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CESDI S.r.l.
Centro di Ricerca
e Documentazione
Centro studi
Documentazione
Internazionali
“Luigi Einaudi”
V. Caboto 44 – Torino
V. Ponza 4 – Torino
RAPPORTO DI RICERCA
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA
SETTENTRIONALE NEL DUEMILA
a cura di
Giampiero Bordino, Egidio Dansero
Torino, settembre 1999
Questo rapporto presenta i risultati di una ricerca svolta dal Cesdi srl (Centro
Studi Documentazione Internazionali) e dal Centro di Ricerca e
Documentazione “Luigi Einaudi” per conto della Compagnia di San Paolo.
La ricerca è stata coordinata da Giampiero Bordino (Cesdi Srl) e da Egidio
Dansero (Politecnico di Torino, Centro “Luigi Einaudi”).
Alla ricerca hanno partecipato, oltre ai coordinatori, Giuseppe Russo e
Giuseppina De Santis (Centro “Luigi Einaudi”), Giovanni Bressi, Rosella
Barberis, Flavio Iano e Sergio Rossi (Cesdi srl), Luca Davico (Politecnico di
Torino), Ruggero Cominotti (R&P), GianPaolo Vitali (Ceris/Cnr), Stefano
Molina (Fondazione Giovanni Agnelli), Piero Bonavero (Università Cattolica
di Milano), Sandro Lecca (Ufficio Studi CCIAA Milano) e l’Uniontrasporti
(Milano).
L’editing della ricerca è stato curato da Sabrina Cavallo.
INDICE
pag.
1
Demografia
di Stefano Molina
»
39
Sistemi formativi
di Luca Davico
»
53
La scatola nera della ricerca e sviluppo
di GianPaolo Vitali
»
73
Neoimprenditorialità
di Giampiero Bordino
»
99
Industria settentrionale: i limiti delle specializzazioni
tradizionali e le nuove sfide
di Giuseppe Russo e GianPaolo Vitali
»
113
Il sistema dei servizi alle imprese
di Flavio Iano
»
133
Ricchezza, libertà, virtù. Il futuro del risparmio
di Giuseppe Russo
»
153
Il finanziamento del sistema imprenditoriale
di Sergio Rossi
»
167
La distribuzione commerciale
di Sandro Lecca
»
179
Il sistema dei trasporti
a cura di Uniontrasporti
»
191
Reti urbane e internazionalizzazione delle città
di Piero Bonavero
»
217
Il commercio estero
di Rosella Barberis
»
235
L’internazionalizzazione delle imprese: gli investimenti
diretti da e per l’estero
di Ruggero Cominotti
»
251
Le prospettive dell’Italia settentrionale nel Duemila:
una lettura di sintesi
di Giampiero Bordino
»
271
Le prospettive dell’Italia settentrionale nel Duemila:
le ragioni e i fondamenti della ricerca
di Egidio Dansero
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA
SETTENTRIONALE NEL DUEMILA:
LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA
Egidio Dansero*
INTRODUZIONE – LA
STRUTTURA DELL’INDAGINE
– I TEMI ANALIZZATI – LO SFONDO
– L’ITALIA SETTENTRIONALE: LA COSTRUZIONE DI UN PROBLEMA
– L’ITALIA SETTENTRIONALE IN ALCUNE RECENTI RICERCHE – LA PROSPETTIVA D’INDAGINE – LA
POSIZIONE GEOECONOMICA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE – ALLA RICERCA DI UN RUOLO
EUROPEO: QUESTIONI APERTE – BIBLIOGRAFIA
PROBLEMATICO DELLA RICERCA
INTRODUZIONE**
L’ITALIA
SETTENTRIONALE
IN UNA
PROSPETTIVA
EUROPEA
Questa ricerca muove dalla considerazione che il processo di integrazione dei
paesi dell’Unione Europea sarà sempre più caratterizzato dal protagonismo
delle città e delle regioni europee nel contesto di una ridefinizione profonda
del ruolo degli Stati e in una prospettiva di governance policentrica. Con
sempre minore mediazione da parte dei rispettivi Stati nazionali e con sempre
maggiore esposizione ad una globalizzazione potenzialmente destrutturante
se non si è in grado di interpretarla positivamente, ciascun territorio è chiamato a ridefinire o ricercare un proprio ruolo all’interno del più ampio spazio
unificato europeo.
In particolare, è opinione consolidata che le regioni dell’Italia settentrionale1,
per prossimità geografica ed economica, possano e debbano svolgere un ruolo cruciale sia nel completamento dell’integrazione territoriale europea, sia
nei rapporti con i territori a Sud e a Est dell’Europa comunitaria.
L’Italia settentrionale2 nel suo complesso, e il livello alto della sua rete urbana, appaiono rivestire un’importante funzione di mediazione o di cerniera tra
il Mediterraneo in ritardo, l’Est in transizione e il nucleo avanzato
dell’Europa. Questo ruolo appare giustificato dalla collocazione geografica
dell’Italia settentrionale nel contesto europeo, dalle sue caratteristiche economiche e sociali, dalla sua apertura internazionale, ed è altresì confortato,
come vedremo, da alcune immagini consolidate del territorio europeo che orientano le politiche comunitarie trasversali e settoriali.
Occorre però interrogarsi sui presupposti e sui caratteri di questo ruolo di
snodo, di intermediazione che l’Italia settentrionale potrebbe più esplicitamente assumere in una prospettiva europea.
*
Dipartimento Interateneo Territorio, Politecnico e Università di Torino
Questo scritto è debitore di diversi riconoscimenti e ringraziamenti: in primo luogo a Giuseppe Russo del Centro Einaudi, per il suo fondamentale contributo sia nella fase di impostazione della ricerca sia nel suo divenire; a Giuseppina De Santis, Giampiero Bordino, Giovanni
Bressi, Piero Bonavero e Paolo Giaccaria per i preziosi suggerimenti. Un grazie particolare va
poi a Sabrina Cavallo, che si è occupata della raccolta della documentazione e dell’editing della ricerca e a Piergiorgio Cipriano, che ha curato la parte cartografica.
1
Nel corso della ricerca useremo indifferentemente, per ragioni espositive, le locuzioni “Italia
settentrionale”, “Italia del Nord”, “Nord Italia” ecc.
2
Nella ricerca si è fatto riferimento ad una definizione “statistica” ufficiale dell’Italia settentrionale (le otto regioni), lasciando ad ogni singola scheda la possibilità di riferirsi ad altre articolazioni territoriali più pertinenti rispetto al tema indagato.
**
1
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA
Si tratta in primo luogo di soffermarsi sulla fondatezza di queste ipotesi, peraltro abbastanza diffuse e condivise, ma non abbastanza scandagliate nei loro presupposti teorici ed empirici.
In secondo luogo, occorre esplorare la capacità dei territori dell’Italia settentrionale di svolgere tale ruolo: quali i punti di forza su cui puntare, quali quelli di debolezza e i vincoli strutturali da superare.
I VINCOLI
STRUTTURALI
DELL’ITALIA DEL
NORD
In questa prospettiva, la ricerca intende in particolare verificare la gravità di
alcuni vincoli strutturali dell’Italia settentrionale che sembrano minacciare sia
la sua continuità di crescita, sia la sua capacità di svolgere i nuovi impegnativi compiti che deriveranno dall’integrazione nell’Europa e da una localizzazione geoeconomica e geopolitica strategica.
Le ipotesi di partenza della ricerca possono essere così schematizzate:
• non si può dare per scontato o valutare tout-court soddisfacente il livello
di sviluppo delle regioni dell’Italia settentrionale che hanno costituito e
tuttora rappresentano, in una molteplicità di percorsi, il cuore propulsivo
della crescita industriale dell’Italia;
• negli ultimi dieci anni, il tasso di crescita delle regioni settentrionali non è
stato uniformemente adeguato alle ambizioni di proseguire lo sviluppo e a
imprimergli una qualità diversa, per esempio in termini di composizione
settoriale della produzione di reddito, in termini assoluti e per addetto;
• le prospettive di crescita dell’economia italiana del Nord non saranno incondizionatamente prospere, a causa di alcuni fattori strutturali oggettivamente critici e di alcune minacce incombenti, sulla base dei processi di
integrazione economica europea, di internazionalizzazione delle imprese e
di globalizzazione dei fenomeni economici;
• il ritardo nel rimuovere tali fattori critici strutturali rischia di isolare
l’Italia del Nord dai principali flussi ed assi di sviluppo e di impedire che
l’area si garantisca quote di mercato in settori innovativi e strategici.
Sulla base di tali premesse, la ricerca si propone di:
• individuare i settori funzionali e istituzionali in cui l’Italia settentrionale e
il suo sistema metropolitano dovranno sostenere il maggiore impegno per
unire all’Europa centrale il sistema economico del Mezzogiorno d’Italia,
del Mezzogiorno d’Europa e dei Paesi mediterranei non comunitari;
• confrontare le principali dimensioni dell’economia e delle istituzioni economiche dell’Italia settentrionale con quelle di altre regioni europee;
• individuare i fattori di minaccia sia al processo di sviluppo, sia alla capacità di svolgimento effettivo del ruolo di cerniera.
LA STRUTTURA DELL’INDAGINE
L’ITALIA DEL NORD
ATTRAVERSO
ALCUNE LETTURE
TRASVERSALI
La ricerca è organizzata in tredici schede tematiche, che affrontano alcuni
nodi fondamentali della struttura dell’Italia settentrionale, evidenziandone
prospettive, punti di forza e di debolezza, e fornendo alcune indicazioni di
policies. Accanto ad un primo gruppo di schede di carattere strutturale (demografia, sistemi formativi, reti urbane, neoimprenditorialità, ricerca e sviluppo, risparmio e finanza d’impresa, trasporti e infrastrutture), un secondo
gruppo di schede seleziona alcuni temi più specifici (la struttura manifatturie-
2
LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA
ra, i servizi alle imprese e la distribuzione commerciale, il commercio estero
e gli investimenti diretti all’estero).
I temi approfonditi sono stati scelti in base alla criticità che rivestono per le
prospettive di sviluppo dell’area. Il profilo dell’Italia settentrionale che emerge dalle schede tematiche non è certamente esaustivo, sia per il taglio fortemente selettivo delle singole schede, volto ad enucleare alcune istanze
chiave, sia per i tanti temi che non vengono affrontati: dall’agricoltura, al turismo, all’ambiente – forse il tema che più conferisce unitarietà all’area oggetto di analisi, in particolare per la gestione delle risorse idriche a livello di
bacino idrografico3 – agli aspetti istituzionali ecc.
All’interno di linee generali comuni, ciascuna scheda interpreta l’Italia del
Nord da una particolare angolazione in ragione sia della tematica specifica e
della relativa disponibilità di dati e studi alle diverse scale territoriali, sia del
diverso punto di vista e approccio disciplinare dei singoli esperti tematici.
Anziché elemento di debolezza, questa eterogeneità di approcci ci è parsa la
maniera migliore di interpretare in modo polifonico una realtà, quale quella
dell’Italia settentrionale, multiforme e complessa, che richiede continui cambiamenti di scala e di prospettiva per essere colta nella sua diversità.
LA RETE DEI
COLLABORATORI
IL PERCORSO
Si è dunque costituita, sotto il coordinamento del Cesdi srl e del Centro “Luigi Einaudi”, una rete di collaborazioni specialistiche e pluridisciplinari (demografi, economisti, geografi, politologi e sociologi), appartenenti ad enti e
istituzioni di ricerca pubblici e privati
Ogni esperto ha fornito il proprio contributo sia attraverso l’elaborazione della scheda tematica nell’ambito delle proprie competenze, sia partecipando ad
alcuni momenti di confronto sulle linee generali della ricerca.
In particolare, il lavoro di indagine e riflessione si è così articolato:
• raccolta e analisi della letteratura esistente sui diversi temi di ricerca, dei
lavori empirici realizzati negli ultimi anni e, più in generale, della “letteratura grigia” disponibile. Ciò è avvenuto sia attraverso i tradizionali canali
istituzionali e personali (fonti presso biblioteche, università, centri di ricerca pubblici e privati, ecc.) sia attraverso “navigazioni” telematiche su
molteplici siti Internet pertinenti e significativi;
• raccolte statistiche sistematiche, inerenti ai diversi temi, di provenienza sia
nazionale sia internazionale (Istat, InfoCamere, Eurostat, Ocse ecc.);
• colloqui e interviste, anche con la raccolta di contributi scritti, di esperti e
testimoni privilegiati delle diverse aree tematiche indagate, sia interni alle
reti di collaborazione Cesdi srl e Centro Einaudi, sia esterni a queste;
• confronto, attraverso seminari interni al gruppo di ricerca, sulle ipotesi,
sulle metodologie di lavoro e sulle fonti relative a ciascuna scheda tematica, definendo gli elementi di interconnessione tra le diverse schede (ad esempio, fra i temi della finanza innovativa e dell’innovazione tecnologica;
3
L’unico vero organismo sovraregionale padano è infatti l’Autorità di bacino del Po, che ha
competenze dirette in materia di pianificazione e scelta delle priorità di intervento. Tuttavia, è
interessante notare come proprio dal punto di vista della gestione delle risorse idriche (a livello di bacino) dal bacino del Po sia escluso il Nord Est, compreso nei bacini dell’Adige e del
Piave-Tagliamento-Isonzo.
3
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA
della trasformazione demografica e della formazione del capitale umano;
della struttura manifatturiera e del commercio estero e
dell’internazionalizzazione; delle reti urbane e dell’apertura internazionale
delle città e del sistema dei trasporti);
• impostazione e individuazione – attraverso una specifica riflessione comune – delle linee generali del saggio introduttivo e discussione delle
principali tesi emergenti dalle singole schede e poi riprese nel saggio conclusivo, cui è affidato il compito di incrociare i differenti tagli trasversali
offerti da ciascuna scheda.
I TEMI ANALIZZATI
LA DEMOGRAFIA
Il primo aspetto preso in considerazione è quello demografico, dato che qualsiasi ipotesi di sviluppo dell’Italia settentrionale deve fare necessariamente i
conti con questa variabile di fondo. Il parametro della compatibilità/incompatibilità con le proiezioni demografiche attese deve essere assunto
come criterio di riferimento per la valutazione di qualsiasi progetto per il futuro dell’Italia settentrionale.
Viene segnalata la prevedibilità di alcune fondamentali proiezioni demografiche nei prossimi 10-20 anni e, in particolare, viene evidenziata la rapidità e
l’intensità dei mutamenti strutturali in corso, caratterizzati da una eccezionale
caduta demografica.
I SISTEMI
Accanto ai caratteri demografici, i sistemi formativi si presentano come una
delle variabili cruciali per valutare le prospettive di sviluppo dell’Italia settentrionale. La scheda delinea un quadro generale del sistema formativo
dell’Italia settentrionale e delle sue tendenze evolutive, dei suoi punti di forza
e di debolezza, e analizza i diversi “segmenti” di questo articolato sistema.
Sono esplorati i fondamentali nodi critici del sistema formativo: il grado di
innovazione, gli eventuali poli di eccellenza, i rapporti fra formazione e inserimento lavorativo, i rapporti di cooperazione/competizione tra le sedi del sistema formativo settentrionale.
FORMATIVI
IL SISTEMA DELLA
RICERCA E
SVILUPPO
LA NEOIMPRENDITORIALITÀ
Un’attenzione particolare viene dedicata alla ricerca e sviluppo, quale fattore
strutturale di crescita. La scheda esplora le potenzialità scientifico-tecnologiche e innovative localizzate nell’Italia settentrionale, attraverso la sistematizzazione e interpretazione dei dati ufficiali e dei contributi della
letteratura economica più recente.
Si individua e analizza la posizione innovativa dell’Italia settentrionale nel
quadro comparativo europeo, utilizzando alcuni indicatori di input (spese
R&S, distribuzione dei centri di ricerca, ecc.) e output (attività brevettuale,
dinamica delle esportazioni high tech) tecnologico. Si analizzano inoltre le
strategie innovative delle imprese sia grandi sia medio-piccole diffuse nei distretti. Si esplora, nella misura del possibile per la scarsità dei dati disponibili,
il ruolo (attuale e potenziale) di “mediatore tecnologico” dell’Italia settentrionale sia verso il Sud della penisola sia verso i paesi mediterranei sia infine
rispetto alle aree europee centro-orientali.
Un altro aspetto cruciale su CUI si è concentrata la ricerca è quello della neoimprenditorialità, della quale viene preso in considerazione uno spettro allargato di forme: da quella originaria agli spin off, al passaggio generazionale,
4
LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA
alle forme di neoimprenditorialità “incentivata” dall’intervento pubblico.
Viene anche considerato l’universo in espansione del lavoro autonomo e
dell’autoimprenditorialità, ai confini tra le forme di lavoro tradizionali, quelle
indipendenti e il vero e proprio “fare impresa”.
LE SPECIALIZZAZIONI
MANIFATTURIERE
I SERVIZI ALLE
IMPRESE
Viene esaminata la struttura industriale dell’Italia settentrionale nei suoi
comparti tradizionali e in quelli più avanzati, analizzandone la competitività
rispetto ai competitori europei e internazionali. La scheda si sofferma in particolare sulle possibilità che l’economia dei distretti, del made in Italy e dei
macchinari industriali, cardini dello sviluppo settentrionale, possa continuare
a sorreggere l’Italia del Nord a fronte del recupero di competitività della
grande dimensione d’impresa e di un ruolo sempre più marginale nei settori
in crescita dell’alta tecnologia.
Vengono presi in considerazione i servizi alle imprese ed in particolare quelli
dell’information technology, considerati strategici per lo sviluppo delle capacità competitive dell’area in oggetto, analizzando il peso dell’Italia del Nord
attraverso alcuni indici di densità. Viene altresì considerata la collocazione
dell’area nel contesto internazionale, evidenziando il ritardo, che l’Italia nel
suo complesso – ed anche il Nord Italia, seppur in misursa più contenuta –
registra nei confronti degli altri paesi ad economia avanzata, sia per quanto
riguarda l’offerta e la domanda interna, sia l’interscambio.
Altra variabile strutturale è costituita dal risparmio delle famiglie e dalla finanza d’impresa, temi che vengono affrontati in due schede separate.
IL RISPARMIO
La scheda sul risparmio evidenzia la tradizionale grande intensità e capacità
di risparmio dell’Italia settentrionale e, nello stesso tempo, le nuove prospettive che si aprono con l’euro e la progressiva internazionalizzazione del sistema bancario e finanziario. Viene altresì evidenziato il ruolo che l’Italia
settentrionale potrebbe avere rispetto alla sua “frontiera” meridionale e mediterranea per quanto riguarda gli aspetti finanziari. Questo ruolo di “cerniera”
sarà però sostenibile solo se l’Italia settentrionale riuscirà a “catturare” in misura crescente risorse finanziarie europee e internazionali, nel quadro
dell’internazionalizzazione ed europeizzazione in atto nel mercato dei capitali.
IL FINANZIAMENTO
La scheda sulla finanza d’impresa fornisce un rapido excursus sul passato e le
prospettive delle dinamiche di finanziamento del sistema imprenditoriale del
Nord Italia. Si evidenzia come il sistema finanziario dell’Italia settentrionale
si trovi ad un punto cruciale di svolta. Il processo di integrazione monetaria –
con il venir meno di alcuni vantaggi comparati iniziali, quali la centralità geografica, la moneta utilizzata, le barriere normative e tecniche – pone infatti
in maggior evidenza la contendibilità del mercato finanziario europeo, aumentando la competizione tra i diversi centri finanziari.
DELLE IMPRESE
LA DISTRIBUZIONE
COMMERCIALE
La modernizzazione delle reti distributive, con uno spazio di crescente autonomia rispetto all’industria, ha un ruolo sempre più rilevante nella trasformazione del sistema economico e territoriale.
La scheda analizza il processo di adeguamento del Nord Italia nel colmare il
ritardo che lo separa dai sistemi distributivi moderni in Europa. Particolare
attenzione viene riservata al delicato rapporto tra il sistema distributivo sem-
5
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA
pre più internazionalizzato e con un crescente controllo estero della grande
distribuzione, e il sistema produttivo settentrionale, soprattutto nel comparto
delle Pmi manifatturiere.
IL SISTEMA DEI
TRASPORTI
LE RETI URBANE E
L’APERTURA
INTERNAZIONALE
DELLE CITTÀ
IL COMMERCIO CON
L’ESTERO
GLI INVESTIMENTI
DIRETTI
ALL’ESTERO
Tra i nodi più critici nelle prospettive di sviluppo dell’Italia settentrionale
emerge lo stato delle infrastrutture e dei trasporti in particolare. La scheda ne
evidenzia la condizione di arretratezza, resa ancor più pesante dalla mancanza
di una chiara consapevolezza della gravità di queste carenze tanto
nell’opinione pubblica quanto nelle classi dirigenti. Vengono analizzate le
diverse forme e modalità di trasporto e le loro interconnessioni, nella prospettiva non solo nazionale, ma soprattutto internazionale, lungo i due assi strategici continentali Nord-Sud e Ovest-Est, considerando che le potenzialità
dell’Italia settentrionale di essere “ponte” e “cerniera” verso Sud e verso Est
sono evidentemente subordinate allo sviluppo di questi assi.
Nella convinzione che saranno soprattutto le città a giocare un ruolo decisivo
nella connessione dei territori dell’Italia settentrionale alle reti globali e continentali, la scheda intende delineare un quadro generale delle reti urbane
dell’Italia settentrionale anche rispetto ad altre aree geografiche europee, evidenziando le specificità italiane. Emergono punti di forza rappresentati dalla
elevata densità urbana e dalla forte coesione economica e sociale della rete
urbana in alcune aree e, nello stesso tempo, fattori di debolezza quali le carenze del sistema infrastrutturale di trasporti e comunicazione.
La scheda esplora la collocazione dell’Italia settentrionale nel quadro degli
scambi commerciali italiani ed internazionali (peso del commercio estero,
grado di apertura, specializzazioni, contenuto delle esportazioni ecc.).
All’interno di un andamento piuttosto differenziato tra Nord Est, il cui commercio estero è in continua crescita, e Nord Ovest, che sembra privilegiare la
via degli investimenti diretti all’estero, emergono sia il rilievo
dell’interscambio settentrionale nel contesto nazionale ed europeo sia, d’altra
parte, i segnali di una perdita di competitività negli ultimi anni (in particolare
nei settori ad alta tecnologia).
La scheda prende in considerazione la collocazione della macro-regione settentrionale nel quadro degli investimenti diretti da e verso l’estero. Utilizza i
dati più recenti e le serie storiche ricavabili dalle fonti ufficiali (Istat, Eurostat, Ocse ecc.). Si fonda anche sul patrimonio informativo più aggiornato
contenuto nella banca dati Reprint R&P per gli investimenti diretti in entrata
e in uscita dall’Italia.
Sul piano del processo di internazionalizzazione, è evidenziata la crescente
diffusione e rilevanza delle alleanze e degli accordi non equity, che rappresentano spesso un ponte verso forme di investimento diretto all’estero. Sono
del pari analizzati i processi di investimento estero in entrata, nei loro diversi
possibili aspetti e significati.
LO SFONDO PROBLEMATICO DELLA RICERCA
Tre temi fondamentali definiscono il quadro problematico della ricerca: il
cammino dell’integrazione europea, dagli esiti tuttora incerti; i processi di
globalizzazione – che iperconnettendo i singoli territori mettono in discussio-
6
LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA
ne e richiedono una ridefinizione dei rapporti geopolitici e geoeconomici tra
le diverse scale territoriali – la riforma dello Stato, con un ripensamento
dell’articolazione territoriale italiana verso una qualche forma di federalismo
che consenta alla forma Stato di tenere pur faticosamente il passo all’interno
di processi che, dall’alto e dal basso, ne minano ruolo e senso. Si tratta di tre
sfide principali che attraversano, a scale diverse (globale, europea e nazionale), il multiforme territorio oggetto di questo studio, intrecciandosi in un groviglio problematico che speriamo di poter contribuire a dipanare.
LO SPAZIO
UNIFICATO
EUROPEO COME
ORIZZONTE DI
RIFERIMENTO
In primo luogo, il processo d’integrazione europea si pone come una prospettiva di lungo periodo su cui articolare la riflessione.
Lo spazio comunitario definisce sempre più l’ambito di riferimento a cui le
diverse parti del territorio europeo si devono rapportare. È a scala europea
che si ridefiniscono le gerarchie territoriali e i ruoli delle singole regioni e ciò
è tanto più vero quanto più si afferma la funzione guida delle politiche europee nei diversi campi (infrastrutturale, economico, sociale, ambientale ecc.). I
vecchi confini politici perdono progressivamente di importanza al cospetto di
nuovi, anche se più sfumati, confini geoeconomici interni allo spazio europeo. Infatti, a fronte di una ormai avvenuta integrazione sul piano monetario e
finanziario, si presenta ancora lungo il cammino dell’integrazione sul piano
territoriale (cfr. ad esempio Bonavero e Dansero, 1997; Dematteis e Bonavero, 1998; Leonardi, 1995; Storti, 1998; Zani e Cerioli, 1997).
Il “Sesto rapporto periodico sulla situazione economica e sociale e sullo sviluppo delle regioni della Ue” (EC, 1999) – pur all’interno di un trend di convergenza del Pil procapite delle regioni più povere verso la media europea –
evidenzia differenze di sviluppo regionale tuttora oltremodo marcate. In nove
dei dodici paesi che hanno delle regioni a livello Nuts 2, il Pil regionale procapite medio nel periodo 1994-96 delle regioni più ricche si aggira attorno al
doppio di quelle più povere: è il caso, ad esempio, del Belgio (Bruxelles
172% rispetto alla media Ue, Hainaut 81%), della Spagna (Madrid 100%, Extremadura 55%), dell’Italia (Lombardia 132%, Calabria 59%) così come
dell’Austria (Vienna 165%, Burgenland 71%). Vale la pena notare come, sulla base di alcuni indicatori statistici della disuguaglianza interregionale,
l’Italia risulti al 1994 il paese in cui le disparità regionali appaiono più marcate, seppur con una leggera tendenza alla riduzione della disuguaglianza nel
periodo 1982-94 (Storti, 1998).
TRA
GLOBALIZZAZIONE
E LOCALISMO:
TERRITORI IN
COMPETIZIONE
Il processo d’integrazione europea, nel porre il problema dei rapporti tra istituzioni comunitarie, Stati e i livelli macroregionali, regionali e locali, si connette al secondo tema fondamentale che fa da sfondo alla ricerca. Si tratta dei
rapporti tra i processi apparentemente sempre più pervasivi e omologanti di
globalizzazione economica, finanziaria, culturale ecc. e la frammentazione e
la rimodellazione dei territori in unità funzionali autonome, di dimensione
variabile (la regione, la città o singole parti di essa), alcune delle quali esplicitamente guardano all’autonomia politico-amministrativa (Ohmae, 1996).
Assistiamo cioè a processi di articolazione e disarticolazione regionale dei
territori: “ogni parte di essi, in quanto sede di attori locali che si collegano in
qualche modo a reti globali (per esportare e importare merci, per attrarre investimenti, per scambi culturali ecc.), tende a rendersi funzionalmente indipendente dalle entità territoriali di cui fa formalmente parte” (Dematteis,
1997, p. 38). Città e regioni forti tendono a muoversi come attori sulla scena
7
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA
internazionale, senza ricorrere al ruolo di mediazione dei governi nazionali se
non in netto contrasto, con essi estendendo una sorta di paradiplomazia europea e internazionale, giuridicamente inconsistente (si veda, ad esempio, Pizzetti, 1999), ma sempre più attiva e alimentata in vari modi dalle istituzioni
comunitarie. Su tutti, valga l’esempio delle “regioni forti” europee, che mantengono delegazioni permanenti a Bruxelles per trattare direttamente con la
Commissione europea.
Tra globalizzazione e localismo, sotto i riflettori si presenta ormai da diversi
anni il ruolo dello Stato-nazione e con esso una nuova prospettiva regionalistica (Coppola, 1998; Sabel, 1998). In crisi irreversibile secondo alcuni (Badie, 1996; Ohmae, 1996), si tratterebbe secondo altri di una profonda
ridefinizione di un ruolo comunque insostituibile (Le Gales, 1998; Veltz,
1996). Il dibattito relativo alla crisi dello Stato-nazione (Rusconi, 1993) parla, a questo riguardo, di “fine dei territori” (Badie, 1995), mettendo anche in
evidenza l’emersione e il crescente protagonismo di entità territoriali intermedie e una maggiore attenzione per le differenze e le specificità locali (Pichierri, 1998; Dematteis, 1997). .
La rivalutazione del locale non è solo il risultato della reazione difensiva di
identità territoriali minacciate, ma è anche, in positivo, fonte di “vantaggi”
che giocano un ruolo centrale nella competizione globale (Porter, 1991) o base di un modello di globalizzazione dal basso, in cui la valorizzazione dei diversi contesti locali è rivolta a costruire relazioni non gerarchiche e
cooperative fra città e regioni.
CAMBIAMENTI
ISTITUZIONALI E
RIFORMA DELLO
STATO
Questo dibattito apre la strada al terzo tema che fa da sfondo alla ricerca, e
cioè i cambiamenti istituzionali e la riforma dello Stato – da alcuni anni al
centro della riflessione scientifica e sempre rinviati nell’agenda politica – e
con essi il ruolo delle istituzioni intermedie, delle autonomie funzionali e di
altri soggetti economici.
Nel contesto attuale dell’integrazione europea e della ristrutturazione del sistema economico internazionale, la scarsa efficienza e l’alto costo di un sistema amministrativo centralizzato e debole come quello italiano pongono
l’urgenza di pensare ad una diversa organizzazione dello Stato che favorisca
la trasparenza dei processi decisionali e la responsabilizzazione degli amministratori pubblici (Mainardi, 1998). Possedere una forte articolazione regionale si presenta come un vantaggio competitivo per lo Stato stesso. Sono i
forti Länder tedeschi, piuttosto che le deboli regioni francesi, a saper sviluppare meglio le infrastrutture dello sviluppo economico (Perulli, 1998).
La questione delle istituzioni intermedie e delle interpretazioni dell’Italia settentrionale diviene estremamente delicata per governare l’interconnessione
dell’Italia settentrionale con il Centro Europa, con un ventaglio di prospettive
quanto mai ampio, che si estende dalla piena integrazione in una macroregione, a prospettive federaliste differentemente “scalate” (macroregione
padana, municipalismo, regionalismo ecc.).
È proprio a partire dalla riflessione sull’Italia settentrionale, sulla scorta della
preoccupazione delle derive secessioniste, che si è aperto un confronto sulle
ipotesi di revisione dell’organizzazione territoriale dello Stato, tra regionalismi e federalismi forti e deboli (Deaglio, 1996; Bagnasco, 1996; Diamanti,
1996; Pacini, 1996; Bassetti, 1996, Piperno, 1997).
8
LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA
L’ITALIA SETTENTRIONALE: LA COSTRUZIONE DI UN
PROBLEMA
Questi tre temi, cui si è fatto un superficiale accenno, si presentano saldamente intrecciati nell’esaminare le prospettive dell’Italia settentrionale. Rilevava,
ad esempio, Bassetti (1996, p. 17) come, pur non essendo la “questione settentrionale” (da lui intesa come l’attrazione dell’Europa sul Nord Italia) e la
“questione istituzionale” problemi recenti, siano tuttavia diventati esplosivi
nell’attuale contesto storico. D’altra parte, non è un problema solamente italiano in quanto in tutta l’Europa “si ode sempre più la voce delle regioni ricche che, diversamente dal passato, non hanno più veramente bisogno delle
periferie meno prospere (in particolare come fonte di manodopera) e che protestano contro il carico eccessivo rappresentato ai loro occhi dalle perequazioni organizzate su scala nazionale” (Veltz, 1998, p. 147).
L’EMERGERE DELLA
“QUESTIONE
SETTENTRIONALE”
Come sottolinea Diamanti in un suo intervento sul Sole 24 ore (8/2/97) è difficile non vedere dietro al cambiamento politico di questi anni una mappa
precisa, sottolineata dal riferimento esplicito al territorio, che ha caratterizzato il confronto e al tempo stesso lo scontro politico. Fino agli anni Settanta
l’unica “questione territoriale” che avesse senso e riconoscimento, nella percezione comune, era quella “meridionale”.
Ecco allora che sembra imporsi una “Questione settentrionale”, ben diversa
da come si presentava negli anni Sessanta, quando il problema era la diffusione territoriale dello sviluppo dal Nord Ovest alla periferia del Nord Est
(Muscarà, 1967).
Per Diamanti (1996) si fa ricorso a questo concetto per riassumere “Il Male
del Nord”, e cioè l’insieme di tensioni e di trasformazioni che attraversano le
principali aree settentrionali, non solo quelle ad economia diffusa, ma anche
le aree metropolitane, le concentrazioni della grande industria, le città del terziario. Si tratta di un contesto unificato di insoddisfazione nei confronti dello
Stato centrale e, in parte, della crescente integrazione con i mercati europei,
ma al suo interno profondamente differenziato: per struttura sociale, tipo di
regolazione, cultura politica. E quindi difficilmente rappresentabile in modo
unitario.
Per De Rita e Bonomi la questione settentrionale sintetizza un insieme complesso di gravi tensioni che caratterizzano le regioni settentrionali del Paese:
“c’è stress imprenditoriale da competizione europea e mondiale; c’è paura di
non farcela e quindi di esser destinati a regredire; c’è rabbia per la debolezza dei fattori competitivi non garantiti dai poteri pubblici (dalle infrastrutture ai servizi); c’è insopportazione per una pressione fiscale alta cui non
corrispondono adeguate contropartite di efficiente azione pubblica; c’è bisogno di esaltare il localismo, lo spirito comunitario, il radicamento identitario
come fattori di forza anche nella competizione internazionale; c’è il rancore
verso lo Stato nazionale, visto come sede dell’inefficienza e come negazione
delle identità e degli interessi locali. Le tensioni “nordiste” hanno quindi espressioni molteplici e forti; e vanno considerate come serie e sostanziali,
mai etichettandole (quale che ne sia stata o ne sia la strumentalizzazione)
come espressioni folcloristiche di orgoglio etnico (…) la questione setten-
9
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA
trionale resta una dimensione strutturale del futuro del Paese” (De Rita e
Bonomi, 1998, p. 106).
UNA QUESTIONE PER
TANTI NORD?
Parlando di “questione settentrionale” si tende sempre più spesso a distinguere tra il Nord Est – caratterizzato, per usare le parole di Diamanti, da un “dinamismo un po’ anarchico, per definizione policentrico e privo di una
capitale” sempre più insofferente verso le lentezze e i ritardi dello Stato nazionale – e il Nord Ovest. Come rileva il Censis (1997), soprattutto
quest’ultimo appare caratterizzato, da più di un decennio, da una profonda
trasformazione che lo porta a configurarsi più come porzione sud-orientale
dell’ampia unione continentale che come Nord Ovest nazionale. La crisi del
modello fordista della grande impresa ed i processi di globalizzazione e di
integrazione europea si presentano come i due principali fattori causali di
questa transizione.
Rileva tuttavia Bagnasco (1997) come queste generiche macrodefinizioni di
area (Nord Est e Nord Ovest) appaiano decisamente insoddisfacenti, sia per
gli aspetti che lasciano in ombra, sia perché introducono l’idea che si possa
facilmente immaginare il Nord Ovest come un modello unitario, quando i
percorsi dei vertici del triangolo industriale appaiono irreversibilmente differenziati e quando gli stessi vertici non bastano più, se mai lo hanno fatto, a
rappresentare le rispettive economie regionali. Secondo Bagnasco (1996,
1997) la “questione settentrionale” è piuttosto un insieme di “questioni settentrionali” appartenenti ai diversi Nord e si manifesta sostanzialmente in una
mancanza di rappresentanza politica che dia voce al malessere della società,
ribadendo con ciò la necessità di rifuggire da etichette accattivanti quanto
semplicistiche, e di scandagliare più a fondo le differenze che caratterizzano
l’Italia del Nord.
L’ITALIA SETTENTRIONALE IN ALCUNE RECENTI
RICERCHE
A partire dai primi anni Novanta sono numerose e significative le ricerche
che si sono concentrate sull’Italia del Nord, o più spesso su sue singole parti
(il Nord Ovest, il Nord Est, il modello veneto, la specificità emiliana ecc.):
dalle ricerche della Fondazione Agnelli sia su tutta la Padania (Bramanti e
Senn, 1992) sia su parti di essa (Diamanti, 1998; Bonora, 1998; Janin, 1998),
alle numerose indagini del Cnel sulla “questione settentrionale” (Cnel,
1996a,b, 1997a,b, 1998; Bonomi, 1997; Bonomi e De Rita, 1998) agli studi
di Diamanti (1996) e di Magatti (1998), al convegno di Parma (1997) sulla
“molteplicità dei modelli di sviluppo dell’Italia del Nord”, solo per citare i
più noti4.
4
L’elenco delle ricerche sull’Italia del Nord nel corso degli anni Novanta sarebbe ancora lungo. Vi sono, ad esempio, ricerche come quella della Ccia di Torino (Detragiache e Rossetto,
1993) che, pur meno note, hanno esaminato a fondo da un punto di vista socio-territoriale “la
Padania” come progetto possibile di un “marchio territoriale”, con l’intento di contribuire a
“sostenere e rafforzare il ruolo di regione di scambio nei processi di sviluppo dell’Europa, le
sue interdipendenze nello spazio economico globale, il suo apporto ai processi di integrazione
europea”. È inoltre degno di nota il pregevole tentativo di sintesi compiuto dal geografo Roberto Mainardi nel suo saggio su “L’Italia delle regioni. Il Nord e la Padania” (1998).
10
LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA
LA SCOPERTA DEI
PLURALISMI
TERRITORIALI
LA RICERCA DELLA
FONDAZIONE
AGNELLI: LA
PADANIA UNA
REGIONE ITALIANA
IN EUROPA
A partire da punti di vista diversi, quanto a storie disciplinari, approcci ed obiettivi, questi studi hanno scandagliato in profondità l’Italia del Nord, restituendone un’immagine composita. Dal coro, spesso disarmonico e fuori
tempo, delle indagini sociologiche, economiche e territoriali, la geografia politica, la geografia economica e quella sociale devono registrare non una, ma
tante Italie del Nord: la sempre più consolidata contrapposizione tra il Nord
Est e il Nord Ovest, che si sovrappone solo in parte alla distinzione tra Grande Nord (delle grandi concentrazioni urbane, industriali e terziarie) e Piccolo
Nord (il popolo dei distretti); la scomposizione del vecchio “triangolo industriale” (che peraltro è dubbio sia mai esistito) (cfr. ad esempio Malfi, 1997);
i “Sette Nord” proposti da Bonomi (1997) per definire la territorializzazione
del capitalismo molecolare (la frontiera, l’asse pedemontano, le aree tristi, il
sistema urbano industriale, la Padania, le aree cerniera, il Nord Est); i tre
Nord di Bagnasco (1996) (le aree di piccola impresa, il Nord della grande
concentrazione industriale, il Nord della metropoli, della finanza e del terziario diffuso) ecc.
Nella bibliografia dei primi anni Novanta sulle regioni del Nord Italia ha una
notevole rilevanza la ricerca della fondazione Agnelli del 1992 “La Padania,
una regione italiana in Europa” (Bramanti e Senn, 1992). Essa spianava in
qualche modo la strada a numerose altre successive ricerche che si sarebbero
concentrate sull’Italia settentrionale, pur con obiettivi e approcci diversi, ed
introduceva esplicitamente nel dibattito sulle trasformazioni economicoterritoriali il termine geografico “Padania”, divenuto ben presto troppo ingombrante e connotato politicamente per poter continuare ad avere
un’accezione “neutra”.
L’idea guida consisteva nella considerazione che, per poter procedere verso
un riordino della vita nazionale, fosse indispensabile chiarire innanzitutto
quali vie dovesse percorrere la riforma, ed in secondo luogo quali fossero i
fondamenti su cui impostare il nuovo Stato.
In merito al primo punto, la posizione della Fondazione Agnelli sembrava
chiara già dal 1992, e verrà ribadita in un libro del 1996 (Pacini, 1996) atto a
ricostruire il percorso di ricerca seguito dalla Fondazione in merito ai temi
della riforma: “la Fondazione Giovanni Agnelli sostiene da tempo la necessità di una riorganizzazione dello Stato italiano in senso federale. Riteniamo
infatti che né forme di decentramento amministrativo, sia pur estese, né un
rafforzamento del regionalismo siano riforme sufficienti ad affrontare i problemi del paese. Pertanto (…) l’obiettivo che noi indichiamo come auspicabile svolta per la vita politica, per le istituzioni e per la società italiane è una
revisione della Costituzione repubblicana come fondamento di un federalismo politico, amministrativo e fiscale.”.
Per ciò che riguardava il secondo punto, la ricerca del 1992 aveva come scopo non tanto quello di verificare l’idoneità dell’attuale disegno regionale a
realizzare obiettivi di crescita economica, progettualità, competitività internazionale, quanto quello di individuare criteri di razionalità economica attraverso cui procedere ad un nuovo ritaglio regionale non ancora definito. Ecco
allora il perché di una ricerca sulle regioni del Nord Italia (seguita poi da una
ricerca sul Centro e una sul Mezzogiorno): analizzare la situazione delle
strutture economiche dei vari sistemi territoriali appare forse come l’unica via
per la definizione delle caratteristiche dell’azione economica italiana.
La scelta federalista comporta fondamentalmente due ordini di conseguenze:
l’abbandono del centralismo e il conseguente spostamento dei poteri pubblici
11
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA
verso nuove istituzioni. Si capisce però come ampi margini di discrezionalità
vengano lasciati ai contenuti dei poteri di queste nuove istituzioni e ai relativi
ambiti territoriali cui queste fanno riferimento. Tra l’ipotesi della Lega Nord
che vede il nuovo assetto regionale basato su tre sole macro-regioni, e
l’ipotesi che vede nelle venti regioni attuali le istituzioni capaci di attuare il
disegno di uno Stato meno centralista, la proposta cui infine approda la Fondazione Agnelli è quella della costituzione di “12 regioni da realizzarsi con
gradualità, attraverso il consenso dei cittadini che scopriranno progressivamente la convenienza di una più razionale dimensione del territorio regionale” (Pacini, 1996). In tale disegno, che riecheggia la proposta di Francesco
Compagna (1964), la Padania sarebbe composta, anziché dalle otto regioni
attuali, da quattro mesoregioni: la regione nord-occidentale (costituita da
Piemonte, Liguria, Valle D’Aosta), la Lombardia, l’Emilia Romagna e la regione nord-orientale (Friuli, Trentino e Veneto).
Le conclusioni della ricerca della Fondazione Agnelli possono così essere
sinteticamente richiamate:
• “la posizione della Padania continua ad essere potenzialmente felice. (…)
essa può costituire un elemento di riequilibrio in Europa, impedendo che
lo spostamento verso il Nord crei differenziali di sviluppo e quindi nuove
patologie economiche. Si può quindi parlare di ruolo europeo della Padania perché certamente anche la Francia meridionale e la Spagna, per non
parlare delle nuove Repubbliche slave, possono trarre giovamento da una
Padania che sappia assumere un ruolo di leadership nell’Europa mediterranea (…);
• la Padania può adempiere a questo ruolo europeo soltanto se conserva
una sua centralità. Tale centralità si percepisce compiutamente ove si collochi la Padania nel sistema Italia, che continua a trovare nelle regioni
padane il suo più efficace punto di forza e di penetrazione in Europa.
Nello stesso tempo la Padania ha bisogno delle altre aree italiane perché
costituiscono un elemento di sinergia e di potenziamento indispensabile
per evitare di diventare area marginale in Europa. La Padania non sarà
periferia europea finchè continuerà ad essere il principale “motore” del
sistema economico italiano (…);
• le regioni padane non sono però una realtà omogenea, bensì una realtà
pluralista. Le strategie padane devono pertanto tenere presenti entrambi
gli aspetti (…). L’interdipendenza padana è quella di realtà diverse ma
collegate in modo funzionale che si trovano ad essere esposte a sfide, e
soggette a vincoli comuni” (Bramanti e Senn, 1992).
LA RICERCA DEL
CNEL: LA QUESTIONE
SETTENTRIONALE
A metà degli anni Novanta, anche il Cnel (1996a,b; 1997a,b; 1998) si confronta con la “questione settentrionale”, e lo fa con un’ampia ricerca triennale
che prende avvio dalla considerazione della gravità costante delle tensioni
che caratterizzano le regioni settentrionali del Paese in precedenza richiamate: stress imprenditoriale da competizione europea e mondiale, con il timore
di non farcela e quindi esser destinati a regredire; rabbia per la debolezza dei
fattori competitivi non garantiti dai poteri pubblici (dalle infrastrutture ai servizi); difficoltà a sopportare una pressione fiscale alta cui non corrispondono
adeguate contropartite di efficiente azione pubblica; bisogno di esaltare il localismo, lo spirito comunitario, il radicamento identitario come fattori di forza anche nella competizione internazionale; rancore verso lo Stato nazionale,
12
LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA
visto come sede dell’inefficienza e come negazione delle identità e degli interessi locali (De Rita e Bonomi, 1998, p. 106).
L’idea guida della ricerca è che qualsiasi disegno di nuovi assetti istituzionali
debba essere ricondotto alle logiche di poliarchia che faticosamente, e a tratti
contraddittoriamente, gli attori più dinamici ed avvertiti mettono in gioco.
Questo deve essere un criterio d’azione metodologico che informi qualunque
percorso si voglia intraprendere per riavvicinare dinamica socio-economica e
livelli istituzionali, e la sua validità è testimoniata dalle difficoltà di tutte le
esperienze di programmazione che intendano prefigurare le traiettorie evolutive della società indipendentemente dagli attori che ne sono protagonisti.
La strada indicata per gli interventi è apparsa differente rispetto ai presupposti da cui era partito il Cnel. Non è cioè apparso possibile nel Nord Italia procedere per gemmazione di tante esperienze territorialmente circoscritte (come
nel Mezzogiorno con i Patti territoriali), quanto piuttosto sviluppare “il massimo di potenza” sul piano strategico e istituzionale. La complessità socioeconomica del Nord, la sua compiuta modernizzazione sono infatti troppo elevate per lasciarle all’esclusiva competenza dei poteri locali. Ma è necessario evitare una sorta di protagonismo neocentralista, eludendo una relazione
causale tra complessità socioeconomica e intervento sovraordinato di poteri
centrali. Gli attori sovralocali possono intervenire ma rafforzando i processi
poliarchici e non sostituendo protagonisti locali che sono privi di risorse,
competenze e strategie appropriate per affrontare il governo della complessità.
L’itinerario di ricerca del Cnel porta alle seguenti conclusioni. In primo luogo
sembra di poter affermare che “nel Nord la sostanza socio economica è vitale, ma le forme politiche sono inerti”. Prendendo in considerazione la forte
consistenza e la costante dinamica del sistema d’impresa, il peso delle organizzazioni padronali, di lavoro dipendente, sindacali, professionali,
l’attivismo delle Amministrazioni provinciali, e l’impegno dei grandi sottosistemi territoriali del Nord Italia (Nord Est, Nord Ovest, modello emiliano,
modello veneto…) è naturale che un tale vitalismo necessiti di forme di integrazione fra sistema sociale e forme politiche che tuttora non sussistono.
In una tale situazione (perfettamente in linea con le premesse della Fondazione Agnelli), “lo snodo fondamentale diventa la ricerca di un assetto istituzionale nuovo, che sia capace di fare integrazione fra sostanza e forma del
destino collettivo del Nord”. Ma mentre la Fondazione Agnelli vede come
unica strada percorribile la soluzione federalista, il Cnel passa in rassegna un
ventaglio di ipotesi delle quali la prima è, per gli autori, quella più percorribile, e cioè l’ipotesi di un “regionalismo forte” che assume le attuali regioni
come forma politica futura della sostanza della società settentrionale.
“L’opzione per un regionalismo forte è l’unica opzione che lo Stato nazionale e la dinamica politica attuale possono mettere in campo”.
Le altre ipotesi, più sperimentali, sono: di fare istituzione complessiva del
Nord (è l’ipotesi della Padania ); di rivisitare dal basso l’identità ed il potere
delle regioni più forti; di fare partito sovraregionale; di sperimentare la logica
di partenariato sociale; di studiare processi di integrazione anche internazionale fra le regioni.
Posto che probabilmente nessuna di queste ipotesi si affermerà mai sulle altre, la via di uscita indicata dagli autori è quella di “un’accettazione esplicita
13
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA
del policentrismo dei poteri, rendendolo sempre più ordinato e condensato,
rendendolo sempre più poliarchia” (Bonomi e De Rita, 1998, p. 118): un policentrismo che è già presente e vitale a livello di unità di base, è in via di
condensazione a livello intermedio (rinnovato ruolo delle Province, intercomunalità, Patti territoriali ecc.), ma che appare ancora vago in quanto disegno
globale di tale condensazione.
TRA DISORDINE E
SCISMA. LE BASI
SOCIALI DELLA
PROTESTA DEL NORD
Un’altra importante ricerca è quella, di taglio sociologico, condotta da Magatti (1998). Questo studio prende in considerazione la protesta in atto nel
Nord del Paese, alla luce di quella che viene definita come una condizione di
“disordine” della società italiana – che si è manifestata, negli anni Ottanta,
come anomia politica sfociata in decomposizione dell’ordine precedente, e,
negli anni Novanta, come ricerca di nuovi equilibri – per analizzare se esistano o meno i presupposti sociali per un vero e proprio “scisma”.
Dopo aver analizzato il processo di trasformazione sociale (allo scopo di individuare i nuovi soggetti sociali che operano nel Nord e che formano il bacino di alimentazione della protesta), la riorganizzazione del sistema
produttivo in concomitanza con la crisi del sistema politico-istituzionale nazionale e la dimensione culturale, l’autore arriva a sostenere che “le ragioni
sistemiche che rendono plausibile lo scisma, sono le stesse che lo rendono
implausibile”.
Infatti Nord Est, Nord Ovest ed Emilia, a fronte di una marcata somiglianza
nella struttura produttiva, presentano altresì profonde diversità culturali: non
c’è sovrapposizione tra condizioni strutturali e livello socio-culturale. Il Nord
è ben poco integrato al suo interno: dal punto di vista strutturale appare come
un’area accomunata da un unico modello di sviluppo, ma priva di sufficienti
interconnessioni interne. Inoltre per usare le stesse parole di Magatti “non c’è
un potenziale etnico (o linguistico o religioso) accumulato o latente da evocare per costruire una nuova comunità immaginata (…). L’unica risorsa disponibile alla quale si può fare riferimento è il localismo, che da sempre
caratterizza queste regioni italiane”.
Tuttavia giocare la partita dell’identità etnica, puntando tutto sul localismo
presenta una contraddizione di fondo difficilmente superabile: trasformare il
localismo in mobilitazione etnico-territoriale significherebbe infatti scegliere
di radicarsi in profondità presso quei gruppi ed in quelle zone dove l’istanza
localistica è molto sentita, rischiando però di allontanare tutta quella componente sociale interessata esclusivamente agli aspetti economici ma diffidente
nei confronti dei richiami relativi all’identità territoriale; e d’altra parte, rinunciare a muovere questa pedina significherebbe perdere l’unica risorsa a
disposizione per compattare interessi differenziati ancorchè territorialmente
concentrati.
Dunque, i margini effettivi per la realizzazione di uno scisma appaiono, allo
stato attuale, alquanto ristretti. Tuttavia l’azione svolta dalla Lega ha già avviato interi gruppi sociali ad abbracciare nuovi criteri di verità: aldilà degli
esiti politici ci si domanda quale sarà l’identità culturale delle aree dove la
protesta si è più radicata dopo dieci anni di propaganda leghista. In conclusione, l’autore sostiene che “il successo di ogni ipotesi riformatrice dipende
prima di tutto dal ruolo che i soggetti sociali radicati nel territorio svolgeranno nei prossimi anni e dal contributo che sapranno dare alla ridefinizione
di un diverso e più positivo rapporto tra pluralismo e cittadinanza, in un contesto tradizionalmente particolaristico. Se ciò non avverrà, la marea irrefre-
14
LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA
nabile delle crescenti aspirazioni individuali si scontrerà inevitabilmente con
l’inflessibilità dei sistemi, provocando anarchia e caos.”
LA PROSPETTIVA D’INDAGINE
La nostra indagine si colloca dunque in un ampio e variegato insieme di ricerche che ha analizzato nel corso degli anni Novanta l’Italia settentrionale,
restituendo, pur con obiettivi, approcci e metodologie differenti,
un’immagine composita e articolata dell’area. Anche quel malessere di fondo, che sembra fare da minimo comune denominatore della “questione settentrionale”, stenta a giocare un ruolo unificatore di una latente identità padana,
come nelle prime interpretazioni leghiste, proprio perché quei comuni elementi rappresentati, in estrema sintesi, dal rancore verso la centralità statale e
dall’ansia da competizione europea e globale, si combinano variamente con
le differenze (culturali, sociali, economiche ecc.) che caratterizzano il territorio padano. Rispetto agli obiettivi di questo lavoro, è più interessante notare
come le precedenti ricerche abbiano evitato, almeno in parte, di appiattirsi
sulla prospettiva dello Stato-nazione nel considerare la sfida dell’integrazione
europea e della globalizzazione, per avviare una riflessione a partire dalla misura regionale (Coppola, 1998).
PARTIRE DALLA
ETEROGENEITÀ
ALLA RICERCA
DELL’ITALIA
SETTENTRIONALE
Un dato da cui questa ricerca è quindi dovuta partire è quello della eterogeneità dell’area, una realtà composita, dove non è possibile rintracciare un
modello, quanto una molteplicità di modelli di sviluppo. Tuttavia, come rilevava la ricerca della Fondazione Agnelli (Bramanti e Senn, 1992), se l’Italia
settentrionale è composta di realtà diverse, esse appaiono collegate in modo
funzionale, apparendo come un sistema di sistemi, e sottoposto quindi a sfide
e soggetto a vincoli comuni, che ricevono comunque risposte differenziate in
ragione dei diversi contesti territoriali. Ed è in questa chiave sintetica che si è
tentato di cogliere l’Italia settentrionale, alla ricerca di quegli aspetti che accomunando i singoli territori richiedono capacità di risposta di sistema. La
questione che ci si è posta, cioè, non è tanto quella se l’Italia del Nord possa
essere considerata come un unicum – domanda che, come si è visto, ha già
ricevuto più di una risposta negativa – ma se possa agire come sistema, in date circostanze, a fronte di sfide e vincoli comuni.
Che cosa intendiamo per Italia settentrionale? È indifferente parlare di Italia
del Nord e di Padania? Quali sono i confini dell’Italia settentrionale?
Di fatto l’oggetto di questa ricerca non è affatto definito. Si è scelto, nel nostro caso, di fare generalmente riferimento ad una definizione statistica, che
sembra rivestire una sorta di pseudo-ufficialità e soprattutto offre il conforto
di confini regionali amministrativi su cui poter basare la ricerca e l’analisi dei
dati. Si tratta cioè del classico raggruppamento delle otto regioni che compongono il Nord Italia nelle statistiche Istat e Eurostat (dove il Nord Italia è
ad un livello superiore suddiviso in quattro macroregioni Nuts 1): il Piemonte, la Valle d’Aosta, la Liguria (il Nord Ovest secondo le definizioni Eurostat
Nuts1), la Lombardia e l’Emilia Romagna, e il Nord Est (Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino). Questa definizione statistica risente, giova sempre
ricordarlo, della scarsa aderenza del disegno amministrativo alla realtà socio-
15
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA
economica del territorio italiano, esito di un ritaglio regionale introdotto nel
1864 per fini statistici5.
LE IMMAGINI
DELL’ ITALIA
SETTENTRIONALE
LA PADANIA:
UNA METAFORA
ALLA RICERCA DI UN
TERRITORIO
È comunque più interessante soffermarsi sul significato implicito delle espressioni Italia settentrionale (o Nord Italia) e Padania e sul loro operare in
quanto metafore geografiche evocatrici di significati più profondi che non limitarsi all’immediato riferimento territoriale.
La Padania, letteralmente, dovrebbe corrispondere al bacino del Po, e proprio
il suo legame con la dimensione orografica, che la avvicina ad una regione
naturale, rafforza in apparenza la capacità di questo termine di esprimere una
presunta dimensione etnico-nazionalistica; nel superare il riferimento al
Nord, il termine prolunga la sua potenziale “comunità immaginata” verso il
Centro (Giordano, 1999), abbracciando parte della Toscana e delle Marche.
Come rileva Diamanti (Il Sole 24 ore, 12/3/98), la Lega per sottolineare la
sua svolta secessionista ha sostituito il riferimento al “Nord”, carico di specificità economico-sociali, acon un’etichetta, la “Padania” che evocava non un
territorio, ma una patria, una comunità di valori, storia, cultura. Ma – lo si è
sottolineato da più parti (cfr. ad esempio Bagnasco, 1997; Magatti, 1998) –
l’immagine della Padania non trova fondamenti sotto il profilo storico, piuttosto che etnico, culturale, economico o sociale. Essa appare dunque sempre
più compromessa con le posizioni leghiste maggiormente rivolte all’ipotesi
secessionista (peraltro piuttosto in disarmo), e sempre meno efficace nel trasmettere una qualche sorta di immagine unitaria all’Italia settentrionale, e
tantomeno un “marchio” come auspicato in alcune ricerche a ciò finalizzate
(Detragiache e Rossetto, 1993). Come emerge da alcuni indagini relativamente recenti, condotte su un campione di 900 persone del Nord Italia (Emilia
Romagna esclusa), la Padania sembra scarsamente rappresentare una “etichetta” territoriale in cui i cittadini si possano riconoscere, mentre “identità locale” (la città) e, in subordine, “identità nazionale” prevalgono sugli altri
riferimenti territoriali (tab. 1 e 2).
Tab. 1 – Da Ovest a Est in crescita la frammentazione territoriale. A quale di queste aree
lei sente di appartenere maggiormente? Due sondaggi a confronto
Gennaio ‘98 % (1)
Dicembre ‘96 % (2)
Alla sua città
27,7
32,4
All’Italia
23,4
27,6
Alla sua regione
15,8
14,4
Al mondo intero
12,7
9,2
Al Nord
7,0
5,8
All’Europa
6,6
3,8
Al NO/Lomb./NE
4,7
3,7
Alla Padania
2,1
3,1
Totale
100,0
100,0
N.R.
0,3
1,5
Base (Val. ass.)
900
900
5
Per una efficace sintesi del dibattito sulla regionalizzazione del territorio italiano si vedano,
ad esempio, Coppola (1998) e Bonora (1984).
16
LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA
(1) Fonte: Sondaggio Poster, gennaio 1998 (2) Fonte: Sondaggio Poster-Limes, dicembre
1996 (tratta da Il Sole 24 ore, 12/3/98)
17
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA
Tab. 2 – Percentuale fra i simpatizzanti di partito
Rc
Pds
Ppi
Fi
Città
24,4
28,7
26,5
21,1
Regione
14,1
17,4
8,8
18,2
NO/Lomb./NE
1,3
2,6
5,0
6,0
Nord
4,9
3,4
6,8
9,2
Padania
1,4
1,9
4,0
1,1
Italia
24,5
22,1
26,4
31,4
Europa
9,5
8,5
6,6
7,7
Mondo
19,8
15,5
15,9
5,3
Fonte: Sondaggio Poster, gennaio 1998 (tratta da Il Sole 24 ore, 12/3/98)
IL “NORD” COME
SINONIMO DI
SVILUPPO
DALLE LETTURE
DUALISTICHE …
ALLA SCOPERTA DEL
TERRITORIO AL
PLURALE
An
22,8
12,6
4,7
12,6
1,5
31,4
5,6
8,7
Lega
28,6
18,4
10,4
14,6
6,6
12,6
5,0
3,7
Mentre nel termine Padania c’è un collegamento con una dimensione naturale
(da cui si presume, quale assunto non dimostrato, che ne debba derivare
un’unitarietà storica, linguistica, culturale, economica ecc.), espressioni come
“Italia del Nord” o “Italia settentrionale” hanno un riferimento geografico relativo, e si saldano con i dualismi dello sviluppo italiano e con l’immagine
del Nord Europa trainante (in termini economici, ma anche, e forse soprattutto, sociali, politici, civili ecc.). La metafora geografica Nord/Sud opera pienamente come riferimento ad un “Nord” (italiano, europeo, mondiale) che
appare sinonimo di sviluppo, rispetto ad un Sud arretrato, in ritardo. Lo
schema dualistico, nella sua limpidezza cartesiana, sembra avere tuttora una
forte rilevanza implicita, nonostante la scoperta della Terza Italia e, successivamente, dei pluralismi territoriali. Come rileva Coppola (1998, p. 31) “siamo ancora per molti aspetti orfani degli schemi dualistici (Nord/Sud),
abbiamo appena fatto a tempo ad assimilare letture “trialistiche”
(Nord/Ovest-Nord/Est-Centro/Sud), dobbiamo ora abituarci sempre di più a
guardare alla pluralità dei modelli locali di sviluppo; mentre rimaniamo, al
fondo, ben convinti che su piani diversi le varie partizioni trovino tutte ancora un proprio senso e vasti fronti di convivenza” accostando […] “visioni
fortemente duali (per esempio, sul piano dello Stato sociale) con passaggi
impregnati di scansioni trialistiche e con frammentazioni in chiave di localismi (soprattutto sul versante economico-industriale)”.
Le immagini evocate per rappresentare l’Italia del Nord tendono sempre di
meno a rappresentarla come realtà unitaria ed omogenea. Le differenze territoriali tra Nord e Sud sono state interpretate in maniera tale che
l’identificazione di una scala di riferimento per comprendere l’Italia settentrionale si è fatta via via più difficoltosa (Conti e Sforzi, 1998). Il modello
dualista Nord-Sud riduceva di fatto il Nord Italia al solo “triangolo industriale” Torino-Genova-Milano, impedendo agli osservatori di comprendere le
trasformazioni che stavano modificando la struttura dell’Italia centrale e nordorientale. Successivamente le teorizzazioni della Terza Italia hanno portato a
identificare un’area più o meno omogenea che comprendeva regioni come il
Veneto, il Friuli, l’Emilia Romagna, la Toscana e le Marche, e quindi conducevano a una scala che, nei fatti, rendeva impossibile parlare dell’Italia settentrionale come di un unicum. Le rivendicazioni leghiste, in terza battuta,
hanno introdotto una rottura nell’immagine della Terza Italia, evidenziando
un’ipotetica Padania socio-economica che vede il cuore produttivo dell’area
nel tessuto di imprese medio-piccole e di campagne urbanizzate che si estende dal Piemonte orientale al Veneto (Mainardi, 1998; Diamanti, 1998). Da
un’opposta prospettiva, la concettualizzazione della Terza Italia è stata superata dal corpo di studi sullo sviluppo locale, che vede nel sistema locale (sia
18
LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA
esso un distretto industriale o un’area di grande industrializzazione, un’area
metropolitana o una località turistica) la scala fondamentale alla quale si coagulano identità territoriale e connessione al Sistema-mondo, e alla quale, soprattutto, dovrebbe essere risolto il problema della governabilità (Becattini,
1996; Sforzi, 1995).
UNA LETTURA
LONGITUDINALE
Una chiave di lettura alternativa della geografia dello sviluppo della realtà
socio-economica italiana è stata recentemente proposta dal Censis (1997):
non più improntata sulla tradizionale contrapposizione Nord-Sud ma tra Est e
Ovest, con il passaggio da una modellistica latitudinale al riconoscimento
delle nuove fratture longitudinali, che sembra meglio garantire una lettura del
possibile futuro del Paese (tab. 3). La frattura tra l’area centro-settentrionale e
il Mezzogiorno cresce, ma essa cela in realtà una notevole dinamicità socioeconomica del Mezzogiorno adriatico ed un rallentamento dell’area nordoccidentale del Paese. La parte Est del Paese ha registrato incrementi di Pil
superiori alla parte Ovest, così come in termini di apertura internazionale,
dove l’Est sopravanza ormai l’Ovest. L’area Est-Sud ha registrato dei maggior incrementi di Pil (1981-95) rispetto all’Ovest-Nord.
Tab. 3 – Nuove e vecchie geografie del Paese: la lettura Nord-Sud e la lettura Est-Ovest del Censis
Composizione territoriale delle aree considerate
Popolazione resi- V.A. servizi Export
(mil.
non destidente 1996
lire
nabili alla
migliaia % sul
1995)
vendita
di abitan- totale
% sul
(mil. Lire
ti
1995) % sul totale
totale
Ripartizioni
tradizionali
Nord
25.519
44,4
56,9
75,8
Nord Ovest
15.023
26,1
34,1
45,3 Piemonte, Valle d'Aosta, Lombardia, Liguria
Nord Est
10.496
18,3
22,8
30,5 Trentino A.A., Veneto, Friuli V.G., Emilia Romagna
Centro
11019
19,2
20,3
14,9 Toscana, Marche, Umbria, Lazio
Sud
20923
36,4
22,8
9,3 Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna
Italia
57.461
100,0
100,0
100,0
Ripartizioni
alternative
Est
21094
36,7
40,2
48,3
Est-Nord
14051
24,5
30,9
41,2 Lombardia (prov. Como, Bergamo, Brescia, Cremona,
Mantova), Trentino A.A., Veneto, Friuli V.G., Emilia
Romagna
Est-Centro
1448
2,5
2,6
3,1 Marche
Est-Sud
5595
9,7
6,7
4 Abruzzo (esclusa prov. L'Aquila), Molise, Puglia, Basilicata (prov. Matera)
Ovest
36367
63,3
59,8
51,7
Ovest-Nord
11467
20,0
26
34,6 Piemonte, Valle d'Aosta, Lombardia (prov. Milano, Lodi, Varese, Pavia, Sondrio), Liguria
Ovest-Centro
9572
16,7
17,7
11,8 Toscana, Umbria, Lazio, Abruzzo (prov. L'Aquila)
Ovest-Sud
15328
26,7
16,1
5,3 Campania, Calabria, Basilicata (prov. Potenza), Sicilia,
Sardegna
Fonte: Censis, 1997
19
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA
LA POSIZIONE GEOECONOMICA DELL’ITALIA
SETTENTRIONALE
UN’AREA FORTE
NEL CONTESTO
ITALIANO …
Osservando i dati della tabella 3, risulta evidente il peso dell’Italia del Nord,
considerando la tripartizione tradizionale dell’Italia: in quasi il 40% della superficie territoriale nazionale (di cui il 45% in territorio montano), occupando
quasi il 60% delle zone di pianura a disposizione dell’Italia, troviamo il
44,4% della popolazione italiana. Rinviando alle singole schede della ricerca
per dati più specifici e approfonditi, è sufficiente notare come l’Italia del
Nord pesi per quasi il 57% del valore aggiunto dei servizi non destinabili alla
vendita e per oltre il 75% delle esportazioni nazionali.
Un dato strutturale di sintesi emerge dall’osservazione dell’indice di sviluppo
economico e sociale elaborato da Confindustria a livello regionale e provinciale (tab. 4, fig. 1 e 2), costruito sulla base di una pluralità di indicatori e non
sui soli dati di Pil6. Considerando i dati a livello regionale (fig. 2) emerge ancora forte la separazione Centro-Nord e Sud. Al vertice della graduatoria
dell’indice di sviluppo, al 1996, troviamo la Valle d’Aosta (124), al secondo
posto l’Emilia Romagna (135) seguita da Lombardia (132), Piemonte (143),
Toscana (122), Veneto (120) mentre solo decima risulta la Liguria (102), preceduta dalle Marche (109), probabilmente per il più basso livello di imprese
industriali e di esportazioni (Confindustria, 1998).
Tab. 4 – Distribuzione delle province e della rispettiva popolazione residente secondo
l’indice di sviluppo nel 1996
Ripartizioni terLivello dell’indice di sviluppo
ritoriali
Alto
MedioMedio
MedioBasso
Totale
alto
basso
NUMERO PROVINCE
Nord Ovest
Nord Est
Centro
Sud
Isole
Italia
8
9
4
21
9
8
3
20
7
5
9
21
5
9
6
20
14
7
21
24
22
21
23
13
103
9.104
3.985
13.089
15.023
10.496
11.019
14.159
6.764
57.461
POPOLAZIONE (migliaia di abitanti)
Nord Ovest
5.898
Nord Est
5.307
Centro
1.759
Sud
Isole
Italia
12.964
Fonte: Confindustria, 1998
6.943
3.066
1.012
11.021
2.181
2.123
6.597
10.901
6
1.652
5.055
2.779
9.486
L’indice sintetico di sviluppo economico e sociale è costruito mediante l’elaborazione statistica delle seguenti serie di dati: forze di lavoro occupate, nuove iscrizioni in anagrafe della
popolazione, consistenza imprese industriali, consumo di energia elettrica, autovetture immatricolate, vendita carburanti per auto, depositi bancari, spese per spettacoli e manifestazioni
varie, pensioni erogate dall’Inps, esportazioni di merci (Confindustria, 1998).
20
LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA
I dati a livello provinciale, se da un lato confermano le gerarchie territoriali,
dall’altro svelano una realtà più articolata e vedono, sempre al 1996, ai primi
10 posti, nell’ordine (Prato, Modena, Reggio Emilia, Milano, Aosta, Bologna, Vicenza, Parma, Verona e Como). La tabella 4 (cfr. anche la fig. 2) riporta un quadro sinottico della distribuzione delle province e della
popolazione secondo l’indice di sviluppo7 da cui risulta che nessuna delle
province settentrionali viene classificata tra le ultime due categorie, dove invece troviamo tutte le province dell’Italia meridionale e insulare. Delle 24
province del Nord Ovest, ben 17 (85,5% della popolazione) si collocano nelle
due categorie più alte ed una situazione quasi identica si ritrova per il Nord
Est (17 province su 22, il 79,8% della popolazione).
… CON PROSPETTIVE
DIFFERENZIATE
Se il peso del Nord Ovest è ancora prevalente, è ormai consolidato il crescente protagonismo del Nord Est, in particolare del Veneto, del Friuli Venezia
Giulia e dell’Emilia Romagna, come risulta dalle tabelle 5 e 6, che riportano
anche le proiezioni al 2002 e al 2010 elaborate da Prometeia nel maggio
1999. In particolare traspare, in prospettiva, il minor dinamismo del Nord
Ovest, il cui numero indice in termine di Pil procapite scende dal 124,4 del
1988 al 120,0 al 2010 (secondo le stime Prometeia), mentre il Nord Est passa
da 119,3 a 127,3, con un ulteriore balzo in avanti del Friuli Venezia Giulia e
del Veneto, ma soprattutto dell’Emilia Romagna
Tab. 5 – Pil a prezzi costanti 1990 (tassi di variazione medi annui)
Regioni
1989-1993
1994-1998
1999-2002
2003-2010
Piemonte
Valle d'Aosta
Liguria
Lombardia
Trentino Alto Adige
Veneto
Friuli Venezia Giulia
Emilia Romagna
0,1
1,4
0,9
0,7
1,9
2,0
1,5
1,4
2,1
1,4
0,9
2,1
1,6
2,5
1,7
2,1
2,1
2,5
2,7
2
1,9
2,2
2,3
2,7
2,5
2,5
2,4
2,6
2,6
3,0
3,0
3,2
Nord Ovest
Nord Est
Centro
Sud
0,6
1,7
1,4
1,1
2,0
2,2
1,6
1,1
2,1
2,4
2,7
2,6
2,6
3,0
3,0
2,7
Italia
1,1
1,7
2,4
2,8
Fonte: Prometeia, Scenari regionali, maggio 1999
7
Nella tabella 4 le province sono state attribuite tra i diversi livelli dell’indice di sviluppo (Is)
con il metodo dei quintili.
