caGenova - Milano Sviz- pacità zera (Sempione Gottardo) con terza galleria di valico Adeguamento autostra- Autostrada da Genova Milano tra Genova e Serravalle 211 Note Costruzione di una nuova linea ad alta capacità (passeggeri - merci) con sagoma idonea al passaggio dei carichi “high cube” tra Genova, Milano con diramazione verso le nuove linee di adduzione al Sempione (Novara Domodossola) e al Gottardo (alternativa Varese / Como - Lugano). Attualmente in fase di prima progettazione l’intervento mira a fornire una alternativa alla prima tratta della A7 gravemente congestionata e che attualmente non consente il passaggio dei carichi “high cube”. IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE Segmento : TORINO – MILANO Intervento Ferrovia alta capacità Torino - Milano Tipo Ferrovia alta capacità Completamento arco settentrionale della Pedemontana (Piemonte) Autostrada Collegamento A4 con l’aeroporto di Malpensa Autostrada Collegamento A8 con l’aeroporto di Malpensa Autostrada Potenziamento interporto di Novara Nuovo sistema di tangenziali di Milano Terminal Intermodale Autostrada Pedegronda (tratto Ovest) Autostrada 212 Note Costruzione di una nuova linea ad alta capacità (passeggeri - merci) con interconnessioni con le direttrici Svizzera (Sempione Gottardo) e Genova. L’infrastruttura è in fase di progettazione preliminare e ha tuttora aperte numerose alternative riguardanti il tracciato (quadruplicamento in sede o su nuovo tracciato) e i nodi di Torino, Novara e Milano. Attualmente in fase di prima progettazione l’intervento mira a collegare la autostrada A4/A5 con la A26 servendo la zona di Biella. Costruzione di un collegamento autostradale tra Boffalora Ticino e Malpensa per consentire un collegamento diretto con il nuovo aeroporto. Previsto anche il potenziamento dell’attuale A4 nel tratto Boffalora-Milano Realizzazione di una bretella di collegamento dall’autostrada A8 all’aeroporto di Malpensa e potenziamento della viabilità ordinaria (SS 336 e SS 341) Realizzazione del potenziamento dell’interporto. Costruzione di una autostrada con funzioni di tangenziale esterna a Milano. In fase di prima definizione progettuale. Attualmente in fase di prima progettazione, l’intervento nel suo complesso mira a collegare l’autostrada A4 con la A8 e la A9, servendo la zona Nord di Milano. IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE Segmento: MILANO – VERONA Intervento Ferrovia tradizionale quadruplicamento Milano Treviglio Tipo Ferrovia tradizionale Note L’intervento è in fase di progettazione esecutiva e mira ad aumentare la capacità sulla tratta Milano – Brescia attualmente satura (196 treno giorno su 200 disponibili ‘96). Ferrovia alta capacità e Ferrovia alta ca- Costruzione di una nuova linea ad alta velocità Milano Vene- pacità Autostrada capacità (traffico misto passeggeri e zia merci). L’infrastruttura è in fase di progettazione preliminare ed ha tuttora aperte numerose alternative riguardanti il tracciato e i nodi. Nuovo sistema di tan- Autostrada Costruzione di una autostrada con genziali di Milano funzioni di tangenziale esterna a Milano. In fase di prima definizione progettuale. Pedegronda (tratto Est) Autostrada Attualmente in fase di prima progettazione, l’intervento nel suo complesso mira a collegare l’autostrada A4 con la A8 e la A9, servendo la zona Nord di Milano. Attivazione interporti Interporto Attivazione degli interporti di Segrate di Segrate e Montello Sistema idroviario pa- Vie d’acqua inTracciato definito e progetto inserito dano-veneto terne nella rete transeuropea delle vie navigabili. (dec. 1692/96/CE). In funzione nel tratto fluviale Cremona – Mantova - Adriatico Segmento : GENOVA - LA SPEZIA – LIVORNO Intervento Raccordo autostradale A7/A12 Tipo Autostrada Note In fase di proposta. Servirebbe per bypassare il nodo di Genova Segmento : LA SPEZIA - PARMA – MANTOVA Intervento Tipo Raddoppio e riqualifica Ferrovia della ferrovia Tirreno Brennero Raccordo autostradale A22/A15 Note Intervento in fase di progettazione mirante a realizzare un più efficace collegamento tra i porti dell’alto Tirreno (La Spezia, Marina di Carrara, Livorno) In corso di elaborazione il progetto preliminare dell’opera Autostrada 213 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE Segmento : VERONA - VENEZIA - TRIESTE Intervento Tipo Ferrovia alta capacità e Ferrovia alta cavelocità Milano Vene- pacità zia Note Costruzione di una nuova linea ad alta capacità (passeggeri - merci). L’infrastruttura è in fase di progettazione preliminare e ha tuttora aperte numerose alternative riguardanti il tracciato e i nodi. Quadruplicamento Padova Mestre Pedemontana Veneta Ferrovia alta capacità Autostrada Connessione Brennero Ferrovia alta capacità Sistema intermo- Potenziamento dei centri di Verona dale Quadrante Europa, Padova, Cervignano Rafforzamento sistema intermodale Progetto preliminare di una autostrada a due corsie tra la A4 a Montebello, la A31 a Thiene e la A27 a Spresiano (TV). Segmento : TRIESTE - VILLA OPICINA Intervento Quadruplicamento Venezia – Trieste Tipo Ferrovia Note Studio di fattibilità Sulla tratta Venezia - Ronchi dei Legionari sono previste alcune varianti per adeguare la linea a 200 km/h Per la tratta Ronchi dei Legionari – Trieste è prevista la progettazione della linea su sede separata Segmento : TRIESTE - VIENNA Intervento Raddoppio della ferrovia Pontebbana Tipo Ferrovia Note Raddoppio della ferrovia Pontebbana e adeguamento a sagoma del tratto Monfalcone Trieste 214 IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE Segmento : TRIESTE- KIEV (CORRIDOIO n. V) Intervento Autostrada Trieste Ljublijana - Maribor – Bucarest Tipo Autostrada Note L’autostrada attraversa la Slovenia in direzione Ovest - Est. Dei 326 Km totali, 130 sono già in esercizio a 4 corsie. I lavori sulle restanti tratte progrediscono velocemente. L’autostrada attraversa la Croazia in direzione Ovest- Est. Il tracciato globale è già costruito per 104 Km (tratte: By pass di Rijeka, Km 18,5; Rijeka Kikovica Km 11,9; Karlovac - Zagreb Km 60,3. Da a Zagreb - Letenye (Km 178,5 in parte in costruzione e in parte in progetto). L’autostrada è in costruzione Autostrada Rijeka Zagreb - Letenye Autostrada Autostrada Letenye Budapest Autostrada Budapest Gyongyos - Zahony (Confine Ucraina) Autostrada Track Terminal di Zahony Track Terminal Autostrada Autostrada Bratislava - Autostrada Zilina - Kosice - Uzgarod Qudruplicamento velo- Ferrovia ce ferroviario Trieste Ljublijana 215 Il tratto Budapest - Gyongyos è in esercizio mentre il rimanente tratto è in costruzione e la sua ultimazione è prevista per il 2015. La UE finanzia la costruzione di un Track terminal in territorio Ucraino e l’adeguamento delle infrastrutture di confine. Il tratto slovacco di Km 519 è in parte costruito (Km 152 a quattro corsie) mentre la restante parte è in progettazione. Studio di fattibilità - progettazione di una nuova linea in quanto l’esistente non è adeguabile ai nuovi standard. 5 tracciati alternativi previsti IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE BIBLIOGRAFIA Assointerporti (1997), Quaderno n. 1 “I nodi dell’intermodalità”, Roma. D.G. VII U.E. (1998), Rete Transeuropea dei trasporti: Relazione sull’applicazione degli orientamenti e priorità per il futuro, Bruxelles. Ministero dei Trasporti e della Navigazione (1997), Conto nazionale dei trasporti, Roma. Regione Lombardia (1998), Trasporti in Lombardia speciale Malpensa, Milano. Uniontrasporti (1997), Corridoio Plurimodale Adriatico, Milano. Uniontrasporti (1998), Corridoio Plurimodale Tirrenico, Milano. Uniontrasporti (1998), Documento di base per la promozione di un sistema integrato di trasporto lungo la Direttrice Ovest-Est a Sud dell’Europa, Milano. Uniontrasporti, Metis (1998), Rapporto Annuale sulla Portualità Italiana 1996/97, Milano. 216 RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ Piero Bonavero* INTRODUZIONE – LA RETE URBANA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL CONTESTO EUROPEO – LA SPECIFICITÀ DELLA RETE URBANA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE: LE “CENTO CITTÀ” – L’APERTURA INTERNAZIONALE – CARENZE E VINCOLI – PROSPETTIVE E OPPORTUNITÀ – BIBLIOGRAFIA INTRODUZIONE Questa scheda è dedicata ad una analisi delle caratteristiche del sistema urbano dell’Italia settentrionale e delle loro implicazioni per le prospettive di sviluppo economico e sociale della macroregione oggetto del nostro studio. Si tratta di un tema di notevole rilevanza, in quanto le reti urbane sono le strutture portanti dell’organizzazione dei diversi territori, soprattutto sotto il profilo della dotazione di funzioni qualificate, in campo economico, politico, culturale, ecc. L’esame delle caratteristiche funzionali e dell’assetto territoriale dei sistemi di città è quindi fondamentale per lo studio dei processi di trasformazione in atto nei diversi insiemi geografici. In particolare, acquistano un’importanza crescente, in ordine alla capacità dei diversi territori di realizzare e riprodurre nel tempo i propri processi di sviluppo, le relazioni sovralocali (e internazionali in particolare) che essi sono in grado di attivare, e le città si presentano come i luoghi privilegiati per la dotazione di funzioni di questa natura1. In quest’ottica, si cercherà di dare una risposta ad alcuni interrogativi: quali sono le specificità della rete urbana dell’Italia settentrionale nel contesto nazionale ed europeo? Quali sono le caratteristiche della sua apertura internazionale? Quali sono i suoi “punti di forza” e quali i suoi “punti di debolezza” e le sue carenze? La parte centrale della scheda è quindi dedicata alla trattazione di questi temi. Essa è preceduta da una contestualizzazione della rete urbana dell’Italia settentrionale nel panorama europeo, ed è seguita da alcune riflessioni sulle opportunità e prospettive per lo sviluppo economico e sociale di medio e lungo periodo dell’area oggetto del nostro studio legate alle caratteristiche del suo sistema urbano. * Istituto di Geografia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Il lettore, pur avendo un’idea generale di che cosa si intenda per città, si chiederà forse qual è la definizione “scientifica” di questo concetto. A tale proposito, va detto che non esiste “la” definizione corretta di città, ma soltanto una molteplicità di soluzioni convenzionali (basate su criteri di natura demografica, economica, morfologica, amministrativa, ecc.), funzionali alle finalità specifiche che i diversi studi sul fenomeno urbano si propongono. In questa scheda, pertanto, non si adotterà una definizione unica di città, ma si farà riferimento alle diverse definizioni utilizzate negli studi presi in esame. Il lettore interessato all’argomento può comunque vedere Eurostat (1992) e Moriconi-Ebrard (1993). 1 217 RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ LA RETE URBANA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL CONTESTO EUROPEO Gli studi sulla struttura del sistema urbano europeo indicano per l’Italia settentrionale una collocazione relativamente favorevole nel contesto continentale, soprattutto se raffrontata con quella delle altre aree del paese, e dell’Europa meridionale e mediterranea nel suo complesso. IL SISTEMA URBANO EUROPEO A questo proposito, è possibile ricordare la suddivisione territoriale del sistema urbano europeo proposta da Dematteis (1996)2; in questa rappresentazione, considerando il segmento superiore del sistema urbano europeo (città di portata internazionale, nazionale e regionale)3, vengono distinte tre zone concentriche, caratterizzate da una densità complessiva di città non molto dissimile (sia rispetto alla superficie territoriale, sia rispetto alla popolazione), ma da una significativa differenziazione della densità delle città di livello internazionale, con una netta predominanza dell’area centrale rispetto alle altre due (tab. 1). In questa immagine di sintesi, il sistema urbano italiano risulta suddiviso in tre parti, ciascuna delle quali è compresa in una nelle tre zone individuate: il sistema urbano dell’Italia settentrionale (intesa in una accezione corrispondente alla delimitazione adottata nel nostro studio) nell’area centrale, quello dell’Italia centrale nella prima fascia o zona intermedia, quello del Mezzogiorno e delle Isole nella seconda fascia o periferia (fig. 1). Tab. 1 – La distribuzione delle città europee di livello internazionale e nazionle/regionale Livello area centrale I fascia II fascia Totale numero % numero % numero % numero % Internaz. 26 53,1 10 20,4 13 26,5 49 100 Naz./reg. 10 14,9 26 38,8 31 46,3 67 100 Totale 36 31,0 36 31,0 44 38,0 116 100 area centrale (800.000 I fascia (800.000 II fascia (2.500.000 kmq, 180 mil. ab.) kmq,120 mil. ab.) kmq, 200 mil. ab.) A B A B A B Internaz. 3,25 6,9 1,25 12,0 0,52 15,4 Naz./reg. 1,25 18,0 3,25 4,6 1,24 6,5 Totale 4,5 5,0 4,5 3,3 1,76 4,5 A = densità rispetto alla superficie territoriale (numero di città per 100.000 kmq) B = densità rispetto alla popolazione (milioni di abitanti per città) Totale A B 1,19 10,2 1,63 7,5 2,83 4,3 Fonte: Dematteis (1996) LE RAPPRESENTAZIONI DI SINTESI DEL TERRITORIO EUROPEO Un altro interessante riferimento è costituito dalla nota rappresentazione di sintesi dell’assetto territoriale del sistema urbano europeo proposta in uno studio francese della fine degli anni Ottanta (Brunet, 1989; fig. 2). In questo lavoro, al sistema urbano dell’Italia settentrionale viene attribuito un ruolo rilevante nel quadro del sistema urbano continentale. Esso viene infatti individuato, da un lato, come estremità meridionale della “dorsale centrale euro2 Non ci si sofferma qui sui numerosi studi nei quali non si propongono interpretazioni dell’assetto territoriale del sistema urbano europeo, ma si definiscono graduatorie e classificazioni delle città europee in base al loro livello gerarchico e alla loro dotazione funzionale. Per una sintesi di questi lavori si rinvia a Bonavero e Salone (1997). 3 Si tratta di 116 città, per l’individuazione delle quali si rinvia al lavoro citato. 218 RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ pea” di importanza consolidata, dall’altro, come segmento orientale di una nuova direttrice di sviluppo cui viene attribuita la possibilità di controbilanciare (almeno in parte) la dominanza della dorsale centrale: una fascia ispanofranco-padana comprendente la Spagna nord-orientale, la Francia meridionale e, appunto, l’Italia settentrionale. In questa prospettiva, viene in particolare attribuito alla rete urbana lombarda il ruolo di “snodo” fra questi due assi portanti del sistema urbano continentale, e alla conurbazione milanese quello di polo dominante nell’ambito del sistema urbano dell’Europa meridionale. Sempre con riferimento alla scala continentale, si può infine ricordare come, nella suddivisione del territorio dell’Unione europea in dieci “macroregioni transnazionali” proposta in un noto rapporto della Direzione Generale XVI della Commissione europea (CE DG XVI, 1995), il territorio del nostro paese venga suddiviso in tre insiemi territoriali, ognuno dei quali compreso in una delle macroregioni individuate: l’Italia settentrionale (corrispondente alle otto regioni considerate nel nostro studio con l’esclusione della Liguria e con l’aggiunta delle Marche), nella macroregione denominata “arco alpino”, comprendente anche le regioni alpine di Francia, Austria e Germania; la Liguria, la Toscana il Lazio, l’Umbria e la Sardegna nella macroregione denominata “arco latino” (o “Mediterraneo occidentale”), costituita dalla fascia costiera mediterranea di Spagna, Francia e Italia; le restanti regioni del Mezzogiorno, insieme alla Grecia, nella macroregione denominata “Mediterraneo centrale”. LA SPECIFICITÀ DELLA RETE URBANA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE: LE “CENTO CITTÀ” La prima immagine a cui si pensa quando si considera la rete urbana italiana è quella delle “cento città”. Si tratta di un’immagine ormai abusata e da qualche tempo diventata una sorta di luogo comune e utilizzata anche come slogan, la quale tuttavia, come la maggior parte dei luoghi comuni, si fonda su una constatazione oggettiva. In questo caso, la caratteristica oggettiva è la notevole articolazione del sistema urbano italiano, sia dal punto di vista del suo assetto territoriale, sia sotto il profilo della sua struttura gerarchica. Questa caratteristica, che è il risultato dell’evoluzione storica secolare della struttura insediativa del nostro paese, risulta particolarmente accentuata nell’Italia settentrionale. UN TESSUTO URBANO AD ALTA DENSITÀ TERRITORIALE ... E A NOTEVOLE ARTICOLAZIONE DIMENSIONALE Da un lato, infatti, il tessuto urbano della pianura padana presenta una notevole “densità territoriale”, che risulta tale se raffrontata sia con il resto del territorio italiano (fig. 3) sia con altre aree dell’Europa meridionale (come gran parte della Spagna e della Grecia, ma anche della Francia), e accomuna invece l’area oggetto del nostro studio a quelle del “cuore europeo” (per esempio il “golden triangle” Bruxelles-Amsterdam-Francoforte e l’Inghilterra sud-orientale). Dall’altro lato, la rete urbana dell’Italia settentrionale presenta una notevole articolazione sotto il profilo dimensionale, espressa da una cospicua presenza di centri di tutti i livelli gerarchico-funzionali, dalle maggiori aree metropolitane ai centri di piccola e piccolissima dimensione, passando per i diversi livelli intermedi; in particolare, una delle specificità del sistema urbano 219 RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ dell’area oggetto del nostro studio rispetto a quelli di altre realtà nel contesto nazionale (ed europeo) è la presenza di un robusto tessuto di città di media dimensione. IL PROCESSO DI CONTROURBANIZZAZIONE HA RAFFORZATO I MEDI CENTRI I PUNTI DI FORZA DEL SISTEMA URBANO DELL’ITALIA DEL NORD Quest’ultimo ha registrato, negli anni recenti, un significativo rafforzamento, in seguito al verificarsi in Italia (così come in numerosi altri paesi europei) a partire all’incirca dalla metà degli anni Settanta, del fenomeno della “controurbanizzazione”, termine con il quale si indica una inversione di tendenza rispetto ai processi operanti negli anni Cinquanta e Sessanta e nei primi anni Settanta, quando lo sviluppo industriale aveva privilegiato, in Italia come altrove, il modello dello sviluppo urbano polarizzato, inducendo una rapida espansione demografica delle grandi città e un corrispondente declino dei centri di media e piccola dimensione. Negli anni più recenti si assiste invece ad un declino demografico dei maggiori poli urbani e ad un recupero dei centri di media (e in alcuni casi di piccola) dimensione, sia situati in prossimità delle grandi aree urbane (fatto che rende quindi il fenomeno riconducibile in parte ad una estensione di queste ultime) sia situati in aree geograficamente periferiche rispetto ad esse (e ciò appare invece particolarmente significativo). Nella fattispecie italiana, questo processo si è tradotto in un accentuato calo della popolazione dei Comuni con più di 250.000 abitanti, e in un notevole rafforzamento demografico dei comuni di dimensione compresa fra i 10.000 e i 50.000 abitanti; entrambi questi fenomeni appaiono più accentuati in Italia settentrionale, dove il declino demografico ha interessato anche i Comuni con popolazione compresa fra i 50.000 e i 250.000 abitanti, che risultano invece in crescita nelle altre macroaree del paese (vedi tab. 8 della scheda sulla demografia). Il fenomeno della “controurbanizzazione”, che così definito si configura come un processo di natura demografica, presenta però anche una significativa valenza economica e funzionale, soprattutto se riferito alla seconda delle due tipologie di situazioni sopra indicate (quella dei centri di media e piccola dimensione situati in aree geograficamente periferiche rispetto ai maggiori poli urbani), così da potere essere interpretato come una “rivincita delle cento città” (Dematteis, 1998). Le due caratteristiche di cui si è detto – la rilevante “densità territoriale” e la notevole articolazione gerarchico-funzionale – possono essere considerate come un “punto di forza” del sistema urbano dell’Italia settentrionale (e dell’area padana in particolare, dove queste caratteristiche appaiono più spiccate) nel contesto nazionale e internazionale. Il primo elemento, che esprime l’esistenza di una fitta ed articolata distribuzione di funzioni urbane sul territorio, rappresenta infatti una delle condizioni che consentono una piena valorizzazione del potenziale di sviluppo endogeno specifico dei diversi contesti locali, la quale, a sua volta, costituisce un fondamentale fattore di competitività di medio e lungo periodo dei territori di cui essi fanno parte; il secondo elemento, strettamente connesso al primo, esprime una diversificazione del sistema urbano sotto il profilo della tipologia di centri, e si traduce anch’esso in un vantaggio nella competizione fra territori, rispetto alle situazioni di accentuata polarizzazione delle funzioni urbane in un numero limitato di centri di grande dimensione. 220 RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ L’APERTURA INTERNAZIONALE Come si è accennato nell’introduzione, in un contesto, come quello attuale, di crescente integrazione e competizione dei sistemi territoriali su scala internazionale, appare sempre più importante la loro apertura esterna, cioè la loro capacità di sviluppare relazioni e funzioni sovralocali, funzioni rispetto alla localizzazione delle quali le città si presentano senz’altro come i luoghi privilegiati. Anche sotto questo profilo la rete urbana dell’Italia settentrionale sembra presentare caratteristiche nel complesso relativamente favorevoli: da una recente analisi sull’apertura internazionale del sistema urbano italiano nel contesto europeo (Bonavero, 1997)4 emerge infatti non solo una presenza di funzioni internazionali nella macroregione oggetto della nostra analisi notevolmente più cospicua rispetto a quella delle altre aree del paese, ma anche una differenza di carattere qualitativo che appare assai significativa. IL NORD ITALIA: IL MODELLO DELLE RETI INTERCONNESSE IL MEZZOGIORNO: IL MODELLO DELLE RETI GERARCHICHE UN’APERTURA INTERNAZIONALE PIÙ DEVERSIFICATA NEL NORD OVEST Come si può osservare nella figura 4, nell’Italia settentrionale si rileva, accanto ad una (ampiamente prevedibile) concentrazione di funzioni internazionali nelle maggiori aree urbane, una loro significativa diffusione nel tessuto delle città di media e medio-piccola dimensione; questa caratteristica può essere interpretata come un sintomo dell’avvenuta affermazione in quest’area del cosiddetto “modello delle reti interconnesse” con riferimento all’integrazione internazionale del sistema urbano: si tratta di un modello – che caratterizza per lo più le aree del “cuore europeo” - nel quale i centri di dimensione media e medio-piccola sono in grado di accedere direttamente ai circuiti internazionali, senza passare per il tramite dei centri di livello metropolitano più prossimi. Al contrario, in altre aree del paese (e in particolare in quasi tutto il Mezzogiorno, ma anche nel Lazio) si osserva la prevalenza del cosiddetto “modello delle reti gerarchiche” – tipico delle “periferie europee” - nel quale la presenza di funzioni internazionali è fortemente polarizzata sui maggiori centri, e le città di media e medio-piccola dimensione devono necessariamente accedere ai circuiti internazionali per il tramite di questi ultimi. Va peraltro sottolineato come il primo modello non caratterizzi soltanto le regioni della macroregione oggetto del nostro studio ma, analogamente a quanto si verifica per i modelli di evoluzione demografica (si veda la scheda sulla demografia), interessi anche alcune regioni rientranti, secondo l’articolazione territoriale del sistema statistico nazionale, nella circoscrizione Centro, come la Toscana e le Marche. Un altro aspetto significativo del fenomeno dell’apertura internazionale nell’Italia settentrionale è l’esistenza di una differenziazione sotto il profilo dell’articolazione settoriale delle funzioni. In particolare, dall’indagine citata emerge una tendenziale maggiore diversificazione dei sistemi urbani di precoce apertura internazionale (come quelli del Nord-Ovest) rispetto a quelli di 4 Si tratta di una ricerca nella quale è stata presa in considerazione la distribuzione sul territorio nazionale di funzioni internazionali esprimenti l’esistenza di relazioni con paesi dell’Europa occidentale in diversi settori: industriale, finanziario, della ricerca scientifica, della formazione, delle connessioni aeree, della ricettività, della diplomazia e “paradiplomazia urbana”. Le unità territoriali utilizzate in questa indagine sono i “sistemi locali del lavoro” definiti dall’Istat (si veda Istat, 1996); il concetto di città considerato è quindi quello di “sistema urbano locale”. 