21
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA
Tab. 6 – Pil per abitante a prezzi costanti 1990 (n. indice Italia = 100)
Regioni
1988
1993
1998
Piemonte
116,8
113,1
116,5
Valle d'Aosta
132,4
131,6
128,2
Liguria
111,4
114,2
112,6
Lombardia
130,5
127,8
130,0
Trentino Alto Adige
122,8
126,0
122,9
Veneto
114,0
119,1
122,8
Friuli Venezia Giulia
113,9
118,4
120,2
Emilia Romagna
126,1
128,2
131,1
Nord Ovest
124,4
122,1
124,2
Nord Est
119,3
123,0
125,6
Centro
107,7
109,5
109,0
Sud
68,8
68,2
65,8
Italia
100,0
100,0
100,0
2002
116,2
127,0
116,9
126,8
119,1
121,5
121,0
132,7
122,8
125,4
110,0
66,3
100,0
2010
115,7
122,2
118,9
123,6
115,1
122,3
124,8
136,8
120,9
127,3
110,8
66,2
100,0
Fonte: Prometeia, Scenari regionali, maggio 1999
IL CONTESTO
EUROPEO COME
SCENARIO DI FONDO
Se l’Italia settentrionale, pur con andamenti differenziati nelle sue diverse
partizioni, mantiene comunque un peso determinante nell’economia italiana,
come si ridefinisce la sua importanza all’interno dello spazio comunitario?
Cercheremo di esaminare sinteticamente il tema della collocazione europea
dell’Italia del Nord, come macroregione e nelle sue componenti regionali, attraverso il ricorso agli usuali indicatori statistici Eurostat, rinviando alle singole schede tematiche per alcuni approfondimenti (demografia, reti urbane,
sistemi formativi, ricerca e sviluppo ecc.).
In una prospettiva dell’integrazione europea modellata sul gradiente centroperiferia, l’Italia settentrionale si pone, apparentemente, quale naturale raccordo tra il “cuore” propulsivo dell’Europa comunitaria e le periferie in ritardo dell’Europa dell’Est, del Sud e del Mediterraneo.
Questo tipo di lettura si presta logicamente ad assegnare all’Italia settentrionale un ruolo di cerniera fra regioni deboli e regioni forti. Essa ha ricevuto
notevoli conferme, nel corso degli anni Ottanta e Novanta, dall’affermazione
di alcune rappresentazioni di successo dell’assetto del territorio europeo. Si
pensi in primo luogo al famoso studio francese della fine degli anni Ottanta
(Brunet, 1989) che attribuisce al sistema urbano dell’Italia settentrionale un
ruolo significativo nel quadro del sistema urbano continentale. Esso viene infatti individuato, da un lato, come estremità meridionale della “dorsale centrale europea” di importanza consolidata, dall’altro, come segmento orientale
di una nuova direttrice di sviluppo cui viene attribuita la possibilità di controbilanciare (almeno in parte) la dominanza della dorsale centrale: una fascia
ispano-franco-padana comprendente la Spagna nord-orientale, la Francia meridionale e, appunto, l’Italia settentrionale (si veda la figura 2 nella scheda
sulle reti urbane).
In questa prospettiva, viene appunto attribuito alla densa rete urbana padana,
e in particolare lombarda, il ruolo di “snodo” fra questi due assi portanti del
sistema urbano continentale, e alla conurbazione milanese quello di polo dominante nell’ambito del sistema urbano dell’Europa meridionale.
22
LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA
LE MACROREGIONI
PER UN NUOVO
ASSETTO DEL
TERRITORIO EUROPEO
Sempre con riferimento alla scala continentale, si può infine ricordare come,
nella suddivisione del territorio dell’Unione europea in dieci “macroregioni
transnazionali” proposta nel noto rapporto Europa 2000 della Direzione Generale XVI della Commissione europea (CE DG XVI, 1995), il territorio del
nostro paese venga a sua volta suddiviso in tre insiemi territoriali, ognuno dei
quali compreso in una delle macroregioni individuate:
•
•
•
L’ITALIA
SETTENTRIONALE:
UNO SPAZIO DI
INTEGRAZIONE
TRANSFRONTALIERA
l’Italia settentrionale (corrispondente alle otto regioni considerate nel nostro studio con l’esclusione della Liguria e con l’aggiunta delle Marche)
viene a far parte della macroregione denominata “arco alpino”, comprendente anche le regioni alpine di Francia, Austria e Germania;
la Liguria, la Toscana, il Lazio, l’Umbria e la Sardegna sono comprese
nella macroregione denominata “arco latino” (o “Mediterraneo occidentale”), costituita dalla fascia costiera mediterranea di Spagna, Francia e Italia;
le restanti regioni del Mezzogiorno, insieme alla Grecia, fanno invece
parte della macroregione denominata “Mediterraneo centrale”.
L’arco alpino, da barriera fisica sembra dunque venire sempre più interpretato come spazio strategico: da un lato, in quanto spazio di attraversamento delle reti lunghe infrastrutturali verso Nord e verso Est, dall’altro, in termini di
contiguità territoriale, è il teatro di sempre più intense iniziative di cooperazione interregionale transfrontaliera e di formazione di euroregioni (la Comunità delle Alpi Occidentali, il progetto Alpi del Mare a Sud Ovest, i
rapporti Torino-Lione, l’euroregione Insubria, il gruppo di lavoro delle Alpi
Centrali, l’euroregione Tirolo Alpina, l’Arge Alpe Adria ecc.).
Mentre le iniziative transfrontaliere presentano un notevole dinamismo – anche sulla spinta del timore che la fascia alpina partecipi in modo debole e
passivo alle relazione fra la macroregione padana e gli spazi francese, tedesco, danubiano-balcanico – la realizzazione delle reti lunghe infrastrutturali
procede a rilento con scenari dagli esiti ancora incerti per quanto riguarda
l’Italia settentrionale e il suo assetto interno. Il che costituisce, come si è visto, uno dei temi dominanti di un malessere e di un disagio che attraversa
l’Italia settentrionale.
IL NORD ITALIA E LE
REGIONI FORTI
EUROPEE
Da alcuni anni a questa parte, sulla scia degli studi a supporto delle politiche
regionali della Ue e delle analisi sulla competitività dei territori europei, si
sono moltiplicate le proposte di ranking delle regioni europee. All’interno di
queste classifiche, generalmente basate sul Pil procapite o su indici sintetici
di sviluppo, che in realtà non si discostano granché dal primo, le regioni
dell’Italia settentrionale occupano posizioni medio-alte. Occorre sottolineare
che un confronto tra l’Italia settentrionale e le regioni forti del territorio Ue
non è immediato: ad esempio, quanto a taglia demografica l’Italia del Nord
con i suoi 25 milioni di abitanti ha una dimensione pari a quella della somma
di Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, superiore alla somma delle ricche regioni della Germania meridionale, Bayern e Baden Württemberg (rispettivamente 12 e 10 milioni di abitanti).
La tabella 7 riporta la posizione delle regioni dell’Italia settentrionale in base
al Pil procapite (calcolato in termini di parità di potere d’acquisto) con un
23
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA
confronto tra il 1986 e il 1996 (vedi anche figure 4 e 5). Si può notare come
al 1986 tutta l’Italia settentrionale risulti compresa tra le prime 37 regioni europee, situazione che risulta migliorata al 1996, quando l’ultima regione in
base al Pil procapite in ppa è il Piemonte che si trova al 32° posto. Lombardia, Valle d’Aosta ed Emilia Romagna si trovano immediatamente a ridosso
delle prime 10 regioni, tra cui troviamo le regioni dell’Europa centrosettentrionale. È interessante notare il balzo in avanti nel decennio 1986-96
da parte del Nord Est (qui inteso come regione Nuts 2, cioè senza l’Emilia
Romagna), che passa dalla trentaduesima posizione alla ventunesima, mentre
il Nord Ovest, ed il Piemonte in particolare, perde diverse posizioni.
Dall’osservazione delle figure 4 e 5 emergono piuttosto distintamente tre
grandi aree dello sviluppo europeo: una zona centro-settentrionale, compresa
all’incirca in un triangolo che ha i suoi vertici in Londra, Parigi e Brema; la
Germania meridionale (Baviera e Baden-Württemberg) con la regione viennese e, infine, l’Italia del Nord.
UN NUOVO ASSE DI
SVILUPPO: LA
DIRETTRICE RENO-PO
Queste semplici osservazioni risultano avvalorate da più approfondite analisi
del processo di convergenza delle regioni europee. Rileva Leonardi (1995, p.
152), analizzando la dinamica delle regioni europee dal 1950 al 1995, come
l’epicentro della forza economica europea si sia spostato gradualmente dalle
sponde del Canale della Manica verso localizzazioni più a Sud lungo il Reno,
e più di recente anche sorpassando le Alpi nell’Italia del Nord. “Ad eccezione
della regione di Groningen che produce gas naturale, la lista delle regioni
che risultavano le prime dieci nel 1995 sembra sorprendentemente simile
all’asse nord-sud del conglomerato di regioni e città-stato che aveva dominato l’attività economica e i commerci in Europa durante il periodo del Rinascimento, cioè prima del consolidamento del sistema degli stati-nazione.
Ciò diventa evidente quando si guarda al secondo gruppo di regioni al vertice (quelle classificate dall’undicesima alla ventesima posizione) nel quale
troviamo il resto dell’Italia del centro-nord e i rimanenti Länder tedeschi”.
La figura 6 ci propone una classificazione delle regioni europee sulla base
della specializzazione produttiva (agricoltura, industria o servizi), calcolata
sulla base della percentuale di occupati nel comparto. Si può notare come le
regioni maggiormente dipendenti dai servizi siano raggruppate alle grandi città capitali del Centro Nord, ma includano anche un’area mediterranea tra
Roma e la Costa Azzurra. Tra di esse spiccano Londra, l’Ile de France e i
centri commerciali di Amsterdam e l’Aia. Le regioni a specializzazione manifatturiera si possono trovare nella Germania meridionale, nell’Italia del Nord
(Piemonte, Lombardia e Veneto) e nella Spagna settentrionale. La specializzazione manifatturiera sembra più associata con città di minore dimensione
rispetto alle metropoli specializzate nei servizi e a reti urbane policentriche
(come nel Nord Est e nella Spagna settentrionale).
24
LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA
Tab. 7 – L’Italia del Nord tra le regioni europee (Pil pro capite in ppa, Eur 15 = 100)
Regioni
1986 rank
Regioni
1996 rank
Hamburg – D
Région Bruxelles-cap. – B
Île de France – F
Darmstadt – D
Greater London – Gb
Wien – A
Bremen – D
Stuttgart – D
Oberbayern – D
Luxembourg – Lu
185
163
162
152
148
148
144
143
141
137
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Hamburg – D
Région Bruxelles-cap. – F
Darmstadt – D
Luxembourg – Lu
Wien – A
Île de France – F
Oberbayern – D
Bremen – D
Greater London – D
Antwerpen – B
192
173
171
169
167
160
156
149
140
137
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Stockholm – Sve
Åland – F
Lombardia – I
Uusimaa – F
Valle d'Aosta – I
Berlin – D
Emilia Romagna – I
Antwerpen – B
Mittelfranken – D
Karlsruhe – D
Düsseldorf – D
Grampian – Gb
133
132
132
129
129
128
125
124
124
123
122
122
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
Stuttgart – D
Groningen – Nl
Emilia Romagna – I
Lombardia – F
Valle d'Aosta – I
Uusimaa – F
Trentino Alto Adige – I
Friuli Venezia Giulia – I
Grampian – Gb
Karlsruhe – D
135
134
133
132
131
129
128
126
126
126
125
124
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
Noord-Holland – Nl
Köln – D
Piemonte – I
Nord Ovest – I
Trentino Alto Adige – I
Rheinhessen-Pfalz – D
Alsace – F
Liguria – I
Salzburg – D
Nord Est – I
117
117
117
116
115
114
114
114
113
112
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
124
123
123
121
121
120
119
119
118
118
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
Haute-Normandie – F
Lazio – I
Umbria – I
Friuli Venezia Giulia – I
Veneto – I
112
112
112
112
112
33
34
35
36
37
Nord Est – I
Berkshire, Buckinghamshire,
Oxfordshire – Gb
Veneto – I
Mittelfranken – D
Stockholm – I
Salzburg – D
Noord-Holland – Nl
Utrecht – Nl
Düsseldorf – D
Liguria – I
Nord Ovest – I
Piemonte – I
Fonte: Eurostat, (EC, 1999)
25
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA
ALLA RICERCA DI UN RUOLO EUROPEO:
QUESTIONI APERTE
In conclusione, intendiamo esaminare brevemente alcune questioni aperte
circa il ruolo che l’Italia del Nord potrebbe (e dovrebbe) giocare in chiave europea. Si tratta di aspetti che vengono sfiorati dagli sguardi tematici che strutturano la ricerca, ma da cui ricevono delle indicazioni conoscitive e degli
stimoli interpretativi su cui articolare un futuro approfondimento specifico.
L’ITALIA DEL NORD
COME PROGETTO …
… PER “FARE
SISTEMA” NELLA
COMPETIZIONE
TERRITORIALE
Una prospettiva di fondo comune alle diverse analisi e riflessioni che si sono
soffermate negli anni recenti sull’Italia settentrionale è la considerazione
(quasi un assunto da non dimostrare) che l’Italia settentrionale possa e debba
giocare un ruolo strategico per la sua collocazione geoeconomica e geopolitica. Per un certo periodo si è anzi ritenuto che l’evocare un termine, come
quello di “Padania”, potesse contribuire in questa direzione, una sorta di marchio che il generico riferimento geografico “Italia del Nord” sembrava troppo
debole per affermare (cfr. in particolare Bramanti e Senn, 1992; Detragiache
e Rossetto, 1993).
Come rilevava Mazza nella già citata indagine della Fondazione Agnelli
(Mazza, 1992), la Padania di per sé, intesa come area di studio definita e riconosciuta dalle ricerche territoriali, non esiste. È soprattutto un’immagine
progettuale politica che potrebbe diventare (ma non l’ha tuttora fatto, se si
eccettuano i piani di bacino) un’immagine progettuale della cultura tecnica.
Giustamente, concludeva Mazza (1992, p. 302), “non si tratta tanto di sapere
se esista o quale sia la Padania, ma di decidere quale Padania si voglia eventualmente costruire od organizzare…”.
Anche senza impiegare un termine, quello di Padania, ormai troppo connotato politicamente, il riferirsi – in modo più soft, come si è fatto in questa ricerca – all’Italia del Nord, il tentare di coglierne alcuni caratteri socioeconomici, significa implicitamente evocarne un significato progettuale.
L’aver cioè scelto di articolare la riflessione sull’Italia del Nord è già una sorta di ammissione che questa partizione territoriale possa avere un senso in
quanto progetto collettivo, a certe condizioni e per certi obiettivi che vanno
esplicitati.
Come si è visto, nel dibattito corrente i possibili riferimenti al Nord Italia si
collocano tra due estremi opposti. A un estremo, l’Italia settentrionale appare
come un aggregato un po’ desueto, una ripartizione statistica che scompare di
fronte alle differenti dinamiche delle sue parti, per essere più efficacemente
sostituita, ad esempio, da “tagli longitudinali” Est-Ovest come propone il
Censis (1997); all’estremo opposto, essa acquista un senso forte in quanto
soggetto politico in cerca di un qualche riconoscimento istituzionale, pur senza poterla ricondurre ad una qualche forma di omogeneità culturale, storica,
economico-funzionale ecc., che, come si è visto, appare priva di fondamento.
Questa ricerca – che, è bene ribadirlo, non si occupa direttamente di questioni
istituzionali, oggetto di futuri approfondimenti – nel guardare all’Italia del
Nord si colloca in una posizione intermedia, ritenendo che alcuni aspetti, in
particolare le politiche infrastrutturali e ambientali, richiedano ai soggetti politici ed economici dell’area di comportarsi come un soggetto collettivo, di
“fare sistema”, di costituire una “massa critica” su alcuni progetti chiave. La
vicenda dell’aeroporto di Malpensa 2000 appare istruttiva al proposito, laddove si è progettato un hub internazionale che avesse come bacino di riferi-
26
LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA
mento perlomeno il Settentrione, senza aver pensato ad una politica di rete
per il sistema aeroportuale del Nord, ma concependo il progetto più come un
gioco a somma zero.
La crescente integrazione europea sembra rafforzare l’importanza, e in parte
anche le possibilità, per l’Italia del Nord di ritagliarsi un ruolo, che, come rilevava Marcello Pacini, già nel 1992, “… va progettato e organizzato, non
può essere frutto di meccanismi automatici ma deve essere voluto e perseguito affinché [la Padania] diventi l’area di eccellenza dell’Europa mediterranea
e il raccordo fra questa e l’Europa del centro-nord” (Pacini, 1992, p. 7).
A distanza di alcuni anni, è dubbio che si sia effettivamente lavorato in questa direzione con qualche risultato di rilievo (come emerge, ad esempio, dalla
scheda sui servizi alle imprese), e sarebbe utile indagare il perché. Resta il
fatto che rimane tuttora forte la necessità per l’Italia del Nord di definirsi più
esplicitamente un ruolo europeo.
Infatti, alcuni processi in corso, quali, in particolare, le prospettive di allargamento ad Est dell’Unione europea e lo spostamento della capitale tedesca a
Berlino, sembrano rafforzare ulteriormente il Nord Europa con
l’affermazione di un asse Ovest-Est che unisce il “centro delle capitali” con
Berlino e con l’Est europeo, “tagliando fuori” l’Italia settentrionale.
Appare quindi ancora più importante un disegno di riequilibrio del territorio
europeo. Non solo occorre colmare il ritardo delle regioni meridionali della
Ue, ma è necessario strutturare con maggiore attenzione una politica euromediterranea che sappia cogliere l’ambiguità del Mediterraneo, allo stesso tempo momento di convergenza e frontiera “calda” che separa grandi differenze
economiche, demografiche, culturali e religiose. Rimane dunque del tutto aperta e urgente la possibilità-necessità di un ruolo attivo del Nord Italia in
una prospettiva geopolitica e geoeconomica che, nel rivolgersi a Est, non dimentichi la strategicità del margine Sud del territorio comunitario.
PERCHÉ E PER CHI UN
RUOLO EUROPEO PER
L’ITALIA DEL NORD
La domanda che si pone è dunque come sia possibile far sì che l’Italia del
Nord possa assumere un ruolo più consapevole in chiave europea, a partire
dalle diversità interne che, lungi dall’indebolirla, possono essere un punto di
forza. L’esigenza di agganciarsi positivamente alla locomotiva europea, sia
sul piano territoriale, sia su quello economico e sociale, è sempre più percepita allo stesso tempo come opportunità e come necessità drammatica da parte
dei singoli territori. Può essere l’Italia del Nord, nel suo complesso, un progetto territoriale sul quale aggregare interessi e risorse per strategie comuni
che si ponga efficacemente come livello intermedio tra l’azione degli enti locali e delle regioni in particolare e l’azione statale e comunitaria?
Ciò richiede di indagare sulle forze, sulle ragioni che possono spingere verso
questo ruolo di raccordo, sulla capacità dell’Italia del Nord di sopportare le
tensioni centrifughe verso Ovest, Nord ed Est che possono indurre a massimizzare la competizione territoriale interna per aumentare la capacità di connessione alle reti globali.
Alcune ricerche, come quella del Cnel (1996a,b; 1997b) e in parte quella della Fondazione Agnelli (Bramanti e Senn, 1992; Diamanti, 1998; Bonora,
1998) hanno cercato di rispondere a questa domanda, che rimane tuttora aperta sia nello spazio dei soggetti economici che in quello della politica. La risposta esula evidentemente dall’ambito di questa ricerca, in quanto richiede
l’analisi di una serie di fattori geopolitici (aspetti istituzionali, soggetti politi-
27
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA
ci ed economici ecc.) che vanno al di là degli aspetti su cui ci si è concentrati,
e si propone come ulteriore tema di indagine.
LE IPOTESI DELLA
CERNIERA TRA IL
CUORE FORTE E LE
PERIFERIE DEBOLI:
ALCUNE IMMAGINI
CONSOLIDATE
“Cucitura”, “snodo”, “cerniera”, “ponte”, gateway, “intermediario” e così via,
sono le espressioni più ricorrenti per indicare i possibili ruoli che l’Italia del
Nord (o le sue singole parti) può ricoprire sulla scena europea, mediterranea,
ecc. (si veda, ad esempio, Bassetti, 1996). Al di là delle immagini retoriche,
delle espressioni giornalistiche che giocano comunque un ruolo performativo
nella costruzione di immagini territoriali, queste metafore possono avere un
senso effettivo sul piano geoeconomico e geopolitico?
È interessante notare come le giustificazioni di questo ruolo di “cerniera” (per
usare l’espressione più utilizzata) vengano fatte derivare soprattutto dalla storia e dalla geografia (si veda il saggio conclusivo). Si è del resto già evidenziata la rilevanza che i significati impliciti nei riferimenti geografici
apparentemente neutri giocano in questa partita: “nord”, “sud”, “ponte” ecc.
agiscono liberamente come categorie pure. Nella stessa espressione “il Nord
del Sud” con cui l’Italia settentrionale (e in parte l’arco latino) è stata designata, sono efficacemente riassunte la drammaticità e l’ambiguità della posizione dell’area.
Vale la pena soffermarsi su alcune questioni sottostanti all’utilizzo di queste
metafore territoriali.
La funzione di cerniera è evidentemente metaforica di legami materiali (flussi
di beni, servizi, persone ecc.) e immateriali (sul piano politico, economico,
culturale ecc.) che l’area dovrebbe essere in grado di attivare, in particolare
tra il Nord Europa più ricco e il Sud e l’Est in ritardo. Da questo punto di vista è opportuno provare a distinguere tra due diversi tipi di spazi (e in parte
anche di scale) in cui questi legami possono operare (Dematteis, 1998). Si
tratta di una distinzione che solo in parte può essere ricondotta alla contrapposizione “reti lunghe-reti corte” (si veda ad esempio Bonomi, 1997), la quale non considera che i due tipi di reti operano in realtà in due diverse
tipologie di spazi, con proprietà differenti.
L’ITALIA DEL NORD
TRA RELAZIONI DI
PROSSIMITÀ E
RELAZIONI DI RETE
Un primo spazio è di tipo “areale”, basato su relazioni di prossimità tra sistemi territoriali contigui. Le relazioni “di prossimità” avvengono in uno spazio
strutturato sulla distanza fisica, dove le forme fisiche e le eredità storiche giocano condizionamenti rilevanti. Da questo punto di vista l’Italia del Nord
sembra ricoprire un ruolo dinamico di raccordo come ad esempio dimostrano,
verso Nord, l’effervescenza delle iniziative di cooperazione transfrontaliera
lungo tutto l’arco alpino (si veda la figura 7), così come le iniziative di cooperazione interregionale verso Sud (si veda ad esempio il Patto territoriale
dell’Appennino tosco-emiliano). Ed è in questo tipo di spazio che si percepisce con più drammaticità il divario nella dotazione infrastrutturale, soprattutto di trasporto, rispetto alle regioni forti europee, anche quando si fa per
esempio riferimento alle reti lunghe dell’alta velocità ferroviaria che dovrebbero connettere l’Italia del Nord alle grandi reti transeuropee di trasporto.
Un secondo spazio è di tipo “reticolare”, discontinuo e disomogeneo, con relazioni di rete di lunga distanza, dove i sistemi territoriali agiscono come
“nodi” di reti di interazioni sovra-regionali. Le relazioni “di rete” risentono
scarsamente dell’ “attrito della distanza fisica”, ma riflettono la divisione del
lavoro a scala sovra-regionale indicando il grado di globalizzazione dei sistemi urbani a cui fanno capo (Dematteis, 1998, p. 347). Le relazioni
28
LE RAGIONI E I FONDAMENTI DELLA RICERCA
dell’Italia del Nord in questo tipo di spazio, e le sue capacità-possibilità di
cerniera, sono il riflesso della proiezione internazionale (in entrata e in uscita)
dell’area (si vedano in particolare le schede sulle reti urbane, sulla internazionalizzazione e sulla R&S), laddove la crescente apertura agli scambi con
le reti globali sembra difficilmente conciliarsi con la coesione interna ai sistemi territoriali che compongono il mosaico dell’Italia settentrionale.
A QUALE LIVELLO PUÒ
OPERARE LA
CERNIERA?
PUNTI DI VISTA
Una seconda questione riguarda il livello a cui si suppone debba operare questo ruolo di cerniera: a livello di singola città o contesto locale, a livello di
regione (istituzionale e non) o a livello di macroarea dell’Italia del Nord?
Come è forse connaturato con la dialettica globale-locale e in un’ottica di
sempre più spinto “marketing territoriale”, ogni partizione territoriale intermedia al Settentrione tende a ritagliare più o meno legittimamente per sé un
ruolo di cerniera: lo fa in particolare Milano in quanto è la città più globale
dell’area e l’unica piazza quaternaria e finanziaria; lo fanno, con altre motivazioni, il Piemonte (e Torino in particolare), il Veneto o l’Emilia Romagna.
Su questi livelli si registra un certo dinamismo – come le iniziative “Quattro
motori per l’Europa” o “Il Diamante Alpino” ecc. – finanche un po’ affannoso. A livello di macroarea, con alcune debite eccezioni (il Club delle Camere
di Commercio o su un altro piano il Comitato Promotore Transpadana), si riscontra una notevole difficoltà a “fare sistema” su iniziative comuni nei confronti dell’estero.
Quest’ultima questione è infine legata al punto di vista da cui guardare alla
cerniera, che può essere interno o esterno all’area. In altre parole si tratta di
confrontare le immagini dei ruoli che l’Italia del Nord (o le sue singole parti)
si autoattribuisce, con le modalità con cui, eventualmente, il ruolo dell’area
viene rappresentato ai livelli nazionali, o al livello comunitario. All’interno
dell’area, l’immagine e il ruolo dell’Italia Settentrionale appaiono molto diversi se guardati dal punto di vista di Torino, di Milano, del Nord Est (si veda, ad esempio la figura 8) o delle zone di frontiera, come hanno evidenziato
le citate ricerche della Fondazione Agnelli e del Cnel. A loro volta queste
immagini si devono confrontare con quanto emerge dalle politiche a livello
nazionale e comunitario, o da come, ad esempio le altre regioni, in particolare
quelle dell’arco latino mediterraneo, proiettano sé stesse nello spazio europeo. Un possibile e consapevole ruolo dell’Italia del Nord deve dunque partire
dalla considerazione che la sua efficacia performativa dipende dalla capacità
di considerare punti di vista differenti sia interni che esterni.
29
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA
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Puf.
37
DEMOGRAFIA
Stefano Molina*
SOMMARIO – LO
– VERSO UN RALLENTAMENTO DEL
– TENDONO AD AUMENTARE LE RIGIDITÀ – LE CITTÀ DI FRONTE
STATO DELLA QUESTIONE DEMOGRAFICA
RICAMBIO DEL CAPITALE UMANO
AL DECLINO DEMOGRAFICO – CONCLUSIONI
SOMMARIO
UN ORIZZONTE
RELATIVAMENTE BEN
DEFINITO
In questa scheda si esamineranno alcuni caratteri del profondo mutamento
che sta interessando le strutture demografiche dell’Italia settentrionale. Poiché il tempo della demografia scorre piuttosto lentamente, è probabile che il
lettore possa scorgere in queste pagine orizzonti temporali più dilatati rispetto
a quelli presentati nelle schede successive. Il minor grado di aleatorietà che
contraddistingue le proiezioni demografiche rispetto ad altri apparati previsivi ci consente infatti di esplorare un futuro relativamente lontano: dal momento che gli italiani adulti del 2015 sono già tutti nati, siamo in grado di
conoscere con largo anticipo una delle variabili dalle quali dipenderanno, a
quella data, le dimensioni complessive delle immatricolazioni universitarie,
della domanda di abitazioni, di servizi sanitari e così via. Una volta delineato
lo scenario demografico futuro, con il suo sistema di risorse, di vincoli e di
opportunità, sarà possibile sottoporre a verifica, per valutarne il grado di realismo, le diverse strategie di sviluppo attualmente considerabili per l’Italia
settentrionale.
LO STATO DELLA QUESTIONE DEMOGRAFICA
Nelle otto regioni dell’Italia settentrionale risiedono attualmente 25 milioni e
mezzo di persone: quasi la metà (il 44,4%) della popolazione italiana e circa
un quindicesimo (il 6,9%) della popolazione appartenente all’Unione Europea.
La speranza di vita alla nascita, indice della quantità, ma indirettamente anche rivelatore della qualità di vita di una popolazione, ha superato i 75 anni
per gli uomini e gli 82 anni per le donne, valori che si collocano al di sopra
della media europea.
UN INSUFFICIENTE
RICAMBIO
GENERAZIONALE
L’aspetto che caratterizza maggiormente la popolazione dell’Italia settentrionale è senza dubbio la difficoltà che essa incontra nel garantire il ricambio
generazionale. Affinché le generazioni si succedano mantenendo dimensioni
relativamente simili è necessario che il livello di fecondità si aggiri intorno ai
due figli per donna1 (o per coppia). Durante gli anni Settanta e Ottanta la fecondità delle regioni dell’Italia settentrionale è scesa fino a stabilizzarsi, durante gli anni Novanta, intorno alla metà del livello necessario a garantire la
sostituzione delle generazioni (si veda la tabella 1). È proprio questo limitato
*
Fondazione Giovanni Agnelli, Torino
In verità, la soglia di sostituzione delle generazioni si colloca a un livello leggermente superiore, circa 2,05 figli per donna, dal momento che devono essere compensati due fenomeni che
tendono a ridurre il numero delle madri potenziali: la mortalità infantile e giovanile, e la minor
natalità femminile (su 1000 nati, in media si contano solo 485 femmine).
1
39
DEMOGRAFIA
contributo offerto dalle regioni del Nord alla fecondità nazionale, mentre le
regioni del Sud hanno mantenuto comportamenti in linea con i valori medi
europei, ad aver determinato un non invidiabile primato italiano: con una
media nazionale di 1,2-1,3 figli per donna, la fecondità italiana è infatti da
oltre un decennio la più bassa al mondo.
Tab. 1 – Tassi di fecondità in Italia (numero medio di figli per donna)
1967* 1977*
Valle d’Aosta
2,12
1,65
Piemonte
2,08
1,67
Lombardia
2,26
1,71
Liguria
1,89
1,43
Trentino A.A.
2,77
1,82
Veneto
2,49
1,81
Friuli
2,01
1,51
Emilia
1,98
1,51
1987*
1,13
1,07
1,13
0,95
1,37
1,08
1,00
0,96
1997*
1,10
1,03
1,07
0,92
1,34
1,08
0,94
0,97
Italia settentrionale
Italia centrale
Italia meridionale
2,20
2,22
3,15
1,67
1,76
2,49
1,07
1,15
1,66
1,05
1,07
1,39
Italia
2,53
1,97
1,31
1,21
Francia
Austria
Svizzera
Slovenia
2,83
2,70
2,61
2,43
1,93
1,80
1,61
2,18
1,81
1,50
1,52
1,72
1,70
1,40
1,48
1,29
Regno Unito
Germania
2,89
2,50
1,81
1,48
1,79
1,37
1,70
1,25
Fonte: per gli anni dal 1967 al 1987, Notiziario Istat, “L’evoluzione della fecondità nelle regioni italiane”, serie 4, foglio 41, febbraio 1993; per il 1997, Istat, 1998. * Per la Francia e
per l’Austria i dati sono relativi al 1965, 1975, 1985 e 1995: UNECE e UNPF, “Fertility and
family surveys in the countries of the ECE region”. Standard Country report, New York and
Geneva, 1998. Per la Svizzera, la Slovenia, il Regno Unito e la Germania, sempre riferiti al
1965…1995, i dati sono tratti da Eurostat, “Demographic Statistics”, Luxembourg, 1998.
Pur all’interno di una tendenza piuttosto omogenea per l’intera circoscrizione
settentrionale, tre regioni si dimostrano ancora più inclini delle altre a praticare un vero e proprio “sciopero della fecondità” (Liguria, Friuli ed Emilia); il
Trentino Alto Adige si colloca invece su livelli relativamente più elevati, con
la provincia di Bolzano perfettamente allineata sui valori medi dell’Austria,
pari a 1,4 figli per donna.
Se verso Nord, ossia nei confronti di Francia, Svizzera e Austria, differenze
piuttosto sensibili nei livelli di fecondità segnalano l’esistenza di discontinuità nei comportamenti socio-demografici, verso Sud la sola analisi delle caratteristiche demografiche non consente di tracciare una linea di demarcazione
tra le regioni dell’Italia settentrionale e quelle dell’Italia centrale. Ad esempio, la Toscana, che secondo la suddivisione Istat appartiene alla circoscrizione Centro, dimostra attualmente valori di fecondità pressoché identici a
quelli emiliani (le donne toscane mettono oggi al mondo 0,98 figli a testa), a
testimonianza di una continuità socio-culturale che possiamo ritrovare anche
nelle altre analisi presentate in questo studio (il modo di fare impresa, di risparmiare, di vivere le città...).
40
DEMOGRAFIA
Livelli bassissimi di fecondità, combinati con un’elevata speranza di vita,
stanno provocando una deformazione della struttura per età della popolazione. Consideriamo le classi di età fino a 14 anni compiuti e da 65 in poi, ossia
le due grandi fasce di popolazione per le quali il saldo netto tra produzione e
consumo è generalmente negativo. Come si può osservare dalla tabella 2, le
regioni dell’Italia settentrionale presentano oggi una quota di popolazione dipendente (giovani e anziani) inferiore a quella dei principali paesi europei.
Tab. 2 – Struttura per età della popolazione. Confronti italiani ed europei (anno 1996)
Piemonte
Valle d’Aosta
Lombardia
Liguria
Veneto
Trentino A.A.
Friuli
Emilia
quota%
0-14 anni
11,9
12,5
13
10,2
13,3
15,8
11,1
10,8
quota %
65 anni e più
19,1
17,7
16,3
23,3
16,8
16
20,5
21,3
quota totale
popol. Dip.
31
30,2
29,3
33,5
30,1
31,8
31,6
32,1
Italia settentrionale
12,4
18,3
30,7
Italia
14,9
16,8
31,7
Francia
Regno Unito
Germania
19,6
19,4
16,3
15
15,7
15,4
34,6
35,1
31,7
Media UE 15
17,6
15,4
33
Fonte: Istat, 1998; Eurostat, 1998.
Stiamo ancora vivendo una fase particolare della storia demografica italiana,
quella in cui i tassi di dipendenza dei giovani si sono sensibilmente ridotti
senza che si siano ancora eccessivamente dilatati quelli degli anziani. La presente stagione è quindi relativamente favorevole alla crescita economica, dal
momento che ben sette decimi della popolazione totale appartengono alla fascia dell’età lavorativa.
L’ILLUSIONE OTTICA
DEL CONFRONTO FRA
VALORI PRO CAPITE
IN PRESENZA DI
STRUTTURE
DEMOGRAFICHE
DIVERSE
Per inciso, invitiamo a riflettere sul fatto che la presenza di strutture demografiche diverse altera i risultati dei confronti internazionali operati sulla base
di indicatori pro capite (tipicamente il reddito nazionale oppure il prodotto
interno lordo). Si consideri ad esempio il confronto di Pil pro capite tra Francia e Italia, che hanno una popolazione totale di dimensioni simili: la presenza al denominatore del rapporto francese di 3 milioni di giovani in più
rispetto all’Italia (minorenni che non hanno partecipato, se non in minima
parte, al processo produttivo) crea l’illusione ottica di una maggiore ricchezza
pro capite prodotta dall’Italia, che tuttavia svanirebbe in presenza di una
composizione più equilibrata della popolazione. Numerose considerazioni più
o meno autocompiaciute sulla posizione raggiunta dall’Italia, in particolare
dall’Italia settentrionale, nelle classifiche europee del benessere sono in realtà
viziate da questa illusione ottica di non immediata decifrazione.
Ritorniamo alla tabella 2. L’Italia è l’unico grande paese europeo in cui le
persone anziane già oggi superano quelle più giovani. In alcune regioni del
41
DEMOGRAFIA
Nord il rapporto anziani/giovani è addirittura di due a uno: il processo di anzianizzazione della popolazione, che sta investendo tutto il continente, si presenta dunque a uno stadio più avanzato proprio nelle regioni qui esaminate.
Poiché la durata della vita media italiana è solo di poco superiore alla media
europea, possiamo concludere che le anomalie della struttura per età
dell’Italia e di alcune sue regioni sono prevalentemente imputabili all’intenso
processo di denatalità in corso.
LE CAUSE DELLA
BASSA NATALITÀ
Prima di addentrarci nell’esplorazione delle conseguenze future, riteniamo
opportuno fare un breve cenno alle possibili cause di una così bassa propensione a procreare da parte delle giovani coppie italiane. Segnaleremo due diverse interpretazioni del fenomeno.
Una prima linea interpretativa discende dalla constatazione che ad essersi ridotto non sia stato tanto il desiderio di figli, quanto piuttosto la possibilità di
averli: le indagini condotte su campioni rappresentativi di giovani italiani2
confermano l’esistenza di un ampio divario fra aspettative di fecondità (è attualmente pari a 2,1 il numero di figli che i genitori intendono avere) e fecondità effettiva (il numero di figli avuti è invece di poco superiore all’unità).
Entrano evidentemente in gioco ostacoli consistenti che costringono al ridimensionamento dei progetti procreativi: lo scarso grado di flessibilizzazione
del mercato del lavoro (il lavoro part time, ad esempio, interessa circa il 7%
degli occupati, un valore significativamente inferiore alla media europea), le
rigidità del mercato immobiliare, l’insensibilità sinora dimostrata dal sistema
fiscale alla presenza di carichi familiari, e così via. Da analitico-descrittivo,
tale quadro diventa naturalmente prescrittivo: la miglior politica sociale per la
popolazione consisterebbe dunque nella rimozione dei diversi vincoli alla
formazione di nuove famiglie.
Un secondo quadro analitico, di più recente definizione, colloca invece la
scelta di avere o non avere un figlio all’interno di un processo decisionale
complesso e a più dimensioni, difficile da ricondurre a un semplice rapporto
di causa-effetto. Il declino della fecondità in Italia si inscrive in una generale
ristrutturazione dei cicli di vita, con il consolidamento di una nuova età sociale: quella che emerge durante il passaggio sempre più rallentato dalla giovinezza all’autonomia della vita adulta da parte dei potenziali genitori. L’età
del “giovane adulto” sembra attualmente caratterizzata dalla durata eccessiva
dei processi di formazione scolastica, dal rinvio dell’inizio dell’attività lavorativa, dalla permanenza oltre i limiti un tempo considerati “leciti” nella famiglia di origine (si veda la tabella 3), dal rinvio del matrimonio e
dell’esperienza di genitore.
Tab. 3 – Giovani che abitano con i genitori in alcuni paesi UE al 1995 (valori %).
MASCHI
15-19 anni
20-24 anni
25-29 anni
Italia
97,3
92,2
66,0
Francia
94,8
61,6
22,5
Regno Unito
93,2
56,8
20,8
Germania
95,4
64,6
28,8
FEMMINE
15-19 anni
20-24 anni
25-29 anni
Italia
95,3
82,4
44,1
2
Ricerche di Rossella Palomba.
42
DEMOGRAFIA
Francia
90,9
41,6
Regno Unito
88,2
37
Germania
93,2
44,6
Fonte: Eurostat. Cfr. IRP-CNR, giovani che non lasciano il nido, Roma 1998.
10,3
10,8
12,7
Il problema della denatalità italiana nascerebbe appunto a seguito di tale concatenazione di decisioni rinviate. Nella sequenza, la decisione della procreazione si colloca all’ultimo posto: con il controllo biologico della fecondità
diventato ormai assoluto, e con il controllo familiare e sociale che non abbassa la guardia sulle nascite fuori dalle unioni matrimoniali (è questa un’altra
peculiarità italiana rispetto alla media europea), la coppia decide di mettere al
mondo un figlio solo una volta che tutti gli altri passi sono stati compiuti:
termine del percorso formativo, raggiungimento dell’indipendenza economica, distacco dalla famiglia di origine, matrimonio. Vincoli e ostacoli ai primi
passi della sequenza ne ritardano il completamento.
È evidente che dall’adozione di un tale quadro interpretativo risulta decisamente meno facile derivare quali siano gli interventi più opportuni per favorire comportamenti demografici maggiormente equilibrati.
Passiamo ora ad esaminare alcune possibili conseguenze dell’evoluzione demografica in atto.
VERSO UN RALLENTAMENTO DEL RICAMBIO DEL
CAPITALE UMANO
In questa sezione si descriveranno i mutamenti quantitativi della popolazione
che attraversa una fase cruciale del ciclo di vita degli individui: quella generalmente dedicata alla formazione superiore e universitaria.
LA RAREFAZIONE
DELLA “CLIENTELA”
UNIVERSITARIA
Per la prima volta dall’unità d’Italia, con gli anni Novanta il numero potenziale di studenti universitari italiani, ossia di giovani compresi tra 19 e 24 anni, è in declino3. La riduzione si sta manifestando a un ritmo piuttosto intenso
che, ovviamente, non potrà essere modificato, almeno nei prossimi due decenni, da un’eventuale ripresa della natalità. In questa sede osserveremo
l’evoluzione quantitativa della popolazione dei diciannovenni per valutare le
dimensioni potenziali delle future immatricolazioni universitarie; ma è bene
ricordare che ragionamenti analoghi a quelli intorno alla rarefazione della
“clientela” universitaria potrebbero essere estesi anche agli equilibri del mercato elettorale, dal momento che si modifica il numero di nuovi elettori; alle
vendite attese dei principali beni di consumo e investimento, visto che il numero di neopatentati, ad esempio, offre un ordine di grandezza dei potenziali
acquirenti di autovetture non sostitutive; alle dimensioni della popolazione
arruolabile per il servizio militare e civile; e così via.
Nel decennio che va dal 1991 al 2001 in Italia “spariscono” 250.000 diciannovenni. In particolare, Liguria, Friuli V.G. ed Emilia Romagna, ossia le regioni che, come abbiamo visto, hanno raggiunto negli anni Ottanta e Novanta
i livelli minimi di fecondità, subiscono le variazioni negative più significative
3
Si veda Cammelli, Di Francia e Guerriero, “Le déclin des entrées à l’université italiénne d’ici
2008” Population, 2, 1997, pp. 365-380.
43
DEMOGRAFIA
e assistono, in soli quindici anni, al dimezzamento dei loro cittadini giovani.
Il “peso specifico” dell’Italia settentrionale nel suo complesso è destinato a
ridursi: l’insieme delle otto regioni del Nord, che nel 1991 annoverava il 42%
dei diciannovenni italiani, nel 2011 ne ospiterà solo il 37%.
Tab. 4 – Popolazione diciannovenne delle regioni dell'Italia
gliaia)
1991
1996
Piemonte e V.A.
61,3
51,3
Lombardia
132,2
111,1
Liguria
21,6
16,9
Veneto
68,1
56,6
Trentino-Alto A.
13,6
11,4
Friuli V. G.
16,8
13,5
Emilia Romagna
52,4
43,3
Italia settentrionale
Italia Centro-Sud
Italia
366
514
880
304
471
775
Numeri indice della Popolazione diciannovenne (1991=100)
1991
1996
Piemonte e V.A.
100
83,7
Lombardia
100
84,0
Liguria
100
78,2
Veneto
100
83,1
Trentino-Alto A.
100
83,8
Friuli V. G.
100
80,4
Emilia Romagna
100
82,6
settentrionale (valori in mi2001
38,9
85,1
12,2
43,3
9,9
9,5
30,7
2006
34,2
73,7
10,6
37,4
9,1
8,4
26,7
2011
34,1
75,4
11,1
38,5
9,5
8,6
28,4
230
398
628
200
352
552
206
345
551
2001
63,5
64,4
56,5
63,6
72,8
56,5
58,6
2006
55,8
55,7
49,1
54,9
66,9
50,0
51,0
2011
55,6
57,0
51,4
56,5
69,9
51,2
54,2
Italia settentrionale
100
83,1
62,7
54,7
56,2
Italia Centro-Sud
100
91,6
77,5
68,5
67,2
Italia
100
88,1
71,4
62,7
62,6
Fonti: Per il 1991, 13° Censimento Generale della Popolazione e delle Abitazioni, Istat, Roma, 1995; per gli anni successivi, elaborazioni dai dati delle Previsioni della popolazione residente per sesso età e regione. Base 1.1.96, Informazioni n. 34, Istat, Roma, 1997.
Non dissimili, ovviamente, si presentano gli andamenti della classe di età dei
20-24enni (tabella 5), la cui riduzione interessa dal 1991 al 2001 un milione
circa di italiani.
Il compito del demografo si esaurisce con la presentazione delle dimensioni
attese della popolazione futura; possiamo tuttavia provare a evocare alcune
delle conseguenze che discendono dalle trasformazioni previste.
I nuovi scenari demografici potrebbero condizionare, accelerandolo, quel
processo riformatore della formazione superiore italiana che viene illustrato
nella scheda dedicata alla formazione del capitale umano.
44
DEMOGRAFIA
Tab. 5 – Popolazione 20-24enne delle regioni dell'Italia settentrionale (valori in migliaia)
1991
1996
2001
2006
2011
Piemonte e V.A.
328
308
226
185
171
Lombardia
708
664
489
404
374
Liguria
115
108
71
57
55
Veneto
360
337
250
204
189
Trentino-Alto A.
75
68
52
47
46
Friuli V. G.
88
83
58
45
42
Emilia Romagna
280
266
186
145
136
Italia settentrionale
Italia Centro-Sud
Italia
1953
2581
4534
1834
2541
4375
1332
2177
3509
1087
1895
2982
1013
1751
2764
Variazione della popolazione 20-24enne (1991=100
1991
1996
Piemonte e V.A.
100
94,0
Lombardia
100
93,8
Liguria
100
93,8
Veneto
100
93,7
Trentino-Alto A.
100
90,9
Friuli V. G.
100
93,9
Emilia Romagna
100
95,1
2001
68,9
69,1
61,7
69,5
69,5
65,6
66,5
2006
56,4
57,1
49,5
56,7
62,8
50,9
51,9
2011
52,2
52,8
47,8
52,6
61,5
47,5
48,6
Italia settentrionale
Italia Centro-Sud
Italia
68,2
84,3
77,4
55,7
73,4
65,8
51,9
67,8
61,0
100
100
100
93,9
98,4
96,5
Fonti: vedi tabella 1.
ALCUNE
CONSEGUENZE PER IL
SISTEMA
UNIVERSITARIO...
Di fronte a un calo fisiologico dei “clienti potenziali” gli atenei, le facoltà e i
singoli corsi si troveranno sempre più nella condizione di dover realizzare
strategie competitive all’interno di “bacini di reclutamento” le cui dimensioni
saranno definite dalla maggiore o minore propensione alla mobilità degli studenti.
In tale prospettiva, meritano di essere sottolineate alcune tendenze plausibili:
• la moltiplicazione degli sforzi miranti a combattere il fenomeno della dispersione e a innalzare la probabilità di completare con successo i cicli di
studio, attualmente inferiore al 50%. L’allargamento dell’offerta formativa (come è avvenuto, ad esempio, attraverso l’introduzione dei diplomi
universitari) e una certa flessibilizzazione dei percorsi vanno già in questa direzione (si veda la scheda dedicata alla formazione);
• la ricerca di un equilibrio nel perseguimento di due obiettivi potenzialmente contrastanti, rappresentati dal completamento della gamma degli
insegnamenti tradizionali localmente attivati (allo scopo di evitare
l’allontanamento di studenti potenziali) e dalla creazione di nuovi corsi
specialistici, più o meno coerenti con la cultura economica locale (anche
per attrarre studenti dal resto d’Italia e dall’estero);
• una possibile ridefinizione dei criteri di ammissione all’insegnamento superiore, con un’attenuazione del dibattito sull’introduzione del numero
chiuso, almeno nelle sue forme più generalizzate;
45
DEMOGRAFIA
•
•
•
•
una maggiore attenzione rispetto al passato per le strutture di accoglienza
e di servizio per gli studenti (collegi e abitazioni, mense...), presenti solo
parzialmente nelle sedi universitarie italiane;
un impegno in direzione di un allargamento dell’utenza, nel tentativo di
affiancare alla “clientela tradizionale” dei giovani diplomati nuove tipologie di fruitori, in un contesto più propizio alla formazione universitaria
continua;
la diffusione di alcune forme, di recentissima apparizione, di “marketing
universitario”, ossia di cura dell’immagine e di promozione a largo raggio, nonché attraverso canali inediti, dell’offerta formativa;
una competizione sul personale docente (che potrebbe introdurre elementi di differenziazione retributiva) sulla falsariga di quanto avviene nel sistema delle università statunitensi.
Tali importanti trasformazioni dell’università italiana definiscono uno scenario coerente con il calo delle immatricolazioni potenziali. Peraltro, la considerazione degli ultimi due decenni di storia della scuola italiana ci ricorda come
non sia affatto scontato che un mutamento demografico ampiamente prevedibile, sufficientemente previsto e puntualmente realizzato determini l’adozione
delle misure conseguenti. Possiamo comunque affermare che la capacità di
rispondere in maniera adeguata alle trasformazioni in atto (che, lo ricordiamo,
investono con intensità diversa i nostri territori) dipenderà in modo significativo dal grado di autonomia che agli atenei e alle facoltà sarà concesso per
l’esercizio del compito istituzionale loro assegnato.
...E PER IL MERCATO
DEL LAVORO
Occorre poi interrogarsi sulle conseguenze della rarefazione dei giovani per
l’intero sistema economico dell’Italia settentrionale. Poiché il volume complessivo delle forze di lavoro è il risultato dell’interazione tra l’evoluzione
demografica e le decisioni di individui e famiglie di partecipare o meno al
mercato del lavoro, in assenza di importanti mutamenti nei livelli di attività
della popolazione italiana, i numeri esposti nelle tabelle precedenti segnalano
l’emergenza di un trade off tra due situazioni entrambe inedite: una riduzione, progressivamente sempre più intensa, nel numero assoluto di giovani altamente qualificati da inserire nel mercato del lavoro; oppure una relativa
stabilizzazione degli ingressi di giovani qualificati per effetto di un ulteriore
sensibile aumento dei livelli di scolarizzazione e di immatricolazione universitaria, a scapito tuttavia delle fasce dotate di qualificazioni più modeste.
Un’ipotesi di mantenimento delle immatricolazioni universitarie italiane al
livello del 1996 comporta una crescita della percentuale di iscritti sulla leva
dei 19enni dal 44% attuale (comprensivo delle iscrizioni ai corsi di diploma
universitario) al 54% del 2006 e al 62% del 2011, e contrae inevitabilmente
la quota di giovani non studenti. Entrambi gli scenari (riduzione della popolazione universitaria o dei lavoratori giovani con bassi livelli di qualificazione), così come le loro infinite combinazioni intermedie, provocheranno nei
mercati del lavoro dell’Italia settentrionale squilibri i cui primi sintomi sono
già oggi avvertibili: si pensi alle sempre più frequenti dichiarazioni da parte
di industriali che, soprattutto nelle aree caratterizzate da soddisfacenti tassi di
sviluppo, incontrano crescenti difficoltà a reclutare personale.
Va dunque sottolineato il ruolo fondamentale del sistema della formazione
superiore, la cui mediazione finirà per orientare l’inevitabile contrazione di
46
DEMOGRAFIA
offerta di lavoro verso alcuni specifici segmenti occupazionali. È quasi superfluo sottolineare come dal modo in cui si manifesteranno le possibili carenze
di capitale umano discenderà la possibilità, o l’impossibilità, di realizzare i
diversi progetti di sviluppo attualmente proponibili per l’area.
TENDONO AD AUMENTARE LE RIGIDITÀ
Spostiamo ora la nostra attenzione dalle classi giovanili a quelle adulte. Come è noto, nei prossimi anni il baricentro della popolazione tenderà a scivolare verso le età mature, trascinato dal dispiegarsi del ciclo di vita delle
generazioni folte del baby boom. In questo paragrafo cercheremo di esaminare alcuni effetti di tale mutamento strutturale.
GIÀ OGGI L’ETÀ
MEDIA SUPERA
I 42 ANNI
L’età media della popolazione dell’Italia settentrionale si colloca attualmente
intorno ai 42-43 anni, ed è in continuo aumento: supererà i 45 nel 2010 e
raggiungerà i 48 nel 2020. In Liguria si passerà dai 45 anni attuali ai 48 del
2010, per poi toccare quota 50 nel 2020. Gli stili di vita, le preferenze di consumo e di risparmio, la partecipazione al lavoro dell’italiano medio non saranno indifferenti alle sue trasformazioni anagrafiche.
Tab. 6 – Età media della popolazione nelle regioni dell'Italia settentrionale
1996
2000
2010
2020
Piemonte
42,9
43,9
46,1
48,5
Valle d’Aosta
41,9
42,7
44,7
47,0
Lombardia
41,1
42,2
44,6
47,1
Liguria
45,4
46,3
48,0
49,8
Veneto
40,9
42,0
44,6
47,4
Trentino-Alto A.
39,6
40,5
42,8
45,3
Friuli V. G.
43,7
44,6
46,6
48,9
Emilia Romagna
44,2
45,0
47,0
49,2
2050
52,0
50,6
50,9
52,6
51,9
49,4
52,3
52,6
Italia settentrionale
Italia
51,6
49,4
42,2
40,3
43,2
41,3
45,4
43,5
47,9
45,7
Fonte: Previsioni della popolazione residente per sesso età e regione. Base 1.1.96, Informazioni n. 34, Istat, Roma, 1997, (ipotesi centrale).
Con riferimento al possibile ruolo cerniera dell’Italia settentrionale, ponte tra
l’Europa e il Mediterraneo, va segnalato come il cittadino della nostra area
abbia attualmente un’età media doppia rispetto a quella dei cittadini del Nord
Africa. Qualsiasi ambizione di mediazione tra aree economicamente e culturalmente diverse dovrà tener conto di questa ulteriore distanza misurabile in
termini generazionali.
CRESCONO GLI
ELEMENTI DI
RIGIDITÀ:
Delle numerose conseguenze associabili al mutamento demografico in atto4
ne segnaleremo una in particolare. Se poniamo a un operatore economici la
domanda “Cosa serve a un sistema economico per essere competitivo?” abbiamo buone probabilità di sentirci rispondere “un grado elevato di flessibilità”. Ora, l’attuale evoluzione demografica pare garantire l’esito opposto: vi
4
Seppur non recentissimo, merita di essere segnalato il volume curato da Giorgio Fuà, Conseguenze economiche dell’evoluzione demografica, Bologna, Il Mulino, 1986.
47
DEMOGRAFIA
… NELLE FINANZE
PUBBLICHE
… NELL’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO
… NELLA PROPENSIONE ALLA
MOBILITÀ
sono infatti fondati motivi per temere un aumento delle rigidità interne al sistema.
Il primo e probabilmente anche il più noto fattore di rigidità riguarda le finanze pubbliche, con il prevedibile assottigliamento dei margini di manovra
per la politica di bilancio. Entrate e spese pubbliche sono fortemente condizionate dalle caratteristiche anagrafiche dei cittadini: la quantità di imposte
prelevate da un individuo, così come le dimensioni della spesa pubblica di cui
egli beneficia variano notevolmente in funzione delle fasi del ciclo di vita. È
curioso notare quanto asimmetrica sia la percezione degli effetti
dell’evoluzione demografica sul bilancio pubblico: mentre i condizionamenti
sul versante della spesa sono noti (è risaputo che l’invecchiamento della popolazione implica maggiori spese pensionistiche e sanitarie), quelli sulle entrate appaiono del tutto estranei ai grandi dibattiti. Sarebbe invece opportuno
riflettere anche sulle implicazioni dell’evoluzione demografica per un sistema
di finanza pubblica principalmente finanziato attraverso la tassazione sul lavoro. Senza addentrarci nella materia5, possiamo comunque segnalare come il
finanziamento delle politiche dello sviluppo (infrastrutture, ricerca scientifica
e tecnologica, istruzione e capitale umano) sarà sempre più vincolato da un
lato dalla dilatazione fisiologica delle spese concorrenti, dall’altro dalle difficoltà crescenti da parte dei soggetti aventi potestà impositiva (Stato, regioni,
enti locali) di prelevare risorse supplementari senza soffocare le attività produttive esistenti.
Un secondo fattore di rigidità riguarda l’organizzazione del lavoro. In presenza di un invecchiamento della popolazione attiva la gestione delle risorse
umane da parte delle imprese risulta estremamente più complessa: la pianificazione delle carriere diventa infatti problematica, mentre si registrano tensioni sul costo del lavoro, ancora fortemente ancorato (seppur meno che in
passato) al criterio dell’anzianità di servizio. La presenza di personale non
più giovane nelle imprese solleva inoltre il problema della riqualificazione
sul posto di lavoro (ulteriore motivo di dilatazione dei costi), dal momento
che le conoscenze acquisite nel passato diventano rapidamente obsolete.
Infine, “è osservazione frequente che per ristrutturare la produzione si deve
fare più conto sull’orientamento delle nuove leve di lavoro che sul riciclaggio
degli anziani; e che un sistema produttivo, nel quale sia basso il rapporto tra
le assunzioni e l’organico, si ristruttura con difficoltà”6.
Un terzo fattore di rigidità è invece legato alla propensione alla mobilità, variabile in funzione dell’età degli individui. La mobilità spaziale dei lavoratori
ha svolto nel passato un importante ruolo di compensazione rispetto agli
squilibri territoriali tra domanda e offerta di lavoro. Ora, una caratteristica
comune a tutte le popolazioni è la maggiore disponibilità allo spostamento da
parte delle classi di giovani adulti (indicativamente tra 18 e 30 anni); oltre a
una certa età, per una serie di fattori soggettivi e oggettivi –(quali la presenza
di maggiori carichi familiari, a monte e a valle, la maggiore probabilità di essere proprietario della propria abitazione, la progressiva riduzione del numero
5
Per una disamina del rapporto tra conti pubblici e andamenti demografici si veda Nicola Sartor, Finanza pubblica e sviluppo demografico: un’analisi basata sui conti generazionali, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1997.
6
Giorgio Fuà, “Introduzione” a Conseguenze economiche dell’evoluzione demografica, a cura
di G. Fuà, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 13.
48
DEMOGRAFIA
di anni lavorativi da usare come base per il calcolo degli eventuali differenziali retributivi) – tale disponibilità tende a declinare.
Si possono citare altri fattori, quali l’attenuazione dello spirito innovativo, le
maggiori difficoltà nella trasmissione delle imprese familiari o il rallentamento nella diffusione di nuove tecnologie7. Attraverso tutti questi canali il
mutamento strutturale della popolazione introduce a piccole dosi elementi di
rigidità in un sistema che al contrario reclama, per essere competitivo, una
maggiore flessibilità.
In assenza di correttivi, la relativa esiguità delle risorse pubbliche non vincolate, l’espansione dei costi del lavoro, le difficoltà emergenti nella gestione
delle risorse umane da parte delle imprese, la minor mobilità degli individui
sul territorio potrebbero quindi influire negativamente sulle motivazioni occorrenti per nuovi investimenti nell’area, sia da parte di investitori locali, che
da parte di stranieri.
LE CITTÀ DI FRONTE AL DECLINO DEMOGRAFICO
Esaminando le diverse prospettive delle popolazioni regionali abbiamo avuto
modo di constatare come il futuro demografico dell’Italia settentrionale sarà
caratterizzato da una certa uniformità. La prossimità relativa degli indicatori
di fecondità, natalità e mortalità non deve tuttavia indurre alla conclusione,
fuorviante, che gli effetti del declino demografico si spalmeranno uniformemente su tutto il territorio: dal momento che i giovani (ma, più in generale, le persone) diventeranno una risorsa scarsa non è implausibile ritenere
che i territori avranno sempre più interesse a trattenerli e ad attirarli.
I soggetti principali di questa competizione sulle risorse umane saranno, come in passato, le città. A questo proposito merita ricordare che una caratteristica del sistema dell’Italia settentrionale è la presenza di tutti i livelli della
gerarchia urbana, dai centri minori di piccolissime dimensioni sparsi nelle aree rurali sino alla grande metropoli (vedi tabella 7 e, per una trattazione
dell’argomento, la scheda sulle reti urbane).
Tab. 7 – Distribuzione % della popolazione regionale per classe di ampiezza dei comuni
abitanti
fino a
da 1000 da 10000 da 50000
oltre
totale
1000 a 10.000
a 50000 a 250000
250000
1981
Italia settentrionale
3,0
35,7
25,5
17,1
18,7
100
Italia Centro-Sud
1,1
27,4
32,2
19,1
20,1
100
Italia
1,9
31,2
29,2
18,2
19,5
100
1991
Italia settentrionale
3,0
36,8
27,3
17,2
15,7
100
Italia Centro-Sud
1,1
26,7
33,6
20,7
17,9
100
Italia
2,0
31,2
30,8
19,2
16,9
100
1998
Italia settentrionale
2,8
36,9
29,1
16,3
14,9
100
Italia Centro-Sud
1,2
26,3
34,0
20,8
17,8
100
7
In quest’ultimo caso le barriere, più che anagrafiche, sono di natura generazionale, come dimostrano le statistiche sull’uso dei personal computer o di Internet.
49
DEMOGRAFIA
Italia
1,9
31,0
31,8
Fonti: Censimenti e Annuario Statistico Italiano, 1998, Istat.
18,8
16,5
100
Negli ultimi decenni si è assistito in tutta Italia a un ridislocazione della popolazione che ha privilegiato i centri urbani di medie dimensioni, capaci evidentemente di offrire una qualità ambientale più elevata rispetto a quella delle
grandi città e al tempo stesso un’offerta di servizi meno povera di quella dei
centri più piccoli (tabella 8). Il fenomeno si è manifestato in misura più marcata nella circoscrizione settentrionale.
Tab. 8 – Variazione % della popolazione regionale per classe di ampiezza dei comuni
abitanti
fino a
da 1000 da 10000 da 50000
oltre
totale
1000 a 10.000
a 50000 a 250000
250000
Dal 1981 al 1991
Italia settentrionale
-1,1
1,4
5,4
-0,6
-17,4
-1,5
Italia Centro-Sud
7,0
-0,6
6,1
10,1
-9,6
1,9
Italia
1,4
0,5
5,8
5,6
-13,0
0,4
Dal 1991 al 1998
Italia settentrionale
-3,5
1,3
7,7
-4,5
-4,4
1,0
Italia Centro-Sud
4,0
0,0
2,9
2,4
1,3
1,8
Italia
-1,1
0,7
4,8
-0,4
-1,0
1,4
Dal 1981 al 1998
Italia settentrionale
-4,6
2,8
13,4
-5,1
-21,0
-0,5
Italia Centro-Sud
11,3
-0,6
9,2
12,8
-8,4
3,7
Italia
0,2
1,1
10,9
5,2
-13,9
1,8
Fonti: Censimenti e Annuario Statistico Italiano, 1998, Istat.
Dal 1981 al 1998 le dimensioni della popolazione residente nell’Italia settentrionale sono rimaste praticamente stabili (la variazione complessiva è stata
una leggera contrazione, pari allo 0,5%). Se tuttavia consideriamo la popolazione ripartita per ampiezza dei comuni di residenza, le variazioni si amplificano sensibilmente: le grandi città (oltre 250.000 abitanti) perdono un
residente su cinque, mentre i centri medi (da 10.000 a 50.000 abitanti) ne acquisiscono il 13,4% in più. Per inciso, va notato come proprio questi ultimi
centri siano stati nel recente passato i principali beneficiari del processo di
decentramento dell’offerta formativa.
VERSO UNA BUONA
MANUTENZIONE
DELLE CITTÀ
È difficile formulare una previsione circa la prosecuzione di una tendenza
ormai consolidata. Quel che possiamo tuttavia ipotizzare alla luce delle prospettive precedentemente ricordate (declino della popolazione giovanile, elevati tassi di anzianizzazione, scarsa propensione alla mobilità), è che le nostre
città difficilmente conosceranno nel futuro prossimo una nuova fase di espansione fisica. Si è definitivamente esaurita, almeno nella circoscrizione settentrionale, quella spinta che nei decenni passati ha favorito la costruzione di
nuovi quartieri, la creazione di cinture esterne, l’emergenza di quelle continuità urbane che tanto interesse hanno suscitato tra gli studiosi del territorio.
Il venir meno non solo della frenesia espansiva degli anni Cinquanta e Sessanta, ma anche del relativamente ordinato sviluppo dei decenni successivi, ci
proietta verso una nuova dimensione urbana, dove, abbandonata l’esigenza di
moltiplicare le superfici abitative, si rafforza la necessità di gestire e valorizzare il patrimonio esistente. L’enfasi si sposta dunque sulla buona manutenzione delle città, sugli interventi che garantiscono una migliore vivibilità, a
50
DEMOGRAFIA
partire dagli interventi correttivi degli errori
dall’espansione non sempre ordinata dei decenni scorsi.
provocati
proprio
CONCLUSIONI
Abbiamo descritto, senza pretesa di completezza, alcune possibili implicazioni dell’evoluzione demografica nelle regioni dell’Italia settentrionale. Pur
senza condividere alcune interpretazioni catastrofiste, non possiamo negare
che, in assenza di adattamenti da parte del sistema sociale ed economico,
quella porzione di futuro che trapela dall’insieme di conseguenze evocate non
pare spontaneamente propizia alla crescita economica.
LA DIFFICOLTÀ DI
INTERVENIRE A
FRONTE DI
TRASFORMAZIONI
LENTE
ALCUNI MARGINI DI
MANOVRA
LE POSSIBILITÀ
OFFERTE DA UNA
“NUOVA TERZA ETÀ”
Peraltro, le diverse conclusioni alle quali siamo pervenuti vanno lette in una
prospettiva di lungo periodo: occorre cioè evitare di cadere nella trappola di
visioni eccessivamente schiacciate sul presente, le quali tendono a rappresentare in modo davvero meccanicistico il rapporto tra popolazione, economia e società, e conducono inevitabilmente alla drammatizzazione dei
problemi. In realtà, la lentezza che caratterizza il mutamento strutturale della
popolazione modifica in modo estremamente graduale, anno dopo anno, alcune delle condizioni dalle quali dipende la “flessibilità di sistema”, ossia la
capacità dell’area di rispondere adeguatamente alle sollecitazioni della competizione permanente fra i territori. Prima che il mutamento della popolazione
abbia prodotto i suoi effetti sarà possibile adottare una serie di misure in grado di attenuarne l’indesiderabilità. Non è scontato che questo avvenga: proprio la lentezza delle trasformazioni, che rende scarsamente visibili i
mutamenti, condiziona negativamente la prontezza dell’intervento correttivo
da parte di un sistema decisionale abituato a rispondere, anche con efficacia,
sotto la pressione dell’emergenza.
Paradossalmente, alcuni tradizionali punti di debolezza del sistema italiano,
se adeguatamente modificati, potrebbero consentire la formulazione di risposte più efficaci. Alcune caratteristiche nostrane, che ancora oggi ci distinguono dal resto di Europa, potrebbero rivelarsi una sorta di assicurazione contro
gli effetti del declino demografico: la massa di studenti che non riescono a
portare a conclusione i cicli scolastici e i corsi universitari avviati, la maggioranza della popolazione femminile che rimane ancora estranea al mercato del
lavoro, la scarsa attività, non solo degli anziani, ma anche dei cinquantenni,
indicano infatti l’esistenza di abbondanti riserve di popolazione e garantiscono ampi margini di manovra per attenuare alcune delle conseguenze dirette
dell’evoluzione demografica. Questi margini potrebbero essere ulteriormente
dilatati dai miglioramenti sul versante, per il momento del tutto insoddisfacente, del sistema di formazione continua del capitale umano: non dovrebbe
essere difficile, negli anni a venire, realizzare una politica della formazione
degli adulti più efficace, sotto il duplice profilo qualitativo e della partecipazione, di quella attuale.
Occorre inoltre evitare di interpretare l’evoluzione in atto attraverso schemi
mentali eccessivamente rigidi. Con riferimento ai problemi dell’anzianizzazione, si impone una considerazione per certi versi ovvia, ma piuttosto
trascurata: gli italiani che compiranno 65 o 75 anni nel prossimo decennio saranno rappresentanti di una terza età diversa da quella che abbiamo potuto
51
DEMOGRAFIA
conoscere nei decenni passati. Gli anziani di domani hanno potuto svolgere
tutta la loro vita lavorativa in una fase di crescita economica e di diffusione
del benessere; saranno quindi detentori di mezzi economici che le precedenti
generazioni non hanno avuto a disposizione, e potranno quindi soddisfare direttamente alcune delle proprie esigenze, senza gravare sulla collettività. Se
adeguatamente incanalata, la nuova domanda di beni e servizi espressa da una
terza età mai così benestante potrebbe svelare l’esistenza di un giacimento
inesplorato di posti di lavoro (accompagnamento degli anziani sui mezzi di
trasporto pubblico, consegna della spesa a domicilio, servizi di assistenza
medica, offerta formativa, svolgimento di pratiche burocratiche…). Proprio la
consapevolezza dell’esistenza di tale giacimento sta orientando la definizione
di iniziative di politica del lavoro da parte di alcuni governi europei: è il caso,
ad esempio, del programma francese “Nouveaux services, Emplois jeunes”.
IMMIGRAZIONE E
RIEQUILIBRIO
DEMOGRAFICO: UNA
QUESTIONE MAL
POSTA
MADRI O
LAVORATRICI? UN
DILEMMA APERTO
Due considerazioni di contorno alle conclusioni. La prima riguarda
l’immigrazione proveniente dall’esterno dell’Unione Europea e il suo presunto ruolo riequilibratore rispetto all’evoluzione della popolazione italiana. Il
lettore avrà forse notato che nel corso di questa scheda non si è mai fatto riferimento all’idea, per la verità estremamente diffusa, di controbilanciare gli
effetti del declino demografico italiano con i flussi immigratori; in realtà,
l’idea non trova alcun fondamento scientifico nella letteratura
sull’argomento. Per compensare l’effetto strutturale sulla popolazione europea determinato dal venir meno del baby boom occorrerebbero infatti “da 8 a
14 volte in più di immigranti rispetto a quanti ve ne sono oggi8”. Per le regioni dell’Italia settentrionale, dove il processo di denatalità si è manifestato con
maggiore l’intensità, il riequilibrio implicherebbe moltiplicatori ancora più
elevati, difficilmente compatibili con la sostenibilità degli attuali equilibri sociali ed economici. Questa conclusione, che abbiamo volutamente espresso in
tono non equivocabile, si riferisce all’ipotesi di riequilibrio demografico; non
va quindi estesa e confusa con le riflessioni, necessariamente più articolate e
dai contorni più sfumati, sul ruolo complementare o competitivo svolto dalla
popolazione immigrata sui mercati del lavoro italiani.
Una seconda considerazione riguarda invece la modesta partecipazione delle
donne italiane alla vita economica del paese9: è vero che parte degli effetti del
declino demografico sul mercato del lavoro potrebbe essere bilanciata da un
progressivo riallineamento dei tassi di attività femminile italiani sui valori
medi europei; ma proprio la diffusione del lavoro femminile, seppur ancora
prudente al confronto con altri paesi dell’Unione, viene presentata come una
delle concause del bassissimo livello di fecondità italiana. Si hanno dunque
fondati motivi per ritenere che uno dei nodi che l’Italia non ha ancora saputo
sciogliere in modo soddisfacente, e che rimane uno dei fattori di ritardo
dell’intera Europa del Sud rispetto al resto dell’Unione, sia quello della difficile conciliazione tra i due ruoli femminili di madre di famiglia e di lavoratrice.
8
Commissione Europea, La situazione demografica dell’Unione Europea, Lussemburgo 1996.
Anche se occorre riconoscere che la distanza che separa i tassi di attività delle donne italiane
rispetto ai valori medi europei è nella realtà inferiore a quella segnalata dagli annuari statistici,
a causa della sottoregistrazione del lavoro femminile nelle attività economiche delle famiglie e
della maggior diffusione di forme di lavoro sommerso.