221 RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ apertura internazionale più recente (come quelli del Nord-Est): nei primi infatti, accanto ai fenomeni di internazionalizzazione del settore industriale, si rileva la presenza di funzioni internazionali nell’ambito di altri settori, come quello della ricerca scientifica e della formazione, e quello finanziario, mentre nei secondi l’apertura internazionale – cospicua e notevolmente articolata sotto il profilo territoriale – appare maggiormente specializzata nel campo delle attività industriali (e in qualche caso in quello delle attività ricettive, come le funzioni fieristico-espositive) (fig. 5). LA SPECIFICITÀ DEL NORD EST Così come già rilevato con riferimento al settore della formazione (si veda la scheda sui sistemi formativi), si può quindi ipotizzare, anche nel campo delle funzioni internazionali, l’esistenza di una “Terza Italia”, con caratteristiche diverse sia dal Mezzogiorno (in termini di una maggiore dotazione di funzioni internazionali e di una loro maggiore articolazione nell’ambito del sistema urbano) sia dal Nord-Ovest (in termini di una minore diversificazione settoriale della dotazione di funzioni internazionali). Questa caratteristica è in parte spiegabile col fatto che la presenza di una dotazione settorialmente diversificata di funzioni internazionali richiede una sorta di “massa critica” in termini di funzioni e relazioni economiche e sociali, disponibile soltanto nelle aree urbane che superano determinate soglie dimensionali, come quelle dei sistemi urbani polarizzati del Nord-Ovest. Questa interpretazione è supportata dal fatto che per quasi tutte le aree urbane di maggiore dimensione la dotazione complessiva di funzioni internazionali osservata risulta superiore alla dotazione “teorica attesa” sulla base della loro dimensione demografica: il “residuo” esprimente la differenza fra la dotazione effettiva rilevata e la dotazione “attesa” risulta infatti positivo per tutte le maggiori aree urbane del paese, comprese quelle del Centro e del Sud, con la sola eccezione di Napoli (fig. 6) . CARENZE E VINCOLI Accanto alle caratteristiche fin qui indicate, che possono essere considerate come “punti di forza” del sistema urbano dell’Italia settentrionale nel contesto nazionale nonché, in certa misura, nel contesto europeo (e in particolare nel contesto dell’Europa meridionale), esistono diversi “punti di debolezza” o fattori di criticità. Essi appaiono legati a carenze di varia natura, che rappresentano dei limiti e dei vincoli per una maggiore integrazione dell’area oggetto della nostra analisi nel sistema economico continentale e mondiale, e in particolare per la sua capacità di proporsi come gateway per le altre aree del paese e dell’Europa meridionale, nonché, in una prospettiva più ampia, come “cerniera” fra il territorio dell’Unione europea e i paesi del Mediterraneo meridionale e orientale (si veda il paragrafo successivo). LE CARENZE INFRASTRUTTURALI Uno dei fattori di criticità più evidenti emerge con riferimento al sistema infrastrutturale. Ciò vale soprattutto, nella prospettiva ora indicata, per i collegamenti del sistema urbano dell’Italia settentrionale con l’esterno dell’area: le carenze relative a questo aspetto sono numerose, e vanno dall’incertezza riguardante le prospettive e i tempi di realizzazione del collegamento ferroviario ad alta velocità sulla linea Torino-Lione, così come dell’asse “padano” del sistema nazionale dell’alta velocità sulla linea Torino-Venezia, 222 RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ all’inadeguatezza dei collegamenti di Milano (e di Torino) con il nuovo aeroporto Malpensa 2000, alla necessità di potenziare il sistema delle infrastrutture al servizio dell’intermodalità, ecc. (si veda la scheda sui trasporti). LE CARENZE SUL FRONTE ISTITUZIONALE Un secondo ordine di carenze riguarda aspetti di natura istituzionale (o “paraistituzionale”), e interessa prevalentemente il livello metropolitano del sistema urbano: si tratta di una insufficiente manifestazione di capacità di governance nelle aree metropolitane e nelle aree urbane di maggiore dimensione, dove per governance si intende l’affermazione di forme di cooperazione e concertazione fra i diversi soggetti (di natura pubblica, privata e mista), intorno a linee e progetti di sviluppo urbano rientranti in una visione strategica di lungo periodo da essi condivisa e in grado di aggregare il loro consenso5. Si tratta di una carenza che non riguarda peraltro soltanto le aree metropolitane dell’Italia Settentrionale, ma l’intero livello metropolitano del sistema urbano nazionale, e costituisce un elemento di svantaggio rispetto ad altre realtà europee, soprattutto dell’area centro e nord-occidentale, ma non solo (si può ricordare, infatti, il caso di Barcellona, che viene spesso citato come una “storia di successo” in questo campo). L’esistenza di questo tipo di carenze è esemplificata dal fatto che la legge 142 del 1990 sulla riforma delle autonomie locali è rimasta inapplicata nella parte che tendeva a favorire forme di “intercomunalità” nelle aree metropolitane attraverso la creazione di nuove unità amministrative denominate “città metropolitane”, da individuare aggregando al Comune principale di ciascuna delle maggiori aree urbane italiane i suoi Comuni contermini 6. Va d’altra parte sottolineato come alcune eccezioni a questa carenza di ordine generale esistano nel contesto italiano, e come esse possano essere trovate proprio nell’area oggetto della nostra ricerca: il caso forse più significativo a questo proposito è quello di Bologna, con la sua esperienza di costruzione consensuale, “dal basso”, della “città metropolitana”, attraverso la creazione di una “Conferenza metropolitana” fra i Comuni interessati e la definizione di una Convenzione quadro per l’organizzazione e la gestione di servizi comuni (si veda Bolocan e Salone, 1996); altri esempi di iniziative inquadrabili nella logica della governance metropolitana e della pianificazione strategica sono 5 È usuale a questo proposito la distinzione fra governance e “governo” delle aree urbane e metropolitane, intendendo quest’ultimo come la gestione e il controllo dei processi di sviluppo urbano da parte dell’autorità pubblica locale (e quindi come espressione di una concezione tradizionale dell’amministrazione e della pianificazione territoriale su scala urbana), e attribuendo invece alla prima il significato che si è detto nel testo (e quindi considerandola come espressione delle concezioni più innovative dell’amministrazione e della pianificazione territoriale su scala urbana, che vanno sotto il nome di “pianificazione negoziale” e “pianificazione strategica”). 6 Le aree urbane indicate per la costituzione di “città metropolitane” dalla legge 142 (integrata da alcune leggi della Regione siciliana) erano quelle di Torino, Milano, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Palermo, Catania, Cagliari. Va peraltro rilevato come la legge non indicasse i criteri da seguire per l’aggregazione dei Comuni, demandandone la definizione alle Regioni. Va ricordato inoltre come di recente sia stato ripreso a livello normativo il tema della costituzione delle città metropolitane: il disegno di legge relativo all’ordinamento federale della Repubblica approvato dal Consiglio dei Ministri il 9 marzo 1999 prevede infatti che le aree metropolitane individuate dalla legge dello Stato possano costituirsi in città metropolitane, e propone la modifica dell’articolo 114 della Costituzione, la cui nuova versione recita: «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato». 223 RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ l’esperienza avviata di recente del Progetto “Torino Internazionale”, e quelle, sia pur di diversa natura, dell’Agenzia Sviluppo Nord Milano per la riqualificazione e lo sviluppo della parte nord-orientale dell’area metropolitana milanese (e dell’area di Sesto San Giovanni in particolare), e del processo di riqualificazione e reindustrializzazione dell’area di Porto Marghera presso Venezia. LA CARENZA DI POLITICHE URBANE SOVRA-LOCALI ... E SOPRATTUTTO DI POLITICHE URBANE DI RETE Ulteriori fattori di criticità del sistema urbano dell’Italia settentrionale nel contesto europeo emergono poi con riferimento al settore delle politiche urbane. Due sono gli aspetti che vanno menzionati a questo proposito. Da un lato, la sostanziale assenza di una politica urbana di scala nazionale, a differenza di quanto è avvenuto in alcune altre nazioni europee, come i Paesi Bassi, la Francia e la Germania (Salone, 1998): in questo campo, l’esperienza avviata alla fine degli anni Sessanta con il Progetto ’80 (Ministero del Bilancio e della Programmazione economica, 1969) non ha avuto seguito, anche se è attualmente operante presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri un Dipartimento per le aree urbane, la cui funzione è quella di sviluppare le linee e gli orientamenti di una politica nazionale per le città in una prospettiva non di tipo dirigistico, ma fondata sulla considerazione dei processi di sviluppo locale e sui principi della concertazione e della pianificazione negoziale; il Dipartimento ha inoltre svolto un ruolo significativo nel campo delle relazioni con le istituzioni comunitarie competenti per le iniziative per lo sviluppo urbano (in particolare la Direzione Generale XVI della Commissione europea), partecipando in particolare all’elaborazione dello Schema di sviluppo dello spazio europeo (SSSE) per la parte relativa alle problematiche della rete urbana, che costituisce una componente essenziale di questo documento. Una significativa attività su temi analoghi e complementari è svolta inoltre dalla Dicoter (Direzione per il coordinamento territoriale), operante presso il Ministero dei Lavori Pubblici; a quest’ultima, nell’ambito di un recente riordino di competenze, è stato attribuito un ruolo centrale nel campo delle politiche territoriali, demandandole la maggior parte delle analisi e degli interventi sull’assetto territoriale complessivo del paese (in particolare con riferimento all’assetto delle reti infrastrutturali) e, nel campo delle politiche urbane, la gestione dei programmi di riqualificazione urbana “di seconda generazione”. Il secondo fattore di criticità concernente le politiche urbane è rappresentato dalla carenza di “politiche urbane di rete” di scala sub-nazionale (regionale e locale) promosse sia dal governo centrale sia, soprattutto, da soggetti regionali e locali (sia di carattere pubblico che privato, nell’ottica della governance di cui si è detto sopra): politiche di questo tipo dovrebbero svolgere la funzione di promuovere e sviluppare l’integrazione e la complementarietà fra i centri di media e piccola dimensione in determinati contesti regionali e locali (ma anche su scala “transregionale”), così da favorire il raggiungimento a livello di rete di quelle economie di scala e di varietà territoriali generalmente ottenibili soltanto nell’ambito di aree urbane e metropolitane di grande dimensione. Le iniziative più rilevanti in questo campo riguardano la progettazione e gestione comune di infrastrutture, la creazione e gestione comune di servizi specializzati, l’articolazione concertata di funzioni urbane qualificate fra i centri della rete. I riferimenti più significativi a questo proposito sono rappresentati da alcune esperienze francesi come i Districts urbains, i contrats de ville, i réseaux de villes. In Italia un orientamento in questo senso si ha con l’attivazione dello strumento dei Patti territoriali, sebbene la sua fina- 224 RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ lità sia essenzialmente limitata a misure per lo sviluppo economico ed occupazionale delle aree in ritardo di sviluppo e delle aree in fase di declino economico e sociale. PROSPETTIVE E OPPORTUNITÀ La rete urbana dell’Italia settentrionale presenta dunque, come risulta dalle considerazioni effettuate sopra, alcuni “punti di forza” e alcuni “punti di debolezza” nel quadro nazionale e soprattutto nel quadro europeo. Dal consolidamento e rafforzamento dei primi e dal superamento o attenuazione dei secondi derivano le sue prospettive di medio e lungo periodo e le sue opportunità di integrazione e sviluppo nel contesto continentale e mondiale. LE OPPORTUNITÀ DI UN RUOLO DI GATEWAY: Una “opportunità” che va senz’altro menzionata, per le città dell’area oggetto del nostro studio, è la possibilità di svolgere una funzione di gateway verso i circuiti economici internazionali rispetto al resto del territorio nazionale, nonché rispetto ad altre aree dell’Europa meridionale e della macroregione mediterranea complessivamente intesa (in particolare i paesi del Mediterraneo meridionale e orientale)7. La possibilità di valorizzare questa opportunità appare legata ad alcuni elementi, che si configurano come un superamento dei fattori di criticità sopra ricordati. È utile a questo proposito distinguere due livelli nel sistema urbano dell’Italia settentrionale: il livello metropolitano e il livello “non metropolitano” (delle città di media e piccola dimensione). … PER IL LIVELLO METROPOLITANO … E PER IL LIVELLO NON METROPOLITANO Con riferimento al primo, si può affermare che la possibilità dei poli urbani che ne fanno parte di potenziare il loro ruolo di gateway su scala nazionale e internazionale dipende dal rafforzamento della loro capacità di governance; la capacità di porsi come soggetti unitari e di realizzare politiche e strategie di sviluppo urbano di medio e lungo periodo rappresenta infatti il presupposto necessario per una maggiore apertura e proiezione esterna delle città, e quindi per un rafforzamento della loro competitività e del loro ruolo nel contesto internazionale. Con riferimento al livello “non metropolitano” del sistema urbano, appare importante lo sviluppo di “politiche urbane di rete”, che in questo contesto dovrebbero avere la specifica funzione di consentire a insiemi di città di media e piccola dimensione di raggiungere quella “massa critica” e quella articolazione settoriale di funzioni tale da metterli in condizione di svolgere un ruolo di gateway verso i circuiti internazionali analogo a quello delle maggiori aree metropolitane. Sotto questo profilo, la situazione dell’Italia settentrionale appare relativamente più favorevole rispetto a quella di altre realtà territoriali in Europa, in virtù delle caratteristiche del suo sistema urbano, vale a dire la notevole “densità territoriale”, la significativa articolazione sotto il 7 A questo proposito, va peraltro sottolineato come, su scala nazionale, sia comunque auspicabile nel medio e lungo periodo il superamento di un modello di tipo gerarchico nel quale le località periferiche (come quelle del Mezzogiorno) accedono ai circuiti internazionali per il tramite dei maggiori poli urbani nazionali, in favore dell’affermazione di un modello di integrazione internazionale nel quale esse accedono direttamente ai circuiti internazionali senza passare per i gateway nazionali. 225 RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ profilo dimensionale, e la ampia diffusione delle funzioni internazionali nel tessuto delle città di media e piccola dimensione. LE OPPORTUNITÀ DI INTEGRAZIONE TRANSFRONTALIERA Una seconda opportunità che può essere indicata è l’integrazione del sistema urbano dell’Italia settentrionale con quelli di altre aree nel contesto europeo. A questo proposito, il riferimento più significativo è quello ai territori delle due “macroregioni transnazionali” che interessano l’Italia settentrionale: l’arco alpino e l’arco latino (si veda sopra). Queste due macroregioni si presentano entrambe come aree in forte crescita, già consolidata nel primo caso, in via di consolidamento nel secondo; l’integrazione del sistema urbano dell’Italia settentrionale con i sistemi urbani di questi territori rappresenta quindi senz’altro una notevole opportunità di sviluppo. Alcune iniziative in questo senso sono già in corso. Vanno ricordati a questo proposito i processi di cooperazione e integrazione transfrontaliera fra le regioni dell’Italia settentrionale e le regioni alpine contermini: il programma Interreg Piemonte/Rhône-Alpes nel quadro delle politiche di coesione comunitarie, il progetto dell’“euroregione Tirolo”, le “Comunità di lavoro” alpine (la Cotrao, Communauté de Travail des Alpes Occidentales; l’Arge Alp, Communauté de Travail des Alpes Centrales; l’Alpe-Adria, Communauté de Travail des Alpes Orientales). Nella stessa logica si muovono le azioni collegate all’idea del cosiddetto “diamante alpino”, con la cooperazione fra Torino, Lione e Ginevra in vari settori (si veda AA. VV., 1998), e l’iniziativa “Quattro motori per l’Europa” che promuove la cooperazione e l’integrazione fra quattro regioni a elevato dinamismo economico dell’Europa centromeridionale, il Baden-Württenberg, la Catalunya, la Lombardia e il RhôneAlpes. La possibilità di una effettiva integrazione nell’ambito di queste aree appare tuttavia strettamente legata all’adeguamento della loro dotazione infrastrutturale: nel momento in cui si affermano varie iniziative sotto il profilo istituzionale e paraistituzionale, il superamento delle attuali carenze relative al sistema infrastrutturale sembra rappresentare la condizione principale, da un lato, per la effettiva affermazione di un nuovo “asse di crescita” in Europa lungo l’arco latino, dall’altro, per una più completa e articolata integrazione economica e sociale nell’ambito della regione alpina. A questo proposito, sembra ragionevole affermare che l’attenzione debba essere rivolta all’adeguamento di entrambi i segmenti del sistema infrastrutturale delle aree interessate: da un lato, i collegamenti transnazionali, inquadrabili nello sviluppo del sistema delle grandi reti transeuropee, dall’altro, le reti secondarie di interesse regionale e locale, con riferimento sia alla loro struttura e articolazione interna sia alla loro connessione con le reti transnazionali. I RAPPORTI CON L’EST EUROPEO Sempre a proposito delle relazioni del sistema urbano dell’Italia settentrionale con quelli di altre aree nel contesto europeo, va sottolineato come una ulteriore opportunità possa essere rappresentata dall’integrazione con le città e i territori dell’Europa orientale, e in particolare con alcuni paesi dell’Europa sud-orientale. Se da un lato l’inclusione della Slovenia e dell’Ungheria nel primo gruppo di paesi ammessi ad avviare il processo di adesione all’Unione europea rappresenta senz’altro un fattore favorevole a questo tipo di evoluzione, dall’altro i tragici eventi verificatisi negli ultimi anni nelle Repubbliche della ex Jugoslavia e la generale instabilità politica ed economica in tutta l’area dei Balcani rendono incerte (e sicuramente dilatate nel tempo) le pro- 226 RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ spettive, sovente indicate, di un ruolo guida dell’Italia nel processo di integrazione economica dell’insieme dei paesi dell’Europa sud-orientale con l’Unione europea. In ogni caso, sia per le prospettive di breve e medio periodo di una crescente integrazione con un numero limitato di paesi, sia per quelle di lungo periodo di una integrazione con l’Europa sud-orientale nel suo insieme, appare centrale ancora un volta l’evoluzione delle reti infrastrutturali, e in particolare la realizzazione di un forte asse di collegamento in direzione Ovest-Est a sud delle Alpi, lungo la direttrice Lione-Torino-Milano-Venezia-TriesteLjubljana e oltre, in funzione complementare rispetto agli assi che si vanno consolidando a nord delle Alpi facendo capo a Vienna, a Monaco e a Berlino. IL RUOLO DELL’ITALIA NELLE POLITICHE TERRITORIALI COMUNITARIE Una ulteriore opportunità che può essere infine ricordata riguarda aspetti di natura istituzionale, ed è rappresentata dalla possibilità per l’Italia di svolgere un ruolo più attivo rispetto al passato nella messa a punto degli indirizzi e degli orientamenti delle politiche territoriali comunitarie, per esempio nell’ambito del processo di elaborazione, da parte del Comitato per lo sviluppo spaziale dell’Unione europea, dello “Schema di sviluppo dello spazio europeo” (SSSE), documento contenente gli scenari evolutivi dell’organizzazione del territorio europeo e le linee guida per le politiche comunitarie in grado di influenzarli. Si tratta in realtà di una opportunità che non riguarda soltanto l’Italia settentrionale, ma che coinvolge i rappresentanti italiani nelle sedi comunitarie, presupponendo che essi si facciano portatori di posizioni chiare, univoche ed innovative in tema di idee e indirizzi per lo sviluppo urbano e territoriale europeo. Va d’altra parte sottolineato che questa condizione potrebbe realizzarsi a partire dal riconoscimento e dalla valorizzazione di alcune esperienze significative riscontrabili nell’ambito del nostro sistema urbano, molte delle quali, come si è ricordato, si riferiscono a realtà dell’Italia settentrionale: tali esperienze potrebbero essere portate nelle sedi istituzionali comunitarie, da un lato come modelli eventualmente riproponibili in altri contesti europei (o almeno in paesi dell’Europa meridionale), dall’altro come un nucleo intorno al quale costruire una posizione chiara ed autorevole dell’Italia nell’ambito nei processi di elaborazione ed attuazione delle politiche territoriali comunitarie. 227 RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ Fig. 1 – Le configurazioni territoriali del sistema urbano europeo Fonte: Dematteis, 1996 228 RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ Fig. 2 – L’immagine di sintesi del territorio europeo secondo lo studio Datar-Reclus Fonte; Brunet, 1989 229 RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ Fig. 3 – La popolazione urbana in Italia Fonte: Lanza Dematteis C., 1998, “Popolazione e città”, in Gregoli F., Lanza Dematteis C., Nano F. L’Italia nell’Europa, Milano, Bompiani per la scuola, pp. 223. 230 RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ Fig. 4 – La dotazione complessiva di funzioni internazionali nei sistemi urbani locali Fonte: Bonavero, 1997, p. 255 231 RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ Fig. 5 – L’articolazione complessiva delle funzioni internazionali nel sistema urbano italiano Fonte: Bonavero, 1997, p. 282 232 RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ Fig. 6 – Distribuzione degli scostamenti (residui) fra dotazione effettiva e dotazione teorica di funzioni internazionali Fonte: Bonavero, 1997, p. 260 233 RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ BIBLIOGRAFIA AAVV (1998), Diamant alpin. Genève, Lyon, Torino, Torino, Edizioni EDA. Bolocan M.G., Salone C. (1996), “Approcci strategici alla prova. La specificità di alcune recenti esperienze italiane”, Urbanistica, n. 106, pp. 78-91. Bonavero P. 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Bonavero (a cura di), Il sistema urbano italiano nello spazio unificato europeo, Bologna, Il Mulino, pp. 67-117. 234 IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA Rosella Barberis∗ SOMMARIO – L’ECONOMIA SETTENTRIONALE: UN SISTEMA A FORTE VOCAZIONE ESPORTATIVA – LA DINAMICA DELLE ESPORTAZIONI: UNA CRESCITA RILEVANTE MA DIFFERENZIATA PER REGIONI – L’ORIENTAMENTO GEOGRAFICO DELLE ESPORTAZIONI – BIBLIOGRAFIA SOMMARIO La presenza nell’Italia settentrionale delle regioni a maggior sviluppo economico comporta che, anche sul versante dell’internazionalizzazione, quest’area concorra in misura determinante sia alla formazione dei flussi di interscambio nazionale con il resto del mondo, sia all’attivazione di una rilevante quota degli investimenti diretti in entrata e in uscita dall’Italia. Diversificazione produttiva e buona capacità di adattamento ai cambiamenti sui mercati hanno favorito il processo di internazionalizzazione dell’area, con la partecipazione non solo delle imprese di grandi o medio-grandi dimensioni, ma anche di numerose piccole e medie aziende. Nel corso degli ultimi anni però, mentre le regioni del Nord Est continuano a far registrare risultati in crescita, compaiono segnali di perdita di competitività nel Nord Ovest. Le due velocità di marcia che sono emerse rendono sempre più difficile parlare di un’unica macroarea, ma piuttosto di due contesti: l’uno, l’Est, che è stato capace di imprimere una continuità espansiva alle proprie esportazioni, l’altro, l’Ovest, afflitto dagli effetti inerziali della crisi del modello produttivo della grande impresa e dalla perdita di competitività specialmente nei settori ad alta tecnologia. La valutazione delle performance del Nord Ovest probabilmente, però, non è così negativa come può apparire dall’analisi dei dati del solo commercio estero. Infatti in quest’area, più che nel resto del Nord Italia, il processo di internazionalizzazione avviene in misura crescente con l’apertura delle imprese all’estero attraverso investimenti diretti. La presenza sempre più pervasiva di imprese deterritorializzate accanto all’interrogativo su come evolverà la competitività sui mercati internazionali delle imprese del Nord, ed in particolare del Nord Ovest, pone l’interrogativo di quanto gli investimenti diretti e le esportazioni dell’area siano complementari tra loro e quanto invece gli investimenti diretti siano sostitutivi delle esportazioni. Anche per quanto concerne il Nord Est, in prospettiva, si presentano luci ed ombre. Se è vero che nel recente passato quest’area ha dimostrato buone capacità competitive, la sua specializzazione produttiva concentrata su prodotti tradizionali la pone in una posizione alquanto critica ed un segnale proviene dalle crisi in alcuni distretti che stanno emergendo in questi ultimi tempi. Le produzioni del Nord Est, infatti, non potranno più trarre vantaggi, come in passato, da svalutazioni competitive e dovranno confrontarsi con una concorrenza crescente proveniente dai paesi in via di transizione e dai Pvs. In conclusione, dunque, possiamo dire che l’Italia settentrionale si colloca in una posizione di primo piano nel contesto europeo e internazionale per quanto concerne gli scambi commerciali grazie all’impulso che questi hanno avuto nel corso degli ultimi decenni. Questo suo ruolo, però, rischia un ridimensionamento anche piuttosto rilevante per la progressiva perdita di ∗ Cesdi srl, Torino 235 IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA competitività nell’export dei prodotti ad alta tecnologia ed una focalizzazione, invece, su settori tradizionali in controtendenza rispetto a quanto avviene negli altri paesi industrializzati. L’ECONOMIA SETTENTRIONALE: UN SISTEMA A FORTE VOCAZIONE ESPORTATIVA Alcuni dati di quadro ci permettono, da un lato, di misurare l’importanza del commercio estero nell’economia delle regioni settentrionali e guardare al loro posizionamento nel contesto internazionale per certi versi più simile a quello delle grandi economie europee che non al resto dell’Italia; dall’altro, di cogliere il peso delle conseguenze (proprio per la rilevanza degli scambi internazionali sull’equilibrio economico di queste regioni) che possono derivare dai problemi che negli ultimi tempi affliggono le potenzialità esportative dell’area in esame. IL PESO DEL COMMERCIO ESTERO NEL CONTESTO NAZIONALE … … E INTERNAZIONALE È noto come le esportazioni italiane siano fortemente concentrate nelle otto regioni settentrionali del paese. Il Nord Italia, con un export nel 1997 pari 300.904 miliardi di lire, concorre infatti alla formazione del 74,2% dei flussi di merci in uscita dall’Italia, ed esprime parallelamente una elevata domanda di beni di importazione che, sempre nello stesso anno, ammonta a 250.409 miliardi di lire pari al 70,6% di quella nazionale. I dati più recenti indicano che, nel 1998, l’export è ulteriormente cresciuto a 310.123 miliardi di lire, con un trend di poco inferiore alla media nazionale che ha portato il peso dell’area in esame al 73,9%. Per cogliere le dimensioni del peso dell’area non solo nel contesto italiano, ma anche internazionale è sufficiente ricordare come il livello delle esportazioni, sia pari a oltre un terzo (36,7%) di quello dell’intera Germania e quasi i due terzi (65,1%) di quello della Francia, mentre è simile o anche superiore a quello di paesi come Olanda e Belgio-Lussemburgo, in Europa, o a quelli di Canada e Hong Kong. Queste performance fanno assumere al Nord Italia un ruolo decisamente rilevante nel contesto del mercato Unico europeo: le otto regioni dell’Italia settentrionale concorrono da sole alla formazione dell’8% delle esportazioni intra-Ue dell’intera Unione Europea e alla formazione del 10,6% di quelle extra-Ue. Per completezza va ricordato che anche per quanto concerne l’interscambio di servizi alle imprese1 il Settentrione assume un ruolo di notevole rilevanza. Con un export, nel 1997, di 8.537 miliardi di lire ed un import di 11.462 miliardi il Nord attiva più dei tre quarti dei flussi nazionali sia in entrata che in uscita. Più precisamente il Nord Ovest contribuisce per il 61,7% all’esportazione nazionale di servizi professionali e, parallelamente, attiva il 64,1% della domanda di servizi rivolta all’estero; a sua volta il Nord Est concorre per l’11,1% alla formazione dell’export di settore e al 14,0% dell’import. 1 I dati sui servizi alle imprese sono di fonte Ufficio Italiano Cambi e comprendono servizi pubblicitari, informatici, tecnologici, legali, di consulenza fiscale e contabile, ricerche di mercato, spese di rappresentanza e altri servizi per le imprese. In particolare nei servizi tecnologici sono compresi: brevetti, invenzioni, know-how, marchi di fabbrica, assistenza tecnica, studi tecnici ed engineering, formazione. 236 IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA La Lombardia, regione ad alta vocazione per le attività di servizi e in particolare dei servizi professionali per le imprese, da sola concorre alla formazione del 44,9% del fatturato del settore realizzato all’estero a livello nazionale. Segue il Piemonte con un 13,5%, mentre più distanziate si pongono le regioni nordorientali (Veneto 5,4% ed Emilia Romagna 4,5%). La posizione del Nord Ovest, e in particolare della regione Lombardia, nell’internazionalizzazione dei servizi avanzati si rafforza ulteriormente nel 1998. IL GRADO DI APERTURA DELL’ECONOMIA SETTENTRIONALE Il valore complessivo dei flussi di beni da e verso l’estero originati dalle regioni settentrionali già da solo esprime il rilievo del mercato internazionale per l’economia di quest’area, ma il confronto con alcuni parametri economici mette in ulteriore evidenza questa importanza. Per ogni occupato nell’industria in senso stretto e nell’agricoltura nel 1998 sono stati esportati beni per un ammontare pari a 83,2 milioni di lire nel Nord Ovest e a 81,4 milioni nel Nord Est quando, nello stesso periodo, i valori per il Centro ed il Mezzogiorno sono rispettivamente di 64,0 e 29,7 milioni di lire. Anche il confronto del flusso delle esportazioni con il valore della produzione realizzata nel Nord Italia esprime un elevato grado di internazionalizzazione dell’area che pone il Settentrione italiano ai massimi livelli europei. Mentre l’Italia nel suo complesso esprime un grado di apertura inferiore a quello degli altri maggiori paesi europei, il Nord del paese si pone ai loro livelli, se non a livelli superiori: i dati nazionali di fonte Eurostat valutano, per il 1997, la quota dell’export sul Pil pari a 26,7% per la Francia, 26,6% per la Germania, 28,4% per il Regno Unito e 24,7% per l’Italia. La stessa fonte non fornisce i dati disaggregati a livello regionale, ma guardando all’ultimo dato disponibile di fonte Istat-Tagliacarne (1995) risulta che le esportazioni del Nord Italia rappresentano il 31,7% del Pil dell’area (con differenze contenute tra Ovest 32,3% ed Est 30,7%) a fronte di un 12,2% delle restanti regioni (per quell’anno il valore medio per l’Italia è 22,8%). Dobbiamo ancora osservare che l’apertura del sistema produttivo nel Nord non solo è molto elevata, ma è anche in costante crescita; infatti, l’incidenza dell’export sul Pil nell’arco di un decennio è cresciuta di otto punti percentuali, passando dal 23,4% del 1985 al 31,7% del 1995. L’attività sui mercati internazionali non è circoscritta solo a imprese di una certa dimensione, ma è ampiamente diffusa in tutto il tessuto produttivo: oltre il 70% delle aziende settentrionali è presente sui mercati esteri (nel Nord Ovest il 76% delle imprese, nel Nord Est il 73%) e la quota media di fatturato esportato non è affatto trascurabile attestandosi attorno al 40%. IL CONTENUTO DELLE ESPORTAZIONI: UNA FORTE DIVERSIFICAZIONE Le performance sui mercati internazionali derivano dalla notevole diversificazione settoriale dell’export del Nord Italia: sono presenti in misura significativa praticamente tutte le tipologie di prodotti, ma in particolare sono le produzioni a maggior contenuto tecnologico quelle che si collocano nelle prime posizioni. 237 IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA Piemonte e Lombardia da sole coprono oltre la metà dell’export di prodotti high tech2 (rispettivamente 20,4% e 32,3% del valore nazionale) e una quota quasi simile (46,4%) dell’export di prodotti standard ovvero di macchinario industriale e agricolo, di altri mezzi di trasporto e di alcuni prodotti della chimica. Nel complesso, le regioni settentrionali concorrono per l’80-90% alla formazione dell’export nazionale della meccanica strumentale, macchine per ufficio, computer e materiale elettronico, prodotti della petrolchimica e carbochimica, materiale e forniture elettriche, autoveicoli e loro parti, prodotti in plastica e gomma, carta, cartotecnica e prodotti dell’editoria. IMPORT-EXPORT: UN INTERSCAMBIO A SALDO POSITIVO La concentrazione nelle otto regioni del Nord Italia di larga parte dell’industria manifatturiera nazionale comporta non solo consistenti flussi di esportazioni, ma anche una elevata domanda di beni di importazione. Nonostante ciò la bilancia commerciale del Settentrione, a partire dal 1992, ha sempre presentato un saldo positivo e, a partire dal 1993, in grado di coprire il deficit presentato dalle altre regioni. Anche nell’ultimo periodo (1996 e 1997), quando le altre regioni hanno iniziato a presentare saldi positivi, il contributo del Settentrione è rimasto comunque determinante. Nel 1997 la bilancia commerciale aggregata delle otto regioni del Nord, con un saldo positivo di 50,5 mila miliardi, ha concorso per il 98,5% alla formazione della bilancia commerciale nazionale. È in particolare il Nord Est a presentare un surplus più consistente, grazie al contributo positivo di tutte le regioni che lo compongono; invece nel Nord Ovest solo Piemonte e Valle d’Aosta sono regioni a saldo positivo, mentre Lombardia e Liguria presentano saldi negativi. LA DINAMICA DELLE ESPORTAZIONI: UNA CRESCITA RILEVANTE MA DIFFERENZIATA PER REGIONI Ciclicità della domanda interna e opportunità offerte dai mercati esteri, comprese la creazione del mercato unico e la svalutazione della lira, hanno favorito una costante crescita di flussi di prodotti italiani verso mercati esteri. Anche le imprese del Settentrione sempre più frequentemente hanno trovato sui mercati esteri sbocchi alternativi al mercato interno. IL DECOLLO DEL NORD EST E IL RALLENTAMENTO DEL NORD OVEST L’export delle otto regioni nel corso degli anni Novanta (1990-98) è cresciuto costantemente ad un tasso medio del 9,4% (in linea con la crescita dell’export nazionale) grazie in particolare ai significativi incrementi registrati negli anni immediatamente successivi alla svalutazione della lira. Non tutte le regioni, però, hanno contribuito in egual misura alla dinamica esportativa. Il ruolo trainante è assunto dalle regioni del Nord Est: la loro maggior dinamicità ha fatto passare la loro quota sull’export nazionale dal 27,5% dell’inizio anni Novanta al 31,1% nel 1998. Al contrario il Nord Ovest, pur restando il principale attivatore dei flussi esportativi, ha fatto regi2 La fonte di riferimento (Prometeia) inserisce fra i prodotti ad alta tecnologia l’auto e i veicoli industriali con una conseguente “sopravvalutazione” del livello di eccellenza tecnologica. Questo, comunque, non modifica sostanzialmente i dati di confronto come il peso di una regione sul totale nazionale. 238 IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA strare un trend più modesto che ha portato il suo contributo all’export nazionale dal 46,9% del 1990 al 42,8% nel 1998. Anche i dati più recenti, dunque, confermano le diverse intensità di marcia presenti nella macroarea settentrionale: alla crescita delle esportazioni nazionali (+3,5% rispetto al 1998) hanno ampiamente contribuito le regioni nordorientali (+6,0%), mentre il Nord Ovest ha dato un apporto decisamente contenuto (+1,0%) che si traduce nel caso della Liguria in un vero e proprio crollo (-16,1%). La diversa dinamica rilevata nelle due componenti territoriali del Settentrione è un fenomeno che riguarda non solo l’andamento esportativo, ma anche altri indicatori economici tant’è che il Censis (1997) propone una nuova lettura longitudinale (Est-Ovest) dei fenomeni socio-economici, in contrapposizione a quella latitudinale (Nord-Sud): “...In termini dinamici la frattura tra l’area centro-settentrionale e il Mezzogiorno cresce, ma dietro questi grandi numeri si celano tanto una sensibile dinamicità socio-economica del Mezzogiorno, quanto un rallentamento dell’area nordoccidentale del Paese...” (si veda il saggio introduttivo). E in particolare per quanto riguarda il grado di apertura dell’economia (percentuale export e import sul valore aggiunto prodotto) fa notare che “...un’analisi longitudinale mostra che nel 1981 la parte Ovest del Paese aveva un grado di apertura dell’economia pari quasi al doppio dell’Est del Paese (45,8 contro 23,4%). Nel 1995 il gap tra le due aree non solo è stato colmato, ma l’Est sopravanza l’Ovest di quasi il 10% (43,9 contro 40,0%). Va inoltre sottolineato che l’Est raggiunge questo risultato con il concorso determinante della sua area meridionale...”. IL NORD EST: UN “FATTORE COMPETITIVITÀ” POSITIVO Se guardiamo in dettaglio l’evoluzione dell’export degli ultimi anni emergono le indicazioni che confermano la tendenza ad una differenziazione progressiva delle due aree che compongono il Nord Italia: mentre il Nord Est deve i suoi successi prevalentemente ad un “fattore competitività” positivo, il Nord Ovest presenta un “fattore competitività” negativo3. Il Nord Est continua a presentare elevate performance, grazie ad una ormai buona diversificazione settoriale e geografica dell’export che lo pone al riparo da possibili effetti di crisi settoriale, ma il successo di queste regioni è dovuto principalmente ad un “effetto competitività” piuttosto che ad un “effetto struttura” ovvero alle caratteristiche della loro specializzazione settoriale. Infatti, nel 1997, le esportazioni italiane sono risultate relativamente poco dinamiche proprio in alcuni principali punti di forza della struttura produttiva di queste regioni: abbigliamento, agroalimentare, mezzi di trasporto, minerali e prodotti non metallici (Veneto e Emilia Romagna), cuoio e calzature e carta (Veneto). Per l’Emilia Romagna, inoltre, è risultato anche negativo l’effetto della specializzazione geografica, perché le aree nelle quali le sue esportazioni hanno quote più elevate (Unione Europea ed Estremo Oriente) tendono a coincidere con quelle verso le quali la crescita delle esportazioni italiane è stata relativamente più lenta. 3 Ice, Rapporto sul commercio estero, 1997. Per indagare sulle determinanti dei differenziali dei tassi di crescita dell’export regionale tra il 1996 e il 1997, l’ICE ha compiuto un’analisi con la tecnica shift&share. Tale tecnica consente di scorporare l’effetto “struttura” dall’effetto “competitività”. Il primo è positivo quando la regione è specializzata in quei settori e aree geografiche che, a livello nazionale, crescono più della media; l’effetto competitività è positivo quando una regione, data la composizione settoriale e geografica del suo export, tende a crescere più della media nei singoli settori/mercati. 239 IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA IL NORD OVESTE: UN “EFFETTO COMPETITIVITÀ NEGATIVO” MA UN “EFFETTO STRUTTURA POSITIVO” UNA PROGRESSIVA REGRESSIONE DEL LIVELLO DI SPECIALIZZAZIONE: SEMPRE MENO HIGHTECH NELL’EXPORT Nel Nord Ovest, e in particolare nelle regioni più grandi Piemonte e Lombardia, le esportazioni sono cresciute più lentamente della media italiana per un “effetto competitività” negativo (l’effetto struttura derivante dalla composizione merceologica dell’export è invece positivo) e la loro quota, pur rappresentando ancora più del 40% dell’intero export italiano, negli ultimi cinque anni si è ridotta di 3,6 punti percentuali. In queste due regioni, esportatrici di beni di investimento, si registrano maggiori difficoltà non solo nel comparto della meccanica tradizionale, ma specialmente nei comparti a più alta tecnologia (aeronautica, elettronica, macchine per ufficio, autoveicoli). Questo è conseguenza di una specializzazione produttiva focalizzata prevalentemente su prodotti tradizionali che ha comportato, in genere, una maggior attenzione alla competitività sul prezzo piuttosto che alla ricerca di innovazioni tecnologiche. Questi comportamenti aziendali hanno provocato, nel periodo in cui la quota dei prodotti high-tech sugli scambi mondiali saliva dal 15 al 30%, la contrazione dal 3,4 al 2,7% dell’incidenza di prodotti italiani ad alta tecnologia sulle esportazioni mondiali ed oggi rende la nostra economia assai vulnerabile di fronte ai ribassi praticati dagli esportatori del Sud-Est asiatico. Studi recenti4 mettono in rilievo come, rispetto agli altri paesi più industrializzati, la specializzazione italiana nell’esportazione poggi i suoi punti di forza su tessili, calzature, pelli e cuoio, legno e prodotti in legno, prodotti minerali non metalliferi. Invece, sono sottospecializzati i comparti aerospaziale, autoveicoli, comunicazioni, farmaceutico e chimico e sono ben lontani dal livello medio di altri paesi come Germania, Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Giappone. In questi comparti vi è assenza di evoluzione nel periodo che va dall’inizio degli anni Ottanta alla prima parte degli anni Novanta e per alcuni, anzi, si è registrata una regressione nel livello di specializzazione (chimica, comunicazioni, autoveicoli, computer, macchine per ufficio) (si veda la scheda sull’industria). A questo proposito basta ricordare che le esportazioni di prodotti ad alta tecnologia incidono sull’export nazionale complessivo solo per il 14,7%, quota molto preoccupante se confrontata con quella di altri paesi (Germania 22,5%, Francia 27,6%, Regno Unito 36,8%, Stati Uniti 40,7%, Giappone 31,5%). Inoltre, la loro dinamica negli ultimi quindici anni è stata molto contenuta passando soltanto dall’11,4% al 14,7% mentre in altri paesi, che all’inizio erano su posizioni inferiori o pari all’Italia, il trend di sviluppo è stato molto più elevato, come ad esempio Spagna (dall’8,8% al 14,6%) e Svezia (dall’11,1% al 22,6%). Poiché larga parte di queste produzioni ad alta tecnologia sono localizzate nelle regioni del Nord Ovest, sono proprio queste regioni quelle maggiormente penalizzate dalla disattenzione della politica economica verso l’innovazione tecnologica e ne deriva che i flussi esportativi provenienti da quest’area siano quelli più sensibili alla perdita di competitività dei prodotti italiani e che risentono in maggior misura della concorrenza di produzioni offerte da paesi favoriti da differenziali di costo. 4 A. Forti in VII Rapporto Cer-Irs, 1997. Analisi condotta sulla base dei dati Ocse per il periodo 1980-1992. 240 IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA LE SPIEGAZIONI DELLE DEBOLI PEERFORMANCE ESPORTATIVE DEL NORD OVEST Sulle deboli performance esportative del Nord Ovest giocano però anche altri fattori conseguenti sia a criticità dell’area, sia a scelte strategiche delle imprese. Tra i primi vanno ricordati la chiusura o il ridimensionamento, avvenuti negli ultimi dieci anni, di alcune grandi imprese, come ad esempio Olivetti, Montedison, Finmeccanica, senza che si siano formati nel contempo nuovi grandi gruppi. La perdita di potenzialità produttive, accompagnata da una crisi del modello produttivo della grande impresa, ha frenato specialmente in Piemonte e Liguria lo sviluppo di numerose realtà industriali, con conseguenti riflessi negativi sugli investimenti e sui risultati esportativi. Un altro fattore è, invece, connesso alle strategie di internazionalizzazione interne alle aziende. Tale processo in regioni come Lombardia e Piemonte non è più solo legato agli scambi commerciali, ma a cooperazioni transnazionali e alla apertura all’estero delle imprese con una conseguente deterritorializzazione dei processi produttivi. Tale aspetto – che in quanto relativamente nuovo, almeno per il nostro Paese, tende a sfuggire alle analisi più classiche – non viene rilevato dalle statistiche sul commercio estero, ma ha tuttavia riflessi sulla contabilizzazione dei flussi di beni in uscita ed in entrata dall’estero. La perdita di competitività del Nord Ovest, quale emerge dalla lettura dei dati sulle esportazioni, va pertanto analizzata in modo più articolato, con la considerazione anche di altre variabili. Certamente esiste un problema di scarsa innovazione tecnologica e di perdita di competitività nei settori high-tech, acuito dalla crisi del modello industriale su cui si basava il sistema produttivo dell’area, ma è in atto anche una trasformazione del modo di operare con l’estero. Sorge a questo punto l’interrogativo su come evolverà nel prossimo futuro il processo di internazionalizzazione di queste regioni e come una eventuale dinamica espansiva delle partnership e degli investimenti diretti condizionerà l’evoluzione dei flussi esportativi, creando condizioni di complementarietà e quindi stimolando ulteriori sviluppi dell’export oppure andando a sostiture le esportazioni. Ci sono dunque ombre sullo sviluppo futuro dell’area, ma anche qualche luce che merita di essere approfondita. L’ORIENTAMENTO GEOGRAFICO DELLE ESPORTAZIONI I partner commerciali degli operatori del Nord Italia sono localizzati in prevalenza nei paesi UE, come avviene d’altronde per il resto dell’Italia e degli altri Paesi membri dell’Unione Europea. Senza dubbio la vicinanza geografica, le modalità operative simili a quelle domestiche, nonché la realizzazione del mercato unico hanno favorito la ricerca di opportunità in primo luogo su questi mercati, opportunità che sono state colte in particolare nel commercio intra-aziendale. Infatti l’integrazione nel mercato unico sembra aver incoraggiato lo scambio di prodotti differenziati più che il consolidamento di vantaggi comparati (Rondi e Sembenelli, 1998). NON SOLO IL MERCATO UNICO EUROPEO La propensione a sviluppare il commercio intra-Ue, seppure elevata, è comunque simile a quanto si registra altrove: l’export intra-Ue del Nord Italia rappresenta il 55,2% delle esportazioni complessive dell’area (54,6% è il dato 241 IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA nazionale), quando tale quota è pari a 55,5% per la Germania, 62,9% per la Francia, 61% per il Regno Unito. Tra l’altro, va osservato che l’orientamento verso il mercato unico europeo tende a ridimensionarsi a favore di altre aree quali l’Est Europa o l’America Latina. Infatti la quota export indirizzata verso il mercato Ue è passata dal 57,5% del 1994 al 55,2% del 1997, tendenza che sembra proseguire anche nel 1998. Gli altri mercati di sbocco verso cui si indirizzano con maggior frequenza le esportazioni del Nord Italia sono, in primo luogo, l’Europa Centrale e Orientale, dove viene realizzato l’8,7% dell’export del Settentrione, seguiti dal Nord America (8%) e dai Paesi Asiatici (7,2%). La flessione registrata sui mercati asiatici, e anche negli altri paesi industrializzati extra Ue, è stata recuperata con incrementi di export superiori alla media verso i Paesi in transizione (+13,3% tra il 1996 ed il 1997), verso i Paesi Africani (+14,5%) e gli Usa (+12,2%), tendenza che si conferma anche nel corso del 1998. Questo riorientamento delle direttrici dell’export del Settentrione è un segnale della capacità di queste regioni di cogliere le opportunità sui mercati che stanno assumendo un rilievo crescente nello scenario internazionale. IL DIVERSO ORIENTAMENTO GEOGRAFICO DEL NORD OVEST E DEL NORD EST L’analisi degli indici di specializzazione geografica delle esportazioni del Settentrione mette però in evidenza che anche sul versante dell’orientamento geografico dell’export esistono differenze tra la parte occidentale e quella orientale dell’area. La diversa specializzazione produttiva che caratterizza le due aree (prevalenza di beni strumentali e d’investimento a ovest, di prodotti tradizionali e di beni di consumo ad est) e, in parte, anche la collocazione geografica originano flussi che si indirizzano verso mercati diversi. Le regioni occidentali presentano una propensione più elevata del Nord Est, e dell’Italia in generale, a sviluppare rapporti commerciali con le aree tecnologicamente più evolute, paesi industrializzati europei ed extraeuropei, e con il Sud America. Le regioni del Nord Est, invece, denotano una elevata propensione ad operare sui mercati dell’Europa Centrale e Orientale. L’indice di specializzazione geografica verso questi paesi è pari a 125. Se guardiamo alle tendenze più recenti possiamo però osservare che l’interesse per i paesi in via di transizione è presente in tutto il Settentrione: infatti la dinamica dell’ultimo anno è sostenuta sia nel Nord Est (+12,6%) che nel Nord Ovest (+14,0%, inferiore solo all’incremento dell’export verso il Sud America pari al 16,5%). Sempre nel Nord Est sta emergendo una tendenza ad incrementare i rapporti commerciali anche con i paesi africani a ritmi decisamente sostenuti e superiori alla media nazionale (nell’ultimo anno le esportazioni verso quest’area sono cresciute del 25,8% a fronte di un incremento dell’11,0% a livello italiano). Se è vero che i livelli degli scambi con quest’area sono al momento ancora piuttosto contenuti, la dinamica recente indica una crescita di importanza di questi mercati per gli operatori del Nord Est. 242 IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA Anche sul versante degli sbocchi di mercato ricercati dagli operatori in ambito extra UE e, più in generale extra Europa, sembrano accentuarsi alcune divergenze fra le due aree del Settentrione: la parte occidentale tende ad orientarsi verso il continente americano, mentre quella orientale pare guardare con maggior interesse al bacino del Mediterraneo e più in generale al continente africano. Export dell'Italia Settentrionale Anni 1990-1997 500 Export 1997 in miliardi di lire It. Settentrionale 300.904 Italia 405.732 400 300 200 100 0 % Sett. su Italia 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 75,7 75,6 75,9 75,4 75,4 75,5 75,2 74,2 fonte: elaborazioni Cesdi su dati Istat Export delle regioni settentrionali Anni 1990-1997 350 300 250 200 Lombardia Veneto Piemonte Emilia Romagna Friuli V.G. Trentino A.A. Liguria Valle d'Aosta 150 100 50 0 1990 1991 1992 1993 1994 fonte: elaborazioni Cesdi su dati Istat 243 1995 1996 1997 IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA Incidenza dell'export sul PIL 31,7% 26,0% 23,9% 23,4% 21,7% 21,2% 20,0% 20,2% 12,5% 8,8% 1985 8,7% 1988 1990 Settentrione 9,3% 8,4% 1991 12,2% 10,2% 8,0% 1992 1993 1994 1995 Altre regioni Fonte: ISTAT; Ist. Tagliacarne per Pil 1995 Tab. 1 – L’interscambio commerciale dell’Italia del Nord nel 1997 (miliardi di lire) EXPORT % su IMPORT % su SALDO % su Saldo normaItalia Italia Italia lizzato Settentrione 300.904 74,2 250.409 70,6 50.495 98,5 9,16 Nord Ovest Piemonte Valle d’Aosta Lombardia Liguria 177.732 51.781 466 119.038 6.447 43,8 12,8 0,1 29,3 1,6 174.325 35.064 369 131.239 7.652 49,2 9,9 0,1 37,0 2,2 3.407 16.716 97 -12.201 -1.205 6,6 32,6 0,2 -23,8 -2,4 0,97 19,25 11,60 -4,88 -8,55 Nord Est Trentino A.A. Veneto Friuli Venezia G. Emilia Romagna 123.172 6.880 56.190 13.381 30,4 1,7 13,8 3,3 76.084 5.720 38.849 6.201 21,5 1,6 11,0 1,7 47.088 1.160 17.341 7.180 91,8 2,3 33,8 14,0 23,63 9,20 18,25 36,67 46.721 11,5 25.313 7,1 21.408 41,7 29,72 Mezzogiorno e Centro 104.828 25,8 104.047 29,4 781 1,5 0,37 Italia 405.732 100,0 354.456 100,0 51.276 100,0 6,75 Fonte: ISTAT 244 IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA Tab. 2 – La dinamica delle esportazioni dell’Italia settentrionale (miliardi di lire) 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 Settentrione Nord Ovest Piemonte Valle d’Aosta Lombardia Liguria Nord Est Trentino A.A. Veneto Friuli Venezia G. Emilia Romagna Mezzogiorno, Centro Italia 1997 151.460 154.356 163.983 199.638 231.882 287.779 290.643 95.511 96.855 102.959 120.811 139.731 174.238 173.580 28.571 28.719 30.218 34.072 40.138 52.142 51.017 201 247 270 424 437 771 563 62.995 64.280 68.625 81.373 93.362 115.236 115.835 3.744 3.609 3.846 4.942 5.794 6.089 6.165 55.949 57.501 61.024 78.827 92.151 113.541 117.063 3.366 3.570 4.153 4.599 5.616 7.162 6.633 25.155 25.699 27.826 35.852 42.359 51.746 54.011 6.096 6.166 6.365 8.863 10.055 12.473 12.712 21.332 22.066 22.680 29.513 34.121 42.160 43.707 52.055 55.389 55.453 66.576 76.164 93.396 96.303 300.904 177.732 51.781 466 119.038 6.447 123.172 6.880 56.190 13.381 46.721 104.828 203.515 209.745 219.436 266.214 308.046 381.175 386.946 405.732 Tassi di variazione sull’anno precedente Settentrione Nord Ovest Nord Est Mezzogiorno, Centro Italia Fonte: ISTAT 1,9 1,4 2,8 6,4 6,2 6,3 6,1 0,1 21,7 17,3 29,2 20,1 16,2 15,7 16,9 14,4 24,1 24,7 23,2 22,6 1,0 -0,4 3,1 3,1 3,5 2,4 5,2 8,9 3,1 4,6 21,3 15,7 23,7 1,5 4,9 Tab. 3 – Grado di apertura sui mercati esteri dell’Italia settentrionale (miliardi di lire) Pil 1995 Export 1995 Export/Pil Export per Oc(%) cupato 1997 (1) Settentrione Nord Ovest Piemonte Valle d’Aosta Lombardia Liguria Nord Est Trentino A.A. Veneto Friuli Venezia G. Emilia Romagna Mezzogiorno e Centro Italia 908.995 539.541 143.662 4.421 335.156 56.302 369.454 32.615 151.635 41.151 144.053 763.651 287.779 174.238 52.142 771 115.236 6.089 113.541 7.162 51.746 12.473 42.160 93.396 31,7 32,3 36,3 17,4 34,4 10,8 30,7 22,0 34,1 30,3 29,3 12,2 80,4 82,8 78,8 46,6 86,8 58,6 77,2 63,1 76,6 85,2 78,4 42,2 1.672.646 381.175 22,8 65,2 (1) Occupati nell’agricoltura e nell’industria in senso stretto (esclusa l’edilizia) nel 1997 Fonte: elaborazioni su dati ISTAT e Istituto Tagliacarne 245 Tab. 4 – Le esportazioni dell’Italia settentrionale per settori nel 1997 Prodotti Minerali Minerali e Prodotti Prodotti Mezzi di agro ali- ferrosi e prodotti chimici metaltrasporto mentari non ferrosi non metalmeccanici lici Carta e stampa Prodotti in gomma e plastica Altri Totale 18.464 8.573 3.724 12 3.882 955 9.891 1.426 3.309 769 4.387 8.807 11.978 8.837 1.617 245 6.440 535 3.141 138 1.622 523 858 4.461 11.762 2.862 698 7 1.892 265 8.900 323 2.553 356 5.668 4.104 25.118 18.437 2.755 1 14.747 934 6.681 548 2.665 322 3.146 9.828 122.438 74.622 18.139 125 54.389 1.969 47.816 1.986 19.404 6.246 20.180 22.857 28.629 19.761 12.678 17 6.486 580 8.868 729 3.047 856 4.236 11.234 13.539 10.996 3.433 2 7.539 22 2.543 115 1.788 285 355 5.711 19.923 10.250 1.943 10 8.236 61 9.673 283 5.500 94 3.796 6.963 9.542 2.515 364 5 2.114 32 7.027 134 5.848 130 915 11.473 9.569 2.870 278 5 2.537 50 6.699 322 2.861 2.666 850 4.444 6.724 3.880 1.477 5 2.319 79 2.844 412 1.356 498 578 2.141 13.187 9.005 2.957 12 5.781 255 4.182 364 2.023 472 1.323 3.379 10.030 5.122 1.717 20 2.676 709 4.908 98 4.214 166 430 9.427 300.904 177.732 51.781 466 119.038 6.447 123.172 6.879 56.190 13.381 46.721 104.828 27.271 16.439 15.866 34.946 1457.295 39.863 19.250 26.886 21.015 14.013 8.865 16.566 19.457 405.732 4,0 5,0 2,6 3,9 1,6 7,2 8,3 10,4 5,4 40,7 42,0 38,8 9,5 11,1 7,2 4,5 6,2 2,1 6,6 5,8 7,9 3,2 1,4 5,7 3,2 1,6 5,4 2,2 2,2 2,3 4,4 5,1 3,4 3,3 2,9 4,0 100,0 100,0 100,0 4,1 3,9 8,6 35,8 9,8 4,7 6,6 5,2 3,5 2,2 4,1 4,8 100,0 Composizione percentuale Settentrione 6,1 Nord Ovest 4,8 Nord Est 8,0 Italia Fonte: Istat Legno e mobili in legno 6,7 IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA 246 Settentrione Nord Ovest Piemonte Valle d’Aosta Lombardia Liguria Nord Est Trentino A.A. Veneto Friuli Venezia G. Emilia Romagna Mezzogiorno, Centro Italia Tessile Abbiglia- Cuoio e mento e calzature maglieria Tab. 5 – Le esportazioni dell’Italia settentrionale per settori nel 1997 (Percentuali sul totale di settore nazionale) Prodotti Minerali Minerali e Prodotti Prodotti Mezzi di Tessile Abbiglia- Cuoio e agro ali- ferrosi e prodotti chimici metaltrasporto mento e calzature mentari non ferrosi non metalmeccanici maglieria lici Legno e mobili in legno Carta e stampa Prodotti in gomma e plastica Altri Totale 67,7 72,9 74,1 71,9 84,3 71,8 70,3 74,1 45,4 68,3 75,8 79,6 51,5 74,2 Nord Ovest Piemonte Valle d’Aosta Lombardia Liguria 31,4 13,7 0,0 14,2 3,5 53,8 9,8 1,5 39,2 3,3 18,0 4,4 0,0 11,9 1,7 52,8 7,9 0,0 42,2 2,7 51,4 12,5 0,1 37,4 1,4 49,6 31,8 0,0 16,3 1,5 57,1 17,8 0,0 39,2 0,1 38,1 7,2 0,0 30,6 0,2 12,0 1,7 0,0 10,1 0,2 20,5 2,0 0,0 18,1 0,4 43,8 16,7 0,1 26,2 0,9 54,4 17,8 0,1 34,9 1,5 26,3 8,8 0,1 13,8 3,6 43,8 12,8 0,1 29,3 1,6 Nord Est Trentino A.A. Veneto Friuli Venezia G. Emilia Romagna 36,3 5,2 12,1 2,8 16,1 19,1 0,8 9,9 3,2 5,2 56,1 2,0 16,1 2,2 35,7 19,1 1,6 7,6 0,9 9,0 32,9 1,4 13,4 4,3 13,9 22,2 1,8 7,6 2,1 10,6 13,2 0,6 9,3 1,5 1,8 36,0 1,1 20,5 0,3 14,1 33,4 0,6 27,8 0,6 4,4 47,8 2,3 20,4 19,0 6,1 32,1 4,6 15,3 5,6 6,5 25,2 2,2 12,2 2,8 8,0 25,2 0,5 21,7 0,9 2,2 30,4 1,7 13,8 3,3 11,5 Mezzogiorno, Centro 32,3 27,1 25,9 28,1 15,7 28,2 29,7 25,9 54,6 31,7 24,2 20,4 48,5 25,8 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Italia Fonte: elaborazioni su dati ISTAT IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA 247 Settentrione Tab. 6 – La specializzazione esportativa dell’Italia settentrionale per settori nel 1997 (Quota regionale su quota nazionale) Prodotti Minerali Minerali e Prodotti Prodotti Mezzi di Tessile