9
52
SISTEMI FORMATIVI
Luca Davico*
UN QUADRO GENERALE – LE PROSPETTIVE DEI SISTEMI FORMATIVI AD ELEVATA QUALIFICA – LA
QUALITÀ DEI SISTEMI FORMATIVI AD ELEVATA QUALIFICA – TRE MODELLI NEL SISTEMA
FORMATIVO ITALIANO UNIVERSITARIO E POSTUNIVERSITARIO – BIBLIOGRAFIA
UN QUADRO GENERALE
LE POLITICHE DI
FORMAZIONE DEL
CAPITALE UMANO
Le politiche di formazione del capitale umano si definiscono e si formano
all’interno di un sistema complesso di istituzioni e di relazioni; con più soggetti che giocano ruoli diversi e strategici, in posizioni, situazioni, livelli e
contesti differenziati, sovente in modo sinergico e complementare, ma talvolta in modo conflittuale.
Nel caso del sistema formativo italiano (e qui in particolare dell’Italia del
Nord1) occorre interrogarsi su quale sia il livello di omogeneità / eterogeneità
interna, quali siano i punti di forza / debolezza del sistema, la sua capacità
competitiva rispetto ai sistemi formativi concorrenti negli scenari nazionale
ed internazionale.
A proposito di quest’ultimo aspetto gioca un ruolo particolarmente strategico
il sottosistema della formazione ad alta qualifica e di eccellenza (su cui ci si
soffermerà nella seconda parte di questo contributo); ciò detto, è fondamentale muovere da alcune considerazioni relative alle dinamiche in atto ai
livelli di base ed intermedi del sistema formativo; è qui infatti che si definisce
il quadro complessivo delle risorse su cui può contare il sistema nel suo complesso, compresi i livelli di massima eccellenza formativa.
LA FORMAZIONE DI
BASE IN ITALIA
Il quadro relativo alla formazione di base, in particolare per quanto riguarda i
livelli del pre-obbligo e dell’obbligo, vede le scuole dell’Italia settentrionale
mediamente meno numerose e meno affollate di quelle del Meridione, e ciò
in modo piuttosto uniforme dalle materne alle medie inferiori: vi sono al
Nord meno scuole, meno allievi e meno insegnanti che al Sud. Gli indicatori
relativi all’affollamento delle classi o al rapporto allievi per insegnante fotografano invece una realtà nazionale non particolarmente differenziata internamente, tranne forse nel caso delle scuole elementari, in cui mediamente le
scuole del Settentrione presentano un affollamento minore rispetto a quelle
del Mezzogiorno.
*
1
Dipartimento Scienze e Tecniche dei Processi d’Insediamento, Politecnico di Torino
Da qui in poi si utilizzerà quasi sempre una distinzione tra Italia nordoccidentale e nordorientale, ritenendo che questa disaggregazione possa essere proficua per una migliore comprensione dei processi in atto. Senza scendere ad un livello di particolare dettaglio (singole
province o sistemi locali del lavoro, ad esempio), si è ritenuto di mantenere l’analisi ad un
livello intermedio, distinguendo cioè semplicemente le regioni del nord secondo l'appartenenza a due macroregioni: Italia nordoccidentale (comprendente Val d'Aosta, Piemonte,
Lombardia e Liguria) e Italia nordorientale (Veneto, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia
Giulia, fino all'Emilia Romagna). Per quanto riguarda invece il Centro Italia, questa macroregione include, invece, le regioni dalla Toscana e dalle Marche, a nord, fino al Lazio, Abruzzo e Molise, a sud. L'inclusione di queste ultime due regioni nella macroregione del
Centro Italia – abitualmente classificate, invece (ad esempio dall'Istat) tra le regioni meridionali – è dovuta agli stretti rapporti che legano il sistema formativo di queste regioni con
quelli delle altre regioni dell'Italia centrale, e del Lazio in particolare.
53
SISTEMI FORMATIVI
Tab. 1 – Il sistema scolastico pre-obbligo e obbligo per macroregioni
Scuole MaterScuole
Sezioni
Allievi Insegnanti
All. .per
ne
classe
Nord Ovest
5341
14471
351264
26519
24,27
Nord Est
4389
10862
255782
19241
23,55
Centro
4592
11961
276851
21952
23,15
Sud-Isole
11974
29812
698659
53596
23,44
ITALIA
26296
67106
1582556
121308
23,58
Scuole EleScuole
Classi
Allievi Insegnanti
All.per
mentari
Classe
Nord Ovest
4923
36034
611572
66220
16,97
Nord Est
3954
26502
419810
47852
15,84
Centro
3719
28301
484237
50545
17,11
Sud-Isole
7765
71065
1300509
121854
18,30
ITALIA
20361
161902
2816128
286471
17,39
Scuole Medie
Scuole
Classi
Allievi Insegnanti
All.per
Inferiori
Classe
Nord Ovest
1895
18593
373469
47540
20,09
Nord Est
1482
13636
266524
34306
19,55
Centro
1471
15608
312473
38440
20,02
Sud-Isole
3572
43254
875890
106502
20,25
ITALIA
8420
91091
1828356
226788
20,07
Rapp.
all./ins.
13,25
13,29
12,61
13,04
13,05
Rapp.
All./Ins.
9,24
8,77
9,58
10,67
9,83
Rapp.
All./Ins.
7,86
7,77
8,13
8,22
8,06
Fonte: Istat, A.S. 1995/96
A livello di scuola superiore si riscontra come, nella prima metà degli anni
Novanta, il Mezzogiorno abbia conosciuto dinamiche in controtendenza rispetto al resto del territorio nazionale. Mentre infatti nel Centro Nord sono
negativi i saldi sia di allievi, sia di insegnanti, sia del numero delle classi, tali
valori presentano invece un segno positivo nel Sud Italia, che ha così acquisito una supremazia quantitativa sulle regioni settentrionali (dove sono stati più
marcati gli effetti prodotti dal decremento demografico degli anni Ottanta;
poiché, invece, i tassi di scolarizzazione permangono in crescita in tutta Italia).
Il rapporto tra allievi e insegnanti è inoltre un po’ più elevato al Sud rispetto
ad altre aree d’Italia; questo indicatore, tra l’altro, evidenzia come la situazione dell’Italia nordorientale tenda ad assomigliare più a quella del Centro
che non del resto del Nord.
A proposito dei diversi indirizzi formativi superiori non emergono particolari
differenze tra Nord, Centro e Sud, fatta eccezione per una rilevanza dei Licei
leggermente più elevata della media nazionale nelle regioni del Centro Italia.
IL FENOMENO DELL'ABBANDONO: PIÙ
ALTO AL SUD
In termini di efficienza complessiva del sistema formativo superiore, si può
osservare come il grave fenomeno dell’abbandono scolastico abbia determinato in questi anni la dispersione di oltre 200mila studenti l’anno, fenomeno
che ha interessato, in termini assoluti, soprattutto gli Istituti tecnici. A livello
di incidenza sul totale degli iscritti, il fenomeno dell’abbandono scolastico
risulta di particolare gravità negli Istituti professionali, mentre si rivela di
proporzioni decisamente più modeste della media nei Licei.
A livello territoriale, il fenomeno dell’abbandono della scuola superiore risulta complessivamente meno marcato al Nord, pur se la situazione appare differenziata per indirizzi di studi: ad esempio, nell’ambito dell’indirizzo
54
SISTEMI FORMATIVI
magistrale, i più alti tassi di abbandono si registrano proprio nell’Italia settentrionale.
Tab. 2 – Iscritti, per tipo di scuola superiore e macroregione
Istituti profes- Istituti tecnici
Licei Istituti magisionali
strali
Nord
212979
457113
277674
57009
21%
45%
28%
6%
Centro
101561
213906
165739
29554
20%
42%
32%
6%
Sud-Isole
200107
488550
316015
88978
18%
45%
29%
8%
ITALIA
514647
1159569
759428
175541
20%
44%
29%
7%
Totale
1004775
100%
510760
100%
1093650
100%
2609185
100%
Fonte: Istat, A.S. 1994/95
Tab. 3 – Il sistema scolastico superiore: evoluzione negli anni Novanta per macroregioni
Scuole
Classi
Allievi Insegnanti
All.per
Rapp.
Medie SupeClasse
All./Ins.
riori (A.S.
1994/95)
Nord Ovest
1893
29719
609980
70827
20,53
8,61
Nord Est
1324
19704
438812
52648
22,27
8,33
Centro
1748
29600
621603
73340
21,00
8,48
Sud-Isole
2876
47662
1053320
116546
22,10
9,04
ITALIA
7841
126839
2723715
313361
21,47
8,69
Scuole
Classi
Allievi Insegnanti
All.per
Rapp.
Medie SupeClasse
All./Ins.
riori (A.S.
1990/91)
Nord Ovest
1951
31375
680808
75242
21,70
9,05
Nord Est
1296
22888
488719
55020
21,35
8,88
Centro
1788
31238
660869
75656
21,16
8,74
Sud-Isole
2876
47477
1025932
112815
21,61
9,09
ITALIA
7911
132978
2856328
318733
21,48
8,96
Scuole
Classi
Allievi Insegnanti
All.per
Rapp.
Differenze tra
Classe
All./Ins.
1990/91 e
1995/96
Nord Ovest
-58
-1656
-70828
-4415
-1,17
-0,44
Nord Est
28
-3184
-49907
-2372
0,92
-0,55
Centro
-40
-1638
-39266
-2316
-0,16
-0,26
Sud-Isole
0
185
27388
3731
0,49
-0,06
ITALIA
-70
-6139
-132613
-5372
-0,01
-0,27
Fonte: Istat
Tab. 4 – Il fenomeno dell’abbandono, per tipo di scuola superiore e macroregioni
n°. di abbandoni Istituti pro- Istituti tecnici
Licei Istituti magifessionali
strali
Nord
25952
34325
8009
6256
Centro
13082
23297
6947
2587
Sud-Isole
29854
40285
10170
8094
ITALIA
68888
97907
25126
16937
Incidenza abbandoni Istituti pro- Istituti tecnici
Licei Istituti magisugli iscritti
fessionali
strali
Nord
12,19%
7,51%
2,88%
10,97%
Centro
12,88%
10,89%
4,19%
8,75%
55
Tot
74542
45913
88403
208858
Tot
7,42%
8,99%
SISTEMI FORMATIVI
Sud-Isole
ITALIA
14,92%
13,39%
8,25%
8,44%
3,22%
3,31%
9,10%
9,65%
8,08%
8,00%
Fonte: Istat, A.S. 1994/95
LA FORMAZIONE
PROFESSIONALE: UN
SETTORE DI
CRESCENTE
RILEVANZA
STRATEGICA
Un settore formativo a crescente rilevanza strategica è quello della formazione professionale, sia come risposta al fenomeno della dispersione scolastica
dei giovani, sia per formare/riformare adulti, sia per contribuire a flessibilizzare il panorama complessivo dell’offerta formativa.
La cosiddetta formazione professionale è finalizzata, in genere, ad una qualificazione/riqualificazione di fasce di popolazione e di manodopera deboli o
marginali: disoccupati, giovani a bassa qualificazione, adulti espulsi dal
mondo del lavoro.
Nel solo anno 1995/96, cui si riferiscono gli ultimi dati dell’Istat, oltre
193mila persone (in gran parte giovani) hanno seguito corsi di formazione
professionale: in oltre 3 casi su 4 si tratta di corsi post obbligo, mentre nei restanti casi di corsi post diploma superiore.
La concentrazione di corsi professionali risulta particolarmente marcata nelle
regioni settentrionali, e specialmente in quelle dell’Italia nordorientale: nel
Nord, infatti, si tiene circa il 60% di tutti i corsi di formazione professionale
organizzati in Italia; nelle sole regioni del Nord Est se ne tiene un terzo.
Tab. 5 – Iscritti a Corsi di Formazione professionale per una prima qualificazione
Post obbligo
Postdiploma
Tutti i corsi
M
F
tot
%
M
F
tot
%
M
F
tot
N.Ovest 25010 17819 42829 29 4240 7117 11357 26% 29250 24936 54186
N.Est
26575 21309 47884 32 6089 9099 15188 34% 32664 30408 63072
Centro 12648 9952 22600 15 4614 7018 11632 26% 17262 16970 34232
Sud Isole 13769 21969 35738 24 2176 3849 6025 14% 15945 25818 41763
ITALIA 78002 71049 149051 100 17119 27083 44202 100% 95121 98132 193253
%
28
33
18
22
100
Fonte: Istat, A.S. 1995/96
È indubbia la crescente importanza della formazione professionale, anche per
la maggiore flessibilità che spesso possiedono i “pacchetti” formativi (rispetto ai corsi scolastici più tradizionali), quindi meglio in grado di rispondere
alle continue modificazioni del mercato del lavoro.
A fronte di tale rilevanza strategica il panorama informativo attuale è però
molto scarso, almeno nel nostro paese. Esistono pochi dati su cui poter ragionare, essenzialmente relativi al numero dei corsi, degli iscritti, all’entità dei
finanziamenti. Ben poco si sa su tutto il resto.
L’immagine della formazione professionale italiana non è generalmente molto positiva: diversi osservatori raccontano di carenze diffuse (in diversi casi
pare addirittura che corsi finanziati non si svolgano nemmeno...). Nessuna
informazione si ha sulle caratteristiche qualitative del corpo docente né, tanto
meno, sulla reale utilità dei corsi.
Per anni questa assenza di informazioni e di verifiche è stata attribuita
all’ostruzionismo lobbistico di una parte delle agenzie formative, ostili
all’idea di controlli e verifiche di gestione. Attualmente si stanno cogliendo i
primi segnali positivi, con la promozione di parecchie ricerche sul settore,
tanto a livello locale quanto sovralocale. Ai fini della presente analisi resta
56
SISTEMI FORMATIVI
comunque il fatto che non esistono ad oggi molti dati comparabili a livello
territoriale.
Una delle poche informazioni in tal senso, come detto, è quella sull’entità dei
finanziamenti europei. I dati rivelano come il maggior numero di azioni formative finanziate con il Fondo sociale europeo vengano organizzate
nell’Italia Settentrionale (specialmente nel Nord Ovest), dove pure si registra
la maggiore quota di utenti. Il numero medio di utenti è più basso nel Nordovest, mentre risulta un po’ più elevato nel Nord Est e nelle regioni centrali.
I costi della formazione professionale sono molto più consistenti al Sud, sia
in termini assoluti sia in termini relativi: nelle regioni meridionali si spendono oltre 11 miliardi di lire per ogni utente della formazione, contro i circa 5
milioni e mezzo del Nord e i 3 milioni del Centro Italia. L’utilizzo di fondi
sociali europei copre, su scala nazionale, circa tre quarti delle spese, e viene
massimizzato in particolar modo nelle regioni del Centro Italia.
Tab. 6 – La Formazione professionale finanziata con il Fondo Sociale Europeo
n.azioni
n.utenti costi totali
copertura
n. utenti costo medio
totali
totali
(miliardi) con il F.S.E. per azione
per utente
(milioni)
Nord Ovest
9182
110469
612
71%
12,03
5,54
Nord Est
8838
157536
879
61%
17,82
5,58
Centro
4521
78064
300
83%
17,27
3,84
Sud-Isole
6440
101374
1140
72%
15,74
11,25
ITALIA
28981
447443
2931
73%
15,44
6,55
Fonte: Isfol, 1997; dati relativi all’anno 1995
ALTA
QUALIFICAZIONE DEI
GIOVANI: IL
MEZZOGIORNO È IN
RITARDO
Per quanto riguarda il sistema universitario nazionale, si rileva come il maggior numero di iscritti e di laureati si abbia nelle Facoltà dell’Italia settentrionale, specialmente in quelle del Nord Ovest. Ciò vale tanto per i tradizionali
Corsi di laurea quanto per i più innovativi Diplomi universitari.
Negli Atenei dell’Italia settentrionale si ha pure la maggiore concentrazione
assoluta di professori universitari.
Gli indicatori di affollamento dei corsi – che possono fornire prime indicazioni circa l’efficienza del sistema – presentano valori più marcati per le sedi
universitarie del Nord Ovest e quelle del Mezzogiorno; nel Nord Est si registrano invece indici di affollamento nettamente più bassi, su valori decisamente più vicini a quelli tipici delle Facoltà del Centro Italia.
In termini di bilancio delle risorse umane immesse sul mercato del lavoro, risulta di particolare interesse la valutazione della quota di popolazione ad elevata qualifica, poiché questa costituisce un fondamentale bacino di risorse in
termini di sviluppo locale e regionale. A questo proposito, un confronto comparativo in chiave internazionale consente di evidenziare come, nel suo complesso, il nostro paese si trovi in una posizione intermedia rispetto alla media
dei paesi sviluppati: in Italia poco più della metà dei giovani dai 25 ai 34 anni
risulta in possesso di un titolo superiore all’obbligo; contro, ad esempio, a valori superiori al 60% della popolazione giovanile in Canada o negli Stati Uniti. La posizione di metà classifica dell’Italia è dovuta essenzialmente al
ritardo delle regioni del nostro Mezzogiorno, che presentano quote di giovani
diplomati o laureati decisamente inferiori alle medie europee nelle altre aree
57
SISTEMI FORMATIVI
del nostro paese – nel Nord, ma in modo ancora più marcato nelle regioni
dell’Italia centrale – la quota di giovani ad elevata qualifica è del tutto simile
a quella media di paesi come la Francia, la Germania o la Gran Bretagna.
Tab. 7 – Iscritti all’Università (Corsi di laurea e Diplomi universitari)
Iscritti CdL Iscritti DU Tot iscritti Laureati CdL Professori2 Rapporto I(nel 1995)
scritti/Prof.
N. Ovest
362359
16579
378938
28834
7028
53,92
N. Est
300111
12815
312926
21481
8883
35,23
Centro
474002
21580
495582
26355
11409
43,44
Sud-Isole
480668
17289
497957
28207
9876
50,42
ITALIA
1617140
68263
1685403
104877
37196
45,31
Fonte: Istat, A.A. 1995/96
Tab. 8 – Giovani dai 25 ai 34 anni in possesso di un Diploma o di una Laurea
Incidenza %
Incidenza %
Canada
69
ITALIA
51
Usa
61
Olanda
48
Svezia
59
Irlanda
46
Centro (Italia)
57
Sud e Isole (Italia)
45
Francia
56
Austria
45
Nord Est (Italia)
55
Grecia
45
Germania
55
Danimarca
45
Gran Bretagna
55
Australia
41
Nord Ovest (Italia)
54
Spagna
37
Finlandia
53
Portogallo
23
Belgio
52
Lussemburgo
22
Fonte: Oecd, 1997
LE PROSPETTIVE DEI SISTEMI FORMATIVI AD ELEVATA
QUALIFICA
I destini dei sistemi formativi si giocano oggi (e si giocheranno sempre di più
nei prossimi anni, sia a livello nazionale che internazionale) attorno ad un
paio di macro-questioni strategiche: da un lato, quella delle reali capacità di
innovazione del sistema formativo elevato, in particolare nella direzione di
una crescente flessibilizzazione di percorsi e profili formativi, sempre più differenziati ed adattabili alle diverse esigenze di diversi segmenti del mercato,
sia sul versante della domanda sia dell’offerta; dall’altro la questione della
qualità della formazione, sia in termini di qualità diffusa (es: efficienza e
produttività del sistema formativo) sia di qualità concentrata, in particolare
nei luoghi della cosiddetta eccellenza formativa.
PIÙ FLESSIBILITÀ NEI
PERCORSI
FORMATIVI:
L’AFFERMAZIONE DEI
DIPLOMI
Quella di una flessibilizzazione sempre più spinta dell’offerta formativa appare oggi una caratteristica diffusa del sistema formativo nazionale, come risposta coerente ad una crescente esigenza di professionalità sempre più
differenziate.
Come noto, al tradizionale Diploma di laurea si sono aggiunti, negli ultimi
anni, i Diplomi universitari (anche noti come “lauree brevi”), oltre ai vari titoli post lauream, rilasciati da Scuole di specializzazione, corsi di Master,
UNIVERSITARI
2
Professori: Ordinari, Straordinari, Associati, Incaricati, a contratto.
58
SISTEMI FORMATIVI
Dottorati di ricerca. La riforma del sistema universitario nazionale, nella logica del 3+2 anni, ancora troppo in divenire nella fase attuale per poter formulare qualunque valutazione, è comunque un ulteriore elemento che dovrebbe
introdurre elementi di ulteriore flessibilità nei percorsi. Benché in termini
quantitativi la rilevanza dei percorsi alternativi ai tradizionali Corsi di laurea
appaia complessivamente ancora modesta, va detto altresì come questa stia
crescendo di anno in anno. In questo senso, è emblematica la situazione dei
Diplomi universitari, che in Italia coinvolgevano a metà anni Novanta appena
un 4-5% della popolazione universitaria, e che però – anche in relazione alle
numerose attivazioni di corsi di Diploma in molte Facoltà italiane nell’ultimo
triennio – hanno acquisito un peso attorno al 10% di iscritti universitari.
Tab. 9 – Innovazione nei percorsi formativi universitari, per regioni e macroregioni
Iscritti totali
Iscritti tot D.U.
Iscritti D.U. su
Iscritti totali
Piemonte
96795
4451
4,60%
Liguria
42548
2459
5,78%
Lombardia
239595
9669
4,04%
NORD OVEST.
378938
16579
4,38%
Trentino A:A:
13922
635
4,56%
Veneto
109497
4972
4,54%
Friuli V:G.
34284
1837
5,36%
Emilia R.
155223
5371
3,46%
NORD EST
312926
12815
4,10%
CENTRO
495582
21580
4,35%
SUD - ISOLE
497957
17289
3,47%
ITALIA
1685403
68263
4,05%
Rapporto iscritti tot ai D.U. sul tot iscritti; fonte: Istat, A.A. 1995/96
Le strategie di flessibilizzazione dell’offerta formativa elevata seguono anche
un’altra strada, quella della trasformazione fisica dell’offerta formativa. Ciò
si traduce, da un lato, in un sempre più spinto decentramento delle sedi accademiche, coinvolgendo nuove province e nuove città nel sistema nazionale
dell’offerta universitaria, dall’altro nell’adozione di nuovi strumenti didattici
(come, ad esempio, la teledidattica).
LE SEDI
UNIVERSITARIE SI
DECENTRANO
Relativamente ai processi di decentramento delle sedi universitarie, si può osservare come questi interessino ormai in modo marcato tutte le maggiori regioni italiane, sia le metropoli – in cui è aumentato il numero di Atenei - sia
le città medie e piccole della provincia italiana. Una tendenza diffusiva, tra
l’altro, che già caratterizzava nei decenni scorsi le regioni dell’Italia nordorientale e centrale (dove sono molte le piccole città a forte tradizione universitaria) e che, durante gli anni Novanta, ha interessato in modo sempre più
marcato anche l’Italia nordoccidentale: soltanto in Lombardia e in Piemonte,
nella prima metà degli anni Novanta, ben 6 città sono diventate altrettante sedi universitarie autonome3. Si noti che qui sono state conteggiate soltanto le
città sede di autonome Facoltà universitarie. In realtà, se si considerasse anche il decentramento di singoli Corsi di Laurea o di Diploma universitario, il
3
In parecchi casi il decentramento universitario si genera in stretto rapporto con il tessuto produttivo e con la società locale (es: D.U. specialistico per il settore tessile a Biella, o per le
materie plastiche ad Alessandria).
.
59
SISTEMI FORMATIVI
quadro delle città coinvolte dal processo di diffusione dell'offerta universitaria sul territorio sarebbe ancora più ricco ed articolato. Per fare un solo esempio, in Piemonte sono ben 10 (oltre a Torino) le città interessate dalla
presenza di corsi universitari: Alessandria, Biella, Casale Monferrato, Cuneo,
Grugliasco, Ivrea, Mondovì, Novara, Orbassano, Vercelli. In generale, ormai,
quasi la metà delle sedi universitarie sono collocate in provincia; nel Nord
Ovest più della metà, nel Nord Est quasi i due terzi del totale delle sedi.
Tab. 10 – Il processo di decentramento delle Sedi universitarie italiane4
A.A. 1961/62 A.A. 1971/72 A.A. 1981/82 A.A. 1991/92 A.A. 1995/96
Piemonte
Liguria
Lombardia
Trentino A.A.
Veneto
Friuli V.G.
Emilia R.
Torino (3)
Torino (3)
Torino (3)
Torino (3)
Genova
Milano (4)
Pavia
Genova
Milano (7)
Pavia
Bergamo
Brescia
Genova
Milano (7)
Pavia
Bergamo
Brescia (2)
Genova (2)
Milano (7)
Pavia
Bergamo
Brescia (3)
Castellanza
Venezia (2)
Padova
Trento
Venezia (2)
Padova
Verona
Feltre
Trieste
Udine
Bologna (2)
Parma
Modena
Ferrara
Piacenza
Trento
Venezia (2)
Padova
Verona
Feltre
Trieste
Udine
Bologna (2)
Parma
Modena
Ferrara
Piacenza
Trento
Venezia (2)
Padova (2)
Verona (2)
Feltre
Trieste
Udine
Bologna (2)
Parma
Modena
Ferrara
Piacenza
Trieste
Bologna (2)
Parma
Modena
Ferrara
Torino (3)
Vercelli (2)
Novara
Alessandria
Genova (2)
Milano (7)
Pavia
Bergamo
Brescia (3)
Castellanza
Como (2)
Varese
Lecco
Trento
Venezia (2)
Padova (2)
Verona (2)
Feltre
Trieste
Udine
Bologna (2)
Parma
Modena
Ferrara
Piacenza
Fonte: Istat
Tab. 10 bis – Incidenza delle sedi decentrate, per numero di iscritti e regione
Iscritti nel Capoluogo Iscritti in sedi decentrate Incidenza % Iscritti decentrati su Iscritti totali
Piemonte
Liguria
Lombardia
NORD OVEST
Trentino A.A.
Veneto
Friuli V.G.
Emilia R.
NORD EST
CENTRO
85001
40089
177524
302614
13287
28286
21902
93638
157113
327066
7343
0
52402
59745
0
76239
10545
56214
142998
146936
4
8%
0%
23%
16%
0%
73%
32%
38%
48%
31%
Compaiono qui solo le sedi universitarie con proprie Facoltà, compresi gli Istituti universitari
(es: Isef); non compaiono, invece, i comuni in cui vi è un semplice decentramento funzionale
di alcuni corsi. Tra parentesi è inoltre indicato il numero di Atenei, quando ve ne siano più di
uno per città.
60
SISTEMI FORMATIVI
SUD-ISOLE
ITALIA
287613
1074406
193055
542734
40%
34%
Fonte: Istat, A.A. 1995/96
LA TELEDIDATTICA
PER UNA
FORMAZIONE A
DISTANZA
Un’altra frontiera dell’innovazione formativa – ancora in gran parte tutta da
esplorare – è quella della riorganizzazione della didattica secondo modalità
innovative, tese anch’esse a flessibilizzare l’offerta complessiva del sistema.
Di particolare interesse, in questo senso, appaiono le prospettive della didattica a distanza (o teledidattica), che si vale di luoghi virtuali (quali canali televisivi o reti telematiche) come “sedi” di corsi, lezioni ed esercitazioni
universitarie.
Si tratta di un progetto ancora largamente connotato da un carattere sperimentale, finora utilizzato soltanto per 7 Diplomi universitari (6 dei quali della Facoltà di Ingegneria), in Atenei consorziati in Net.T.Un.O., il “NETwork
Teledidattico per l’UNiversità Ovunque”. Tra i soci promotori del Consorzio
(parte del mondo accademico, parte del mondo produttivo) vi sono i Politecnici di Milano e di Torino e l’Università di Napoli Federico II. Nei suoi 6 anni di vita, il Consorzio Nettuno ha progressivamente coinvolto altre 25 sedi
universitarie nazionali, con una prevalente concentrazione nelle aree
dell’Italia centrale e nordorientale.
Le potenzialità innovative della didattica a distanza appaiono di estremo interesse, sia per attenuare ulteriormente i vincoli spazio-temporali, sia per ridurre i costi di produzione della didattica, in un’ottica maggiormente competitiva
per le singole sedi.
Tab. 11 – Le sedi universitarie consorziate in Nettuno, per la didattica a distanza
sedi
Tot sedi
5
Nord Ovest
Università Torino
Politecnico Torino
Università Milano
Politecnico Milano
Università Genova
7
Nord Est
Università Bologna
Università Ferrara
Università Modena
Università Padova
Università Parma
Università Trento
Università Trieste
11
Centro
Università Ancona
Università Camerino
Università Cassino
Università Firenze
Università L’Aquila
Università Pisa
Università Perugia
Università Roma Tor Vergata
Università Siena
Università Teramo
Università Viterbo
5
Sud-Isole
Università Bari
Università Lecce
Università Napoli II
Università Napoli Federico II
Università Salerno
Fonte: Consorzio Nettuno, 1998
61
SISTEMI FORMATIVI
LA QUALITÀ DEI SISTEMI FORMATIVI AD ELEVATA
QUALIFICA
QUALITÀ ED
ECCELLENZA: DUE
CONCETTI SFUGGENTI
Ben più complesse appaiono le questioni legate alla qualità dell’offerta formativa. Sebbene in ambito accademico (e non) si discuta in misura crescente
della questione, concordando sostanzialmente sul fatto che occorra introdurre
metodi e criteri in grado di individuare, classificare e certificare la qualità
dell’offerta, non sembra però esserci ancora concordanza non solo sui criteri
valutativi ma nemmeno sull’oggetto (che cosa debba cioè intendersi come
“qualità” della formazione).
Dai diversi documenti delle commissioni nazionali e locali di valutazione/autovalutazione si desume come siano compresenti opinioni ed orientamenti piuttosto diversi tra loro: da chi, semplicemente, identifica qualità ed
eccellenza formativa con il post lauream a chi, pragmaticamente, ritiene di
qualità la formazione che garantisca un alto livello di completamento dei percorsi (il che, per inciso, nel caso della formazione professionale non è sempre
così scontato); da chi valuta l’attrattività delle singole sedi universitarie anche
per i giovani di altre aree, a chi si sofferma sull’efficienza con cui ogni sede
risulta in grado di garantire mediamente il completamento dei percorsi formativi nel tempo prestabilito.
A livello europeo, nazionale e in diversi contesti locali sono stati avviati da
tempo progetti di osservazione e valutazione dei processi formativi. Ma sia i
progetti europei (es: Evalue), sia l’Osservatorio nazionale per la valutazione
del sistema universitario (istituito recentemente presso il Murst), sia gli Uffici
e i Nuclei di valutazione di diversi Atenei stanno sostanzialmente vivendo
una fase di messa a punto di criteri e strumenti. Tranne che nel caso dei
Master – che sovente si ispirano ormai ad una certificazione di qualità tipo
ISO – non vi è ancora nel panorama formativo elevato una standardizzazione
ed una comunanza di criteri valutativi che consentano tra l’altro di rendere
comparabili tra loro i “pacchetti” formativi delle diverse agenzie operanti nel
panorama nazionale.
Così è frequente ascoltare analisi – anche tra gli “addetti ai lavori” – che rimangono sostanzialmente percettive, ovvero che tendono a classificare questo o quell’Ateneo o altra agenzia formativa come “eccellente” o “di qualità”
sulla base di punti di vista altamente soggettivi (talvolta pregiudiziali), piuttosto che fondarsi su parametri ed indicatori almeno un po’ oggettivi.
NEL NORD EST E IN
CENTRO ITALIA LE
SEDI UNIVERSITARIE
PIÙ ATTRATTIVE
Provando ad uscire da questa impasse, può essere opportuno qui ricorrere ad
alcuni indicatori, che permettano una prima classificazione e quindi un confronto tra diversi sistemi formativi locali.
Una prima famiglia di indicatori ha a che vedere con le capacità attrattive delle diverse sedi universitarie, tanto sul piano interno (locale-nazionale) che esterno (internazionale). È indubbio che, ad esempio, una forte concentrazione
di studenti “fuori sede” sia indicativa di una sede universitaria in qualche misura attrattiva. Sebbene possano essere molti e diversi i fattori, locali e non,
che concorrono all’attrattività di una sede, è evidente altresì come questi abbiano anche in gran parte a che fare con aspetti relativi alla qualità della di-
62
SISTEMI FORMATIVI
dattica, alla qualità dell’organizzazione e della logistica (es: servizi ed abitazioni per studenti), nonché ad una fama prestigiosa di cui gode una sede universitaria.
In questo senso, da un confronto interno al panorama nazionale, si può osservare come la maggiore concentrazione di sedi universitarie con molti studenti
provenienti da fuori regione si abbia nell’Italia nordorientale e nell’Italia centrale; aree seguite, ma ad una certa distanza, dal Nord Ovest; mentre appare
molto bassa l’attrattività delle sedi universitarie meridionali. Per quanto riguarda le regioni del Nord Est e del Centro Italia, si rileva la presenza di alcune situazioni locali caratterizzate da una spiccata attrattività, probabilmente
legata alla competitività di prodotti formativi (es: Dams, Facoltà “rare” come
Psicologia o Sociologia) senza molti concorrenti o addirittura inediti nel panorama nazionale, almeno fino a poco tempo fa.
L’ATTRATTIVITÀ
INTERNAZIONALE
In termini di attrattività internazionale, il nostro paese presenta saldi complessivamente negativi con la maggior parte dei paesi Ocse: il numero di studenti italiani in Università straniere è cioè maggiore di quello degli stranieri
che vengono a studiare negli Atenei del nostro paese. Il sistema italiano risulta invece piuttosto attrattivo per gli studenti provenienti da stati asiatici e africani; e, in ambito europeo, soprattutto per gli studenti greci, che
costituiscono la gran parte della popolazione straniera nei corsi universitari
italiani.
Distinguendo territorialmente all’interno del nostro paese, si rileva come anche gli indicatori di attrattività internazionale presentino valori più elevati
nelle regioni del Centro Italia e del Nord Est. Nuovamente il Nord Ovest segue ad una certa distanza, ed il Sud conferma un livello molto basso di attrattività (nonostante la sua posizione geografica privilegiata nei confronti di
aree fortemente rappresentate nei flussi di studenti diretti verso il nostro paese).
Ancora una volta emergono specificità molto marcate, tanto a livello regionale (in questo caso si evidenzia i casi del Friuli Venezia Giulia o delle Marche), quanto a livello locale: le maggiori concentrazioni assolute di stranieri
si hanno in Atenei del Centro e del Nord Est, come La Sapienza di Roma o le
Università di Bologna, Trieste, Padova, Perugia.
Fig. 1 – Studenti stranieri negli Atenei italiani, per aree di provenienza
[fonte: Oecd, 1997]
Grecia
36%
resto Europa sud
1%
Europa centrale
10%
Europa nord
5%
Oceania
3%
America sud
6%
America nord
5%
Africa
13%
Asia
21%
63
SISTEMI FORMATIVI
Tab. 12 – Attrattività nazionale e internazionale dell’Università italiana, per regione
Attrattività
Attrattività internazionale
nazionale
Piemonte
19,22%
1,01%
Liguria
21,36%
0,99%
Lombardia
17,49%
1,27%
NORD OVEST
18,50%
1,17%
Trentino A.A.
35,61%
1,26%
Veneto
26,83%
2,21%
Friuli V.G.
22,15%
5,02%
Emilia R.
38,81%
1,83%
NORD EST
30,25%
2,29%
CENTRO
26,82%
3,05%
SUD-ISOLE
6,52%
0,64%
ITALIA
19,76%
1,77%
[Attrattività nazionale: rapporto % degli iscritti residenti in altre regioni sul totale iscritti in
regione. Fonte. Murst, A.A. 1994/95]
[Attrattività internazionale: rapporto % degli iscritti stranieri sul totale iscritti in regione;
Fonte: Istat, A.A. 1995/96]
GLI STUDENTI “FUORI
CORSO”: UN
PROBLEMA ITALIANO
Un indicatore di efficienza formativa – sulla cui attendibilità c’è una diffusa
concordanza – è relativo alle capacità di rispetto della tempistica prefissata
per il completamento di un iter formativo. In proposito, è nota la situazione di
ritardo del nostro paese rispetto alla maggior parte dell’Unione europea: mentre, ad esempio, in Belgio si laurea in corso il 26% degli studenti universitari,
in Olanda il 19% o in Germania il 16%, in Italia solo 1 studente su 10 riesce a
laurearsi in corso; solo in Svezia e in Danimarca si registrano valori peggiori
(attorno all’8%).
A proposito della situazione italiana è interessante rilevare che, là dove (come nei corsi di Diploma universitario) è stato prodotto in questi anni uno
sforzo in direzione sia di un maggiore controllo degli accessi sia di una didattica più guidata ed assistita, i livelli di efficienza raggiunti finora (sebbene si
possa per ora ragionare soltanto su piccoli numeri) sono generalmente migliori: oltre la metà degli studenti consegue in corso il Diploma universitario,
contro un 10% degli studenti dei Corsi di laurea.
A livello locale non sembrano invece emergere, da questo punto di vista, particolari differenze tra Nord, Centro e Sud; sembra piuttosto delinearsi un
quadro di efficienza fortemente differenziato per singole sedi universitarie,
con Atenei in cui l’incidenza del fenomeno dei “fuori corso” è minima ed altri in cui invece il fenomeno interessa metà della popolazione studentesca.
64
SISTEMI FORMATIVI
Tab. 13 – Indici di efficienza, per regioni
Indice efficienza Indice efficienza Indice efficienza Indice efficienza
(Iscritti)
(Diplomati)
(Laureati)
(Laur.+Dipl.)
Piemonte
64%
57%
14%
17%
Liguria
68%
63%
16%
20%
Lombardia
66%
50%
10%
13%
NORD OVEST
66%
53%
12%
14%
Trentino A.A.
60%
30%
5%
7%
Veneto
65%
41%
9%
11%
Friuli V.G.
66%
38%
14%
15%
Emilia R.
68%
57%
8%
11%
NORD EST
66%
49%
9%
11%
CENTRO
64%
48%
9%
12%
SUD-ISOLE
69%
69%
10%
14%
ITALIA
66%
53%
10%
13%
[Indice efficienza Iscritti = rapporto % iscritti in corso sul totale iscritti CdL più DU]
[Indice efficienza Diplomati e Laureati = rapporti % laureati e diplomati in corso sul totale di
laureati e diplomati ; fonte: Istat, A.A. 1995/96]
Tab. 13 bis – Indice di efficienza, per sedi universitarie
rapporto % iscritti fuori corso sul totale iscritti
Roma Biomedica
NA II Università
CO Università
NO Università
Roma Cattolica
VA Università
VC Università
Roma SS Assunta
LC Politecnico
NA Benincasa
CB Università
Castellanza
Roma Luiss
VC Politecnico
FG Università
BS Cattolica
CO Politecnico
AL Università
BS Università
Roma Tor Vergata
PC Cattolica
AR Università
MI Iulm
BN Università
AQ Università
PD Università
MC Università
NA Navale
BO Università
CH Università
SA Università
BG Università
MI Università
ME Università
FI Università
TS Università
PI Università
TO Università
PV Università
BA Università
0
4
5
7
13
14
15
16
19
19
20
21
21
22
22
23
23
24
24
24
24
24
25
26
26
34
34
34
35
35
35
35
35
35
36
36
37
38
39
39
Roma III
NA Università
MI Bocconi
MO Università
Urbino Università
LE Università
RC Università
CZ Università
PA Università
FE Università
CT Università
BA Politecnico
VT Università
AN Università
SS Università
TE Università
PR Università
SI Università
VR Università
UD Università
GE Università
PZ Università
CA Università
PG Università
MI Cattolica
27
28
28
28
28
29
29
29
29
30
31
31
31
31
32
32
32
32
32
32
32
33
33
33
33
Meglio della
Media nazionale
In media
nazionale
VE Università
CS Università
TN Università
TO Politecnico
Camerino Università
Cassino Università
Roma Sapienza
NA Orientale
MI Politecnico
Feltre Iulm
VE Istit. Architettura
PE Università
65
39
39
40
40
41
42
42
44
44
47
47
53
Peggio della
media nazionale
SISTEMI FORMATIVI
Fonte: Istat, A.A. 1995/96
I PRODOTTI
FORMATIVI POST
LAUREAM
A proposito dei luoghi dell’eccellenza formativa, in assenza per ora di condivisibili e condivisi criteri di classificazione e certificazione della stessa, una
prima indicazione può provenire dal livello di diffusione di prodotti formativi
cosiddetti “di terzo livello”, ossia successivi alla laurea.
Da una prima analisi relativa alla diffusione territoriale di Scuole di specializzazione e di Master5 risulta, innanzitutto, una conferma del sempre maggiore coinvolgimento delle città medie e piccole. Non paiono invece
emergere aree territoriali particolarmente “forti” dal punto di vista della presenza di corsi post lauream, con la parziale eccezione dell’Italia nordorientale, dove la concentrazione è un po’ più bassa della media nazionale.
Emergono, piuttosto, delle specificità locali in specifiche aree formative. Così, ad esempio, se il Nord Ovest e il Nord Est si segnalano per una particolare
presenza, rispettivamente, nell’area grafico-architettonica (il primo) ed economica (il secondo), in Centro Italia vi sono invece più corsi post lauream
della media nazionale nei settori politico-sociale ed economico; nel Mezzogiorno, infine, emerge un’attenzione particolare per il settore agro-ambientale
e per quello giuridico.
Tab. 14 – Scuole di specializzazione post lauream e Master, per sede territoriale
Scuole di specia- Master
Scuole di specia- Master
lizzazione
lizzazione
Milano
33
33 Pisa
8
2
Torino
9
11 Siena
5
0
Genova
6
0 Ancona
2
4
Pavia
6
2 L’Aquila
2
0
Cremona
2
1 Macerata
2
0
Cuneo
0
1 Camerino
1
0
Varese
1
0 Cassino
1
0
La Spezia
0
1 Perugia
1
0
1
0
NORD OVEST
57
49 Rimini
Teramo
1
0
Bologna
12
7 CENTRO
59
25
Reggio E.
0
11
Padova
7
1 Napoli
45
5
Parma
6
0 Bari
16
12
Venezia
0
2 Palermo
7
0
Ferrara
2
0 Messina
5
0
Modena
2
0 Cagliari
3
0
Trieste
2
1 Catania
3
0
Ravenna
0
2 Lecce
1
0
Forlì
0
1 Siracusa
1
0
Udine
1
0 Sassari
1
0
Vicenza
0
1 Potenza
0
1
0
1
NORD EST
32
26 Salerno
Matera
1
0
Roma
27
18 SUD-ISOLE
83
19
Firenze
8
1
ITALIA
231
119
5
È da evidenziare come qui siano state considerate tutte le Scuole di specializzazione tranne
quelle dell'area medica, in quanto strutturate nelle Facoltà di Medicina e Chirurgia in modo
troppo diverso rispetto ad analoghi percorsi formativi. Va poi ancora annotato come, nel caso
delle Scuole di specializzazione, queste siano tutte emanazione diretta (anche se non sempre
esclusiva) del mondo accademico, mentre nel caso dei Master l'organizzazione esclusiva da
parte di Atenei riguardi appena un sesto dei casi, essendo i corsi di Master molto più frequentemente organizzati da agenzie formative private, del mondo delle imprese, o da consorzi misti
pubblico-privato.
66
SISTEMI FORMATIVI
Fonte: Fondazione G.Agnelli, “Filo di Arianna”, CD Rom, 1997
67
Tab. 15 – Scuole di specializzazione post lauream e Master, per area formativa e macroregione
Economico- ChimicoGiuridico- Ingegnerist.- MatematicoAgroGraficoValori Asso- TOTALE
finanziaria
farmac.
legislativa informatica
Fisicoarchitetluti
Sc.Spec.+ ambientale
Naturalist.
tonica
Master
67
Nord Ovest
Nord Est
Centro
Sud-Isole
Italia
106
58
84
102
350
13
5
6
19
43
15
3
6
6
30
Politicosociale
Psicologicoumanistica
24
18
27
13
82
5
3
5
12
25
4
3
8
15
30
14
8
3
10
35
12
8
12
7
39
2
5
9
6
22
17
5
8
14
44
Nord Ovest
100%
12%
14%
23%
Nord Est
100%
9%
5%
31%
Centro
100%
7%
7%
32%
Sud-Isole
100%
19%
6%
13%
Italia
100%
12%
9%
23%
Fonte: Fondazione G.Agnelli, “Filo di Arianna”, CD Rom, 1997
5%
5%
6%
12%
7%
4%
5%
10%
15%
9%
13%
14%
4%
10%
10%
11%
14%
14%
7%
11%
2%
9%
11%
6%
6%
16%
9%
10%
14%
13%
Valori %
SISTEMI FORMATIVI
SISTEMI FORMATIVI
67
SISTEMI FORMATIVI
TRE MODELLI NEL SISTEMA FORMATIVO ITALIANO
UNIVERSITARIO E POSTUNIVERSITARIO
Nel panorama nazionale ci si trova di fronte ad una compresenza di modelli
formativi tra loro fortemente differenziati, specie per quanto riguarda i livelli
più elevati, di livello universitario e postuniversitario. In verità, una pluralità
di modelli non è caratteristica tipica della sola Italia, bensì rispecchia perfettamente la situazione riscontrabile a livello comunitario.
DAL MODELLO
GENERALISTA,
… A QUELLO
SPECIALISTA
….A QUELLO LOCALE
Tanto in Italia quanto nel resto d’Europa, infatti, sono riscontrabili almeno tre
modelli distinti. Un primo modello, tipico delle grandi Università “storiche”,
tendenzialmente generaliste, si caratterizza per un alto numero di iscritti, un
affollamento dei corsi, un’articolazione interna in numerose Facoltà. Un secondo modello è quello degli Atenei “specialistici”, in genere di dimensioni
medie, fortemente connotati da percorsi formativi professionalizzanti, quasi
sempre in rapporti relativamente stretti con il mondo produttivo. Un terzo
modello, particolarmente diffuso in alcune aree italiane, è quello della sede
universitaria di provincia, in genere di piccole dimensioni, fortemente consolidata all’interno della propria società locale di appartenenza, a volte con
un’importante tradizione storica alle spalle (ma più spesso nata di recente, a
seguito dei processi di decentramento delle sedi accademiche degli ultimi decenni).
Gli elementi di omogeneità e di differenziazione interni al panorama nazionale della formazione elevata sembrano quindi coglibili in modo adeguato soltanto facendo riferimento a questa grande articolazione tipologica; i maggiori
elementi di omogeneità si rintracciano all’interno di questi modelli, piuttosto
che a livello territoriale: così, ad esempio, molte piccole Università italiane
presentano caratteri di forte similarità, e ciò in modo relativamente indipendente dalla loro collocazione geografica al Nord, al Centro piuttosto che al
Sud.
UN'ELEVATA
SPECIFICITÀ DEI
SINGOLI ATENEI
Osservando il panorama della formazione universitaria dal punto di vista della collocazione territoriale degli Atenei, comunque, si riscontrano numerosi
elementi che concorrono a definire un quadro ad elevatissima eterogeneità
interna.
Aspetti inerenti alla qualità della formazione, indicatori relativi alla propensione europea ed internazionale delle sedi, ma anche alla presenza di luoghi
di eccellenza formativa, quasi mai tendono delineano una gerarchia tra diverse macroregioni, definendo piuttosto scenari “a macchia di leopardo”.
Un’indiretta conferma di questo tipo di panorama nazionale è fornita, tra
l’altro, dagli stessi dati ufficiali di fonte ministeriale. Questi vengono quasi
sempre divulgati distinguendo per tipi di area formativa ed indirizzi di studi
oppure per singole sedi accademiche, quasi mai per regioni o macroregioni;
ad evidenziare, ancora una volta, come una lettura del sistema universitario
nazionale per singole regioni (o macroregioni) non venga ritenuta, allo stato
attuale, di particolare significato esplicativo.
Lo stesso rafforzamento dell’autonomia dei singoli Atenei sembra, tra l’altro,
favorire un’ulteriore accentuazione di caratteri e specificità locali; al contempo si evidenziano un aumento dei processi competitivi tra singole sedi universitarie, o addirittura tra singole Facoltà concorrenti.
68
SISTEMI FORMATIVI
Questa tendenza si rivela in tutta la sua evidenza, ad esempio, nei casi sempre
più frequenti di percorsi di studi ad elevata specificità, volutamente pensati in
una logica di competizione con altre sedi universitarie, in un tentativo di conquistare ampie fette del mercato formativo nazionale per particolari figure
professionali, specie quelle più rare ed innovative.
NON ESISTE UN
MODELLO
FORMATIVO COMUNE
NEL NORD ITALIA
UNA TERZA ITALIA
DELLA FORMAZIONE
Questo quadro crescentemente competitivo tra singole sedi accademiche non
deve tuttavia far pensare ad una sorta di selvaggio mercato della formazione
elevata, in cui ogni Ateneo necessariamente si trovi da solo a combattere contro tutti gli altri. Sebbene con una frequenza non particolarmente elevata tuttavia si creano continuamente sinergie ed accordi tra diverse sedi
universitarie.
Ancora una volta, tuttavia, queste non sembrano in alcun modo assumere i
connotati di una sorta di “alleanza” territoriale. Per quanto riguarda in particolare l’Italia settentrionale, non si ravvisano, allo stato, particolari segnali di
una volontà di “fare sistema”, specialmente a livello macro regionale (al massimo si può riscontrare qualche debole tentativo di definire strategie reticolari
privilegiate a livello di singola regione).
Ragionando quindi in termini di similarità/dissimilarità tra i modelli formativi
delle diverse macroregioni italiane, ma anche di strategie e politiche comuni,
è indubbio come il Settentrione appaia fondamentalmente privo ad oggi di
qualunque carattere di omogeneità e, ancor meno, di un grado coesione interna tale da farlo considerare come un sistema (almeno relativamente) integrato.
Nel panorama formativo dell’Italia settentrionale si registra una evidentissima
cesura interna tra i modelli formativi tipici del Nord Ovest e quelli del Nord
Est; con questi ultimi dai tratti decisamente più simili (per molti aspetti) ai
modelli che caratterizzano i sistemi formativi delle regioni del Centro Italia.
Quella che, insomma, pare delinearsi è una sorta di “Terza Italia” della formazione (specie nei segmenti ad elevata qualifica), fondata su un diffuso, radicato e forte tessuto di piccole e medie città universitarie, che differenzia in
modo piuttosto evidente il panorama formativo di quest’area del paese sia dal
Nord Ovest sia dal Mezzogiorno.
Di fronte ad eventuali proposte e ipotesi di politiche tese a creare un più coeso ed omogeneo “sistema” settentrionale della formazione, non si può quindi
non rilevare l’attuale enorme distanza tra regioni del Nord Ovest e regioni del
Nord Est.
In particolare il modello del Nord Est (come quello del Centro Italia) appare
caratterizzato da una situazione qualitativa generalmente migliore rispetto a
quella riscontrabile nelle regioni nordoccidentali. Il Nord Ovest appare più in
difficoltà del Nord Est quanto a livelli medi di qualificazione e di scolarizzazione dei propri giovani, ma anche a presenza di corsi professionali e di formazione permanente.
Lo stesso sistema universitario delle regioni nordoccidentali si connota come
mediamente meno attrattivo rispetto a quello dell’Italia nordorientale, specie
a causa di una minore qualità della “cornice” strutturale dei corsi: dai problemi di accoglienza e sistemazione per studenti e docenti ai livelli di affollamento dei corsi.
Probabilmente una delle differenze più rilevanti tra i sistemi formativi del
Nord Est e del Nord Ovest si può riscontrare nei caratteri di una qualità maggiormente diffusa territorialmente (in singole sedi, città, regioni) nelle regioni
69
SISTEMI FORMATIVI
nordorientali. Nel Nord Ovest si ha piuttosto la compresenza di singoli luoghi
formativi ad elevata qualità e competitività (sia nazionale sia internazionale),
i quali però convivono con realtà tutt’altro che particolarmente qualificate; e,
soprattutto, non riescono (o non hanno intenzione) di produrre iniziative di
sistema, per creare sinergie di sviluppo complessivo del sistema formativo
locale. Specialmente nelle regioni nordoccidentali, dunque, appaiono particolarmente urgenti interventi tesi ad accentuare le tendenze innovative intraprese in anni recenti, ad esempio potenziando un (effettivo) decentramento delle
sedi accademiche, migliorando altresì l’attrattività delle proprie sedi formative (potenziamento dei rapporti internazionali, miglioramento delle strutture
di accoglienza.), ma anche favorendo processi sinergici in grado di mettere in
rete quanto già esistente nel panorama formativo elevato locale.
Tab. 16 – I sistemi locali della formazione in Italia: un quadro riassuntivo
QUADRO
Nord Ovest
Nord Est
Centro
Sud-Isole
GENERALE
Quota di giovani posizione medio- posizione elevata posizione d’élite posizione medioalta in Europa
in Europa
in Europa
bassa in Europa
con Diploma o
Laurea
Iscritti alle Scuo- in forte contrale superiori
zione
in contrazione
in contrazione
in espansione
Corsi di Formazione professionale
media diffusione
di corsi postobbligo e postdiploma
forte diffusione
di corsi postobbligo e postdiploma
media diffusione
di corsi postdiploma
media diffusione
di corsi postobbligo
Iscritti
all’Università
elevato affollamento dei corsi
basso affollamento dei corsi
medio-basso affollamento corsi
elevato affollamento dei corsi
Percorsi postdi- per ora poco riploma innovativi levanti
(D.U.,...)
per ora poco rilevanti
per ora poco rilevanti
per ora poco rilevanti
decentramento
forte e consolidato
delle sedi
decentramento
medio e consolidato delle sedi
decentramento
medio e consolidato delle sedi
media
Attrattività nazionale delle sedi
universitarie
elevata
elevata
quasi nulla
Attrattività inter- medio-bassa
nazionale delle
sedi universitarie
medio-alta
elevata
bassa
medio-bassa in
Europa
medio-bassa in
Europa
media in Europa
NODI CRITICI
Flessibilizzazione territoriale
dell’offerta universitaria
Efficienza nel
completamento
del percorso di
studi universitari
decentramento
forte e recente
delle sedi
media in Europa
70
SISTEMI FORMATIVI
BIBLIOGRAFIA
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Centro Studi Orientamento, Legnano (Mi).
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Gentili C. et al. (1997), Minerva e Vulcano 2. I diplomi universitari e le imprese,
Crui - Progetto Campus, Roma.
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offerta formativa, Milano, Angeli.
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Milano, Angeli.
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Istat (1996), Statistiche della scuole secondarie superiori, Roma, Istat.
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Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica (1998), Osservatorio per la valutazione del sistema universitario, sito www.murst.it/osservatorio.
Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica (1998), Guida
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universitario italiano. La popolazione studentesca a.a. 1997/1998, Roma, Sistema Statistico Nazionale.
Oecd Ocde (1997), Uno sguardo sull’educazione. Gli indicatori internazionali
dell’istruzione, Roma, Armando.
Unione Europea (1996), Le cifre chiave dell’istruzione nell’Unione Europea, UE,
Luxembourg.
Commissione Europea (1997), Nouvelles universitaires européennes, Bruxelles.
UR - Università Ricerca, bimestrale del Ministero dell’Università e della Ricerca
Scientifica e Tecnologica, Roma, annate dal 1990.
71
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
GianPaolo Vitali*
SOMMARIO – IL PERCORSO – L’INPUT TECNOLOGICO – L’OUTPUT TECNOLOGICO – LE PICCOLE
IMPRESE E LA DOMANDA-OFFERTA DI TECNOLOGIA NEL NORD ITALIA – IL TRASFERIMENTO
TECNOLOGICO DAL NORD ITALIA – CONCLUSIONI – BIBLIOGRAFIA
SOMMARIO
Il livello tecnologico delle regioni settentrionali è nettamente più elevato di quello del resto dell’Italia, sia considerando le statistiche di input tecnologico (ammontare della spesa in R&S e addetti ad essa dedicati), che quelle di output tecnologico (brevetti depositati e numero di imprese che hanno introdotto
innovazioni).
Rispetto alle regioni industrializzate del centro Europa tale giudizio positivo si
deve attenuare, in quanto si evidenzia un livello tecnologico nel complesso inferiore alle altre regioni europee di confronto (Rhone Alpes, Baden-Wurttemberg,
Bayern, ecc.), pur essendoci alcune limitate aree di eccellenza.
Tali differenze pongono l’Italia settentrionale in posizione mediana rispetto alle
altre regioni di confronto, quelle europee nell’estremo superiore e quelle nazionali nell’estremo inferiore, e rappresentano gli effetti di modelli di crescita diversi.
Infatti, le imprese del Nord Italia primeggiano a livello internazionale in settori
definibili più o meno “tradizionali”, quali il tessile-abbigliamento, calzature, mobilio, macchinari. In tali settori le imprese settentrionali vincono la concorrenza
internazionale utilizzando fattori competitivi di tipo non-price (al contrario di
quanto accade nel Centro Sud d’Italia) – ma non di tipo tecnologico (al contrario
di quanto accade nelle regioni avanzate europee) – derivanti principalmente da
innovazioni organizzative e di marketing.
In questo modo, il posizionamento competitivo delle imprese settentrionali permette loro di evitare sia la concorrenza di prezzo proveniente dal Centro Sud italiano e dai paesi in corso di industrializzazione, sia la concorrenza tecnologica
proveniente dalle imprese high tech europee (che non sono così presenti, per
l’appunto, nei settori “tradizionali”).
Queste affermazioni tutto sommato positive non possono essere però estese alle
possibilità future di mantenere l’attuale vantaggio competitivo nei confronti dei
paesi in corso di industrializzazione e delle regioni del Centro Sud italiano. Per
eliminare tali ombre sul futuro del sistema settentrionale sarebbe allora necessario modificare profondamente il modello di crescita attuale, incrementando la
produzione e la diffusione sul territorio di innovazioni tecnologiche di tipo radicale. Il nuovo modello di crescita presuppone il parziale abbandono di quei settori “tradizionali” in cui sono possibili innovazioni solamente incrementali e non
radicali.
*
Ceris-Cnr, Torino
73
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
IL PERCORSO
I SISTEMI INNOVATIVI
REGIONALI: UN
PANORAMA
DIFFERENZIATO
Tra le regioni del Nord Italia e quelle del resto del paese si registrano elevate
differenze non solamente per quanto riguarda le caratteristiche della struttura
produttiva o quelle del reddito prodotto, ma anche in termini di potenziale
tecnologico.
I sistemi innovativi regionali mostrano infatti notevole diversità tra loro, in
termini di quantità e di qualità degli input e degli output tecnologici; diversità
che rappresentano modelli di crescita piuttosto variegati: le regioni che investono in R&S e che traggono frutti da tali investimenti hanno probabilmente
un sistema industriale qualitativamente superiore a quello delle regioni che
possiedono un basso potenziale tecnologico (Bramanti e Maggioni, 1997).
Poiché è soprattutto grazie agli investimenti in innovazione che si gioca gran
parte della possibilità di contrastare la concorrenza estera proveniente dai paesi industrializzati, risulta importante verificare il potenziale tecnologico delle regioni dell’Italia settentrionale, confrontandolo con quello delle regioni
del Mezzogiorno e dei paesi europei. L’analisi di tali differenze, che a seconda della disponibilità di dati ufficiali è effettuata in termini quantitativi o solo
qualitativi, verrà condotta con riguardo ai fattori di input tecnologici e a quelli di output tecnologici.
Successivamente, si approfondiranno i principali fattori di successo tecnologico delle imprese settentrionali, il loro fabbisogno tecnologico, nonché
l’offerta di servizi tecnologici disponibili. Il focus sui distretti, presente in
questo capitolo, consente di esaminare le problematiche tecnologiche delle
piccole e medie imprese, certi che la dimensione minore sia quella che più di
ogni altra incontra difficoltà nel seguire i modelli vincenti di crescita tecnologica in auge in alcune regioni industrializzate europee1.
Infine, poiché l’Italia settentrionale rappresenta una cerniera commerciale tra
Nord e Sud, e tra Est ed Ovest, si cercherà di esaminare il processo di trasferimento di tecnologia tra le imprese del Nord Italia e quelle del Mezzogiorno
e del Mediterraneo, nonché nei confronti dei paesi dell’Est europeo.
Un capitolo conclusivo sintetizzerà i più importanti risultati della ricerca.
1
Con riferimento agli aspetti dimensionali, merita ricordare l’elevata concentrazione dimensionale delle spese in R&S: il 9% delle imprese italiane effettua il 90% delle spese in R&S totali.
74
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
L’INPUT TECNOLOGICO
L’input tecnologico dell’Italia settentrionale è stato misurato tramite le statistiche relative alle spese in R&S effettuate dalle imprese e dalla Pubblica
Amministrazione2, nonché con riferimento al numero di addetti dedicati
all’attività innovativa.
IL NORD-ITALIA E IL
RESTO DEL PAESE
Il ruolo della spesa in R&S effettuata dalla pubblica amministrazione è difficilmente valutabile a livello regionale, in quanto i dati Istat (1998) soffrono
della distorsione introdotta dalla regione Lazio, sede contabile ed amministrativa dei principali Enti di ricerca nazionali (Cnr, Enea, ecc.). Il Lazio, infatti,
nel 1994 assorbe da solo ben il 28% delle spesa in R&S pubblica, ammontare
che in parte sarebbe da redistribuire alle singole regioni in funzione della presenza in esse degli istituti di ricerca appartenenti agli enti la cui “holding”
amministrativa è localizzata a Roma. Per questo motivo non possiamo considerare pienamente attendibile il dato che mostra una R&S pubblica molto
scarsa nelle regioni del Nord Italia, che al 1994 assorbono “solo” il 38% del
totale nazionale (vedi tab. 1). Nell’area settentrionale, dopo la Lombardia,
che assorbe il 12% della R&S pubblica italiana, si individua l’EmiliaRomagna con l’8%, il Veneto con il 5% ed il Piemonte con il 4%. Al contrario, il resto del paese fruisce del 62% della R&S pubblica, dato che al netto
del contributo laziale si riduce però al 34%.
Analizzando la distribuzione delle spese all’interno delle diverse componenti
della R&S pubblica, si qualifica meglio la differenza esistente tra Nord, Lazio
e resto del paese, e si trova conferma della distorsione statistica causata dal
Lazio. I differenziali nella distribuzione della spesa non sono attribuibili al
ruolo delle università, che pesano in modo simile tra Nord e Sud (42-45%),
ma proprio agli Enti di ricerca, la cui spesa è concentrata nel Lazio per circa
la metà del totale nazionale (contro il 29% del Nord ed il 20% del resto del
paese). Al contrario, il peso degli istituti di ricerca (statali e non) che sono
decentrati sul territorio riflette meglio l’importanza tecnologica dei singoli
aggregati regionali: il Lazio assorbe “solo” il 29% della spesa totale, mentre
l’Italia settentrionale ben il 52%.
Le stesse affermazioni sono valide nel caso in cui la R&S pubblica sia valutata in numero di addetti e non in termini di spesa (vedi tab. 2). In termini di
addetti dedicati alla R&S, l’Italia del Nord mostra al 1994 un peso leggermente superiore a quanto visto per la spesa (39%), peso che risulta pari a
quello del resto dell’Italia al netto del contributo laziale. Quest’ultimo è sem-
2
Oltre agli aspetti quantitativi, tra le spese in R&S effettuate dalle imprese e quelle effettuate
dall’operatore pubblico vi è soprattutto una elevata differenza qualitativa: le imprese investono
soprattutto in ricerca applicata (che assorbe il 42% della R&S totale) e di sviluppo (il 56% della R&S totale), mentre la ricerca di base ha un ruolo residuale (2%); la pubblica amministrazione mostra maggiore interesse per la ricerca di base (il 43% del totale) e applicata (il 44%
del totale), rispetto alla ricerca di sviluppo (13%). Le definizioni di tali tipologie di ricerca sono le seguenti (Istat, 1998):
•
ricerca di base: lavoro sperimentale o teorico finalizzato ad acquisire nuove conoscenze
sui fondamenti dei fenomeni e dei fatti osservabili, ma non finalizzato ad una specifica
applicazione o utilizzazione;
•
ricerca applicata: lavoro finalizzato ad una specifica applicazione o utilizzazione;
•
sviluppo: lavoro finalizzato a completare, sviluppare o migliorare materiali, prodotti e
processi.
75
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
pre molto elevato (24%) ed attribuibile per la metà al ruolo degli enti di ricerca, il cui personale è concentrato per il 49% a Roma.
NEL NORD PREVALE
LA RICERCA PRIVATA
Per quanto riguarda la componente della spesa in R&S proveniente dalle imprese, il ruolo dell’Italia del Nord rispecchia perfettamente il suo elevato potenziale industriale. Nella tabella 3 si nota come i tre quarti degli investimenti
delle imprese in R&S avvengano nel Nord Italia, quota rilevante non solo per
le imprese private, che destinano al Nord il 79% delle spese, ma anche per
quanto riguarda le imprese pubbliche, che destinano al Nord il 71% delle loro
spese.
In generale, il livello delle spese private è comunque maggiore di quello delle
imprese pubbliche. A fronte di una media nazionale che vede provenire il
65% della spesa dalle imprese private e solo il 35% dalle imprese pubbliche,
al Nord il peso del privato è leggermente superiore (68%) mentre nel resto
del Paese il peso del pubblico è sensibilmente maggiore della media (44%).
Nei singoli ambiti regionali, si registrano solo due regioni del Nord in cui la
spesa delle imprese pubbliche è più elevata di quella delle imprese private,
Liguria e Valle d’Aosta, probabile frutto dell’intervento pubblico nella cantieristica/impiantistica e nella siderurgia. Tale rapporto a favore dell’impresa
pubblica è invece più diffuso nel Sud d’Italia, specialmente in Sardegna, Sicilia e Calabria.
Anche in questo caso il peso del Lazio è sovrastimato a causa della localizzazione a Roma di numerose holding di imprese pubbliche. Una conferma di
tale situazione si ha nell’esame dei flussi interregionali delle spese di R&S:
solo il 58% delle spese in R&S nel Lazio rimangono nell’ambito regionale,
mentre una parte considerevole sono invece destinate ad imprese localizzate
in altre regioni (42%, vedi tab. 17).
Se l’importanza dell’attività in R&S delle imprese private e pubbliche viene
registrata in base al numero di addetti impiegati nella funzione R&S si ottengono, più o meno, gli stessi risultati precedenti (vedi tab. 4). Nel complesso il
Nord Italia assorbe il 76% degli addetti in R&S, percentuale che sale all’80%
nel caso delle imprese private e scende al 67% nel caso di quelle pubbliche.
Tale valore deve essere interpretato alla luce del notevole peso esercitato tout
court dall’impresa privata, che rappresenta i tre quarti degli addetti in R&S
dell’Italia settentrionale e solo il 62% nel resto del paese.
LA QUALITÀ DELLA
SPESA TECNOLOGICA
Una diversa fonte statistica, quella relativa all’indagine Istat-Cnr, consente di
evidenziare anche la diversa qualità della spesa tecnologica (tab. 5). Infatti,
distinguendo tra spesa delle imprese effettuata per R&S/progettazione/sperimentazione” e quella effettuata per acquisto di macchinari innovativi/realizzazione di impianti innovativi si possono individuare due diversi modelli di
crescita tecnologica portati avanti dalle regioni italiane. Mentre il peso del
Nord Italia all’interno delle spese finalizzate alla R&S/progettazione/sperimentazione è molto elevato, raggiungendo quasi l’80% del totale nazionale,
quello relativo all’acquisto/realizzazione di impianti innovativi è molto meno
distante dal resto del paese (62% del Nord contro il 28% del Centro Sud).
La differenza registrata potrebbe essere l’effetto di due diversi modelli di crescita tecnologica perseguiti dalle imprese italiane: mentre al Nord si privilegerebbe la crescita tecnologica per fonti interne, nel resto del paese si favorirebbe quella tramite l’acquisto di innovazione incorporata nei macchinari.
76
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
Come si vedrà successivamente, ciò potrebbe influenzare anche le tipologie
di output tecnologico ottenuto: laddove vi è crescita interna si privilegerebbero le innovazioni di prodotto, mentre con l’acquisizione di macchinari innovativi si favorirebbe l’ottenimento di innovazioni di processo.
IL RUOLO DELLE
UNIVERSITÀ
IL NORD-ITALIA E
L’EUROPA
UNO SCARSO PESO
DELLA R&S SULLA
RICCHEZZA
PRODOTTA
Un’ulteriore indicazione dell’input tecnologico presente nell’Italia settentrionale può essere desunta dal ruolo delle università, in termini di importanza della spesa scientifica da esse prodotta e delle vendite di beni e servizi da
esse effettuate (tab. 6).
Per quanto riguarda la spesa scientifica effettuata dalle università, a livello di
macroaree non si riscontra alcuna differenza tra il comportamento in atto nelle università del Nord e quello delle università del Centro Sud: ovunque per
la ricerca scientifica si spende solo il 2,6% del totale delle uscite universitarie. Il dato a livello regionale evidenzia tuttavia una notevole variabilità, passando dal 4,6% di Piemonte e Valle d’Aosta all’1,7% di Lombardia e Veneto.
Si registrano forti differenze per quanto riguarda la produzione di economie
esterne tecnologiche a favore delle imprese locali tramite la vendita di beni e
servizi prodotti nelle università. Mentre al Nord tale vendita rappresenta il
3,9% del totale delle entrate, nel Centro Sud tale fenomeno ha un’importanza
fortemente ridotta (solo 1,4%), indicando carenze nella domanda di innovazione (da parte delle imprese) e/o dell’offerta di innovazione (da parte delle
università). Anche in questo caso il dato a livello regionale è piuttosto differenziato e vede prevalere la Lombardia (6,3%), grazie presumibilmente al
forte intreccio tra il mercato ed un fitto insieme di università private.
Come visto in precedenza, le spese in R&S effettuate dalle regioni settentrionali sono sensibilmente più elevate della media italiana. Per qualificare meglio tale importanza relativa si può estendere tale confronto tecnologico con
le regioni industrializzate europee, aree in cui sono localizzate le imprese direttamente concorrenti di quelle settentrionali. Quest’ultimo aspetto fornisce
a tale confronto una forte valenza strategica, in quanto evidenzierebbe parte
delle strategie tecnologiche di medio-lungo periodo intraprese dalle imprese
ed il livello delle economie esterne tecnologiche presenti sul territorio.
Il primo elemento si manifesta nell’importanza delle spese in R&S effettuate
dalle imprese e nel numero di addetti presenti nei loro laboratori di ricerca; il
secondo elemento ha invece come riferimento le spese della R&S pubblica, e
gli addetti ad essa dedicati.
L’indagine condotta utilizza i dati statistici dell’Eurostat relativi al 1994, e
consente di confrontare sia le singole regioni settentrionali con alcune regioni
europee (quali Rhone-Alpes e Baden Wurttemberg), sia l’intero Nord Italia
nel suo complesso con alcuni stati nazionali.
Un primo esame può essere condotto con riferimento al livello delle spese in
R&S. Poiché il dato assoluto non è facilmente confrontabile a causa della diversa dimensione delle regioni/nazioni, si è utilizzato il dato normalizzato
con il Pil (vedi tab. 7). Tale indicatore di input tecnologico mostrerebbe il
Nord Italia che primeggia tra le regioni italiane e tra gli stati mediterranei
(Grecia e Spagna), ma che è fortemente distaccato dalle posizioni leader delle
regioni e degli stati del centro Europa (Baden Wurttemberg, Rhone Alpes,
Francia, Germania, Finlandia, Svezia, ecc.). I dati relativi alla spesa per la
R&S indicano infatti come l’Italia settentrionale sia sicuramente arretrata rispetto ai suoi diretti concorrenti: a fronte di una spesa in R&S che nel 1994
77
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
rappresenta l’1.2% della ricchezza prodotta per l’Italia settentrionale, in Svezia tale rapporto ammonta al 3.2%, nel Baden-Wurttemberger al 2.9%, in
Francia al 2.4%, in Germania e Finlandia al 2.3%, nelle Rhone Alpes al
2.2%.
LA R&S PRIVATA:
POSIZIONI DI
ECCELLENZA
EUROPEA PER
LOMBARDIA E
PIEMONTE
Un secondo tipo di approfondimento può essere condotto confrontando le
spese in R&S effettuate dalle imprese con quelle originate dall’operatore
pubblico3. I dati della tavola 8 mostrano come all’interno del Nord Italia il
peso della R&S condotta dalle imprese sia tra i più elevati in Europa, con
Piemonte e Lombardia ai primi posti di tale classifica, seguiti da Baden Wurttemberg, Rhone Alpes, Svezia e dalla stessa aggregazione Nord Italia. Il
confronto tra le diverse quote mostra che in Piemonte ben l’85% della R&S
regionale proviene dall’impresa privata, nel Baden Wurttemberg tale percentuale è dell’81%, in Lombardia del 75%, nelle Rhone Alpes del 73%, in Svezia del 72%, nel Nord Italia del 70%.
I primi posti di tale classifica possono essere confrontati con gli ultimi, per
evidenziare il notevole divario esistente: ai paesi mediterranei Spagna (47%)
e Grecia (26%) si affiancano nelle ultime posizioni anche le rimanenti regioni
italiane, le aggregazioni Centro (33%) e Sud d’Italia (33%) nonché la media
nazionale (52%). Inoltre, e questo è il dato più sorprendente, anche le rimanenti regioni del Nord Italia sono tra le ultime posizioni: il basso peso della
R&S effettuata dalle imprese in Emilia-Romagna (46%) e nel Nord Est
(48%) conferma la forte disomogeneità esistente all’interno del Nord Italia,
fortemente polarizzato tra gli estremi positivi e negativi di tale classifica. Le
stesse affermazioni sono valide se si considera il livello della spesa delle imprese private rispetto al Pil (tab. 9): il Piemonte (1.6% di rapporto tra R&S
delle imprese private e Pil) è ancora tra le primissime posizioni europee, preceduto solamente Baden Wurttemberg (2.4%) e Svezia (2.3%).
Dal confronto tra l’importanza della R&S tout court ed il peso della R&S
prodotta dalle imprese rispetto al totale (o rispetto al Pil regionale) non emerge una stretta correlazione tra le due distribuzioni. Tuttavia, in tale confronto
si nota facilmente come nella parte più bassa della classifica vi siano soprattutto Spagna, Grecia e le regioni italiane (ad eccezione del Nord Italia), indicando come in questo gruppo di aree i modesti input di R&S traggano origine
da problemi di mancato sviluppo industriale e tecnologico, essendo diffusi
tanto nella sfera pubblica quanto in quella privata. Al contrario, nelle aree in
cui il rapporto tra R&S totale e Pil è basso ma si è in presenza di un elevato
peso della R&S proveniente dalle imprese, i modesti input tecnologici sono
soprattutto il frutto di limiti della spesa pubblica, essendo più che manifesta
la volontà delle imprese di investire in ricerca.
Le regioni che mostrano alti input tecnologici e alti pesi di spesa proveniente
dalle imprese sono forse quelle che rappresentano meglio il modello di sistema innovativo a cui dovrebbero tendere le regioni italiane: Svezia, Baden
Wurttemberg, Germania, Rhone Alpes e West Midlands.
3
Poiché le statistiche Eurostat distinguono le spese in R&S a seconda che esse siano state effettuate dalle imprese private, dalle imprese pubbliche/centri di ricerca e dalle università, si è
provveduto a confrontare il peso delle spese sostenute dalle imprese private con quello che si
riferisce all’ambito pubblico nel suo complesso (imprese pubbliche, centri di ricerca e università).
78
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
Un terzo tipo di esame riguarda gli addetti dedicati alla R&S, divisi anche qui
tra addetti delle imprese private e addetti dell’operatore pubblico.
Per quanto riguarda il livello dell’occupazione dedicata alla ricerca, espresso
in termini normalizzati rispetto alla popolazione attiva, esso appare particolarmente basso in tutte le regioni italiane (vedi tab. 10). In negativo, emerge
il dato relativo al Nord Est, a conferma della differenza esistente tra queste
regioni e Lombardia e Piemonte.
Il peso degli addetti che svolgono ricerca nelle imprese rispetto al totale degli
addetti alla R&S pone le regioni leader dell’Italia settentrionale ai primi posti
in Europa (tab. 11): il Piemonte (il 77% degli addetti R&S proviene dalla
R&S d’impresa) è preceduto da Regno Unito (81%), Baden Wurttemberg
(83%), West Midlands (84%), Bayern (87%), e precede Rhone Alpes (73%) e
Lombardia (60%).
L’OUTPUT TECNOLOGICO
I risultati dello sforzo innovativo regionale, che si manifesta con gli investimenti in R&S e con le persone ad essa dedicate, possono essere esaminati
con l’attività brevettuale avente origine nel territorio esaminato, nonché con
riferimento al numero di imprese definibili “innovative“ in esso presenti.
IL NORD-ITALIA E IL
RESTO DEL PAESE
Le performance tecnologiche delle singole regioni misurate nel numero di
brevetti depositati dalle imprese in esse presenti confermano il ruolo egemone giocato dal Nord Italia (vedi tab. 12 e tab. 13). La relazione diretta esistente tra input e output tecnologico viene evidenziata nell’elevato peso delle regioni settentrionali per quanto riguarda i brevetti in esse prodotti, circa il 70%
del totale nel 1995.
I dati statistici consentono di distinguere tra le diverse tipologie di brevetto,
rilevando una diversa presenza del Nord Italia a seconda della tipologia considerata.
Distinguendo tra invenzioni, modelli d’utilità, modelli ornamentali e marchi
d’impresa, nel 1995 il peso del Nord Italia (75%) è maggiore nella prima tipologia, proprio quella che probabilmente incorpora un maggior contenuto
innovativo. Inoltre, se consideriamo la dinamica di tali statistiche tra il 1985
ed il 1995, possiamo osservare come il peso delle invenzioni prodotte nel
Nord sia sostanzialmente costante e consolidato sui tre quarti del totale delle
invenzioni italiane.
Di contro, nei modelli di utilità e nei marchi di impresa le imprese settentrionali sono meno presenti, rispetto al resto del paese, passando dal 1985 al
1995. Tale distribuzione potrebbe essere l’indice di un diverso modello di
sviluppo tecnologico perseguito dalle regioni italiane: mentre nel Centro e nel
Sud d’Italia avrebbero una notevole importanza le innovazioni semplicemente “incrementali”, nel Nord le imprese riuscirebbero a produrre maggiori innovazioni “radicali”, cioè quelle che traggono origine da vere e proprie invenzioni.
In generale, si nota una diversa dinamica delle varie tipologie di brevetti tra il
1985 e il 1995, con un forte aumento del peso dei marchi di impresa, frutto
probabilmente della riorganizzazione in atto nelle funzioni commerciali e di
marketing delle imprese che, dovendo puntare su fattori competitivi di tipo
non-price, investono nella pubblicità e nel marchio aziendale.
79
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
IL NORD-ITALIA E
L’EUROPA: UN
OUTPUT
TECNOLOGICO AL DI
SOTTO DELLA MEDIA
COMUNITARIA
LE IMPRESE
INNOVATIVE
L’output tecnologico, misurato in termini di brevetti depositati4 dalle imprese, vede le regioni Settentrionali, come del resto tutte le regioni italiane, nei
posti di più bassi della classifica dei valori assoluti e di quelli normalizzati
con il numero di abitanti presenti.
Per quanto riguarda il numero dei brevetti depositati, nel quinquennio 19901995 l’insieme delle regioni italiane mostra la stessa dinamica di incremento
della media comunitaria (+2.3%), pur partendo da livelli molto inferiori alla
media. Questi ultimi sono facilmente confrontabili tra loro se il numero di
brevetti depositati in ogni area geografica viene normalizzato con il numero
di abitanti ivi presenti. La tabella 14 indica come nel 1990 le regioni italiane
possiedano un ammontare di brevetti depositati che raggiunge solo la metà
della media europea (44 brevetti per abitante contro gli 89 della media UE).
Tale caratteristica è tipica di tutte le regioni italiane, con la regione più attiva
in questo campo, la Lombardia, che con 88 brevetti per abitante non supera
nemmeno la media UE. Tale media è determinata da regioni leader che mostrano livelli altissimi di brevetti per abitanti, quali il Baden-Wurttemberg
(327), il Bayern (248), la stessa media tedesca (174), a fronte di alcune aree a
scarsissima intensità brevettuale, quali la Grecia (3 brevetti per abitante) e la
Spagna (7).
Purtroppo, la situazione al 1995 non risulta particolarmente migliorata per le
regioni italiane, che mantengono le stesse posizioni precedenti. Anzi, in alcuni casi, come per il Lazio, l’arretramento è vistoso ed avvicina le regioni del
Centro e del Sud Italia ai fanalini di coda della classifica rappresentati da
Grecia e Spagna.
Considerando la dinamica del fenomeno, espressa come variazione percentuale del numero di brevetti per abitante tra il 1990 ed il 1995, la variazione
della media europea (2.2%) è simile a quella della media italiana (2.3%).
Il dato europeo è la sintesi, da una parte, di regioni in forte regresso nel periodo 1990-1995, regresso che coinvolge regioni posizionate nel 1990 nella
parte bassa della classifica (come il Lazio, con -24%) e nella parte alta (come
il Bayern, con -23%); dall’altra, di regioni che aumentano sensibilmente il
livello precedente, dinamica positiva che coinvolge, anche in questo caso, regioni più arretrate (come la Spagna, con +57%) e regioni più avanzate (come
la Finlandia, con + 63%).
La dinamica a livello italiano vede pochi casi di miglioramenti netti, come
quelli avvenuti per l’Emilia Romagna (+48%), mentre tra le regioni in forte
perdita, oltre al già citato Lazio, vi sono i capisaldi del Settentrione: il Piemonte (-18%) e la Lombardia (-9%).
Il confronto tra imprese innovatrici e non innovatrici indica che mentre nel
Nord Italia più di un terzo delle imprese risultano innovatrici, nel resto del
paese solo un quarto delle imprese sono tali (tab.15). In aggiunta, all’interno
della distribuzione delle imprese innovatrici emerge come il Nord Italia rappresenti ben i tre quarti delle imprese innovative italiane, mostrando
un’egemonia che risulta in linea con la precedente distribuzione delle invenzioni e dei brevetti.
All’interno del numero di imprese innovative è possibile distinguere in base
al tipo di innovazione introdotta, a seconda che si tratti di innovazione di
prodotto, di processo o di prodotto/processo (tab. 16). In questo ambito si
4
In realtà la statistica citata si riferisce alle richieste di brevetto, di cui i brevetti concessi rappresentano in media più del 95%.
80
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
conferma la diversa qualità del processo innovativo in corso: mentre nel Nord
Italia le innovazioni di prodotto rappresentano il 23% del totale delle innovazioni prodotte, nel Centro Sud tale peso è solamente del 15%, essendo privilegiate le innovazioni di processo o di prodotto/processo.
Del resto, l’82% delle innovazioni di prodotto sono state introdotte sul mercato da imprese settentrionali, fatto che può essere interpretato come il frutto
di un diverso modello di crescita strategica dell’impresa: anziché puntare sul
contenimento dei costi, ottenibili in primis con le innovazioni di processo, le
imprese settentrionali sembrano puntare soprattutto sulla massimizzazione
dei ricavi, ottenibile solo con un’adeguata e continua innovazione di prodotto.
Poiché tale scelta è anche condizionata dalle strategie perseguite dai diretti
competitori, è probabile che le imprese del Nord si confrontino soprattutto
con competitori europei, nei cui confronti hanno maggior valore i fattori
competitivi di tipo non-price, quali l’innovazione e la pubblicità, piuttosto
che i fattori competitivi basati sul semplice contenimento dei costi produttivi.
Questi ultimi sarebbero più importanti nei confronti dei competitori provenienti dai paesi in via di sviluppo.
LE PICCOLE IMPRESE E LA DOMANDA-OFFERTA DI
TECNOLOGIA NEL NORD ITALIA
IL FABBISOGNO
TECNOLOGICO DELLE
PMI
UNA DOMANDA
PARCELLIZZATA …
Il fabbisogno tecnologico delle imprese è in parte influenzato dalle caratteristiche della struttura e dell’organizzazione produttiva del sistema industriale
dell’Italia settentrionale (Assolombarda, 1994). Infatti, le soluzioni tecnologiche che le imprese dell’Italia settentrionale richiedono a chi offre innovazione sono generalmente vincolate dal modello di sviluppo perseguito dal sistema industriale.
In primo luogo, l’elevata presenza di piccole imprese riduce la possibilità di
attivare progetti di R&S aventi quella massa critica indispensabile a superare
le alte barriere all’entrata delle nuove tecnologie.
In secondo luogo, la concorrenza proveniente dai paesi in via di sviluppo, che
risulta vincente nei prodotti più standardizzati e di bassa qualità, spinge le
imprese italiane a differenziare fortemente il proprio prodotto, tramite la pubblicità (come nei casi delle griffe dell’abbigliamento e, in misura più ridotta,
delle scarpe), l’eccellenza qualitativa e l’innovazione tecnologica (con i nuovi materiali usati tanto nelle scarpe quanto nell’abbigliamento), il design.
La differenziazione di prodotto favorisce la domanda di tecnologie non standardizzate, ma specifiche al tipo di differenziazione perseguito dall’impresa.
In questo modo la domanda di innovazione è fortemente parcellizzata, a fronte di un’offerta che ricerca economie di scala in progetti di R&S piuttosto
ampi e coinvolgenti un elevato numero di imprese.
Un terzo elemento da considerare riguarda la qualità stessa dell’innovazione
tecnologica utilizzata/introdotta in azienda: si tratta, per lo più, di innovazioni
introdotte senza aver effettuato un processo formalizzato di R&S, ma che derivano dall’esperienza accumulata, o dalle conoscenze create in altri settori/imprese. Molto importante è l’appropriazione di informazioni che avviene
in modo non codificato (spill-over), più che quella che avviene tramite i normali scambi di mercato (cessione di brevetti, licenze e know-how).
81
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
… E SENZA UN
PROCESSO
FORMALIZZATO DI
R&S
PREVALE
L’INNOVAZIONE
INCREMENTALE
Un dato che si riferisce alla Lombardia (Provincia di Milano, 1997) ma che è
facilmente estensibile a tutto il Nord Italia, riguarda le fonti dell’innovazione:
nel 47% dei casi la fonte dell’innovazione risiede nell’imprenditore, nel 32%
dalle richieste dei clienti, nel 22% dalla concorrenza e solo nel 17% dalla ricerca formalizzata.
Un quinto fattore è individuabile nella natura del “sapere” utile per le piccole
imprese, che è molto pratico e specifico, e quindi valorizzabile solo in un
ambito economico molto ristretto. Ciò riduce le possibilità di avere rapporti
con gli enti pubblici di ricerca e le università, dotati di personale avente
un’elevata preparazione generica ma non specifica sul micro-problema che la
piccola impresa deve risolvere.
Infine, poiché il piccolo imprenditore è talvolta convinto che il successo aziendale non dipenda dall’eccellenza tecnologica, quanto piuttosto dalla flessibilità, dalla qualità della lavorazione e dal prezzo di vendita, si nota talora
una ritrosia culturale ad investire tempo e risorse nella variabile tecnologica.
Gli elementi citati concorrono a determinare un fabbisogno tecnologico delle
piccole imprese settentrionali indirizzato al raggiungimento di innovazioni
incrementali, e non teso a perseguire innovazioni di tipo radicale. Si tratta di
una scelta strategica a livello di sistema industriale, in quanto si favorirebbe
l’evoluzione dell’attuale modello produttivo verso miglioramenti qualitativi e
di efficienza, sfruttando le conoscenze accumulate nel corso del tempo nel
campo specifico in cui è presente l’impresa. In questo modo si riuscirebbe ad
allontanare i competitori provenienti dai paesi in via di sviluppo senza dover
abbandonare il settore di tradizionale presenza dell’impresa.
A fronte di tale domanda di innovazione, l’offerta innovativa è fortemente
variegata. Oltre alle università e agli Enti pubblici di ricerca, nei cui confronti
le piccole imprese hanno rapporti praticamente inesistenti, essendo limitati al
più a consulenze ai singoli ricercatori o docenti, vi è l’offerta proveniente dagli operatori privati (consulenti e centri di ricerca) e quella che trae origine
dai centri di servizio, attori molto vicini alle problematiche delle imprese in
quanto nati su iniziativa degli enti pubblici e delle associazioni di categoria
locali.
I CENTRI DI SERVIZIO
PER L’INNOVAZIONE
TECNOLOGICA NEL
NORD ITALIA
Nell’Italia settentrionale si contano ormai numerosi centri servizio che rappresentano un’importante fonte di offerta di tecnologia. Tali centri sono localizzati soprattutto nei distretti industriali, anche se rappresentano un punto di
riferimento per tutte le tipologie di imprese (distrettuali e non). Un’indagine
del Ceris-Cnr (1997) ha evidenziato la rilevanza di questo strumento di creazione e diffusione dell’innovazione, e le sue principali caratteristiche.
I principali aspetti positivi di tali centri sono individuabili nella loro specializzazione settoriale: buona parte dell’attività del centro è infatti focalizzata
sulla tecnologia più importante dell’area distrettuale in cui il centro è inserito,
delegando ad altri enti la diffusione di tecnologie generiche e trasversali a tutti i settori industriali.
82
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
UN’OFFERTA
SPECIALIZZATA, MA
UNA DOMANDA
ANCORA PIÙ
SPECIFICA
UNA FORTE
RICHIESTA DI SERVIZI
PER LA QUALITÀ
L’INNOVAZIONE
TECNOLOGICA NEI
DISTRETTI
INDUSTRIALI
Purtroppo, nonostante tale specializzazione, la ricerca del Ceris-Cnr ha comunque rilevato una diffusa discrasia tra l’offerta di tecnologia proveniente
dai centri servizio e la domanda di innovazione proveniente dalle imprese.
Mentre l’offerta, pur essendo focalizzata sulla specializzazione del distretto,
riguarda una tecnologia piuttosto “ampia” ed in grado di coinvolgere, più o
meno intensamente, un elevato numero di imprese locali, la domanda proveniente dalla singola impresa riguarda una tecnologia molto specifica, talmente specifica che generalmente interessa solamente l’impresa proponente e non
le sue concorrenti distrettuali, e come tale non può essere svolta a livello di
Centro-servizi.
I servizi tecnologici offerti dai centri servizio possono essenzialmente essere
suddivisi fra le azioni che mirano alla creazione di innovazione e le attività
dirette alla diffusione dell’informazione tecnologica. A queste due categorie
vanno poi aggiunti i servizi che si ricollegano in senso lato alla politica della
qualità: la consulenza e certificazione e i laboratori di prove e test.
A seconda del servizio reso, i centri si trovano di fronte ad una domanda potenziale fortemente differente: mentre i servizi per la qualità mostrano una
forte richiesta da parte delle imprese settentrionali, quelli più strettamente
tecnologici hanno ancora una domanda molto ridotta, talmente ridotta da non
consentire ai centri servizio una eventuale autosufficienza economica. È infatti per questo motivo che l’offerta di servizi del centro è molto ampia, e diretta anche verso quei servizi standard e tradizionali che sono di naturale appannaggio degli operatori privati: per raggiungere l’autosufficienza
economica il centro servizio deve compensare, tramite l’offerta standard, gli
scarsi introiti che avrebbe se offrisse esclusivamente servizi puramente tecnologici.
Sempre per questi motivi i progetti tecnologici di ampio respiro trovano generalmente le risorse finanziarie nei finanziamenti pubblici (comunitari, statali, regionali, delle Camere di commercio) o in quelli di altri soggetti collettivi
(Associazioni di categoria, Unioni industriali) in grado di apprezzare la natura di bene pubblico dei risultati della ricerca.
I fattori che consentono alle piccole imprese dell’Italia settentrionale di essere competitive a livello internazionale sono solo in parte di tipo tecnologico,
nell’accezione più pura del termine. Infatti, solo in minima parte le nostre
piccole imprese riescono ad essere competitive grazie alle innovazioni tecnologiche introdotte in termini di nuovi materiali utilizzati, nuovi prodotti inventati, nuovi processi introdotti. Se poi consideriamo la scarsa diffusione in
tali imprese dei laboratori di R&S ci rendiamo immediatamente conto come
la realtà vincente nei distretti industriali non sia di tipo tecnologico, nel senso
che non deriva dalle spese in R&S fatte all’interno dell’impresa, o dalla tecnologia acquisita dai laboratori pubblici di R&S o dalle università.
Infatti, da numerose indagini (Belussi, 1992; Lanzara e Ferrucci, 1993 e
1997; Garofoli, 1995) svolte sui fattori che rendono competitive le imprese
distrettuali emerge come l’innovazione più importante per tali imprese sia
quella di tipo organizzativo: il modo di produrre, che si materializza
nell’insieme delle relazioni tra le imprese, è diventato un importante elemento per determinare la vittoria internazionale di tale tipo di imprese. Tuttavia,
se si considera in un maggiore dettaglio l’aspetto organizzativo, emerge come
parte di tali innovazioni organizzative abbiano comunque un certo contenuto
tecnologico intrinseco:
83
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
UNA FORTE CAPACITÀ
•
DI “INNOVAZIONI
ORGANIZZATIVE” PER
ADATTARE ALLE
PROPRIE ESIGENZE
TECNOLOGIE
ESOGENE
•
•
•
•
nell’uso di nuovi materiali che si affiancano, ma non si sostituiscono, a
quelli tradizionali, come: nel mobilio, con l’introduzione di componenti
in plastica e vetro; nel tessile, con la creazione di nuove “fibre” che associano la lana con “microfibre” sintetiche; nell’abbigliamento, dove il ruolo dei “complementi” è aumentato di importanza nel definire il contenuto
di moda dell’intero capo; nelle calzature, in cui al tradizionale cuoio si
sta affiancando l’uso di materie prime alternative, come la plastica, o tecnologiche, come i tessuti “gore”;
nell’enfasi posta su alcune fasi di lavorazione, che utilizzano processi
tecnologici innovativi semplicemente per ricreare le vecchie metodologie
di lavorazione “tradizionale”: si pensi alla fase di finissaggio dei tessuti,
in cui si sono recentemente depositati numerosi brevetti relativi a nuovi
processi chimici e meccanici di finissaggio;
nell’importanza della logistica, che rappresenta la necessaria minimizzazione dei costi per continuare a produrre con un modello basato su forti
relazioni tra imprese, non solo di tipo verticale lungo la filiera, ma anche
orizzontale all’interno delle stesse fasi di lavorazione: è il caso dell’uso
comune e diffuso dell’informatica, per trasferire le informazioni
all’interno del distretto nelle varie fasi del ciclo produttivo ormai esternalizzate dall’impresa assemblatrice finale;
nell’importanza dei nuovi macchinari di progettazione, quali sono i computer che utilizzano il Cad: per esempio, tanto le componenti meccaniche
che devono essere assemblate da altri produttori, quanto i tessuti più richiesti dal consumatore sono progettabili in breve tempo solo con l’uso
del Cad. Inoltre, l’uso del Cad consente anche una maggiore efficienza
nell’uso delle materie e dei processi produttivi;
nell’importanza dei macchinari di produzione, che devono avere una elevata efficienza per ottimizzare il processo di decentramento produttivo
per fasi di lavorazione, ma anche una elevata qualità di lavorazione, per
rispettare il posizionamento di mercato dell’impresa.
Ciò significa che buona parte delle innovazioni organizzative introdotte dalle
imprese distrettuali nei settori e nei processi produttivi tradizionali non sarebbero state possibili senza una pari evoluzione tecnologica. Tuttavia, è possibile che tale evoluzione tecnologica sia avvenuta al di fuori del contesto in
cui viene utilizzata: in settori apparentemente “lontani” da quelli tipici dei distretti, in imprese non-distrettuali, in altre aree nazionali o addirittura estere.
In sostanza, poiché i distretti usano, magari modificando in base alle proprie
esigenze, la tecnologia prodotta altrove emerge nettamente come un rilevante
strumento di miglioramento del sistema produttivo settentrionale sia soprattutto quello relativo alla diffusione dell’innovazione tecnologica, piuttosto
che la sua creazione tout court. In questo contesto, assumono maggiore incisività le affermazioni precedenti relative al ruolo dei centri servizio per
l’innovazione tecnologica.
Inoltre, emerge a questo riguardo tutta la problematica relativa alla solidità
prospettica del sistema settentrionale, che perpetua un modello di crescita basato su settori tradizionali anziché su settori high tech.
Il dibattito nella letteratura economica, da una parte, critica l’attuale configurazione produttiva dei distretti dell’Italia settentrionale basata su industrie aventi bassi tassi di crescita internazionale e alta concorrenza proveniente dai
paesi in corso di industrializzazione, auspicando un’evoluzione verso indu-
84
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
strie high tech; dall’altra, ricorda come l’attuale configurazione consenta a
molte imprese di avere un indubbio e stabile successo a livello internazionale,
e che l’evoluzione verso i comparti a maggiore contenuto tecnologico non
sarebbe, di per sé, garanzia di pari successo (vedi la crisi produttiva
dell’Olivetti e del distretto tecnologico del Canavese).
I VANTAGGI
COMPETITIVI DEI
DISTRETTI
INDUSTRIALI
A fronte di tali visioni opposte, si sta aprendo la strada un’interpretazione intermedia: le imprese distrettuali dovrebbero essere considerate imprese innovative che operano all’interno di settori ritenuti tradizionali.
Ciò implicherebbe che anche nei settori tradizionali, il vantaggio competitivo
conseguito dalle imprese settentrionali è in larga parte attribuibile
all’introduzione di innovazioni di processo e di prodotto poste a complemento dei cicli produttivi tradizionali.
Un dato comune a tutti i settori tradizionali in cui le imprese dei distretti settentrionali primeggiano è la capacità diffusa di adattare la tecnologia alle richieste del cliente. Inoltre, tale adattamento avviene con una elevata velocità
di risposta.
I PUNTI DI FORZA …
Alcune evidenze empiriche ci informano come nell’attuale modello di sviluppo emergano anche alcuni paradigmi di competitività abbastanza unici (Irer, 1995a; Rolfo e Vitali, 1997; Regione Lombardia, 1997).
In primo luogo, l’adattamento della tecnologia di base, anche importata, in
modo difficilmente imitabile da terzi. Tale adattamento potrebbe essere addirittura considerato come un processo generatore di nuova innovazione, non
originale ma derivata.
In secondo luogo, la capacità di utilizzare la tecnologia in modo integrato con
le altre leve competitive, quali campagne di marketing aggressive, la reputazione del marchio o dell’impresa, la qualità di processo, il design.
Infine, la capacità di adattare il ruolo della tecnologia al mutare delle condizioni competitive.
… E I LIMITI DEL
A fronte di tali aspetti positivi, i limiti del modello settentrionale verrebbero
individuati nella mancanza di posizioni di vera avanguardia nelle innovazioni
radicali, dal rischio di spiazzamento in presenza di forti innovazioni tecnologiche, dalla scarsa dimestichezza all’impiego di capitale di rischio finalizzato
all’innovazione tecnologica (Unione Industriale di Torino, 1993).
Purtroppo, è ormai un dato acquisito di come l’industria italiana abbia ormai
perso il treno della specializzazione nei settori high tech, quali le biotecnologie, la chimica fine, il farmaceutico, i personal computer, gli apparati di telecomunicazione, il software, la micromeccanica. Tuttavia ciò non deve significare necessariamente l’impossibilità di recuperare posizioni in tale
direzione o quella di subire la concorrenza dei mercati internazionali, né che
non si possano seguire strade di concentrazione degli investimenti in settori
ancora emergenti (“in fieri“).
In primo luogo, emergono anche nel territorio del Nord Italia alcune industrie
high tech saldamente presidiate dalle imprese locali: una per tutte è la meccatronica, in cui sono leader alcune medie imprese lombarde e piemontesi.
In secondo luogo, l’unico aspetto sicuramente negativo è che la struttura industriale del Nord Italia non è posizionata nei comparti dell’economia a forte
crescita, e quindi che essa può aumentare le quote di mercato solo a scapito
delle attività dei concorrenti.
MODELLO
SETTENTRIONALE
D’INNOVAZIONE
85
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
Infine, il sistema industriale settentrionale sembra particolarmente presente
nelle tecnologie di punta più facilmente inseribili, in modo diretto, nelle attuali configurazioni produttive.
Molte indagini hanno ormai confermato come, nei settori high tech in cui
l’industria settentrionale è presente, la tecnologia sia generalmente di processo o acquistabile sul mercato. Il fatto che poi essa riguardi soprattutto i nuovi
materiali (con i quali costruire “vecchi” prodotti) o l’information technology
(con la quale migliorare i processi esistenti) conferma tale processo di adattamento delle tecnologie sviluppate altrove.
IL TRASFERIMENTO TECNOLOGICO DAL NORD ITALIA
IL TRASFERIMENTO
TECNOLOGICO VERSO
IL MEZZOGIORNO …
… E VERSO IL
MEDITERRANEO E
L’EST EUROPEO
Una fonte statistica che indica le principali caratteristiche di questo fenomeno
è la rilevazione Istat dei flussi di spese in R&S a seconda della regioni di
provenienza (cioè di residenza dell’impresa che effettua la spesa in R&S) e di
destinazione della spesa (cioè dove la spesa viene effettivamente effettuata).
A livello generale, il rapporto tra spesa originata dal Nord Italia e spesa destinata al di fuori di esso è superiore al 10%. Infatti, la tabella 17 mostra come circa l’11% della spesa di R&S effettuata dalle imprese residenti
nell’Italia settentrionale sia in realtà destinato ad attività di ricerca localizzata
al di fuori di essa. Più in particolare, si individuano alcune regioni che mostrano una forte apertura verso il Centro Sud: la Liguria, che destina al proprio interno solo un quarto delle spese totali di R&S effettuate dalle imprese
in essa residenti, mentre un altro quarto viene destinato alle altre regioni settentrionali e ben la metà del totale di R&S fluisce verso il Centro Sud (con
particolare riferimento alla Puglia, che raccoglie il 39% delle spese liguri); il
Piemonte, che destina al proprio interno solo il 71% delle spese totali di R&S
effettuate dalle imprese in esso residenti, mentre l’11% viene destinato alle
altre regioni settentrionali ed il 18% del totale di R&S fluisce verso il Centro
Sud (con particolare riferimento alla Campania, che raccoglie il 9% delle
spese piemontesi); la Lombardia, che con meno intensità rispetto a Liguria e
Piemonte destina solo l’8% delle proprie spese al Centro Sud, mentre l’80%
rimane all’interno della regione ed il 12% all’interno del Nord Italia.
Di contro, le rimanenti regioni settentrionali sono particolarmente chiuse su
se stesse, come il Trentino che concentra in sé il 91% delle spese, o chiuse
all’interno del Nord Italia, come il Veneto che dedica al Settentrione il 13%
delle spese (e solo l’1% al Centro Sud).
Valutare l’intensità del trasferimento tecnologico verso i paesi in via di sviluppo, quali l’area del Mediterraneo e quella dell’Est europeo risulta quantomai difficile in assenza di statistiche ufficiali sull’argomento.
Per questa ragione è possibile fornire alcune indicazioni sull’argomento solo
esaminando l’evoluzione di altre variabili strettamente legate a quella tecnologica, quale potrebbero essere gli investimenti diretti esteri.
È infatti probabile che dietro il processo di delocalizzazione dell’attività produttiva a maggiore contenuto di lavoro non qualificato verso i paesi mediterranei e quelli dell’Est europeo ci possa essere anche un forte trasferimento
tecnologico relativo al know-how necessario a mantenere adeguatamente elevati i livelli qualitativi della produzione trasferita.
86
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
ALLA RICERCA DI
MINORI COSTI DEI
FATTORI PRODUTTIVI
NELL’AREA
MEDITERRANEA
STRATEGIE PIÙ
ARTICOLATE NEI
CONFRONTI DELL’EST
EUROPEO
Per quanto riguarda i paesi del Mediterraneo, molte grandi imprese settentrionali hanno da tempo attivato impianti produttivi che si aggiungono, talvolta si sostituiscono, a quelli nazionali: si tratta soprattutto delle produzioni
di tessile-abbigliamento e calzature, che vengono dirottate verso l’Egitto, la
Tunisia ed il Marocco. Negli altri settori industriali l’attività internazionale
delle imprese settentrionali è più ridotta, sempre per quanto concerne i paesi
mediterranei.
La finalità di questi investimenti produttivi è soprattutto di tipo resourceseeking, cioè l’impresa settentrionale è indotta ad investire in tali paesi mediterranei per sfruttare i minori costi dei fattori produttivi, lavoro in primis. In
questo contesto, la totalità della produzione delocalizzata generalmente rientra sul mercato italiano ed europeo, in quanto risulta competitiva con quella
proveniente dai paesi in corso di industrializzazione.
Per quanto riguarda invece i paesi dell’Est europeo la finalità degli investimenti effettuati dalle imprese settentrionali è più ampia, in quanto alla ricerca
di minori costi produttivi si associa anche quella di nuovi sbocchi di mercato.
Per questo motivo, la produzione effettuata in tali paesi solo in parte viene
importata in Italia o in Europa, essendo anche destinata a soddisfare la domanda locale.
Merita a questo proposito citare l’investimento effettuato in Polonia dalla
Fiat, sia perché la produzione di tale investimento è destinata in parte al mercato polacco, in parte a quello italiano ed europeo; sia perché dietro a tale investimento produttivo vi è comunque un rilevante trasferimento tecnologico a
favore dei fornitori locali dell’impianto di assemblaggio finale (Balcet e Enrietti, 1998). Parte di tali fornitori locali sono a loro volta il frutto di jointventure tra imprese locali ed imprese provenienti dal distretto tecnologico torinese, che anche in questo caso hanno attivato significativi trasferimenti tecnologici.
In generale, le imprese coinvolte nel trasferimento produttivo e tecnologico
verso i paesi dell’Est europeo provengono da settori numerosi e molto differenti tra loro, rispetto a quanto visto con riguardo ai paesi mediterranei, sia
perché le finalità dell’investimento sono più ampie, sia perché i fattori produttivi a costo ridotto sono più numerosi. Tra questi ultimi, oltre al lavoro, si
elencano anche i minori costi ambientali ed energetici.
Una ricerca condotta dal Ceris-Cnr ha sottolineato gli stretti legami esistenti
tra la delocalizzazione produttiva verso i paesi dell’Est europeo attuata tramite joint-venture ed il trasferimento tecnologico intrinseco a tale processo di
crescita internazionale (Vitali, 1996).
Elaborando i dati di fonte Ceris-Cnr possiamo stabilire anche il ruolo delle
imprese settentrionali all’interno del più vasto processo di trasferimento che
interessa l’intero sistema industriale italiano: dei 233 casi di trasferimento
tecnologico/produttivo effettuati dalle imprese italiane verso i paesi dell’Est
europeo ed attivi nel 1995, ben 180 (il 77%) provenivano da imprese settentrionali.
87
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
CONCLUSIONI
I dati relativi allo sforzo innovativo dell’italia del Nord in termini di input e
output tecnologici ci consentono di formulare il seguente giudizio:
PRIMI IN ITALIA
… MA IN RITARDO IN
EUROPA
• l’ammontare della spesa in R&S, gli addetti ad essa dedicati, i brevetti ottenuti da tali investimenti, il numero delle imprese che hanno introdotto innovazioni mostrano una situazione particolarmente positiva delle regioni settentrionali rispetto al resto dell’Italia.
• rispetto alle regioni industrializzate del centro Europa tale giudizio positivo si
deve attenuare, in quanto si evidenzia un livello tecnologico nettamente inferiore alle altre regioni europee di confronto (Rhone Alpes, BadenWurttemberg, Bayern, ecc.).
Per quanto riguarda le caratteristiche del fabbisogno tecnologico espresso dalle
imprese settentrionali, dell’offerta di tecnologia e dei fattori innovativi utilizzati
dalle imprese del Nord Italia per vincere la competizione internazionale, si nota
una profonda differenza tra le diverse regioni, industrie e dimensioni aziendali.
Per quanto riguarda le dimensioni aziendali, mentre le grandi imprese esprimono
un chiaro fabbisogno tecnologico che sono in grado di soddisfare utilizzando
l’offerta di tecnologia presente sul territorio locale, nazionale o internazionale, le
piccole imprese hanno una strategia di crescita tecnologica piuttosto carente. In
generale, esse non manifestano un elevato interesse per l’innovazione tecnologica, soprattutto se di tipo radicale, quanto invece una domanda per tecnologie incorporate nei macchinari o per innovazioni di tipo meramente organizzativo.
LE DIFFICOLTÀ
DELL’HIGH TECH
E LA LEADERSHIP
TECNOLOGICA NEI
SETTORI
TRADIZIONALI
Per quanto riguarda i settori industriali, mentre i settori high tech soffrono ormai
di uno strutturale ritardo tecnologico con i leader europei, nei settori “tradizionali” del tessile-abbigliamento-calzature, dell’occhialeria, del mobilio si registra
una chiara leadership “tecnologica” internazionale da parte delle imprese settentrionali5. Ciò è valido soprattutto nel caso delle imprese di grandi dimensioni, in
quanto per le piccole imprese la distinzione tra settori high tech e settori tradizionali è meno netta: le piccole e medie imprese posizionate nei settori high tech,
quali quello dei macchinari, mostrano una certa vivacità innovativa (vedi il distretto biomedicale di Mirandola, o le aree di concentrazione dei piccoli produttori di macchinari), mentre quelle posizionate nei settori “tradizionali” hanno
maggiori difficoltà a creare/utilizzare innovazioni non provenienti semplicemente dai fornitori di macchinari.
Probabilmente, se si usassero indicatori di tipo indiretto o qualitativo di performance tecnologica, che consentissero di evidenziare anche il peso delle innovazioni non brevettate, delle spese di R&S non esplicite, ecc. forse il livello tecnologico delle regioni settentrionali sarebbe più vicino a quelle dell’Europa
industrializzata. In tal modo si rileverebbe l’importanza delle innovazioni tecnologiche di tipo incrementale e quella delle innovazioni di tipo non tecnologico,
ma organizzativo, che hanno un ruolo primario nel determinare il successo internazionale delle piccole imprese settentrionali.
5
È interessante notare come tale leadership internazionale si manifesti anche nelle modalità
con le quali le imprese effettuano accordi tecnologici: nel settore del “made in Italy” gli accordi tecnologici sono soprattutto di cessione della tecnologia italiana verso gli altri paesi industrializzati, e non viceversa, come capita in altri settori dell’industria manifatturiera. (Vitali,
1998).
88
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
UN RIDOTTO
TRASFERIMENTO
TECNOLOGICO AL
SUD ITALIA
… E STRATEGIE PIÙ
ARTICOLATE VERSO
L’EST EUROPEO
Infine, il terzo filone di analisi della scheda, e cioè il ruolo di “mediatore tecnologico” che l’Italia settentrionale possiede nel trasferire la tecnologia e
l’innovazione verso il Mezzogiorno italiano e i paesi del Mediterraneo o
dell’Europa Centro-Orientale, ha utilizzato le matrici regionali di input/output
tecnologico per evidenziare come ci sia un ridotto trasferimento tecnologico
dal Nord al Sud, processo esclusivo delle grandi imprese multilocalizzate che
hanno i centri di ricerca al Nord e alcuni stabilimenti produttivi al Sud. Nei
confronti dell’Est europeo e dei paesi del Mediterraneo, le indagini svolte
sulle joint venture delle imprese italiane in tali paesi mostrano una buona presenza delle imprese del Nord: nel Mediterraneo sono presenti soprattutto le
imprese del tessile abbigliamento e delle calzature; nell’Est europeo la presenza investe tutti i settori economici. Sicuramente, alcune singole realtà regionali sono più coinvolte in tale processo di trasferimento tecnologico: per
esempio, in Friuli si evidenziano notevoli flussi di trasferimento tecnologico,
legato alla delocalizzazione di impianti produttivi, verso la Slovenia e la Croazia; il Puglia è rilevante la delocalizzazione con la vicina Albania.
In sintesi, il giudizio che emerge dall’analisi condotta sul livello tecnologico
dell’Italia settentrionale è positivo, anche se presenta molte ombre circa la possibilità di perpetuare a lungo il modello di crescita attuale.
Sembra infatti emergere la necessità di accelerare l’attuale processo di acquisizione delle nuove tecnologie da parte delle imprese settentrionali6. In particolare, si evidenzia un duplice terreno di possibile intervento: all’interno
dell’attuale modello competitivo, basato sull’introduzione di innovazioni nei
settori “tradizionali”, si dovrebbe perseguire la diffusione dell’innovazione
tecnologica prodotta a livello nazionale o internazionale; all’interno di un
nuovo modello di crescita, basato sulla nascita di imprese nei settori ad alta
tecnologia, si dovrebbe perseguire non solo la semplice diffusione
dell’innovazione ma anche la sua creazione in centri di eccellenza tecnologica nazionali, centri che rappresenterebbero i nuovi motori di sviluppo
dell’industria high tech nell’Italia settentrionale.
6
Bisogna ricordare come in realtà lo sforzo tecnologico dell’intera nazione, misurato in termini di spese in R&S rispetto al Pil, si sia ridotto sensibilmente negli ultimi anni (Istat, 1998).
89
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
Tab. 1 – Spesa intra-muros della P.A. per regione al 1994 (% e milioni di lire)
Tot. milioni
Enti di
Università
Stato ed
Totale
Ricerca
altri enti
%
di lire
Piemonte
4,4
5,5
1,7
4,8
366934
Valle d’Aosta
0,0
0,0
0,1
0,0
670
Lombardia
7,0
12,4
34,8
12,2
1003852
Trentino-Alto Adige
0,6
0,9
3,9
1,0
68559
Veneto
4,0
6,7
0,6
5,2
436652
Friuli-Venezia Giulia
1,7
3,3
1,3
2,6
186698
Liguria
4,5
3,7
3,5
4,0
313251
Emilia-Romagna
7,0
9,8
5,9
8,5
719647
Nord Italia
29,3
42,4
51,8
38,3
3096263
Lazio
50,6
12,7
28,7
28,1
2345591
Centro Sud senza Lazio
20,1
44,9
19,4
33,6
2720787
Italia
100
100
100
100
8162641
Fonte: Istat, 1998
Tab. 2 – Personale della P.A. per regione al 1994 (% e numero di persone)
Enti di ricer- Università
Stato ed
Totale
ca
altri enti
%
Piemonte
4,5
4,8
1,7
4,4
Valle d’Aosta
0,0
0,0
0,1
0,0
Lombardia
6,5
11,0
46,9
14,1
Trentino-Alto Adige
0,7
0,8
1,5
0,8
Veneto
3,9
5,7
2,0
4,8
Friuli-Venezia Giulia
1,3
2,5
2,3
2,2
Liguria
4,6
3,2
6,6
3,9
Emilia-Romagna
7,4
9,1
7,5
8,5
Nord Italia
28,9
37,0
68,6
38,8
Lazio
49,0
15,5
15,6
23,6
Centro Sud senza Lazio
22,1
47,4
15,9
37,6
Totale Italia
100
100
100
100
Fonte: Istat, 1998
Totale nr.
persone
4966
10
16011
960
5479
2450
4454
9666
43996
26780
42671
113447
Tab. 3 – Spese in R&S delle imprese intra-muros per regione al 1994 (% e milioni di lire)
Pubbliche
Private
Totale
Totale
%
milioni di lire
Piemonte
17,8
27,8
24,4
2280249
Valle d’Aosta
4,7
0,1
1,7
157104
Lombardia
35,8
31,8
33,2
3107108
Trentino-Alto Adige
0,0
0,8
0,5
47518
Veneto
1,8
5,5
4,2
391649
Friuli-Venezia Giulia
3,3
2,1
2,5
232059
Liguria
6,1
1,5
3,1
289517
Emilia-Romagna
1,1
9,1
6,3
593180
Nord Italia
70,7
78,6
75,8
7098384
Lazio
12,2
10,0
10,7
1005859
Centro Sud senza Lazio
17,1
11,5
13,4
1255653
Totale Italia
100
100
100
9359896
Fonte: Istat, 1998
90
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
Tab. 4 – Personale delle imprese addetto alla R&S per regione al 1994 (% e numero di
persone)
Imprese
Imprese PubbliTotale%
Totale numero
Private
che
di persone
Piemonte
27,1
15,2
23,5
16573
Valle d’Aosta
0,1
0,0
0,1
38
Lombardia
32,7
36,1
33,7
23707
Trentino-Alto Adige
0,8
0,0
0,6
390
Veneto
5,9
2,4
4,8
3407
Friuli-Venezia Giulia
1,7
4,3
2,5
1734
Liguria
1,9
7,3
3,5
2441
Emilia-Romagna
10,4
1,3
7,7
5420
Nord Italia
80,4
66,6
76,3
53710
Lazio
7,1
15,6
9,6
6764
Centro Sud senza Lazio
12,5
17,8
14,1
9928
Totale Italia
100
100
100
70402
Fonte: Istat, 1998
Tab. 5 – Ripartizione regionale delle spese sostenute per l’innovazione (1995)
R&S, progettaz. Investimenti
Totale
Totale
e marketing
innovativi
%
milioni di lire
Piemonte-Valle d’Aosta
24,0
20,2
22,2
4802233
Lombardia
36,1
20,5
28,7
6212527
Trentino-A.Adige
0,7
1,5
1,1
230949
Veneto
4,6
10,6
7,4
1604611
Friuli-V. Giulia
1,9
1,6
1,8
380361
Liguria
2,4
0,9
1,7
361282
Emilia-Romagna
9,3
6,8
8,1
1759462
Nord Italia
79,0
62,0
71,0
15351425
Centro Sud
21,0
38,0
29,0
6263032
Totale Italia
100
100
100
21614457
Fonte: Istat, 1998
Tab. 6 – Il ruolo dell’Università (1995)
Spese per Totale spe- % ricerca / Vendita Totale en- Servizio/tot
ricerca
se
totale spese beni e sertrate
entrate
scientifica
vizi
Piemonte-V.Aosta
25925
559481
4,6
22482
633766
3,5
Lombardia
28402
1660831
1,7
113461
1802045
6,3
Trentino-A.Adige
573
92334
0,6
3937
94216
4,2
Veneto
12565
742191
1,7
20216
791015
2,6
Friuli-V. Giulia
10531
294732
3,6
3541
299620
1,2
Liguria
15700
381882
4,1
17182
406362
4,2
Emilia-Romagna
28549
991828
2,9
18901
1128228
1,7
Nord Italia
122245
4723279
2,6
199720
5155252
3,9
Centro Sud
173118
6741025
2,6
100108
6964975
1,4
Totale Italia
295363 11464304
2,6
299828 12120227
2,5
Fonte: Istat, 1998
91
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
Tab. 7 – La spesa in R&S nella UE (% sul Pil)
Anno 1994
Grecia
0,5
Belgio
Sud Italia
0,6
Danimarca
Lazio
Nord Est
0,6
Centro Italia
0,8
Piemonte
Spagna
0,8
Olanda
Regno Unito
Emilia-Romagna
0,9
Italia
1,1
Rhones Alpes
Finlandia
Nord Italia
1,2
Irlanda
1,3
Germania
Francia
Lombardia
1,3
Austria
1,5
Baden Wurttemberg
West-Midlands
1,6
Svezia
Fonte: Eurostat
Tab. 8 – La spesa in R&S delle imprese private nella UE (% sul totale spesa R&S)
Anno 1994
Grecia
26,9
Francia
Lazio
30,4
Germania
Centro Italia
33,4
Regno Unito
Sud Italia
33,5
West-Midlands
Belgio
Emilia-Romagna
46,1
Spagna
47,2
Irlanda
Nord Est
48,1
Nord Italia
Olanda
52,0
Svezia
Italia
52,9
Rhones Alpes
Austria
56,0
Lombardia
Danimarca
58,9
Baden Wurttemberg
Finlandia
62,2
Piemonte
Fonte: Eurostat
Tab. 9 – La spesa in R&S delle imprese private nella UE (% sul Pil)
Anno 1994
Grecia
0,1
Olanda
Sud Italia
0,2
Danimarca
Centro Italia
0,3
West-Midlands
0,3
Belgio
Nord Est
Spagna
0,4
Regno Unito
Finlandia
Emilia-Romagna
0,4
Lazio
0,6
Francia
Italia
0,6
Germania
Nord Italia
0,8
Piemonte
Austria
0,8
Rhones Alpes
Irlanda
0,9
Svezia
Baden Wurttemberg
Lombardia
1,0
Fonte: Eurostat
92
1,6
1,8
1,9
1,9
2,0
2,1
2,2
2,3
2,3
2,4
2,9
3,2
62,7
66,2
66,3
67,3
67,8
69,4
70,3
72,9
74,6
75,7
81,3
85,4
1,0
1,1
1,1
1,1
1,4
1,4
1,5
1,5
1,6
1,6
2,3
2,9
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
Tab. 10 – Addetti R&S rispetto alla popolazione attiva nella UE
Anno 1994
Nord Est
0,5
Lombardia
Sud Italia
0,5
Belgio
Spagna
0,7
Piemonte
Centro Italia
0,7
Danimarca
Grecia
0,8
Francia
Italia
0,8
Olanda
Germania
Emilia-Romagna
0,9
Rhones Alpes
1,0
Baden-Wurttemberg
Irlanda
1,0
Fonte: Eurostat
1,0
1,2
1,2
1,5
1,5
1,5
1,6
2,2
Tab. 11 – Peso addetti R&S imprese private rispetto al totale nella UE
Anno 1994
Grecia
14,7
Francia
Lazio
20,2
Danimarca
Sud Italia
20,4
Svezia
Centro Italia
21,8
Belgio
Spagna
28,4
Germania
Emilia-Romagna
35,9
Lombardia
Italia
38,3
Rhones Alpes
Nord Est
38,4
Piemonte
Olanda
39,6
Regno Unito
Austria
40,9
Baden-Wurttemberg
Irlanda
42,8
West-Midlands
Finlandia
45,9
Bayern
Fonte: Eurostat
50,1
50,4
51,5
51,8
55,4
59,7
73,2
76,9
81,1
83,1
83,6
86,6
Tab. 12 – Domande di deposito di brevetti presentate da residenti in Italia, secondo la
tipologia del brevetto.
Invenzioni Modelli
Totale
Modelli
Marchi
Totale
d’utilità
ornamentali d’impresa
Anno 1985
Nord Italia
76
77
76
79
70
73
Resto del paese
24
23
24
21
30
27
Totale %
100
100
100
100
100
100
Totale valore assoluto
9849
6333
16182
4304
18912
39398
Anno 1995
Nord Italia
Resto del paese
Totale %
Totale valore assoluto
Fonte: Istat, 1998
75
25
100
8462
68
32
100
3126
93
73
27
100
11588
73
27
100
1860
67
33
100
32968
69
31
100
46416
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
Tab. 13 – Domande di deposito di brevetti presentate da residenti in Italia, secondo la
tipologia del brevetto.
Invenzioni Modelli Totale
Modelli
Marchi
Totale Tot. val.
d’utilità
ornamentali d’impresa
%
assoluto
Anno 1985
Nord Italia
26
17
43
12
46
100
28892
Resto del paese
23
14
37
9
55
100
10506
Totale
25
16
41
11
48
100
39398
Anno 1995
Nord Italia
Resto del paese
Totale %
Fonte: Istat, 1998
20
15
18
7
7
7
27
22
25
4
3
4
69
75
71
100
100
100
32013
14403
46416
Tab. 14 – Richieste di brevetto europeo nella UE (per milione di abitanti)
Anno 1990
Anno 1995
Variazione % 1990-1995
Grecia
Spagna
Irlanda
Centro Italia
Lazio
Italia
Emilia-Romagna
Nord Est
Belgio
Piemonte
Regno Unito
Danimarca
Lombardia
EUR 15
Austria
Francia
Finlandia
Olanda
Svezia
Rhones Alpes
Germania
Bayern
Baden-Wurttemberg
Fonte: Eurostat
3
7
23
27
28
44
45
48
70
72
82
83
88
89
94
97
102
122
145
170
174
248
327
Grecia
Spagna
Lazio
Centro Italia
Irlanda
Italia
Nord Est
Piemonte
Emilia-Romagna
Regno Unito
Lombardia
Belgio
EUR 15
Francia
Austria
Olanda
Danimarca
Rhones Alpes
Finlandia
Germania
Svezia
Bayern
Baden-Wurttemberg
4
11
21
24
35
45
50
59
67
77
80
90
91
94
96
113
116
165
166
169
195
229
285
Lazio
Piemonte
Baden-Wurttemberg
Centro Italia
Lombardia
Bayern
Olanda
Regno Unito
Francia
Rhones Alpes
Germania
Austria
EUR 15
Italia
Nord Est
Belgio
Grecia
Svezia
Danimarca
Emilia-Romagna
Irlanda
Spagna
Finlandia
-25
-18
-13
-11
-9
-8
-7
-6
-3
-3
-3
2
2
2
4
29
33
34
40
49
52
57
63
Tab. 15 – Imprese innovatrici e non innovatrici per regione (1992)
Imprese
Imprese non
Totale
Tot. Imprese % imp. Inn..
innovatrici
innovatrici
%
innovatrici su tot. Italia
Piemonte-V.Aosta
38,1
61,9
100
2295
10,1
Lombardia
36,1
63,9
100
6737
29,6
Trentino-A.Adige
42,9
57,1
100
408
1,8
Veneto
33,7
66,3
100
3506
15,4
Friuli-V. Giulia
34,2
65,8
100
655
2,9
Liguria
34,7
65,3
100
320
1,4
Emilia-Romagna
38,2
61,8
100
2798
12,3
Nord Italia
36,3
63,7
100
16719
73,4
Centro Sud
24,5
75,5
100
6068
26,6
Italia
33,1
66,9
100
22787
100
Fonte: Istat, 1998
94
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
Tab. 16 – Imprese innovatrici per tipo di innovazione introdotta (1992)
Solo
Solo
Sia prodotti
Totale
Tot. valore
assoluto
prodotti
processi
che processi
%
Piemonte-V. Aosta
14,5
17,7
67,7
100
874
Lombardia
41,2
44,5
14,3
100
1063
Trentino-A.Adige
15,4
16,6
68,0
100
175
Veneto
14,6
21,3
64,2
100
1181
Friuli-V. Giulia
20,5
16,1
63,4
100
224
Liguria
21,6
18,0
60,4
100
111
Emilia-Romagna
21,0
19,3
59,7
100
1069
Nord Italia
22,5
24,9
52,5
100
4697
Centro Sud
15,2
24,6
60,2
100
1488
Italia
20,8
24,8
54,4
100
6185
Fonte: Istat, 1998
Tab. 17 – Origine e destinazione delle spese in R&S (1994)
Destinazione:
Origine
stessa regione
Nord Italia
Centro Sud
Piemonte-Valle d’Aosta
71,3
11,1
17,6
Lombardia
80,2
12,1
7,7
Trentino-A.Adige
91,3
7,4
1,3
Veneto
86
12,8
1,2
Friuli-V. Giulia
86,7
10,5
2,8
Liguria
25,1
24,8
50,1
Emilia-Romagna
87,6
8
4,4
Nord Italia
77,9
11,6
10,5
Fonte: Istat, 1998
95
totale
100
100
100
100
100
100
100
100
LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
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LA SCATOLA NERA DELLA RICERCA E SVILUPPO
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97
NEOIMPRENDITORIALITÀ
Giampiero Bordino*
LA DINAMICA DELLE NUOVE IMPRESE: FRA “SUCCESSI ANNUNCIATI” E OMBRE DI LUNGO PERIODO –
AI CONFINI DELL’IMPRENDITORIALITÀ: LA “GALASSIA” DEL LAVORO AUTONOMO COME “VIA
ITALIANA” ALLA FLESSIBILITÀ E AL POST-FORDISMO – LE DEBOLEZZE (E I CORRETTIVI) DEL
SISTEMA IMPRENDITORIALE: MOLTE IMPRESE, MA SEMPRE PIÙ PICCOLE, TROPPO PICCOLE – LE
TIPOLOGIE DI NEOIMPRENDITORIALITÀ. I PROBLEMI CRITICI DELLO SPIN-OFF E DELLA SUCCESSIONE
GENERAZIONALE – LE POLITICHE DI SUPPORTO ALLA NEOIMPRENDITORIALITÀ. POLITICHE DI
SOSTEGNO SOCIALE O POLITICHE DI SVILUPPO PRODUTTIVO? POLITICHE “PER NASCERE” O
POLITICHE “POST-NASCITA” PER CRESCERE? – BIBLIOGRAFIA
LA DINAMICA DELLE NUOVE IMPRESE: FRA “SUCCESSI
ANNUNCIATI” E OMBRE DI LUNGO PERIODO
LA PROPENSIONE
ALL’IMPRENDITORIALITÀ
Negli ultimi anni i periodici comunicati di Unioncamere relativi alle rilevazioni realizzate da InfoCamere sul Registro delle Imprese offrono in misura
crescente l’immagine di un’Italia segnata da una forte vocazione imprenditoriale, nella quale ormai non solo il Nord e il Centro, ma anche il Sud sono in
grado di produrre un tessuto di imprese sempre più fitto. Sulla base dei dati
del terzo trimestre 1998 (un saldo positivo di più di 20.000 imprese, equivalente ad un tasso di crescita nazionale dello 0,47%, derivante da uno 0,30%
del Nord Ovest, uno 0,47 del Centro e del Nord Est e uno 0,63 del Mezzogiorno), il Presidente di Unioncamere Danilo Longhi commenta: “Di fronte a
questi risultati, migliori dell’andamento del Pil, si ha la chiara conferma della
forte vitalità economica degli italiani che cercano di costruire personali risposte imprenditoriali alle difficoltà di un’economia forse stressata da politiche
di risanamento peraltro inevitabili”. In precedenza, agli inizi del 1998, il comunicato Unioncamere “di bilancio” sul 1997 diceva: “Il sistema imprenditoriale italiano mostra per il quarto anno consecutivo un saldo attivo fra le imprese iscritte e quelle cessate al Registro delle Imprese delle Camere di
Commercio. I dati, relativi al totale delle imprese, con esclusione di quelle
agricole, evidenziano (…) un saldo in valore assoluto pari a 33.240 imprese
(equivalente ad un tasso di crescita percentuale dello 0,77%, derivante soprattutto da un tasso di crescita del Sud dell’1,54%, doppio rispetto a quello nazionale, dove spicca la relativa debolezza del Nord Ovest con solo lo 0,27%
di incremento).”
I saldi attivi più elevati riguardavano, nel bilancio 1997, i settori delle costruzioni e dell’intermediazione finanziaria, mentre i saldi maggiormente negativi emergevano nel settore del commercio e in quello manifatturiero.
In relazione alla forma giuridica, il comunicato Unioncamere segnalava, per
il 1997, come le ditte individuali avessero superato tutte le altre forme di impresa sia per numero di iscrizioni che di cancellazioni, costituendo nel loro
insieme ancora la forma prevalente (55% dello stock totale) del tessuto produttivo italiano. Commentava ancora il Presidente Longhi: “L’evoluzione
temporale delle ditte individuali conferma, dunque, l’elevato ricambio presente nel tessuto imprenditoriale italiano; la ditta individuale evidentemente è
anche la forma in cui si manifesta il fenomeno dell’autoimpiego tipico delle
*
Cesdi srl
99
NEOIMPRENDITORIALITÀ
fasi di difficoltà occupazionale. Ma questo fenomeno va colto anche come un
segnale di grande vitalità e di fiducia della società italiana”.
OMBRE SUI SUCCESSI
ANNUNCIATI
LA RIDUZIONE DEL
NUMERO MEDIO DI
ADDETTI PER
IMPRESA
IL LIVELLO DI
INNOVAZIONE
Se guardati più a lungo termine, nell’arco di almeno un quindicennio (1981 a
metà 1997), i dati sulla demografia di impresa confermano solo in parte i
“successi annunciati” (di tipo peraltro puramente quantitativo) dei comunicati
Unioncamere. Per quanto riguarda le imprese individuali, come ha osservato
Gallino (1998, p. 205) esse superavano già nel 1981, al netto di quelle agricole, sia pure di poco, la cifra di 2.300.000. “Una cifra in sostanza analoga a
quella che si registrava a metà del 1997, ben sedici anni dopo, quando le imprese individuali registrate ammontavano a 2.336.000 (…).
Il fatto è che una ditta individuale è più facile chiuderla che aprirla e farla
crescere (...). Quando uno si sente strangolato dalle imposte e dagli adempimenti burocratici, può decidere da un giorno all’altro di cercarsi un posto da
dipendente, o di eclissarsi nel sommerso”.
In secondo luogo, per quanto riguarda le imprese non individuali, esse sono
effettivamente cresciute in misura rilevante nell’arco di tempo considerato,
da 510.000 a 1.326.000, con un balzo di ben 816.000 unità. Questo numero
crescente di imprese, tuttavia, non ha prodotto alcun significativo incremento
occupazionale, data la contemporanea consistente riduzione del numero medio di addetti per impresa. Ecco una delle più rilevanti “ombre di lungo periodo” che si staglia sui “successi annunciati” dei comunicati Unioncamere:
questa riduzione ha fatto sì che “le piccole imprese non abbiano generato tra
il 1981 e il 1997 nemmeno tanti posti di lavoro quanti ne sono andati persi
nelle grandi imprese e in agricoltura (…)” (Gallino, 1998, p. 208).
Ciò fa emergere – crediamo – qualche legittimo dubbio sulla possibilità che
per il futuro, nonostante gli indubbi successi tipicamente italiani (e più in
specifico “padani”) dei distretti e dei sistemi di piccola impresa, si possa ancora fare affidamento esclusivamente o prevalentemente su questo “modello”
di creazione di lavoro e di sviluppo.
Vi è poi una rilevante seconda “ombra di lungo periodo” ad oscurare i successi della demografia d’impresa italiana, e in particolare settentrionale: quella del grado di innovazione (di processo e soprattutto di prodotto) delle nuove
imprese, in comparazione con le imprese concorrenti europee. Vi sono molteplici anche se parziali segnali, in questo senso, di una carente innovatività
del nostro sistema di imprese.
Il Quarto Rapporto Eurostat su “Le imprese in Europa” (pp. 67-69), sulla base di un’analisi su 8 paesi relativa al periodo 1990-1992, evidenzia come la
percentuale di Pmi italiane che hanno introdotto innovazioni di prodotto nel
settore dei beni di consumo sia del 21,5%, di contro al 23,9% di quelle francesi, il 50,7 di quelle tedesche, il 24,7 di quelle spagnole, il 42,6 di quelle olandesi. Va segnalato che questo tasso risulta comparativamente il più basso
anche nelle innovazioni di processo (21,8%), ed anche in tutti gli altri settori
considerati nell’indagine (chimica e prodotti chimici e fibre artificiali, caucciù e materie plastiche, prodotti minerali non metallici, metalli di base e prodotti metallici, automobile).
Pur tendendo conto del peso relativo negativo che possono aver giocato su
questi dati le imprese meridionali, ed anche degli eventuali condizionamenti
“congiunturali” del periodo di rilevazione, resta comunque legittimo il dub-
100
NEOIMPRENDITORIALITÀ
bio se il sistema imprenditoriale settentrionale – quale è, e ancor più quale
tende ad evolvere attraverso la dinamica demografica di impresa – sia davvero “attrezzato” per competere con successo, nell’epoca dell’euro e della globalizzazione, con i sistemi imprenditoriali concorrenti.
AI CONFINI DELL’IMPRENDITORIALITÀ: LA “GALASSIA”
DEL LAVORO AUTONOMO COME “VIA ITALIANA” ALLA
FLESSIBILITÀ E AL POST-FORDISMO
LA VOCAZIONE
ALL’AUTOIMPRENDITORIALITÀ
LA VIA ITALIANA
ALLA FLESSIBILITÀ
Un altro fenomeno recente che, pur di “confine” rispetto all’imprenditorialità
in senso stretto, contribuisce a dare dell’Italia, e in particolare della sua parte
settentrionale, un’immagine particolarmente dinamica e suggestiva è quello
dell’ “esplosione” del lavoro autonomo, sia nella forma del cosiddetto “popolo delle partite Iva” sia in quella del lavoro parasubordinato (il cosiddetto
“popolo del 10%”, oggi più precisamente del 12%).
Si tratterebbe, in ogni caso, di segnali di una forte vocazione
all’autoimprenditorialità nella società italiana. Tali segnali, uniti a quelli ricavabili dallo sviluppo di nuove imprese e, “letti” alla luce della strutturale densità sistemica (distretti e sistemi locali di impresa) del tessuto produttivo italiano, e particolarmente centro-settentrionale, sembrerebbero fare dell’Italia il
principale esempio europeo di “capitalismo diffuso”.
In effetti il lavoro indipendente oggi in Italia, nelle sue diverse forme (imprenditori, liberi professionisti, altri self-employed) assomma a circa il 28%
della forza lavoro occupata, una quota fra le più elevate in Europa, tre volte
superiore a quella della Germania e più che doppia rispetto a Francia, Gran
Bretagna, Danimarca e Olanda, paragonabile solo a quella della Spagna
(22%), del Portogallo (26%) e della Grecia (34%). In questo quadro, è la parte settentrionale dell’Italia a concentrare in sé la maggior quota di lavoro indipendente e, in particolare, delle nuove forme di lavoro parasubordinato (autonomi coordinati e continuativi), con il 44% del totale nazionale
rappresentato da solo tre regioni (Lombardia, Veneto, Piemonte; dati 1997).
È sul significato di questi dati, tuttavia, che sono possibili “letture”, interpretazioni e scenari di sviluppo diversi. Intanto quella dei self-employed è una
“galassia” che contiene al suo interno almeno due “mondi” assai differenti:
quello degli ultraquarantenni con un know how professionale qualificato e alla ricerca di un modello di lavoro migliore e, per contro, quella dei giovani
solitamente alla ricerca di primo impiego, con scarsa formazione e redditi assai più bassi, spinti al lavoro autonomo non tanto da una pretesa “vocazione
all’autoimprenditorialità” quanto dalla mancanza di altre valide alternative.
Ma, al di là delle articolazioni interne del mondo del lavoro autonomo parasubordinato, che richiederebbero “letture” altrettanto disarticolate del loro significato, è possibile trovare almeno un aspetto unificante, e quindi
un’interpretazione unitaria del fenomeno. Come osserva Magatti (1998, “Il
lavoro parasubordinato nel modello di sviluppo del Nord”, Impresa e Stato,
n. 46, p. 3), “il lavoro parasubordinato va inquadrato in un trend molto più
generale che tende a modificare il mercato del lavoro (...) lavoro interinale,
contratti d’area, contratti di formazione lavoro (…) stanno effettivamente trasformando il modo in cui domanda e offerta si incontrano. Basti dire che al
Nord ormai più del 50% degli avviamenti è a tempo determinato”. Si tratta
“di quella che potremmo chiamare la via italiana alla flessibilità, da sempre
101
NEOIMPRENDITORIALITÀ
basata sulla presenza di un numero di lavoratori autonomi incomparabilmente
più elevato di quello delle altre economie avanzate”. Più in generale, osserva
ancora Magatti (ibidem, p. 4), “si tratta di un elemento costitutivo di quella
via italiana al post-fordismo di cui gli elementi fondamentali sono ormai ben
noti: prevalenza della piccola e piccolissima impresa, specializzazione manifatturiera, concentrazione territoriale e localismo economico, spiccata mobilitazione individualistica, rilevanza di quella zona grigia costituita appunto dalle varie forme di lavoro indipendente”.
LAVORO AUTONOMO E
IMPRENDITORIALITA’
Vi è infine ancora un’ultima considerazione necessaria per collocare nel suo
giusto spazio la “galassia” in espansione delle nuove forme di lavoro autonomo, e quindi valutare più realisticamente lo “stato di salute” dell’Italia settentrionale. Vi è “una certa confusione – osserva Contini (1998, “Lavoro autonomo e flessibilità”, Impresa e Stato, n. 46, p. 35) – tra il concetto di lavoro
autonomo e quello di imprenditorialità (…). Una cosa è scegliere di fare
l’imprenditore, di organizzare attività altrui, esponendosi al rischio di impresa, altra cosa è mettersi in proprio a svolgere un’attività di softwarista (con
partita Iva) dietro parcella, ovvero di fare assistenza agli anziani ricevendone
un compenso in nero. Tutte due attività assai dignitose, (…) ma comunque
attività che, in un contesto istituzionale diverso da quello italiano, verrebbero
normalmente svolte con un normale lavoro alle dipendenze”.
LE DEBOLEZZE (E I CORRETTIVI) DEL SISTEMA
IMPRENDITORIALE: MOLTE IMPRESE, MA SEMPRE PIÙ
PICCOLE, TROPPO PICCOLE
LA DIMENSIONE
MEDIA D’IMPRESA
Il Censimento intermedio dell’industria e dei servizi, che recentemente è stato
reso pubblico dall’Istat, prospetta un quadro complessivo del sistema imprenditoriale italiano, articolato per regioni e macro-aree. Fra i molti, vi sono
alcuni punti rilevanti che emergono: a fine 1996, le imprese operanti nei settori dell’industria e dei servizi sono 3,5 milioni (erano 3.123.000 nel 1991),
con un’occupazione pari a 13,8 milioni di addetti e una dimensione media di
3,9 addetti per azienda (2,9 nei servizi e 6,5 nell’industria). Il 95% del totale
delle aziende ha meno di 10 addetti e soltanto 2.600 imprese hanno almeno
250 addetti (0,07% delle imprese e 2,8 milioni di addetti). Nel settore industriale, in particolare, il numero medio di addetti non ha fatto che scendere
nel corso degli anni: da 7,7 per azienda nel 1991 a 6,5 nel 1996.
In questo quadro nazionale, su cui pesa evidentemente il “nanismo” imprenditoriale del Mezzogiorno (soltanto 2,6 addetti per impresa nell’industria e
nei servizi), anche le altre aree territoriali presentano tuttavia dati molto lontani da quelli europei dei paesi più avanzati. Le imprese del Nord Ovest hanno una dimensione media di 4,7 addetti, quelle del Nord Est e del Centro di
4,3. Come osserva in un’intervista Enrico Giovannini, direttore delle statistiche economiche su istituzioni e imprese dell’Istat (Il Sole-24 Ore, 19 dicembre 1998), “si ha una riduzione della dimensione media delle imprese, sia
nell’industria che nel terziario; in realtà, gran parte di questa riduzione è concentrata nelle costruzioni e nei servizi alle imprese. È l’effetto
dell’outsourcing, delle reti, della terziarizzazione dell’economia in generale.
Tra il 1991 e il 1996 cade il numero delle imprese con almeno 250 addetti,
cosicché accanto a poche grandi aziende vi è una rete molto fitta di piccole e
piccolissime aziende”.
102
NEOIMPRENDITORIALITÀ
DIMENSIONI ED
OCCUPAZIONE
I DUE CORRETTIVI
ALLA DEBOLEZZA
DIMENSIONALE
Il Censimento intermedio segnala anche il calo dell’occupazione manifatturiera, con l’eccezione di due sole piccole regioni meridionali (Molise e Basilicata) ed una certa “resistenza” del Nord Est (un calo occupazionale limitato
all’1,8% di fronte ad un calo medio nazionale del 6,8%). Dunque è confermato il trend di fondo che già abbiamo in precedenza segnalato: vi sono sempre
più imprese ma, a causa della contemporanea riduzione del numero medio di
addetti, tutto ciò non crea lavoro e occupazione.