Abbiglia- Cuoio e Legno e agro ali- ferrosi e prodotti chimici metaltrasporto mento e calzature mobili in mentari non ferrosi non metalmeccanici maglieria legno lici Carta e stampa Prodotti in gomma e plastica Altri Totale 0,91 0,98 1,00 0,97 1,14 0,97 0,95 1,00 0,61 0,92 1,02 1,07 0,70 1,00 Nord Ovest Piemonte Valle d’Aosta Lombardia Liguria 0,72 1,07 0,38 0,49 2,20 1,23 0,77 12,98 1,34 2,05 0,41 0,34 0,38 0,41 1,05 1,20 0,62 0,02 1,44 1,68 1,17 0,98 0,75 1,28 0,85 1,13 2,49 0,37 0,55 0,92 1,30 1,40 0,09 1,33 0,07 0,87 0,57 0,32 1,04 0,14 0,27 0,14 0,21 0,34 0,10 0,47 0,16 0,31 0,62 0,22 1,00 1,31 0,49 0,89 0,56 1,24 1,40 0,63 1,19 0,97 0,60 0,69 0,89 0,47 2,29 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 Nord Est Trentino A.A. Veneto Friuli Venezia G. Emilia Romagna 1,19 3,08 0,88 0,86 1,40 0,63 0,50 0,71 0,96 0,45 1,85 1,20 1,16 0,68 3,10 0,63 0,92 0,55 0,28 0,78 1,08 0,81 0,96 1,30 1,21 0,73 1,08 0,55 0,65 0,92 0,44 0,35 0,67 0,45 0,16 1,19 0,62 1,48 0,11 1,23 1,10 0,38 2,01 0,19 0,38 1,57 1,36 1,47 5,77 0,53 1,06 2,74 1,10 1,70 0,57 0,83 1,30 0,88 0,86 0,69 0,83 0,30 1,56 0,26 0,19 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 Mezzogiorno, Centro 1,25 1,05 1,00 1,09 0,61 1,09 1,15 1,00 2,11 1,23 0,93 0,79 1,88 1,00 Italia 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 Fonte: elaborazioni su dati Istat IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA 248 Settentrione Tab.7 – Orientamento geografico delle esportazioni nel 1997 valori in miliardi di lire UE EFTA Nord America Paesi in transiz. MO e Europa America Asia Africa Altri TOTALE 166.187 97.937 68.250 55.285 221.472 12.488 8.599 3.889 3.903 16.391 24.068 12.906 11.162 11.310 35.378 8.478 5.105 3.373 2.890 11.368 26.059 13.293 12.766 7.530 33.589 20.047 12.496 7.551 8.192 28.239 13.570 8.848 4.722 4.116 17.686 21.627 13.315 8.312 7.578 29.205 7.513 4.598 2.915 3.041 10.554 867 635 232 983 1.850 300.904 177.732 123.172 104.828 405.732 55,2 55,1 55,4 52,7 54,6 4,2 4,8 3,2 3,7 4,0 8,0 7,3 9,1 10,8 8,7 2,8 2,9 2,7 2,8 2,8 8,7 7,5 10,4 7,2 8,3 6,7 7,0 6,1 7,8 7,0 4,5 5,0 3,8 3,9 4,4 7,2 7,5 6,7 7,2 7,2 2,5 2,6 2,4 2,9 2,6 0,3 0,4 0,2 0,9 0,5 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 1,03 1,20 0,78 0,92 1,00 0,92 0,83 1,04 1,24 1,00 1,01 1,03 0,98 0,98 1,00 1,05 0,90 1,25 0,87 1,00 0,96 1,01 0,88 1,12 1,00 1,03 1,14 0,88 0,90 1,00 1,00 1,04 0,94 1,00 1,00 0,96 0,99 0,91 1,12 1,00 0,63 0,78 0,41 2,06 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 1,00 Composizione percentuale 249 Settentrione Nord Ovest Nord Est Mezzogiorno e Centro Italia Indici di specializzazione geografica Settentrione Nord Ovest Nord Est Mezzogiorno e Centro Italia Fonte: Istat 1,01 1,01 1,02 0,97 1,00 IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA Settentrione Nord Ovest Nord Est Mezzogiorno e Centro Italia Altri paesi industr. IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA BIBLIOGRAFIA Bramanti A., Senn L. (a cura di) (1992), La Padania, una regione italiana in Europa, Torino, Fondazione G. Agnelli. CENSIS (1997), 31° Rapporto sulla situazione economica del Paese. CENSIS (1998), 32° Rapporto sulla situazione economica del Paese. Eurostat (1997), Reprise des èchanges intra-UE en 1997, Newsletter Edicom. ICE (1997), Rapporto sul commercio estero. ICE (1997), Ufficio studi economici, Le esportazioni dei sistemi italiani di piccola e media impresa, Quaderno di ricerca n. 5 a cura di Viesti G. ICE (1997), Ufficio studi economici, Le aziende esportatrici italiane: evoluzione recente, Quaderno di ricerca n. 1 (a cura di Saladini M.). ISTAT, Annuario del commercio estero, anni vari. Mori A. e Rolli V. (1998), Investimenti diretti all’estero e commercio: complementi o sostituti, Banca d’Italia, Temi di discussione, ottobre. Prometeia Calcolo (1998), Scenari provinciali. Rondi L. e Sembenelli A. (1997), “Integrazione nell’Unione Europea: commercio internazionale e attività multinazionale”, in Economia e politica industriale n. 97. Rolfo S. (1998), L’industria italiana della meccanica strumentale di fronte alla globalizzazione: opportunità e limiti, in L’Industria n. 4, ottobre-dicembre. Tajoli L. (1997), “Il legame tra commercio internazionale e sviluppo economico: un’applicazione empirica al caso delle regioni italiane”, Atti del convegno La molteplicità dei modelli di sviluppo nell’Italia del Nord, Università degli studi di Parma, novembre. U.I.C., Bollettino statistico, numeri vari. 250 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO Ruggero Cominotti* SOMMARIO – LE COMPONENTI DELL’INTERNAZIONALIZZAZIONE – I FATTORI DETERMINANTI DELLE – IL RUOLO CRESCENTE DEGLI IDE NEI PAESI INDUSTRIALIZZATI – LA MULTINAZIONALIZZAZIONE IN ENTRATA E IN USCITA DALL’ITALIA – LA CONSISTENZA DEGLI IDE-IN E DEGLI IDE-OUT NELL’ITALIA SETTENTRIONALE – LA PROPENSIONE ALL’INVESTIMENTO ESTERO NELLE REGIONI ITALIANE – BIBLIOGRAFIA STRATEGIE DI MULTINAZIONALIZZAZIONE SOMMARIO In questa scheda si fa riferimento all’articolazione corrente dei processi di internazionalizzazione delle imprese: export (si veda la scheda sul commercio estero), investimenti diretti all’estero (IDE) e collaborative ventures. Inoltre, nei processi internazionalizzazione continuano a svolgere un ruolo significativo i tradizionali trasferimenti di tecnologia cross border attraverso la cessione/acquisizione di brevetti, licenze e di know-how. Infine assumono un rilievo crescente e rilevante i contratti di subfornitura industriale cross border. A livello mondiale nell’ultimo decennio si è capovolto il rapporto fra IDE e l’esportazione: a metà dei Novanta il fatturato delle filiali estere delle multinazionali supera del 30% il valore dell’export dai paesi industrializzati. Per l’Italia prevale ancora il valore dell’export che supera nettamente il valore del fatturato delle imprese estere partecipate da imprese italiane: 430 mila mld/lire per l’export contro 186 mila miliardi di fatturato all’estero da parte delle sussidiarie estere di multinazionali a base italiana (cfr. tab. 1 e tab. 2). Nello scenario mondiale degli IDE la posizione dell’Italia non si colloca a livello marginale, come insistentemente sottolinea l’informazione corrente; pur essendo inferiore alla quota italiana nell’interscambio commerciale mondiale. Sul fronte degli IDE in uscita, il ruolo del nostro paese è venuto crescendo a partire dagli anni Ottanta, per consolidarsi nel decennio successivo. Dai dati resi disponibili nel rapporto delle Nazioni Unite (1998), si deduce come il peso del paese in termini di stock di IDE in uscita sia aumentato nel tempo: tra il 1980 ed il 1990 l’incidenza sullo stock mondiale è passata dall’1,39% al 3,29%, stabilizzandosi poi attorno al 3,5% (1995–1997). Per quanto concerne l’entrata, si assiste ad una dinamica parallela per tutti gli anni ‘80: l’incidenza sullo stock mondiale sale dall’1,85% del 1980 al 3,29% del 1990, a sottolineare il sostanziale bilanciamento tra la consistenza cumulata degli IDE in uscita ed in entrata alla fine di quel decennio. Tuttavia negli anni novanta si manifestano nuove tendenze: nel 1995, l’incidenza degli IDE nel paese sullo stock mondiale scende infatti al 2,32%, con la perdita di un punto percentuale, confermata anche per il 1997 (quota del 2,27%). La dinamica comparata degli IDE in uscita e in entrata è confermata dall’analisi dei flussi, così come risulta dai dati presentati da Banca d’Italia (1998) (tabb. 3 e 4). Nel complesso, al di là delle oscillazioni congiunturali, gli anni Novanta indicano una ragguardevole crescita dei flussi in uscita e un * R&P, Ricerche e Progetti, Torino 251 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO andamento relativamente cedente dei flussi in entrata, che sembra chiamare in causa un rallentamento nel processo di integrazione internazionale del paese specificatamente dovuto al deterioramento della capacità di attrarre nuovi investimenti internazionali comparativamente alle altre aree dell’economia mondiale. Sono state considerate in questo scritto le componenti degli IDE in entrata e in uscita dall’Italia: per settore di attività industriale, per area geografica di origine e di destinazione, investimenti in nuove imprese e in acquisizioni di imprese private e di imprese a partecipazione pubblica. Nel complesso, l’occupazione nelle imprese a partecipazione estera operanti in l’Italia (1998) supera i 560 mila addetti, circa il 20% dell’occupazione industriale italiana (al netto delle microimprese sotto i 20 addetti). Tre quarti di questi investimenti sono localizzati nelle regioni del Nord Ovest (51%) e del Nord Est (24%). Negli IDE effettuati all’estero da parte di imprese italiane l’occupazione supera i 600 mila addetti. A seguito di questo processo di apertura internazionale in entrata e in uscita, il sistema delle imprese italiane è entrato fra i protagonisti dei processi di multinazionalizzazione, sia pure non nelle prime posizioni. LE COMPONENTI DELL’INTERNAZIONALIZZAZIONE La progressiva liberalizzazione degli scambi commerciali e della circolazione dei capitali e delle persone, la rapida evoluzione e diffusione dei servizi reali e finanziari alle imprese1, dalla logistica alle tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni2 hanno segnato l’avvio di quel nuovo stadio di evoluzione al quale correntemente si riferisce il concetto di globalizzazione. Le policies pubbliche operano sul versante della liberalizzazione dell’interscambio e della liberalizzazione dei movimenti dei capitali e delle persone, a volte tumultuosamente e spesso non linearmente, comunque nell’ambito di una consolidata tendenza nel lungo periodo. Le imprese produttrici di beni, di fonti di energia e di servizi hanno adottato strategie di internazionalizzazione, sotto la spinta di quel fattore endogeno che è l’innovazione tecnologica. Il costo crescente della ricerca di base, della ricerca applicata e dello sviluppo e l’elevato rischio di rapida obsolescenza delle tecnologie e dei prodotti innovativi costringono le imprese a vendere i risultati dell’innovazione nel “tempo più rapido possibile, nel mercato più ampio possibile”. Simmetricamente perdono peso le imprese che operano in nicchie locali di mercato, al riparo della competizione internazionale e a scarsa propensione di investimento nell’innovazione3. LE TRE VIE ALLA INTERNAZIONA- Lo sviluppo dell’internazionalizzazione delle imprese si snoda lungo tre percorsi: LIZZAZIONE 1 D’ora in poi BRSs, Business Related Services. D’ora in poi ICTs, Information Communication Technologies. 3 Tendenzialmente le imprese poco innovative e a mercato locale ricercano il supporto di politiche di scarsa apertura internazionale; la pressione raggiunge soglie elevate nelle aree in cui questo settore dell’economia è ancora esteso. 2 252 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO 1. l’interscambio commerciale (si veda a proposito la scheda sul commercio estero); 2. gli IDE in entrata e gli IDE in uscita4; 3. le collaboratives ventures: che comprendono le forme di cooperazione internazionale tra imprese [accordi non equity; in assenza di partecipazioni al capitale di rischio]: cooperazione tecnica e commerciale, programmi comuni di R&D, cessione e acquisizione di brevetti, licenze e know how, subfornitura cross border. La difesa e la ricerca di vantaggi proprietari può generare il passaggio dalle forme di collaboratives ventures e di subfornitura all’investimento diretto. I FATTORI DETERMINANTI DELLE STRATEGIE DI MULTINAZIONALIZZAZIONE Storicamente le strategie degli IDE sono state avviate dalle imprese nord americane ed europee per assicurarsi il controllo nel rifornimento di materie prime e di derrate alimentari, per le quali le imprese dei paesi industrializzati non potevano basarsi soltanto sull’offerta nazionale. Le politiche protezionistiche dei mercati nazionali hanno stimolato gli IDE; di fronte alle barriere di confine erette nei paesi produttori di auto in Europa negli anni Trenta, e non ancora del tutto smantellate, GM e Ford hanno reagito con gli IDE, attraverso acquisizioni e investimenti green field in Europa5. Nella seconda metà di questo secolo, in presenza della crescente liberalizzazione degli scambi e del sistema dei cambi fissi, durato quasi trent’anni, sono esplose le strategie di multinazionalizzazione delle imprese che operano in numerosi settori industriali e nella produzione dei servizi. Si può fare riferimento all’interazione di sette fattori determinanti che hanno concorso a generare questa tendenza: FATTORI E STRATEGIE DI MULTINAZIONALIZZAZIONE 1. strategie market seeking, alla ricerca di consolidamento ed espansione delle quote già acquisite attraverso la penetrazione commerciale; 2. strategie labour seeking, alla ricerca di disponibilità di risorse umane e di un conveniente rapporto costo/produttività del lavoro; 3. strategie rivolte alla estensione dei vantaggi proprietari, attraverso l’interiorizzazione di capacità tecnologiche, disponibilità di consulenza world experienced, di skills manageriali e di marketing più avanzati e/o complementari rispetto a quelli disponibili nel paese di origine; 4. strategie rivolte al superamento delle imperfezioni del mercato locale, dovute a barriere oligopolistiche e alle barriere di confine, erette dai governi su pressione delle imprese locali; 5. opportunità di: (a) acquisizioni e di fusioni; (b) di bassi costi di protezione ambientale; (c) incentivi finanziari e fiscali allo sviluppo industriale locale; 6. acquisizione di vantaggi competitivi all’interno di settori a consolidata strategia mondiale: chimica di base e la maggior parte dei settori della chimica derivata; la costruzione di autoveicoli e di componenti; costruzione di elettrodomestici; industrie aerospaziali; costruzioni navali; nu- 4 5 D’ora in poi IDE in entrata:: IDE-in; IDE in uscita: IDE-out. Già nel corso degli anni Trenta. 253 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO merosi settori della filiera agroalimentare; sistemi per la ricerca, sfruttamento e trasporto degli idrocarburi; sistemi logistici; 7. acquisizione di vantaggi proprietari attraverso il radicamento produttivo in contesti territoriali specializzati: distretti industriali, filière, cluster e diamond (Jacobson, Andreosso, 1996) e simmetricamente l’esplosione della capacità di multinazionalizzazione delle imprese che operano in questi contesti territoriali6. L’ATTRATTIVITÀ DELL’ITALIA PER GLI IDE-IN Per quanto riguarda l’Italia, il fattore determinante dell’attrazione degli investimenti industriali dall’estero è quello della ricerca di penetrazione – o di incremento della penetrazione – nel mercato italiano, che a seconda delle linee di prodotto, si colloca tra il quarto e l’ottavo posto fra i mercati dei paesi Ocde7. Per le imprese a base estera, già commercialmente presenti in Italia, e che considerano l’opportunità di un radicamento produttivo in Italia o di sviluppo degli investimenti già avviati, le valutazioni di convenienza sono di due ordini: • le opportunità del mercato italiano; • e subordinatamente, la ragionevole certezza di assenza di discriminazioni nel medio e nel lungo periodo a favore delle imprese italiane, tali da creare condizioni di minore competitività per le imprese a base estera. I fattori negativi nel campo fiscale, previdenziale, nella logistica, nella mobilità del lavoro agiscono sulle imprese che operano in Italia, indipendentemente dalla origine nazionale o estera del capitale investito; ma non è trascurabile la discriminazione a favore di molte imprese nazionali nel ricorso (a) alle subforniture provenienti dai settori del sommerso e del semi-sommerso; (b) all’evasione e all’elusione fiscale e previdenziale. A questi fattori, generalmente “negativi” per l’Italia, sono sensibili le scelte di localizzazione degli investimenti a livello europeo, quando l’obiettivo strategico dell’investimento estero riguarda la penetrazione nel mercato europeo nel suo complesso e non è rivolto alla penetrazione in un singolo mercato nazionale. Nell’ambito di questo ordine di scelte localizzative, attualmente l’Irlanda, la Spagna e il Portogallo si collocano fra le aree che maggiormente competono con l’Italia. IL RUOLO CRESCENTE DEGLI IDE NEI PAESI INDUSTRIALIZZATI Nel 1995 i flussi di investimento verso l’estero originati da parte di imprese con head quarter nei paesi industrializzati sono stati pari a 290 mld$; nel 1970 furono soltanto 12 mld$ (a prezzi correnti). Nel 1993, ultima rilevazione disponibile, l’ammontare del fatturato delle consociate estere delle imprese multinazionali MNEs8 è stato pari a 1,3 volte il 6 Quest’ultima tendenza è tipica dei distretti industriali italiani, tanto che si fa riferimento alle piccole multinazionali all’italiana. 7 Nel corso degli anni Cinquanta e parte dei Sessanta, l’attrazione degli IDE in entrata è stata generata anche dal differenziale del costo del lavoro, dell’imposizione fiscale dei costi per la sicurezza del lavoro e per il controllo delle emissioni. 8 D’ora in poi: MNEs, Multinational Enteprises. 254 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO valore delle esportazioni di beni e servizi dai paesi industrializzati (Mori, Rolli 1998). Il fatturato delle consociate estere delle MNEs è stato dell’ordine di 6.000 mld$ nel 19939, a fronte di un ammontare dell’ordine di 4.700 mld$ delle esportazioni di beni e servizi a livello mondiale. IL RITARDO DELL’ITALIA NEGLI IDE Questo stesso indicatore segnala inoltre un ritardo nei processi di multinazionalizzazione in entrata e in uscita dall’Italia: nel 1998 il rapporto fra il fatturato delle multinazionali italiane all’estero e l’export italiano (si veda la scheda sul commercio estero) arriva allo 0,5 per l’Italia nel complesso e per il Nord Italia. Per il Piemonte questo indicatore è significativamente più elevato: 0,8. Infatti il tasso di multinazionalizzazione in uscita dal Piemonte è il più elevato fra le regioni italiane, in presenza dei diffusi processi di multinazionalizzazione di Fiat e di altre imprese a base piemontese; comunque anche il Piemonte è ancora abbondantemente al di sotto del valore raggiunto dalla maggior parte dei paesi industrializzati. Il prevalere della produzione all’estero sull’esportazione di beni e servizi pone in evidenza il salto qualitativo nell’evoluzione strutturale dei processi di internazionalizzazione delle imprese. È uno degli aspetti più consistenti della attuale fase di globalizzazione, ma anche uno dei meno approfonditi a livello di sistemazione teorica, della politica e dell’economia internazionale. A loro volta queste carenze di analisi e di informazione generano gravi distorsioni nell’azione dei mezzi di comunicazione di massa e specializzati. LA MULTINAZIONALIZZAZIONE IN ENTRATA E IN USCITA DALL’ITALIA IDE-IN E IDE-OUT: UN RITARDO IN RECUPERO Nel corso del 1997, le 2007 le imprese estere partecipate da 804 imprese italiane hanno fatturato 186 mila mld/lire, con un’occupazione estera di oltre 602 mila unità (tab. 5). Si consideri che, alla metà degli anni Ottanta (1986) le 696 imprese estere a partecipazione italiana avevano fatturato 43.000 mld/lire, con un’occupazione di 244 mila unità. Sempre al 1997 ammontava a 1047 lo stock delle imprese estere che avevano effettuato investimenti in 1768 imprese industriali italiane (articolate in 2774 stabilimenti). Il fatturato complessivo è stato di 263 mld/lire, con un'occupazione di 562 mila unità (cfr. tab. 6). Il rapporto fra lo stock degli IDE-in e lo stock degli IDE-out dall’Italia passa da 0,5 (1986), in termini di fatturato e di addetti, a ben 1,1 in termini di addetti nel 1998 e soltanto a 0,7 in termini di fatturato. Nei paesi di consolidata industrializzazione il rapporto fra IDE-out IDE-in è compreso fra 2 a 1 e 3 a 1. Il caso del Giappone è a parte, in relazione alla tradizionale scarsa penetrabilità in questo paese da parte delle imprese estere, in crescente attenuazione soltanto dagli anni Ottanta. In Italia, al ritardo nei processi di industrializzazione ha fatto riscontro anche un ritardo nei processi di multinazionalizzazione, in fase di recupero dalla metà degli anni Ottanta. 9 Ultima stima dell’UNCTAD. 255 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO In ogni caso l’attuale tasso di multinazionalizzazione del sistema italiano ha raggiunto un livello elevato: circa il 20% dell’occupazione industriale (con esclusione delle microimprese sotto i 20 addetti) è assorbita dalle imprese a partecipazione estera. Analogamente, negli IDE-out delle imprese italiane l’occupazione raggiunge una quota di poco superiore al 20% dell’occupazione industriale in Italia. L’ASIMMETRIA TECNOLOGICA TRA GLI IDE-IN E GLI IDE-OUT L’ARRETRATEZZA ITALIANA NEI BUSINESS RELATED SERVICES Negli IDE italiani in entrata e negli IDE in uscita prevale il macroaggregato dei settori a elevata economie di scala (Pavitt 1984)10 (fig.1 e fig. 2). Il 66% dell’occupazione negli IDE-out in uscita sul totale è generato dalle imprese che operano nei settori a forti economie di scala (produzione finale di autoveicoli e componentistica, elettrodomestici). Negli IDE-in questo macroaggregato continua a essere pur sempre il più importante (50%). Nei settori tradizionali gli IDE-in e gli IDE-out hanno un peso abbastanza limitato: 15% in uscita e 6% in entrata. I settori specialistici (meccanica strumentale) partecipano per il 10% negli IDE-out e per 20% negli IDE-in. Nei settori a elevata intensità tecnologica, l’asimmetria è drammaticamente accentuata: 9% negli IDE-out e il 24% negli IDE-in. Le controllate estere in questo aggregato contribuiscono in misura rilevante all’avanzamento tecnologico del sistema industriale italiano. L’asimmetria fra la crescita in termini di addetti e la crescita in termini di fatturato trova una spiegazione forte nella diversa composizione del mix tecnologico negli IDE-out rispetto al mix degli IDE-in. Anche nei settori dei BRSs gli IDE-in assicurano l’avanzamento della maggior parte dei settori che compongono questo macroaggregato, dal software ai servizi informatici e all’outsourcing informatico, dal management consultancy all'auditing e alla pubblicità (si veda la scheda sul sistema dei servizi alle imprese). Malgrado alcuni recenti evoluzioni, nei BRSs l’arretratezza italiana è tuttora consistente, tanto da raggiungere livelli di handicap di sistema, per quanto riguarda l’offerta di servizi avanzati generata dalla domanda pubblica. Nell’area dei settori trainati dalla ricerca tecnologica e dall’attività di R&D nelle imprese sono noti i fattori del ritardo italiano, mentre le aree di arretratezza nel campo dei BRSs non sono ancora oggetto di rilevazioni e di analisi sistematiche, tanto da rendere improbabili i progetti di policies rivolte allo sviluppo delle imprese che operano nell’offerta dei singoli BRSs11. Nei settori dell’engineering gli IDE-in sono sviluppati e anche le imprese italiane hanno raggiunto un buon piazzamento. 10 I quattro macrosettori “alla Pavitt” sono: settori tradizionali: abbigliamento, tessile, mobili ecc. settori a forti economie di scala: auto e componentistica, chimica di base, derivati alimentari, bevande ecc. 3. settori specialistici: meccanica strumentale, costruzioni navali ferrotranviarie; 4. settori a elevata intensità tecnologica: derivati chimici, farmaceutica, informatica e macchina per ufficio, elettronica e telecomunicazioni, strumentazione e meccanica di precisione, costruzioni aerospaziali. 11 Negli altri paesi industrializzati lo strumento storico di queste policies è quello della qualificazione della domanda pubblica di servizi avanzati (sistemi di outsourcing degli operatori pubblici). 1. 2. 256 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO In generale negli IDE-out dei settori BRSs, le imprese italiane hanno posizioni marginali. Soltanto nel settore assicurativo, le imprese a base italiana hanno raggiunto una visibile presenza fra le imprese multinazionali del settore assicurativo. L’ORIGINE GEOGRAFICA DEGLI IDE-OUT E LA DESTINAZIONE DEGLI IDE-IN L’Europa Occidentale continua a essere la principale area storica di destinazione degli IDE-out effettuati dalle imprese italiane (fig. 3): in termini di addetti nelle imprese partecipate all’estero, il 42% è ancora in quest’area. In forte e significativa crescita la destinazione degli IDE-out nei paesi dell’Europa Centrale e Orientale, che ha raggiunto il 20% (sul totale degli addetti delle partecipate estere da parte di imprese italiane), e nei paesi asiatici, dove ha raggiunto il 13%. Complessivamente la destinazione degli IDEout verso l’Europa Centro-orientale e l’Asia ha raggiunto una quota del 33%, quasi analoga a quella dell’Europa Occidentale. Questa evoluzione strutturale sembra essere generata da tre ordini di fattori dominanti: 1. il completamento del mercato comune ha tendenzialmente abbattuto le barriere di confine intra UE e ha ridotto la convenienza alla localizzazione produttiva all’interno di singoli paesi dell’Unione; 2. lo sviluppo della domanda dei paesi dell’Europa Centro-orientale e di numerosi paesi asiatici, in presenza di una riduzione delle difficoltà di penetrazione degli IDE; 3. le crescenti opportunità di IDE labour seeking da parte di imprese italiane nei paesi dell’Europa Centro-orientale e in numerosi paesi del Sud Est asiatico. Nel corso degli anni Novanta vi è stato un progressivo arretramento della destinazione Nord America, che si è assestata al 10%. La maggioranza assoluta (69%) degli investitori esteri proviene dall’Europa Occidentale, il 25% dal Nord America e soltanto un 3% dal Giappone (fig. 4). La diversa ripartizione geografica delle origini e delle destinazioni geografiche degli IDE-in e degli IDE-out è correlata alla diversa composizione dei fattori tecnologia-prodotto-mercato che ha generato l’asimmetria tecnologica. Le teorie dei vantaggi comparati e le successive recenti evoluzioni ci offrono una esauriente sistemazione teorica di queste asimmetrie. LA CONSISTENZA DEGLI IDE-IN E DEGLI IDE-OUT NELL’ITALIA SETTENTRIONALE LA LOMBARDIA: UN’ATTRATTIVITÀ ESTERA IN È utile fare riferimento alla localizzazione degli stabilimenti delle imprese italiane partecipate da imprese estere (86% partecipazioni di controllo e 14% in posizione paritaria o di minoranza); in presenza di numerose imprese multiplant, il riferimento alla sede legale genera risultati diversi, tali da alterare la stima dell’attrattività di IDE-in da parte delle singole regioni. L’attrattività relativa degli IDE-in da parte delle regioni del Nord Ovest è in fase di contrazione dal 55,8 al 51%; comunque, oltre la metà degli stabilimenti e degli addetti degli IDE-in sono ancora localizzati nelle regioni del Nord Ovest. In Lombardia, dove era stato raggiunto un massimo di attrattività nel 1986 con una quota del 41% del totale Italia, nel 1998 la quota è scesa al 35% (tab. 7), in presenza di effetti di saturazione. La Lombardia e il Nord Ovest in SATURAZIONE 257 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO complesso si collocano fra le aree europee più attrattive di investimenti industriali dall’estero, malgrado la quasi assenza di interventi rivolti all’attrazione di investimenti esteri e alla fornitura di servizi localizzativi, a cui solo di recente si sta cercando di ovviare. In quest’area si concentrano tendenzialmente le localizzazioni degli IDE-in, mentre gli indicatori a livello nazionale segnalano un’attrazione di IDE-in inferiore a quella degli altri paesi industrializzati. È stata rilevante la crescita delle altre regioni del Nord Ovest; fra queste la migliore performance è stata quella del Piemonte, dove il numero degli stabilimenti delle imprese estere è più che raddoppiato, con una crescita ulteriore della quota sul totale Italia (dal 12 al 13,6%). Nel periodo 1986-1998 nel Nord Est la crescita è stata del +160%; la quota passa dal 17% al 23,9%. Le due regioni tigri del Nord Est, Veneto ed EmiliaRomagna mettono a segno una eccezionale crescita di attrattività: rispettivamente del +156% e del +218%. La quota del Centro sul totale Italia è consistente, ma in fase di attenuazione: dal 15,7% al 13,7%. Il numero degli stabilimenti IDE-in comunque sale del 64,5%. Nelle regioni meridionali in fase di recupero del ritardo di sviluppo (Campania, Abruzzo, Molise, Puglia e Basilicata) la quota di partecipazione non è irrilevante ed è in leggera crescita dall’8,5 al 9,2% sul totale Italia, con una crescita di +140%. Nell’ambito di questo aggregato la regione più importante, la Campania, ha registrato una crescita modesta, con una diminuzione della sua quota di partecipazione a totale Italia degli IDE-in (dal 5 al 3,9). Nel Sud e nelle Isole, l’attrattività delle tre regioni, dove il ritardo di sviluppo è in fase di aggravamento (Sicilia, Calabria e Sardegna), il livello di attrattività si mantiene a un livello marginale ed è persino in calo (2,5% nell’86 e 2,4 nel ‘98); gli investitori esteri contribuiscono soltanto marginalmente al tentativo di decollo di queste tre regioni, aggravando la situazione generata dalle dismissioni degli investitori dell’Italia settentrionale e delle imprese pubbliche. L’ATTRATTIVITÀ RELATIVA DELLE REGIONI E DELLE PROVINCE ITALIANE Una valutazione di ordine generale si ricava dalla stima dell’attrattività relativa delle regioni e delle province italiane (sopra o sotto l’attrattività media nazionale). Nel Nord Ovest e nel Nord Est l’indicatore è di segno positivo con un valore quasi doppio nel Nord Ovest (2.2) rispetto al Nord Est 1,7 (cfr. tab. 8). Nel Centro e nel Sud-Isole l’indicatore è di segno negativo: -0.9 nel Centro e -2,2 nel Centro Sud. Gli indicatori di attrattività nelle singole province pongono in evidenza la relazione fra la presenza di IDE-in e il livello di sviluppo dei contesti territoriali locali. Nelle grandi città del Nord i valori sono superiori a uno, con eccezione di Genova, Udine e Brescia. Nelle grandi città del Centro e del Centro Sud i valori sono sempre inferiori all’unità. Nella maggior parte delle regioni europee e in numerosi stati Usa hanno operato specifiche policies e strumenti di intervento finalizzati all’attrazione di IDE dall’estero. In Irlanda e in Spagna l’adozione di queste policies ha generato consistenti effetti sulla struttura economica di questi paesi. Comunque negli Stati europei hanno agito politiche e strumenti nazionali e agenzie di promozione degli IDE a livello regionale. 