Sembrano confermate, dai dati del Censimento, le preoccupazioni di Gallino
(1998, pp. 203-208) circa le trasformazioni del nostro modello di sistema
produttivo nel lungo periodo. Nel 1981 le imprese non individuali non agricole avevano in media 20 addetti; a metà 1997 si sono ridotti a 7,8. “Nei confronti internazionali, l’Italia risulta avere oltre 1,2 milioni di imprese in più
rispetto ai due paesi europei di dimensioni paragonabili che la sopravanzano
sia come Pil pro-capite sia come livello generale di modernizzazione, la
Francia e la Germania; inoltre, il 99,9% di esse assorbe quasi il 15% di occupati in più, ossia più dell’80% contro meno del 65% degli altri due paesi. La
loro dimensione media è però circa la metà: meno di 8 dipendenti contro circa 14” (p. 208). Infine, è bene ricordare – come osserva ancora Gallino – che
le grandi imprese (oltre 500 addetti) in Francia sono 2 volte e mezzo e in
Germania circa 4 volte quelle italiane. In più, in questi due paesi le grandi
imprese raccolgono oltre il 35% di tutti gli occupati, contro il 15-16%
dell’Italia. Guardando più in specifico all’Italia settentrionale – come osserva
Magatti (1998, p. 92) – e in particolare a Lombardia, Piemonte e Veneto, si
può verificare che “anche nelle regioni più evolute del paese, esiste una sorta
di incapacità a dare vita a forme organizzative complesse capaci di competere
in modo duraturo sui mercati. Nelle tre regioni in esame, tra il 1971 e il 1991,
si è passati da 307 a 218 imprese con più di 1000 addetti, con una riduzione
di quasi il 30%, mentre quelle con più di 50 dipendenti (che nel 1991 erano
10.000) rimangono un’esigua minoranza (meno dell’1%!)”.
Certo il sistema italiano, e in specifico quello centro-settentrionale, non può
essere “letto” solo alla luce della dimensione media di impresa, e dei conseguenti confronti negativi con i grandi paesi europei di forte industrializzazione.
Ci sono almeno due fenomeni che agiscono da “correttivi” alla debolezza dimensionale italiana, uno dei quali – le reti di piccole imprese, i distretti, il territorio, con il loro patrimonio di “economie esterne” alla singola impresa –
particolarmente potente e ormai universalmente celebre (e celebrato) per i
suoi successi nel “made in Italy”. Più precisamente i due “correttivi” in discorso sono:
1. la crescita dei “gruppi” (o “imprese economiche”), intesi come aggregazioni di varie imprese costituenti soggetti giuridici autonomi, ma controllate da un unico soggetto economico e sottoposte ad un gestione unitaria.
Una recente indagine (Balcone, Moisello, Mutinelli, “La fine della polarizzazione: le caratteristiche e la crescita dei gruppi medi italiani”, Economia e politica industriale, 1998, n. 97, pp. 25-76) sostiene la tesi che
“sia ormai emerso in Italia un ‘ceto medio’ imprenditoriale che costituisce una novità di tutto rispetto nel contesto manifatturiero del nostro paese…” (p. 26). In sostanza, se l’unità di riferimento delle analisi fosse l’
“impresa economica” e non solo quella “giuridica”, il grado di polveriz-
103
NEOIMPRENDITORIALITÀ
zazione del tessuto imprenditoriale italiano risulterebbe assai minore di
quanto possa a prima vista apparire;
2. in secondo luogo, come già si è detto, l’esistenza dei distretti e dei sistemi locali di impresa, che “corregge” a sua volta la scarsa dimensione media delle singole imprese. Anche in questo caso, se l’unità di riferimento
delle analisi non fosse tanto o soltanto l’impresa giuridica, ma il territorio
con tutte le sue reti e le sue risorse, la situazione imprenditoriale italiana
apparirebbe assai meno debole e polverizzata di quanto possa risultare
dai dati statistici e censuari.
ALCUNE
CONSIDERAZIONI
CRITICHE SUI GRUPPI
Rispetto ad entrambi questi “correttivi”, è tuttavia possibile introdurre almeno qualche considerazione critica e qualche dubbio. Sul ruolo dei “gruppi”
valgono alcune “ammissioni” degli stessi ricercatori, che brevemente menzioniamo di seguito.
D’IMPRESA
•
•
•
•
•
“Certamente rispetto agli altri paesi industrializzati in Italia sono emerse
un minor numero di grandi imprese economiche. La crisi delle imprese
pubbliche ha portato inoltre alla caduta dei già pochi giganti e l’anomalia
dell’Italia oggi consite nella presenza ormai di un unico gigante…che sovrasta tutti gli altri in modo molto netto” (cit. p. 54).
“Così si deve prendere atto del fatto che nei settori a più elevato contenuto tecnologico, le macchine elettriche e la farmaceutica, sono le imprese
straniere…a detenere una posizione di marcato predominio” (p. 56).
“Effettivamente, l’intreccio impresa-famiglia non favorisce una presenza
italiana forte nei settori a più elevato contenuto tecnologico, che, infatti,
in assenza di una politica pubblica in grado di compensare gli squilibri
generati dalle tendenze spontanee, sono divenuti appannaggio delle imprese estere” (p. 59-60).
Per quanto riguarda la crescita delle imprese (fra 1990 e 1995, relativamente ad un campione di 223 imprese, sostanzialmente rappresentativo
dell’universo di imprese economiche assunto nella banca dati dei ricercatori), emerge “l’andamento dell’occupazione (…) assai deludente (…)
Questo effetto è in buona misura dovuto alla specializzazione delle imprese italiane in crescita nei mercati maturi: qui gli attori più competitivi,
in generale, possono solo crescere sottraendo quote di mercato agli attori
più deboli, o eliminandoli o assorbendoli. Nuova occupazione si crea solo
sviluppando ed essendo presenti in nuovi mercati: nel sottolineare la debolezza sotto questo aspetto torniamo a ribadire i limiti di uno sviluppo
industriale basato su uno strettissimo legame imprese/famiglie” (pp. 5556).
“L’evidenza empirica presentata in questo saggio mostra che le imprese
italiane nell’ultimo decennio hanno saputo realizzare un doppio inseguimento: a livello dimensionale e multinazionale. Ciò che invece non si è
realizzato è l’inseguimento tecnologico, nel senso di una progressiva modifica della struttura delle specializzazioni verso i settori a più elevato
contenuto tecnologico (...) la struttura industriale è rimasta inchiodata sui
settori a contenuto tecnologico basso o medio e pezzi pregiati
dell’apparato produttivo del paese proprio nei settori più innovativi sono
stati conquistati dalle multinazionali estere (…) Nonostante le inefficienze del sistema finanziario, del mercato del controllo e del mercato delle
imprese, i gruppi italiani sono cresciuti, potendo basarsi
sull’autofinanziamento. Ma nei settori innovativi dai rendimenti differiti
104
NEOIMPRENDITORIALITÀ
è molto difficile che nuove imprese nascano e crescano all’interno del
contesto esistente” (p. 73-74).
LE INCOGNITE
SULL’EVOLUZIONE
DEL MODELLO
DISTRETTUALE NEL
PROCESSO DI
GLOBALIZZAZIONE
In secondo luogo, rispetto ai distretti e ai sistemi locali di impresa, e ai loro
indubitabili grandi successi, restano a nostro parere legittimi alcuni dubbi,
che allungano le loro “ombre” sulle sorti dell’economia italiana, e in particolare sulle reali potenzialità – nel nuovo secolo e millennio - delle regioni più
avanzate ed “europee” del paese:
• che il modello dei distretti, essenzialmente in settori tradizionali e maturi,
possa continuare a reggere a lungo di fronte alla crescita negli stessi settori dei paesi in via di sviluppo o “in transizione” verso l’economia di
mercato;
• che le reti e le solidarietà di distretto possano continuare a mantenersi a
lungo anche di fronte ai processi centrifughi indotti dalla globalizzazione;
• che i problemi derivanti dalla scarsa, ed anzi sempre più debole negli anni, presenza italiana nei settori ad alta tecnologia possano essere affrontati attraverso il modello tradizionale dei sistemi locali di piccola impresa,
o al contrario, almeno in questo campo, nessuna “economia esterna” derivante dal territorio possa compensare davvero le carenze di investimenti
“a profitto differito” e di innovazione derivanti dalla dimensione media
troppo piccola delle imprese (non sarà un caso che, come osserva Laura
Pennacchi – “Doppio handicap per lo sviluppo”, Il Sole-24 Ore, 23 dicembre 1998 – mentre fra il 1980 e il 1996 la quota di prodotti hi-tech sul
totale degli scambi mondiali è cresciuta dal 15 al 30%, nello stesso periodo invece la quota relativa italiana di prodotti ad alta tecnologia sulle
esportazioni mondiali è scesa dal 3,4 al 2,7%).
LE TIPOLOGIE DI NEOIMPRENDITORIALITÀ. I PROBLEMI
CRITICI DELLO SPIN-OFF E DELLA SUCCESSIONE
GENERAZIONALE
Fra le diverse forme di neoimprenditorialità (originaria, di spin-off, per passaggio generazionale, “incentivata” dall’intervento pubblico) comunemente
considerate, due in particolare meritano qualche considerazione specifica per
il peso rilevante che possono avere sulle sorti presenti e future dell’economia
settentrionale: lo spin-off e la successione generazionale.
LO SPIN-OFF
Alla prima forma, intesa nella sua accezione più ampia (singoli individui che
lasciano il lavoro dipendente per dare vita ad una nuova iniziativa imprenditoriale; dismissione di una specifica attività dell’impresa originaria e sua collocazione in una nuova unità giuridicamente indipendente) è riconducibile
presumibilmente l’origine di più del 50% delle nuove imprese (relativamente
alla Lombardia è stato stimato che circa due terzi delle nuove iniziative imprenditoriali derivino dalla decisione di un lavoratore precedentemente alle
dipendenze di “mettersi in proprio”).
Dunque l’osservazione di questa tipologia di neoimprese è fondamentale per
impostare qualsiasi politica di supporto alla nascita e alla crescita del tessuto
imprenditoriale, soprattutto nelle regioni settentrionali dove le occasioni e le
opportunità di spin-off – data la densità del tessuto imprenditoriale preesistente – sono maggiori che nel resto d’Italia. Due ricerche recenti, relative una a
Milano e provincia e l’altra al Piemonte, “fanno pensare” a questo proposito.
105
NEOIMPRENDITORIALITÀ
Quella milanese è un’indagine condotta da IRER Lombardia e CCIAA di Milano su un campione di imprese (4.104 estratte in origine, ma solo 147 pertinenti, disponibili ed effettivamente intervistate) appartenenti al settore manifatturiero nate nella provincia di Milano nel periodo fra gennaio 1989 e
dicembre 1990 e sopravvissute al 1995 (in “Milano produttiva 1997”, Camera di Commercio di Milano). Quella piemontese è una ricerca qualitativa
condotta dall’IRES Piemonte per conto dell’Agenzia di sviluppo Codex su
due gruppi delimitati di “imprese-madri” e di “imprese-figlie” (Quale spinoff? Riorganizzazioni aziendali, creazione di imprese, nuovi imprenditori,
1998, Torino, Codex scrl).
In breve, la ricerca milanese individua tre gruppi fondamentali di neoimprese:
il più piccolo (15% dei casi) è quello delle imprese “innovative”, nei prodotti
e/o nei processi; il secondo, più vasto (39,3%), è quello delle imprese “difensive”, nate dalla necessità di evitare rischi sulla carriera o sul posto di lavoro;
il terzo e più numeroso (45,7%), infine, è quello delle imprese “che hanno origine da unità produttive di maggiori dimensioni e che si caratterizzano essenzialmente per due aspetti: la minimizzazione degli investimenti in innovazione e il contenimento dei costi fissi in struttura (…). È probabile che queste
aziende siano semplicemente funzioni di produzione, separate dall’impresa di
origine per essere collocate in un contesto organizzativo e gestionale in grado, a causa delle dimensioni più ridotte e delle basse spese di coordinamento,
di comprimere sensibilmente i costi totali di produzione”.
La ricerca piemontese, a sua volta, evidenzia come le imprese nate da riorganizzazioni aziendali siano caratterizzate quasi sempre dalla “mancanza di novità nelle attività (prodotti, servizi, tecnologie) per le quali le nuove imprese
sono state costituite”, e ciò sembra allontanare “le situazioni esaminate da un
modello ideale di spin-off pro-attivo, motore di un nuovo sviluppo a livello
locale” (p. 9). Come si vede, sia l’indagine milanese che quella piemontese
convergono nel segnalare come “punto critico” la scarsa innovatività delle
nuove imprese di spin-off, pur in contesti avanzati come la provincia di Milano e il Piemonte. Si tratta di “segnali” non positivi sul sistema produttivo
dell’Italia settentrionale che, come vedremo meglio in seguito, dovrebbero
almeno suggerire qualche ripensamento sulle politiche fin qui prevalentemente seguite per il sostegno alla neoimprenditorialità.
LA SUCCESSIONE
GENERAZIONALE
Per quanto riguarda la seconda tipologia di neoimprenditorialità indicata
all’inizio, la successione generazionale, pochi dati bastano a evidenziarne la
particolare criticità per le prospettive future dell’Italia settentrionale e, più in
generale, per l’Italia e per l’intera Europa.
Secondo la Commissione Ue (“Comunicazione della Commissione relativa
alla trasmissione delle piccole e medie imprese”, in GUCE C 93 del 28 marzo
1998), nei prossimi anni oltre 5 milioni di imprese europee, pari al 30% del
totale, dovranno fare fronte al problema della trasmissione.
Per quanto riguarda in specifico l’Italia settentrionale, le imprese nate fra il
1960 e il 1970, e quindi “mature” per la successione generazionale, su dati
InfoCamere aggiornati al maggio 1998, risultano essere quasi 125.000 (quasi
47.000 nella sola Lombardia, quasi 23.000 in Emilia Romagna, 19.500 nel
Veneto, 18.600 in Piemonte), su un totale nazionale di 239.000 circa. Proporzionalmente, si può stimare che siano almeno 60.000 le cariche sociali affida-
106
NEOIMPRENDITORIALITÀ
te nell’Italia settentrionale a persone con più di 65 anni (su un totale nazionale stimato da InfoCamere in 110.000).
Il problema della successione societaria è dunque anch’esso, come quello dello spin-off, un nodo strategico per le sorti presenti e future della parte più avanzata dell’Italia.
LE POLITICHE DI SUPPORTO ALLA
NEOIMPRENDITORIALITÀ. POLITICHE DI SOSTEGNO
SOCIALE O POLITICHE DI SVILUPPO PRODUTTIVO?
POLITICHE “PER NASCERE” O POLITICHE “POSTNASCITA” PER CRESCERE?
Soprattutto a partire dal 1986, con l’emanazione della legge n. 44
sull’imprenditoria giovanile, si sono moltiplicate nel nostro paese – sia a livello nazionale che regionale e locale – le iniziative legislative e di sostegno
alla nascita di nuove imprese. Nel contempo anche l’Unione Europea ha lanciato programmi e politiche in questa direzione, contribuendo in questo modo
a offrire ulteriori risorse, progettualità e legittimazioni alle specifiche iniziative italiane.
UNA LOGICA DI
POLITICA SOCIALE
Guardate nel loro insieme, le politiche realizzate ai diversi livelli – comunitario, nazionale, regionale e locale – per il sostegno alla neoimprenditorialità
manifestano una prevalente caratteristica comune: l’assumere come destinatari principali le cosiddette “categorie svantaggiate” (e soprattutto nelle aree
territoriali a loro volta svantaggiate): disoccupati, giovani, donne, immigrati.
Inoltre, una seconda caratteristica prevalente e comune è quella di prevedere
interventi di supporto (finanziari e non) “alla nascita”, per rendere possibile
comunque, indipendentemente dai giudizi selettivi del mercato, la formazione
delle nuove imprese.
È particolarmente significativa, in queste direzioni, l’analisi empirica della
prevalente legislazione delle regioni nell’ultimo decennio. Fra il 1986 e il
1996, la sola regione Lombardia ha emanato ben 8 leggi a sostegno della creazione di impresa e del lavoro autonomo, i cui titoli sono particolarmente rivelatori: interventi a sostegno della cooperazione per la salvaguardia e incremento dei livelli occupazionali; interventi a sostegno di nuove iniziative
imprenditoriali giovanili (con priorità per le donne); interventi a sostegno dei
lavoratori in difficoltà occupazionale (con priorità per le donne); interventi
per agevolare l’accesso al credito delle imprese artigiane (destinatari fino a
35 anni e con priorità per le donne); interventi regionali per lo sviluppo delle
imprese minori (con priorità per le donne), ecc.
Leggi analoghe si ritrovano in tutte le altre regioni dell’Italia settentrionale,
come in Piemonte (ad esempio, la legge 67/94 che ha per destinatari le cooperative costituite in maggioranza da giovani tra 18 e 35 anni oppure da soggetti deboli del mercato del lavoro, cioè cassintegrati, lavoratori posti in mobilità, iscritti alla prima classe del collocamento, emigrati piemontesi, donne;
la legge 22/97 che ha per destinatari nuove imprese di qualsiasi forma e settore costituite da giovani fra i 18 e i 35 anni, donne, emigrati piemontesi oppure
soggetti deboli del mercato del lavoro iscritti alle liste di mobilità e disoccupati da almeno 2 anni; ) o in Liguria (ad esempio, le leggi n. 43 del 1994 e n.
107
NEOIMPRENDITORIALITÀ
GIOVANI E
IMPRENDITORIALITÀ
L’ASSISTENZA ALLE
NEOIMPRESE
LE “DISTORSIONI”
DELLE ATTUALI
POLITICHE DI
SVILUPPO
41 del 1995 rispettivamente di sostegno alla costituzione di nuove imprese e
di sostegno all’occupazione e all’autoimprenditoria).
È anche importante osservare come questa logica di politica sociale, più che
di politica industriale, continui a ispirare anche le nuove e più recenti iniziative di molti attori istituzionali e sociali. Nell’ottobre 1998, ad esempio,
l’Unione Industriale e l’Associazione delle aziende metalmeccaniche hanno
dato vita a Torino ad un accordo con la IG S.p.a (Società per l’imprenditoria
giovanile, a cui è affidata la gestione degli interventi previsti dalle leggi n.
44/86 e n. 236/93).
È stato lanciato un “Progetto giovani” che prevede interventi per diffondere
tra i ragazzi la cultura di impresa e del lavoro autonomo, utilizzando le apposite leggi di sostegno esistenti. “ In provincia di Torino, i giovani in cerca di
occupazione – è stato detto dai promotori presentando l’iniziativa (Il Sole-24
Ore, 27 ottobre 1998) – sono 69 mila e rappresentano oltre il 60% della forza
lavoro; il loro tasso di disoccupazione è pari al 24,2% e sale al 31,8% per le
ragazze”: ecco trovata la ragione fondamentale dell’iniziativa avviata per
promuovere lo spirito imprenditoriale fra i giovani, che avrebbero fra l’altro
una potenziale forte vocazione all’autoimprenditorialità, se non
all’imprenditorialità vera e propria.
Va detto che quest’ultima convinzione, piuttosto diffusa, appare invece smentita da alcune ricerche empiriche, come, in particolare, quella recente del
Cnel (II Rapporto sulla condizione giovanile elaborato dalla Consulta delle
forze sociali giovanili e reso pubblico nel novembre 1998), dalla quale si ricava che pur di avere un lavoro dipendente un giovane su tre si accontenterebbe di qualsiasi forma di contratto e ben due su tre sarebbero disposti ad
accettare qualsiasi orario, anche il più disagevole. Dall’indagine emerge che
solo il 30% del campione aderisce all’idea del lavoro autonomo e che, in più,
esso è visto da molti come un “ripiego”.
Va ricordato che l’impegno in favore di una neoimprenditorialità assistita e
incentivata è notevole in Italia anche sul piano delle strutture di supporto e
dell’erogazione di servizi reali.
Centri di servizio alle nuove imprese, Business Innovation Center (BIC), parchi scientifici e tecnologici, incubatori si sono moltiplicati negli anni in tutte
le regioni, con una forte presenza in quelle settentrionali.
Il solo sistema delle Camere di Commercio, molto impegnato in questo campo, aveva in piedi nel 1997 60 punti di accesso distribuiti sul territorio nazionale come “Servizio Nuove Imprese” (SNI); partecipava a 18 BIC; aveva dato vita a 90 iniziative di sensibilizzazione (seminari e convegni); rendeva
disponibile un sistema di rilevazione della domanda di lavoro delle imprese
(Progetto Excelsior) utilizzabile anche a fini di politiche di sostegno alla neoimprenditorialità. In Lombardia, per fare uno specifico esempio settentrionale, già dal 1994 è in atto il progetto “Creare la propria impresa in Lombardia” promosso dall’Unioncamere regionale, da quella nazionale e dall’Ente
Regione, con 15 sportelli di informazione e orientamento dislocati sul territorio.
Tutto questo fiorire di iniziative, che abbiamo brevemente e parzialmente delineato, soffre però – a nostro parere – di due tipi di “distorsioni” fondamentali, che andrebbero in prospettiva almeno corrette: la prima, già segnalata, è
quella di essere ispirata più a strategie di politica sociale che di politica di innovazione e di sviluppo economico.
108
NEOIMPRENDITORIALITÀ
Ne consegue un’alterazione di prospettiva: non conta principalmente quali
imprese nascano, come nascano, se siano in grado davvero di stare da sole e
in modo competitivo sul mercato, quanto e in quali tempi crescano, ma più
semplicemente conta quante imprese nascano.
Va osservato, a proposito di questo tipo di “distorsione”, che alcune ricerche
empiriche realizzate proprio nell’Italia settentrionale confermano come non
siano le cosiddette “categorie svantaggiate” quelle con maggiori potenzialità
di successo imprenditoriale.
Ad esempio, da una ricerca dell’IRES Piemonte svolta su un campione di
imprese piemontesi nate dopo il 1985 e attive nel 1993 (appartenenti a vari
comparti manifatturieri e di servizio) risulta che molto raramente i “nuovi
imprenditori sono dei giovani e/o disoccupati”, e “quand’anche lo siano registrano tassi di sviluppo inferiori (…)” (Abburrà 1998).
La seconda “distorsione” fondamentale sta nel fatto che i sostegni pubblici, in
particolare finanziari, sono essenzialmente sostegni “all’entrata”. Come osserva uno dei maggiori studiosi italiani della neoimprenditorialità, Marco
Vivarelli (1994, p. 126-127), “l’autorità sceglie di intervenire ex-ante e di finanziare iniziative verso le quali ancora non si conosce il responso del mercato (…) si sostituisce al mercato (…) infine non richiede un’impegnativa presa
di responsabilità da parte del beneficiario…”.
Si tratta, secondo Vivarelli, di una politica che non tiene sufficientemente
conto del fatto che molti ingressi di nuove imprese possono essere mossi “da
un semplice intento esplorativo della possibilità di essere ‘self employed’
piuttosto che da una convinta predisposizione agli affari” (p. 107). È utile ricordare, a questo proposito, come i “tassi di turbolenza” (somma dei tassi di
natalità e di mortalità) siano particolarmente elevati in Italia rispetto alle medie europee e come, in connessione, siano particolarmente numerosi i casi di
fallimento prematuro delle nuove imprese (vari studi sul fenomeno dello
start-up imprenditoriale indicano un tasso di mortalità del 50% nei primi anni
di vita; comparativamente, è significativo osservare come l’INSEE francese
indichi un tasso di mortalità al 35% in tre anni per le neo-imprese di quel Paese).
SUSSIDI ALLA
NASCITA O ALLA
CRESCITA?
Dunque, si può concludere con Vivarelli, per il futuro appare necessario che
l’autorità economica, nazionale o regionale, scelga “se erogare un sussidio
alla nascita (con ciò rischiando di incentivare iniziative intrinsecamente fallimentari) o in momenti successivi alla nascita…” (p. 131). Si può fondatamente sostenere, a questo proposito, “l’opportunità di articolati piani di sostegno post-entry che tengano conto in qualche misura della razionalità della
selezione di mercato…” (p. 131). Ciò appare, a nostro parere, tanto più opportuno per l’Italia settentrionale, dove il problema fondamentale non è certo
quello di infittire ulteriormente il tessuto già eccezionalmente denso delle
imprese, ma di farne crescere adeguatamente le dimensioni e il livello di capacità innovativa, contribuendo in questo modo allo sviluppo di nuove tecnologie, di nuovi mercati, di nuovi prodotti, senza i quali l’Italia settentrionale
rischia nel nuovo secolo di perdere il passo con l’Europa e con il mercato
globale che la circonda.
109
NEOIMPRENDITORIALITÀ
Tab. 1 – Tassi di natalità (N), mortalità (M) e sviluppo (S) delle imprese al netto del settore agricolo per regione, 1995-1997*
1995
1996
1997
Regioni
N
M
S
N
M
S
N
M
S
Piemonte
17,6
16,2
1,3
14,2
7,9
6,3
8,1
8,5
-0,5
Valle d'Aosta
7,8
6,5
1,3
8,7
6,6
2,1
7,4
6,4
1,0
Lombardia
7,3
6,5
0,8
7,6
6,5
1,1
7,1
6,6
0,5
Trentino-A. A.
6,7
5,5
1,2
7,1
5,2
1,9
6,8
5,7
1,1
Bolzano
6,4
5,2
1,3
7,4
4,9
2,4
7,0
5,3
1,7
Trento
7,0
5,8
1,2
6,8
5,5
1,4
6,6
6,1
0,5
Veneto
8,1
6,2
1,9
8,0
6,6
1,5
7,8
6,9
0,9
Friuli-Ven. Giulia
7,7
7,0
0,7
7,6
6,9
0,7
7,4
7,3
0,1
Liguria
8,2
6,8
1,4
9,4
7,1
2,3
7,9
7,3
0,6
Emilia-Romagna
8,1
6,7
1,3
8,7
7,0
1,7
7,8
7,1
0,6
10,1
9,1
1,0
9,6
6,9
2,6
7,5
7,2
0,3
7,9
6,4
1,5
8,2
6,7
1,5
7,7
7,0
0,7
Nord Ovest
Nord Est
Centro
13,0
11,8
1,3
7,2
6,3
0,9
7,0
6,5
0,5
Sud-Isole
7,9
6,5
1,4
6,9
5,2
1,7
7,7
6,2
1,5
Italia
9,7
8,4
1,3
8,0
6,2
1,8
7,5
6,7
0,8
I tassi di natalità, mortalità e sviluppo sono calcolati rapportando iscrizioni, cancellazioni e il
saldo tra iscrizioni e cancellazioni al totale delle imprese registrate. Le imprese sono computate al netto di quelle del settore agricolo interessate dai nuovi criteri di iscrizione.
Fonte: rielaborazione da Censis su dati Infocamere (1997, 31° Rapporto; 1998, 32° Rapporto)
Tab. 2 – Distribuzione delle imprese attive per settore e regione al 31/12/1997 (val. %)
Regioni
A**
E M*
C*
S*
NC*
Tot
Piemonte
21,4
13,3
11,8
52,4
1,1
100,0
Valle d'Aosta
26,9
8,8
15,9
46,4
1,9
100,0
Lombardia
9,7
18,4
13,0
58,4
0,6
100,0
Trentino-A. A.
36,1
10,3
10,2
42,5
0,8
100,0
Bolzano
37,1
10,5
8,8
43,0
0,5
100,0
Trento
35,0
10,2
11,7
42,0
1,2
100,0
Veneto
28,5
15,7
10,9
44,4
0,5
100,0
Friuli-Venezia Giulia
28,8
12,9
10,5
47,6
0,1
100,0
Liguria
14,0
10,9
12,9
61,8
0,5
100,0
Emilia-Romagna
24,6
14,6
11,0
49,6
0,2
100,0
13,9
15,9
12,7
56,7
0,7
100,0
Nord Ovest
Nord Est
27,7
14,5
10,8
46,5
0,4
100,0
Centro
20,8
14,7
11,3
52,6
0,6
100,0
Sud-Isole
30,5
10,4
10,1
47,9
1,0
100,0
Italia
23,7
13,6
11,2
50,8
0,7
100,0
* A= agricoltura, caccia, foreste, pesca; EM= energia, estrazioni e manifatturiere; C= costruzioni; S= servizi
** I dati del settore agricolo risentono dei nuovi criteri di registrazione camerali.
Fonte: rielaborazione da Censis su dati Infocamere (1998, 32° Rapporto)
110
NEOIMPRENDITORIALITÀ
Tab. 3 – Imprese attive per 1.000 abitanti, 1996-1998
Imprese attive per 1.000 abitanti
Regioni
1996
al 30-6-97 (a)
1997 al 30-6-97 (b) *
Piemonte
80,8
90,4
90,4
90,8
Valle d'Aosta
83,2
109,6
109,2
107,9
Lombardia
73,8
80,0
79,8
79,4
Trentino-Alto Adige
73,4
105,3
104,9
105,2
Bolzano
74,6
119,8
111,7
112,7
Trento
72,2
106,7
98,2
97,9
Veneto
77,4
98,6
98,9
99,5
Friuli-Venezia Giulia
74,9
90,5
89,0
88,2
Liguria
70,8
80,0
80,6
80,5
Emilia-Romagna
80,7
102,9
102,5
101,5
Nord-Ovest
75,5
83,2
83,2
83,0
Nord-Est
78,0
99,9
99,7
99,5
Centro
65,4
77,8
77,9
78,1
Sud e isole
54,1
71,2
73,7
74,7
Italia
66,3
80,9
81,7
82,0
* Calcolata sulla popolazione residente al 28 febbraio 1998.
Fonte: rielaborazione da Censis su dati Infocamere, Istat (1998, 32° Rapporto)
(b) - (a)
0,4
-1,7
-0,6
-0,1
-7,1
-8,8
1,0
-2,3
0,5
-1,4
-0,2
-0,4
0,3
3,4
1,2
Tab. 4 – Struttura per classi dimensionali delle imprese private del settore non primario, 1996
Austria
Belgio
Danimarca
Finlandia
Francia
Germania
Grecia
Irlanda
Italia
Lussemburgo
Olanda
Portogallo
Spagna
Svezia
Regno Unito
EU
Islanda
Liechtenstein
Norvegia
Svizzera
non-EU
Europa-19
Imprese Dimensione
Classe di(*1000) media d’impre- mensionale
sa (n. add.)
dominante *
220
11
SME
800
5
Very small
230
7
SME
205
5
LSE
2085
7
LSE
3440
8
LSE
580
3
Very small
80
11
LSE
3345
4 Very small
15
12
SME
530
10
LSE
690
4
SME
2335
5
Very small
285
7
LSE
3760
5
LSE
18590
6
LSE
25
3
SME
3
6
Very small
185
6
SME
245
10
SME
460
8
SME
19050
6
LSE
Produttività relati- Redditività relava del lavoro **
tiva ***
SME
LSE
SME
LSE
83
130
0
0
82
148
0
0
84
138
-4
5
79
126
-87
69
79
141
-8
8
103
95
-7
11
78
181
17
-27
68
131
1
0
79
184
-3
4
98
104
2
-4
85
124
-3
3
69
217
-23
28
66
230
-10
11
82
126
-5
5
87
120
-3
3
84
130
-6
7
109
69
-14
72
89
133
0
0
79
151
-14
18
83
135
-2
3
83
139
-7
9
84
131
-6
7
Un paese si definisce very small, SME (small and medium-sized) o LSE (large scale enterprises) se rispettivamente le imprese di piccola o media o larga scala possiedono la quota più larga sul totale degli occupati. ** La produttività del lavoro (valore aggiunto per soggetto occupato) è intesa come percentuale della
media del paese. *** Differenza tra valore aggiunto e costo del lavoro (includendo i salari imputati al lavoro proprio) intesa come percentuale del valore aggiunto; risultato per classi dimensionali comparato con la
media del paese.
Fonte: Stima dell’EIM Small Business Research and Consultancy; adattato dall'Eurostat/DG
XXIII: Enterprises in Europe, Fifth Report, Brussels/Luxembourg(97).
111
NEOIMPRENDITORIALITÀ
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112
INDUSTRIA SETTENTRIONALE:
I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI
TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
Giuseppe Russo* e Giampaolo Vitali**
LE SPECIALIZZAZIONI DELL’INDUSTRIA ITALIANA NEL CONTESTO INTERNAZIONALE – L’INDUSTRIA
“TRADIZIONALE” NEL NORD ITALIA: ALCUNE SPECIALIZZAZIONI SETTORIALI – L’EVOLUZIONE DI
LUNGO PERIODO DELLA OCCUPAZIONE INDUSTRIALE NEL NORD ITALIA (1951-91) – LA RIDUZIONE
DI OCCUPATI MANIFATTURIERI NELL’ITALIA DEL NORD: DEINDUSTRIALIZZAZIONE O
RIORGANIZZAZIONE DELLE FASI PRODUTTIVE? – IL RUOLO DELLE DIMENSIONI D’IMPRESA
NELL’INFLUENZARE LA COMPETITIVITÀ INDUSTRIALE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE – LA
CREAZIONE DEL VALORE NELLE REALTÀ AZIENDALI DEL NORD ITALIA – L’ORGANIZZAZIONE
PRODUTTIVA DEL SISTEMA INDUSTRIALE DEL NORD ITALIA – I SEGNALI POSITIVI NEL CONTESTO DI
MAGGIORI RISCHI E OPPORTUNITÀ – BIBLIOGRAFIA
LE SPECIALIZZAZIONI DELL’INDUSTRIA ITALIANA NEL
CONTESTO INTERNAZIONALE
Quali sono i tratti caratteristici dell’industria italiana? Le sue specializzazioni
settoriali sono sufficienti a garantirne la competitività nel contesto europeo?
E se no, su quali altri vantaggi competitivi essa può contare? Intanto, è bene
chiarire perché affrontiamo l’argomento del futuro dell’industria settentrionale partendo da alcune considerazioni sul complesso dell’industria nazionale.
Per opportunità, innanzi tutto, poiché la mole di informazioni sulle industrie
nazionali europee è assolutamente maggiore rispetto alle informazioni sui
settori regionali. Ma anche perché per approssimazione poi non eccessiva, il
cuore dell’industria nazionale sta nell’Italia centro-settentrionale (79,9 per
cento degli addetti nazionali). La maggior concentrazione industriale si trova
nel Nord Ovest, che con il 26 per cento della popolazione occupa il 37 per
cento degli addetti industriali, seguito dal Nord Est, che dà lavoro a un ulteriore 24 per cento degli occupati del settore secondario (contenendo una popolazione pari al 18 per cento del complesso nazionale).
Avvertiamo poi che in questo paragrafo ci comporteremo con trasparenza
nell’esposizione dei dati, ma non cureremo, per mancanza di spazio in questo
primo lavoro, tutti gli aspetti caratteristici dell’industria italiana. In altri termini, vogliamo darne acquisiti e scontati i punti di forza, in prevalenza risiedenti nel modello organizzativo, settorial-territoriale dei “distretti industriali”, più volte guardato come un esempio da imitare. Pure apprezzandone il
valore, temiamo che nel tempo questo modello sia andato sovraccaricandosi
di aspettative, sia da parte degli operatori, sia soprattutto dai decisori di politica economica. Noi nutriamo il dubbio che i vantaggi competitivi scaturenti
dalle specializzazioni distrettuali possano – da soli – rimediare agli svantaggi
e alle debolezze eventualmente emergenti in altri campi.
UNA SCARSA DINAMICA
DELLA PRODUZIONE
INDUSTRIALE ITALIANA
NEGLI ULTIMI 5 ANNI
A prova di questo argomento vi è l’evidenza dei dati. Abbiamo messo a confronto le variazioni percentuali osservate dagli indici della produzione industriale dei maggiori paesi industrializzati (Unione Europea, Stati Uniti e Canada) tra il 1993 e il 1998, ossia nell’ultimo quinquennio. La fonte dei dati è
Eurostat. La scelta del periodo non è stata casuale. Nel 1993 l’Italia usciva
*
Centro “Luigi Einaudi”, Torino
Ceris-Cnr, Torino
**
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
dalla crisi della lira del 1992, la svalutazione ripristinava un valore della nostra divisa coerente con le parità dei poteri di acquisto e si compensava lo
svantaggio competitivo che, negli ultimi anni, aveva penalizzato la produzione interna. Ebbene, tra il 1993 e il 1998, nonostante il recupero di competitività di prezzo del “made in Italy”, la produzione industriale italiana ha fatto
segnare la variazione percentuale più bassa in Europa. Il nostro +13 per cento
è in “buona compagnia”, se si considera che né il Regno Unito, né l’Olanda
avrebbero saputo fare meglio. Ma trascuriamo il fatto che nel Regno Unito si
è avuto una parallela crescita del comparto dei servizi, e che anche l’Olanda
ha puntato sui servizi e sulla esportazione del suo modello d’impresa. Le
multinazionali olandesi sono state nell’ultimo decennio, particolarmente nei
servizi, i veri modelli da imitare. In Italia l’industria ha segnato il passo senza
che i servizi andassero oltre un semplice consolidamento. Come dire che
“abbiamo fatto il compitino” richiesto dall’Unione europea, ma abbiamo osato poco o nulla di più.
Fig. 1 – Produzione industriale nei principali paesi industrializzati (variazione 1983-93)
Produzione industriale (var. % 1993-'1998)
120,0
100,0
104
80,0
60,0
40,0
48
20,0
0,0
13
13
13
14
15
16
PT
FR
16
17
17
18
BE
GR
EF
MU
21
23
26
27
29
49
31
0
JP
NL
IT
UK
DE
LU
AT
US
DK
NO
ES
S1
SE
FI
IR
Fonte: Eurostat
Le ragioni dello scarso dinamismo dell’industria nazionale sono diverse: ma
prima di chiamare in causa complicati concetti organizzativi e i limiti del nostro capitalismo, per decenni incline, e in parte obbligato, a schivare la concorrenza del mercato internazionale dei capitali, piuttosto che a misurarsi con
essa, possiamo incominciare a riflettere sulle nostre specializzazioni settoriali. Si tratta di specializzazioni tradizionali, che, purtroppo, non hanno saputo
rinnovarsi.
114
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
LE SPECIALIZZAZIONI
DELL’INDUSTRIA
ITALIANA
SU TUTTI:
PELLE, CUOIO,
CALZATURE, TESSILI
E ABBIGLIAMENTO
PRODOTTI IN
METALLO,
MECCANICA E BENI
STRUMENTALI:
SPECIALIZZATI, MA IN
BUONA COMPAGNIA
IL SETTORE DEI
MOBILI: IL PESO
DELLO STILE
LA RITIRATA DELLA
CHIMICA E
DELL’ELETTRONICA
Il front end dell’industria italiana, quella che si trova ogni giorno a sostenere
una concorrenza continentale e globale sempre più agguerrita, è caratterizzato
da un’ampia presenza di prodotti e produttori tradizionali, da una limitata
quota, pur crescente, di beni ad alta tecnologia, da una ridotta presenza, nonché stabile, di prodotti e produttori che impiegano un contenuto input di capitale. Attingiamo l’evidenza per sostenere queste affermazioni dalle fonti internazionali.
Gli indici di specializzazione della tabella 1 parlano chiaro. Quelli italiani
superano il valore di equilibrio di 100 (ossia il valore che indica una presenza
settoriale omogenea con la media dei paesi appartenenti all’Ocse) nei settori
della pelle, del cuoio, delle calzature, nei settori tessile e dell’abbigliamento.
In questi stessi settori la presenza industriale di paesi come la Germania e il
Regno Unito è specularmente più bassa, con indici di specializzazione inferiori al livello di equilibrio.
L’Italia mostra poi una specializzazione nell’industria dei prodotti in metallo,
della meccanica non elettrica ed elettrica, in quella dei beni strumentali. Il
che sarebbe un punto di forza del sistema industriale italiano, dato che questi
settori sono tradizionalmente fortemente esportatori, se non fosse che il nostro indice di specializzazione di 143 è tallonato dal 134 della Germania, dal
130 dell’Austria, dal 129 finlandese e superato dal 145 danese. Il che riporta
“la palla al centro”, e fa vedere come alcuni dei ricorrenti punti di forza nazionali non sono che situazioni di parità, non appena si restringa il confronto
ai paesi di punta tra quelli concorrenti. Inoltre, non si deve dimenticare che
anche il Giappone ha un coefficiente di specializzazione elevato nei beni
strumentali (117), avendo in termini di volumi una “bocca di fuoco”, ossia
una capacità produttiva che da sola sfiora la metà di quella dell’intera Unione
Europea. Il mercato mondiale dei beni strumentali, necessariamente in crescita con lo sviluppo mondiale, incomincia poi ad attrarre i migliori tra i paesi
emergenti. Come la Corea del sud, che sembra seguire da vicino il pattern di
sviluppo settoriale nipponico, e si appresta a divenire un concorrente agguerrito nelle macchine utensili, come è già nel campo automobilistico.
L’ultimo dei settori dove la specializzazione italiana è significativamente superiore a quella media nei paesi Ocse è quello dei mobili, il che in parte ci
accomuna ad alcuni paesi avvantaggiati per l’ampia disponibilità di legname
(Finlandia e Svezia, in primis), e in parte ci vede apparentati agli ultimi paesi
entrati a fare parte dell’Unione Europea (Spagna e Portogallo), nei confronti
dei quali il vantaggio competitivo italiano risiede nell’elemento aggiuntivo
stilistico, il che vale non per tutto il mercato dell’arredamento, ma per la fascia alta del mercato. Tuttavia, nonostante l’indubbia buona salute del settore
del legno, anche recentemente confermata nelle statistiche nazionali, difficilmente l’arredamento potrebbe fornire quello slancio di creazione di posti
di lavoro ben remunerati cui la nostra economia aspirerebbe. Per questi ultimi
bisogna rivolgersi, come è noto, ai settori a maggiore intensità di capitale, di
innovazione, di lavoro qualificato, ma in questi settori la presenza italiana è
sotto la media Ocse.
I coefficienti di specializzazione rivelano, per esempio, che siamo sottopesati (98,5) nella chimica, che lasciamo nelle mani dei francesi (133), dei
belgi (126), degli olandesi (159), dei tedeschi (108), dei britannici (127).
Siamo poco presenti nell’elettronica da ufficio (90,8). La riconversione del
115
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
distretto di Ivrea dall’elettronica alle telecomunicazioni evidenzia una storia
di successo solo a metà, poiché le telecomunicazioni emergenti sono nate
sull’appassimento di un intero distretto dove nella metà degli anni Ottanta si
concepivano e producevano personal computer di livello tecnologico pari allo “stato dell’arte” mondiale. L’uscita italiana dalla chimica e dall’elettronica
sono storie parallele che si associano strettamente alle vicissitudini di due
delle maggiori imprese italiane (Montedison e Olivetti1), e che fanno riflettere come per decenni la storia industriale d’Italia sia stata legata alla storia di
pochi soggetti. Sotto questo profilo, la vicenda dei distretti, cresciuti al di
fuori della logica dei maggiori gruppi italiani, è senza dubbio una storia da
sottolineare positivamente, non solo per aver saputo inventare e vendere prodotti e creare lavoro anche quando le maggiori imprese ristrutturavano o
chiudevano, ma anche per averlo saputo fare con tutte le limitazioni e i razionamenti, particolarmente del capitale finanziario, che hanno caratterizzato lo
sviluppo delle Pmi italiane negli anni passati. Ovvio, peraltro, che in queste
condizioni non si potesse attendere che le imprese dei distretti si specializzassero pure nelle produzioni che richiedevano intensità di capitali, intensità di
ricerca, o fattori di scala significativi.
AUTO, BIOMEDICA E
STRUMENTI DI
PRECISIONE: UNA
SPECIALIZZAZIONE
INFERIORE ALLA
MEDIA OCSE
Un settore nel quale l’industria nazionale è nuovamente sotto-pesata è, quasi
a sorpresa, quello automobilistico, ossia un campo di tradizionale vocazione
storica (e sportiva) dell’industria nazionale. In Italia si producono appena 1,3
milioni di vetture all’anno, contro gli 1,8 milioni del Regno Unito, i 2,1 milioni della Spagna, i 2,6 della Francia, e i 5,2 milioni delle autovetture prodotte in Germania.
Infine, pesa, tra i fattori di debolezza, la pallidissima presenza italiana nel
campo degli strumenti di precisione e delle tecnologie biomedicali: il relativo
indice di specializzazione è 51,6, contro il 90,8 del Regno Unito, il 102 della
Germania, il 154 degli Usa.
1
La rapidità della crisi dell’Olivetti è impressionante, quanto quella del suo primo successo e
dell’esito positivo della sua riconversione. Una riconversione che segna però anche l’uscita
italiana dal settore dei computer. Nel 1987 l’impresa era ancora fortemente in crescita e attiva
nei merger internazionali: l’azienda era protagonista di joint ventures (JV) con società del rango di Eds (USA), Seat (I), Microsoft (USA), acquistava partecipazioni rilevanti o di controllo
in Ibimaint, in Systema (I), Olamtel (SP, telecomunicazioni), Logos (I). Nel settembre del 1988
si riorganizza in quattro divisioni, e quasi contemporaneamente annuncia di varare una strategia di espansione nelle comunicazioni cellulari insieme a Cellular Communication e Shearson
Lehman. Nel 1989 annuncia nuove JV e si lancia in operazioni diversificate internazionalmente, riacquista la quota di ATT, ma annuncia anche la chiusura di Hermes. Il 1990 è il primo anno del deterioramento. Pochi annunci nella prima parte dell’anno, ma verso la fine ci sono le
dimissioni “per divergenze” di Tatò (AD di Olivetti Office) e l’annuncio del taglio di 7000 posti (4000 riguardano l’Italia). Nel 1991 cede Olinet a France Telecom. Alla fine dell’anno Carlo De Benedetti assume tutte le deleghe e concentra i poteri gestionali. Sono previsti 2500 tagli
nel 1992. Corrado Passera affianca C. De Benedetti. Tra il ‘93 e il ‘94 la società cede il controllo di Teknecomp, di Radiocor, di Triumph Adler. Nel 1995, anno di nascita di Infostrada,
Olivetti chiede denaro fresco al mercato e annuncia altri 5000 tagli. La strategia di riconversione nel settore delle telecomunicazioni è decisa, ma i business in perdita, come quello dei
PC, pesano quasi insostenibilmente sui conti. La situazione precipita nel 1996, quando De Benedetti è costretto a cedere tutte le cariche. La società “consuma” due AD prima di finire nelle
mani di Colaninno. Le cessioni non sono terminate. Omnitel, appena nata, è parzialmente ceduta a Mannesmann. France Telecom entra in Infostrada. Le attività informatiche sono cedute
a Wang e quelle nei PC a una nuova società (Piedmont), che tuttavia al 1999 non ha ancora
risalito la china. Le telecomunicazioni dell’Olivetti producono utili, e la società – alleggerita
dei rami in perdita – è nuovamente in nero prima di ogni favorevole previsione, tanto da lanciarsi, attraverso la controllata Tecnost, nell’Opa vittoriosa su Telecom. Dell’originaria vocazione nell’industria dei computer non c’è quasi più traccia, consumata in meno di dieci anni.
116
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
UNA VISIONE
DINAMICA DELLE
SPECIALIZZAZIONI
DELL'INDUSTRIA
ITALIANA
ALCUNE IPOTESI
INTERPRETATIVE
Se si passa dalla fotografia delle specializzazioni, che evidenziano una struttura che potremmo definire come molto tradizionale, alla visione dinamica
dei fenomeni descritti, sia pure con un certo grado di aggregazione delle variabili, ecco emergere un quadro in movimento non così rassicurante:
• la presenza relativa di imprese ad alta intensità di capitale è andata costantemente diminuendo fin dai primi anni Novanta. Le imprese capital
intensive, rappresentano il 27 per cento del totale, secondo l’Eurostat, 8
punti in meno del Regno Unito, 10 in meno rispetto alla Germania e 5 in
meno rispetto ai valori italiani di dieci anni fa, rispetto ai quali siamo in
regresso;
• l’high tech in Italia è andato crescendo in dieci anni dal 7 al 9,5 per cento
dell’industria, ma il peso di quello francese è dell’11,5 e di quello britannico è del 12,5 per cento;
• i flussi di investimenti diretti all’estero e dall’estero sono particolarmente
modesti. Nei primi ci superano la Germania e la Francia, che fin dal 1994
hanno dimostrato una maggiore comprensione della incombente realtà di
un mercato europeo più grande, nel quale occorreva che le industrie nazionali più competitive si muovessero in anticipo per conquistare le posizioni. Non siamo però neppure particolarmente attraenti come “piattaforme di atterraggio” di investimenti dall’estero, i quali sembrano
preferire la Spagna e il Regno Unito.
Tutto questo suggerisce alcune riflessioni, che riprenderemo dopo avere esaminato in maggiore dettaglio l’industria del Nord Italia. Per il momento ci
sembra di potere avanzare le seguenti ipotesi:
a) non vi è stato un radicale cambiamento delle specializzazioni
dell’industria italiana in accordo con la domanda mondiale di prodotti e
servizi a forte contenuto tecnologico e innovativo, in grado di remunerare
con un premio di prezzo i fattori che li producono;
b) il mantenimento delle specializzazioni tradizionali è stato realizzato pagandone il costo in termini di “dimagrimenti produttivi e occupazionali”,
piuttosto sensibili, non compensati da una pari crescita di settori e vocazioni nuove;
c) il fenomeno dei “distretti” ci pare un eccellente esempio di “adattamento”
imprenditoriale e territoriale a una serie di vincoli del sistema, e in particolare al “razionamento finanziario” delle Pmi, alla carenza di intermediari di capitale di rischio, alla dotazione limitata di risorse umane ad elevata
formazione (certi livelli di competenze sono infatti più semplici da mantenere all’interno di un distretto, anche senza percorsi formativi ad hoc);
d) il fenomeno dei distretti, tuttavia, non sarebbe in grado di svolgere tutte le
funzioni dell’innovazione. In particolare, l’innovazione dei distretti è incrementale, e la nascita di nuove vocazioni è improbabile, se non
nell’intorno di quelle esistenti. Una strategia di migrazione settoriale verso
campi nuovi, come quello della multimedialità o dell’Internet business,
difficilmente può nascere dai distretti storici d’Italia. Allo stesso modo, i
distretti di Pmi possono supplire alle strozzature dimensionali quando si
tratti di produrre, ma non quando si tratti di “concepire e realizzare strategie di crescita a scala globale”. Il limitato numero dei global player italiani, e il loro concentrarsi, nello scorso decennio, nelle strategie di sopravvivenza anziché in quelle di espansione, è responsabile dello scarso peso
del capitalismo italiano nel capitalismo europeo e mondiale.
117
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
L’INDUSTRIA “TRADIZIONALE” NEL NORD ITALIA:
ALCUNE SPECIALIZZAZIONI SETTORIALI
IL PESO DEL “MADE
IN ITALY” …
… IN UN’ANALISI DI
LUNGO PERIODO
GLI ALIMENTARI E
LE BEVANDE
LA FILIERA DELLA
MODA
Per mettere in luce le peculiarità del sistema industriale del Nord Italia si è in
primo luogo esaminato il ruolo del comparto “tradizionale”, definito come il
macro-settore che comprende al suo interno le industrie tipiche del cosiddetto
“made in Italy”, e cioè quelle industrie in cui le imprese italiane hanno mostrato, fino a oggi, un elevato vantaggio competitivo a livello internazionale.
Tali industrie sono quelle in cui si sono specializzati i distretti del Nord Italia:
il tessile, con Biella e Como; l’abbigliamento, con Carpi, Castelgoffredo, la
Lomellina, l’Oltrepo’ Mantovano; le calzature, con Vigevano, Montebelluna,
la Riviera del Brenta, San Mauro Pascoli; l’alimentare, con San Daniele,
Parma, Alba, Modena; il legno e il mobilio, con l’Alto Livenza, Forlì, Saluzzo, Cantù; la lavorazione dei minerali non metalliferi, con Sassuolo, Castellamonte, la Valpolicella, Murano, Possagno, la Val di Cembra, Val Fontana
Buona; il comparto residuale delle “altre industrie manifatturiere”, che comprende anche i giocattoli (Canneto sull’Oglio), i pennarelli (Settimo Torinese), i gioielli (Valenza Po e Vicenza).
Per sottolineare il carattere strutturale dell’analisi, distinguendolo
dall’approccio “congiunturale”, si è deciso di usare dati di lungo periodo,
grazie alla recente pubblicazione di statistiche omogenee dei censimenti industriali che coprono il periodo 1951-1991, nonchè al loro aggiornamento
tramite il censimento intermedio del 1996. Alcuni dati derivati dalle rilevazioni dell’Istat relative ai conti economici regionali, completeranno la fonte
delle nostre informazioni.
Si esamini il peso di ciascun settore del “made in Italy” nell’Italia del Nord:
• la tabella 2 mostra come gli alimentari e le bevande rappresentino l’8%
dell’occupazione manifatturiera al 1996. Si tratta di un settore nel quale il
vantaggio competitivo si è tradizionalmente basato su fattori non di prezzo, come la qualità e la pubblicità, ed in cui le imprese italiane hanno la
possibilità di vincere la concorrenza internazionale nonostante le loro ridotte dimensioni. Ed è proprio a causa di tali ridotte dimensioni che le
imprese leader italiane sono persino rimaste “vittime del proprio successo”, nel senso che buone parte di esse sono state acquisite dalle grandi
multinazionali estere in virtù della loro elevata visibilità e potenzialità di
crescita. I casi di Galbani, comprata dalla francese Danone, Martini &
Rossi, acquisita dalla Bacardi, Cinzano, appartenente al gruppo Remy
Martin, Buitoni, entrata nel gruppo Nestlè, sono solo alcuni degli innumerevoli esempi di imprese dell’Italia settentrionale che hanno potuto
crescere grazie all’utilizzo delle risorse finanziarie, e distributive, dei
grandi gruppi internazionali;
• la filiera della moda, con i comparti del tessile, abbigliamento, calzature e
pelli-cuoio, rappresenta un altro tipico settore dell’Italia settentrionale,
essendo il suo peso in termini occupazionali pari al 16% del sistema industriale del 1996 (vedi tabella 2). Nel settore della moda i vantaggi per
l’impresa settentrionale sono legati alle innovazioni organizzative, cioè
all’uso del decentramento produttivo nazionale o internazionale, più che
alle innovazioni tecnologiche. Anche questo settore, come il precedente,
è fortemente polarizzato tra pochi grandi leader, che hanno comunque
una dimensione relativamente piccola se confrontata con quella media
europea, e tantissimi piccoli imprenditori, che in buona parte non possie-
118
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
L’INDUSTRIA DEI
•
MOBILI E DELLA
LAVORAZIONE DEL
LEGNO
I MINERALI NON
•
METALLIFERI
LE ALTRE
INDUSTRIE
MANIFATTURIERE
UNA STRETTA
INTERDIPENDENZA
TRA IL “MADE IN
ITALY” E IL
COMPARTO DEI
MACCHINARI
INDUSTRIALI
•
dono un marchio proprio e producono per le grandi firme. La filiera della
moda è il tipico comparto che trae rilevanti vantaggi dalle economie esterne presenti nei distretti italiani (Ceris-Cnr, 1997);
come il caso precedente, anche l’industria dei mobili e della lavorazione
del legno ha una lontana e solida presenza nell’Italia del Nord grazie
all’accumulo di competenze originatesi sin dall’inizio della rivoluzione
industriale. Nell’attuale struttura industriale il settore del legno rappresenta quasi l’8% del totale manifatturiero e mostra una configurazione
produttiva basata sulla qualità della produzione finale; produzione che si
lega alle innovazioni dello stile, alla deverticalizzazione del ciclo produttivo per fasi di lavorazione (vedi il penultimo paragrafo di questa scheda), nonché all’introduzione di nuovi materiali di arredamento (è un tentativo, talvolta riuscito, di inserire innovazioni di prodotto);
i minerali non metalliferi rappresentano una nicchia di mercato in cui le
imprese settentrionali hanno accumulato una buona esperienza rivendibile a livello internazionale. All’interno di questo comparto, merita sottolineare il ruolo dell’industria della produzione di ceramiche, ove le esportazioni italiane rappresentano una rilevantissima quota delle esportazioni
mondiali. È altresì importante rilevare come il vantaggio competitivo in
tutto il settore non derivi tanto dalla presenza della materia prima in loco
(le cave pre-alpine di pietra o di granito), quanto dall’organizzazione
produttiva delle imprese italiane e dall’innovazione di prodotto tramite
gli strumenti della moda e del design;
nel comparto residuale delle altre industrie manifatturiere sono anche
presenti alcuni comparti tradizionali comunque importanti per l’Italia settentrionale: si tratta dell’industria dell’oreficeria e di quella dei giocattoli.
Soprattutto nel primo caso, il vantaggio competitivo deriva da fattori
non-price, quali la moda ed il design: anche in questo caso,
l’importazione di materie prime e la riesportazione di prodotti ad elevato
valore aggiunto sono la conferma del know-how posseduto dalle imprese
italiane.
In generale, merita poi sottolineare come il comparto tradizionale, qui esaminato nei suoi dettagli infra-settoriali, mostri uno stretto legame di interdipendenza con il comparto a medio-alta tecnologia dei macchinari industriali. Il
rapporto di interdipendenza si manifesta sia dal lato della elevata domanda
proveniente dagli utilizzatori di macchinari (le industrie tessili, alimentari,
del legno ecc.), sia dal lato dell’offerta dei produttori di macchine innovative
e ad alta produttività, che favorisce la competitività degli utilizzatori nazionali rispetto agli esteri. Tale interdipendenza è evidente anche a livello distrettuale, in quanto ovunque vi sia una leadership nei settori tradizionali si nota
una pari leadership internazionale nel corrispondente comparto dei macchinari: i produttori di macchine per gli alimentari e le bevande, di quelle per i tessili, di quelle per la lavorazione della pietra ecc. sono particolarmente presenti nelle regioni settentrionali, e proprio nelle aree distrettuali in cui si
concentrano le imprese del “made in Italy”. Tale fatto indica come siano positive le sinergie tra utilizzatori e produttori di macchinari in termini di efficienza d’impresa e di innovazione di prodotto.
119
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
L’EVOLUZIONE DI LUNGO PERIODO DELLA
OCCUPAZIONE INDUSTRIALE NEL NORD ITALIA (1951-91)
I SETTORI
TRADIZIONALI: UN
PESO STABILE
NELL’EVOLUZIONE
DELL’INDUSTRIA
MANIFATTURIERA
UNA DUPLICE
LETTURA
DELL’IMPORTANZA
DEI SETTORI
TRADIZIONALI DEL
NORD ITALIA
I dati Istat consentono di esaminare l’evoluzione del sistema industriale
dell’Italia del Nord nel corso degli ultimi 50 anni: la tabella 3 mostra come
dal 1951 al 1996 l’industria manifatturiera del Nord Italia sia cresciuta, da
2.464.000 occupati a 3.254.000, pur non mostrando un percorso di crescita
lineare. Infatti, dopo un crescita rapidissima dal 1951 al 1981, negli anni successivi si avverte un calo della presenza manifatturiera. Tale calo ha sollevato
un intenso dibattito sul futuro “industriale” del Nord Italia e sulla sua evoluzione verso le configurazioni tipiche dell’era post-industriale (vedi infra).
A questo riguardo è interessante sottolineare come l’andamento dei settori
tradizionali segua un percorso abbastanza simile all’evoluzione dell’industria
manifatturiera. Anche se dal 1951 al 1981 i settori tradizionali aumentano di
meno della crescita dell’intera industria manifatturiera e dal 1981 al 1996 il
loro calo è leggermente maggiore di quello che registra il manifatturiero nel
suo complesso (tabella 4), il loro peso si mantiene più o meno stabile negli
ultimi trent’anni (intorno al 39%).
Stesse affermazioni valgono per il peso dei settori tradizionali del Settentrione rispetto al sistema industriale nazionale: la tabella 5 indica che esso si
mantiene nell’intorno del 60%.
L’importanza che i settori tradizionali ancora possiedono in un’area ad alta
industrializzazione qual è il Nord Italia si presta a una duplice lettura: da un
lato, è un indice della difficoltà di emersione di imprese/settori innovativi,
dall’altro, rivela una non comune capacità dell’industria italiana di concepire
e applicare innovazioni di processo e organizzative cost reducing, che sono
comunque alla base della competitività di ogni sistema economico.
Per quanto riguarda la composizione interna al macro-comparto tradizionale,
non si segnalano rilevanti cambiamenti di peso nel corso del tempo.
Nell’Italia settentrionale, l’industria degli alimentari e delle bevande cresce
leggermente tra il 1961 ed il 1996; quella della moda stabilizza il proprio peso intorno al 16-18% del totale manifatturiero, dopo aver perso notevole importanza negli anni precedenti; il comparto dei mobili mantiene la buona posizione raggiunta nel 1981.
LA RIDUZIONE DI OCCUPATI MANIFATTURIERI
NELL’ITALIA DEL NORD: DEINDUSTRIALIZZAZIONE O
RIORGANIZZAZIONE DELLE FASI PRODUTTIVE?
IL PROCESSO DI
DEINDUSTRIALIZZAZIONE
Il forte calo mostrato dall’industria manifatturiera del Nord Italia nel suo
complesso tra il 1981 ed il 1996 è stato talvolta interpretato come
l’indicazione dell’esistenza di un processo di “deindustrializzazione”.
Dal punto di vista della teoria economica, con questo termine si intende il
processo di impoverimento continuo e irreversibile di un’area industrializzata
per quanto attiene l’ammontare della produzione industriale prodotta in loco
ed il numero di lavoratori occupati nelle imprese corrispondenti. Il termine
deindustrializzazione fu introdotto nella letteratura anglosassone negli anni
Sessanta, periodo di forte ristrutturazione e riconversione dell’industria inglese, anche se il vero e proprio periodo di deindustrializzazione il Regno Unito
lo visse più tardi, negli anni Settanta ed Ottanta, con il passaggio verso
l’economia finanziaria e dei servizi.
120
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
I DUBBI SULL’ATTUALE
IDENTITÀ
INDUSTRIALE DEL
NORD ITALIA
SPIEGAZIONI
“OTTIMISTICHE” DEL
CALO DI OCCUPAZIONE
MANIFATTURIERA
GLI EFFETTI DELLE
INNOVAZIONI
LABOUR SAVING
L’OUTSOURCING
DELLE FUNZIONI DI
SERVIZIO
DALL’IMPRESA
MANIFATTURIERA
Con riferimento al “caso Nord Italia”, nel corso degli anni Settanta si è parlato di deindustrializzazione soprattutto nelle regioni del Nord-Ovest – in Piemonte, Lombardia e Liguria – quando le pessime relazioni industriali di allora comportavano l’ingovernabilità dei maxi-sistemi produttivi che, associata
all’esplosione dei prezzi delle materie prime, ponevano seri dubbi sul modello di sviluppo del sistema industriale (Vitali, 1989). Recentemente, il termine
deindustrializzazione è stato anche utilizzato per descrivere l’evoluzione
dell’industria del Nord-Est (Benincasa, 1998).
Comunque, i dubbi sull’identità industriale dell’Italia settentrionale derivano
oggi dalla sua minore attrattività di iniziative industriali, nazionali o estere, e
dalla mancata sostituzione delle industrie rese obsolete dall’evoluzione tecnologica con le nuove industrie ad alto contenuto di ricerca e innovazione. Parziali conferme del processo di deindustrializzazione in atto nascono dalla
constatazione che le imprese “innovative” non vengono localizzate nell’Italia
del Nord-Ovest, ma in altre regioni europee, evidenziando un “deficit” di rigenerazione imprenditoriale dell’area da cui il mercato sta eliminando le produzioni obsolete.
È anche possibile, in un’ottica ottimistica, che il calo di occupati manifatturieri possa essere semplicemente l’effetto del progresso tecnologico laboursaving, che a parità di output prodotto necessita di minori input di forza lavoro, o dell’esternalizzazione delle attività di servizio precedentemente internalizzate dalla grande impresa manifatturiera2.
Nel primo caso, il cambiamento tecnologico ha favorito le innovazioni di
processo, aumentando eccezionalmente la produttività del fattore lavoro e
l’intensità di capitale nell’impresa: le innovazioni labour-saving introdotte
dagli anni Ottanta rendono strutturalmente in esubero la manodopera organizzata in schemi produttivi ormai superati dall’introduzione della lean production. La bassa presenza di innovazioni di prodotto non ha creato nuovi
mercati di sbocco sufficienti ad assorbire la perdita di occupazione generata
dagli incrementi di efficienza del sistema, favorendo quindi un saldo occupazionale negativo. La mancanza di nuovi business si è associata alla saturazione dei mercati tradizionali, la maggior parte dei quali sono ormai di “sostituzione” e non più di “primo acquisto”. Le nuove forme organizzative della
lean production, nate dall’unione dell’innovazione tecnologica e di quella organizzativa, richiedono personale più qualificato, ma in minor quantità rispetto alle strutture tradizionali (Gros-Pietro, 1994).
Nel secondo caso, a fronte di un’esternalizzazione delle funzioni di servizi
dall’impresa manifatturiera, si assiste anche ad un aumento della quantità di
servizi che la produzione manifatturiera stessa richiede. Il contenuto di servizi presente nel manufatto industriale tende ad aumentare per cause tanto esogene quanto endogene al sistema produttivo. Con le prime intendiamo la
maggiore complessità della società e del governo dei mercati che comporta
maggiori oneri burocratici e specialistici (ad esempio, per la politica fiscale,
ambientale, del lavoro ecc.). Con le seconde ci riferiamo alla necessità di dotare il prodotto manufatto di tutta una serie di elementi “immateriali” acquisibili solamente sul mercato del cosiddetto “terziario avanzato”: si tratta so2
È il fenomeno di outsourcing delle funzioni di servizi dall’impresa manifatturiera a favore di
imprese specializzate nella prestazione di tali servizi a prezzi inferiori.
121
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
prattutto di particolari servizi a supporto delle vendite e che generalmente
non possono essere prodotti all’interno dell’impresa, quali i servizi finanziari
per il credito al consumo, i servizi di manutenzione, di installazione e di assistenza post-vendita, le attività di pubblicità e di promozione ecc.
Il dibattito tra gli economisti è quindi aperto tra chi prevede la deindustrializzazione del Nord Italia, con un abbandono delle produzioni “tradizionali” e la
mancata nascita delle produzioni innovative, e tra chi prevede una sostanziale
tenuta delle produzioni manifatturiere e la maggiore importanza dei “servizi
avanzati” per il sistema manifatturiero stesso. Entrambe le interpretazioni sono però coerenti con gli effetti individuati nella tabella 3: una perdita di addetti nei settori tradizionali e nell’intero sistema industriale.
IL RUOLO DELLE DIMENSIONI D’IMPRESA
NELL’INFLUENZARE LA COMPETITIVITÀ INDUSTRIALE
DELL’ITALIA SETTENTRIONALE
L’evoluzione del numero delle unità produttive nel corso del tempo mostra
una sorta di ciclicità, tanto nell’industria manifatturiera settentrionale, che
nell’aggregato dei soli settori tradizionali (tabella 6). Il ciclo dal 1981 al
1996 è chiaramente basato sulla riduzione di tale numero, invertendo la tendenza precedente.
Il confronto tra l’evoluzione mostrata dagli addetti e quella assunta dalle unità locali utilizzate nella produzione si sintetizza nella dimensione media aziendale. Negli anni Novanta si arresta, in pratica, il trend di riduzione del
numero di addetti per unità produttiva, calo iniziato dal 1971 (tabella 7). Si
può pertanto affermare che il tasso di contrazione delle dimensioni medie si è
fortemente ridotto, anche se non si è ancora annullato.
Tale evoluzione è in parte il frutto delle modifiche organizzative introdotte
dalle imprese settentrionali.
ANNI SETTANTA E
OTTANTA:
IL VANTAGGIO
DELLA PICCOLA
DIMENSIONE
Merita infatti ricordare, come negli anni Settanta e in quelli Ottanta
l’adeguamento delle imprese alle incertezze dei mercati (di approvvigionamento e di sbocco) è reso difficile dalle forti rigidità che le organizzazioni
produttive di quel tempo possedevano (rigidità presenti non solo nell’utilizzo
della forza lavoro e del capitale investito, ma anche nei processi di decisione
aziendale). Per tali motivi all’inizio degli anni Ottanta le piccole dimensioni
si trovano notevolmente avvantaggiate rispetto alle grandi. In realtà, la migliore situazione economica delle piccole imprese è anche attribuibile allo
sfruttamento delle potenzialità insite nelle nuove tecnologie di produzione di
allora, come, ad esempio, i macchinari a controllo numerico. L’evoluzione
della tecnologia favorì una parallela evoluzione della divisione del lavoro:
anziché concentrare in un’unica impresa tutte le fasi di produzione (mantenendo quindi l’elevata integrazione verticale dei modelli produttivi degli anni
Sessanta e Settanta) fu possibile riorganizzare l’industria con specializzazioni
per fasi o parti produttive: ciascuna impresa, collegata in rete con il resto del
sistema, effettua una sola fase produttiva, la cui specializzazione consente la
riduzione dei costi (per la continua saturazione degli impianti), l’aumento
122
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
delle competenze (per l’apprendimento da accumulazione) e l’ampliamento
della clientela a tutte le imprese a valle di tale ciclo di lavorazione3.
ANNI NOVANTA:
LA RIVINCITA DELLE
ECONOMIE DI SCALA …
MA IN NUOVI AMBITI DI
APPLICAZIONE
L’EURO: UN VANTAGGIO
SOPRATTUTTO PER LA
GRANDE DIMENSIONE
D’IMPRESA
IN ITALIA PREVALE
LA PICCOLA
DIMENSIONE …
… MA OCCORRE TENERE
CONTO DELLA
DIFFUSIONE DEI GRUPPI
INDUSTRIALI
La rivincita ed il recupero della grande impresa avvengono negli anni Novanta grazie, nuovamente, all’evoluzione tecnologica. L’uso dell’informatica assume un aspetto sistemico con la sua estensione dall’area meramente produttiva a tutte le rimanenti funzioni aziendali, ottimizzando in tal modo non solo
la linea produttiva, ma anche tutto ciò che sta a monte e a valle di essa: i magazzini di entrata e uscita, la progettazione, i servizi alla clientela, la raccolta
degli ordini ecc. Solo la grande impresa può permettersi di effettuare gli elevati investimenti che le innovazioni di sistema comportano, talvolta aiutata in
ciò dai capitali freschi raccolti in borsa4.
Negli anni Novanta, il ritorno all’importanza delle economie di scala avviene
tuttavia in nuovi ambiti di applicazione: non più economie di scala tecniche,
che afferiscono all’ampiezza degli stabilimenti produttivi, ma soprattutto economie di scala economiche, finanziarie, distributive, tecnologiche, di
gamma prodotta.
In questo contesto di rinascita del vantaggio della grande impresa, le imprese
del Nord Italia registrano dimensioni nettamente inferiori ai concorrenti europei, sollevando alcuni dubbi sulla loro capacità di contenere la concorrenza
dei grandi gruppi internazionali.
Del resto, la realizzazione della moneta unica avvenuta nel 1999 è un ulteriore catalizzatore dello sviluppo della grande dimensione: i vantaggi di efficienza garantiti dai minori costi transazionali che la moneta unica consente
sono sfruttati soprattutto dalle grandi dimensioni che operano in tutto il mercato europeo come se si trattasse di un grande mercato domestico. Chi non ha
le dimensioni per fare ciò, cioè chi non possiede le adeguate risorse finanziarie e manageriali per gestire un’impresa in ambito europeo, non può sfruttare
i benefici dell’Unione Economica e Monetaria, subendone comunque la
maggiore concorrenza determinata dalla trasparenza dei prezzi.
Una recente pubblicazione Eurostat ha messo in luce che in Italia il 47,5 per
cento dell’occupazione totale è presente in imprese con meno di 10 dipendenti, contro una media comunitaria di 32,8 per cento. Ancora, le imprese con
10-49 dipendenti occupano il 21,4 per cento degli addetti contro una media
del 18,9 per cento nei quindici. Solo il 30,8 per cento degli addetti italiani è
occupato in imprese con almeno 50 dipendenti: la corrispondente percentuale
media europea è del 48,2 per cento.