258 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO LA CARENZA DI POLITICHE PER ATTIRARE IDE-IN In Italia soltanto nel 1994 la legge Baratta ha generato un primo intervento con un finanziamento limitato a otto mld/lire nell’arco di un anno e mezzo (seconda metà 1995 e 1996) a supporto di programmi promozionali da parte di regioni in grado di offrire aree industriali attrezzate a investitori esteri. Soltanto in Piemonte nel 1997 è stata avviata ITP, la prima agenzia italiana che ha operato con successo nella promozione degli IDE-in, anche attraverso l’implementazione di un progetto regionale cofinanziato dalla Ue . Azioni di promozione sono state avviate nel Friuli-Venezia Giulia, in Umbria, a Milano e Brindisi. A livello nazionale non sono stati formulati indirizzi nel campo della promozione degli IDE-in e degli IDE-out, che pure costituiscono le componenti di maggior peso dei processi di internazionalizzazione delle imprese. La recente costituzione dell’agenzia “Sviluppo Italia” segna un inizio promettente di un intervento strategico, a sua volta destinato a supportare le iniziative a livello regionale. In ogni caso all’attrattività di fatto esercitata dalle regioni e dalle singole province italiane le policies di supporto hanno concorso soltanto marginalmente. A differenza di quanto avviene da tempo in Europa e nel Nord America, in Italia si può fare riferimento a un processo di attrattività “neutrale”, nella quasi assenza di interventi rivolti all’attrazione degli IDE. Non sembra peregrina l’ipotesi che questa quasi assenza di politiche rivolte all’attrazione di investimenti industriali sia connessa a una tendenziale resistenza di fatto all’ingresso e allo sviluppo di competitori esteri, per definizione a forte competitività internazionale. In ogni caso si rileva che in questa seconda metà di secolo, l’Italia si presenta come uno dei paesi più liberisti per quanto riguarda i vincoli agli investimenti industriali in entrata. Si può escludere che questa posizione di avanzato liberismo normativo sia stata frutto di scelte consapevoli. Piuttosto essa sembra attribuibile a una pragmatica indifferenza di fatto alle problematiche della multinazionalizzazione delle imprese a livello di governo, di parlamento e delle stesse associazioni imprenditoriali e sindacali. Soltanto nel corso degli anni Novanta sono stati avviati comportamenti e politiche di crescente attenzione nei riguardi dei processi di multinazionalizzazione delle imprese in entrata e in uscita dall’Italia. LA PROPENSIONE ALL’INVESTIMENTO ESTERO NELLE REGIONI ITALIANE Anche negli investimenti in uscita si fa riferimento a un indicatore neutrale di propensione agli IDE da parte delle imprese delle singole regioni, in assenza di qualsiasi progetto di policies, con eccezione della partecipazione ai negoziati internazionali rivolti a ottenere pari condizioni nei flussi bilaterali di IDE. I valori di questo indicatore (sopra o sotto la media nazionale) sono a livelli drammaticamente negativi per il Sud-Isole e anche per il centro (tab. 9). Nel Nord sorprende l’elevato valore di questo indicatore: a fronte di un valore pur sempre elevato nel nel Nord Est fa riscontro un valore più contenuto nel Nord Ovest, dove è tuttora localizzata la maggior parte degli head quarters delle maggiori imprese multinazionali a base italiana (soltanto alcuni degli head quarters sono localizzati a Roma). INVESTIMENTI GREEN FIELD 259 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO La grande maggioranza di IDE-in è effettuata attraverso M&A12; nel corso del biennio 1986-97 soltanto in tre anni (1986, 1990 e 1991) gli investimenti green field hanno superato il 10% (numero di imprese). In termini di addetti, le quote annuali di investimenti green field sono inferiori (tab. 10), in ragione della minor dimensione degli investimenti green field. Nel periodo 19861997, l’incremento complessivo generato dagli IDE-in green field è stato esiguo: 128 nuove imprese, con 10.340 occupati addizionali. Nello stesso periodo l’incremento complessivo dell’occupazione nelle imprese nelle imprese partecipate da imprese estere è aumentato di 95 mila unità (+20%) soltanto in parte attribuibile a M&A; l’incremento di 46 mila addetti è avvenuto in presenza di ulteriori investimenti nelle imprese a partecipazione estera già esistenti. L’IMPORTANZA CRESCENTE DI ACQUISIZIONI E FUSIONI GLI INVESTITORI ESTERI ED I PROCESSI DI PRIVATIZZAZIONE Alla fine degli anni Cinquanta gli investimenti green field costituivano i tre quarti degli IDE-in. Dagli anni Settanta l’inversione di tendenza osservata in Italia è pressoché analoga in quasi tutti i paesi industrializzati. Si osserva che M&A costituiscono un apporto positivo, perché generalmente accrescono la competitività e il potenziale di crescita delle imprese acquisite, che a loro volta sono in grado di generare investimenti di ampliamento e ulteriori investimenti green field. Per questo è fuorviante il termine di shopping da parte delle imprese estere, perché non tiene conto dei due aspetti: (a) relazione di complementarità – e non di sostituzione – fra le varie forme di internazionalizzazione dell’impresa; (b) la penetrazione in un mercato attraverso un’acquisizione è una componente di base nella strategia dell’investimento cross border; l’impresa investitrice opera le sue scelte fra le opportunità di un’acquisizione e un investimento green field. In un secondo tempo gli investimenti di acquisizione generano frequentemente investimenti di ampliamento attraverso ulteriori acquisizioni e attraverso investimenti green field. Più che agli effetti della svalutazione della lira, la forte ripresa degli IDE-in nel quadriennio 1993-96 è stata determinata dall’intervento delle MNEs estere nei processi di privatizzazione delle imprese a partecipazione pubblica (tab. 11), attraverso 23 acquisizioni. Con una sola eccezione, queste acquisizioni sono state effettuate da parte di MNEs che operano nei rispettivi settori a livello mondiale. Gli addetti nelle imprese collegate a queste operazioni di privatizzazione hanno costituito il 45% dell’occupazione complessiva nelle nuove partecipazioni estere effettuate nel 1994, il 68% nel 1995 e il 28% nel 1996. 12 M&A, Mergers and Acquisitions 260 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO Tab. 1 − Investimenti diretti esteri mondiali e selezionati indicatori economici: valori a prezzi correnti, 1996 e 1997 Valore a prezzi correnti (miliardi di dollari) 1996 1997 IDE – Flussi in entrata IDE – Flussi in uscita IDE – Stock in entrata IDE – Stock in uscita Cross–border M&As (a) Fatturato delle affiliate estere delle IMN (b) Valore della produzione delle affiliate estere Attività totali delle affiliate estere 338 333 3.065 3.115 163 8.851 b 1.950 b 11.156 b 400 424 3.456 3.541 236 9.500 b 2.100 b 12.606 b PIL nominale al costo dei fattori Investimenti interni lordi Royalties Esportazioni 28.822 5.136 53 6.245 30.551 5.393 61 6.432 c c c c a) Solo investimenti di maggioranza. b) Proiezioni sulla base dei dati relativi al 1995. c) Stime. Fonte: United Nations (1998) Tab. 2 − Investimenti diretti esteri mondiali e selezionati indicatori economici: tassi di crescita, 1986−1997 Tasso di crescita % medio annuo composto 1986−90 1991−95 1996 1997 IDE – Flussi in entrata IDE – Flussi in uscita IDE – Stock in entrata IDE – Stock in uscita Cross–border M&As (a) Fatturato delle affiliate estere delle IMN (c) Valore della produzione affiliate estere Attività totali delle affiliate estere 23,6 27,1 18,2 21,0 21.0 b 16,3 20,1 15,1 9,7 10,3 30,2 13,4 1,9 –0,5 12,2 11,5 15,5 6,0 c 18,6 27,1 12,7 13,7 45,2 7,3 c 16,6 18,3 6,2 24,4 7,7 c 12,0 c 7,7 c 13,0 c PIL nominale al costo dei fattori Investimenti interni lordi Royalties Esportazioni 12,1 12,5 21,9 14,6 5,5 2,6 12,4 8,9 0,8 –0,1 8,2 2,9 6,0 5,0 15,0 3,0 a) b) c) d) Solo investimenti di maggioranza. Dato riferito al periodo 1987–1990. Proiezioni sulla base dei dati relativi al 1995. Stime. Fonte: United Nations (1998) 261 d d d d L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO Tab. 3 – Flussi di investimenti diretti italiani all’estero, 1990–1997 (in miliardi di lire) 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 Investimenti 13.972 19.963 22.694 24.257 23.285 24.396 23.940 34.054 422 292 611 556 1.209 1.211 2.256 2.753 − prodotti energetici 3.795 4.712 8.310 7.139 7.289 7.621 5.844 9.414 − prodotti industriali Disinvestimenti − prodotti energetici − prodotti industriali 5.290 11.686 15.765 13.312 15.350 15.481 14.398 16.692 249 163 483 978 1.095 639 671 740 1.832 2.575 7.389 3.378 4.219 5.758 3.850 4.238 Saldo − prodotti energetici − prodotti industriali 8.682 173 1.963 8.277 129 2.137 6.929 10.945 128 -422 921 3.761 7.935 114 3.070 8.915 572 1.863 9.542 17.362 1.585 2.013 1.994 5.176 Fonte: Banca d’Italia (1998) Tab. 4 – Flussi di investimenti diretti dall’estero in Italia, 1990–1997 (in miliardi di lire) 1990 1991 1992 1993 1994 Investimenti − prodotti energetici − prodotti industriali 25.089 26.140 257 1 8.877 6.147 8.991 501 3.010 8.824 306 3.600 8.838 12.395 10.668 10.443 125 289 44 72 2.690 4.553 3.831 4.546 Disinvestimenti − prodotti energetici − prodotti industriali 17.520 22.988 7 105 8.401 3.459 5.046 12 1.151 3.197 2 846 5.320 133 2.098 4.993 74 1.192 5.457 306 2.876 4.442 21 2.506 3.945 489 1.859 5.627 304 2.754 3.518 -8 592 7.402 215 3.361 5.211 -262 955 6.001 51 2.040 Saldo − prodotti energetici − prodotti industriali 7.569 250 476 3.152 -104 2.688 1995 1996 1997 Fonte: Banca d’Italia (1998) Tab. 5 − L’investimento diretto industriale delle imprese italiane all’estero (al 1/1/1998) Investitori all’estero Imprese estere partecipate: − Imprese (N.) − Addetti (N.) − Fatturato (Md. di lire) Partecipazioni di controllo N. % Partecipazioni paritarie e minoritarie N. % 616 76,6 294 36,6 804 100,0 1.504 433.453 153.527 74,9 72,0 80,8 503 168.752 36.473 25,1 28,0 19,2 2.007 100,0 602.205 100,0 190.000 100,0 Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano 262 Totale N. % L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO Tab. 6 − L’investimento diretto estero nell’industria italiana al 1/1/1998 Partecipazioni di controllo N. % Investitori esteri Imprese italiane partecipate: − Imprese (N.) − Stabilimenti (N.) − Addetti (N.) − Fatturato (Md. di lire) Partecipazioni paritarie e minoritarie N. % 867 82,8 256 24,5 1.532 2.377 460.613 216.947 86,7 85,7 81,9 82,5 236 397 101.736 46.165 13,3 14,3 18,1 17,5 Totale N. % 1.047 100,0 1.768 2.774 562.349 263.112 100,0 100,0 100,0 100,0 Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano Tab. 7 – Localizzazione degli stabilimenti delle imprese industriali italiane a partecipazione estera, al 1/1/1998, per regione 1986 N. 1998 % N. Variaz. % 1986-98 % Nord Ovest Valle d’Aosta Piemonte Lombardia Liguria 819 3 176 602 38 55,8 0,2 12,6 40,9 2,5 1.416 8 377 969 62 51,0 0,3 13,6 34,9 2,2 72,9 1,7 114.0 61,0 63.0 Nord Est Veneto Trentino–Alto Adige Friuli–Venezia Giulia Emilia Romagna 252 93 41 31 88 17,2 6,3 2,8 2,1 6,0 654 238 71 65 280 23,6 8,6 2,6 2,3 10,1 159,5 155,9 73,1 109,7 218.2 Centro Toscana Umbria Marche Lazio 230 72 13 17 133 15,7 4,9 0,9 1,2 9,1 379 136 37 41 165 13,7 4,9 1,3 1,5 5,9 64,8 88,9 184,6 141,2 24,1 Sud e Isole Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna 168 29 4 73 18 0 4 22 12 11,4 2,0 0,3 5,0 1,2 0 0,3 1,5 0,8 325 70 13 109 44 19 9 35 26 11,7 2,5 0,5 3,9 1,6 0,7 0,3 1,3 0,9 93,5 141,4 225,0 49,3 144,0 max 1,25 59,1 1,7 Totale Italia 1469 100,0 2.774 100,0 59,1 Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano; e successive elaborazioni. 263 CENTRO FIRENZE AREZZO GROSSETO LIVORNO LUCCA MASSA CARRARA PISA PISTOIA SIENA -0.954 -0.765 -1.078 -5.364 0.208 0.218 -3.343 -1.901 1.678 -3.534 SUD PESCARA L'AQUILA CHIETI TERAMO CAMPOBASSO ISERNIA -2.219 PALERMO AGRIGENTO CALTANISSETTA CATANIA ENNA -5.546 MESSINA 12.302 RAGUSA SIRACUSA -4.366 TRAPANI 1.734 -5.568 CAGLIARI -2.895 NUORO 0.610 ORISTANO SASSARI -3.089 -0.894 -0.661 -3.340 -4.360 0.674 5.681 6.143 -3.625 -3.610 -5.014 -5.910 -4.362 -4.375 -2.724 -5.893 -4.151 -5.097 NAPOLI AVELLINO PERUGIA -1.360 BENEVENTO -4.033 TERNI 1.203 CASERTA -5.745 SALERNO -5.561 ANCONA -1.484 -0.943 ASCOLI PICENO 1.218 BARI MACERATA -1.656 BRINDISI PESARO -3.384 FOGGIA LECCE ROMA -5.131 TARANTO FROSINONE 2.257 LATINA 3.697 POTENZA 4.464 RIETI 0.036 MATERA -0.207 VITERBO -0.597 R. CALABRIA -6.209 COSENZA -3.380 CATANZARO -5.498 (*) I valori riportati in tabella sono quelli assunti dalla variabile proxy della attrattività delle singole province. A valori più elevati della variabile corrisponde una maggiore attrattività della provincia mentre, viceversa, valori negativi indicano una attrattività inferiore a quella potenziale, date le caratteristiche della provincia/regione. Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano; e successive elaborazioni. L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO 264 Tab. 8 – L’attrattività delle singole province e regioni (*) NORD OVEST 2.241 NORD EST 1.165 TORINO 1.427 BOLZANO -5.018 ALESSANDRIA 5.127 TRENTO 7.359 ASTI 7.892 CUNEO 2.165 BOLOGNA 1.739 NOVARA 1.982 FERRARA 1.534 VERCELLI 0.083 FORLÌ -2.098 MODENA 0.194 AOSTA 5.813 PIACENZA 3.729 PARMA 4.390 MILANO 1.306 RAVENNA 0.836 BERGAMO 2.420 REGGIO EMILIA -5.893 BRESCIA -1.330 COMO 0.259 UDINE -0.508 CREMONA 3.818 GORIZIA 1.481 MANTOVA 1.362 PORDENONE -0.671 PAVIA 0.682 TRIESTE 1.897 SONDRIO 5.746 VARESE 2.642 VENEZIA 2.504 BELLUNO 8.039 GENOVA -3.327 PADOVA 0.606 IMPERIA -0.757 ROVIGO 3.322 LA SPEZIA -4.957 TREVISO -0.467 SAVONA 2.473 VICENZA 2.726 VERONA -1.246 BARI BRINDISI FOGGIA LECCE TARANTO -3.64 PALERMO AGRIGENTO CALTANISSETTA CATANIA ENNA -4.25 MESSINA -4.07 RAGUSA SIRACUSA -2.13 TRAPANI -3.04 -4.26 CAGLIARI -3.50 NUORO -4.55 ORISTANO SASSARI -1.64 -1.07 -2.56 -4.02 -1.97 POTENZA MATERA -2.36 -4.88 R. CALABRIA COSENZA CATANZARO -4.13 -3.09 -4.23 PESCARA L'AQUILA CHIETI TERAMO CAMPOBASSO ISERNIA NAPOLI AVELLINO BENEVENTO CASERTA SALERNO SUD -2.83 -5.20 -3.39 -2.51 -4.15 -4.18 -4.45 -4.82 -4.12 -4.59 -4.28 -4.59 -3.20 -5.01 -0.78 -4.90 -4.94 (*) I valori riportati in tabella sono quelli assunti dalla variabile proxy della propensione all’internazionalizzazione. A valori più elevati della variabile corrisponde una maggiore propensione della provincia a internazionalizzarsi mentre valori negativi indicano una propensione inferiore a quella potenziale, date le caratteristiche della provincia/regione. Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano; e successive elaborazioni. L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO 265 Tab. 9 – La propensione all’internazionalizzazione delle singole province e regioni (*) NORD OVEST 1.39 NORD EST 2.47 CENTRO -2.52 TORINO 2.15 BOLZANO 2.77 FIRENZE -1.56 ALESSANDRIA 3.43 TRENTO -0.45 AREZZO -1.92 ASTI -2.85 GROSSETO -4.95 CUNEO 5.93 BOLOGNA -0.49 LIVORNO -2.74 NOVARA -1.46 FERRARA -1.48 LUCCA -4.90 VERCELLI 3.89 FORLÌ 3.15 MASSA CARRARA -2.95 MODENA 5.78 PISA -2.15 AOSTA -4.58 PIACENZA 5.60 PISTOIA -3.60 PARMA 0.26 SIENA -3.34 MILANO 2.25 RAVENNA -2.16 BERGAMO 0.39 REGGIO EMILIA 1.03 PERUGIA 0.33 BRESCIA 1.87 TERNI -4.87 COMO 1.85 UDINE 2.61 CREMONA 11.02 GORIZIA -5.73 ANCONA 1.31 MANTOVA 1.20 PORDENONE 4.53 ASCOLI PICENO 1.29 PAVIA -1.45 TRIESTE 4.81 MACERATA -3.94 SONDRIO 14.98 PESARO 0.70 VARESE -1.65 VENEZIA -1.71 BELLUNO 2.25 ROMA -1.42 GENOVA 0.57 PADOVA 5.46 FROSINONE -3.34 IMPERIA -5.20 ROVIGO 13.78 LATINA -5.11 LA SPEZIA -5.81 TREVISO 5.09 RIETI -5.08 SAVONA 1.20 VICENZA 0.15 VITERBO -2.06 VERONA 6.62 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO 265 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO Tab. 10 − Incidenza degli investimenti greenfield sulle partecipazioni estere nell’industria italiana nel periodo 1986-1997 Totale partecipazioni (a) di cui greenfield (b) Incidenza % (b) / (a) Imprese Addetti Imprese Addetti Imprese Addetti 1986 63 14.744 15 1.553 23,8 10,5 1987 116 41.752 9 497 7,8 1,2 1988 142 29.045 10 736 7,0 2,5 1989 198 52.895 16 792 8,1 1,5 1990 182 33.405 27 1.807 14,8 5,4 1991 96 17.314 9 1.755 9,4 10,1 1992 99 16.583 10 601 10,1 3,6 1993 101 32.370 5 358 5,0 1,1 1994 123 30.896 8 631 6,5 2,0 1995 104 43.637 7 352 6,7 0,8 1996 149 36.405 6 944 4,0 2,6 1997 97 14.629 6 314 6,2 2,1 Totale 1.470 363.675 128 10.340 8,7 2,8 Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano Tab. 11 − Nuove partecipazioni estere nell’industria italiana collegate a privatizzazioni e dismissioni delle partecipazioni statali, 1993 − 1997. Quota (a) Anno Impresa partecipata Settore Investitore estero 1993 1993 1993 1993 1994 1994 1994 1994 1994 1994 1994 1994 19941 1994 1994 1994 1995 1995 1995 1995 1995 1995 1995 1996 1996 1996 1996 1996 1996 1996 1996 1996 1996 Gruppo Dolciario Italiano Italgel SIV −Società Italiana Vetro Società Chimica Larderello AST − Acciai Speciali Terni Bertolli Cogne Acciai Speciali DEA Enichem Augusta Enichem Synthesis (b) Enichem Synthesis (b) Enichem Synthesis (b) Ilva Laminati Piani MAC Nuovo Pignone Ponte Nossa Enichem (b) Enichem Synthesis (b) Italtel Nuova Mecfond Polimeri Europa Safiplast Termomeccanica Alumix (b) Carbolux Dalmine Enichem Agricoltura Gencord Grandi Motori Trieste Inca International Italimpianti (b) Italimpianti (b) Tubettificio Europeo Alimentare Alimentare Vetro Chimica Siderurgia Alimentare Siderurgia Strumentaz. Chimica Chimica Chimica Chimica Siderurgia Telecom. Meccanica Meccanica Chimica Chimica Telecom. Meccanica Chimica Plastica Meccanica Metallurgia Chimica Siderurgia Chimica Prod.metallo Meccanica Chimica Impiantistica Imbiantistica Prod.metallo Nestlé (CH) Nestlé (CH) Pilkington (GB) DG Harris (USA) Krupp−Hoesch (D) Unilever (NL/GB) Marzorati (CH) Brown & Sharpe (USA) RWE−DEA (D) Borregaard (N) Ciba Geigy (CH) Great Lakes (USA) Essar (IND) GEC (GB) General Electric (USA) Metalgesellschaft (D) Elf Aquitaine (F) Sud Chemie (D) Siemens (D) Muller Weingarten (D) Union Carbide (USA) Solvay (B) Huarte (E) Alcoa (USA) Bayer (D) Rocca (RA) Norsk Hydro (N) Bridgestone (J) Metra (SF) Dow Chemical (USA) Rocca (RA) Mannesmann (D) Cambria (a) CTR = Part. di controllo; PAR = Part. paritaria; MIN = Part. Minoritaria (b) Ramo d’azienda. Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano 266 CTR CTR CTR CTR CTR CTR CTR CTR CTR CTR CTR CTR MIN PAR CTR CTR CTR CTR CTR PAR PAR PAR MIN CTR CTR CTR CTR CTR CTR CTR CTR CTR PAR L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO Fig. 1 – Ripartizione delle imprese industriali estere a partecipazione italiana e dei relativi addetti per macro-settori alla Pavitt, al 1/1/1998 Addetti delle imprese partecipate 9% 15% 10% 66% Settori tradizionali Settori specialistici Settori con forti economie di scala Settori ad elevata intensità tecnologica Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano. Fig. 2 – Ripartizione delle imprese industriali italiane a partecipazione estera al 1/1/1998, per macro-settori alla Pavitt Addetti delle imprese partecipate Settori tradizionali 6% Settori ad elevata intensità tecnologica 24% Settori specialistici 20% Settori con forti economie di scala 50% Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano. 267 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO Fig. 3 – Destinazioni geografiche degli IDE delle imprese italiane all'estero Addetti delle imprese partecipate America Latina 8% Asia 13% Nord America 10% Oceania ed Africa 6% Europa Centrale ed Orientale 20% Europa Occidentale 43% Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano. Fig. 4 – Imprese industriali italiane a partecipazione estera al 1 gennaio 1998, per area geografica di origine del principale investitore estero Addetti delle imprese partecipate N o rd A m e r ic a 26% G ia p p o n e A ltr i 3% 1% U n io n e E u ro p e a 62% A lt r i p a e s i e u ro p e i 8% Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano. 268 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO BIBLIOGRAFIA Jacobson D., Andreosso-O’Calagham B. (1996), Industrial Economics and Organization, a European perpespective, Mc Grow-Hill, Maidenhead, England. Piscitello L. (1999), “Territorio e Processi di Internazionalizzazione”, in CNEL Italia Multinazionale 1998, Roma. Mori A., Rolli V. (1998), Investimenti Diretti dall’Estero e Commercio: Complementari o Sostituti, Temi di discussione del Servizio Studi di Banca d’Italia, n. 337, ottobre. Pavitt K. (1984), “Sectoral Pattern of Technical Change: Towards a Taxonomy and a Theory”, Research Policy, 13. 269 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA: UNA LETTURA DI SINTESI Giampiero Bordino* UNA NUOVA “QUESTIONE SETTENTRIONALE”: LA COLLOCAZIONE E IL PESO RELATIVO DELL’ITALIA SETTENTRIONALE IN EUROPA – LA POPOLAZIONE E LA FORMAZIONE DEL CAPITALE UMANO: RISCHI E OPPORTUNITÀ PER UNA SOCIETÀ SEMPRE PIÙ “VECCHIA” – RICERCA E SVILUPPO, INNOVAZIONE E SISTEMA DELLE IMPRESE: FORZA E DEBOLEZZA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL CONTESTO EUROPEO – PRODUZIONE MANIFATTURIERA E TERZIARIO DI SERVIZIO: PRIMATO IN ITALIA, MA COLLOCAZIONE PERIFERICA IN EUROPA – SENZA RETI NIENTE EUROPA: TERZIARIO E FINANZA, INFRASTRUTTURE, CITTÀ E ISTITUZIONI COME DECISIVI “FATTORI DI RETE” PER L’ITALIA SETTENTRIONALE NEL NUOVO SECOLO – COMMERCIO ESTERO E INTERNAZIONALIZZAZIONE: LE POTENZIALITÀ COMPETITIVE E “DI CERNIERA” DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL CONTESTO EUROPEO E INTERNAZIONALE – QUALI STRADE POSSIBILI PER L’ITALIA SETTENTRIONALE NEL NUOVO SECOLO: UNA PROSPETTIVA REALISTICA PER LO SVILUPPO. UNA NUOVA “QUESTIONE SETTENTRIONALE”: LA COLLOCAZIONE E IL PESO RELATIVO DELL’ITALIA SETTENTRIONALE IN EUROPA LA NUOVA “QUESTIONE SETTENTRIONALE” … Nella prospettiva del nuovo secolo, l’Italia settentrionale propone di se stessa un’immagine nuova e problematica, che fa emergere la sua “questione” in termini in qualche misura diversi da quelli tradizionali, sinteticamente ripercorsi e delineati nel saggio introduttivo di Dansero. La nuova “questione settentrionale”, in altre parole, non è più tanto o soltanto quella delle sue tensioni interne, del suo malessere sociale, della sua “rabbia” anti centralistica e anti romana, del suo “rancore verso lo Stato nazionale”, quanto quella – per così dire estroversa ed europea – del suo peso relativo e della sua identità nel nuovo contesto continentale e globale. In effetti, dopo la nascita dell’euro e l’espansione del processo di globalizzazione, le regioni settentrionali non hanno più come mercato domestico quello della penisola, bensì quello dell’Europa. Le loro istituzioni di riferimento non sono più tanto o soltanto quelle nazionali, quanto quelle comunitarie. Il loro orizzonte competitivo è sempre più continentale e, più in là, globale. E ancora, le regioni settentrionali, in questo nuovo contesto, sempre più “si affacciano” – e anche percepiscono di affacciarsi – con tutto il loro peso di potenzialità e insieme di debolezze, sulle due grandi “frontiere” dell’Europa comunitaria: quella dell’Est post-comunista esteso fino alla Russia (su un piano politico-militare il conflitto nel Kosovo l’ha evidenziato in modo incontrovertibile) e, in secondo luogo, quella del Mediterraneo e in particolare della sua sponda meridionale, presumibilmente il più denso e incombente bacino migratorio mondiale di fine secolo. … LA COLLOCAZIONE IN EUROPA La nuova “questione settentrionale”, dunque, proietta se stessa in un orizzonte che va ben al di là di quello – divenuto sempre più “provinciale” – dei rapporti con Roma e con i poteri centrali nazionali. La domanda fondamentale che emerge nel nuovo contesto, e che gli individui e i soggetti collettivi dell’Italia settentrionale si pongono, non è più tanto * Cesdi srl, Torino 271 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA: quella “Come stiamo in Italia?”, quanto quella “Come stiamo in Europa?”, “Qual è il nostro peso rispetto agli altri europei?”, “Quanto contiamo nel mercato europeo e globale?”, “Quale ruolo possiamo svolgere nel quadro delle strategie e delle politiche comunitarie?”