A parziale temperamento di tale visione sostanzialmente pessimistica esiste
un’altra scuola di pensiero che vede la struttura dimensionale del sistema
produttivo influenzata anche, e forse soprattutto, dagli assetti proprietari tipici del Nord Italia: i lavori di Banca d’Italia (Barca, 1994) e del Mediocredito
Centrale (1997) indicano che la struttura del gruppo industriale è molto diffusa anche tra le piccole imprese, probabilmente per ragioni connesse agli oneri
fiscali, alla legislazione sul lavoro e a quella sui fallimenti d’impresa.
3
In molti casi l’ampliamento del mercato di riferimento avviene addirittura a livello internazionale, nella subfornitura dei grandi gruppi internazionali.
4
Il ricorso alla borsa da parte delle piccole imprese del Nord Italia è reso difficile anche dalla
particolare struttura proprietaria di tali imprese che, basate sul cosiddetto “capitalismo famigliare” accedono prevalentemente a capitali provenienti dalla “famiglia” (eventualmente allargata) e non da terzi “estranei”.
123
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
L’effetto di tali configurazioni proprietarie comporterebbe una sottostima statistica delle reali dimensioni medie del sistema industriale settentrionale, probabilmente maggiori di quanto le stime farebbero apparire.
LA CREAZIONE DEL VALORE NELLE REALTÀ AZIENDALI
DEL NORD ITALIA
IL “MADE IN ITALY”:
UN CRESCENTE
CONTRIBUTO ALLA
RICCHEZZA
NAZIONALE …
… GRAZIE A UN
PROFONDO
PROCESSO DI
RISTRUTTURAZIONE
… MA LE STRATEGIE
BASATE SUL
RECUPERO DI
EFFICIENZA NON
BASTANO PIÙ
I dati sul valore aggiunto regionale relativi al periodo 1980-96 indicano come
il Nord Italia abbia risentito della crisi congiunturale dei primi anni Ottanta in
misura maggiore rispetto al resto del paese, tant’è che il peso del valore aggiunto manifatturiero sul totale nazionale cala dal 68.3% del 1980 al 65.7%
del 1984 (tabella 8). Successivamente la dinamica del dato del Nord Italia
migliora e si mantiene nell’intorno del 67% rispetto al totale nazionale.
Se all’interno del manifatturiero si esaminano distintamente i settori tipici del
“made in Italy”, si nota come questi ultimi seguano un’evoluzione completamente diversa: non subiscono la crisi dei primi anni Ottanta e migliorano
continuamente il loro peso sul dato nazionale. Per esempio, il valore aggiunto
degli alimentari aumenta dal 61.6% del 1980 al 66.2% del 1996, quello del
tessile-abbigliamento dal 59.5% del 1980 al 67% del 1996.
Il miglioramento generalizzato del valore aggiunto prodotto da tali imprese
settentrionali negli anni Novanta è il frutto di un profondo processo di ristrutturazione che ha modificato la realtà imprenditoriale dell’Italia settentrionale
mediante innovazioni di processo e innovazioni organizzative.
Tra gli effetti della ristrutturazione merita sicuramente attenzione il tentativo
di usare meno, e di usare meglio, i fattori produttivi a disposizione. Tale tentativo è all’origine della minore remunerazione dei fattori produttivi interni, a
cui ha fatto seguito anche un minore utilizzo di essi (soprattutto per quanto
riguarda il fattore lavoro). Del resto, bisogna ricordare che questa strategia è
la più semplice e quella che si è dimostrata vincente nel passato, quando la
risposta alle crisi congiunturali veniva in primo luogo affrontata aumentando
la produttività dei fattori interni di produzione: grazie alle nuove tecnologie
che permettevano un rapido recupero dell’efficienza dei fattori, in termini di
maggiore produttività, le imprese delle industrie “tradizionali” riuscivano a
contrastare la concorrenza di prezzo proveniente dai paesi in via di sviluppo.
Purtroppo, tale strategia scricchiola se messa di fronte alle sfide future, in
quanto le profonde modifiche avvenute nel contesto competitivo europeo impongono di affiancare al recupero dell’efficienza anche un allargamento dei
mercati attuato mediante l’internazionalizzazione e l’innovazione tecnologica, soprattutto quella che si riferisce a nuovi prodotti.
Come peraltro si è discusso in altri contributi, è difficile che l’attuale contesto
industriale possa continuare a supportare la creazione di ricchezza nelle regioni settentrionali. È probabile che sia auspicabile un progressivo spostamento delle attività industriali verso i nuovi settori innovativi, al cui interno
dovranno nascere nuove imprese e opportunità di investimento dei capitali
locali.
124
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
L’ORGANIZZAZIONE PRODUTTIVA DEL SISTEMA
INDUSTRIALE DEL NORD ITALIA
L’evoluzione dell’organizzazione produttiva nell’ultimo decennio è stata in
gran parte determinata dalle varie forme di decentramento produttivo.
Poiché nei periodi in cui più è acuta la concorrenza tra gli operatori diviene
cruciale la scelta strategica tra l’operare all’interno dell’impresa (make) o
sfruttare l’attività dei fornitori (buy), si può ben comprendere l’importanza
che riveste il concetto del decentramento nelle decisioni aziendali degli anni
Novanta.
Il modello di crescita dell’impresa basato sull’esternalizzazione di parte della
produzione, all’interno di rapporti orizzontali definiti nelle “reti di imprese” e
di rapporti verticali che fanno capo alla cosiddetta “impresa-rete”, è stato
ampiamente studiato nella letteratura economica (Bramanti e Maggioni,
1997; Garofoli, 1994; Varaldo e Ferrucci, 1997), ed appartiene alla cronaca
consolidata industriale dell’Italia degli ultimi quindici anni.
L’EVOLUZIONE DEL
DECENTRAMENTO
PRODUTTIVO
… ANNI OTTANTA:
DAL CONTROLLO DELLA
FORZA LAVORO A
ESIGENZE DI ORDINE
STRUTTURALE E
CONGIUNTURALE
Per approfondire le caratteristiche del processo di decentramento della produzione occorre in primo luogo fare riferimento all’evoluzione della tecnologia
produttiva e alla diffusione dell’innovazione all’interno del sistema.
L’elaborazione dei dati Istat sull’innovazione tecnologica ha evidenziato come le imprese del Nord Italia rispondano alla recessione e all’evoluzione del
contesto competitivo utilizzando innovazioni di processo e di prodotto (vedi
la scheda sulla ricerca e sviluppo). In entrambi i casi, l’impresa innovativa
per ottenere un miglioramento della redditività, perseguito sia dal lato dei costi sia da quello dei prezzi, deve supportare l’innovazione di prodotto e/o di
processo con una parallela innovazione organizzativa.
La nuova organizzazione utilizza il decentramento produttivo nelle sue diverse forme di attuazione.
Se agli inizi degli anni Ottanta il decentramento è finalizzato al maggior controllo della forza lavoro, negli anni successivi esso risponde soprattutto a
problemi di ordine strutturale (ricerca di una più efficiente organizzazione aziendale) oltre che congiunturale (risposta alla elevata variabilità della domanda); la sua attuazione permette di rendere più flessibile l’utilizzo dei fattori produttivi, di ridurre i fabbisogni per gli investimenti, sia sotto forma di
capitale fisso che di capitale circolante, e di aumentare il grado di utilizzo
della capacità produttiva.
Merita ancora aggiungere alcune caratteristiche che qualificano meglio il
concetto di decentramento produttivo. Infatti questa forma organizzativa
permette di conseguire una maggiore flessibilità produttiva, concetto a sua
volta distinguibile in versatilità, cioè la capacità di lavorare contemporaneamente più prodotti appartenenti alla medesima famiglia, e in convertibilità,
ossia la possibilità di ampliare o sostituire la gamma dei prodotti lavorati. Entrambe le esigenze derivano dalla brevità del ciclo di vita dei prodotti: per recuperare i costi dei nuovi impianti occorre, da una parte, essere in grado di
modificare rapidamente la composizione della produzione per lavorare più
prodotti contemporaneamente (bisogno di versatilità), dall’altra, poter utilizzare i medesimi immobilizzi tecnici (con qualche piccolo investimento aggiuntivo) nel caso in cui si debba sostituire la gamma produttiva (bisogno di
convertibilità).
125
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
… ANNI NOVANTA:
IL DECENTRAMENTO SI
ESTENDE ALLA
PROGETTAZIONE E
ALLO SVILUPPO DEL
PRODOTTO
L’INTEGRAZIONE
MONETARIA IMPONE
NUOVI MODELLI DI
DECENTRAMENTO
Con gli anni Novanta si assiste ad un’evoluzione ed un ampliamento della
tradizionale forma di decentramento attuata dalle imprese settentrionali: soprattutto la grande impresa tenta di esternalizzare non solo le fasi di produzione ma anche quelle di progettazione e di sviluppo del prodotto (Calabrese,
1997). Si tratta di nuove configurazioni organizzative che legano più strettamente l’impresa terminale e i suoi fornitori: questi ultimi vengono coinvolti
nel ciclo produttivo fin dalla fase di progettazione, in modo da applicare fin
dall’inizio del ciclo le loro specifiche conoscenze. Ciò implica la presenza
nelle imprese fornitrici di conoscenze e capacità gestionali prima assenti, in
quanto non necessarie per lo svolgimento del compito produttivo. Stesse affermazioni riguardano gli investimenti per acquisire gli strumenti e i macchinari necessari a svolgere il nuovo ruolo, basti pensare ai sistemi Cad o alle
reti informatiche con cui dialogare con l’impresa terminale.
Tale modello ha favorito forti legami tra le imprese distrettuali del Nord Italia
e, solo in un secondo tempo, tra queste e le imprese del Mezzogiorno. Al
contrario, il modello non ha determinato la ricerca di partner internazionali, al
contrario di quanto successo nei rimanenti paesi europei. In questi ultimi, i
settori tradizionali sono stati progressivamente delocalizzati nei paesi in corso di industrializzazione, al fine di sfruttarne i minori costi produttivi. È
quindi molto probabile che con l’avvento della moneta unica, e quindi con
l’impossibilità di guadagnare competitività di prezzo tramite la svalutazione
della lira, il modello di decentramento utilizzato dalle imprese del Nord Italia
si modifichi sull’esempio dei modelli europei, sostituendo progressivamente
il contesto nazionale (e distrettuale) con quello internazionale. Le fasi dei
processi produttivi dei prodotti tradizionali destinate a restare in Italia saranno certamente quelle più ricche di valore aggiunto, ma alla questione occupazionale interna sarà sempre più difficile trovare risposte all’interno dei modelli di adattamento dei settori tradizionali. Occorrerebbe una proiezione
imprenditoriale “verso il nuovo”, che ancora ci pare lontana dal manifestarsi.
I SEGNALI POSITIVI NEL CONTESTO DI MAGGIORI
RISCHI E OPPORTUNITÀ
IL MODELLO
COMPETITIVO
DELL’INDUSTRIA DEL
NORD È A UN PUNTO DI
SVOLTA
Forte dell’aver fatto lavorare l’Italia, di avere esportato merci sufficienti a garantire l’approvvigionamento di importazioni e una solida posizione finanziaria verso l’estero, nondimeno il sistema industriale settentrionale è a un punto
di svolta.
Il nuovo contesto in cui esso si trova inserito mostra i limiti del modello di
adattamento dei decenni scorsi, basato sull’innovazione cost reducing nei settori tradizionali, associata allo sfruttamento delle esternalità distrettuali. In
zona grigia sono rimaste, però, l’innovazione di prodotto, la crescita dimensionale delle imprese, lo sviluppo di strategie di internazionalizzazione complesse, non più semplicemente basate sulle esportazioni, ma sulla crescita internazionale delle reti produttive e, forse più importanti ancora, delle reti
distributive.
Più innovazione, maggiore inserimento nei nuovi settori ad elevato valore
aggiunto, più crescita dimensionale e internazionale non si sarebbero probabilmente mai conseguite nel contesto istituzionale e di mercato precedente
all’integrazione monetaria europea. Il che supporta l’ipotesi che i “distretti”
126
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
L’INTEGRAZIONE
MONETARIA MODIFICA
GLI ORIZZONTI DI
RIFERIMENTO
ALCUNI
PROVVEDIMENTI
LEGISLATIVI
SEMBRANO
FAVORIRE NUOVE
DIREZIONI DI
SVILUPPO
abbiano costituito un modello adattivo di successo a un ambiente economico
di riferimento largamente imperfetto, rispetto all’ideale degli economisti.
L’Unione Monetaria mette a nudo le debolezze del sistema industriale
dell’Italia del Nord e dei suoi distretti. Ne restringe le già modeste dimensioni medie relative delle imprese, e le mette in concorrenza non solo con “i soliti” partner europei, ma soprattutto con l’industria extra-Ue, che punta sul
mercato europeo vedendovi, a ragione, non solo il maggiore mercato continentale integrato del globo, ma anche il mercato più agevole, dato il livello di
armonizzazione economica e di integrazione monetaria raggiunta tra le economie dei “quindici”.
Il legislatore europeo, consapevole di questa “messa a nudo” dei punti di debolezza che riguarda prevalentemente i paesi che avevano avuto mercati più
chiusi e protetti, ha però favorito l’adozione di numerosi provvedimenti legislativi che vanno nella direzione di risvegliare dal torpore gli animal spirits
del capitalismo mediterraneo. Alcuni esempi sono d’obbligo:
• nel mercato borsistico, Easdaq e soprattutto il “Nuovo mercato”, modellato sul modello del Neue Markt tedesco e del Noveau Marchè francese,
mettono finalmente fine in Italia al tradizionale razionamento delle Pmi
nel capitale di rischio, da destinare a progetti di crescita e sviluppo;
• sotto il profilo del capitale finanziario, non solo i fondi di investimento
esteri in capitale di rischio di Pmi sono più liberi di agire, data anche
l’assenza di un rischio di cambio all’interno dell’Unione, ma la legislazione italiana è stata aggiornata per permettere la nascita di tali soggetti
di diritto italiano, regolandone anche la capacità di raccolta di risparmio
sul mercato;
• la fine dei monopoli pubblici in settori come la telefonia e l’energia va
anch’essa salutata con favore, con effetti non solo sul benessere dei consumatore, ma anche effetti supply side. Infatti, è noto che uno degli effetti
negativi dei monopoli pubblici sull’innovazione di prodotto sia l’ostacolo
alla nascita di Pmi in settori innovativi, che il nuovo contesto legale dovrebbe invece, finalmente, favorire;
• il razionamento di risorse umane con preparazione tecnica dovrebbe
anch’esso essere sulla via di migliorare, grazie all’introduzione di un più
ampio ventaglio di titoli, corsi e indirizzi universitari (come i Diplomi) e
grazie all’autonomia delle Scuole e delle Università, più libere che in
passato di rispondere direttamente ai bisogni di preparazione al lavoro
emergenti dall’economia e dalla società;
• successivi interventi legislativi, infine, hanno ridotto la barriera di impermeabilità tra il mondo della ricerca e quello dell’impresa, favorendo
lo scambio di risorse umane, e per questa via oliando i canali e i meccanismi, fin qui assai imperfetti, del trasferimento dei risultati della ricerca
in innovazioni commercialmente sfruttabili;
• l’Euro ha portato in Italia la stabilità dei prezzi e i minori tassi di interesse degli ultimi venticinque anni;
• il contesto fiscale per le imprese è in miglioramento, in primo luogo perché la pressione fiscale ha cessato di crescere; in secondo luogo perché
l’introduzione dell’Irap, e la connessa ristrutturazione della fiscalità sulle
imprese, ha ridotto, sia pure di poco, il costo del lavoro e ha eliminato la
distorsione della preferenza fiscale per le (piccole) società di persone ri-
127
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
spetto alle (maggiori) società di capitali; in terzo luogo perché l’investimento nelle imprese è incentivato, anche se con misure “a termine”.
QUALCHE TIMIDO
SEGNALE POSITIVO
Non sappiamo ancora se e in che grado il nuovo contesto sia sufficiente a garantire che il sistema industriale settentrionale prenda gradualmente nuove
direzioni di sviluppo, aumentando la propria specializzazione nei nuovi settori e nell’hi-tech, favorendo l’aggregazione di imprese per creare soggetti capaci di competere nel contesto europeo e di proiettarsi al di fuori di esso.
Ci sembra, in linea generale, che dopo un periodo di inerzia durato dal 1996
al 1998, qualcosa si stia finalmente muovendo e che, sia pure con ritardo rispetto agli altri paesi5, le strategie dell’industria italiana vadano finalmente
nelle giuste direzioni. Nulla che possa essere rilevato dalle statistiche, per le
quali ci vorranno anni di dati e di verifiche empiriche. Ma da alcuni mesi gli
investimenti e le acquisizioni di imprese italiane all’estero si sono intensificate, così come la nascita di imprese in settori innovativi. Finalmente, poi, questi processi si intrecciano con la crescita, qualitativa e quantitativa, dei diversi
mercati di Borsa (tabella 9). Tutte ragioni per essere, se non tout-court ottimisti, almeno possibilisti sul fatto che, magari in ritardo, il sistema industriale
italiano e settentrionale non è più soltanto chiuso in difesa, ma sta incominciando ad approfittare delle opportunità emergenti. Nel mercato globale non
c’è spazio per una crescita senza assunzione di rischi: una lezione che va progressivamente appresa.
5
Nel mese di settembre 1999 risultava solo una società italiana quotata nel sistema EuroNuovo Mercato, contro le oltre 160 europee complessive.
128
Tab. 1 – Indici di specializzazione manifatturiera rispetto alla media dei paesi Ocse (1995)
129
Paesi
Belgio
Danimarca
Germania
Grecia
Spagna
Francia
Irlanda
Italia
Lussemburgo
Olanda
Austria
Portogallo
Finlandia
Svezia
Regno Unito
Norvegia
Svizzera
Turchia
Stati Uniti
Canada
Messico
Giappone
Australia
N. Zelanda
tessili
Abbipelli, legno e
gliament
cuoio, prodotti
o confe- concia, (eccetto
zioni calzature mobili)
carta e stampa combu- gomma e altri pro- metalli e macchi- computer meccani- apparec- strumen- autoveialtri mobili e
suoi ed edito- stibibili e materie dotti da prodotti
nari e e mac- ca elettr. chi radio- taz. mecoli e mezzi di altri beni
prodotti
ria prodotti plastiche minerali in metal- attrezza- chine da e appa- televisivi dicale, rimorchi trasporto manifatchimici
non me- lo (escluture
ufficio rec. non e per le ottica di
turieri
talliferi
se ataltrove comuni- precis.
(nac)
trezz.)
classif. cazioni
orol.
127,7
63,2 198,8
51,2
39,1
75,5
74,8
85,8
216,2 334,3
72,4
85,5
96,2 136,3
61,9 105,5
84,5 140,1
69
70,1
61,4
81,2
72,5
75,2
203,7
205 245,6 304,2 178,7
93,8
72,9
55
155,8
75,4 114,1 160,9 297,1 112,7
87,5
94,7
128
47,1
95 104,2 105,6
63,4
80
94,1
248,2 210,1
55,2
68,4
38,8
59,4
32,9 127,4
89,2 140,4 225,3 263,1 604,3
68,3
56,8
58,4
55,8 135,3 203,3
15,9
0
24,1
8,3
64,9
181,4 247,7
62,3
32,1
30,2
47,7
82,6 139,9
110,6
98,4 138,2
56,4
129 199,2 122,8
69,7
140,6 189,2 368,7 380,8 851,3
172
86,9
91,2
92,7
25
35,6
56,2
53,2 307,3 514,2 115,8
36,1
46,6
33
4,6
25,7 374,7 359,2
5,5
125,4 226,1
97,3
77,8
97,8
48,7
89 119,3
169,8
91,7
39,4
20,7
22,9 167,9 146,7 142,5
92,9
82,6
74
86,9
64,6 115,4
48,7 136,8
100,2 316,2 457,5 269,1
66,6
38,2
79,3
34,5
98,6
76,9
91 118,9
47,8 117,7 127,3 115,9
100,2
71,6
84,3
83,3
43,6 252,7 208,9
80
163,3 216,1
71,4
32,7
54,5
7,8
92,7
18,6
77,5
84,6
87,7
64,3
73,9
78,3
77,2 100,9
153,3
55,6 102,4 159,9 118,8 155,9
66,9 128,1
224
50,4
92,4 197,8
147 340,7 159,3 103,1
Fonte: Monthly Panorama of European Industry, Competitiveness Report, 4/97
126,3
67,4
108,2
144,2
91
133,5
8,3
98,5
16,2
159,2
88,8
93,6
67,2
67,4
127,4
80,9
121,8
181,4
107,5
84,4
130,3
75,6
89,3
70,6
100,6
91,2
107,5
68,6
99
93,2
55,1
85,5
420,3
72,8
77,4
53,4
57,8
28,7
116
39,6
77,2
75,3
100,4
85,7
78,8
108,7
92,7
89,2
144,8
115,1
117,5
197,1
182,4
97,9
67,4
129,6
269,8
91,4
191,7
212,9
64,7
21,7
90,3
73,2
110,8
149,5
73,2
52,4
172,7
106
135
75,6
85,3
71,8
108,3
105
106,3
92,4
31,2
104,1
385,8
89
131,9
62,4
116,5
104,7
84
118,9
95,7
117,7
89,6
90,2
142,3
108,9
180,7
76,1
67,1
144,9
134,3
30,6
56,4
71,1
38,4
143,1
63,1
72,5
130,4
43,2
129,9
79,2
78,3
192,7
94,9
49,4
88,4
65
30,4
117,4
53,1
42,2
9,5
18,6
51,2
3,9
24,8
75,8
548,2
90,8
56,2
45
86,7
1,9
84,2
27,9
146
13
119
1,1
109,5
59,8
45,5
135
75,8
65
75,1
72,5
167,6
72,6
76,3
88,2
64
101,6
69,7
41,4
96,2
75,9
93,4
87,2
74,1
64,9
94,9
44,5
70
46,4
48,8
132,6
65,9
64,8
49,5
43,4
41,8
29,5
30,9
59,5
65,3
48,1
0
90
92,9
66,1
106,7
207,5
62,5
41,4
101,7
46,2
97
45,1
24
176
4,1
52,5
29,4
106,7
102,4
7,4
31,1
102,1
143
51,6
35,1
55,8
49,2
27,6
57,9
156,2
90,8
28,2
243,4
6,7
154,5
23,3
14,3
74,3
37,1
18,1
146,1
12,4
112,9
5,7
104,4
112,9
6,7
54,5
3,8
32,4
57,2
46,9
9,4
190,6
76,4
44,2
252,7
58,2
90,6
194,7
165,6
105,1
64,6
46,2
31,7
85,7
66,8
86,2
80,6
98,1
32,9
86,7
12,2
90,7
22,7
34,5
105
90,8
120,4
122,9
245,6
20,2
131,1
47,8
3,8
92,5
88,3
128,4
109,9
228,9
105,6
44,9
126,7
83,2
94,6
148,4
5,1
71,1
132,6
123,2
68,6
19,3
83,5
81,3
100,7
21,1
114,3
100,7
42,7
79,9
119,9
100,7
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI
TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
Settori alimenta- tabacco
ri e bevande
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
129
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
Tab. 2 – Composizione percentuale degli addetti nei settori “tradizionali” nel Nord Italia
1996 1991 1981 1971 1961 1951
Alimentari, bevande e tabacco
7,9
7,7
6,9
6,9
7,0
7,6
Tessile, abbigliamento, cuoio e calzature
16,4
18,4
18,9
20,9
25,4
33,3
Legno e mobili
7,6
7,4
7,6
7,3
7,2
6,9
Minerali non metalliferi
4,4
4,3
4,8
5,1
5,5
4,7
Altre industrie manifatturiere
2,0
1,8
1,4
1,6
1,3
0,0
Totale “made in Italy”
38,4
39,6
39,5
41,7
46,4
52,4
Totale industria manifatturiera
100
100
100
100
100
100
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat
Tab. 3 – Evoluzione dell’occupazione nei settori “tradizionali” del Nord Italia
1996
1991
1981
1971
1961
1951
Aliment., bevande e tabacco
256901 267331 268688 249369 225314 187843
Tessile, abb., cuoio e calzat.
532348 637794 737627 757171 814228 819341
Legno e mobili
248287 255696 295669 262747 231850 169043
Minerali non metalliferi
144571 149872 185283 182635 174911 114849
Altre industrie manifatt.
66168
63655
52673
57140
42622
0
Totale “made in Italy”
1248275 1374348 1539940 1509062 1488925 1291076
Tot. industria manifatturiera 3253693 3470289 3900498 3614678 3207219 2463725
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat
Tab. 4 – Evoluzione dell’occupazione nelle imprese settentrionali
(variaz. % sul periodo precedente)
1996 1991 1981
Alimentari, bevande e tabacco
-3,9
-0,5
7,7
Tessile, abbigliamento, cuoio e calzature
-16,5 -13,5
-2,6
Legno e mobili
-2,9 -13,5
12,5
Minerali non metalliferi
-3,5 -19,1
1,4
Altre industrie manifatturiere
3,9
20,8
-7,8
Totale “made in Italy”
-9,2 -10,8
2,0
Totale industria manifatturiera
-6,2 -11,0
7,9
1971
10,7
-7,0
13,3
4,4
34,1
1,4
12,7
1961
19,9
-0,6
37,2
52,3
n.d.
15,3
30,2
1951
n.d.
n.d.
n.d.
n.d.
n.d.
n.d.
n.d.
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat
Tab. 5 – Occupazione nelle imprese del Nord Italia nei settori “tradizionali” (peso % sul
tot. Italia.)
1996 1991 1981 1971 1961 1951
Alimentari, bevande e tabacco
57,5
56,4
55,4
57,8
53,2
45,5
Tessile, abbigliamento, cuoio e calzature
57,7
59,8
60,1
65,8
70,1
74,4
Legno e mobili
64,1
63,2
62,7
62,4
60,8
57,6
Minerali non metalliferi
57,6
54,2
54,8
55,8
54,9
55,6
Altre industrie manifatturiere
65,5
66,3
65,2
74,1
76,7
Totale “made in Italy”
59,2
59,3
59,1
62,7
63,6
64,1
Totale industria manifatturiera
67,0
66,6
66,9
70,9
71,3
70,4
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat
130
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
Tab. 6 – Evoluzione del numero di unità locali nel Nord Italia
1996
1991
1981
1971
Aliment. Bevande e tabacco
33613
30913
28114
24397
Tessile, abb., cuoio e calzat.
54379
68149
86201
72400
Legno e mobili
50194
51719
62607
53703
Minerali non metalliferi
13247
13280
12853
11211
Altre industrie manifatt.
11370
10976
9092
6375
Totale “made in Italy”
162803 175037 198867 168086
Tot. industria manifatturiera
333125 338962 360741 272548
1961
21883
109850
52728
9185
1945
195591
311517
1951
27484
134163
52929
7412
0
221988
313580
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat
Tab. 7 – Evoluzione della dimensione media nel Nord Italia (addetti per unità locale)
1996 1991 1981 1971 1961 1951
Alimentari, bevande e tabacco
7,6
8,6
9,6
10,2
10,3
6,8
Tessile, abbigliamento, cuoio e calzature
9,8
9,4
8,6
10,5
7,4
6,1
Legno e mobili
4,9
4,9
4,7
4,9
4,4
3,2
Minerali non metalliferi
10,9
11,3
14,4
16,3
19,0
15,5
Altre industrie manifatturiere
5,8
5,8
5,8
9,0
21,9
Totale “made in Italy”
7,7
7,9
7,7
9,0
7,6
5,8
Totale industria manifatturiera
9,8
10,2
10,8
13,3
10,3
7,9
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat
Tab.8 – Valore aggiunto dell’industria settentrionale (peso % sul totale nazionale)
totale industria
tessile
carta e
legno, gomma e
anni
manifatturiera
alimentari abbigliamento
stampa
e altre manifatt.
1980
68,30
61,65
59,53
69,37
71,06
1981
68,07
62,44
59,20
69,67
70,87
1982
67,01
61,94
59,40
69,22
70,33
1983
66,39
61,50
60,89
68,64
70,24
1984
65,68
60,86
59,90
68,70
69,26
1985
66,32
62,66
60,95
68,18
68,80
1986
66,67
63,10
63,53
68,66
69,12
1987
66,93
65,11
65,48
68,35
70,07
1988
67,42
65,25
65,34
69,05
70,12
1989
67,46
62,72
65,30
69,29
69,81
1990
67,42
65,09
66,41
67,89
70,82
1991
66,26
65,51
65,18
67,25
69,86
1992
65,51
64,34
65,34
66,17
69,94
1993
65,59
64,49
66,64
65,85
70,48
1994
66,21
64,94
67,41
66,47
70,89
1995
66,80
65,70
66,96
66,15
70,44
1996
66,88
66,24
66,97
65,86
70,55
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat
131
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
Tab. 9 – Società italiane prossime alla quotazione (elenco aggiornato al 13/9/99)
Titolo
Flottante
Mercato
Sponsor
Settore
Acsm Como
25%
Caboto-Sim
Utilities
Ais
Software
Astaldi
Costruzioni
Bco Bilbao Vizcaya
10%
Bnl
Banche
Biosearch
Farma
Cassa Risp. Firenze
Banche
Cent Latte To
Mediobanca
Alimentare
Cifa
Meccanica
Datanord Multimedia
Rothschild
Hi-Tech
Direct
E-Commerce
Eleca
Bca Aletti
Meccanica
Enel (2-3/11/99)
Etnoteam
Finmatica
Gandalf Airlines
Grandi Navi Veloci
Gruppo Basic
Gruppo Tessile Monti
Kariba
I.Net
Industriale Cesena
Mannesmann
Pol-Geox
Poligrafica S.Faustino
Prima Industrie
Tecnodiffusione
Tiscali
Fonte: www.bullbear.it
15%
Mediobanca Merrill Lynch
Afv Milla
Euromobiliare Sim
Banca Imi
Abn Amro
50%++
55-60%
20-25%
33%
50%++
25%
20%
ristretto
nuovo mercato?
nuovo mercato
nuovo mercato
Cofimo/Price Wat
Foglia Ventura Sim
Caboto-Sim
Comit/Dt.Bank
Bca Aletti
Comit/Nomura
Interb/Fleming
Abn Amro/Bcaimi
Utilities
Informatica
Informatica
Trasporti
Trasporti
Finanziario
Tessile
Meccanica
Internet
Impianti
Hi-Tech
Calzature
Editoriale
Elettronica
Hi-Tech
Tlc
BIBLIOGRAFIA
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132
IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE
Flavio Iano
*
PREMESSA – L’OFFERTA DI BUSINESS SERVICES – I SERVIZI ALLE IMPRESE NEGLI SCAMBI CON
L’ESTERO – LA COLLOCAZIONE NEL CONTESTO INTERNAZIONALE – IL SETTORE DELL’INFORMATION
TECHNOLOGY – BIBLIOGRAFIA
PREMESSA
Nelle economie più sviluppate un ruolo rilevante e di crescente importanza è
assunto dalle attività di servizio di tipo professionale ed in particolare da
quelle attività terziarie che più direttamente si possono qualificare come servizi alle imprese o Business Services (BS).
Le attività di BS costituiscono un aggregato molto eterogeneo dal punto di
vista delle prestazioni fornite dai suoi operatori; ma è un aggregato che al
contempo trova una propria identità d’insieme nella funzione di supporto
all’attività delle imprese e, più complessivamente, allo sviluppo del sistema
economico.
La natura composita delle attività di BS richiede, in ogni caso, una definizione che permetta di circoscrivere l’aggregato e di precisarne i contenuti.
Ai fini dell’analisi empirica, tuttavia, una definizione di tipo univoco appare
difficilmente applicabile stante la disomogeneità che si riscontra nelle fonti
statistiche e/o il grado di dettaglio che può essere raggiunto in relazione al
tipo di variabile e/o al riferimento territoriale in base al quale l’analisi viene
condotta.
Di seguito verranno precisate di volta in volta le attività di riferimento considerate a seconda dei dati utilizzati.
L’OFFERTA DI BUSINESS SERVICES
Per valutare l’offerta di BS nelle regioni italiane la fonte più sistematica e aggiornata alla quale si può fare ricorso al momento della stesura di questo documento sono i dati del censimento intermedio 1996, di recente resi disponibili dall’Istat.
I DATI DI
RIFERIMENTO
Con riferimento a questi dati le attività di BS considerate ai fini di questo studio sono:
• informatica e attività connesse;
• ricerca e sviluppo;
• servizi professionali e imprenditoriali.
Il dato principale esaminato è quello degli addetti alle unità locali; esso viene
qui utilizzato come indicatore della consistenza di tali attività in diversi ambiti territoriali.
Le attività di BS così definite contano in Italia un totale di 1.375 mila addetti,
cioè circa un decimo degli addetti alle imprese industriali o di servizio complessivamente registrati dal censimento.
*
Cesdi srl, Torino
133
IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE
Nel Nord Italia in queste attività operano 779 mila addetti, pari al 56,7% del
corrispondente totale nazionale. Si tratta di una quota rilevante ma, sia pure
di poco, inferiore a quella che i dati censuari permettono di attribuire
all’intero sistema imprenditoriale dell’area (59,0%).
La quota degli addetti alle attività di BS è invece significativamente superiore
a quella che compete all’area in termini di popolazione (44,4%) o anche di
occupazione (51,8%), se, in questo ultimo caso, si includono anche gli occupati nell’agricoltura, nella pubblica amministrazione e nelle attività non profit, cioè quelle componenti del sistema economico oggetto di rilevazione per
il conteggio dei dati del censimento intermedio.
UN’OFFERTA
PROPORZIONATA
AL SISTEMA
DELLE IMPRESE
SETTENTRIONALI
L’offerta di BS che si è sviluppata nel Nord Italia è quindi ampia, ma di fatto
semplicemente dimensionata in proporzione alla consistenza del sistema delle
imprese presente nello stesso territorio.
Il riscontro di quanto detto diventa ancora più immediato se si valuta direttamente la consistenza delle attività di BS in termini relativi; si può a questo
proposito fare riferimento a tre indicatori di densità:
1. addetti alle unità di BS per 1000 abitanti
2. addetti alle unità di BS per 1000 occupati
3. addetti alle unità di BS per 1000 addetti alle unità locali delle imprese industriali e di servizio.
Si può così osservare (tab. 1) che, rispetto alla media nazionale, la densità
delle attività di BS nel Nord Italia è:
• del 28% superiore se calcolata sulla popolazione;
• del 9% superiore se misurata in rapporto all’ occupazione totale
• del 4% inferiore se riferita alle dimensioni del sistema delle imprese
Il profilo dei BS e la loro distribuzione sul territorio si differenzia tuttavia in
misura notevole in relazione alle diverse attività che lo compongono.
A questo proposito, si può tentare in primo luogo una ripartizione delle attività di BS distinguendo quelle relativamente più tradizionali, da quelle di tipo
più moderno o potenzialmente innovative e sulle quali è particolarmente opportuno soffermare l’ attenzione.
Per valutare la consistenza delle attività di BS nelle sue forme più moderne, si
sono isolate alcune voci della classificazione economica (vedi tab. 2). Il ventaglio delle attività risulta evidentemente piuttosto ampio dal momento che
esso copre funzioni terziarie nel campo della promozione e della comunicazione, della ricerca e sviluppo e del design industriale, dell’ analisi e
dell’informazione economica e di mercato, della consulenza e progettazione
in campo tecnico, della consulenza e della certificazione in materia finanziaria, di gestione e di organizzazione dell’impresa, dell’elaborazione e del trattamento dei dati o della impostazione e realizzazione dei sistemi informativi,
della acquisizione, qualificazione e gestione delle risorse umane.
UNA NOTEVOLE
PRESENZA DI BS
“MODERNO”
I dati del Censimento Intermedio permettono di rilevare che nel Nord Italia,
in termini di addetti, le componenti di tipo moderno rappresentano il 30,8%
delle attività di BS, con una incidenza superiore a quelle che si riscontra nel
dato medio nazionale (27,8%).
Utilizzando anche in questo caso indicatori di densità rispetto a popolazione,
occupati totali e addetti alle imprese si osserva (fig. 1) più direttamente che:
134
IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE
•
•
il divario esistente nella densità di BS tra il Nord Italia ed il resto del paese tende a ridursi nel caso dei servizi più tradizionali, mentre si accentua
quando si considerano le forme più moderne;
la densità al Nord dei BS moderni appare particolarmente elevata se rapportata agli abitanti o anche, ma in misura più limitata, all’occupazione
complessiva. Il divario dalla media nazionale è molto più modesto, tuttavia, se la densità è calcolata in rapporto alla estensione del sistema delle
imprese.
Il fatto che nel Nord Italia si concentri una quota importante dell’offerta nazionale di BS di tipo moderno (63%) qualifica certamente l’economia di questo territorio, ma in una misura che è sostanzialmente coerente con le dimensioni del suo sistema di imprese e, quindi, poco più che in linea con il suo
potenziale interno di domanda.
La presenza di forme moderne di BS può tuttavia essere meglio qualificata e
interpretata spingendo l’analisi ad un maggiore livello di dettaglio sia per
quanto riguarda la disaggregazione dei dati a livello territoriale, sia per quanto concerne le tipologie dei servizi.
L’OFFERTA DI BS
A LIVELLO
REGIONALE
UNA TIPOLOGIA
DI REGIONI
A livello di geografia economica aspetti significativi emergono già esaminando i dati a livello delle quattro ripartizioni in cui viene abitualmente suddiviso il territorio italiano e ancor più confrontando tra di loro gli indicatori
calcolati su scala regionale.
Per quanto riguarda il Nord emergono in primo luogo differenziali significativi in merito alla presenza di forme moderne di BS tra area di Nord Ovest e
area di Nord Est.
Nel Nord Ovest il sistema dei BS di tipo moderno ha una densità che rimane
superiore alla media nazionale sia che l’indicatore considerato faccia riferimento alla popolazione, sia che venga calcolato in relazione alla occupazione
complessiva o a quella che fa capo alle imprese. Nel caso del Nord Est invece
le componenti più moderne dei servizi alle imprese hanno una presenza sul
territorio abbastanza elevata in rapporto alla popolazione, ma al di sotto della
media nazionale, se tale presenza viene rapportata al potenziale economico e
imprenditoriale corrispondente.
Gli indicatori utilizzati per misurare la densità dei BS su scala territoriale
permettono anche di ricostruire una tipologia che ripartisce chiaramente le
regioni italiane in tre gruppi ben distinti (fig. 2).
1. Nel primo gruppo si posizionano tutte le regioni del Mezzogiorno: qui la
presenza di forme moderne di BS è largamente al di sotto della media nazionale sia in rapporto alla popolazione, sia in rapporto alle dimensioni
del sistema delle imprese.
2. Nella secondo gruppo si collocano le regioni del Nord Est , le regioni del
Centro (escluso il Lazio) ed anche le due regioni più piccole del Nord
Ovest (Liguria e Valle d’Aosta). Qui la densità degli addetti ai BS moderni tende ad allinearsi o a superare di poco quello medio italiano se riferita alla popolazione, ma si posiziona comunque sempre sotto i livelli
medi quando viene rapportata alle dimensioni del sistema delle imprese.
3. Del terzo gruppo fanno parte Piemonte, Lombardia e Lazio; in queste tre
regioni la presenza di forme moderne di servizio alle imprese eccede la
media nazionale qualunque sia il parametro in base al quale si propone il
confronto.
135
IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE
Mentre i primi due gruppi di regioni appaiono ben delineati e piuttosto omogenei al loro interno, il terzo gruppo presenta differenze abbastanza marcate
tra le regioni che lo compongono. Da un lato è evidente che il caso del Lazio
va letto con una logica che non può rientrare in un semplice schema comparativo. Qui la consistenza dei servizi moderni è largamente superiore a quella
che si potrebbe prefigurare in base alle dimensioni del sistema di imprese della regione; ma il dato va messo ovviamente in relazione allo sviluppo di una
domanda di servizi che qui trae origine dalla concentrazione di istituzioni
dello Stato e di apparati amministrativi nazionali nella capitale o da opportunità localizzative indotte dalla prossimità ai centri decisionali e alle sedi politiche. Per quanto riguarda il Nord, la Lombardia in primo luogo, ma anche il
Piemonte, si confermano invece come le due aree dove l’offerta dei servizi
alle imprese nelle sue forme più moderne si addensa in misura maggiore e,
soprattutto, sembra eccedere in parte il potenziale diretto di domanda che
l’economia di queste due regioni è in grado di esprimere.
IL PROTAGONISMO
DI LOMBARDIA E
PIEMONTE
La densità di BS che caratterizza Lombardia e Piemonte, ma con una analisi
più fine, meglio si potrebbe dire Milano e Torino, trova probabilmente molteplici spiegazioni, tra queste sicuramente occorre ricordare:
1. il fatto che queste attività, per svariate ragioni, trovano spesso il loro habitat più congeniale nei grandi contesti urbani;
2. il fatto che in queste aree si concentra la presenza di grandi imprese, delle
sedi di grandi gruppi o di centri direzionali, di istituzioni e centri culturali
che esprimono direttamente o generano indirettamente livelli di domanda
più elevati in termini di servizi avanzati e di funzioni terziarie innovative;
3. il fatto che in queste stesse aree si collocano le più importanti infrastrutture di mercato, o principali snodi dei trasporti e delle comunicazioni; attraverso di essi realizzano movimenti di persone, di merci o di idee,
scambi di danaro, di informazione o di conoscenze, cioè quell’insieme di
flussi economici e sociali che le attività di terziario più moderno sono
chiamate a supportare, promuovere, gestire o controllare.
In altri termini l’addensamento dei servizi più moderni in regioni come la
Lombardia o il Piemonte e in città come Milano e Torino, esprime di fatto la
diversa posizione che queste regioni occupano nella gerarchia dei territori: la
loro centralità nella guida dei processi di sviluppo economico e la loro funzione altrettanto centrale nell’organizzazione di molte delle relazioni attraverso le quali il sistema economico del Nord Italia interagisce e si raccorda
con altri sistemi economici su scala internazionale.
La domanda che ci si può porre è tuttavia se queste regioni esprimono una
centralità altrettanto significativa se la scala territoriale per la quale tale centralità viene valutata passa da un livello nazionale ad uno europeo ed internazionale. La domanda è cioè se il Nord dell’Italia, attraverso i poli terziari
lombardo e piemontese possa aspirare ad una posizione di centralità su scala
continentale o se al contrario Milano e Torino non si limitino invece a svolgere un ruolo di raccordo tra le aree forti dell’Europa e un Nord dell’Italia,
magari ricco e con una solida base industriale, ma sostanzialmente periferico
nella gerarchia dei territori del continente per quanto riguarda talune funzioni
che sono strategiche per il governo ed il controllo di processi economici.
136
IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE
I SERVIZI ALLE IMPRESE NEGLI SCAMBI CON L’ESTERO
La centralità di Lazio, Piemonte e Lombardia nel settore dei BS nel contesto
italiano ha un riscontro anche più puntuale se per le attività di servizio alle
imprese si analizzano i dati di interscambio con l’estero.
La fonte di riferimento è in questo caso UIC - Banca d’Italia, che permette di
rilevare periodicamente debiti e crediti relativi ai servizi e, nello specifico,
movimenti relativi a diverse prestazioni identificate sotto la voce “servizi alle
imprese” (si veda la tabella 4 per un maggiore dettaglio dei contenuti di questa voce).
A livello nazionale la voce servizi alle imprese ha determinato nel 1998 un
movimento complessivo di 35 mila miliardi.
Escludendo dal computo le componenti non attribuibili territorialmente, si
può osservare (tab. 3) che circa i quattro quinti del movimento compete al
Nord Italia e che in particolare quasi i due terzi riguardano l’area di Nord
Ovest.
In realtà non si tratta tanto di un discorso di area, quanto piuttosto di poli terziari: Milano concorre da sola alla formazione del 40,9% dell’interscambio,
precedendo largamente nella graduatoria delle province italiane sia Roma
(14,4%), sia Torino (11,3%).
Il capoluogo lombardo e, sia pure in misura minore, quello piemontese, si
confermano quindi come i due centri nodali delle attività di BS: è attraverso
di essi che transitano le operazioni di scambio internazionale relative alla
domanda e alla offerta di prestazioni e servizi alle imprese di interesse per
l’economia italiana e più in particolare per il sistema economico del Nord.
UN INTERSCAMBIO
CON L’ESTERO
FORTEMENTE
PASSIVO
Un dato rilevante sul quale è opportuno soffermare l’attenzione è inoltre il
fatto che nella bilancia degli scambi con l’estero il saldo è fortemente passivo
(– 6.727 miliardi a livello nazionale).
Nel caso del Nord Italia nel 1998 i crediti del periodo (9.735 miliardi) hanno
coperto poco più del 70% dei debiti ed il saldo negativo (– 3.813 miliardi) ha
rappresentato il 16,4% del corrispondente movimento.
Di fatto il sistema economico italiano, in generale, e quello del Nord Italia, in
particolare, alimentano verso l’estero una domanda di servizi alle imprese
ben superiore rispetto a quanto riescono a realizzare direttamene sull’estero
in termini di offerta.
Gli elementi di debolezza dell’offerta di servizi alle imprese sul piano degli
scambi internazionali possono essere meglio identificati se si passa ad una
analisi più fine dell’aggregato servizi alle imprese in termini di attività e prestazioni specifiche. I dati (tab. 4) in questo caso riguardano esclusivamente il
livello nazionale, ma vanno ovviamente considerati come rappresentativi soprattutto del Nord Italia se si considera il peso decisivo che, come si è visto,
questa area ha nei rispettivi movimenti in entrata e in uscita.
In primo luogo è opportuno sottolineare che un saldo negativo si determina
per quasi tutte le voci attraverso le quali gli interscambi di servizio vengono
classificati.
A titolo di esempio si può evidenziare il saldo negativo consistente dei servizi
di pubblicità, che è rilevante sia in termini assoluti (- 603 miliardi nel 1998),
sia in termini relativi se si considera che l’export (crediti) compensa soltanto
137
IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE
il 71% dell’import (debiti). Lo stesso discorso vale, sia pure su una scala più
ridotta di valori, per le ricerche di mercato dove i crediti (140 miliardi) raggiungono poco più della metà dei debiti (267 miliardi).
Una categoria di servizi sui quali è poi opportuno fissare l’attenzione è quella
dei servizi informatici, per i quali il saldo dei movimenti verso l’estero risulta
pesantemente negativo (- 859 miliardi nel 1998): in questo caso l’export (498
miliardi) copre soltanto una quota modesta (37%) dell’import (1357 miliardi).
Passivo infine è anche il risultato che si evidenzia analizzando complessivamente i movimenti relativi ai servizi tecnologici ( - 1.354), anche se in questo
caso in termini relativi il rapporto debiti crediti mostra un maggiore equilibrio (79%).
UNA COLLOCAZIONE
DEBOLE NEL
CONTESTO
INTERNAZIONALE
LE DIRETTRICI DI
INTERSCAMBIO
I dati che emergono dall’esame delle diverse componenti dell’interscambio di
servizi sono suscettibili di interpretazioni diverse a seconda della natura delle
prestazioni specifiche prese in esame. Debiti elevati possono talora essere la
conseguenza di sostenuti livelli di attività delle aziende italiane sui mercati
esteri, mentre in altri casi crediti modesti e saldi negativi consistenti vanno
più propriamente letti come indicatori di un mutato sviluppo e/o di una scarsa
capacità competitiva dell’offerta interna.
È evidente comunque dall’insieme dei dati che il sistema economico italiano
ed anche quello del Nord Italia non appare in grado di sviluppare autonomamente, ed in misura adeguata, molte funzioni di terziario moderno, né
tanto meno di proporsi come bacino di offerta di rilievo internazionale e
strutturato per proporsi complessivamente come area di riferimento su scala
continentale.
Un ulteriore elemento che permette di meglio comprendere la collocazione
del Nord Italia nel sistema internazionale con riferimento specifico al sistema
dei servizi alle imprese si evidenzia osservando le direttrici lungo le quali si
sviluppano i movimenti in entrata e in uscita (tab. 5 e 6).
Anche in questo caso i dati sono a livello nazionale ma continua a valere
quanto detto in precedenza circa la loro significatività soprattutto per le regioni dell’Italia settentrionale.
A questo proposito si può mettere in rilievo quanto segue:
1. l’interscambio, sia nei movimenti in entrata, sia in quelli in uscita, è estremamente concentrato e coinvolge in misura significativa un numero
ristretto di paesi. Il 90% circa dei crediti e dei debiti riguarda 14 paesi e
per l’80% è riferito a 7 paesi soltanto;
2. in entrambe le direzioni i movimenti di un qualche rilievo riguardano esclusivamente le economie forti e i paesi avanzati.
I dati rilevati non evidenziano in particolare un export diretto di servizi verso
aree economiche come il Nord Africa o l’Est europeo.
Il sistema dei servizi alle imprese non sembra, quindi, anche da questo punto
di vista, alimentare relazioni internazionali indotte dalla capacità di svolgere
un ruolo autonomo di collegamento e da punto di riferimento nei confronti di
economie geograficamente vicine ma più distanti sotto il profilo del livello di
sviluppo.
138
IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE
Nell’analisi dei dati si può rilevare inoltre che la graduatoria dei paesi che determinano i movimenti nelle diverse componenti dei servizi alle imprese mostra un profilo ben diverso di quello che si registra per l’interscambio di merci.
Basta osservare che gli Stati Uniti occupano in assoluto la prima posizione e
che da soli incidono per il 16,1% sul versante dei crediti e per ben il 23,7% su
quello dei debiti.
La Germania, invece, che costituisce il nostro principale partner commerciale
nell’import-export di beni, si posiziona in questo caso soltanto al quarto posto, preceduta in Europa non solo dalla Francia, ma anche e soprattutto dalla
Gran Bretagna.
Di rilievo sono anche i movimenti che si determinano in direzione di Svizzera, Paesi Bassi e Belgio, soprattutto se commisurati alle dimensioni modeste
di questi paesi.
Il sistema economico del Nord Italia sul terreno dei servizi alle imprese si
trova quindi inserito in un complesso di relazioni che fa perno sugli Stati
Uniti o su quelle regioni/nazioni europee che da tempo hanno impostato il loro sviluppo economico sul terziario e che sulle attività terziarie moderne si
sono da tempo candidate a fungere da poli di riferimento di primo livello su
scala internazionale o quanto meno continentale. Nei confronti di queste aree
l’Italia è decisamente un importatore netto di servizi alle imprese, posizione
che l’Italia ha mantenuto inalterata nel corso di tutti gli anni Novanta (tab. 7)
UNA DEBOLE
AUTONOMIA
RISPETTO AL
SISTEMA
MANIFATTURIERO
Il Nord dell’Italia, come peraltro accade per molte aree sviluppate della Germania, sembra mantenere il suo punto di forza economico nel sistema manifatturiero. I servizi alle imprese appaiono in questo caso configurarsi più come una componente che si sviluppa secondo logiche e valenze funzionali
interne piuttosto che come componente che tende ad organizzarsi ed evolvere
secondo logiche autonome, più direttamente collegate ad una transizione in
chiave terziaria della sua economia. A differenza della Germania tuttavia, le
logiche e le valenze funzionali interne sono riferite ad un sistema economico
e ad una realtà imprenditoriale che esprimono una domanda per molti versi di
basso profilo.
LA COLLOCAZIONE NEL CONTESTO INTERNAZIONALE
I dati sull’interscambio internazionale certamente danno sostegno all’ipotesi
di un sistema di servizi alle imprese insufficientemente sviluppato, strutturalmente debole per sostenere il confronto con quello di altri paesi europei
e per proporsi come soggetto capace di competere con successo in un mercato a scala internazionale.
Conferme anche più puntuali di quanto affermato si possono ottenere se si
analizzano alcuni dati comparativi a livello europeo.
Per questo tipo di analisi non è possibile operare su cifre aggregate, ma occorre esaminare separatamente alcuni “settori” rappresentativi, senza la pretesa di fornire un quadro esaustivo della situazione. La fonte principale di riferimento utilizzata a questo scopo è l’edizione 1997 del “Panorama of EU
Industry” curato da Eurostat.
139
IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE
UNO SCARSO PESO
NEL CONTESTO
UE: L’ESEMPIO
DELLE RICERCHE
DI MERCATO …
… DELLA
PUBBLICITÀ
Indicazioni di rilevante interesse si ricavano ad esempio se si esamina il settore delle ricerche di mercato. Nel 1994 il giro d’affari delle società di questo
settore risultava in Italia di 273 milioni di ECU contro i 610 milioni della
Francia, i 675 della Gran Bretagna, i 780 della Germania. Il senso di queste
cifre diventa ancora più evidente se si osserva che in questo settore la quota
dell’Italia nella “Europa a 12” risultava del 9%, a fronte di una incidenza del
16% in termini di popolazione e del 15% in termini di PIL.
Del tutto simili sono le indicazioni che si ricavano esaminando la spesa pubblicitaria. Il mercato italiano della pubblicità risultava in termini assoluti meno della metà di quello britannico, meno di un terzo di quello tedesco e solo
un poco più ampio di quello spagnolo. Con 73.6 ECU di spesa pro capite
l’Italia si colloca al penultimo posto della graduatoria dei paesi comunitari
(prima di Portogallo, ma dietro Spagna e Grecia), su livelli ben distanti dalla
media dei paesi dell’Unione Europea (129.4 ECU).
Settori come le ricerche di mercato e la pubblicità dove l’Italia mostra, come
si è visto in precedenza, un saldo negativo non indifferente si accompagnano
quindi all’esistenza di un mercato poco sviluppato in termini di domanda interna. Analogamente l’offerta nazionale non trova spesso rappresentazione
nelle società leader sul mercato internazionale.
Nel caso delle ricerche di mercato, sempre nel 1994, nella graduatoria delle
10 “top companies” mondiali, accanto a 4 società americane e una giapponese, comparivano due società tedesche, due francesi e una britannica.
L’assenza di operatori italiani nelle posizioni di testa del ranking internazionale è peraltro una caratteristica che, con poche eccezioni, accomuna
molti dei settori di servizi alle imprese.
… E DEI SERVIZI DI
INFORMAZIONE
ELETTRONICA
Allo stesso modo mercati di dimensioni ridotte rispetto alla consistenza del
sistema economico si rintracciano in molte altre attività. Emblematico è il caso dei servizi di informazione elettronica dove la domanda interna (353 miliardi di ECU nel 1994) è ben lontana non solo dai livelli britannici (1174 milioni di ECU) ma anche da quelli tedeschi (594,5) e francesi (585,7).
In queste attività il mercato europeo è largamente dominato dalle società inglesi che realizzano più del 70% dei loro ricavi all’estero. D’altra parte nei
servizi di informazione elettronica un terzo del fatturato è ricavato da informazioni di tipo finanziario ed un quarto da informazioni relative ai bilanci
delle imprese. Parallelamente, più del 40% della domanda europea è a sua
volta alimentato da società e operatori che operano nel campo dei servizi finanziari.
La centralità di Londra come piazza finanziaria europea genera quindi un
mercato interno dell’informazione elettronica di dimensioni notevoli e compatibili con lo sviluppo di una offerta capace di trovare poi sbocchi autonomi
sui mercati internazionali.
Ma si tratta soltanto di un esempio del legame che di norma si determina tra
sviluppo dei servizi e la leadership che un’area è in grado di assumere e mantenere sul piano delle infrastrutture logistiche e nell’organizzazione dei mercati.
Dall’esame di questi pochi, ma significativi, spaccati settoriali si può rilevare
che un’offerta robusta e competitiva anche su scala internazionale si sviluppa
in contesti dove la domanda si esprime su livelli elevati e dove le strutture e
140
IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE
le infrastrutture economiche sono in grado di alimentare con forza la crescita
e lo sviluppo del mercato.
In questo contesto la posizione di debolezza del sistema italiano dei BS, a cui
si sottrae solo in parte quello delle regioni del Nord, va certamente messa in
relazione con la scarsa propensione del sistema economico italiano a “consumare” servizi ed in particolare ad incorporare quegli apporti professionali
qualificati e innovativi che le forme moderne di terziario sono in grado di
produrre e di mettere in circolazione nel sistema delle imprese industriali e
non.
Le ragioni di tutto questo sono da rintracciare in alcune caratteristiche del sistema imprenditoriale italiano e in alcuni tratti di fondo che per molto tempo
hanno accompagnato lo sviluppo economico nazionale.
ALCUNI FATTORI
STRUTTURALI
DELLA BASSA
DOMANDA DI BS
La presenza di un sistema manifatturiero basato su prodotti tradizionali e maturi e con realtà di impresa privata in larga misura di piccola dimensione, da
un lato, la sottrazione al confronto con la concorrenza e/o alla competizione
internazionale di una fetta consistente dell’economia, attraverso il controllo
pubblico, la presenza per diverso tempo di monopoli e/o il mantenimento di
barriere protettive, dall’altro lato, non sono che due delle condizioni strutturali che certamente hanno contribuito a comprimere la domanda di BS.
Per avere una indicazione di conferma su questo ultimo aspetto basta osservare gli effetti dinamici sulla spesa pubblicitaria, che si sono determinati a
seguito delle privatizzazioni e della creazione di un mercato più aperto alla
concorrenza nel settore delle telecomunicazioni.
Questi aspetti ed altri nodi strutturali rilevanti sono certamente alla base della
arretratezza che caratterizza anche il mercato dei servizi informatici e la posizione di dipendenza in cui si trova complessivamente il settore della information technology non solo nei confronti degli Stati Uniti ma anche rispetto alle
maggiori e più sviluppate economie europee; ma a questa area dei servizi e a
questo settore è opportuno dedicare maggiore spazio ed approfondimento.
IL SETTORE DELL’INFORMATION TECHNOLOGY
Un discorso che riguarda l’informatica circoscritto alle sole attività di servizio è certamente riduttivo e rischia di diventare per taluni versi fuorviante.
Hardware, software e servizi informatici si basano in realtà su un intreccio di
tecnologie correlate; la loro produzione e il loro consumo danno vita ad un
mercato con forti elementi di connessione e di interdipendenza; è pertanto
opportuno riportare l’esame dei servizi informatici ad una analisi di tipo più
ampio, che si estende al settore e mercato dell’information technology visti
nella loro globalità.
La rapidità con la quale le tecnologie del settore evolvono, gli elevati tassi di
crescita del mercato a cui esse danno vita, da un lato, il notevole impatto diretto e indiretto che tali tecnologie hanno sull’organizzazione dei sistemi economici e sociali, dall’altro lato, stanno alimentando in questo ultimo periodo la produzione di un numero crescente di indagini, ricerche e studi a livello
nazionale ed internazionale, che sarebbe in questo contesto difficile riassumere in modo sistematico anche solo per gli aspetti di più diretto interesse per
questo lavoro.
141
IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE
Vi sono tuttavia alcune considerazioni e indicazioni di fondo sulle quali molti
studi convergono o apportano contributi convergenti e sulle quali è opportuno
soffermare l’attenzione.
UNA SCARSA
PENETRAZIONE
DELL’IT NEL
MERCATO
ITALIANO
UNA DINAMICA DI
CRESCITA
INFERIORE AI
PAESI LEADER
EUROPEI
Esaminando in particolare la spesa EDP in rapporto alla popolazione e agli
occupati o misurandone l’incidenza sul Pil, è evidente il forte divario che separa gli Stati Uniti dalle altre grandi economie, ed in particolare dai maggiori
paesi europei, nella diffusione delle tecnologie informatiche.
Altrettanto netto è l’ulteriore ritardo che emerge confrontando i dati
dell’Italia con quelli dei maggiori partner continentali. La spesa EDP pro capite dell’Italia è circa la metà di quella che si registra in Francia, Germania e
Gran Bretagna.
Sul piano della penetrazione delle tecnologie informatiche l’Italia si colloca
quindi in una posizione decisamente periferica rispetto ad una Europa che, a
sua volta, è in posizione altrettanto periferica rispetto agli Stati Uniti.
Indicazioni che vanno ad ulteriore sostegno di quanto appena affermato si
possono ricavare confrontando la consistenza relativa del parco installato di
personal computer, dove l’Italia, con 10,3 pc per abitante, è ben lontana dagli
standard europei.
Dall’insieme dei diversi indicatori si ricava l’immagine di un paese, l’Italia,
nel quale lo sviluppo assunto dalle tecnologie informatiche è più prossimo a
quello che si registra in paesi del Sud dell’Europa, come la Spagna, che non a
quello delle aree forti del continente (fig. 3).
Ad una penetrazione scarsa delle tecnologie informatiche fa ovviamente riscontro un mercato di dimensioni assolute piuttosto modeste se comparato
con quello di altri paesi.
Le stime EITO consentono di valutare in 16,3 miliardi di ECU il mercato italiano dell’IT nel 1998, una cifra ben lontana dai 34,1 miliardi di ECU del
mercato francese, dai 40,4 di quello britannico, dai 44,9 di quello tedesco.
Oltre ad essere di dimensioni limitate, il mercato italiano presenta dinamiche
meno sostenute di quelle che si registrano in altri mercati.
Si tratta di un fenomeno che contraddistingue peraltro già da molto tempo il
nostro paese, ma che sembra al contempo destinato a perdurare:
• tra il 1987 ed il 1994, ad esempio, i dati Ocse evidenziano un tasso di
crescita del Mercato italiano dell’IT del 5% contro il 9,1% medio europeo;
• nel 1997 il rapporto Assinform mostra l’Italia all’ultimo posto tra i paesi
Europei per quanto riguarda la crescita del Mercato IT rispetto all’anno
precedente;
• le stime EITO per il periodo 1997-2000 del mercato IT prospettano per
l’Italia ritmi di crescita inferiori a quelli medi europei (tab.8) e comunque
al di sotto di quelli che si indicano per Francia, Germania e Gran Bretagna.
Pur crescendo a ritmi superiori a quelli del Pil, il mercato italiano dell’IT presenta dunque dinamiche che non lasciano in ogni caso prevedere realistiche
possibilità di colmare in tempi ragionevolmente brevi almeno parte del divario che si è cumulato nei confronti delle altre economie europee.
Si è già visto che in un mercato debole come quello italiano sono pesantemente in rosso i saldi negli scambi internazionali di servizi e che in questo
non fa certamente eccezione il mercato dei servizi informatici.
142
IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE
Il discorso investe comunque anche l’hardware. I dati Istat dell’interscambio
con l’estero dei prodotti informatici (Macchine per elaborazione dati e loro
parti), elaborati dall’Osservatorio SMAU, evidenziano un saldo negativo di
1387 miliardi nel 1998 e la presenza di una forbice tra export ed import che si
è andata progressivamente ampliando negli ultimi tre anni.
Il mercato italiano dell’IT rivela paradossalmente segnali di arretratezza anche nel modesto assorbimento di prodotti/servizi di provenienza diretta dagli
Stati Uniti, dal paese che detiene cioè la leadership tecnologica in questo settore. I dati di fonte NSF riportati nello studio dell’Ocse “Information Technology Outlook 1997” mostrano, ad esempio, che l’Italia (1994) rappresenta
l’1,7% dell’export di prodotti software americani, contro il 3,7% della Francia, l’8,2% della Gran Bretagna, l’8,4% della Germania.
Questo e numerosi altri indicatori, che si possono ricavare dallo stesso studio
o da altre fonti, dimostrano una volta di più che l’Italia, oltre ad esprimere
una domanda debole e a dipendere in misura rilevante dall’estero, si inserisce
in una posizione piuttosto marginale nei circuiti di interscambio internazionale attraverso i quali si alimenta lo sviluppo del settore dell’IT.
Il mercato italiano dell’Information technology, visto nel suo insieme, finisce
quindi per configurarsi come un mercato nel quale l’offerta interna è insufficiente a coprire le esigenze ed i livelli di domanda, ma nel quale la domanda
al contempo non può essere di per sé stessa considerata particolarmente robusta e attrattiva nei confronti dell’offerta internazionale più qualificata ed avanzata. Le conseguenze che da questo possono derivare vanno valutate sotto
diversi punti di vista e, tra i tanti, in termini di circolazione di know how, di
disponibilità e a prodotti e servizi fortemente innovativi, di modalità, articolazione e livello delle presenze degli operatori esteri. Il che certamente non
può in prospettiva andare a vantaggio della crescita del settore, né consentire
al sistema delle imprese di accedere in modo tempestivo ed efficiente a risorse che stanno diventando sempre più strategiche nella competizione internazionale.
I RISCHI DI UNO
SCARSO SVILUPPO
DEL MERCATO
DELL’IT
La situazione in cui si trova il mercato il settore pone in sostanza interrogativi
molteplici, che, per semplicità, si possono schematizzare in relazione con due
ordini diversi di problemi:
1. perdita di opportunità di sviluppo in un settore molto dinamico, con forti
potenzialità di crescita diretta e in grado di condizionare la nascita e
l’espansione di business complementari;
2. gap complessivo del sistema nei meccanismi che gli permettono di incorporare strumenti e conoscenze o nell’accedere a tecnologie fondamentali per poter evolvere secondo le logiche di una organizzazione economica moderna, attrezzata per competere nel mercato globale, un mercato
nel quale sempre di più conta la capacità dei soggetti economici di organizzare e controllare reti di relazioni e di gestire in tempi sempre più
stretti flussi informativi via via più articolati e complessi.
In questo contesto diventa per molti versi quasi emblematico il ritardo che
caratterizza l’Italia nello sviluppo di Internet sia nella diffusione dell’accesso
alla rete, sia nell’utilizzo economico da parte degli operatori, sia infine come
volano per generare opportunità in nuovi business.
Affrontare sia pure sommariamente le problematiche poste dallo sviluppo di
Internet implicherebbe tuttavia di allargare il discorso a temi tecnologici diversi e ad affrontare aspetti inerenti il mercato e le infrastrutture di telecomu-
143
IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE
nicazione, che si intrecciano certamente con quelle dell’IT, ma che conducono a considerazioni rilevanti ben al di là dei confini in cui si colloca questo
lavoro rivolto principalmente a tracciare un quadro del settore dei servizi alle
imprese.
Dalla posizione che l’Italia occupa come paese nel contesto internazionale
non si può ovviamente prescindere quando si intende esaminare più da vicino
la realtà dei servizi informatici o più in generale del settore dell’information
technology nelle regioni del Nord.
IL MERCATO
DELL’IT: IL PESO
DEL NORD ITALIA
A LIVELLO
NAZIONALE
UN RAFFRONTO
INTERNAZIONALE
Non si può comunque fare a meno di iniziare con la constatazione che sul
piano interno l’area settentrionale presenta sicuramente una significativa concentrazione di attività di servizio collegate con le tecnologie dell’informazione.
In particolare si può rilevare che gli addetti alle unità locali delle imprese del
settore, al censimento intermedio 1996 risultavano in Italia 203 mila, di cui
122 mila (60%) al Nord.
La quota delle regioni settentrionali va da un minimo del 56% nelle attività di
“Fornitura di software e consulenza in materia di informatica” ad un massimo
del 64% nei servizi di “Elaborazione elettronica dei dati”.
Si tratta di quote elevate, ma sostanzialmente in linea con quelle rilevate per
molte altre attività di BS e coerenti con le dimensioni del sistema economico
e imprenditoriale dell’area.
Proporzioni analoghe sono attribuibili alle regioni del Nord Italia se si esamina la ripartizione territoriale delle spese nel settore IT: nel 1997, in base ai
dati Assinform, la quota del Nord Italia risulta pari al 58% del totale nazionale.
Rapportando i valori assoluti alla popolazione e agli occupati si osserva che i
differenziali più significativi riguardano la posizione di evidente arretratezza
del Mezzogiorno rispetto al resto del paese; esistono tuttavia anche scostamenti di un certo rilievo tra Nord Ovest e Nord Est. In questa ultima area
in particolare si registra una spesa per occupato sul mercato informatico, che,
sia pure di poco, è al di sotto della media nazionale.
Il fatto che il Nord nel suo insieme, e l’area di Nord Ovest, in modo particolare, presentino un livello abbastanza elevato di spesa informatica, non è comunque un indice che autorizza a collocare questo territorio tra le aree europee a più forte penetrazione per quanto riguarda l’information technology.
Anche se non è possibili disporre di dati di raffronto diretto è sufficiente assumere come termine di paragone un’area come quella costituita complessivamente da Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo. Qui la popolazione (circa
26 milioni di abitanti) è di poco superiore a quella presente nel Nord
dell’Italia (25,2 milioni), ma il mercato dell’information technology, in base
ai dati EITO per il 1998, raggiunge i 15,4 miliardi di ECU, cioè una cifra
prossima a quella dell’intero mercato italiano (16,3 miliardi).
È indubbio pertanto che anche sul piano dell’information technology, il livello raggiunto dall’Italia del Nord, sia pure con divari attenuati, rimane distante
da quello dei paesi economicamente più sviluppati, soprattutto da quell’area
che, facendo perno su capitali e importanti città e sedi europee, come Londra,
Parigi, Amsterdam, Bruxelles, si è da tempo candidata come sistema integrato e interdipendente di poli terziari avanzati del continente.
144
IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE
ALLEGATI STATISTICI
Tab. 1 – Addetti alle unità locali di Business Services, 1996 – Indicatori di densità
Nord
Italia
Densità:
Indice
Numero
Numero
Italia = 100
- per 1000 abitanti
24,2
30,9
128
- per 1000 occupati
68,5
74,9
109
- per 1000 addetti alle imprese
99,7
95,7
96
Fonte: elaborazioni su dati Istat
Tab. 2 – Incidenza delle aree del Nord Italia nell’offerta di Business Services di tipo moderno, 1996 (% calcolate sugli addetti alle unità locali)
di cui:
Attività (codice ATECO e descrizione)
Nord Nord Nord
Ovest Est
72.10.0 Consulenza per installazione di elaboratori elettronici
61,6 36,9 24,7
72.20.0 Fornitura di software e consulenza in materia di informatica
55,8 39,1 16,7
72.30.0 Elaborazione elettronica dei dati
63,7 36,9 26,8
72.40.0 Attivita’ delle banche di dati
59,8 25,3 34,5
72.60.1 Servizi di telematica, robotica, eidomatica
59,2 52,7
6,5
72.60.2 Altri servizi connessi all’informatica
61,8 48,3 13,4
73.10.0 R&S sperim. nel campo delle scienze naturali e ingegneria
58,2 46,9 11,3
73.20.0 R&S sperim. nel campo delle scienze sociali e umanistiche
59,3 36,2 23,1
74.12.2 Attività delle società di certificazione di bilanci
75,2 50,6 24,5
74.13.0 Studi di mercato e sondaggi di opinione
66,2 52,2 14,1
74.14.1 Consulenze finanziarie
54,4 30,4 24,0
74.14.2 Consulenze del lavoro
55,9 31,7 24,3
74.14.4 Amministraz. di società ed enti, consulenza e pianificazione 69,9 45,8 24,1
aziendale
74.14.5 Pubbliche relazioni
70,2 49,6 20,5
74.14.6 Agenzie di informazioni commerciali
64,1 45,9 18,2
74.20.3 Servizi di ingegneria integrata
68,6 52,2 16,4
74.30.1 Collaudi e analisi tecniche di prodotti
71,0 46,7 24,4
74.30.2 Controllo di qualità e certificazione di prodotti
67,7 45,0 22,7
74.40.1 Studi di promozione pubblicitaria
74,6 52,0 22,6
74.50.0 Servizi di ricerca, selezione e fornitura di personale
61,4 44,4 16,9
74.83.1 Organizzazione di convegni
57,5 35,8 21,7
74.83.3 Traduzioni e interpretariato
73,8 44,4 29,3
74.84.2 Agenzie di recupero crediti
61,5 48,7 12,8
74.84.5 Design e stiling di tessili, abbigl., calzature, gioielli, mobili 73,5 49,1 24,4
ecc.