. Forse non è un caso, in questa prospettiva interpretativa, che nella politica italiana l’appeal e la forza elettorale della Lega siano negli ultimi tempi fortemente declinati. La rabbia e il rancore verso Roma, da soli, “non pagano” più come in passato. Più o meno distintamente, forse tutti ormai percepiscono che stiamo “cambiando casa”, e che quindi dobbiamo “prendere le misure” (misurando pesi e spazi reciproci) di questa nuova casa, dove abbiamo un’identità da costruire e un ruolo da esercitare, dai quali dipendono in misura crescente il nostro presente e il nostro avvenire. “Fare il punto” sui punti di forza e sui punti di debolezza dell’Italia settentrionale nel contesto europeo, cioè appunto “prendere le misure” nella nuova casa, diventa quindi un bisogno essenziale per progettare e costruire il futuro dell’Italia settentrionale. In sostanza, nella prospettiva del nuovo secolo, si può legittimamente parlare di una “questione settentrionale” come problema della collocazione dell’Italia settentrionale nell’Europa. L’ITALIA SETTENTRIONALE COME “SPECCHIO DELL’EUROPA” L’Italia settentrionale – va ricordato (come emerge del resto dai contributi di ricerca che presentiamo) – non ha un’identità economico-sociale del tutto unitaria (è un mosaico di sub-sistemi) né un’identità culturale veramente omogenea né istituzioni macroregionali comuni. L’Italia settentrionale, in questo senso, è per così dire “specchio” dell’Europa: come l’Europa, ha un’identità più progettuale e politica che fattuale. Non è tanto quello che è, quanto quello che progetta di diventare. La sua identità si costruisce di fronte alle sfide che il divenire del tempo progressivamente le pone. Prima di “tirare i fili” dei numerosi contributi di ricerca che presentiamo sulle prospettive dell’Italia settentrionale nel Duemila, può essere quindi utile e opportuno definire quali siano le “sfide” di fronte alle quali l’Italia settentrionale, nel nuovo contesto, a nostro parere si trova. Avremo così un possibile paradigma di valutazione dei punti di forza e di debolezza , nei diversi campi indagati, che emergono dai contributi di ricerca. LE NUOVE SFIDE: COME “FARE SISTEMA” In concreto, queste sfide del nuovo secolo – la cui soluzione configura i termini della nuova “questione settentrionale” – possono essere così delineate: • Come “fare sistema”, “essere sistema”, e non soltanto un insieme di territori e di istituzioni privi (o poveri) di interconnessioni, risorse, progetti comuni (incapaci ad esempio, se non forse in tempi “biblici”, di costruire infrastrutture di trasporto comuni)? • Come “essere sistema”, ma non soltanto in Italia, bensì nel contesto europeo più avanzato, “gettando ponti” e costruendo interconnessioni verso l’area forte anglo-franco-tedesca? • Infine, come – in quanto sistema interconnesso con l’area forte dell’Europa – “fare cerniera” con le due frontiere (l’Est e il Sud) dell’Unione, proponendosi come piattaforma in grado di contribuire al collegamento fra “cuore” e periferie del continente? 272 UNA LETTURA DI SINTESI LA POPOLAZIONE E LA FORMAZIONE DEL CAPITALE UMANO: RISCHI E OPPORTUNITÀ PER UNA SOCIETÀ SEMPRE PIÙ “VECCHIA” UN’ITALIA DEL NORD SEMPRE PIÙ “VECCHIA” … Il dato demografico, in una qualsiasi analisi prospettica, è per più aspetti una base utile e opportuna, soprattutto dato che – come osserva Molina nel suo contributo – offre proiezioni caratterizzate rispetto ad altre (economiche, sociali ecc.) da un minor grado di aleatorietà. Ciò che emerge in primo piano dall’analisi demografica sull’Italia settentrionale è il processo di invecchiamento: “L’Italia è l’unico grande paese europeo in cui le persone anziane già oggi superano quelle più giovani. In alcune regioni del Nord il rapporto giovani/anziani è addirittura di due a uno…” (Molina). Di conseguenza l’Italia settentrionale ha crescenti difficoltà a garantire il ricambio generazionale e la riproduzione del capitale umano. Dagli anni Novanta, e presumibilmente per i prossimi due decenni, in particolare, si verifica una crescente “rarefazione della clientela universitaria”, cioè dei giovani compresi fra i 19 e i 24 anni, con conseguenze facilmente intuibili per il mercato del lavoro, almeno nelle sue fasce più qualificate. “È quasi superfluo sottolineare – osserva Molina – come dal modo in cui si manifesteranno le possibili carenze di capitale umano discenderà la possibilità, o l’impossibilità, di realizzare i diversi progetti di sviluppo attualmente proponibili per l’area”. Se poi l’attenzione si sposta dalle classi giovanili a quelle adulte, si può rilevare come “nei prossimi anni il baricentro della popolazione tenderà a scivolare verso le età mature”. Già oggi l’età media della popolazione settentrionale si colloca intorno ai 42-43 anni, e raggiungerà i 45 nel 2010. È interessante osservare come i cittadini dell’area abbiano attualmente un’età doppia rispetto a quelli del Nord Africa, una delle due frontiere “calde” dell’Europa comunitaria, e come ciò contribuisca a rendere ancora più complesso e difficile il dialogo culturale e la mediazione fra queste aree. … PORTA CON SÉ UN AUMENTO DELLE RIGIDITÀ INTERNE AL SISTEMA Meno giovani e più anziani significa, secondo l’analisi di Molina, un presumibile “aumento delle rigidità interne al sistema”, proprio mentre, come è noto, quasi universalmente si invoca l’introduzione nella società e nell’economia di maggiori elementi di flessibilità come condizione necessaria dello sviluppo. In specifico, si possono individuare almeno tre fattori di rigidità, derivanti dall’invecchiamento demografico: le finanze pubbliche, con la prevedibile riduzione dei margini di manovra per le politiche di bilancio; l’organizzazione del lavoro (meno flessibilità sul lavoro, tensioni sui costi, problemi di riqualificazione ecc.); la propensione alla mobilità, che è “variabile in funzione dell’età degli individui”. “In assenza di correttivi – osserva ancora Molina – la relativa esiguità delle risorse pubbliche non vincolate, l’espansione dei costi del lavoro, le difficoltà emergenti nella gestione delle risorse umane da parte delle imprese, la minor mobilità degli individui sul territorio potrebbero quindi influire negativamente sulle motivazioni occorrenti per nuovi investimenti nell’area, sia da parte di investitori locali, che da parte di stranieri”. E ciò si innesterebbe – possiamo aggiungere – su una situazione degli investimenti esteri in Italia, in particolare del tipo greenfield, già oggi come è noto assai poco soddisfacente. 273 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA: I PROCESSI MIGRATORI IN ENTRATA NON POSSONO COMPENSARE IL VENIR MENO DEL BABY BOOM … OCCORRONO DUNQUE POLITICHE APPROPRIATE IN PARTICOLARE NEI SISTEMI FORMATIVI: PIÙ FLESSIBILI ED EFFICIENTI In questo quadro – che unisce elementi preoccupanti a opportunità da cogliere, come vedremo in seguito, attraverso adeguate politiche in particolare formative – si collocano i processi migratori che investono le regioni settentrionali provenendo da aree extra-comunitarie. Sembrerebbero poter contribuire in modo decisivo, almeno a prima vista, al ricambio generazionale e alla riproduzione del capitale umano. Ma la tesi di Molina a questo proposito è negativa. “Per compensare l’effetto strutturale sulla popolazione europea determinato dal venir meno del baby boom occorrerebbero infatti da 8 a 14 volte in più di immigranti rispetto a quanti ve ne sono oggi”, e per l’Italia settentrionale, dove la denatalità è particolarmente intensa, occorrerebbero moltiplicatori ancora più elevati. Va osservato, inoltre, che vi sono attualmente anche problemi irrisolti di “qualità” dei flussi migratori, che implicherebbero politiche selettive, oggi inesistenti almeno in Italia, volte a favorire segmenti migratori particolarmente qualificati. La situazione demografica dell’Italia settentrionale – presente e soprattutto futura – pone dunque problemi e interrogativi e sollecita la necessità di politiche appropriate. In primo piano emerge la questione dei processi formativi e dei tassi di popolazione attiva: se vi sono minori risorse umane disponibili, bisogna migliorarne la qualità, tentare di “non perdere per la strada nessuno”, aumentare i tassi della popolazione attiva e utilizzare tutte le risorse latenti. In queste direzioni, vi sono per l’Italia settentrionale – secondo i contributi di ricerca che presentiamo, in particolare di Molina e Davico – ampi margini di possibilità e opportunità da cogliere. Per quanto riguarda i processi formativi, i forti tassi attuali di abbandono e di dispersione a livello superiore (oltre 200 mila studenti l’anno), l’inefficienza del sistema universitario (testimoniata in modo evidente dal fatto che in Italia solo il 10% degli studenti riesce a laurearsi “in corso”, contro il 16% in Germania, il 19% in Olanda, il 26% in Belgio), la debolezza del sistema di formazione professionale (e la quasi assenza di una formazione professionale di secondo livello post-diploma e post-laurea), il ritardo nella creazione di un sistema di formazione ricorrente e permanente per adulti (decisivo in un contesto nel quale gli adulti maturi diventano la quota centrale della popolazione) configurano ampi margini di possibile intervento per i poteri pubblici. Va ancora tenuto presente, in questo quadro, che secondo i più recenti dati Ocse (relativi al 1996) l’Italia, sesta potenza economica mondiale, è soltanto al ventitreesimo posto per quanto riguarda la percentuale di popolazione adulta (24-64 anni) con il titolo di studio universitario, con l’8,1% contro il 25,8 degli USA, il 22,5 dell’Olanda, il 13,1 della Germania, il 12,8 del Regno Unito e della Spagna, il 9,7 della Francia. Sempre sul piano nazionale, ma con evidenze comunque significative anche per la sola parte settentrionale dell’Italia, è opportuno ricordare – in connessione alla scarsità dei titoli universitari – che i ricercatori sono soltanto 32 ogni 10 mila lavoratori attivi, mentre sono 92 in Giappone, 78 in Svezia, 74 negli USA (dati Ocse relativi al 1996). 274 UNA LETTURA DI SINTESI Gli investimenti nella formazione sono quindi la grande sfida che i decisori politici devono anzitutto cogliere, almeno per garantire una gestione più oculata delle risorse umane (sempre più scarse, come si è visto, in una prospettiva demografica) oggi in buona misura sprecate. I MARGINI DI MANOVRA DELL’ITALIA A FRONTE DEL CALO DEMOGRAFICO E DELL’INVECCHIAMENTO DELLA POPOLAZIONE Anche dal punto di vista dei tassi della popolazione attiva vi sono, per l’Italia settentrionale, ampi margini di correzione, per recuperare risorse inutilizzate, dato che, nei confronti con il resto dell’Europa (e pur tenuto conto di un’ampia area di economia sommersa, superiore a quella di altri paesi), i tassi di attività italiani per le persone fra i 50 e i 60 anni sono bassissimi, come pure sono bassi i tassi di attività della popolazione femminile. Ma anche in questo caso, occorrono politiche formative adeguate, in particolare politiche per la formazione ricorrente e degli adulti, volte a rendere concretamente utilizzabili, e non solo a livelli di bassa qualificazione, le risorse umane attualmente marginali e inutilizzate. In sostanza, come osserva sinteticamente Molina, “Alcune caratteristiche nostrane, che ancora oggi ci distinguono dal resto d’Europa, potrebbero rivelarsi una sorta di assicurazione contro gli effetti del declino demografico: la massa di studenti che non riescono a portare a conclusione i cicli scolastici e i corsi universitari avviati, la maggioranza della popolazione femminile che rimane ancora estranea al mercato del lavoro, la scarsa attività non solo degli anziani, ma anche dei cinquantenni, indicano … l’esistenza di abbondanti riserve di popolazione e garantiscono ampi margini di manovra per attenuare alcune delle conseguenze dirette dell’evoluzione demografica”. RICERCA E SVILUPPO, INNOVAZIONE E SISTEMA DELLE IMPRESE: FORZA E DEBOLEZZA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL CONTESTO EUROPEO Il livello non soddisfacente di formazione del capitale umano, di cui si è parlato in precedenza, non è evidentemente estraneo alla qualità della R&S e del sistema delle imprese. Come osserva sinteticamente Vitali nel suo contributo, non a caso “le imprese del Nord Italia primeggiano a livello internazionale in settori definibili più o meno tradizionali, quali il tessile-abbigliamento, calzature, mobilio, macchinari. In tali settori le imprese settentrionali vincono la concorrenza internazionale utilizzando fattori competitivi non-price.., ma non di tipo tecnologico (al contrario di quanto accade nelle regioni avanzate europee) …”. LONTANI DAI PRIMI IN EUROPA SIA NELL’INPUT TECNOLOGICO (SPESE E ADDETTI IN R&S) Più analiticamente, per quanto riguarda l’input tecnologico, il dato relativo alle spese in R&S, con l’1,2% del Pil nel 1994, conferma che l’Italia settentrionale primeggia tra le regioni italiane e tra gli stati mediterranei (Grecia e Spagna), ma che è fortemente distaccato dalle regioni e dagli stati del centro Europa (come Baden Wurttemberg con il 2,9% o Rhone Alpes con il 2,2%, Francia con il 2,4% o Germania con il 2,3%). Anche in termini di addetti alla R&S, calcolati sul totale della popolazione attiva, e in comparazione con le regioni e gli stati dell’Europa più avanzata, il dato “appare particolarmente basso in tutte le regioni italiane… In negativo, emerge il dato relativo al Nord Est, a conferma della differenza esistente tra queste regioni e Lombardia e Piemonte” (Vitali). 275 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA: … SIA NELL’OUTPUT TECNOLOGICO (BREVETTI DEPOSITATI) I PROBLEMI DI FONDO: LA DISCRASIA TRA DOMANDA E OFFERTA DI INNOVAZIONE Per quanto riguarda poi l’output tecnologico (cioè i risultati dell’innovazione tecnologica), che può essere misurato sia in termini di brevetti depositati dalle imprese sia in termini di numero di imprese definibili come “innovative”, i dati (relativi al 1990-95) evidenziano una situazione ugualmente problematica nella comparazione europea. “L’output tecnologico, misurato in termini di brevetti depositati dalle imprese, vede le regioni settentrionali, come del resto tutte le regioni italiane, nei posti più bassi della classifica dei valori assoluti e di quelli normalizzati con il numero di abitanti presenti… La Lombardia … con 88 brevetti per abitanti non supera nemmeno la media UE. Tale media è determinata da regioni leader che mostrano livelli altissimi di brevetti per abitanti, quali il Baden Wurttemberg (327), il Bayern (248), la stessa media tedesca (174), a fronte di alcune aree a scarsissima intensità brevettuale, quali Grecia (3 brevetti per abitante) e Spagna (7)” (Vitali). Va ancora segnalato che fra il 1990 e il 1995 la dinamica brevettuale italiana e settentrionale ha manifestato pochi casi di miglioramento (in particolare l’Emilia Romagna), mentre le più forti regioni del Nord hanno evidenziato un sensibile arretramento (la Lombardia con meno 9% e il Piemonte con meno 18%) nelle loro posizioni. I problemi di fondo, che emergono dall’analisi relativamente ai processi di innovazione tecnologica delle imprese dell’Italia settentrionale, possono essere delineati sinteticamente nel modo seguente: • l’elevata presenza di piccole imprese riduce la possibilità di attivare progetti di R&S dotati di quella massa critica che è necessaria a superare le alte barriere all’ingresso nei settori delle nuove tecnologie; • la domanda di innovazione da parte delle imprese è fortemente parcellizzata e si traduce nella richiesta di tecnologie non standardizzate (a fronte di un’offerta che ricerca invece economie di scala in progetti ampi e coinvolgenti un gran numero di imprese), a causa della forte propensione delle imprese italiane a differenziare i prodotti per fare fronte alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo, che, come è noto, risulta vincente nei prodotti più standardizzati e di bassa qualità; • le innovazioni introdotte derivano generalmente dall’esperienza accumulata o dalle conoscenze create in altri settori o imprese, più che da un processo formalizzato di R&S; • le piccole imprese settentrionali hanno bisogno in genere di un “sapere” molto pratico e specifico, e ciò rende difficili i rapporti con enti pubblici di ricerca e università, che hanno propensioni e capacità di tipo più teorico e generale; • vi è dunque, per concludere, una relativa discrasia fra domanda e offerta di innovazione, e ciò vale non solo per le università e gli enti pubblici di ricerca, ma anche per quanto riguarda l’offerta che proviene dai centri di servizio per l’innovazione tecnologica, diffusi particolarmente nelle areedistretto, che pure sono maggiormente a contatto con le imprese e con i loro bisogni. È certamente possibile obiettare che questa analisi, nel suo relativo pessimismo, non sembra rendere conto delle ragioni dei successi delle imprese settentrionali nella competizione internazionale, ma il fatto è che queste ragioni sembrano essere solo scarsamente di tipo tecnologico. 276 UNA LETTURA DI SINTESI L’INNOVAZIONE ORGANIZZATIVA COME PUNTO DI FORZA DELLE IMPRESE DISTRETTUALI IL MODELLO INNOVATIVO DELL’ITALIA DEL NORD: LUCI Come osserva Vitali, “I fattori che consentono alle piccole imprese dell’Italia settentrionale di essere competitive a livello internazionale sono solo in parte di tipo tecnologico, nell’accezione più pura del termine… Infatti, da numerose indagini svolte sui fattori che rendono competitive le imprese distrettuali emerge come l’innovazione più importante per tali imprese sia quella di tipo organizzativo: il modo di produrre, che si materializza nell’insieme delle relazioni fra le imprese, è diventato un importante elemento per determinare la vittoria internazionale di tale tipo di imprese”. Anche se – osserva ancora Vitali – è sicuramente vero che all’interno di queste innovazioni organizzative vi sono probabili componenti tecnologiche, relative ad esempio a nuovi materiali, a nuovi processi di lavorazione, a nuovi macchinari, a nuovi approcci e metodologie nella logistica. Nell’attuale modello di sviluppo settentrionale, guardato in particolare dal punto di vista dell’innovazione tecnologica, emergono quindi non solo aspetti positivi, ma anche notevoli motivi di preoccupazione. I primi sono relativi alla capacità di adattamento incrementale e di integrazione fra i diversi fattori competitivi (oltre alla tecnologia, il marketing, la pubblicità, il design, la qualità di processo ecc.) dimostrata dal sistema di imprese, con risultati ben visibili sul piano dei risultati commerciali. … ED OMBRE I secondi, che più interessano in questa sede anche nella prospettiva di un ripensamento delle politiche, consistono nella mancanza di posizione di avanguardia nelle innovazioni radicali, nei rischi di spiazzamento in presenza di forti innovazioni tecnologiche, nella difficoltà all’impiego di capitale di rischio finalizzato all’innovazione tecnologica. “Purtroppo – osserva Vitali – è ormai un dato acquisito come l’industria italiana abbia ormai perso il treno della specializzazione nei settori high-tech, quali le biotecnologie, la chimica fine, il farmaceutico, i personal computer, gli apparati di telecomunicazione, il software, la micromeccanica”. Ciò non esclude, tuttavia, che sia possibile recuperare posizioni o insediarsi (come già alcune imprese settentrionali hanno fatto, ad esempio nel campo della meccatronica) in particolari “nicchie” di alta tecnologia. PREOCCUPA, L’unico aspetto sicuramente negativo – osserva ancora Vitali – è che comunque allo stato dei fatti “la struttura industriale del Nord Italia non è posizionata nei comparti dell’economia a forte crescita, e quindi che essa può aumentare le quote di mercato solo a scapito delle attività dei concorrenti”. In altre parole, latitano nuovi prodotti e nuovi mercati, e quindi non esistono adeguati “motori” dello sviluppo, né interno all’area né – tantomeno – esterno ad essa, nella direzione di quelle “frontiere” a Sud e ad Est di cui si è parlato in precedenza. Non a caso la finalità degli investimenti produttivi nell’area mediterranea (in settori come tessile-abbigliamento e calzature) “è soprattutto di tipo resource-seeking, cioè l’impresa dell’Italia settentrionale è indotta ad investire in tali paesi mediterranei per sfruttare i minori costi dei fattori produttivi, lavoro in primis” e, per quanto riguarda l’Est, oltre a questa finalità, “vi è l’obiettivo di aprire nuovi sbocchi di mercato” (Vitali). Il trasferimento tecnologico che si realizza è quindi molto limitato, anche se può indubbiamente contribuire a qualche positivo sviluppo per i paesi destinatari almeno in settori tradizionali e maturi. SOPRATTUTTO, LA SCARSA PRESENZA NEI COMPARTI PRODUTTIVI A FORTE POTENZIALITÀ DI CRESCITA 277 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA: LA NASCITA DI NUOVE IMPRESE: I RISCHI DEL “NANISMO” IMPRENDITORIALE I limiti tecnologici e di innovazione del sistema imprenditoriale settentrionale emergono anche dall’analisi delle dinamiche della neoimprenditorialità, condotta nel contributo di Bordino. Se è vero, infatti, che nascono molte nuove imprese e se è vero che la densità imprenditoriale italiana primeggia in Europa, è altrettanto vero che diminuisce parallelamente la dimensione media delle imprese e che, di conseguenza, il nostro paese “primeggia” anche per il “nanismo” del suo sistema industriale. Sul piano nazionale, come risulta dal Censimento intermedio dell’industria e dei servizi, il numero medio di addetti non ha fatto che scendere nel corso degli anni: da 7,7 per azienda nel 1991 a 6,5 nel 1996. E, in questo quadro, anche il Nord più sviluppato non fa eccezione, e continua anzi a caratterizzarsi sempre di più per la carenza di imprese grandi ed anche medie, particolarmente significativa se vista comparativamente nel contesto europeo. Le imprese nuove che nascono, in sostanza, nascono piccole e, soprattutto, restano piccole: troppo spesso non riescono a raggiungere quella dimensione critica che consentirebbe loro di accedere al capitale di rischio, di ottenere finanziamenti all’innovazione, di realizzare processi adeguati di R&S, di concepire nuovi prodotti e di aprire nuovi mercati, di entrare in quei circuiti distributivi globali che sempre più, come è evidenziato nel contributo di Lecca sulla distribuzione commerciale, condizionano e in qualche misura si impongono ai sistemi produttivi. Certamente, a questa analisi preoccupata si possono fare, e vengono fatte, tre tipi di legittime obiezioni: la prima, è che la riduzione della dimensione media è in qualche misura fisiologica in quanto “figlia” di processi di modernizzazione come l’outsourcing, le reti, la terziarizzazione dell’economia in generale; la seconda è che l’esistenza e la forza, tipicamente italiane e settentrionali, dei distretti e dei sistemi locali di impresa compensa e surroga il nanismo delle singole unità produttive; la terza, infine, è che la crescita dei “gruppi”, costituiti da imprese giuridicamente autonome ma “tenute insieme” da un’unica proprietà, corregge e compensa a sua volta la ridotta dimensione media delle singole imprese. Come risulta dal contributo di Bordino, si tratta tuttavia di “correttivi” che non consentono di eliminare dubbi e preoccupazioni. Anzitutto outsourcing, reti, terziarizzazione non sono fenomeni soltanto italiani, ma francesi, tedeschi, inglesi ecc.: eppure, in quei paesi non vi è il crescente “nanismo” imprenditoriale italiano. In secondo luogo, distretti e sistemi locali di imprese rappresentano un modello vincente (ma, come risulta dai dati più recenti sul commercio estero, in alcuni settori sempre meno vincente, di fronte alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo) nei settori tradizionali e maturi del “made in Italy”, ed è invece molto dubbio che “i problemi derivanti dalla scarsa, ed anzi sempre più debole negli anni, presenza italiana nei settori ad alta tecnologia possano essere affrontati attraverso il modello tradizionale dei sistemi di piccola impresa…” in quanto appare probabile che “nessuna economia esterna derivante dal territorio possa compensare davvero le carenze di investimenti ad effetto differito e di innovazione derivanti dalla dimensione media troppo piccola delle imprese” (Bordino). In terzo luogo, la crescita dei “gruppi” è stata comunque minore che in altri paesi, non ha riguardato i settori a più elevato contenuto tecnologico e non ha 278 UNA LETTURA DI SINTESI prodotto sostanziali incrementi occupazionali, in quanto nuova occupazione si crea solo essendo presenti e sviluppando nuovi prodotti e nuovi mercati. In sostanza, è possibile affermare, e con legittima preoccupazione, che le dinamiche della neoimprenditorialità in atto continuano a riprodurre ed anzi ad ampliare, nel nostro paese, e in specifico nella sua parte settentrionale, il modello delle piccole imprese corretto al più dalle “economie esterne” dei sistemi locali, proprio mentre tuttavia questo modello – fondato sulla ricerca costante di “economie di diversità” e di “nicchie” di mercato molto segmentate in settori prevalentemente tradizionali e maturi -– negli anni Novanta è probabilmente in fase di esaurimento, di fronte alla nuova realtà dell’Europa come economia ormai “domestica”, della globalizzazione come orizzonte competitivo ineludibile per tutti, dei mercati virtuali come nuova frontiera dello “stare sul mercato”, dei grandi circuiti distributivi transnazionali e mondiali come nuovi “signori” per un numero crescente di settori produttivi. PRODUZIONE MANIFATTURIERA E TERZIARIO DI SERVIZIO: PRIMATO IN ITALIA, MA COLLOCAZIONE PERIFERICA IN EUROPA Nel loro contributo sul sistema industriale del Nord Italia, Russo e Vitali evidenziano, anzitutto, da un lato il peso relativo centrale dell’area nel contesto nazionale (l’industria settentrionale come “cuore” del sistema, con il 79,9% degli addetti nazionali), d’altro lato le sue caratteristiche strutturali, fondate sul modello organizzativo settorial-territoriale dei “distretti”, con le loro particolari specializzazioni produttive. “Noi nutriamo il dubbio – osservano a questo proposito fin dall’inizio gli Autori – che i vantaggi competitivi scaturenti dalle specializzazioni distrettuali possano, da soli, rimediare agli svantaggi e alle debolezze eventualmente emergenti in altri campi”. È DUBBIO CHE L’ECONOMIA DISTRETTUALE , DA SOLA, POSSA CONTINUARE A SORREGGERE LO SVILUPPO INDUSTRIALE Questo dubbio, nell’analisi di Russo e Vitali, è fondato su molteplici ragioni, relative non solo alla realtà settentrionale, ma più in generale all’intero sistema industriale italiano: • lo scarso sviluppo relativo della produzione industriale italiana relativamente ad altri paesi avanzati fra il 1993 (anno della ripresa produttiva, grazie alla svalutazione seguita alla crisi monetaria del 1992) e il 1998 che, a differenza di quanto avvenuto in altri paesi come Regno Unito e Olanda, si è anche accompagnato alla mancata crescita del settore dei servizi; • gli elevati indici di specializzazione, in comparazione internazionale, nei settori tradizionali (cuoio, calzature, tessile, abbigliamento, mobile, ma anche meccanica, beni strumentali ecc.) e, nello stesso tempo, i bassi indici di specializzazione in settori come la chimica, l’elettronica, l’automobile ecc.; • la costante diminuzione relativa di imprese ad alta intensità di capitale nel corso degli anni Novanta; • la scarsa crescita relativa nei settori high-tech, in comparazione a paesi come Francia o Gran Bretagna; 279 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA: • la debolezza relativa dei flussi di investimenti dall’estero e all’estero (su cui si veda lo specifico contributo di Cominotti). Secondo l’analisi di Russo e Vitali, si può ipotizzare che “non vi è stato un radicale cambiamento delle specializzazioni dell’industria italiana in accordo con la domanda mondiale di prodotti e servizi a forte contenuto tecnologico e innovativo, in grado di remunerare con un premio di prezzo i fattori che li producono” e, in questo quadro, “il mantenimento delle specializzazioni tradizionali è stato realizzato pagandone il costo in termini di ‘dimagrimenti produttivi e occupazionali’, piuttosto sensibili, non compensati da una pari crescita di settori e vocazioni nuove”. In questa prospettiva interpretativa, il fenomeno “distretti” può essere visto essenzialmente come un “eccellente esempio di adattamento imprenditoriale e territoriale a una serie di vincoli del sistema…” relativi sia alle risorse finanziarie sia a quelle umane. In sostanza, si tratta quindi di un fenomeno che non può, da solo (proprio perché si tratta ora di rimuovere questi vincoli, non di continuare ad adattarvisi), garantire il futuro sviluppo, nel nuovo contesto competitivo, del sistema industriale italiano, né tantomeno di quello settentrionale. Venendo ora a quest’ultimo, si può rilevare, secondo gli Autori, come nel corso degli ultimi decenni sia progressivamente cresciuto proprio il peso dei settori tradizionali del “made in Italy” sull’insieme dei settori e sul complesso dell’economia nazionale: “…si nota una netta specializzazione del Nord Italia rispetto al resto della nazione: l’indice di specializzazione settoriale del complesso dei settori tradizionali è di 1.5…indicando quindi che il peso di tale macro-comparto nell’Italia del Nord (64% dell’occupazione complessiva) è maggiore di circa il 50% del peso di tale comparto nell’industria italiana (43% dell’occupazione complessiva)”. Possiamo dire, in sintesi, che proprio da questo quadro evolutivo, ricostruito da Russo e Vitali, si evidenzino la forza (presumibilmente più per il passato che per il futuro) e nello stesso tempo la debolezza (che è lecito temere per il futuro) del sistema industriale dell’Italia settentrionale nel contesto internazionale. “Made in Italy”, distretti, macchinari industriali per il “made in Italy” sono stati senza dubbio, e in parte sono ancora, i cardini non solo dello sviluppo settentrionale, ma anche della complessiva forza competitiva del sistema economico italiano sui mercati mondiali, ma è per lo meno incerto che possano continuare ad esserlo, e nella stessa misura, anche in futuro. I RISCHI DI DEINDUSTRIALIZZAZIONE Dalla ricostruzione di Russo e Vitali emerge poi uno specifico motivo di dubbio, di grande rilevanza anche sociale, sulle vicende del sistema produttivo settentrionale negli ultimi decenni: la riduzione degli occupati manifatturieri che è avvenuta nel corso del tempo è espressione di un processo di “deindustrializzazione” o soltanto (nell’ipotesi migliore) di “riorganizzazione delle fasi produttive”? La legittimità della preoccupazione (e sul punto si veda anche, a conferma, il contributo di Bordino sulla neoimprenditorialità) deriva dal fatto che “parziali conferme del processo di deindustrializzazione in atto nascono dalla constatazione che le imprese ‘innovative’ non vengono localizzate nell’Italia del Nord Ovest, ma in altre regioni europee, evidenziando un deficit di rigenera- 280 UNA LETTURA DI SINTESI zione imprenditoriale dell’area da cui il mercato sta eliminando le produzioni obsolete”. È vero che su questi problemi il dibattito fra gli economisti è aperto, come osservano Russo e Vitali, “tra chi prevede una sostanziale tenuta delle produzioni manifatturiere e la maggiore importanza dei ‘servizi avanzati’ per il sistema manifatturiero stesso”, ma i dubbi sulla tenuta dovrebbero per lo meno alimentare un’adeguata riflessione sulle politiche opportune per prevenire i rischi (se non le certezze) di decadenza, anche in considerazione del fatto che – come emerge dal contributo di Iano sui servizi alle imprese – la realtà e le prospettive del terziario avanzato settentrionale non appaiono, allo stato delle cose, per nulla rassicuranti. UNA RITROVATA CENTRALITÀ DELLA GRANDE IMPRESA IL RUOLO DEI BUSINESS SERVICES Vi è ancora un ulteriore elemento di valutazione da evidenziare circa il sistema manifatturiero settentrionale, che emerge particolarmente sia dal contributo di Russo e Vitali sia da quello di Bordino, relativo ai rapporti fra la dimensione di impresa e la capacità competitiva del sistema stesso. Se “all’inizio degli anni Ottanta le piccole dimensioni si trovano notevolmente avvantaggiate sulle grandi…la rivincita e il recupero della grande impresa avvengono negli anni Novanta grazie, nuovamente, all’evoluzione tecnologica. L’uso dell’informatica assume un aspetto sistemico con la sua estensione dall’area meramente produttiva a tutte le rimanenti funzioni aziendali … Solo la grande impresa può permettersi di effettuare gli elevati investimenti che le innovazioni di sistema comportano, talvolta aiutata in ciò dai freschi capitali raccolti in borsa … Negli anni Novanta, il ritorno dell’importanza delle economie di scala avviene in nuovi ambiti di applicazione: non più economie di scala tecniche, che afferiscono all’ampiezza degli stabilimenti produttivi, ma soprattutto economie di scala economiche, finanziarie, distributive, tecnologiche, di gamma prodotta. In questo contesto di ripresa della grande impresa, le imprese del Nord Italia registrano dimensioni nettamente inferiori ai concorrenti europei, sollevando alcuni dubbi sulla loro capacità di contenere la concorrenza dei grandi gruppi internazionali” (Russo e Vitali). Va ancora ricordato che il ritorno di importanza delle economie di scala è anche determinato, alla fine degli anni Novanta, dalla realizzazione della moneta unica europea, “un ulteriore catalizzatore dello sviluppo della grande dimensione: i vantaggi di efficienza garantiti dai minori costi transazionali che la moneta unica consente sono sfruttati soprattutto dalle grandi dimensioni che operano in tutto il mercato europeo come se si trattasse di un grande mercato domestico. Chi non ha le dimensioni per fare ciò … non può sfruttare i benefici dell’Unione Economica e Monetaria, subendone comunque la maggiore concorrenza determinata dalla trasparenza dei prezzi” (Russo e Vitali). Accanto ai settori manifatturieri, un ruolo sempre più decisivo è svolto nelle economie attuali – come è noto – dai settori terziari di servizio alle imprese (o Business Services – BS), sui quali si sofferma lo specifico contributo di ricerca di Iano. Si tratta di un aggregato molto eterogeneo di attività, delle quali sono prese in particolare considerazione, con riferimento ai dati del Censimento intermedio Istat 1996, l’informatica e le attività connesse, la ricerca e sviluppo, i servizi professionali e imprenditoriali. Come rileva Iano, analizzando i dati in base a diversi indicatori di densità (rispetto a popolazione, occupati totali e addetti alle imprese) e scorporando dall’insieme del BS le attività di tipo più moderno o potenzialmente innovativo, “il fatto che nel Nord Italia si concentri una quota importante 281 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA: dell’offerta nazionale di Business Services di tipo moderno (63%) qualifica certamente l’economia di questo territorio, ma in misura che è sostanzialmente coerente con le dimensioni del suo sistema di imprese e, quindi, poco più che in linea con il suo potenziale interno di domanda”. Nel quadro delineato, emerge come sul piano nazionale solo in tre regioni – Piemonte, Lombardia e Lazio – la presenza di forme moderne di servizio alle imprese ecceda la media nazionale qualunque sia il parametro di riferimento in base al quale si propone il confronto. Nel Nord, Piemonte e Lombardia sono il “cuore” del sistema terziario avanzato, con al centro i nodi urbani di Milano e Torino: aree nelle quali si concentra, non a caso, “la presenza di grandi imprese, delle sedi di grandi gruppi o di centri direzionali, di istituzioni e centri culturali che esprimono direttamente o generano indirettamente livelli di domanda più elevati in termini di servizi avanzati e di funzioni terziarie innovative” o, ancora, aree in cui “si collocano le più importanti infrastrutture di mercato, o principali snodi dei trasporti e delle comunicazioni…” (Iano). Ma ciò che è necessario chiedersi, al di là del noto e prevedibile primato del Nord in Italia, “è…se il Nord dell’Italia, attraverso i poli terziari lombardo e piemontese, possa aspirare ad una posizione di centralità su scala continentale o se al contrario Milano e Torino non si limitino invece a svolgere un ruolo di raccordo tra le aree forti dell’Europa e un Nord dell’Italia, magari ricco e con una solida base industriale, ma sostanzialmente periferico nella gerarchia dei territori del continente per quanto riguarda talune funzioni che sono strategiche per il governo ed il controllo di processi economici” (Iano). Ciò che emerge a questo proposito, utilizzando i dati relativi alla voce “servizi alle imprese” di UIC-Banca d’Italia per quanto riguarda l’interscambio con l’estero, è anzitutto che “circa i quattro quinti del movimento compete al Nord Italia e che in particolare quasi i due terzi riguardano l’area di Nord Ovest”, e soprattutto i poli urbani di Milano (40,9% dell’interscambio) e, in misura molto minore, di Torino (11,3%). In secondo luogo, ciò che balza in evidenza è che il saldo degli scambi con l’estero è fortemente passivo. Per quanto riguarda il Nord Italia, nel 1998 i crediti del periodo hanno coperto poco più del 70% dei debiti, e il saldo negativo ha rappresentato il 16,4% del corrispondente movimento. Questo saldo negativo si determina per quasi tutte le voci attraverso le quali gli interscambi di servizio vengono classificati, come ad esempio pubblicità, ricerche di mercato, servizi tecnologici e ancor più servizi informatici, per i quali l’export copre soltanto una modesta quota (37%) del valore importato. Ancora, è importante osservare come nell’interscambio di servizi vi sia per l’Italia, e in specifico per il Nord, un ristretto numero di paesi di riferimento, imperniato su Stati Uniti e Gran Bretagna (e in secondo piano Francia, Germania, Svizzera, Paesi Bassi e Belgio), nei confronti dei quali il nostro paese si pone decisamente come un importatore netto di servizi. In sostanza, i movimenti sia in entrata che in uscita riguardano esclusivamente le economie forti e i paesi avanzati, mentre non si evidenzia quasi per nulla un export diretto di servizi verso aree economiche – significative dal punto di vista di un eventuale ruolo di “cerniera” del Nord Italia verso le “frontiere” dell’Europa comunitaria – come il Nord Africa o l’Est europeo. 282 UNA LETTURA DI SINTESI IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE: LE DIFFICOLTÀ AD ESSERE PUNTO DI RIFERIMENTO PER IL SUD E L’EST “È evidente … dall’insieme dei dati – osserva Iano nella sua analisi – che il sistema economico italiano ed anche quello del Nord Italia non appare in grado di sviluppare autonomamente, ed in misura adeguata, molte funzioni di terziario moderno, né tanto meno di proporsi come bacino di offerta di rilievo internazionale e strutturato per proporsi complessivamente come area di riferimento su scala continentale”. Il Nord Italia, come del resto in qualche misura anche la Germania, sembra quindi conservare il suo punto di forza economico nel settore manifatturiero, dove peraltro – come si è visto in precedenza – i problemi e i fattori di indebolimento sono consistenti e crescenti. Del resto, è evidente che fra i due fenomeni vi sono rilevanti interazioni funzionali, dato che alcune caratteristiche (prevalenza di settori tradizionali, basso livello tecnologico, piccola dimensione delle imprese, scarsa innovatività di prodotto ecc.) del sistema manifatturiero, che pure – è bene ricordarlo – sono il punto di forza italiano e settentrionale, sono tali da generare una scarsa propensione del sistema stesso a “consumare” servizi e in particolare a incorporare quelle risorse professionali qualificate e innovative che il terziario “moderno” è chiamato a produrre. Va infine rilevato come alcuni dati comparativi a livello europeo (Eurostat, 1997) relativi al terziario di servizio – e in particolare alle ricerche di mercato, alla spesa pubblicitaria e ai servizi di informazione elettronica – confermino il relativo “pessimismo” di questa analisi. Si tratta di dati nazionali ma, tenuto conto del rilievo preminente del Nord in questi segmenti di servizi, possono essere considerati significativi anche per la sola Italia settentrionale. Per la pubblicità, ad esempio, in termini di spesa pro-capite l’Italia si colloca al penultimo posto della graduatoria dei paesi comunitari, dietro a Spagna e Grecia. Per i servizi di informazione elettronica la domanda interna è poco più di un quarto di quella inglese ed è poco più della metà di quella tedesca e francese. Un quadro particolarmente significativo della realtà e delle prospettive dell’Italia settentrionale nell’area del terziario avanzato emerge, infine, dall’esame del settore e del mercato dell’information technology visti nella loro globalità (hardware, software e servizi), dato il loro crescente ruolo strategico nell’economia contemporanea. ALCUNI SEGNALI DEL RITARDO ITALIANO IN EUROPA NEL SETTORE DELL’INFORMATION TECHNOLOGY In questo campo, come rileva Iano nel suo contributo, molteplici segnali evidenziano il ritardo italiano, anche del Nord sviluppato: • la spesa EDP pro-capite in Italia è circa la metà di quella francese, tedesca, inglese; • la consistenza relativa del parco installato di personal computer (10,3 PC per abitante) è ben lontana dagli standard europei; • il mercato delle tecnologie informatiche (16,3 miliardi di ECU nel 1998) ha dimensioni molto inferiori a quello francese (34,1), a quello inglese (40,4) e a quello tedesco (44,9); • inoltre i tassi di crescita di questo mercato, pur essendo superiori a quelli del Pil, sono più lenti che altrove, anche negli ultimissimi anni, e comunque si collocano nettamente sotto la media europea non solo per il passato ma anche secondo le previsioni per l’immediato futuro; 283 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA: • è rivelatore del ritardo italiano anche il modesto assorbimento di prodotti/servizi di provenienza diretta dagli Stati Uniti, cioè dal paese che detiene la leadership tecnologica nel settore: l’Italia rappresenta solo 1,7% dell’export di prodotti software americani, contro il 3,7 della Francia, l’8,2 della Gran Bretagna e l’8,4 della Germania (dati 1994). In sostanza – come osserva Iano nel suo contributo – “questo e numerosi altri indicatori … dimostrano una volta di più che l’Italia, oltre ad esprimere una domanda debole e a dipendere in misura rilevante dall’estero, si inserisce in una posizione piuttosto marginale nei circuiti di interscambio internazionale attraverso i quali si alimenta lo sviluppo del settore dell’IT”. Guardando più in specifico alla sola Italia del Nord, il quadro valutativo non cambia. Se si considera infatti un’area territoriale europea “forte” come quella comprendente Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo – di dimensioni simili a quelle del Nord Italia (26 milioni di abitanti contro 25,2) – si vede che in quell’area il mercato dell’IT nel 1998 raggiunge i 15,4 miliardi di ECU, cioè una cifra prossima non a quella del solo Settentrione ma dell’intero mercato nazionale italiano. “È indubbio pertanto – conclude Iano – che anche sul piano dell’IT il livello raggiunto dall’Italia del Nord, sia pure con divari attenuati, rimane distante da quello dei paesi economicamente più sviluppati, soprattutto da quell’area che, facendo perno su capitali e importanti città e sedi europee, come Londra, Parigi, Amsterdam, Bruxelles, si è da tempo candidata come sistema integrato e interdipendente di poli terziari avanzati del continente”. SENZA RETI NIENTE EUROPA: TERZIARIO E FINANZA, INFRASTRUTTURE, CITTÀ E ISTITUZIONI COME DECISIVI “FATTORI DI RETE” PER L’ITALIA SETTENTRIONALE NEL NUOVO SECOLO L’analisi del sistema terziario di servizio alle imprese riconduce la riflessione sull’Italia settentrionale ad un tema generale di importanza decisiva per le sorti dell’area, come del resto di qualsiasi territorio che sia coinvolto nel processo di globalizzazione: quello delle reti, cioè dei sistemi di interconnessione, di varia lunghezza (reti lunghe, brevi ecc.) e natura (di trasporto, di comunicazione, finanziarie, distributive ecc.) fra i diversi attori economici e sociali e fra i diversi territori. Anche i servizi alle imprese danno vita a processi di rete, a sistemi di interconnessione che irraggiano i territori, fanno comunicare e incontrare gli attori, favoriscono le collaborazioni e i “matrimoni” fra imprese. In questo senso, possono essere considerati decisivi “fattori di rete”, accanto agli altri sopra indicati. Come è noto, “essere in rete” e “fare rete”, nell’economia globalizzata, è sempre più un fattore competitivo di importanza decisiva, da cui dipende in buona misura il successo o l’insuccesso degli attori di mercato. Sono infatti le reti che consentono il passaggio (delle risorse, delle persone, delle imprese ecc.) dal “locale” al “globale” e, circolarmente, ancora dal “globale” al “locale”. Senza reti, il circolo virtuoso non si instaura o, nel migliore dei casi, almeno si interrompe. 284 UNA LETTURA DI SINTESI È quindi legittimo e opportuno chiedersi, in relazione alla riflessione sulle prospettive dell’Italia settentrionale nel Duemila, quale sia lo “stato di salute” di quest’area in termini di reti e di interconnessioni di rete. LE RETI DEL TERZIARIO D’IMPRESA: UN INTERSCAMBIO PASSIVO CON L’ESTERO Per quanto riguarda il terziario di servizio alle imprese, come si è visto in precedenza, si tratta di uno “stato di salute” almeno problematico. I soggetti terziari settentrionali che “fanno rete”, con le loro molteplici e complesse funzioni relazionali, non coprono neppure il fabbisogno degli operatori economici dell’area, tant’è che l’interscambio con l’estero è nettamente passivo. E, nello stesso tempo, questi soggetti non hanno evidentemente neppure le potenzialità per agire come “fattori di rete” fuori dall’area, in particolare verso quelle “frontiere” (Est europeo e Mediterraneo) dove si dovrebbero esercitare le vocazioni “mediatrici” – indotte anzitutto dalla geografia – del sistema economico e della società dell’Italia settentrionale. Ma i contributi di ricerca che presentiamo consentono un’analisi e una valutazione anche su alcuni altri essenziali “fattori di rete”: il sistema finanziario, alimentato dal risparmio prodotto nell’area; la distribuzione commerciale, sempre più dominata da grandi gruppi globali; le infrastrutture di trasporto, che interconnettono o dovrebbero interconnettere “fisicamente” gli attori dentro e fuori l’area; i centri urbani, che costituiscono i fondamentali “poli” e “nodi di interconnessione” di qualsiasi sistema territoriale di rete. Anche se non esaustiva, l’analisi contenuta nei diversi contributi di ricerca può offrire quindi un quadro complessivo di valutazione del “fare rete” e dello “stare in rete” di cui è attualmente – e in qualche misura anche in una prospettiva di breve periodo – capace l’Italia settentrionale. Può anche offrire – crediamo – una prima possibilità di riflessione sulle politiche attualmente realizzate nei diversi campi e, soprattutto, su quelle che dovrebbero essere avviate per rendere migliori e più garantite le prospettive di sviluppo dell’Italia settentrionale nel nuovo secolo. UN RISPARMIO DA PRIMATO … MA NON PIÙ COSÌ SOVRABBONDANTE Una prima riflessione emerge dai contributi di ricerca di Russo sul futuro del risparmio dell’Italia padana e di Rossi sul sistema finanziario dell’area. La capacità di risparmio dell’Italia, e in particolare della sua parte settentrionale, ha raggiunto in passato – come è universalmente noto – livelli da primato. Questo risparmio, essenzialmente delle famiglie, ha contribuito in modo decisivo non solo al finanziamento del sistema imprenditoriale ma anche ai più generali successi dell’economia italiana nella competizione internazionale e ancora, con la sottoscrizione del debito, alla “tenuta” della finanza pubblica negli anni della spesa facile. Tuttavia, come osserva Russo, a fine secolo ormai “il risparmio delle famiglie italiane, anche settentrionali, non è più così sovrabbondante. È un fatto che la propensione al risparmio delle famiglie eccedesse nel 1980 di ben 11 punti la media dei paesi europei (23 per cento contro il 12 per cento); nel 1990 il vantaggio si era ridotto a soli 7 punti (17 contro 10 per cento) e nel 1998 i due valori, italiano ed europeo, si sono rivelati schiacciati intorno all’11 per cento”. Ma ciò che più interessa, ai fini della prospettiva di riflessione sulle reti che abbiamo avviato in queste pagine, non è tanto il problema dell’entità del risparmio, quanto quello dei canali che lo convogliano, o meno, a finanziare i 285 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA: soggetti e i progetti dell’area settentrionale (oppure lo fanno “deviare” in luoghi più attraenti e lontani), cioè in altre parole un problema di reti e di servizi finanziari. “Il quadro delle risorse finanziarie endogene delle regioni della pianura padana – osserva Russo – è del tutto confortante, se si ragiona sull’entità attuale di tali risorse; esso diviene problematico se invece si cercano di proiettare gli scenari futuri. Pur costituendo uno dei bacini di ricchezza e risparmio più importanti d’Europa, in un contesto di progressiva liberalizzazione dei flussi di investimento e di moltiplicazione dei canali di intermediazione finanziaria, rispetto al tradizionale canale bancario, le minacce di abbandono regionale di una quota crescente degli impieghi sono realistiche”. … E NON PIÙ SALDAMENTE ANCORATO AL TERRITORIO DEL NORD ITALIA I PROBLEMI DEL SISTEMA FINANZIARIO SETTENTRIONALE: DAL LATO DELLA DOMANDA … E DAL LATO DELL’OFFERTA Più precisamente, Rossi nel suo contributo sul sistema finanziario segnala che “dal 1990 al 1998 la quota di depositi bancari detenuti dalle famiglie è passata dal 28 al 16% mentre i fondi comuni sono cresciuti dal 2 all’11%. Si è registrata, di fatto, una sottrazione del risparmio dai tradizionali centri di allocazione, le banche, a vantaggio di gestori professionali che investono il denaro raccolto in una dimensione non più locale, ma internazionale”. Dal canto loro, nel contempo, anche le imprese hanno modificato i loro comportamenti, realizzando un allargamento territoriale delle attività finanziarie e moltiplicando i loro investimenti all’estero. In questo nuovo quadro – destinato ad assumere “colori” sempre più marcati a causa degli sviluppi dell’unione economica e monetaria europea e della globalizzazione dei mercati – diventa decisivo per le sorti dell’Italia settentrionale lo “stato di salute” del suo sistema finanziario, cioè dei servizi, dei canali e delle reti che possono convogliare più o meno efficacemente i capitali, tanto endogeni quanto esogeni, verso l’impiego nell’area, oppure “deviarli” o lasciarli andare altrove. Nell’Italia settentrionale, come è noto, vi è un unico, grande e decisivo “polo” finanziario, quello di Milano. Ebbene, “la piazza di Milano mostra un generale svantaggio competitivo rispetto alle maggiori piazze europee e, anche se più ridotto, rispetto a piazze minori come Bruxelles, Copenhagen e Madrid. Le manifestazioni più evidenti di questa debolezza sono una Borsa valori sottodimensionata, il ritardato sviluppo di un mercato dedicato alle Pmi, la scarsa rilevanza di operatori specializzati nel corporate finance, l’assenza di un mercato informale dei capitali di rischio … Un efficace indicatore dello scarso sviluppo della Borsa di Milano è dato dalla scarsa capacità di attrazione del listino italiano nei confronti delle imprese estere: a Milano sono quotate solo 4 imprese straniere contro le 178 di Parigi e le 521 di Londra” (Rossi). Ma nell’analisi di Rossi – che per questo aspetto è da leggersi anche alla luce dei contributi di Vitali sull’innovazione tecnologica, di Bordino sulla neoimprenditorialità e di Russo e Vitali sull’industria manifatturiera – il problema del sistema finanziario settentrionale emerge anche dal punto di vista della domanda, oltreché da quello dell’offerta. Vi sono, secondo questa analisi, alcuni oggettivi vincoli alla domanda di capitali da parte del sistema imprenditoriale che, in un processo a spirale assai poco virtuoso, contribuiscono a loro volta al relativo “sottosviluppo” dell’offerta. E cioè: la dimensione delle imprese, la loro scarsa contendibilità dovuta soprattutto alla struttura proprietaria famigliare di gran parte delle 286 UNA LETTURA DI SINTESI Pmi, la loro specializzazione produttiva prevalente in settori tradizionali del “made in Italy”, della meccanica e della subfornitura. Come osserva Rossi, “Questa specializzazione tradizionale non attrae investimenti degli operatori professionali. Gli investitori e gli intermediari specializzati prediligono, infatti, settori high-tech, quali biotecnologie, IT, telecomunicazioni, che pur avendo un rischio più elevato di fallimento presentano prospettive di redditività superiori alla media” LE DECISIVE SORTI DELLA PIAZZA FINANZIARIA MILANESE LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE: UN TEMA DI CRESCENTE RILEVANZA STRATEGICA LA MODERNIZZAZIONE DEL COMMERCIO E I SUOI EFFETTI SUL SISTEMA INDUSTRIALE Nel quadro di analisi delineato, le prospettive future dell’economia settentrionale appaiono fortemente legate alle sorti della piazza finanziaria milanese, il decisivo “cuore” dell’area non solo in Italia ma anche nel contesto europeo. Questa piazza ha due possibili scenari di fronte a sé: o venire emarginata da quelle maggiori, attraverso un processo di centralizzazione di gran parte del mercato finanziario verso i principali poli finanziari europei; oppure – in considerazione che “il più evidente vantaggio della Piazza finanziaria milanese sta proprio nella ricchezza imprenditoriale dell’Italia settentrionale, nella migliore conoscenza del mercato locale, nella maggiore accessibilità e velocità di elaborazione delle informazioni” (Rossi) – acquisire professionalità e specializzazioni particolarmente rivolte al mercato delle Pmi e far valere in questo modo fattori competitivi per così dire “di nicchia”. Una seconda rilevante dimensione del “fare rete”, che è analizzata nei contributi di ricerca che presentiamo, è quella della distribuzione commerciale, esplorata nel saggio di Lecca. Il rilievo centrale e strategico di questa dimensione sta nel fatto che in misura crescente negli ultimi anni “non è più l’industria a influenzare la distribuzione, ma il contrario. Un cambiamento che produce sul settore industriale almeno due rilevanti conseguenze…una tendenza alla polarizzazione del tessuto produttivo … una maggiore esposizione dell’industria alla concorrenza estera …” (Lecca). La modernizzazione della distribuzione commerciale in atto nel Nord Italia – riduzione dei punti vendita, crescita della grande distribuzione, sviluppo delle reti di franchising – implica quindi opportunità ma anche forti rischi per il sistema manifatturiero settentrionale, tenuto anche conto del forte e crescente peso delle imprese estere nel controllo delle nuove reti distributive. Come osserva Lecca, “Lo sviluppo del commercio moderno genera…da una parte una spinta alla concentrazione di quelle industrie, di solito multinazionali (come è successo nel settore alimentare), che continuano a perseguire politiche di marca e, dall’altra parte, favorisce la crescita di una schiera di produttori di piccole e medie dimensioni. Questi ultimi, peraltro, devono mostrare di possedere i requisiti competitivi richiesti (flessibilità produttiva, rapporto prezzo/qualità, efficienza logistica, capacità di produrre i volumi richiesti e nei tempi stabiliti) per poter operare come imprese fornitrici…”. In sostanza, le grandi reti distributive globali sempre più presenti nell’Italia settentrionale e nello stesso tempo sempre più controllate da grandi imprese estere, possono ormai approvvigionarsi ovunque sia possibile e conveniente, senza nessuna logica od obbligo di “fedeltà territoriale”. Si apre una nuova sfida per il sistema economico settentrionale, che deve dimostrare di essere in grado di “fare rete” e soprattutto di “entrare in rete”, sia costruendo relazioni cooperative o di partnership fra imprese manifatturiere fornitrici (al fine di offrire i volumi, gli standard di qualità/prezzo, l’efficienza logistica ecc. ri- 287 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA: chiesti) sia qualificando e rafforzando i propri legami con le grandi imprese distributrici. IL NODO PIÙ CRITICO PER “FARE RETE”: LE INFRASTRUTTURE DI TRASPORTO … PER SOSTENERE LO SVILUPPO … E PER PROPORSI COME “PIATTAFORMA LOGISTICA” FRA NORD E SUD CITTÀ E RETI RUBANE: ALLA RICERCA DI CAPACITÀ DI GOVERNANCE Proprio l’analisi della nuova realtà distributiva, con le sue implicazioni e i suoi rilevanti aspetti logistici, conduce a riflettere su una terza dimensione del “fare rete” che è di decisiva importanza per le prospettive dell’Italia settentrionale nel nuovo secolo: quella delle infrastrutture di trasporto, esplorata nel contributo di ricerca di Uniontrasporti. Si tratta, come è noto, di un nodo critico particolarmente sensibile, sul quale le discussioni e le polemiche sono forti e ricorrenti. Le regioni italiane che compongono il Nord Italia raccolgono il 44% della popolazione nazionale, generano il 54% del valore aggiunto, danno origine all’80% degli scambi con l’estero. Eppure, la situazione del sistema dei trasporti nell’area è per universale riconoscimento gravemente carente, per certi aspetti (valgano come esempio le difficoltà del traffico commerciale autostradale con la Francia dopo la chiusura provvisoria del traforo del Monte Bianco) al limite del collasso. Questo sistema non è in grado di corrispondere né alle necessità interne dell’area né, tantomeno, a quelle esterne, di relazione con il resto dell’Europa e del mondo. Va rilevato, che in questo modo – in assenza di adeguate politiche e di adeguati investimenti, in tempi medio-brevi e prevedibili, in grado di correggere radicalmente la situazione – l’Italia, e in specifico la sua parte settentrionale, rischiano di perdere la grande opportunità consistente nella “scoperta del Mediterraneo” come via d’accesso all’Europa avanzata avvenuta negli ultimi anni da parte dei maggiori operatori internazionali, e di cui il grande successo del porto di Gioia Tauro è il principale segnale rivelatore. L’Italia settentrionale può diventare una grande “piattaforma logistica” fra il Sud mediterraneo e il Nord continentale – di importanza analoga a quella della “piattaforma” centrata sul Benelux, “cuore” logistico del Nord Europa – ma per realizzare questo obiettivo deve sviluppare una rete di trasporti adeguata, e in tempi necessariamente limitati. Per contro, continuare ad avere reti viarie, ferroviarie, aeree, e intermodali collassate e inadeguate è un handicap che, in prospettiva, mette in pericolo di crisi anche le stesse ragioni di successo tradizionali del Nord Italia: il “made in Italy”, i distretti, le leadership “di nicchia”. Proprio il tema delle reti di trasporto introduce alla riflessione sulla dimensione istituzionale del “fare rete”, che è per alcuni aspetti analizzata nel contributo di Bonavero sulle città e sulle reti urbane. Le carenze nel sistema dei trasporti sono infatti legate in buona misura nell’esperienza italiana, come è bene evidenziato nel contributo di Uniontrasporti, al cattivo funzionamento delle istituzioni, e in particolare a carenze di “governance”, cioè di capacità di negoziazione, cooperazione, concertazione e infine di decisione dei diversi soggetti istituzionali, sia locali sia nazionali. E in un sistema macroregionale come quello dell’Italia settentrionale sono proprio i nodi urbani, insieme alle regioni e alle altre istituzioni territoriali locali (oltrechè agli organismi dello Stato centrale, e alle autonomie funzionali come in particolare le Camere di Commercio), i principali possibili attori di processi di “governance”. 