Fonte: elaborazioni su dati Istat
145
IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE
Fig. 1 – Densità dei Business Services di tipo moderno
Addetti ai Business Services Moderni
(Indici ITALIA =100)
x 1000 Abitanti
x 1000 Occupati
x 1000 Addetti alle imprese
200
180
168
160
Indici ITALIA = 100
154
150150
146
140
129
122
121
116116
115
100
117
95
128
122
112
103
99
94
94
87
85
81
84
66
49
38
0
NORD OVEST
CENTRO
NORD EST
SUD E ISOLE
Lombardia
Emilia-Romagna
Piemonte
Veneto
Toscana
Fonte: elaborazioni su dati Istat
146
Lazio
IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE
Fig. 2 – Posizionamento delle regioni italiane nel sistema dei Business Services di tipo
moderno
Addetti ai BS moderni
x 1000 addetti alle imprese
Laz
40
Lom
Pie
Lig
Umb
Bas
Sar
20
CalSic
0
EmR
VdA
Mar
Cam
Pug
Mol
FVG
Tos
TAAVen
Abr
4,5
9
x 1000 abitanti
Fonte: elaborazioni da dati Istat
Tab. 3 – Incidenza delle diverse componenti territoriali nell’intercambio con l’estero dei
servizi alle imprese, 1998 (% sul totale Italia)
Crediti (C)
Debiti (D)
Movimento M = C+D
Totale Italia (*)
100,0
100,0
100,0
area:
NORD
79,3
77,2
78,1
- Nord Ovest
67,7
62,9
64,9
- Nord Est
11,6
14,3
13,2
regione:
Piemonte
17,0
10,6
13,3
Lombardia
46,6
49,0
48,0
Veneto
4,1
5,4
4,9
Emilia-Romagna
5,2
5,6
5,4
Lazio
15,1
14,9
15,0
provincia:
Torino
15,0
8,7
11,3
Milano
41,1
40,8
40,9
Roma
15,0
14,0
14,4
(*) totale ripartibile a livello territoriale
Fonte: elaborazioni su dati UIC – Banca d’Italia
147
13,5
IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE
Tab. 4 – Bilancia dei crediti e dei debiti dei servizi alle imprese per tipo di servizio a livello nazionale, 1998 (valori in miliardi di lire)
Crediti
Debiti
C
D
Servizi di Pubblicità
1.477
2.080
Ricerche di mercato
140
267
Servizi legali
153
230
Cons. fiscale e contabilità
221
307
Compensi professionali
835
930
Spese di rappresentanza
1.467
1.581
Servizi informatici
498
1.357
- Software
199
865
- Manut.-riparazione com42
35
puter
- Data process. e database
16
131
- Altri servizi iinformatici
241
326
Servizi tecnol. e assistenza
5.016
6.370
- Brevetti
109
213
- Licenze
450
1.241
- Know how
123
231
- Marchi di fabbrica
222
310
- Disegni industriali
15
14
- Servizi ricerca/sviluppo
987
1.149
- Ass. per brevetti./licenze
896
973
- Consulenze/studi tecnici
1.960
1.534
- Formazione personale
44
72
- Altri servizi tecnologici
210
633
Affitti e noleggi
1.311
2.351
Altri servizi per le imprese
3.082
5.456
TOTALE SERVIZI PER
14.200
20.929
LE IMPRESE
Fonte: elaborazioni su dati UIC – Banca d’Italia
148
Copertura
del debito
Movimento
Saldo
M = C+D
3.557
407
383
528
1.765
3.048
1.855
1.064
77
S = C-D
-603
-127
-77
-86
-95
-114
-859
-666
7
C/D
0,710
0,524
0,665
0,720
0,898
0,928
0,367
0,230
1,200
147
567
11.386
322
1.691
354
532
29
2.136
1.869
3.494
116
843
3.662
8.538
35.129
-115
-85
-1.354
-104
-791
-108
-88
1
-162
-77
426
-28
-423
-1.040
-2.374
-6.729
0,122
0,739
0,787
0,512
0,363
0,532
0,716
1,071
0,859
0,921
1,278
0,611
0,332
0,558
0,565
0,678
IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE
Tab. 5 – Bilancia italiana dei crediti e dei debiti dei servizi alle imprese per paese, 1998
(valori in miliardi di lire)
Crediti
Stati Uniti
Regno Unito
Francia
Germania
Svizzera
Paesi Bassi
Belgio
Spagna
Lussemburgo
Austria
Irlanda
Giappone
Svezia
Danimarca
Altri paesi
TOTALE
C
2288
2065
2052
1624
1288
1053
894
296
366
141
122
254
134
84
1539
14200
Debiti
D
4961
3193
2537
2371
1546
1506
677
412
261
380
278
193
225
117
2270
20927
Movimento
M = C+D
7249
5258
4589
3995
2834
2559
1571
708
627
521
400
447
359
201
3809
35127
Saldo
S = C-D
-2673
-1128
-485
-747
-258
-453
217
-116
105
-239
-156
61
-91
-33
-731
-6727
Copertura del
debito
C/D
0,461
0,647
0,809
0,685
0,833
0,699
1,321
0,718
1,402
0,371
0,439
1,316
0,596
0,718
0,678
0,679
Fonte: elaborazioni su dati UIC – Banca d’Italia
Tab. 6 – Bilancia italiana dei crediti e dei debiti dei servizi alle imprese per paese, 1998
(composizione percentuale)
Crediti
Debiti
Movimento
C
D
M = C+D
Stati Uniti
16,1
23,7
20,6
Regno Unito
14,5
15,3
15,0
Francia
14,5
12,1
13,1
Germania
11,4
11,3
11,4
Svizzera
9,1
7,4
8,1
Paesi Bassi
7,4
7,2
7,3
Belgio
6,3
3,2
4,5
Spagna
2,1
2,0
2,0
Lussemburgo
2,6
1,2
1,8
Austria
1,0
1,8
1,5
Irlanda
0,9
1,3
1,1
Giappone
1,8
0,9
1,3
Svezia
0,9
1,1
1,0
Danimarca
0,6
0,6
0,6
Altri paesi
10,8
10,8
10,8
TOTALE
100,0
100,0
100,0
Fonte: elaborazioni su dati UIC – Banca d’Italia
149
IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE
Tab. 7 – Andamento della bilancia italiana dei crediti e dei debiti dei servizi alle imprese
negli anni Novanta (valori in miliardi di lire)
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
Crediti
Debiti
Movimento
Saldo
C
5.587
5.964
7.786
8.791
9.598
10.970
11.620
13.984
14.200
D
7.319
8.897
11.241
12.963
13.855
15.419
16.480
17.677
20.927
M = C+D
12.906
14.861
19.027
21.754
23.453
26.389
28.100
31.661
35.127
S = C-D
-1.732
-2.933
-3.455
-4.172
-4.257
-4.449
-4.860
-3.693
-6.727
Copertura del
debito
C/D
0,763
0,670
0,693
0,678
0,693
0,711
0,705
0,791
0,679
Fonte: elaborazioni su dati UIC – Banca d’Italia
Tab. 8 – Dinamica del mercato dell’IT nei principali paesi europei
(tassi di variazione calcolati su valori in ECU)
1998/1997
1999/1998
EUROPA
9,4
9,7
Italia
8,3
8,3
Francia
9,8
10,1
Germania
9,5
10,0
Regno Unito
9,8
9,8
Spagna
9,5
9,4
Fonte: EITO 1999
2000/1999
9,5
8,7
10,8
9,3
9,9
9,8
Fig. 3 – Penetrazione delle tecnologie informatiche, 1997. Confronti internazionali
Diffusione delle tecnologie informatiche
PC installati per 100 abitanti
45
USA
30
Regno Unito
Germania
Francia
Giappone
15
Spagna
Italia
0
0
450
900
Spesa EDP per abitante
(dollari USA)
Fonte: elaborazioni su dati ASSINFORM/Gartner Consulting
150
IL SISTEMA DEI SERVIZI ALLE IMPRESE
BIBLIOGRAFIA
(Principali fonti statistiche e riferimenti documentari)
Istat (1996), Censimento intermedio dell’industria e dei servizi, banca dati on-line.
Banca d’Italia (1998), Relazione Annuale.
UIC – Bollettino statistico.
Eurostat (1997), Panorama of EU Industry.
Assinform (1998), Rapporto sull’informatica e le telecomunicazioni.
Osservatorio SMAU sull’information & communication technology 1999.
European Commission DGXXIII.A3 (October 1997), Evolution of the Internet and
WWW in Europe (by Databank Consulting, IDATe, TNO) – Final report.
Eito (1999), Il Mercato dell’IT in Europa, documento diffuso sul sito Internet de “Il
sole 24 Ore”.
Oecd (1997), Information technology outlook.
151
RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ.
IL FUTURO DEL RISPARMIO
Giuseppe Russo*
LE RADICI DEL BENESSERE – IL RISPARMIO DEL SETTENTRIONE: STORIA DI VIRTÙ E DI NECESSITÀ –
DA UN AUREO PASSATO A UN FUTURO INCERTO
LE RADICI DEL BENESSERE
Quali basi finanziarie hanno sostenuto lo sviluppo economico dell’Italia del
Nord? Quali i principali cambiamenti in queste basi? Si va in direzione di un
loro rafforzamento, come i processi di consolidamento nel settore finanziario
farebbero supporre, oppure esiste un concreto rischio di impoverimento delle
risorse necessarie per lo sviluppo delle regioni settentrionale del paese? Cercheremo le risposte a queste domande, facendo anzitutto parlare i dati.
Non vi è sviluppo senza processo di accumulazione di beni d’investimento o
capitali. L’accumulazione – a sua volta – si origina dal risparmio, ossia dai
redditi non destinati al consumo immediato, ma accantonati e investiti nella
crescita della capacità produttiva. Il circolo virtuoso generato da redditorisparmio-investimenti è alla base di qualunque processo di crescita.
La premessa del risparmio è, dunque, la produzione del reddito, e in quanto a
produzione la pianura padana, e in particolare il suo cuore industriale e terziario, rappresenta forse il principale “motore economico” d’Italia. Nelle regioni
che vanno dalla Valle d’Aosta al Friuli, e si spingono a sud fino all’Emilia
Romagna, l’economia privata produce il 57 del valore dei beni e servizi vendibili, mentre la quota di popolazione (circa 25,6 milioni) della stessa area è
del 43 per cento.
Della robustezza del motore produttivo padano si discute in un’altra sezione
della ricerca. Citiamo comunque il fatto che la comparsa di aree di recente
industrializzazione in altre regioni del paese, come nella costa adriatica, non
sia avvenuta in competizione con le aree storiche della crescita industriale
d’Italia. Quando, a partire dagli anni Ottanta, queste ultime hanno più o meno
marcatamente segnato il passo, ciò non è avvenuto per l’emergere di aree
nuove protagoniste, ma per le difficoltà competitive che alcuni settori dell’industrializzazione storica hanno dovuto affrontare, talora non avendo ancora
risolto i problemi della globalizzazione della concorrenza e della relativa minaccia alle specializzazioni tradizionali delle attività produttive padane.
UNA
CAPACITÀ DI
REDDITO…
In ogni caso, come anzi si evidenziava, la produzione di risorse che ogni anno
si realizza in Italia settentrionale è assai consistente: la regione vantava nel
1995 un Pil di 974 mila miliardi, pari a 38 milioni pro capite1. Fatta pari a
100 tale somma, il reddito pro capite in Francia vale 101, in Germania 108, in
Spagna 58, in Austria 106, in Slovenia 41, in Croazia 18. Il tenore di vita
nell’Italia settentrionale è potenzialmente2 assai elevato, data la capacità di
*
Centro “Luigi Einaudi”, Torino
La media della restante parte d’Italia è di 25 milioni di lire pro capite (1995)
2
Introduciamo questo aggettivo, per anticipare che in realtà non è detto che tutto il reddito
prodotto in una certa regione sia disponibile per il consumo o il risparmio nella stessa, ma si
1
153
RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO
acquisto di tale reddito. Per averne un’idea si può confrontare il reddito per
abitante del settentrione, calcolato a Psa3, con quello delle regioni europee di
frontiera. Il reddito medio per abitante a Psa (nel triennio 1994-’96) va dai
20.390 Ecu nel Nord Ovest, ai 21.432 nel Nord Est, ai 22.740 nell’EmiliaRomagna. La media italiana è di 17.732 Ecu, inferiore a quella settentrionale,
benché simile a quella Europea (EU-11), pari a 17.616 Ecu. I valori settentrionali sono poi superiori sia a quelli dell’Austria (19.334 Ecu), sia a
quelli della Francia meridionale (15.439 Ecu, con una punta di 16.260 Ecu in
Rhones Alpes-Costa Azzurra). Il tenore di vita dell’Italia del Nord è pressoché comparabile con quello della ricca Baviera, pari a 21.886 Ecu, naturalmente sempre a PSA.
Collocata in prossimità del vertice della classifica europea per produzione di
Pil, e con una popolazione pari a tre volte quella di un paese come l’Austria,
è legittimo attendersi che l’Italia settentrionale sia capace di accantonare annualmente un ammontare piuttosto considerevole di risorse, in prima approssimazione per destinarle al processo di riproduzione e di accumulazione del
proprio stock di capitale produttivo.
Figura 1
Tassi di risparmio complessivo nelle suddivisioni dell'Italia
(percentuali del reddito, 1980-1994, elaborazione su dati di contabilità regionale ISTAT, cfr nota 4)
30,0%
25,0%
20,0%
15,0%
10,0%
5,0%
0,0%
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
Italia settentrionale
… DA REGIONE
FORTE EUROPEA …
1988
ITALIA
1989
1990
1991
1992
1993
1994
Resto d'Italia
Come si può osservare dalla figura 1, tra il 1980 e il 1994 il risparmio regionale, sulla base di un calcolo effettuabile dai dati di contabilità regionale, che
pure non permettono l’individuazione separata del residuo fiscale4, è oscillato
in Italia settentrionale tra il 25 e il 28 per cento del reddito regionale prodotto.
Il valore medio italiano è inferiore di circa 8-9 punti, ossia pari al 18 per cento. Il risparmio del resto d’Italia, ossia nella regione che si ottiene aggregando
il “non Settentrione”, si ferma intorno al 13 per cento5.
possono concepire diverse forme di trasferimento (momentaneo o definitivo, a seconda del
titolo che lo genera) del potere d’acquisto prodotto.
3
Psa, Parità Standard di Acquisto. Eurostat, News release n°11/99, 9/2/1999.
4
I valori di risparmio esposti nelle figure 1 e 2 sono ottenuti attraverso la formula: S = Y - C G = I + dS - In (dove dS è l’investimento involontario in scorte e In le importazioni nette dal
resto del mondo). Il residuo fiscale sarà oggetto di attenzione nel seguito della scheda.
5
Si consideri, che in quest’ultimo caso abbiamo un consumo di risparmio fiscale (residuo fiscale negativo), il che farebbe diminuire il tasso di risparmio complessivo presentato.
154
RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO
Se poi si passa da questi valori, indicativi della potenzialità di accumulazione
della regione, alle somme per abitante, si trova che il risparmio (privato) per
abitante era di 8,9 milioni di lire per abitante (nel 1994) in Italia settentrionale, e solo di 2,4 milioni nel resto dell’Italia. Per questa ragione, l’economia
dell’Italia settentrionale e i suoi protagonisti erano e sono responsabili di generare oltre i due terzi del risparmio nazionale (69 per cento del complesso,
figura 3), e non è eccessivo affermare che sulla formazione e sull’impiego di
questo surplus si sia basata, nei decenni dello sviluppo industriale, la capacità
di crescere e progredire dell’economia nazionale.
Figura 2
Il risparmio regionale pro capite
(elaborazione su dati di contabilità regionale ISTAT, 1994, cfr nota 4)
10.748.972
8.337.869
8.714.912
8.331.488
8.920.137
7.359.571
6.304.504
5.242.561
5.119.754
2.767.227
6
Resto d'Italia
ITALIA
Italia settentrionale
Emilia Romagna
Liguria
Friuli
2.345.948
Veneto
PIÙ DA PRIMATO
Trentino A.A.
ELEVATA, MA NON
Lombardia
RISPARMIO
Valle d'Aosta
FORMAZIONE DI
Per offrire un confronto completo delle virtù risparmiatrici dell’Italia settentrionale, e quindi della sua non comune capacità di accumulazione, può risultare convincente un confronto internazionale. Il risparmio settentrionale del
28 per cento del Pil si paragona a un tasso di risparmio del 26 per cento in
Olanda, 24 per cento in Austria, 23 per cento in Belgio: tutti paesi ad alto
reddito e limitate dimensioni. Se si osservano i valori di paesi più grandi, il
tasso di risparmio complessivo scende al 23 per cento del reddito in Germania, al 21 in Francia e Spagna, al 19 nel Regno Unito6.
Piemonte
… E UNA
Dati internazionali riferiti al 1997 (fonte: World Bank, World Development Report, 1998-99).
155
RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO
Fig. 3 – Quote di formazione del risparmio in Italia (1993)
Italia settentrionale
Resto d'Italia
31%
69%
IL RISPARMIO DEL SETTENTRIONE: STORIA DI VIRTÙ E
DI NECESSITÀ
Virtuosi, o forzati? Un po’ entrambi gli aggettivi si possono utilizzare per indicare gli agenti economici del Nord Italia. Virtuosi, certo, perché il risparmio delle imprese deriva dalla redditività delle attività produttive, e quindi
dalla loro efficienza, e dal tasso di innovazione. Virtuosi altresì perché il risparmio volontario delle famiglie deriva da un modello culturale di comportamento che sa vedere oltre il quotidiano e riconosce un adeguato valore civico e culturale, oltre che individuale, all’accantonamento di una parte delle
disponibilità. Ma anche forzati del risparmio, in quanto il risparmio positivo
della pubblica amministrazione è il riflesso dei più elevati prelievi fiscali operati nel settentrione d’Italia, con lo scopo di perequare i livelli di spesa e di
garantire diritti di cittadinanza equivalenti a tutti gli abitanti della penisola.
Ma quali sono le cifre in gioco, e quali le tendenze in corso?
LA VIRTÙ /1:
Partiamo dal risparmio delle imprese, formato dai profitti che, in luogo di essere distribuiti, sono destinati all’investimento nelle attività medesime. Non
disponiamo del dettaglio regionale di quest’ultima grandezza, ma di quella
sulla quale essa si basa, ossia sul risultato di gestione delle unità produttive
del settore privato, abbiamo una documentazione statistica sufficiente. Nel
1995 il risultato lordo di gestione scritto nei conti nazionali è ammontato
complessivamente in Italia a 857 mila miliardi di lire, rappresentando una
percentuale del 60 per cento circa del valore aggiunto prodotto nel settore
privato.
… IMPRESE PICCOLE,
Si intuisce, prendendo in considerazione anche solo questa informazione,
quale straordinaria caratteristica sia quella italiana, di essere un’economia pe-
156
RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO
culiarmente costituita da piccole e piccolissime imprese, aziende famigliari,
artigianali e studi professionali individuali.
… RICCHE,
Ebbene, 459 mila miliardi del risultato lordo di gestione del settore privato
sono prodotti nell’Italia settentrionale, che da sola genera il 60 per cento delle
forme di reddito imprenditoriale della penisola. Il restante 40 per cento si ripartisce così: 17 per cento nel centro d’Italia e 23 per cento nel mezzogiorno.
Per confronto, la popolazione nazionale è distribuita per il 43 per cento al
nord, per il 20 per cento nel centro d’Italia e per il restante 37 per cento nel
mezzogiorno (e isole). Stimando i redditi distribuiti delle imprese e delle attività individuali, sulla base dei consumi delle relative famiglie e della propensione al risparmio famigliare per tali categorie professionali, è possibile giungere a una determinazione indiretta del risparmio al netto delle imposte
generato delle imprese settentrionali: esso sarebbe ammontato a circa 98 mila
miliardi nel 1995. Un valore notevole: è quasi come se ogni anno le imprese
settentrionali riuscissero a ricreare l’equivalente di un’impresa a larga capitalizzazione, come la Telecom. Il tasso di accumulazione endogeno delle imprese settentrionali è tale che appena sette anni e mezzo sarebbero sufficienti,
con un tasso di rendimento normale (comprendente un piccolo premio di rischio), per replicare la capitalizzazione dell’intera Borsa di Piazza Affari7.
Al di là dell’osservazione, piuttosto naturale, che l’evoluzione di questa massa di risorse che si crea nuovamente ogni anno è ovviamente ciclica, come ci
si aspetta normalmente dai redditi aziendali, e pertanto è suscettibile di rallentamenti congiunturali anche vistosi, sembra più interessante chiedersi se e
che cosa stia cambiando in merito alla destinazione del capitale di nuova
formazione.
Da un lato, infatti, l’ampia presenza delle piccole e micro imprese, per non
dire delle imprese individuali, porta a supporre che l’impiego del risparmio
delle imprese sia prevalentemente locale, così come la sua formazione. Se
questa osservazione è vera nei termini generali, il risparmio delle imprese settentrionali, ovviamente quello rimanente dopo l’imposizione fiscale nazionale e locale, tenderà a restare nella stessa Italia settentrionale e a impiegarsi
nell’ulteriore sviluppo della sua economia.
… CHE SI
INTERNAZIONALIZZANO
Accanto a questa affermazione, che fornisce una base di verità sostanziale, si
deve affiancare un giudizio sulla tendenza, che invece non ci consente una
uguale tranquillità. In primo luogo, infatti, le grandi imprese, anch’esse prevalentemente presenti nel Nord Italia, sono spinte a globalizzarsi, perdendo il
vestito nazionale che per troppo tempo l’imprenditoria italiana ha preferito
indossare, accumulando ritardi nella sua presenza internazionale rispetto ai
concorrenti esteri. In secondo luogo, occorre considerare che la creazione di
un mercato unico europeo, reso completo da un’unica moneta, ha improvvisamente diminuito la dimensione relativa delle piccole imprese italiane. Le
più dinamiche hanno così incominciato a guardarsi intorno, con l’obiettivo di
investire all’estero: crescere per non scomparire. Non si può certo dire che
quest’ultima sia una tendenza già consolidata, ma è almeno una tendenza emergente, spinta dal bisogno di competere e, oltre tutto, sostenuta dal fatto
7
Il che, per il vero, non è solo un indicatore indiretto della capacità di accumulo delle imprese
settentrionali, e della rilevanza del loro risparmio, ma anche della esiguità del mercato di Borsa
italiano rispetto all’economia reale sottostante.
157
RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO
che alcuni strumenti finanziari per la crescita esterna delle imprese stanno diventando normalmente disponibili anche sul mercato italiano8.
LA VIRTÙ /2:
Le famiglie dell’Italia settentrionale, 8 milioni per quasi 26 milioni di abitanti, contribuiscono in modo determinante alla formazione del risparmio locale,
e quindi alla formazione del capitale che, potenzialmente, potrebbe essere destinato al rafforzamento del tessuto regionale. Il risparmio delle famiglie settentrionali ammontava nel 1995 a circa 85 mila miliardi, e rappresentava il 60
per cento del complesso italiano. Distribuendo tale risparmio sul numero degli abitanti dell’Italia del Nord esso ammontava, mediamente, a 3,8 milioni di
lire pro capite. Un analogo calcolo riferito al resto d’Italia porta a un aggregato inferiore a 55 mila miliardi, ossia ad appena 1,5 milioni di lire per ogni abitante delle regioni centro-meridionali della penisola.
… CRESCITA,
Certo, le basi di tale disposizione alla parsimonia, che fa sì che gran parte
della formazione del capitale nazionale trovi le sue basi nel Nord Italia, non
sono solo di tipo comportamentale. Il maggior risparmio del Nord Italia è anche il frutto della maggiore creazione di reddito. Come la povertà di reddito
genera la sua stessa trappola, impedendo il risparmio, l’investimento e la crescita, allo stesso modo la relativa abbondanza di reddito alimenta il circolo
virtuoso opposto: dai maggiori redditi, al maggiore risparmio, al finanziamento degli investimenti, per finire – o ricominciare – con la raccolta dei
redditi incrementali conseguenti alla catena. È un po’ come affermare che
partendo in vantaggio si ha migliori probabilità di affermarsi mantenendolo:
una regola che chi si occupa di sviluppo conosce bene.
Fin qui le buone notizie. Ma le incoraggianti valutazioni puntuali sulla ricchezza – o forse sull’opulenza – dell’Italia settentrionale richiamano alcune
precisazioni, in chiave comparata e dinamica.
OPULENZA …
… E CRISI
Intanto, il risparmio delle famiglie italiane, anche settentrionali, non è più così sovrabbondante come nel passato. È un fatto, che la propensione al risparmio delle famiglie eccedesse nel 1980 di ben 11 punti la media dei paesi europei (23 per cento contro il 12 per cento); nel 1990 il vantaggio si era ridotto
a soli 7 punti (17 contro 10 per cento) e nel 1998 i due valori, italiano ed europeo, si sono rivelati schiacciati intorno all’11 per cento9.
In secondo luogo, queste tendenze aggregate si ritrovano, sia pure con qualche differenziazione, all’interno dell’Italia settentrionale, poiché è
quest’ultima a produrre la maggior parte del risparmio nazionale.
Per entrare nei comportamenti regionali delle famiglie, ci rivolgiamo
all’indagine annuale Bnl-Centro Einaudi, realizzata intervistando un campione di circa 1000 famiglie.
8
Ciò avviene sia grazie alla libertà di accesso di fornitori europei di servizi finanziari, favorita
dalla nascita dell’Euro e dalle liberalizzazioni collegate, sia grazie allo sforzo del legislatore
nazionale per colmare i divari con le realtà finanziariamente più progredite, per esempio in
materia di strumenti di investimento per le famiglie, che rappresentano strumenti di raccolta
per le imprese: si pensi al caso dei certificati di investimento, o al lancio dei fondi chiusi, alcuni prossimi alla quotazione sul mercato di Borsa.
9
Il calo della propensione italiana al risparmio da parte delle famiglie non si è riflessa completamente sul tasso di risparmio aggregato, sia per il recupero di redditività delle imprese, sia
perché il settore pubblico ha progressivamente ricondotto in attivo il suo bilancio, passando da
un “consumo” di risparmio a una “generazione”.
158
RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO
Ebbene, come si può osservare dalla tabella 1, la caduta del risparmio famigliare tra il 1984 e la rilevazione del 199810 risulta confermata, sia in termini
di aumento delle famiglie “escluse dal risparmio”, sia in termini di riduzione
della percentuale media di entrate nette accantonate dai risparmiatori.
All’interno della regione padana, tuttavia, le tendenze riscontrate dividono gli
ultimi quindici anni nei due periodi che vanno fino al 1990 e da quell’anno ad
oggi, segnando il ‘90 l’ultimo anno di espansione sostenuta dell’economia.
Nei due sottoperiodi così delimitati, è difficile riconoscere un pattern comune
per i territori nordoccidentali e quelli nordorientali. Durante gli anni Ottanta e
fino al 1990 i risparmiatori e i tassi di risparmio si sono mostrati stabili su livelli leggermente superiori alle medie nazionali nel Nord Ovest, mentre andavano fortemente aumentando nel Nord Est fino a un massimo del 18 per
cento, probabilmente in ragione del successo del modello di sviluppo del
Nord Est medesimo, nel quale allora si fondevano l’economia delle imprese
con quella delle famiglie, i processi di formazione del risparmio con quelli di
accumulazione del capitale produttivo.
… LA PARABOLA DEL
REDDITO E DEL
RISPARMIO NEI BILANCI
FAMILIARI
ANNI OTTANTA: UN
ANDAMENTO
DIFFERENZIATO TRA
NORD EST E
NORD OVEST
Dopo il 1990 la congiuntura girò decisamente all’ingiù: la sopravvalutazione
della lira finì per punire sia le regioni di più antica che di più recente industrializzazione, specialmente quelle che avevano basato le loro fortune su una
decisa penetrazione dei loro prodotti all’estero. Inoltre, dal 1992 in avanti i
redditi disponibili più elevati incominciarono ad essere erosi dalle manovre
fiscali, che colpirono con particolare intensità tutte le regioni settentrionali11.
Dal 1990 in poi si trovano così tracce di pattern del risparmio piuttosto simili
tra il Nord Est e il Nord Ovest, ed è appunto in quest’ultimo periodo che si ha
la maggiore erosione sia del numero delle famiglie risparmiatrici (dal 70 al
61 per cento nel Nord Ovest e dal 71 al 59 per cento nel Nord Est), così come
dei tassi di risparmio: esso subì ancora un piccolo calo dal 14 al 13 per cento
nel Nord Ovest, ma crollò di ben 4 punti, dal 18 al 14 per cento del reddito,
nel Nord Est.
I dati regionali sul risparmio confermano l’interpretazione di un andamento
duale dell’economia settentrionale. Appare particolarmente interessante osservare come le due metà dell’economia padana abbiano avuto andamenti
differenziati negli anni Ottanta e abbiano finito col convergere negli anni Novanta, quando dovettero riconoscersi ambedue avvolte in una crisi che fino
all’inizio dell’ultimo decennio non le aveva interessate entrambe: all’inizio si
trattava di una crisi di ristrutturazione del triangolo industriale, dunque non
una crisi geograficamente estesa, né socialmente diffusa. Essa non aveva infatti riguardato né l’Est del Settentrione, né le classi sociali intermedie, come
quella dei “colletti bianchi”, che in seguito finirono con l’essere anch’esse al
centro delle ristrutturazioni e delle richieste di sacrifici per risanare il bilancio
pubblico.
10
Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi (AA.VV.), Il risparmiatore affronta
l’Euro, Guerini ed. e BNL edizioni, Milano-Roma, 1998.
11
Il costo della convergenza verso l’UEM venne ripartito tra Nord e Sud, in modo che al primo toccarono circa i due terzi di esso, particolarmente attraverso maggiori tributi, mentre il
Mezzogiorno contribuì prevalentemente assorbendo tagli di prestazioni.
159
RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO
FINE ANNI NOVANTA:
UNA CONVERGENZA
VERSO IL BASSO
Dal 1992 la crisi finì così col raggiungere tanto i redditi disponibili (e le possibilità di risparmiare) dell’Est quanto l’intera “middle class” settentrionale.
Data la particolare sensibilità degli italiani al tema del risparmio e della sua
preziosità, non è difficile riconoscere in queste tendenze alcune delle probabili cause dei malumori del Nord: malumori che finirono, proprio in quegli anni, con l’assumere anche manifestazioni e forme di rappresentanza politica,
con diverso radicamento territoriale tra Nord Est e Nord Ovest. Il che, nuovamente, è ben comprensibile se si considerano le diverse genesi, e non solo i
diversi tempi, della crisi del Nord Ovest e di quella del Nord Est.
Tab. 1 – Il risparmio delle famiglie in Italia (per area geografica)
Anni
Media
CES
SUD
1984
1990
1998
NON RISPARMIATORI (in percentuale degli intervistati)
31.2
43.3
27.0
44.6
35.2
29.8
29.0
28.5
31.8
32.2
39.1
41.5
35.9
40.9
41.1
43.3
40.8
48.1
1984
1990
1998
RISPARMIATORI (in percentuale degli intervistati)
68.8
56.7
73.0
64.8
70.2
71.0
71.5
67.8
60.9
58.5
64.1
58.9
56.7
59.2
51.9
1984
1990
1998
TASSO MEDIO DI RISPARMIO (in percentuale delle entrate famigliari)
13.0
15.3
15.8
12.3
18.7
14.7
14.3
18.0
13.9
14.5
17.7
15.2
13.2
13.4
12.7
11.3
13.5
12.9
NOV
NES
CEN
55.4
68.2
59.1
Fonte: Indagine annuale Bnl-Centro Einaudi su risparmio e risparmiatori in Italia (anni vari)
LA NECESSITÀ.
IL “RESIDUO FISCALE”
E L’EUROCONVERGENZA
Le risorse prodotte in una regione facente parte di un’economia più vasta non
vengono tutte necessariamente impiegate all’interno. I processi economici
alla base della redistribuzione regionale delle risorse sono la bilancia commerciale e la formazione di un residuo (attivo o passivo) tra ciò che le amministrazioni pubbliche spendono (o trasferiscono) in sede regionale e quanto vi
prelevano. Il primo processo non necessariamente conduce a un impoverimento delle risorse regionali. Gli avanzi commerciali di una regione (verso il
resto del mondo) si traducono in crediti, ossia in accumulo di ricchezza che
servirà a riscuotere in futuro i consumi o i beni di investimento cui si è rinunciato oggi.
Diverso è il caso della formazione di un residuo fiscale positivo12, che è segno di prelievo netto di risorse da parte degli agenti pubblici. In tal caso, i re12
Il residuo fiscale non è una grandezza contabile, né un saldo di bilancio, bensì una grandezza
statistica, ottenuta attribuendo convenzionalmente a un ipotetico agente unico tutte le spese, i
trasferimenti e i prelievi effettuate da qualsiasi autorità pubblica, locale o centrale, in una regione considerata o a vantaggio di essa. Se il residuo è positivo, la regione in questione è trasferente netta di risorse. Se è negativo, è prenditrice netta. La somma algebrica dei residui regionali dovrebbe coincidere con il saldo globale di finanza pubblica. Se nel calcolo del residuo
si considerano gli interessi passivi sul debito pubblico, i criteri di ripartizione possono deter-
160
RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO
sidenti della regione trasferente non consumano (quindi risparmiano) parte
delle risorse create, senza necessariamente ricevere in cambio una promessa
restitutoria dall’autorità fiscale. Per questo, in questi casi, la virtù del risparmio diventa piuttosto necessità del risparmio.
Ci introdurremo in un territorio dove ci sarebbe difficile orientarci, se provassimo a definire a quale benchmark dovremmo riferire i valori empirici di residuo fiscale. Per limitarci ai fatti, diremo che non esiste uno Stato unitario
che non prelevi un residuo in alcune regioni, per trasferirlo in altre. E diremo
che l’entità dei residui regionali, in valore assoluto, tende a crescere al crescere dei divari regionali di reddito, sviluppo e produttività. I residui assoluti
sono ovviamente crescenti anche sulla base dell’entità, completezza e ricchezza del pacchetto dei diritti di cittadinanza che si vogliono garantire uniformi su tutto il territorio della nazione13.
Sulla base di ciò, è facile intuire che i residui italiani siano significativi. Da
un lato, l’Italia è un moderno e ricco paese che offre un esteso e uniforme
pacchetto di diritti di cittadinanza, indipendentemente da dove risiedano i
propri abitanti. Si pensi, per fare un esempio, alla generosità – quasi certamente non a lungo sostenibile – del pacchetto universale di diritti pensionistici. In più, secondo una recente ricerca dell’Unione Europea, l’Italia è il paese
dei quindici che presenta i più ampi divari di sviluppo tra le sue stesse regioni. I due fatti, insieme, producono i risultati riportati nella tabella che segue.
Tab. 2 – Evoluzione del residuo fiscale in Italia settentrionale
1989 lit correnti x mille
totale per abitante
Piemonte
Valle d'Aosta
Lombardia
Liguria
Trentino A.A.
Veneto
Friuli
Emilia Romagna
Italia settentrionale
Italia centro-sud
Italia
1995 lit correnti x mille
totale
per abitante
4.797.870.000
(956.455.000)
21.239.379.000
(3.150.048.600)
(3.987.841.600)
3.620.192.800
(2.495.931.200)
4.627.252.000
1.100
(8.317)
2.385
(1.818)
(4.504)
826
(2.072)
1.180
10.551.060.000
(607.562.400)
48.641.378.000
(1.002.631.500)
(4.053.450.000)
14.416.871.200
(355.245.800)
13.775.856.000
2.430
(5.097)
5.398
(591)
(4.430)
3.238
(298)
3.488
23.694.417.400
(91.994.516.100)
(68.300.098.700)
929
(2.872)
(1.187)
81.366.275.500
(59.543.450300)
21.822.825.200
3.169
(1.822)
374
Fonte: Maggi, Piperno 1998, cit.
minare stime molto diverse tra loro del residuo medesimo. Per un approfondimento: Maggi M.,
Piperno S. Dal risanamento all’Euro. Evoluzione del residuo fiscale nelle regioni italiane,
Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, ottobre 1998.
13
Dal che, le strade per ridurre i residui sono essenzialmente due: ridurre i divari di sviluppo –
terreno sul quale hanno fallito per decenni le politiche regionali – oppure per ristrutturare il
pacchetto nazionale dei diritti di cittadinanza, magari introducendo pacchetti regionali
nell’ambito di un sistema statale a matrice regionalista o addirittura federalista.
161
RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO
UN “RESIDUO FISCALE
POSITIVO” PER L’ITALIA
SETTENTRIONALE …
… E IN CRESCITA TRA IL
1989 E IL 1995
Nel 1989, gravava su ogni residente nell’Italia settentrionale l’onere di trasferire 929 mila lire al resto del paese. A quell’epoca, come pare evidente, era
forse addirittura più fondata la questione distributiva fiscale tra le diverse regioni dell’Italia settentrionale, che non la questione del trasferimento fiscale
nord-sud. Peraltro, il trasferimento di risorse dell’Italia settentrionale non bastava che a soddisfare un quarto (23 mila miliardi di lire) del fabbisogno di
risorse dell’Italia centro-meridionale (pari a 92 mila miliardi di lire), e il bilancio pubblico non poteva che chiudere in disavanzo (68 mila miliardi). Il
finanziamento del disavanzo con l’emissione di titoli del debito pubblico
chiudeva il circuito, rendendo più “tollerabili” le differenze. E’ semplice: i
più numerosi sottoscrittori del debito pubblico erano le famiglie settentrionali, che oltre a qualche tributo in più ricevevano anche un titolo di credito nei
confronti dello Stato centrale, sul quale contavano per riscuotere interessi reali elevati.
Ma nel 1995 la situazione diventava complessivamente diversa. A causa della
necessità di convergere entro la fine del 1997 verso il massimo di 3 per cento
di deficit pubblico (compresi gli interessi) sul Pil, le manovre dei Governi
portavano in positivo il saldo di bilancio primario (21 mila miliardi). Tenendo conto della non-autosufficienza delle finanze pubbliche delle regioni centro meridionali, pur migliorate passando dall’essere prenditrici nette di 2,8
milioni di lire per abitante a soli 1,8 milioni, l’ingresso nell’Euro ha quasi
quadruplicato, da 0,9 milioni a 3,2 milioni di lire per abitante il residuo fiscale netto prelevato nell’area padana. E ciò avveniva mentre cessava l’effetto
“anestetico” degli eccessivi tassi di rendimento reali sul debito pubblico, e
mentre poco appena si faceva per risolvere le questioni fiscali distributive interne al Settentrione. All’interno dell’Italia del Nord lo sforzo del risanamento non si distribuì egualmente. Se il Piemonte e la Lombardia raddoppiarono
il loro contributo, l’Emilia Romagna lo più che triplicò, e il Veneto addirittura lo vide quadruplicare.
Pare pertanto che si possa concludere che, sotto il profilo del risparmio pubblico, il Settentrione d’Italia, con ampie (spiegabili?) differenziazioni interne,
abbia contribuito fino a oggi soprattutto a trasferire risorse. Parsimoniosi per
necessità, quindi, sotto questo profilo, anche se più di una volta non senza dare vita a forme di protesta o rimarcando che sottrarre risorse al “motore produttivo” d’Italia potrebbe rivelarsi un errore strategico di lungo periodo per
tutto il paese.
Uno sguardo verso il futuro, purtroppo, non ci permette conclusioni preliminari ottimiste. Per due ragioni: perché il vincolo europeo continuerà a gravare
a lungo sui conti dell’Italia, richiedendo un sostanzioso avanzo di bilancio
primario, per via del Patto di stabilità e crescita e a causa dell’elevato quoziente tra debito e Pil, la cui erosione richiederà decenni. In secondo luogo, le
riforme sul decentramento e sulla semplificazione amministrativa non incideranno che su una delle chiavi strutturali del residuo, cioè sull’inefficienza e
sul costo totale della Pubblica Amministrazione, intatte le altre maggiori cause. E a questo proposito all’orizzonte non sembra apparire né una riforma in
chiave federale dello Stato, né un politica efficace contro i divari di sviluppo
economico14.
14
I patti territoriali sembrano essere una applicazione odierna di modelli di politica dei redditi
già abbandonati negli anni sessanta: allo stato, è dubbio che gli investimenti che susciteranno
162
RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO
DA UN AUREO PASSATO A UN FUTURO INCERTO
Il quadro delle risorse finanziarie endogene delle regioni della pianura padana
è del tutto confortante, se si ragiona sulla entità attuale di tali risorse; esso diviene problematico se invece si cercano di proiettare gli scenari futuri.
Pur costituendo uno dei bacini di ricchezza e risparmio più importanti
d’Europa, in un contesto di progressiva liberalizzazione dei flussi di investimento e di moltiplicazione dei canali di intermediazione finanziaria, rispetto
al tradizionale canale bancario, le minacce di abbandono regionale di una
quota crescente degli impieghi sono realistiche.
L’investimento all’estero di una parte del risparmio delle imprese costituirà il
naturale esito delle strategie di internazionalizzazione, e ancor prima di europeizzazione del sistema produttivo padano. La via degli investimenti esteri
sarà pressoché obbligata anche per le Pmi, tradizionali investitori interni regionali, date le nuove dimensioni del mercato europeo da servire e i collegati
requisiti di competitività e di aumento della scala minima efficiente15.
LE INCOGNITE SULLA
FORMAZIONE DI
RISPARMIO …
La formazione e soprattutto il mantenimento regionale del risparmio delle
famiglie presenta aspetti ancora più problematici. Intanto, v’è da chiedersi se
la caduta del tasso di risparmio (cfr. supra) sia strutturale, adeguandoci noi
progressivamente ai modelli comportamentali del tipo “ciclo vitale”, che prevedono l’intero consumo, nell’arco della vita, dello stock di ricchezza accumulata. Tali modelli comportano tassi di risparmio aggregati ridotti rispetto
ai modelli nei quali gli agenti traggono utilità personale dal tramandare
un’eredità alla generazione successiva16. L’ipotesi dell’affermarsi di modelli
del tipo “ciclo vitale”, più consumistici, troverebbe tra le altre conferme indirette il recente forte sviluppo del credito al consumo.
Potrebbe tuttavia darsi che l’emergenza pensionistica, con l’emersione di
fabbisogni previdenziali che fino a qualche tempo fa si supponevano coperti
dal sistema pubblico, tenda a spingere, se le condizioni dell’economia e dei
bilanci lo permetteranno, i tassi di risparmio nuovamente verso l’alto.
Pure in questa seconda ipotesi, che ci lascerebbe relativamente tranquilli a
proposito della formazione continua di nuova ricchezza da accumulare, anno
dopo anno17, non dobbiamo distogliere l’attenzione dal fatto che la probabilisaranno aggiuntivi, anziché sostitutivi. I patti territoriali presentano tuttavia il vantaggio di avere reso flessibile, sia pure in un modo indiretto e “regolamentato”, i ventagli salariali in Italia, il che rappresenta – come è noto – una condizione essenziale per l’appartenenza a
un’Unione Monetaria priva di un forte potere fiscale centrale e con regioni potenzialmente esposte a shock asimmetrici.
15
Ovviamente, l’uscita di queste risorse potrebbe corrispondere all’entrata di risorse estere, nel
caso in cui le dotazioni fattoriali (e le condizioni al contorno, ivi comprese quelle fiscali) fossero tali da consentire tassi di rendimento netti competitivi con quelli internazionali. Le attività
di marketing territoriale per promuovere gli investimenti esteri possono essere utili a questo
proposito, ma si trovano in uno stadio appena iniziale in tutta l’area in esame.
16
Altre ragioni per una riduzione strutturale del tasso di risparmio familiare ai livelli attuali
sono il raggiungimento della proprietà di un’abitazione da parte di oltre il 66 per cento delle
famiglie nel Nord Ovest e oltre l’80 per cento nel Nord Est.
17
“L’età dell’oro” del risparmio cesserà insieme al passare delle generazioni del baby boom.
La prima generazione di baby boomers andrà in pensione, cessando di accumulare risparmi, tra
il 2010 e il 2015. L’ultima tra il 2025 e il 2030. L’aggregato annuale del risparmio incomincerà a erodersi dopo il 2010, e l’erosione diverrà importante dopo il 2020. Più o meno in quello
163
RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO
tà che le risorse generate in un territorio tornino a investirvisi dipendono crucialmente dal canale imboccato dal risparmio dopo la sua formazione. Negli
anni Settanta esso veniva impiegato in depositi presso banche (che avevano –
particolarmente allora – forti radici locali), fino a che tali depositi non consentivano l’acquisto di una casa. Le case hanno la proprietà di essere non solo
beni immobili, ma anche fortissimi attivatori (direttamente e indirettamente)
dell’economia locale, il che garantiva che il risparmio delle famiglie servisse
prevalentemente proprio ai bisogni di sviluppo del territorio dove esso si era
formato. Negli anni Ottanta (fino al 1988) la situazione rimase più o meno la
stessa, con la variazione che l’investimento temporaneo preferito non era più
– o non era soltanto – il deposito in una banca, ma il titolo di Stato a breve
termine o indicizzato. Nulla cambiava però nella sostanza del circuito reale,
che continuava a mettere la casa, e quindi l’economia locale, al primo posto.
… E SULLA CAPACITÀ DI
TRATTENERLO NEL
SETTENTRIONE
Con la nascita dell’Euro tutto ciò sta venendo meno in tempi rapidi. Una volta formato, il risparmio che prenderà la via dell’intermediazione creditizia potrà essere offerto all’interno di un’area monetaria di ben undici paesi. Il risparmio che imboccherà la via delle gestioni professionali (collettive,
pensionistiche, individuali, assicurative) verrà poi investito senza una priorità
regionale o locale, ma solo secondo criteri professionali e di redditività, confrontata con il rischio. La tendenza a investire all’estero sarà evidentemente
maggiore che in passato, data la scomparsa del rischio di cambio all’interno
dell’area degli undici. Tutto ciò rappresenta certamente un progresso per i risparmiatori, per la concorrenza e l’efficienza nel settore finanziario, per
l’efficienza allocativa del capitale nell’economia europea. Ma una conseguenza di ciò è che nel medio periodo l’Italia settentrionale potrebbe vedere
un’erosione della base di risorse finanziarie disponibili. Non vi saranno infatti
più i recinti normativi, né quelli dettati dalle consuetudini, a proteggere il
mercato regionale del risparmio. Per continuare a essere attrattivi, nei confronti del risparmio locale così come di quello estero (non bisogna dimenticare che l’Euro ha due facce assolutamente simmetriche), occorrerà invece offrire tassi di remunerazione competitivi, il che chiama in causa la struttura e
la qualità dell’economia reale, il suo tasso di innovazione, la capacità di organizzarsi per competere con successo nel grande mercato unico.
La dimensione continentale del mercato finanziario in Euro, confrontata con
la dimensione regionale dell’economia dell’Italia settentrionale non costituirà
necessariamente un punto di debolezza per lo sviluppo di quest’ultima. A
parte le considerazioni in merito al drenaggio del residuo fiscale, che il mercato unico non cambia, restando intatta la sovranità nazionale nel determinare
i flussi di trasferimento fiscale all’interno di ogni nazione18, a flussi di risparmio privato più liberi di uscire corrisponderanno flussi di risparmio estero più liberi di entrare. In qualche campo, una minore protezione del mercato
stesso periodo i Fondi pensione che stanno per nascere diverranno venditori importanti di attività finanziarie, con effetti da valutare anche sui prezzi delle medesime.
18
L’Unione Europea non ha poteri redistributivi del reddito e/o della domanda aggregata tra le
regioni, fatta eccezione per la destinazione dei Fondi strutturali. Questi ultimi, in prospettiva
futura, è naturale che tenderanno a rivolgersi per lo più verso i paesi e le regioni di prossima
ammissione, secondo il calendario di massima di “Agenda 2000”. Dal punto di vista delle regioni sviluppate dell’Unione, già beneficiarie dei Fondi (es. Obiettivo 2) questa prospettiva
aumenta il residuo fiscale positivo e contribuisce al drenaggio di risorse regionale. Torino, per
esempio, rischia di uscire dalla distribuzione dei Fondi strutturali già dalla prossima tornata
pluriennale.
164
RICCHEZZA LIBERTÀ E VIRTÙ. IL FUTURO DEL RISPARMIO
finanziario interno, compensata dalle maggiori opportunità del mercato europeo, potrebbe produrre risultati positivi. Si pensi, per esempio, alla opportunità di attrarre risorse finanziarie internazionali private sui grandi progetti infrastrutturali di cui l’intera regione è carente, attraverso l’uso del project
financing. Tuttavia, non vi saranno premi assicurati né benefici garantiti. La
distribuzione delle risorse avverrà attraverso il mercato, e per mantenere o
eventualmente accrescere la nostra quota sarà centrale l’effettiva capacità di
competere degli agenti economici regionali, nonché l’impegno a sostenerne
la competitività da parte dei decisori politici.
165
IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA
IMPRENDITORIALE
Sergio E. Rossi*
IL
SISTEMA TRADIZIONALE DI FINANZIAMENTO
– IL
– LA
RIALLOCAZIONE DEI FLUSSI DI RISPARMIO-
– LA BORSA VALORI
– I MERCATI DI BORSA PER LE PMI – IL SETTORE DEL PRIVATE EQUITY – LE DEBOLEZZE
DAL LATO DELLA DOMANDA – IL CIRCOLO VIZIOSO – NOTE CONCLUSIVE – BIBLIOGRAFIA
INVESTIMENTO
SISTEMA FINANZIARIO DELL’ITALIA SETTENTRIONALE
ITALIANA
IL SISTEMA TRADIZIONALE DI FINANZIAMENTO
Il miracolo economico italiano, concentrato in larga misura nelle regioni
dell’Italia del Nord, è stato sostenuto da un contesto macroeconomico, in particolare fiscale e monetario, che seppure con notevoli storture si è rivelato
funzionale al modello di sviluppo del nostro paese. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta lo sviluppo del sistema imprenditoriale del Nord Italia è stato
oggettivamente agevolato dalle politiche economiche adottate in quegli anni,
un ibrido non bello, ma efficace di politiche di stampo keynesiano accompagnate da una politica fiscale blanda. Il mix di credito a buon mercato, incentivi pubblici all’industria e bassa fiscalità con ampi margini di elusione ed evasione hanno favorito lo sviluppo tumultuoso di un sistema imprenditoriale
diffuso e dinamico.
L’abbandono delle politiche keynesiane nel corso degli anni Ottanta, se pure
ha imposto una ridefinizione delle condizioni di contesto a causa degli elevati
tassi di interesse reali sperimentati in quegli anni, non ha inciso in misura radicale sulla capacità di accumulazione del sistema produttivo. Gli ampi margini di evasione fiscale e gli elevati rendimenti offerti dalle attività finanziarie
hanno comunque consentito la creazione di profitti in buona misura reinvestiti nel sistema produttivo locale.
ANNI OTTANTA: UN
SISTEMA BANK
ORIENTED CON FORTI
CONNOTAZIONI
LOCALISTICHE
Nonostante l’effetto di spiazzamento, causato dalla crescita abnorme dei rendimenti e dei volumi dei titoli del debito pubblico, i profitti delle imprese e i
risparmi delle famiglie hanno continuato a trovare una collocazione prevalentemente locale, sia attraverso forme di investimento immobiliare, sia attraverso le dinamiche di intermediazione largamente sostenute dal sistema finanziario. Si trattava di un sistema fortemente bank-oriented in cui la stessa
fiscalità, e non solo l’organizzazione istituzionale, ha favorito il ricorso al
credito bancario penalizzando altre forme e strumenti di reperimento di risorse finanziarie per lo sviluppo. Esso era per di più incentrato su un sistema
bancario frammentato, diffuso sul territorio, con rilevanti influenze politiche
che se da un lato aveva numerosi elementi di inefficienza allocativa,
dall’altro presentava degli indubbi vantaggi per il sistema produttivo. Ha garantito un impiego locale del risparmio e, talvolta, l’adozione di metodologie
di valutazione del merito del credito che – seppure non ortodosse – hanno
consentito il superamento di situazioni di crisi o il consolidamento e la crescita di alcune iniziative imprenditoriali.
Lo sviluppo di questo sistema fortemente bank oriented con forti connotazioni localistiche è risultato in ultima analisi funzionale sia alle dinamiche dei
*
Cesdi srl, Torino
167
IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE
grandi gruppi industriali, che in molti casi hanno potuto esercitare una forte
pressione sulle scelte di credito di istituti bancari (non sempre con buoni risultati), sia allo sviluppo di un sistema produttivo minore fortemente caratterizzato da una proprietà di tipo familiare. In questo caso il ricorso a forme di
finanziamento improprie, come la pratica del multiaffidamento o del rinnovo
dei fidi a breve termine ha consentito, infatti, di sostenere lo sviluppo
dell’azienda anche distogliendo a vantaggio del patrimonio familiare potenziali risorse utili alla capitalizzazione dell’impresa.
Il funzionamento di questo modello di finanziamento dello sviluppo imprenditoriale era fortemente legato alla dimensione nazionale del mercato. Ha potuto, cioè, funzionare in modo efficace fintanto che barriere normative e valutarie hanno impedito, o quantomeno rallentato, sia gli effetti della
competizione globale sul sistema delle imprese, sia gli effetti della globalizzazione finanziaria sui flussi di risparmio. Con l’accelerazione dei processi di
integrazione valutaria e l’approfondirsi delle dinamiche di globalizzazione
dei mercati i punti deboli del sistema hanno cominciato a cedere e il modello
è entrato strutturalmente in crisi.
LA RIALLOCAZIONE DEI FLUSSI DI RISPARMIOINVESTIMENTO
Alla fine degli anni Ottanta e nel corso degli anni Novanta l’efficacia delle
tradizionali dinamiche di risparmio-investimento è stata messa in crisi
dall’approfondirsi del processo di globalizzazione del sistema economico e
dalla creazione del mercato domestico europeo. Questi due fattori hanno, infatti, modificato profondamente i comportamenti dei tre attori economici:
Stato, famiglie e imprese.
LA CRISI DELLE
TRADIZIONALI
DINAMICHE DI
RISPARMIO E
INVESTIMENTO
La crisi fiscale dello Stato e gli impegni assunti in chiave europea, hanno portato ad una politica fiscale vieppiù restrittiva, con conseguente aumento del
livello di tassazione e una forte contrazione delle politiche di sostegno finanziario all’attività imprenditoriale. Questi due fenomeni, particolarmente rilevanti (si veda la scheda sul risparmio), nelle regioni del Nord Italia hanno avuto effetti importanti sul sistema imprenditoriale, poiché hanno limitato in
misura consistente il ricorso agli incentivi finanziari ed aumentato in modo
sostanziale la pressione fiscale, se pure non ridotto l’area dell’evasione.
Nello stesso periodo le famiglie, il cui risparmio è stato eroso dalla stessa politica di rigore fiscale che ha interessato il sistema delle imprese, hanno sostanzialmente modificato la composizione del loro portafogli impieghi. Dal
1990 al 1998 la quota di depositi bancari detenuta dalle famiglie è passata dal
28 al 16% mentre i fondi comuni sono cresciuti dal 2 all’11%. Si è registrata,
di fatto, una sottrazione del risparmio dai tradizionali centri di allocazione, le
banche, a vantaggio di gestori professionali che investono il denaro raccolto
in una dimensione non più locale, ma internazionale.
168
IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE
Tab. 1 – Impieghi del risparmio delle famiglie italiane (consistenze % sul totale).
IMPIEGHI
‘89
‘90
‘91
‘92
‘93
‘94
‘95
‘96
‘97
‘98
Biglietti e Monete
2,7
2,5
2,7
2,8
2,5
2,8
2,7
2,5
2,4
Depositi bancari
28,7 29,3 28,4 27,3 24,9 25,4 24,6 22,7 18,4
Depositi postali
5,1
5,2
5,1
5,0
4,7
5,6
6,0
4,3
4,2
Titoli di Stato
27,4 28,1 27,5 25,7 23,1 24,9 26,0 22,8 17,7
Obbligazioni
3,0
3,2
4,4
4,3
4,8
5,8
5,9
7,3
9,5
Pronti/Termine
3,2
2,6
2,2
3,1
2,5
2,3
Azioni/partecipazioni 21,8 20,5 20,6 20,1 25,5 19,2 17,2 21,8 25,3
Fondi comuni
2,3
2,2
2,2
2,2
3,3
4,1
3,8
5,3
8,9
Attività previdenziali
8,2
8,4
8,6
8,9
8,2
9,4 10,2 10,2 10,5
Altre attività
0,8
0,6
0,4
0,4
0,5
0,5
0,5
0,6
0,8
Totale
100
100
100
100
100
100
100
100
100
Attività finanzia166,7 168,1 175,6 182,4 207,6 190,8 188,8 194,9 208,3
rie/PIL (%)
2,2
16,6
3,9
14,9
9,1
1,9
29,3
11,3
9,9
0,8
100
-
Fonte: Investimenti finanziari su dati Banca d’Italia.
IMPRESE PIÙ PICCOLE
IN UN MERCATO PIÙ
GRANDE
L’effetto combinato globalizzazione/Euro sul sistema delle imprese è stato
più complesso ed articolato, interessando in modo strutturale le stesse dinamiche competitive e il modo di fare ed essere impresa in un nuovo mercato. Il
processo di globalizzazione dell’economia e l’integrazione monetaria europea
hanno determinato “improvvisamente” una diminuzione della dimensione relativa delle imprese italiane. Queste, per poter competere, hanno avviato strategie di crescita e di riorganizzazione produttiva che hanno determinato un
effetto duplice sul sistema delle imprese, sia dal lato della domanda, sia dal
lato dell’offerta di capitali.
Dal lato della domanda, le strategie di riorganizzazione tecnologica, produttiva e dimensionale richieste dal nuovo contesto competitivo necessitano di
nuove e più articolate forme di finanziamento, non più limitate al ricorso al
credito bancario, nonché di strutture consulenziali in grado di assistere sia le
grandi, sia le piccole imprese in progetti di ingegneria finanziaria.
Dal lato dell’offerta, i processi di internazionalizzazione richiesti dal nuovo
contesto competitivo impongono un allargamento territoriale degli investimenti che non sono limitati né al territorio circostante né all’ambito nazionale. Il recente dato rimarcato dalla Banca d’Italia circa gli “eccessivi” investimenti esteri delle imprese italiane va dunque letto come uno degli effetti della
tanto auspicata internazionalizzazione attiva delle imprese italiane. È tuttavia
indubbio che un effetto “sostituzione” non possa che avere effetti depressivi
sulla dinamica del sistema produttivo dell’Italia settentrionale. È noto, infatti,
che molte nuove imprese nascevano e altre si sviluppavano su sollecitazione
e partecipazione, diretta ed indiretta, di imprese della filiera.
Il quadro che si evince da un’analisi seppur sintetica del nuovo scenario è che
il cambiamento nelle scelte di investimento delle famiglie e delle imprese italiane ha allentato il tradizionale controllo bancario degli impieghi, mentre il
sistema imprenditoriale manifesta l’esigenza di nuove forme di finanziamento
in grado di supportare l’attivazione di nuove e più complesse strategie competitive.
Quanto la rottura delle barriere nazionali comporterà il rischio di una fuoriuscita del risparmio dell’Italia settentrionale verso altre occasioni di investimento dipende e dipenderà dalla capacità della piazza finanziaria milanese di
offrire opportunità di investimento attrattive sia per il risparmio “nazionale”,
169
IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE
sia per il risparmio europeo. Dipende e dipenderà anche dalla misura in cui la
business community dell’Italia settentrionale sarà realmente in grado di organizzare un mercato nel quale domanda e offerta di finanza si incontrino attraverso nuove forme e strumentazioni operative in grado di soddisfare le esigenze degli investitori e le necessità del sistema imprenditoriale.
IL SISTEMA FINANZIARIO DELL’ITALIA
SETTENTRIONALE
C’È UN POTENZIALE
DI CRESCITA
MA OCCORRE UNA
PIAZZA FINANZIARIA
AVANZATA
LA DEBOLEZZA
STRUTTURALE DELLA
PIAZZA FINANZIARIA
MILANESE
In linea teorica l’Italia settentrionale dispone di alcune delle premesse di base
per lo sviluppo di un efficiente ed efficace mercato finanziario: nonostante il
calo fatto registrare in questi ultimi anni possiede un’ingente massa di risparmio e vanta uno dei maggiori bacini europei di imprenditorialità.
Un’offerta e una domanda che potenzialmente potrebbero favorire, nel corso
dei prossimi anni, la nascita e lo sviluppo di un dinamico mercato finanziario
rivolto in particolare alle imprese di piccola e media dimensione. Gli spazi di
crescita dovrebbero essere garantiti anche dal fatto che, come osservato dallo
stesso amministratore delegato di Borsa Spa, “il tessuto industriale non ha
ancora scoperto la borsa pur avendo società leader di settore a livello europeo, mentre da uno studio della Consob, risulta che sono almeno 500 le società
italiane, di cui la maggior parte del Nord Italia, che hanno i requisiti e le caratteristiche ideali per accedere al listino e per accrescere la quota di capitale
di rischio".
Per far sì che dalle premesse si possa passare alla realizzazione di un nuovo
“circolo virtuoso” è indispensabile l’esistenza di una piazza finanziaria, fatta
di mercati, intermediari, strumenti che agiscano da volano allo sviluppo di un
nuovo sistema finanziario in grado di supportare lo sviluppo del sistema imprenditoriale. In questo senso per “piazza finanziaria” si intendono, quindi,
tutte le funzioni collegate al mercato, non solo l’intermediazione e la negoziazione, ma anche l’accesso ad un ampia gamma di servizi, che vanno dalla
corporate finance alle diverse forme di finanziamento e assistenza alle imprese agli strumenti per la raccolta e la gestione del risparmio. Da questo punto
di vista, la piazza finanziaria milanese, pur continuando ad essere il “centro
finanziario” italiano e a costituire uno dei poli europei, evidenzia preoccupanti segnali di debolezza soprattutto nella prospettiva dei processi di concentrazione in atto sul mercato europeo. Segnali di debolezza già evidenziati
da Abraham et al. (1993), secondo cui la piazza di Milano mostra un generale
svantaggio competitivo rispetto alle maggiori piazze europee, e, anche se più
ridotto, rispetto a piazze minori come Bruxelles, Copenaghen e Madrid.
Le manifestazioni più evidenti di questa debolezza sono una borsa valori sottodimensionata, il ritardato sviluppo di un mercato dedicato alle Pmi, la scarsa rilevanza di operatori specializzati nel corporate finance, l’assenza di un
mercato informale dei capitali di rischio. In un contesto di mercato unico la
piazza finanziaria milanese non sembra raggiungere quelle soglie minime di
efficienza, quella dimensione adeguata che consenta al centro finanziario di
creare esternalità di rete e economie di agglomerazione, che con l’aumento
dei contatti tra gli operatori (face to face contacts) e la maggiore liquidità del
mercato siano in grado di innescare un processo “autonomo” di sviluppo,
170
IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE
aumentando la forza relativa e il vantaggio comparato di un centro finanziario
rispetto a un altro.
Questa debolezza strutturale interessa anche il mercato del credito, da sempre
perno del sistema finanziario italiano. Nonostante i processi di concentrazione effettuati, basti pensare a San Paolo-IMI o Unicredito Italiano, gli istituti
bancari presenti nel Nord hanno una dimensione relativa inferiore alla media
europea. Lo stesso si può dire per quanto concerne le banche d’affari, le società di gestione del risparmio. Solo il settore delle assicurazioni, grazie soprattutto al Gruppo Generali, può vantare realtà dimensionalmente comparabili con i competitori europei.
LA BORSA VALORI ITALIANA
POCHE IMPRESE
QUOTATE …
L’analisi della piazza finanziaria dell’Italia settentrionale non può che partire
dalla borsa valori che rappresenta – o dovrebbe rappresentare - il traguardo
del circolo virtuoso finanza-impresa, ma che in ogni caso è la cartina di tornasole dei limiti e degli ostacoli che si frappongono allo sviluppo di questo
circolo virtuoso.
La borsa di Milano presenta, infatti, numerosi elementi di criticità in termini
di dimensione e di rappresentatività del tessuto produttivo italiano. Nonostante la crescita delle quotazioni abbia consentito nel corso dell’ultimo triennio
di raggiungere una capitalizzazione pari a circa 569 miliardi di dollari, con
solo 243 società nazionali quotate la borsa di Milano non è in grado di ottenere quelle necessarie economie di scala e di ampiezza che, oltre alle presenza
delle sufficienti infrastrutture tecniche e ad adeguate risorse umane, sono necessarie per competere adeguatamente con le altre piazze finanziarie.
Lo scarso numero di imprese quotate si traduce in una scarsa rappresentatività del mercato reale anche perché più del 72% della capitalizzazione totale,
pari a circa 569 miliardi di dollari, e circa il 75% degli scambi si concentra
sui trenta maggiori titoli, mentre sono quasi del tutto assenti società di medie
dimensioni.
Fig. 1 – Società nazionali quotate e loro capitalizzazione* sulle principali piazze europee
al dicembre 1998 (mercato principale e secondario)
2500
2399
2297
Numero di società nazionali quotate
Capitalizzazione
2000
1500
1094
985
1000
784
741
481
500
156
569
402
247
243
0
Londra
Parigi
Francoforte
Bruxelles
*In miliardi di dollari
Fonte: FIBV.
171
Madrid
Milano
IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE
... CON UNA SCARSA
DINAMICA
Se in termini di rapporto capitalizzazione/Pil la borsa di Milano ha registrato
nel corso dell’ultimo triennio notevoli progressi, passando dal 20 a oltre il
40%, in termini di numero di imprese lo sviluppo è stato lento. Anche se nel
1998 ci sono stati circa 25 nuovi ingressi, contro i 15 e i 13 rispettivamente
del 1997 e del 1996, il saldo netto delle società quotate è rimasto sostanzialmente immutato e anche in termini di capitalizzazione e liquidità complessiva
del listino l’apporto delle matricole è stato tutto sommato modesto. In termini
di nuove quotazioni il listino azionario è cresciuto appena dell’1,9% annuo
dal 1960 al 1998. Il lento sviluppo del numero delle imprese quotate nella
borsa milanese è ancora più evidente se confrontato con quello delle principali borse europee. Negli ultimi due anni, mentre le altre piazze europee hanno
visto una crescita media delle nuove quotazioni pari a circa il 6%,
l’andamento della piazza milanese è stato stabile se non addirittura negativo
con un leggero calo di circa l’1%.
Un efficace indicatore dello scarso sviluppo della borsa di Milano è dato dalla scarsa capacità di attrazione del listino italiano nei confronti delle imprese
estere: a Milano sono quotate solo 4 imprese straniere contro le 178 di Parigi
e le 521 di Londra.
I MERCATI DI BORSA PER LE PMI
Nonostante la rilevante presenza di imprese di piccole e medie dimensioni,
nel recente passato i tentativi di sviluppare mercati dedicati alle Pmi sono stati ripetutamente frustrati. Il mancato sviluppo del terzo mercato, l’utilizzo
improprio del mercato ristretto, utilizzato prevalentemente per la quotazione
di Banche Popolari, il fallimento del Metim hanno, nel tempo, allargato il gap
del mercato finanziario milanese rispetto alle altre realtà europee.
NUOVE OPPORTUNITÀ
FINANZIARIE IN
EUROPA PER LE PMI
Negli ultimi tre anni, infatti, sono stati istituiti in Europa secondi mercati regolamentati specializzati per la quotazione di imprese innovative di piccolamedia dimensione, non adatte per profilo di rischio ad essere quotate sulle
borse principali. Questi mercati sono caratterizzati da requisiti minimi di ingresso molto bassi o assenti e da procedure di ammissione più snelle, quindi
particolarmente idonei all’ammissione in borsa di imprese di minori dimensioni e per la dismissione di partecipazioni azionarie tramite iniziali offerte
pubbliche di vendita. In Europa hanno raggiunto importanti risultati il mercato paneuropeo Easdaq e la borsa circuito Euro-Nm lanciata dal Nouveau
Marchè di Parigi, che comprende il Neue Markt di Francoforte, il Nouveau
Marchè belga e il Niewe Markt di Amsterdam.
Tab. 3 – I mercati minori europei dedicati alle imprese e ad alto potenziale di crescita.
Euro Nm
Easdaq
(Rete europea)
(Bruxelles)
Società quotate
Capitalizzazione*
150
40
28.400
19.230
* In milioni di dollari
Fonte: Euro-Nm e Esdaq
172
IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE
A questo circuito si è collegato il recente “nuovo mercato” dedicato a piccole
e medie imprese ad elevata potenzialità di crescita: presentato agli inizi di
maggio, dovrebbe diventare operativo con la quotazione delle prime imprese
entro la fine dell’estate. Tuttavia, nonostante le attese della vigilia e l’euforia
della novità, anche questo mercato pare essere circondato da un diffuso scetticismo. È come se il ritardo fin qui accumulato nello sviluppo di mercati dedicati alle Pmi, sebbene colmabile, avesse pregiudicato lo sviluppo di una
cultura del capitale di rischio per le Pmi. In realtà, le ragioni di tale scetticismo trovano la loro ragion d’essere in una serie di elementi di contesto che
nel corso degli ultimi decenni hanno contribuito ad alimentare un sistema di
finanziamento sostanzialmente fondato sull’indebitamento. Dal lato della
domanda, un contesto fiscale che almeno fino al varo della dual income tax
(oggi peraltro ancora insufficiente) penalizzando il ricorso a interventi di finanza strutturale non ha favorito lo sviluppo di una cultura del capitale di rischio. Dal lato dell’offerta gli elevati rendimenti dei titoli di Stato e gli ampi
margini di intermediazione nel sistema creditizio hanno ritardato lo sviluppo
di nuovi intermediari e strumenti alternativi per il finanziamento del sistema
imprenditoriale.
IL SETTORE DEL PRIVATE EQUITY
UN SETTORE IN
RITARDO
Anche se il settore del private equity1 ha in questi ultimi anni registrato
un’importante accelerazione, oltrepassando nel 1997 per la prima volta la soglia dei 1000 miliardi di investimenti e attestandosi a circa 1800 miliardi nel
corso del 19982, l’Italia evidenzia ancora un evidente ritardo rispetto ai maggiori paesi europei sia in termini di volume, sia in termini di modalità delle
operazioni di investimento.
Le ragioni di questo ritardo sono indubbiamente molteplici. Oltre che dalle
già citate condizioni generali di contesto, il ricorso al capitale di rischio e lo
sviluppo del settore del private equity è stato limitato dalla mancanza di un
efficiente mercato secondario dedicato alle Pmi per lo smobilizzo delle partecipazioni e dal ritardo con cui sono stati introdotti nuovi investitori, quali i
fondi pensione che all’estero svolgono un ruolo particolarmente rilevante nella raccolta di capitale di rischio per le operazioni di venture capital.
Il problema dello sviluppo del private equity non è tuttavia limitato alla raccolta dei capitali, quanto piuttosto al loro impiego. I principali operatori del
settore, merchant bank, società di venture capital, fondi chiusi di sviluppo,
società finanziarie regionali non sono riusciti di fatto ad esprimere un’attività
di investimento significativa. Basti pensare che i 6 fondi chiusi attualmente
operativi hanno investito meno del 30% dei capitali, circa 940 miliardi, raccolti.
1
Per private equity si intendono, in questo contesto, tutte le operazioni di finanza straordinaria, dalla raccolta dei capitali per l’avvio, all’ingresso di soci finanziari, che interessano le diverse fasi di vita dell’impresa, dalla sua nascita alla quotazione di borsa.
2
I nuovi fondi raccolti nel 1997 sono stati 2069 miliardi di lire contro i 1424 del 1996, che
rappresenta un aumento del 45% e sono stati investiti circa 1164,4 miliardi di lire in 234 operazioni di investimento, che corrispondono a 209 imprese. Vi è stato un incremento del 17%
sull’ammontare totale investito e un aumento del 18% del numero delle operazioni effettuate
rispetto all’anno precedente (998,5 miliardi investiti e 198 operazioni nel 1996, AIFI YearBook 1998).
173
IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE
SCARSI INVESTIMENTI
NELLO START UP DI
NUOVE IMPRESE…
… E NELL’HIGH TECH
L’altro dato rilevante è che questi intermediari specializzati perseguono strategie di investimento incentrate prevalentemente su un target di imprese medio-grandi e in operazioni che privilegiano le fasi successive del ciclo di sviluppo dell’impresa. Si assiste pertanto a una situazione paradossale per cui le
offerte degli investitori si addensano su un numero ristretto di imprese, mentre la gran parte di imprese medio piccole, sotto i 30 miliardi di fatturato, non
vengono partecipate.