288 UNA LETTURA DI SINTESI Come è generalmente riconosciuto, ciò che caratterizza l’Italia del Nord, ed anzi le assegna per questo aspetto una posizione di eccellenza nel contesto europeo, è la grande ricchezza del suo tessuto urbano e, nel contempo, la strategicità della sua posizione geo-economica in quel contesto. L’Italia settentrionale può essere vista, per un verso, come l’estremità meridionale della “dorsale centrale europea” di importanza consolidata e, per altro verso, come segmento orientale di una nuova direzione di sviluppo (una fascia ispano-franco-padana dalla Spagna nord-orientale alla Francia meridionale fino appunto all’Italia settentrionale) alla quale viene attribuita la possibilità di controbilanciare almeno in parte la dominanza della dorsale centrale sopra indicata. La rete urbana lombarda, in questa prospettiva, si configura come “snodo” fra questi due assi portanti del sistema urbano continentale e, in essa, l’agglomerazione milanese appare come il potenziale polo dominante del sistema urbano dell’Europa meridionale. I PUNTI DI FORZA DEL SISTEMA URBANO DELL’ITALIA DEL NORD: DENSITÀ, ARTICOLAZIONE FUNZIONALE … E UNA BUONA APERTURA INTERNAZIONALE I PUNTI DI DEBOLEZZA: INFRASTRUTTURE, CAPACITÀ DI GOVERNANCE, POLITICHE URBANE SOVRALOCALI Per quanto riguarda le caratteristiche interne del tessuto urbano dell’Italia settentrionale, ciò che emerge anzitutto all’attenzione è la sua densità (l’Italia delle “cento città”) paragonabile soltanto a quella dell’area forte nordeuropea (il “golden triangle” Bruxelles – Amsterdam – Francoforte e l’Inghilterra sud-orientale). In secondo luogo, la sua notevole articolazione sotto il profilo dimensionale, con la presenza (a differenza, ad esempio, della Francia) di un robusto tessuto di città di media dimensione. Come osserva Bonavero nel suo contributo, “Le due caratteristiche di cui si è detto – la rilevante densità territoriale e la notevole articolazione gerarchicofunzionale – possono essere considerate come un ‘punto di forza’ del sistema urbano dell’Italia settentrionale … nel contesto nazionale e internazionale”. Oltre a ciò, anche il grado di apertura internazionale delle città settentrionali appare buono: infatti, “… si rileva, accanto ad una (ampiamente prevedibile) concentrazione di funzioni internazionali nelle maggiori aree urbane, una loro significativa diffusione nel tessuto delle città di media e medio-piccola dimensione; quest’ultima può essere interpretata come l’avvenuta affermazione in quest’area del ‘modello delle reti interconnesse’…: si tratta di un modello – che caratterizza le aree del ‘cuore europeo’ – nel quale i centri di dimensione media e medio-piccola sono in grado di accedere direttamente ai circuiti internazionali, senza passare per il tramite dei centri di livello metropolitano più prossimi” (Bonavero). Ma accanto a questi elementi di forza emergono anche, dall’analisi di Bonavero, alcuni rilevanti fattori di criticità o punti di debolezza alcuni dei quali hanno a che fare con i problemi di “governance” precedentemente segnalati. Un primo punto debole, già evidenziato in precedenza con riferimento al contributo di Uniontrasporti, è rappresentato dal sistema infrastrutturale, che non interconnette adeguatamente fra loro le diverse parti dell’Italia settentrionale né, tantomeno, quest’ultima con il mondo esterno. Un secondo punto debole riguarda aspetti di natura istituzionale (o paraistituzionale) con particolare riferimento al livello metropolitano del sistema urbano: “si tratta di una insufficiente manifestazione di capacità di ‘governance’ nelle aree metropolitane e nelle aree urbane di maggiore dimensione, dove per ‘governance’ si intende l’affermazione di forme di cooperazione e con- 289 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA: certazione fra i diversi soggetti (di natura pubblica, privata e mista) intorno a linee e progetti di sviluppo urbano rientranti in una visione strategica di lungo periodo da essi condivisa e in grado di aggregare il loro consenso” (Bonavero). Infine, il terzo rilevante fattore di criticità del sistema urbano dell’Italia settentrionale riguarda il settore delle politiche urbane. Questa criticità si manifesta in due modi. Per un verso, con “la sostanziale assenza di una politica urbana di scala nazionale, a differenza di quanto è avvenuto in alcune altre nazioni europee, come i Paesi Bassi, la Francia e la Germania…”. Per altro verso, con “la carenza di ‘politiche urbane di rete’ di scala sub-nazionale (regionale e locale) promosse sia dal governo centrale sia, soprattutto, da soggetti regionali e locali (sia di carattere pubblico che privato, nell’ottica della ‘governance’ di cui si è detto sopra)…”. Le politiche urbane di rete, “… in questo contesto dovrebbero avere la specifica funzione di consentire a insiemi di città di piccola e media dimensione di raggiungere quella ‘massa critica’ e quella articolazione settoriale di funzioni tale da consentire loro di svolgere una funzione di ‘gateway’ verso i circuiti internazionali analoga a quella delle maggiori aree metropolitane” (Bonavero). In conclusione, il quadro complessivo che emerge sulla situazione e le prospettive dell’Italia settentrionale in tema di reti, nelle loro varie tipologie e articolazioni, è segnato più da ombre che da luci. Il sistema dei servizi ha un rilevante bacino potenziale di domanda, ma domanda ed offerta stentano ad incontrarsi. Alla ricchezza del risparmio si contrappone la debolezza dei canali, delle reti e dei servizi finanziari, con rischi crescenti di emigrazione del risparmio prodotto. La straordinaria concentrazione di risorse umane e produttive dell’area è in qualche misura “prigioniera” delle carenze infrastrutturali. La densità e l’articolazione urbana rappresentano potenzialità che hanno difficoltà a realizzarsi per l’assenza o carenza di politiche. In sostanza, l’Italia settentrionale ha bisogno di moltiplicare e allungare le sue reti, e non ha più molto tempo per realizzare le politiche necessarie a questi fini. COMMERCIO ESTERO E INTERNAZIONALIZZAZIONE: LE POTENZIALITÀ COMPETITIVE E “DI CERNIERA” DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL CONTESTO EUROPEO E INTERNAZIONALE La collocazione competitiva dell’Italia settentrionale nel contesto europeo e mondiale è in buona misura “leggibile” analizzando lo stato di avanzamento del processo di internazionalizzazione economica dell’area, ricostruito nei contributi di ricerca di Barberis e di Cominotti. I PERCORSI DEL PROCESSO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE Il processo di internazionalizzazione si sviluppa, come è noto, lungo tre fondamentali percorsi: • l’interscambio commerciale; • gli investimenti diretti in uscita (IDE-out) e in entrata (IDE-in); • le forme di collaborazione fra imprese non equity, senza partecipazione di capitali (cooperazione tecnica e commerciale, programmi comuni di R&S, cessioni e acquisizioni di brevetti, licenze e know how ecc.). 290 UNA LETTURA DI SINTESI Per quanto riguarda l’interscambio commerciale, analizzato nel contributo di Barberis, va subito osservato che le regioni dell’Italia settentrionale rappresentano da sole l’8% delle esportazioni intra-UE e il 10,6% di quelle extraUE. Le esportazioni dell’Italia settentrionale corrispondono a più di un terzo (36,7%) di quelle dell’intera Germania e a quasi i due terzi (65,1%) di quelle della Francia. Si tratta di una dimensione simile o anche superiore a quella di paesi come l’Olanda o il Belgio-Lussemburgo o il Canada. Elevato è anche il grado di apertura dell’economia dell’area, a differenza del complessivo grado di apertura nazionale, che è inferiore a quello dei maggiori paesi europei. In rapporto al Pil (dati dell’Istituto Tagliacarne, 1995), le esportazioni delle regioni settentrionali rappresentano il 31,7% (Nord Ovest 32,3, Nord Est 30,7), mentre quelle delle restanti regioni rappresentano soltanto il 12,2% del Pil stesso. UN EXPORT SPECIALIZZATO NEL “MADE IN ITALY” In questo contesto, che fa comunque dell’Italia settentrionale uno dei pilastri del sistema competitivo europeo sul piano internazionale, emerge chiaramente come la specializzazione esportativa rifletta le caratteristiche e i limiti del sistema produttivo esistente. Si tratta in sostanza di una specializzazione fondata sui comparti tradizionali del “made in Italy” dominanti nei distretti, con una evidente – e crescente negli anni – sottospecializzazione di settori come l’aerospaziale, gli autoveicoli, le comunicazioni, il farmaceutico e il chimico, l’elettronico e l’informatico. “A questo proposito – osserva Barberis – basta ricordare che le esportazioni di prodotti ad alta tecnologia incidono sull’export nazionale complessivo solo per il 14,7%, quota molto preoccupante se confrontata con quella di altri paesi (Germania 22,5%, Francia 27,6%, Regno Unito 36,8%, Stati Uniti 40,7%, Giappone 31,5%). Inoltre la loro dinamica negli ultimi quindici anni è stata molto contenuta, passando soltanto dall’11,4% al 14%, mentre in altri paesi, che all’inizio erano su posizioni inferiori pari all’Italia, il trend di sviluppo è stato molto più elevato, come ad esempio in Spagna (dall’8,8% al 14,6%) e in Svezia (dall’11,1% al 22,6%) Osserva ancora Barberis che “poiché larga parte di queste produzioni ad alta tecnologia sono localizzate nelle regioni del Nord Ovest, sono proprio queste regioni quelle maggiormente penalizzate dalla disattenzione della politica economica verso l’innovazione tecnologica e ne deriva che i flussi esportativi provenienti da quest’area siano quelli più sensibili alla perdita di competitività dei prodotti italiani e che risentano in maggior misura della concorrenza di produzioni offerte da paesi favoriti da differenziali di costo”. L’ORIENTAMENTO GEOGRAFICO DELL’EXPORT Per quanto riguarda l’orientamento geografico, emerge una rilevante – anche se decrescente negli ultimi anni – propensione del Nord Italia al commercio intra-UE (55,2% delle esportazioni complessive dell’area), simile alla Germania (55,5%) e non molto inferiore alla Francia e al Regno Unito. Emerge nel contempo una crescita della propensione verso l’Est Europa e verso l’America latina e più in generale verso le aree extra-europee. È in corso in qualche misura un processo di riorientamento, anche verso mercati più lontani e più difficili. 291 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA: Va rilevato, comunque, che la specializzazione esportativa nei settori forti del “made in Italy” e dei distretti, pur con tutti i vantaggi competitivi che ha finora generato, non può essere considerata in prospettiva, alle soglie del nuovo secolo, una caratteristica e un punto di forza garantiti e stabilmente acquisiti, di fronte all’emergere di nuovi competitori internazionali, ai rischi di saturazione dei mercati e, per altro verso, alle potenzialità di sviluppo di nuovi settori e prodotti nelle gerarchie dei consumi globali. Non è un caso, da questo punto di vista, che si assista ad una costante discesa del surplus commerciale italiano dal 1995 in poi. Questo surplus, determinato essenzialmente dal “made in Italy” (tessile e moda, arredo-casa, alimentare “mediterraneo” e meccanica collegata a questi settori) e dai relativi distretti, era di 67 mila miliardi nel 1996, è sceso a 46 mila nel 1998 e si prospetta secondo le stime intorno ai 35-39 mila per il 1999. GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO IL RITARDO NEGLI IDE OUT Passando ora agli aspetti più complessi e maturi dell’internazionalizzazione (collaborazioni fra imprese e soprattutto IDE in entrata e in uscita), esaminati nel contributo di ricerca di Cominotti, il quadro che emerge è per alcuni aspetti positivo e dinamico, per altri invece piuttosto preoccupante. A livello nazionale, gli aspetti positivi e dinamici sono dati soprattutto dalla continua crescita nel corso degli anni Novanta degli investimenti diretti italiani all’estero, anche se alla fine del 1997 la loro quota sullo stock mondiale di IDE (3,5%) era ancora molto inferiore rispetto a quella sulle esportazioni di beni e servizi (4,8%). Negli IDE effettuati all’estero da imprese italiane l’occupazione supera ormai i 600 mila addetti. Si tratta comunque, come osserva Cominotti, di un processo ancora ritardato rispetto ai paesi più avanzati, in quanto “nel 1998 il rapporto fra il fatturato delle multinazionali italiane all’estero e l’export italiano … arriva allo 0,5 per l’Italia nel complesso e per il Nord Italia. Per il Piemonte questo indicatore è significativamente più elevato: 0,8. Infatti il tasso di multinazionalizzazione in uscita del Piemonte è il più elevato fra le regioni italiane, in presenza dei diffusi processi di multinazionalizzazione di Fiat e di altre imprese a base piemontese; comunque anche il Piemonte è ancora abbondantemente al di sotto del valore raggiunto dall’insieme dei paesi industrializzati”. Un altro punto critico degli IDE-out italiani è costituito dal settore del terziario di servizio alle imprese (BRSs). Come risulta anche dall’analisi di Iano su questo settore, di cui si è già parlato, la situazione italiana, ed anche settentrionale, è molto debole e precaria sul piano internazionale. “In generale negli IDE-out dei settori BRSs, le imprese italiane hanno posizioni marginali. Soltanto nel settore assicurativo, le imprese a base italiana hanno raggiunto una visibile presenza fra le imprese multinazionali…” (Cominotti). In questo settore strategico, appaiono invece determinanti gli IDE in entrata, che “assicurano l’avanzamento della maggior parte dei settori che compongono questo macroaggregato, dal software ai servizi informatici e all’outsourcing informatico, dal management consultancy all’auditing e alla pubblicità” (Cominotti). Per quanto riguarda gli orientamenti geografici degli IDE in uscita, l’Europa occidentale continua ad essere la loro principale area di destinazione (con il 37% in termini di addetti), ma appaiono in forte e significativa crescita i paesi 292 UNA LETTURA DI SINTESI dell’Europa centrorientale (che ha raggiunto il 17% sul totale degli addetti) con finalità prevalentemente labour seeking e dell’Asia (14% degli addetti). Per contro, ed è un fatto che non può essere sottovalutato, vi è stato nel corso degli anni Novanta un progressivo arretramento della destinazione Nordamericana, che si è assestata intorno al 9%. LA LENTA DINAMICA DEGLI IDE IN LA VIVACITÀ DI ACQUISIZIONE E FUSIONI OPERATE DA OPERATORI ESTERI IN ITALIA Per quanto riguarda lo sviluppo degli IDE in entrata, si tratta di una dinamica che appare, dopo la fase di crescita degli anni Ottanta, troppo lenta e insoddisfacente sia a livello nazionale sia per l’Italia settentrionale, con una consistenza che alla fine del 1997 si attestava appena sul 2,3% del totale mondiale. Se è vero che l’attrattività delle regioni settentrionali, e in particolare del Nord Ovest e della Lombardia, appare rilevante anche a livello europeo – e ciò “malgrado la quasi assenza di interventi rivolti all’attrazione di investimenti industriali dall’estero” (Cominotti) – va però aggiunto che il processo manifesta negli ultimi anni un declino, sia nel Nord Ovest sia soprattutto in Lombardia (dal 41% sul totale italiano del 1986 al 35% del 1998). Per contro, si assiste ad una crescita di attrattività del Nord Est, specie Veneto ed EmiliaRomagna. Come osserva Cominotti, inoltre, “la grande maggioranza degli IDE-in è effettuta attraverso M&A (acqusizioni e fusioni)…Nel periodo 1986-1997, l’incremento complessivo generato dagli IDE-in green field è stato esiguo: 128 nuove imprese, con 10.340 occupati addizionali”. Va ancora osservato, a questo proposito, che per quanto riguarda gli investimenti di quest’ultimo tipo vi è stato nel 1998 un calo di ben il 28% rispetto all’anno precedente, in netta controtendenza rispetto a quanto è avvenuto in tutti i paesi europei, ad eccezione del Portogallo. Nello stesso anno, gli investimenti delle imprese italiane all’estero hanno raggiunto i 19 mila miliardi, mentre quelli esteri in Italia si sono fermati a 4500 miliardi: si tratta di uno squilibrio che è stato segnalato con preoccupazione anche dallo stesso governatore della Banca d’Italia Fazio nella sua ultima Relazione annuale del maggio 1999. Né l’Italia né, anche se in minore misura, la sua parte settentrionale appaiono quindi adeguatamente attrattivi per quanto riguarda questo tipo di investimenti. Molto più consistenti sono invece le operazioni di acquisizione e fusione di operatori esteri in Italia . Secondo stime recenti di Nomisma, dal 1983 a fine 1998 vi sono state 2774 operazioni di questo tipo, contro 1679 operazioni italiane all’estero. A questo proposito, Cominotti osserva nel suo contributo “che M&A costituiscono un apporto positivo, perché generalmente accrescono la competitività e il potenziale di crescita delle imprese acquisite, che a loro volta sono in grado di generare investimenti di ampliamento e ulteriori investimenti green field. Per questo è fuorviante parlare di “shopping” da parte delle imprese estere…”. Va tuttavia rilevato, a questo proposito, che sono anche possibili altre “letture”, più problematiche, di questo fenomeno, che ha portato innumerevoli marchi italiani (ad esempio nel settore alimentare) nell’orbita di multinazionali estere. In particolare, è stato fatto osservare che è essenziale vedere se le operazioni realizzate comportano il trasferimento all’estero delle funzioni strategiche e a maggior valore aggiunto delle imprese (funzioni direzionali, progettuali, di ricerca e sviluppo, di marketing ecc.) con la conservazione in Italia soltanto di quelle più nettamente manifatturiere. In questi casi, 293 LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA: il gioco delle M&A non può essere considerato “a somma positiva” per l’Italia. In conclusione, si può rilevare che “nel complesso, al di là delle oscillazioni congiunturali, gli anni Novanta indicano una ragguardevole crescita dei flussi in uscita e un andamento relativamente cedente dei flussi in entrata, che sembra chiamare in causa un rallentamento nel processo di integrazione internazionale del paese specificatamente dovuto al deterioramento della capacità di attrarre nuovi investimenti internazionali comparativamente alle altre aree dell’economia mondiale” (Cominotti). QUALI STRADE POSSIBILI PER L’ITALIA SETTENTRIONALE NEL NUOVO SECOLO: UNA PROSPETTIVA REALISTICA PER LO SVILUPPO LA NECESSITÀ DI MAGGIORI CAPACITÀ DECISIONALI E PROGETTUALI I PUNTI CRITICI SU CUI INTERVENIRE La sfida che l’Italia settentrionale ha di fronte, per costruirsi un futuro di sviluppo e un ruolo propulsivo in Europa (anche nella direzione delle sue due”frontiere” naturali esterne/interne dell’Est e del Sud), come emerge dai diversi contributi di ricerca presentati, è difficile e complessa. Per affrontarla, occorrono nello stesso tempo nuove capacità progettuali e nuove capacità decisionali, molto superiori a quella di cui attualmente quest’area dispone. Per quanto riguarda i progetti, dalle analisi compiute nei contributi di ricerca proposti emergono per lo meno gli ambiti (corrispondenti ad altrettanti “punti critici” della realtà settentrionale quale si configura a fine secolo) di questa nuova progettualità necessaria. In sintesi, essi sono: • la formazione e lo sviluppo del capitale umano; • l’innovazione tecnologica; • la crescita dimensionale delle imprese, e nel contempo il loro grado di internazionalizzazione; • la crescita del terziario “moderno” di servizio alle imprese; • lo sviluppo del sistema finanziario; • la dotazione di infrastrutture di rete (di trasporto, comunicazione ecc.). Sulle progettualità specifiche in ciascuno di questi ambiti, e in sostanza sulle relative policies, sono ovviamente necessarie ulteriori e mirate riflessioni e proposte, a partire dalle analisi e dai primi spunti propositivi già elaborati. Per quanto riguarda le capacità decisionali, balzano in primo piano per un verso problemi di riforma istituzionale di livello nazionale (stabilità dei governi, federalismo ecc.); per altro verso, problemi che possono e devono essere affrontati a livello dell’area, dagli stessi attori (regioni, collettività locali, autonomie funzionali, mondo associativo ecc.) presenti e operanti nell’area. Senza una forte crescita dei processi di concertazione, negoziazione e decisione (in una parola di “governance”) degli attori dell’area, e di questi con gli attori nazionali e comunitari, vi sono scarse possibilità che i progetti, per quanto ben costruiti, possano tradursi in fatti reali. 294 UNA LETTURA DI SINTESI Anche in questo campo, si tratta di elaborare e sviluppare ipotesi e proposte, a partire dagli spunti che già emergono nei contributi di ricerca analitici presentati. IL RUOLO DELL’ITALIA SETTENTRIONALE VERSO EST E VERSO SUD In sostanza, se la vocazione dell’Italia settentrionale ad essere – nel contesto europeo e comunitario – “ponte e cerniera” verso Est e verso Sud appare legittimata sia dalla geografia (la posizione nello spazio) sia dalla storia (la posizione come si è configurata nel tempo, basti pensare alle vicende recenti del Kosovo per quanto riguarda l’Est, oppure ai crescenti flussi migratori verso la penisola per quanto riguarda il Sud del Mediterraneo), essa appare tuttavia bisognosa di ulteriore legittimazione sul piano dell’economia, e delle sue potenzialità di fare rete e di innescare sviluppo anche esogeno. Come emerge dai contributi di ricerca presentati, la società e l’economia settentrionali alle soglie del nuovo secolo appaiono anzi per più aspetti a rischio di declino, in un mondo nuovo dove la nascita dell’unione monetaria europea e l’avanzare della globalizzazione moltiplicano le opportunità, ma anche i vincoli, i rischi e le sfide competitive. OTTIMISMO E POSSIBILISMO UN’ALTERNATIVA REALISTICA PER IL FUTURO A questo proposito, è opportuno rilevare, richiamando ed estendendo quanto osservato da Russo e Vitali sul tema specifico della produzione industriale, come “segnali positivi nel contesto di maggiori rischi e opportunità” siano tuttavia riscontrabili negli ultimi tempi a livello nazionale Si tratta, in concreto, di nuove normative e di nuove policies avviate recentemente nel nostro paese: alcune innovazioni finanziarie nel settore dei capitali di rischio, la fine dei monopoli pubblici in settori strategici quali la telefonia e l’energia, alcune riforme nel campo dell’istruzione, i più favorevoli contesti monetari e fiscali ecc. “Tutte ragioni per essere, se non tout court ottimisti, almeno possibilisti…” sul futuro dell’Italia e, in specifico, del suo “cuore” economico e produttivo. In questa prospettiva va tuttavia osservato, infine, come non sarebbe realistico immaginare che l’Italia, e neppure la sua parte settentrionale più avanzata, possano in breve tempo riposizionarsi su modelli di tipo americano, attuando una rottura radicale con i vecchi modelli produttivi. In altre parole, l’alternativa realistica non è fra diventare “come gli USA” ( il paese dell’alta tecnologia, dell’informatica, delle biotecnologie ecc.) oppure restare il paese del “made in Italy” tradizionale (delle scarpe, della moda, delle piastrelle,ecc.) e dei distretti di piccole imprese, troppe delle quali permanentemente “nane”. L’alternativa realistica – attraverso lo sviluppo di progettualità e di capacità decisionali negli ambiti strategici sopra menzionati – va nella direzione di rafforzare le leadership di nicchia già possedute; aprirne di nuove in settori anche di alta tecnologia; mantenere, e sviluppare anche in nuovi settori a maggior valore aggiunto, quel modello di “economia della diversità” (fondato su un’accentuata diversificazione dei prodotti e dei servizi) che ci ha finora caratterizzati; ma crescere nel contempo nella dimensione di impresa per acquisire anche i vantaggi derivanti dalle nuove economie di scala. Si tratta di costruire un progetto realistico, ma anche ambizioso, che possa contribuire a dare all’area settentrionale, e indirettamente anche all’Italia di cui quest’area è la parte forte, un’identità e uno “spirito di sistema” in grado di farla entrare da protagonista e non da comparsa nel nuovo secolo. 295