Tali considerazioni, che vengono spesso fatte dagli stessi operatori del settore
e riportate dalla stampa specializzata, sembrano in parte contraddette dai dati
raccolti dall’Aifi in base ai quali risulta che nel corso del 1997 ben il 12%
dell’ammontare degli investimenti è stato effettuato in operazioni di start-up
e oltre il 31% è andato a finanziare imprese con meno di 19 addetti.
Tali dati includono, in realtà, l’attività di alcuni soggetti pubblici che hanno
operato prevalentemente al Sud, quali la IG (Imprenditoria Giovanile) che, da
sola, nel corso dei dodici anni di attività, ha partecipato a oltre 930 neoimprese (di cui solo 8 al Nord Italia) per un importo di oltre 2.000 miliardi di
lire. Se si escludono, quindi, gli investimenti effettuati dall’operatore pubblico si può ragionevolmente affermare che gli operatori oggi presenti sul mercato italiano non partecipano a imprese di piccola dimensione e, per loro stessa ammissione, non finanziano le attività di imprese nascenti.
Un altro elemento negativo è dato dal fatto che, nonostante un’inversione di
tendenza registrata nel corso del 1998, gli investimenti tramite capitale di rischio si sono rivolti prevalentemente a imprese di settori industriali tradizionali con il 94% dell’intero ammontare investito, mentre i settori ad alta tecnologia rappresentano solo una minima parte con il 6% del totale. Anche se
questo dato è in parte spiegabile con il fatto che questa suddivisione corrisponde in gran parte alle stesse caratteristiche del tessuto produttivo italiano,
sarebbe tuttavia opportuno chiedersi quanto il mancato sviluppo del mercato
del venture capital non sia una delle cause che penalizzano la nascita nel nostro Paese di imprese high tech.
Il reperimento di risorse finanziarie per nuove iniziative imprenditoriali nei
settori high tech è un problema ovviamente non limitato all’area del Nord Italia. In altre regioni d’Europa si è cercato di rispondere a questa necessità attraverso la creazione e l’organizzazione di mercati informali del capitale di
rischio che consentano l’incontro fra potenziali investitori privati (business
angels) e neo imprenditori. Tali mercati, tipicamente locali poiché normalmente l’investitore opera su imprese prossime di cui può seguire attivamente
l’evoluzione, dopo aver registrato un indubbio successo nel Regno Unito sono stati adottati anche nella vicina Francia dove recentemente è stato creato il
Professional Network SA che raggruppa le 12 diverse iniziative regionali/locali dedicate alle nuove iniziative imprenditoriali.
Nel Nord Italia, così come d’altra parte nel resto del Paese, non esistono di
fatto iniziative analoghe. Alcuni progetti sono stati avviati, ad esempio il
Club delle tecnologie promosso dalle Camere di Commercio di Milano e Torino, ma sono a livello sperimentale e non sufficientemente sostenute né dalle
istituzioni né dagli operatori di mercato.
174
IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE
LE DEBOLEZZE DAL LATO DELLA DOMANDA
Nelle analisi relative ai problemi del finanziamento delle Pmi si sottolineano,
a ragione, oltre alle condizioni di contesto soprattutto fiscali e normative, le
carenze dell’offerta. Nel caso in questione, riteniamo tuttavia opportuno analizzare anche alcune caratteristiche della domanda di capitali. Le ragioni del
mancato sviluppo di un moderno mercato finanziario per le Pmi del Nord Italia vanno infatti ricercate, a nostro avviso, anche in alcune caratteristiche tipiche del sistema imprenditoriale locale e precisamente nella dimensione delle
imprese, nella loro scarsa contendibilità e nella specializzazione produttiva.
PMI TROPPO
PICCOLE …
... E TROPPO
FAMILIARI
... SPECIALIZZATE IN
SETTORI POCO
ATTRAENTI PER GLI
INVESTITORI
PROFESSIONALI
La dicitura Pmi utilizzata per definire e spesso celebrare l’universo della imprenditoria italiana nasconde una realtà ampiamente riconosciuta, ma spesso
trascurata: la dimensione prevalente delle nostre imprese è “piccola” e non
“media”, nettamente inferiore a quella dei nostri partner europei. Una dimensione inferiore alle soglie minime di efficienza sia dal lato dell’offerta sia da
quello della domanda. Questa dimensione è inadeguata sia per gli investitori
e gli intermediari specializzati i quali non riescono a “spalmare” i costi fissi
di istruttoria su operazioni di entità limitata e per lo sviluppo, sia per
l’impresa che deve affrontare costi di ricerca e di “presentazione”, business
plan, due diligence, certificazione di bilancio, spesso superiori ai benefici attesi.
La dimensione ridotta si ricollega per molti versi alla proprietà prevalentemente familiare del nostro tessuto produttivo. Un assetto proprietario che peraltro interessa anche i maggiori gruppi industriali italiani e che limita fortemente sia la capacità di crescita dell’impresa sia la sua contendibilità sul
mercato. È indubbio che questo modello, che pure ha avuto un forte ruolo di
sviluppo del sistema imprenditoriale dell’Italia del Nord per tutto il dopoguerra grazie al trasferimento di risorse sia finanziarie sia lavorative dalla
famiglia all’impresa, possa oggi costituire un limite al suo consolidamento.
Troppo spesso, infatti, l’impresa segue i destini della famiglia e si estingue
con essa, incapace di trovare nuove risorse e nuovo slancio da imprenditori e
manager subentrati alla famiglia originaria.
Insieme alla dimensione ridotta e alla scarsa contendibilità, l’ulteriore vincolo
della domanda è dato dalle specializzazioni produttive del tessuto imprenditoriale dell’Italia settentrionale. Gran parte delle imprese operano, infatti, in
settori tradizionali del “made in Italy”, della meccanica e della subfornitura
(si veda a questo proposito la scheda sulle specializzazioni manifatturiere).
Questa specializzazione tradizionale non attrae investimenti degli operatori
professionali. Gli investitori e gli intermediari specializzati prediligono, infatti, settori high-tech, quali biotecnologie, information technology, telecomunicazioni, che pur avendo un più elevato rischio di fallimento presentano prospettive di redditività superiori alla media.
Queste caratteristiche della domanda finiscono, in ultima analisi, col rendere
poco appetibile per gli investitori/intermediari specializzati gli investimenti
nelle Pmi del Nord Italia. Il dato più evidente del fallimento o quantomeno
delle difficoltà di questo settore è testimoniato, oltre che dal ritardo nello sviluppo del mercato del private equity, anche dall’incapacità del nostro sistema
imprenditoriale di attirare “capitali di ventura” stranieri, in particolare statu-
175
IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE
nitensi e britannici, che preferiscono insediarsi ed operare in altre aree europee, in particolare Germania, Olanda e Francia.
IL CIRCOLO VIZIOSO
Al di là dell’evidenza ci si deve chiedere se il fenomeno non sia da leggere
come biunivoco. Se cioè è vero che la mancanza di un adeguato tessuto imprenditoriale penalizza lo sviluppo di nuovi strumenti/intermediari dedicati al
finanziamento delle Pmi, non può essere altrettanto vero che la mancanza di
un adeguato sistema finanziario costituisce un ostacolo alla nascita di nuove
imprese innovative e alla crescita dimensionale del tessuto produttivo del
Nord Italia?
Attraverso questa chiave di lettura si possono, a nostro avviso, leggere e interpretare alcuni dei nodi critici del sistema imprenditoriale delle regioni settentrionali: la scarsa natalità di imprese nei settori ad alta tecnologia, la mancanza di una diffusa innovazione di prodotto, la mancata crescita
dimensionale, la scarsità di imprese da portare alla quotazione.
IL FINANZIAMENTO
DELL’AVVIO DI
NUOVE IMPRESE:
ASPETTI CRITICI:
1) L’IMMATERIALITÀ
DEI PROCESSI
INNOVATIVI
2) LE DIMENSIONI
MINIME
L’area padana continua ad essere fucina di nuova imprenditorialità. Tuttavia,
in alcune aree, quali Piemonte e Liguria, la natalità imprenditoriale è relativamente bassa, mentre più in generale le nuove imprese si caratterizzano per
un basso contenuto innovativo e spesso sono riconducibili a strategie di outsourcing, o a iniziative di autoimpiego piuttosto che a vere e proprie iniziative imprenditoriali (si veda a questo proposito la scheda sulle neoimprenditorialità). La ragione di ciò è certamente riconducibile ad una serie complessa
di fattori di contesto, fra cui lo scarso funzionamento di un sistema di istruzione universitaria che non riesce a produrre – al contrario di quanto accade
in altri paesi – spin-off imprenditoriali. Tuttavia è indubbio che il mancato
sviluppo di un mercato dedicato al finanziamento degli start-up giochi un
ruolo fondamentale.
La sempre maggiore complessità e l’immaterialità dei processi di innovazione tecnologica richiedono risorse finanziarie non più legate alla prestazione
di garanzie collaterali al finanziamento. Ciò vale soprattutto per le innovazioni di prodotto o le innovazioni connesse a settori high-tech. Anche in questo
ambito il mercato non ha saputo valorizzare nuovi strumenti, intermediari e/o
procedure di finanziamento.
La crescita delle unità produttive al fine di raggiungere soglie minime di efficienza è stata spesso frustrata dalla mancanza di strumenti di finanziamento
idonei, oltre che da una serie di vincoli ed incentivi che premiavano e, almeno in parte premiano ancora, la piccola dimensione. L’assenza di partner finanziari credibili per processi di crescita rapida fa sì che le imprese intraprendano percorsi di crescita interna o attraverso fusioni e/o acquisizioni
prevalentemente mediante il ricorso a risorse proprie o all’utilizzo di strumenti tradizionali. In alcuni casi la consapevolezza di non riuscire a raggiungere soglie dimensionali competitive fa si che l’impresa venga ceduta al
competitore di riferimento.
176
IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE
3) IL PROBLEMA DEI
MERCATI FINANZIARI
PER LE PMI
La quotazione in borsa, dedicata o non, dovrebbe costituire la fase conclusiva
di un processo di accompagnamento dell’imprenditore da parte di consulenti/partner finanziari che nelle diverse fasi di vita sostengono attivamente lo
sviluppo dell’impresa. Nelle diverse esperienze estere sono, infatti, i partner
finanziari a sostenere la quotazione dell’impresa come way-out al loro investimento. Anche in questo caso, dunque il rapporto è ambivalente: la mancata
realizzazione di un mercato secondario dedicato alle Pmi costituisce un vincolo alla pubblicizzazione delle imprese perché frena gli investitori a cui viene meno il principale canale di disinvestimento, dall’altra lo scarso spessore
di un mercato “informale” dei capitali fa sì che la “fonte” che dovrebbe alimentare questo mercato sia, in realtà, abbastanza arida.
NOTE CONCLUSIVE
Un rapido excursus sul passato e le prospettive delle dinamiche di finanziamento del sistema imprenditoriale del Nord Italia non può che essere, per sua
natura, presuntuoso nelle intenzioni e carente nella struttura. Tuttavia, il dato
che sembra condiviso da molti osservatori è che il sistema finanziario del
Nord Italia si trova ad un punto cruciale di svolta.
I RISCHI DI
EMARGINAZIONE
FINANZIARIA DEL
NORD ITALIA
LE OPPORTUNITÀ
COMPETITIVE E DI
SPECIALIZZAZIONE
PER LA PIAZZA
MILANESE
Il processo di integrazione monetaria, con il venir meno di alcuni vantaggi
comparati iniziali, quali la centralità geografica, la moneta utilizzata, le barriere normative e tecniche, pone infatti in maggior evidenza la contendibilità
del mercato finanziario europeo, aumentando la competizione tra i diversi
centri finanziari. Per la piazza finanziaria di Milano esiste quindi il rischio di
venire emarginata dalla concorrenza di quelle maggiori, tramite un processo
di centralizzazione di gran parte del mercato finanziario verso le principali
piazze europee. In questo contesto Milano e più in generale il Nord Italia rischiano di venire subordinati al processo di concentrazione dei maggiori centri finanziari europei. Se ciò dovesse accadere il danno per il nostro sistema
imprenditoriale potrebbe essere rilevante. Soprattutto per le nuove e le piccole e medie imprese che hanno maggiori difficoltà ad accedere e utilizzare
strumenti finanziari innovativi attivati in altri paesi.
D’altra parte le capacità competitive della piazza finanziaria milanese e quindi la sua “sopravvivenza” quale nodo cruciale del network finanziario europeo dipendono paradossalmente a nostro avviso proprio dalla capacità del
mercato dell’Italia del Nord di progettare e sviluppare mercati, strumenti e
servizi per la piccola e media impresa. Per i centri periferici, come Milano,
per poter competere e integrarsi con i centri maggiori è infatti indispensabile
valorizzare i vantaggi competitivi rispetto alle piazze centrali. E il più evidente vantaggio della piazza finanziaria milanese sta proprio nella ricchezza imprenditoriale dell’Italia settentrionale, nella migliore conoscenza del mercato
locale, nella maggiore accessibilità e velocità di elaborazione delle informazioni. L’importanza dei contatti diretti con gli imprenditori e tra gli operatori
è, infatti, fondamentale sia per la creazione di nuovi “prodotti”, sia per la rapida e corretta interpretazione delle informazioni. Mentre, quindi, il futuro
mercato europeo delle blue chip o dei derivati sarà sicuramente globale, omogeneo e delocalizzato, per la gestione della corporate finance, che richiede
alta professionalità e molti contatti, è probabile che si creino poche e specializzate localizzazioni.
177
IL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA IMPRENDITORIALE
Che la piazza finanziaria di Milano voglia e sia in grado di sfruttare queste
opportunità è un augurio. Le strategie da avviare sono molteplici e comunque
non facilmente percorribili poiché hanno bisogno della risposta di tutti gli
operatori e interessano problematiche più generali di riorganizzazione del sistema finanziario nazionale. Il rischio dell’immobilità appare, d’altra parte,
troppo elevato per non cercare di trovare, rapidamente, soluzioni.
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Global Cities, in Thrift N. Spatial Formation, Sage, London.
178
LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE
Sandro Lecca∗
SOMMARIO – UNA
MODERNIZZAZIONE RITARDATA RISPETTO ALL’EUROPA – L’EVOLUZIONE
DELLA RETE COMMERCIALE NEL NORD ITALIA: LA CRESCITA DELLA GRANDE DISTRIBUZIONE – LE
IMPLICAZIONI DELLA MODERNIZZAZIONE: LA CRESCITA DEL RUOLO STRATEGICO DELLA
DISTRIBUZIONE COMMERCIALE – CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE: I RISCHI E LE OPPORTUNITÀ PER
L’ECONOMIA SETTENTRIONALE – BIBLIOGRAFIA
SOMMARIO
La presenza di forti vincoli amministrativi e la stessa dispersione del tessuto
produttivo hanno giocato un ruolo frenante nel processo di concentrazione
della rete distributiva italiana, che al Nord è stato di certo più intenso, ma di
entità inferiore nei confronti di quanto avvenuto nei paesi commercialmente
avanzati d’Europa. Segni di questo ritardo non sono soltanto la minore incidenza della grande distribuzione organizzata e il permanere di una più elevata
frammentazione della rete, ma anche e soprattutto il deficit di internazionalizzazione “attiva”, ossia di presenza nei mercati esteri, che continua a caratterizzare le nostre imprese commerciali.
Tuttavia il primo, lungo e “temperato” ciclo della modernizzazione del settore distributivo (acceleratosi negli anni Ottanta) può considerarsi, almeno con
riferimento alla realtà del Nord, sostanzialmente concluso.
Esaurita e vinta la concorrenza con il piccolo dettaglio tradizionale (che – occorre ricordarlo – esercitava peraltro un’importante funzione sociale di conservazione della vitalità del territorio), la distribuzione moderna, forte anche
di una maggiore autonomia nei confronti dell’industria, si trova oggi ad affrontare la sfida di una nuova e più complessa fase competitiva.
Questa sembra richiedere il realizzarsi di due condizioni di fondo. La prima,
interna al settore distributivo, implica la concentrazione delle funzioni strategiche e direzionali (acquisti, logistica, marketing, finanza) quale presupposto
per il rafforzamento della stessa piccola impresa commerciale. La seconda
riguarda la migliore qualificazione del rapporto tra la distribuzione moderna e
le Pmi manifatturiere, che richiede lo sviluppo di relazioni cooperative o di
partnership. Entrambi i passaggi – che consistono sostanzialmente nell’innescare meccanismi di maggiore razionalità sistemica – appaiono indispensabili
per consentire al “sistema” del Nord di porsi con qualche chance di successo
davanti alla sfida della crescente internazionalizzazione degli assetti distributivi e produttivi.
UNA MODERNIZZAZIONE RITARDATA RISPETTO
ALL’EUROPA
UNA STRUTTURA
COMMERCIALE
ALL’AVANGUARDIA IN
ITALIA …
Con il 19% del complesso delle unità locali, il 16% degli occupati totali e il
14% del valore aggiunto dell’intera economia, il settore del commercio continua a ricoprire un ruolo fondamentale nello sviluppo economico e sociale
dell’Italia del Nord. È qui che si concentra il 40,4% dei punti di vendita
dell’intera rete distributiva al dettaglio fisso nazionale, ma soprattutto il 47%
∗
Ufficio Studi, CCIAA Milano
179
LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE
dei supermercati, il 52,4% degli hard discount e ben il 69,6% degli ipermercati. Dati, questi ultimi, che testimoniano chiaramente come la diffusione del
commercio moderno sia stata più ampia nelle regioni settentrionali rispetto al
resto del paese.
… MA IN RITARDO
RISPETTO
ALL’EUROPA PIÙ
AVANZATA
La struttura commerciale del Nord Italia appare peraltro meno moderna se la
si paragona a quella degli altri paesi avanzati dell’Europa. La prima è infatti
caratterizzata:
• da una maggiore frammentazione, come mostra il suo più elevato indice di
densità commerciale (numero di punti di vendita al dettaglio per 10.0000
abitanti): 105 contro 78 della Francia, 67 dell’Olanda, 58 della Gran Bretagna, 54 della Germania, uno scarto che si accentua ulteriormente considerando il solo comparto non alimentare;
• da una minore dotazione di commercio alimentare moderno (supermercati
e grandi ipermercati di oltre 5.000 mq.), che raggiunge complessivamente
i 113 mq. per 1.000 abitanti, contro i 231 della Francia e i 193 della Germania. Inoltre gli ipermercati in senso ampio (oltre 2.500 mq) assorbono
nel Nord Italia il 27% circa dell’intera superficie moderna contro il 55%
della Francia, il 57% della Germania e il 29% della Spagna;
• dalla forte prevalenza di esercizi di piccolissime dimensioni (una media di
neanche 3 addetti per punto vendita contro i 4,5 della Francia e i 6,6 della
Germania), in cui domina il lavoro indipendente (55% dell’occupazione
commerciale contro il 22% della Francia e il 15% della Germania).
Anche nelle regioni più ricche e avanzate del Nord Italia la rete distributiva
presenta quindi un chiaro deficit di modernizzazione, almeno nei confronti di
quei paesi europei che hanno avviato la “rivoluzione commerciale” con molto
anticipo rispetto al nostro paese. Un ritardo temporale che possiamo forse misurare in una dozzina di anni, dal momento che soltanto oggi il Nord raggiunge densità commerciali paragonabili a quelle che, per fare un esempio, la
Francia deteneva già nel 1986.
LE RAGIONI DEL
RITARDO
Tale ritardo è dovuto, come è ben noto, alla combinazione di diversi fattori:
dalle barriere amministrative (legge 426/1971) che ponevano vincoli alla diffusione delle grandi superfici di vendita, ai caratteri strutturali dell’industria
produttrice dei beni di consumo durevoli fondata su una miriade di piccole e
medie imprese specializzate in mercati di nicchia, alla sostanziale subordinazione dei distributori dall’industria di marca, sino alla stessa configurazione
fisica e urbanistica del territorio. In queste condizioni di freno alla crescita
dimensionale e allo sviluppo dell’innovazione, l’attività di commercio ha finito spesso per costituire un’alternativa al lavoro dipendente, rispondendo
quindi più a obiettivi di assicurazione del reddito famigliare che di rafforzamento e ammodernamento aziendale.
L’EVOLUZIONE DELLA RETE COMMERCIALE NEL NORD
ITALIA: LA CRESCITA DELLA GRANDE DISTRIBUZIONE
Per via dei limiti sopra segnalati, il passaggio dalle forme tradizionali a quelle
moderne è stato, nel Nord Italia, meno rapido e dirompente rispetto alle aree
commercialmente più evolute e dinamiche dell’Europa, ma si può dire che
esso costituisca ormai un fatto compiuto, almeno per quanto riguarda la di-
180
LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE
stribuzione alimentare, mentre analoghi processi di cambiamento si stanno
progressivamente estendendo anche al non alimentare.
È quindi utile e opportuno tracciare qui di seguito un rapido quadro dei rilevanti cambiamenti che hanno caratterizzato, specie negli anni più recenti,
l’evoluzione della rete distributiva nelle regioni del Nord.
LA RETE ALIMENTARE:
UNA FORTE SPINTA ALLA
RAZIONALIZZAZIONE E
ALLA CONCENTRAZIONE
A partire dalla metà degli anni Ottanta si assiste, in Italia, a un consistente fenomeno di razionalizzazione e concentrazione della rete distributiva alimentare, che appare più accentuato nelle regioni dell’Italia settentrionale e in particolare del Nord Est. Nel periodo 1981-1994 il numero dei punti di vendita si
riduce di circa un terzo, con un ritmo di diminuzione in media annua intorno
al -3%, che si intensifica notevolmente tra il 1996 e il 1997 (-12% nel Nord
Ovest e -13,5% nel Nord Est). Ne consegue la forte contrazione della densità
commerciale, che passa dai 57-58 esercizi per 10.000 abitanti del 1981 ai 2930 attuali (contro una media nazionale di 36). Questi dati indicano come la
componente moderna abbia di fatto sostituito quella tradizionale.
L’evoluzione della rete distributiva moderna, che implica una maggiore articolazione delle formule di vendita, può essere sinteticamente rappresentata
come segue:
• crescita vistosa dei supermercati (ossia degli esercizi con superficie di
vendita compresa tra i 400 e 2.500 mq), che sin dalla fine degli anni Cinquanta sono stati all’origine del processo di modernizzazione, sviluppandosi prima al Nord, e con maggiore intensità nel Nord Est, per poi diffondersi nel resto d’Italia. Si tratta peraltro di una formula ormai matura,
se non in declino, come indica la contrazione di 43 unità intervenuta tra il
1994 e il 1996 nel Nord (a fronte di una tendenza nazionale ancora in
aumento, seppure contenuto);
• diffusione, a partire dalla metà degli anni Ottanta, degli ipermercati (oltre
2.500 mq), che si è concentrata soprattutto nel Nord Ovest e in particolare nel Piemonte e nella Lombardia (queste due regioni, da sole, assorbono, in termini di unità di vendita, il 62% del totale Nord e il 43% di quello nazionale). Come si è già osservato, oggi gli ipermercati settentrionali
detengono il 27% (6% nel resto d’Italia) dell’intera superficie alimentare
moderna;
• comparsa negli anni più recenti (1993) e crescita rapida - specie in Lombardia e nell’Emilia Romagna - dell’hard discount (400-800 mq), un fenomeno che lungi dal portare alla sostituzione delle altre formule commerciali innesca nuove dinamiche competitive specie per quanto riguarda
le politiche di prezzo. Esploso in una fase di recessione produttiva e di
contrazione dei consumi (1993-1994), oggi il “boom” degli hard discount
appare esaurito, mentre si evidenzia, in particolare nel Nord Est, una tendenza al ridimensionamento, indotta anche dalla reazione competitiva
delle altre forme distributive (come, ad esempio, la massiccia introduzione di prodotti di primo prezzo o il ricorso a strategie di fidelizzazione da
parte dei supermercati);
• maggiore penetrazione della rete di vendita moderna nel Nord Est (specie
nel Veneto, la regione commercialmente più “avanzata” d’Italia, almeno
nel settore alimentare), che detiene un più elevato indice di dotazione
complessiva: 153 mq per 1.000 abitanti (considerando l’insieme di supermercati, ipermercati e hard discount) contro i 132 del Nord Ovest. La
differenza si spiega con il forte sviluppo assunto nelle regioni del Nord
181
LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE
Est dal supermercato, formula che svolgendo un servizio di prossimità
appare particolarmente funzionale alle caratteristiche urbane di quei territori.
LA RETE NON
ALIMENTARE: UNA
POLVERIZZAZIONE
ANCORA
ACCENTUATA …
È soltanto a partire dal 1991 che nella rete distributiva non alimentare iniziano a manifestarsi processi di concentrazione di una qualche intensità. Tra il
1991 e il 1994 diminuisce infatti, per la prima volta dal 1981, il numero dei
punti di vendita, nella percentuale del -2,7% nel Nord Ovest e -4% nel Nord
Est (contro il -3,4% della media Italia), una tendenza che, anche a causa della
contrazione dei consumi, si rafforza negli anni successivi (-2,6% nel Nord
Ovest e -2,4% Nord Est in un solo anno, ossia tra il 1996 e il 1997). Si riduce
quindi il grado di polverizzazione della distribuzione non alimentare, che
continua peraltro a presentare valori nettamente superiori a quelli osservabili
negli altri paesi avanzati dell’Europa: 77 punti di vendita per 10.000 abitanti
nel Nord Ovest e 82 nel Nord Est contro i 54 della Francia, i 46 della Germania e i 35 della Gran Bretagna.
L’accentuata polverizzazione del commercio non alimentare italiano - in cui
dominano il piccolo negozio specializzato e il ricorso al lavoro autonomo costituisce di certo un’evidente anomalia nel contesto distributivo europeo,
ma appare del tutto coerente alle caratteristiche sia del tessuto economico di
riferimento, esso stesso fortemente segmentato (non a caso la densità è maggiore nel Nord Est), che di una domanda di consumi impregnata di localismo.
Tali determinati strutturali, limitando la standardizzazione dei beni, hanno
reso difficoltosa l’introduzione di quelle economie di scala (concentrazione
degli acquisti, della logistica, del marketing, della finanza) che al contrario
hanno maggiormente caratterizzato lo sviluppo della rete commerciale non
alimentare degli altri paesi europei.
In questo quadro si spiega il ruolo marginale assunto in Italia dai grandi magazzini (2.000-2.500 mq) e magazzini popolari (1.000-1.500 mq.), la cui quota di mercato è passata dal 2,4% del 1980 al 3,1% del 1990. Il loro numero,
negli ultimi anni, risulta inoltre stazionario o in diminuzione in tutte le regioni del Nord, con la sola eccezione della Lombardia, dove sembra essere in
atto un tentativo di rivitalizzazione di questa formula allo scopo di reggere la
concorrenza con i centri commerciali integrati.
… MA IN VIA DI
RIDUZIONE
Il processo di modernizzazione della rete non alimentare – che si trova ancora
in una fase iniziale – è testimoniato dallo sviluppo assunto da formule distributive moderne quali:
• i centri commerciali al dettaglio, che si concentrano nel Nord Italia (68%
delle strutture e 73% della superficie), aumentano le loro dimensioni medie (+10,2% nel Nord Ovest e + 29,9% nel Nord Est tra il 1991 e il 1996),
offrono una varietà di servizio sempre più completa, allargata alle stesse
attività di “entertainment”, e si localizzano nelle aree extra-urbane, spesso
accanto ad altri “attrattori” commerciali (ipermercati, superfici specializzate);
• le grandi superfici (più di 400 mq.) specializzate per funzioni di consumo
(arredamento, articoli sportivi, bricolage, ecc.), a prevalente localizzazione extraurbana, che operano con i criteri di gestione tipici della grande distribuzione alimentare (libero servizio, economie di scala, presenza di
marche commerciali), praticano politiche di prezzo a discount e costitui-
182
LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE
scono quindi una seria minaccia (una vera e propria category killer, come
sono state denominate) per il commercio specializzato di minori dimensioni. Si tratta di una formula innovativa per l’Italia, affermatasi soprattutto nelle regioni del Nord Est ed esposta alla penetrazione delle insegne estere (Ikea è l’esempio più noto).
LA CRESCITA DEL
FRANCHISING
LA PRESENZA DELLE
IMPRESE ESTERE
In questi ultimi anni si è assistito in Italia a un rilevante sviluppo delle reti di
franchising, a cui ricorrono sia i produttori che i distributori intenzionati a innovare le proprie strategie distributive attraverso una maggiore strutturazione
dell’offerta, conseguendo nello stesso tempo obiettivi di riduzione dei costi e
di migliore copertura territoriale delle insegne. Tra il 1996 e il 1998 il numero degli esercizi commerciali operanti in franchising – concentrati in buona
parte nel Nord Italia – è cresciuto del 40% circa (toccando le oltre 12.500
unità, di cui 2.000 localizzate nella sola Lombardia), un aumento ancor più
significativo se si considera la parallela e pronunciata contrazione del dettaglio tradizionale. Il franchising è oggi interessato da una crescente processo
di internazionalizzazione, che tuttavia investe ancora marginalmente le imprese italiane: basti che dire i punti di vendita affiliati alle prime 20 insegne
nazionali operanti all’estero risultavano nel 1994 (comprendendo anche il settore dei servizi) poco più di mille, ossia meno della metà dei 2.600 negozi esteri affiliati ad una sola insegna come quella francese di Intermarché.
Con lo sviluppo dell’innovazione delle formule commerciali, alcune delle
quali importate da altri paesi europei (l’ipermercato dalla Francia, l’hard
discount dalla Germania), cresce notevolmente – a partire dai primi anni Novanta, soprattutto nel Nord Italia e nel settore alimentare – la presenza delle
grandi imprese estere della distribuzione. Queste oggi controllano, direttamente o indirettamente, quote significative della superficie di vendita degli
ipermercati (15% nel Nord Ovest e 8% nel Nord Est), degli hard discount
(25% nel Nord Ovest e quasi 40% nel Nord Est) e dei cash & carry (25% nel
Nord Ovest e 15% nel Nord Est), una presenza che in questi ultimi anni si sta
sempre più estendendo anche alla gestione delle grandi superfici specializzate
non alimentari.
A causa delle ridotte dimensione delle imprese nazionali – nessuna di queste,
ad esempio, figura tra i primi 15 gruppi europei della distribuzione specializzata – e del livello di saturazione ormai raggiunto dai mercati di diversi paesi,
l’Italia continua ad offrire ampi spazi e nuove opportunità alle aziende straniere intenzionate a svilupparsi in un mercato europeo sempre più integrato.
La presenza degli operatori esterni – che fanno ricorso alle diverse modalità
d’ingresso (apertura diretta, acquisto di piccole-medie catene nazionali, partecipazioni di minoranza, accordi di joint-venture, contratti di franchising) è
quindi destinata a rafforzarsi nei prossimi anni, specie nel settore non alimentare, che presenta più elevati margini di crescita.
Dalla nostra analisi emerge una conclusione di fondo: seppure con velocità
diverse tra alimentare e non alimentare e il permanere di un certo ritardo rispetto ai paesi europei commercialmente più avanzati, la prima fase di modernizzazione della rete distributiva può ritenersi, nell’Italia del Nord, sostanzialmente compiuta. Il confronto competitivo e la turbolenza, accentuati dai
fenomeni di internazionalizzazione, si spostano all’interno del settore moderno, mentre la dinamica dell’offerta commerciale tende ad adeguarsi alla do-
183
LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE
manda dei consumatori sulla base di meccanismi non più (o non solo) di tipo
“amministrativo”, ma di mercato. Ciò significa che a rendere moderna una
rete distributiva non è tanto la presenza delle grandi superfici di vendita,
quanto lo sviluppo della differenziazione e della specializzazione delle formule (oggi, tra l’altro, a crescente contenuto di servizio) fondato sulle dinamiche concorrenziali tipiche del libero mercato.
LE IMPLICAZIONI DELLA MODERNIZZAZIONE: LA
CRESCITA DEL RUOLO STRATEGICO DELLA
DISTRIBUZIONE COMMERCIALE
Le conseguenze della “rivoluzione commerciale” affermatasi nelle regioni
del Nord sono molteplici e investono non solo gli equilibri interni alla distribuzione, ma anche quelli connessi ai rapporti che il commercio intrattiene
con le diverse componenti del sistema globale (industria di produzione, logistica, mercati esteri, comportamenti di acquisto dei consumatori, qualità della
vita, territorio, e così via). In questa sede ci limiteremo ad evidenziare i cambiamenti e i nodi problematici con riguardo a tre aspetti “sistemici” di cruciale importanza: l’impatto sull’industria, la “minaccia” proveniente dai processi
di internazionalizzazione, il rapporto con il territorio.
IL RIBALTAMENTO
DELLA DIPENDENZA
DEL COMMERCIO
DALL’INDUSTRIA
I CAMBIAMENTI
INDOTTI NEL
SETTORE
INDUSTRIALE
Con lo sviluppo della distribuzione moderna viene meno il tradizionale rapporto di dipendenza del commercio dall’industria. Non soltanto il distributore
aumenta il proprio potere contrattuale nei confronti del produttore (da cui ottiene migliori condizioni di acquisto), ma assume un ruolo imprenditoriale
maggiormente autonomo. Questo processo di emancipazione del settore distributivo è ben testimoniato dal fenomeno delle “marche commerciali”, attraverso cui si il distributore si appropria di competenze e di fasi del ciclo
produttivo (progettazione e marketing dei prodotti) che nel passato costituivano prerogativa unica dell’industria di marca. Il ricorso alle nuove tecnologie informatiche, che consente di conoscere in tempo reali gli orientamenti e i
bisogni dei consumatori, rafforza poi il potere del dettagliante: questi può infatti non solo porsi come interlocutore adeguatamente informato
dell’industria, ma anche orientare la domanda verso quei prodotti che presentano per lui i margini più elevati.
Come si vede, siamo ormai agli antipodi della situazione tradizionale che vedeva nel distributore un mero intermediario di prodotti “prevenduti”
dall’industria. Il rapporto risulta oggi sostanzialmente ribaltato: non è più
l’industria a influenzare la distribuzione, ma il contrario. Un cambiamento
che produce sul settore industriale almeno due rilevanti conseguenze di natura strutturale, ossia:
• una tendenza alla polarizzazione del tessuto produttivo. Lo sviluppo del
commercio moderno genera infatti, da una parte, una spinta alla concentrazione di quelle industrie, di solito multinazionali (come è successo nel
settore alimentare), che continuano a perseguire politiche di marca e,
dall’altra parte, favorisce la crescita di una schiera di produttori di piccole
e medie dimensioni. Questi ultimi, peraltro, devono mostrare di possedere
i requisiti competitivi richiesti (flessibilità produttiva, rapporto prezzo/qualità, efficienza logistica, ecc.) per poter operare come imprese forni-
184
LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE
trici della grande distribuzione, godendo dei relativi vantaggi (misurabili,
soprattutto, in termini di aumento dei volumi di produzione);
• una maggiore esposizione dell’industria alla concorrenza estera. La grande distribuzione, ormai libera di scegliere i propri fornitori, può infatti approvvigionarsi direttamente dai produttori esteri, che a loro volta sono facilitati nella penetrazione commerciale dei mercati locali da una struttura
distributiva meno frammentata. Ciò può anche tradursi in un’opportunità
di crescita internazionale per le stesse piccole e medie industrie che riforniscono le imprese commerciali operanti nei mercati esteri.
Tra industria e distribuzione si definiscono quindi nuovi rapporti ed equilibri,
che appaiono nel loro complesso maggiormente orientati a criteri di efficienza, competitività e trasparenza, con evidente vantaggio per il consumatore finale. Alcuni autori (Pini, 1988) sottolineano peraltro come lo sviluppo di
un’autonoma capacità di progettazione dei prodotti da parte della grande distribuzione implichi il rischio di un impoverimento progettuale delle piccole
e medie imprese industriali – o almeno di una parte di esse, tra cui quelle operanti nei distretti – che verrebbero declassate al ruolo di semplici subfornitori di beni intermedi.
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLA
DISTRIBUZIONE E
L’INDEBOLIMENTO DEL
PESO RELATIVO
DELL’ITALIA
ENTRA IN CRISI LA
TRADIZIONALE
FUNZIONE SOCIALE
DEL PICCOLO
COMMERCIO SUL
TERRITORIO
Come si è già osservato in precedenza, l’Italia rappresenta un’area di espansione molto appetibile per le grandi catene distributive estere che operano su
scala internazionale, concentrando quote crescente del mercato (alimentare e
non). Il confronto competitivo con queste multinazionali della distribuzione –
che da tempo sono attive anche nel mercato italiano – costituisce una minaccia alla crescita delle imprese commerciali nazionali. Il pericolo maggiore
proviene dalle imprese straniere la cui penetrazione commerciale nel nostro
paese – sino ad oggi più intensa nelle regioni del Nord – avviene non tanto
attraverso l’apertura di nuovi punti di vendita, quanto mediante l’acquisizione
di aziende già operanti nel contesto nazionale e in particolare di quelle che
detengono una posizione di leadership nei mercati regionali o locali. Vi è
quindi un rischio di indebolimento dell’identità commerciale del nostro paese
e delle nostre regioni.
A seguito della localizzazione suburbana delle grandi strutture di vendita
(centri commerciali, ipermercati e superfici specializzate), i flussi di acquisto
tendono a orientarsi sempre più verso le aree commerciali periferiche a scapito di quelle intermedie e centrali, che vanno così incontro a rischi di impoverimento. In questo quadro viene parzialmente meno la funzione sociale svolta
dagli esercizi di piccole dimensioni, che attraverso il valore del servizio di
prossimità rivolto agli abitanti contribuiscono a conservare la vitalità dei luoghi (dai centri storici alle periferie), nonché a fornire sostegno economico alle
zone meno urbanizzate.
Con un peso fortemente ridotto dallo sviluppo della grande distribuzione –
che costituisce ormai un fenomeno irreversibile –, il piccolo commercio può
diventare competitivo valorizzando al massimo le componenti non di prezzo
dei servizi di vendita (prossimità, assistenza, assortimento, ecc.) o instaurando rapporti di cooperazione con le grandi imprese commerciali fondati su criteri di autonomia e flessibilità operativa. La riconversione e l’investimento in
reti di franchising dei piccoli e medi distributori specializzati può inoltre co-
185
LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE
stituire un’altra modalità di risposta alla crisi del dettaglio tradizionale o di
minori dimensioni.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE: I RISCHI E LE
OPPORTUNITÀ PER L’ECONOMIA SETTENTRIONALE
L’AFFERMARSI DI UNA
“QUESTIONE
COMMERCIALE”
UNA “VIA ITALIANA”
ALLA RIVOLUZIONE
COMMERCIALE?
Rilevanti processi di concentrazione, intensificazione della concorrenza, crescente internazionalizzazione: sono queste le tendenze di fondo che definiscono, nelle regioni del Nord, lo scenario competitivo con cui oggi devono
misurarsi non solo le imprese del commercio, ma anche quelle dell’industria
e, oltre queste, la rete dei servizi, le istituzioni, i cittadini, ossia una pluralità
vasta di attori e interessi. È così che nel Nord prende forma una vera e propria “questione commerciale”, intesa non tanto come il permanere di ritardi
(che pure, nei confronti dell’Europa, in qualche misura sussistono), quanto
come ricerca di equilibri più avanzati e rivolti alla modernizzazione complessiva del sistema economico e territoriale. In altre parole, il commercio conquista una posizione centrale, si spoglia definitivamente della sua atavica subalternità all’industria, non è più la zona borderline dell’economia, rifugio
più o meno protetto di famiglie in cerca di un qualche reddito, ma si fa luogo
esposto ai meccanismi della concorrenza e dell’innovazione, diventa agente
delle nuove morfologie urbane e della qualità della vita di quella “città diffusa” che è ormai il territorio del Nord.
Lo sviluppo del commercio moderno appare come un dato sostanzialmente
“unificante” le otto regioni settentrionali, potendosi al più segnalare qualche
differenza in termini di ritmo: più lento nel Piemonte e nella Liguria, più accelerato in Lombardia e nel Veneto, con una direttrice est o di “bassa padania” comunque maggiormente dinamica e la capitale a Milano. Ma il modello
“fordista” della grande distribuzione è uguale dappertutto: e il fatto che abbia
avuto maggiore successo proprio nelle regioni meno fordiste sta a significare
il carattere altrettanto poco fordista assunto dalla “via italiana” alla rivoluzione commerciale, dove anche gli ipermercati sono piccoli. E se fosse proprio
questo – nelle nuovi condizioni poste dall’ulteriore dispersione delle unità
produttive e dallo sviluppo dell’impresa a rete – il modello distributivo da valorizzare, in quanto basato su una sorta di “concentrazione temperata”? Anche nel commercio, “moderno” non è più necessariamente sinonimo di
“grande”.
Più che alle economie di scala delle superfici di vendita occorre quindi guardare alle economie di scala delle funzioni centrali (acquisti, marketing, finanza). È soltanto concentrando tali funzioni, attraverso l’associazionismo o il
franchising, che si creano gruppi e reti di distribuzione capaci non solo di rafforzare il ruolo della piccola impresa commerciale, ma anche di competere
nei mercati internazionali. In questo modo la grande scala delle decisioni
strategiche si rende compatibile con la piccola scala della gestione autonoma
e flessibile dei punti di vendita diffusi nel territorio.
La creazione di gruppi “autoctoni” sempre più forti, capaci di interagire e
stringere accordi con altri gruppi esteri, sembra in qualche modo costituire la
strada obbligata per il recupero di quel deficit di internazionalizzazione attiva
(o in uscita) che caratterizza ampiamente la distribuzione italiana. Altrimenti
il destino del Nord, e con esso dell’Italia, appare in qualche modo segnato:
186
LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE
essere “terra di conquista” delle grandi insegne straniere, ossia degli “IDE
commerciali” in entrata (si veda la scheda sugli IDE). La penetrazione nei
mercati esteri costituisce la sfida più impegnativa per il futuro del commercio
italiano. Sfida che implica anche la ricerca e lo sviluppo di nuove e originali
formule distributive, caratterizzate cioè da una propria identità commerciale e
in grado di promuovere nel mondo i caratteri peculiari delle produzioni italiane, ossia del paese delle “cento città”.
VERSO UNA NUOVA
PARTNERSHIP TRA
RETI DI
DISTRIBUZIONE E PMI
INDUSTRIALI
Vi può essere quindi un contributo specifico delle imprese commerciali moderne nel rendere virtuoso il nesso tra locale e globale. Ciò richiede peraltro
che le imprese della distribuzione moderna e le piccole e medie imprese industriali si pensino e agiscano come partner all’interno di relazioni non di tipo conflittuale o a egemonia variabile, ma fondate sulla logica e i meccanismi
della cooperazione competitiva. Anche perché si sono notevolmente accorciate, se non annullate, le distanze tra produzione e distribuzione e siamo ormai
in presenza di un unico “sistema distributivo-produttivo” integrato, percorso
da filiere e reti ora più lunghe ora corte. Date le sue caratteristiche di flessibilità, di radicamento territoriale e di innovazione, la piccola impresa produttiva può in effetti costituire il partner ideale di una distribuzione moderna sempre più interessata a differenziare e ampliare la gamma dei prodotti offerti al
consumatore e a rispondere tempestivamente alle variazioni del mercato.
In sostanza, grande distribuzione organizzata e piccole e medie imprese industriali si trovano oggi a dover affrontare assieme un’unica sfida, che è quella
dell’internazionalizzazione. Soltanto vincendo questa sfida competitiva –
amplificata dall’arrivo dell’Euro e dallo sviluppo del “commercio elettronico” che costituiscono ulteriori stimoli al cambiamento – il sistema distributivo del Nord potrà definitivamente europeizzarsi e svolgere una funzione di
traino per la modernizzazione commerciale di tutto il paese.
187
LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE
Tab. 1 – Punti di vendita alimentare in sede fissa per area geografica
(variazioni % nei periodi 1981-1994 e 1996-1997)
1981 -1994
1996-1997
Variaz. Totale periodo
Variaz. Media annua
Nord Ovest
-30,1
-2,3
-11,9
Nord Est
-32,6
-2,5
-13,5
Italia
-27,1
-2,1
-10,3
Fonte: Elaborazioni Cescom su dati Istat (1991-1994) e Infocamere (1996-1997)
Tab. 2 – Densità del commercio alimentare al dettaglio in sede fissa per regione
dell’Italia settentrionale (numero di punti vendita per 10.000 abitanti)
1981
1991
1997
Piemonte
58
46
Valle d’Aosta
82
63
Liguria
82
65
Lombardia
51
39
Trentino Alto Adige
56
43
Veneto
55
40
Friuli Venezia Giulia
59
48
Emilia Romagna
62
45
Nord Ovest
57
44
Nord Est
58
43
Italia
62
48
Fonte: Elaborazione Cescom su dati Istat (1981 e 1991) e Infocamere (1997)
30
47
48
26
31
28
31
29
30
29
38
Tab. 3 – Nuovi supermercati e ipermercati (1984, 1994 e 1996) per regione dell’Italia settentrionale (valori assoluti)
Supermercati
Ipermercati
1984
1994
1996
1984
1994
1996
Piemonte
178
362
341
5
25
30
Valle d’Aosta
7
9
8
1
1
1
Liguria
58
150
156
0
1
6
Lombardia
363
796
806
14
62
73
Trentino Alto Adige
104
174
159
0
1
1
Veneto
215
627
609
2
22
31
Friuli Venezia Giulia
94
206
215
1
4
4
Emilia Romagna
146
395
382
0
17
21
Nord Ovest
606
1.317
1.311
20
89
110
Nord Est
559
1.402
1.365
3
44
57
Italia
1,959
5.600
5.677
30
182
240
Fonte: Cescom
Tab. 4 – Hard discount per regione dell’Italia settentrionale (valori assoluti)
Variazioni assolute
1993
1994
1995
1996
93-94
95-96
Piemonte
12
101
186
185
89
-1
Valle D’Aosta
4
4
Liguria
1
35
90
92
33
2
Lombardia
26
201
407
421
175
14
Trentino Alto Adige
1
15
24
26
14
2
Veneto
36
159
231
218
123
- 13
Friuli Venezia Giulia
1
36
58
63
35
5
Emilia Romagna
14
131
231
227
117
-4
Nord Ovest
40
337
687
702
297
15
Nord Est
52
341
544
534
289
- 10
Italia
99
1.033
2.210
2.359
934
149
Fonte: Elaborazione Cescom
188
LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE
Tab. 5 – Dotazione rete alimentare moderna per regione dell’Italia settentrionale al 1996
(mq per 1.000 abitanti)
Supermercati
Ipermerc.
Hard discount
Totale
Piemonte
64
Valle d’Aosta
46
Liguria
65
Lombardia
73
Trentino Alto Adige
122
Veneto
110
Friuli Venezia Giulia
132
Emilia Romagna
73
Nord Ovest
70
Nord Est
100
Italia
76
Fonte: Ns. Elaborazioni su dati Cescom
35
67
14
49
5
39
16
33
41
31
23
19
14
20
22
11
17
11
25
21
22
18
118
127
99
144
138
166
159
131
132
153
117
Tab. 6 – Punti di vendita non alimentari in sede fissa per area geografica
(variazioni % consistenza 1981-1994 e 1996-1997)
1981 -1994
Variaz. tot. periodo
Variaz. media annua
1996-1997
Nord Ovest
4,5
0,3
-2,6
Nord Est
5,5
0,4
-2,4
Italia
7,3
0,6
-1,6
Fonte: Elaborazioni Cescom su dati Istat (1991-1994) e Infocamere (1996-1997)
Tab. 7 – Densità del commercio non alimentare in sede fissa per regione dell’Italia settentrionale (numero di punti vendita per 10.000 abitanti)
1981
1991
1997
Piemonte
70
77
71
Valle d’Aosta
100
103
93
Liguria
85
96
84
Lombardia
70
76
65
Trentino Alto Adige
68
77
83
Veneto
73
81
73
Friuli Venezia Giulia
80
84
79
Emilia Romagna
84
93
81
Nord Ovest
72
79
69
Nord Est
78
86
78
Italia
75
83
76
Fonte: Elaborazioni Cescom su dati Istat (1981 e 1991) e Infocamere (1997)
Tab. 8 – Grandi magazzini e magazzini popolari per regione dell’Italia settentrionale
Valori assoluti
Variazione assoluta
1991
1996
1991-1996
Piemonte
66
62
-4
Valle d’Aosta
1
1
Liguria
34
31
-3
Lombardia
126
156
30
Trentino Alto Adige
17
17
Veneto
59
55
-4
Friuli Venezia Giulia
40
25
-15
Emilia Romagna
49
52
3
Nord Ovest
229
250
21
Nord Est
165
149
-16
Italia
849
902
53
Fonte: Cescom, 1998
189
LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE
Tab. 9 – Centri commerciali per regione dell’Italia settentrionale
Valori assoluti
1991
1996
Piemonte
27
45
Valle d’Aosta
0
1
Liguria
2
7
Lombardia
59
102
Trentino Alto Adige
4
5
Veneto
28
59
Friuli Venezia Giulia
2
6
Emilia Romagna
47
69
Nord Ovest
89
155
Nord Est
81
139
Italia
249
435
Fonte: Cescom, 1998
Variazione assoluta
1991-1996
18
1
5
43
1
31
4
22
66
58
186
BIBLIOGRAFIA
Caiati G, (1997), “Le politiche e le strategie mercantili della moderna distribuzione
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190
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA
SETTENTRIONALE
Uniontrasporti*
L’ITALIA SETTENTRIONALE NEL CONTESTO EUROPEO: UN SISTEMA INFRASTRUTTURALE DEBOLE –
GLI SQUILIBRI IN EUROPA E LA PROSPETTIVA DI UNA RETE TRANSEUROPEA DEI TRASPORTI – LE
NECESSITÀ STRATEGICHE: 1. LA VALORIZZAZIONE DEI PORTI – LE NECESSITÀ STRATEGICHE: 2.
INTERCONNETTERE I NODI INFRASTRUTTURALI – LE NECESSITÀ STRATEGICHE: 3. LE PRIORITÀ PER
FERROVIE E SISTEMA VIARIO – I “NODI” DELLE RISORSE FINANZIARIE E DEL PROCESSO
DECISIONALE – ALLEGATI: LE CARATTERISTICHE STRUTTURALI DEL SISTEMA DEI TRASPORTI DEL
NORD ITALIA E GLI INTERVENTI STRATEGICI PER IL SUO SVILUPPO – BIBLIOGRAFIA
L’ITALIA SETTENTRIONALE NEL CONTESTO EUROPEO:
UN SISTEMA INFRASTRUTTURALE DEBOLE
IL PESO ECONOMICO
DELL’ITALIA
SETTENTRIONALE
LA SATURAZIONE DEL
SISTEMA DEI
TRASPORTI
IL RITARDO
INFRASTRUTTURALE
E LA CADUTA DEGLI
INVESTIMENTI
L’Italia settentrionale rappresenta senza dubbio l’area della penisola economicamente più importante: le otto regioni italiane che la compongono raccolgono il 44% dell’intera popolazione nazionale e generano il 54% del valore
aggiunto. Da esse originano l’80% degli scambi con l’estero. Lungo le grandi
direttrici del Centro-Nord – quella Ovest/Est (Torino-Trieste) e Nord/Sud
(Milano-Firenze) – si concentra il “nocciolo duro” delle capacità produttive
italiane. A metà degli anni Novanta, nelle sole province gravitanti sull’asse
padano si produce per 434.000 miliardi e si esporta per 154.000 miliardi.
Lungo la Milano-Firenze il Pil prodotto è di 292.000 miliardi e l’export di
103.000 miliardi.
Tuttavia le infrastrutture di trasporto che attraversano queste regioni risultano
del tutto inadeguate per rispondere alle esigenze dell’attuale sistema economico: la rete stradale e ferroviaria sfiora i livelli di saturazione creando forti
disagi per la mobilità delle merci e dei passeggeri e il sistema portuale risente
dell’assenza di adeguati investimenti in infrastrutture e servizi (si vedano i
dati riportati negli allegati 1, 4, 5). Il sistema aeroportuale, inoltre, è a sua
volta fortemente deficitario, come è evidenziato in particolare dalla situazione critica del “cuore” economico dell’area padana, cioè la Lombardia e Milano. Una ricerca dell’Università Bocconi, commissionata da Unioncamere
Lombardia, ha recentemente segnalato gli svantaggi comparativi dell’area rispetto al resto d’Europa. Dallo studio, che prende come riferimento l’area di
Londra assegnandole il massimo punteggio (100), emerge che Milano, pur
avendo un alto indice demografico (50) ed economico (61), ha un indice di
accessibilità pari a 22,1, superata da Roma con 49. L’indice di Milano corrisponde a meno di un quarto rispetto alle valutazioni su Londra e Parigi
(88,6), ma è anche nettamente inferiore rispetto all’hub di Amsterdam che è
pari a 78,9.
Come ha osservato il Censis (“Senza reti niente Europa”, 1997), “in 25 anni
l’Italia ha aumentato dell’89% la sua capacità di produrre ricchezza e risorse
economiche (in termini di Pil), del 29% gli investimenti fissi lordi, ma ha ridotto del 16,2% gli investimenti infrastrutturali”. L’incidenza degli investimenti infrastrutturali sul Pil vede l’Italia all’ultimo posto in Europa, con il
*
Uniontrasporti, Milano
191
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
3,6% rispetto ad una media comunitaria del 5,8%. Secondo lo stesso Censis
(1997), “il divario di dotazione infrastrutturale dell’Italia rispetto all’Europa è
valutabile fra il 35 e il 50% in meno. Del Mezzogiorno rispetto alla media italiana del 21,5% in meno”. Più recentemente (1999), il Cnel ha elaborato una
classifica del livello di dotazione infrastrutturale in alcuni paesi, in cui l’Italia
risulta al 14° posto, dopo tutti i principali paesi europei, ad eccezione di Spagna, Portogallo e Grecia (tab. 1)
Tab. 1 – Livello di dotazione infrastrutturale in alcuni Paesi
(livello max = 100)|
Graduatoria
Paesi
Indicatore infrastrutture
1
Belgio
100.0
2
Olanda
85.2
3
Lussemburgo
84.8
4
Giappone
76.6
5
Danimarca
72.9
6
Austria
70.2
7
Germania
68.1
8
Francia
64.1
9
Regno Unito
63.4
10
Svezia
57.7
11
Canada
57.0
12
Stati Uniti
55.8
13
Norvegia
55.6
14
Italia
54.1
15
Irlanda
44.4
16
Finlandia
42.0
17
Spagna
35.2
18
Portogallo
32.1
19
Grecia
24.3
Fonte: Elaborazione Cnel su dati di Di Palma e Mazziotta (1998) e
World Bank (1994) (tratta da Il Sole 24ore)
LE DISECONOMIE PER
LE IMPRESE
Tutto ciò penalizza la competitività del nostro sistema imprenditoriale rispetto a quello del Nord e Centro Europa che può contare su fluide vie di collegamento terrestri e strutture portuali che garantiscono standard di qualità, affidabilità e sicurezza decisamente superiori a quelle italiane. Le imprese
italiane devono sopportare gli alti costi economici e sociali derivanti da queste inadeguatezze. Da un’indagine su un campione rappresentativo di imprenditori (Censis, 1997) le carenze maggiori risultano essere relative alla rete viaria (90,6%), agli interporti (89,3%) e alle reti ferroviarie (82,8%).
GLI SQUILIBRI IN EUROPA E LA PROSPETTIVA DI UNA
RETE TRANSEUROPEA DEI TRASPORTI
GLI OBIETTIVI DELLA
RETE TRANSEUROPEA
DEI TRASPORTI
La stessa Unione Europea è consapevole degli squilibri esistenti tra il sistema
dei trasporti nord europeo e quello del sud Europa, e in quest’ottica – con la
codecisione n. 1692/CE del Parlamento Europeo, della Commissione e del
Consiglio del 23 luglio 1996 – ha definito gli orientamenti che devono guidare la costituzione delle reti transeuropee dei trasporti (TEN).
192
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
Gli obiettivi primari sanciti sono infatti:
• il riequilibrio territoriale;
• la coesione economica e sociale tra le regioni comunitarie;
• lo sviluppo dell’area mediterranea.
Tuttavia da un bilancio delle opere realizzate con fondi TEN fino al 1997 risulta che gli investimenti si sono concentrati per oltre il 50% tra il Centro Europa e il Nord Europa. Ciò è essenzialmente dovuto a situazioni storicamente
in atto prima dell’entrata in vigore del Trattato di Maastricht.
Pertanto occorre un deciso intervento da parte dei Governi del sud Europa affinchè, nella stesura del nuovo Libro Bianco per la pianificazione degli investimenti nelle TEN, vengano rispettati gli orientamenti che hanno ispirato ab
origine il concetto delle stesse TEN.
In un recente incontro tenutosi a Genova, l’Ing. Salvarani, Direttore responsabile del progetto TEN presso la DG VII ha dichiarato che i principi guida
che orienteranno la stesura del Libro Bianco saranno:
• lo sviluppo di nodi multimodali (porti, interporti, aeroporti);
• la produttività della rete;
• il migliore sfruttamento di strumenti soft (quali la telematica) che implicano minori investimenti con grandi risultati in termini di efficienza;
• lo sviluppo di corridoi multimodali, in particolare del corridoio Est-Ovest
quale naturale asse di equilibrio rispetto agli ormai saturi corridoi NordSud;
• l’attenzione non rivolta soltanto al lato dell’offerta ma anche al lato della
domanda, con l’intento di soddisfare quelle che sono le esigenze
dell’utenza (cittadini, realtà socio-economiche, realtà locali) offrendo inoltre servizi sempre più affidabili.
Sarà compito quindi degli Stati Membri del Sud Europa far sì che questi divengano concretamente principi guida per la futura pianificazione degli investimenti nelle TEN.
UNO SQUILIBRIO
TIPICAMENTE ITALIANO: IL
TRASPORTO SU STRADA
LE “PIATTAFORME
LOGISTICHE”
CONTINENTALI: QUELLA
PER IL SUD-EUROPA È
ANCORA DA COSTRUIRE
Va ancora segnalato che uno squilibrio specifico e tipico del sistema di trasporti italiano, e in particolare settentrionale, è dato dall’eccessivo peso relativo del trasporto stradale rispetto alle altre modalità di trasporto. L’Italia registra, a questo proposito, i valori massimi con una quota dell’85,7% rispetto
al 61,1% della Francia e al 63,4% della Germania. La saturazione e
l’ingolfamento che ne conseguono penalizzano fortemente i sistemi di piccole
imprese dell’Italia settentrionale, come è particolarmente evidente nella realtà
del Nord Est.
Alla luce di tutto ciò appare particolarmente rilevante il ruolo che lo sviluppo
di un efficiente sistema di trasporto del Nord Italia assumerà non solo in ambito nazionale ma nel più generale contesto europeo.
In questo contesto, sembrano rilevabili, almeno in prospettiva, due grandi
“piattaforme logistiche” continentali:
• la prima, già esistente ed anzi consolidata nonché in ulteriore sviluppo,
centrata sul Benelux, “cuore” logistico del Nord Europa;
• la seconda, solo potenziale (nascerà se si faranno, e in tempo, adeguate
politiche infrastrutturali) centrata sul Sud Europa, nell’area dell’Italia set-
193
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
tentrionale, che potrebbe appunto diventare la “piattaforma logistica” di
supporto dei flussi fra il Mediterraneo e il Nord Europa.
Dal quadro problematico sopra descritto, emergono alcune necessità strategiche per l’Italia settentrionale (valorizzazione dei porti, interconnessione dei
nodi e definizione delle priorità), che verranno sinteticamente prese in considerazione.
LE NECESSITÀ STRATEGICHE:
1. LA VALORIZZAZIONE DEI PORTI
Ormai da qualche anno pare si stia avviando un’adeguata valorizzazione dei
porti italiani (si veda in allegato la sezione dedicata ai porti) sia dal lato tirrenico che dal lato adriatico (ivi compreso il lontano porto di Gioia Tauro).
L’economia della Italia del Nord (e gran parte dell’economia del nostro Paese) potrà uscire vincente sul piano europeo e mondiale soltanto se prenderà
consapevolezza delle opportunità offerte dai porti che a lei fanno capo. Infatti, la penisola italiana è un “molo” naturale sul Mediterraneo, occupando una
posizione strategica che, del resto, è stata storicamente sfruttata.
Ne sono conferma i successi ottenuti dal porto di Gioia Tauro in questi ultimi
anni (si veda in allegato la sezione dedicata ai porti) e il forte interesse delle
compagnie straniere rispetto ai porti situati nel Sud Italia, quale ad esempio
Taranto. I traffici sviluppati da queste nuove realtà hanno influenzato positivamente l’andamento di tutti i porti, compresi quelli dell’alto Tirreno e Adriatico.
L’ITALIA DEL NORD
COME RETROTERRA
LOGISTICO VERSO
L’EUROPA
SETTENTRIONALE
UNA NUOVA
CONCEZIONE DEI
PORTI
L’Italia settentrionale è il retroterra di questi porti e deve attrezzarsi come
una grande piattaforma logistica per lo smistamento dei traffici con l’Europa,
con il Mediterraneo e con i mercati transoceanici oltre Suez e Gibilterra.
L’applicazione della legge 84, approvata dopo lungo travaglio, ha fatto imboccare alla portualità italiana la direzione giusta verso una sua rinascita al
reale servizio dell’economia italiana e dell’Europa.
Le “Autorità portuali”, istituite da questa legge, sono gli strumenti su cui ciascun porto può contare per portare a sintesi operativa, sulla base delle considerazioni prima esposte, il recupero realistico della propria identità e dei limiti del proprio sviluppo.
Il processo di razionalizzazione del sistema portuale italiano, cui la l. 84 ha
dato inizio, sarà più o meno lungo e produrrà risultati più o meno efficaci per
l’economia italiana, in stretta dipendenza, innanzitutto, dalla capacità di ogni
singola Autorità portuale di cogliere le tendenze del mercato mondiale e locale della navigazione marittima e di inserire in queste lo strumento “Porto” di
cui ciascuna è responsabile, con una visione realistica dei limiti e delle capacità operative di cui lo strumento dispone.
È necessario rendersi conto della ragione del successo dei porti del Mare del
Nord, che in gran parte è il frutto del ragionato e intenso impegno di quei
porti – e dei rispettivi governi – per un’adeguata organizzazione del loro retroterra centro-europeo.
Esperienze come il creando Distripark di Genova rappresentano la risposta di
alcuni imprenditori all’esigenza di concepire il porto non solo come punto di
194
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
origine/destinazione delle merci ma come una piattaforma logistica per una
gestione integrata dei flussi di traffico.
Le potenzialità di sviluppo ulteriore della portualità italiana, a partire proprio
dalla recente “scoperta” di Gioia Tauro (va rilevato come ancora nel 1996
molti operatori logistici asiatici ignorassero il Mediterraneo e trasportassero
quindi i loro container per altri 1800 km fino in Olanda), pongono oggi al nostro Paese la necessità di riconsiderare con maggior attenzione il sistema di
trasporto – in particolare delle merci – non solo per razionalizzare e modernizzare l’esistente ma anche perché, in realtà, questo può essere fonte di sviluppo economico e sociale. In questo contesto si rende sempre più necessario
intervenire nella riorganizzazione della rete infrastrutturale e telematica che
consenta ai diversi nodi intermodali – in particolare porti e interporti – di essere tra loro collegati.
LA NECESSITÀ DI
INVESTIRE NELLE
INFRASTRUTTURE DI
COLLEGAMENTO
Investire nelle infrastrutture di collegamento tra porti ed interporti diviene
sempre più una priorità, se si vuole aumentare il grado di competitività del
nostro paese e in generale dei paesi mediterranei, rispetto ai paesi del Nord
Europa. Le merci devono poter viaggiare con mezzi veloci, affidabili ed ecologici. Questi sono gli obiettivi imposti dalla politica comunitaria in materia
di trasporto. I terminals inland (situati negli interporti) devono essere facilmente collegati a quelli portuali cosicchè si possa creare una vera e propria
rete.
LE NECESSITÀ STRATEGICHE:
2. INTERCONNETTERE I NODI INFRASTRUTTURALI
Dopo i porti, è indispensabile organizzare e collegare gli interporti, gli aeroporti e i centri di scambio, che già esistono e sono in via di sviluppo nel retroterra padano (si veda in allegato la sezione dedicata agli interporti e agli aeroporti). L’organizzazione di questo retroterra esige collegamenti degli
interporti fra essi, con i porti e gli aeroporti.
LE RETI INFORMATIVE
E TELEMATICHE
Altro presupposto fondamentale perché si realizzi la rete è la possibilità per i
vari soggetti di poter colloquiare tra loro, usufruendo di sistemi telematici adeguatamente compatibili. L’EDI (Electronic Data Interchange) costituisce
uno strumento di supporto di estrema utilità non soltanto per gli operatori
portuali ma per tutti i soggetti che intervengono nella catena intermodale,
producendo un vantaggio in termini di snellimento delle procedure connesse
al trasporto, e quindi di tempi, nonchè di acquisizione di conoscenze. Anche
in questo caso bisogna sottolineare che, mentre per i porti del Mediterraneo la
gestione delle informazioni rappresenta una innovazione ancora in fase di
sviluppo o di sperimentazione, per gli scali del Mare del Nord l’EDI è uno
strumento di supporto dell’operatività portuale a regime da tempo, naturalmente soggetto a continui miglioramenti ed aggiornamenti. Gli investimenti
in questi settori si rivelano quindi particolarmente strategici per il rilancio del
nostro sistema trasportistico.
195
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
LE NECESSITÀ STRATEGICHE:
3. LE PRIORITÀ PER FERROVIE E SISTEMA VIARIO
Vanno definite, infine, le priorità da realizzare per eliminare le criticità strategiche nel settore infrastrutturale ferroviario e viario e nel settore organizzativo. Si citano, qui di seguito, i soli titoli di queste priorità:
• realizzazione della trasversale ferroviaria ad alta capacità Lione – Torino
– Milano – Lubiana;
• ammodernamento della rete ferroviaria “storica” che, in connessione con
la nuova trasversale ferroviaria Ovest – Est, dovrà potenziare il trasporto
merci per ferrovia;
• realizzazione della galleria ferroviaria di valico del Brennero;
• realizzazione del terzo valico tra Milano e Genova;
• realizzazione della galleria di valico della Linea Pontremolese;
• progettazione e realizzazione del collegamento tra Milano e Lugano, e tra
Genova / Milano con Domodossola per immettersi sul nuovo sistema
svizzero dall’Alptransit, che la Svizzera ha definitivamente approvato;
• realizzazione del nodo logistico dell’intermodalità della Lombardia e di
Milano, cui la Regione Lombardia sta attendendo e che è di importanza
strategica cruciale per tutti i traffici del Nord Italia. Ciò comporta la creazione ed il funzionamento di una doppia corona di interporti e centri logistici ipotizzati attorno a Milano;
• nel campo viario, realizzazione della nuova autostrada Milano-Brescia e
della Pedemontana, di collegamento tra Piemonte, Lombardia e Veneto;
• non minore urgenza esiste nel campo telematico, a cui si dovrà mettere
mano in un settore dove il sistema Italia risulta, rispetto allo sforzo di ricerca e di applicazione in atto in Europa, particolarmente arretrato. Evidentemente, il problema non può essere risolto per la sola Italia del Nord,
ma riguarda tutto il nostro Paese. Tuttavia è qui, nel Nord, che si sentono
fin d’ora i maggiori danni per l’impresa e per l’economia derivanti dalla
carenza di una rete telematica che connetta porti, interporti, aeroporti,
ferrovie e reti viarie e sia a disposizione dell’utenza con le reti particolari
e aziendali già esistenti (si veda in allegato il dettaglio degli interventi
strategici per lo sviluppo della rete dei trasporti nel Nord Italia).
I “NODI” DELLE RISORSE FINANZIARIE E DEL PROCESSO
DECISIONALE
Le opere di ammodernamento infrastrutturale (sia sul piano tecnologico, sia
su quello organizzativo) e le nuove iniziative necessarie resteranno un “libro
dei sogni” se non ci si renderà conto una volta per tutte che, per realizzare
quelle iniziative, occorre saperle finanziare.
Con il pretesto della scarsità crescente dalle risorse pubbliche si rischia di
creare un alibi al “non fare”.
COME PORTARE I
CAPITALI PRIVATI A
INVESTIRE NELLE
L’Unione Europea indica invece decisamente come strada per uscire da questa situazione il partenariato pubblico privato, per portare veramente i capitali
privati a investire nelle infrastrutture e nella loro gestione. Per percorrere
questa strada ci sono molti ostacoli da superare. Anzitutto un ostacolo cultu-
INFRASTRUTTURE?
196
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
rale: da sempre siamo abituati a finanziare le infrastrutture pubbliche con il
quasi esclusivo impiego delle risorse pubbliche.
Cambiare atteggiamento significa obbligarci a una vera e propria rivoluzione
legislativa e normativa. D’altronde, non c’è alternativa e la Legge Merloni–
ter, recentemente approvata dal Parlamento apre solo un timido spiraglio per
avvicinare l’intervento dei capitali privati nelle opere pubbliche.
Tuttavia, il movimento in questa direzione deve accelerare: e devono preoccuparsi di accelerarlo soprattutto i soggetti territoriali, come quelli della Valle
Padana, che più soffrono dell’arretratezza delle infrastrutture di cui dispongono. È questo un compito non semplice. Affrontare tale compito potrebbe
produrre risultati positivi ove le istituzioni (Regioni, Camere di Commercio,
Associazioni produttive e finanziarie private), riconoscendo le priorità del
problema, sapessero “far massa” nei confronti degli organi decisori nazionali,
studiando e proponendo soluzioni adeguate.
In un sistema democratico e pluralistico, non si può negare che il metodo per
giungere a decisioni circa le opere prioritarie da realizzare e circa il modo di
realizzarle costringa all’impegno, da parte di tutti, di tanta buona volontà e di
molta, moltissima fatica.
IL METODO DELLA
CONCERTAZIONE
Tuttavia, non esiste allo stato attuale un’alternativa valida ad un approccio
basato sulla concertazione.
Forse troppo ottimisticamente, si può ritenere che già oggi, e ancor di più nel
breve e medio termine, sia così evidente il rischio di un freno irreversibile allo sviluppo derivante dalla situazione del sistema dei trasporti dell’Italia del
Nord, che i fattori istituzionali e produttivi coinvolti non dovrebbero avere
eccessive difficoltà a constatare i problemi prioritari da affrontare in comune
e a “far massa “ per chiedere ed ottenere delle soluzioni che paiono sempre
più obbligate. In prospettiva dunque, la via della concertazione sembrerebbe
poter produrre orientamenti e proposte operative comuni con minori difficoltà
che in passato.
Va ricordato che l’arretratezza di cui si parla sul piano infrastrutturale tecnologico e organizzativo del sistema dei trasporti del Nord Italia non è un “modo di dire” generico, ma una realtà che si aggrava anno per anno, essenzialmente nei confronti della realtà dell’Unione Europea, nella quale le imprese e
tutto il sistema Italia devono competere.
Ogni “buco” che permane o si allarga sul nostro sistema è un ulteriore ostacolo al cammino delle nostre imprese verso i mercati su cui esse devono competere.
In tal senso si può affermare che quanto più permane e si aggrava
l’arretratezza infrastrutturale tecnologica e organizzativa del sistema dei trasporti nazionali e, in modo diretto e determinante, del sistema dei trasporti
dell’Italia settentrionale, tanto più noi ci allontaniamo dall’Europa.
Le regioni settentrionali, potrebbero dunque giungere non difficilmente, attraverso il metodo della concertazione – sia interregionale sia con le istituzioni e le associazioni produttive che in esse operano – al riconoscimento delle
priorità da affermare ed a linee di politica comune da sostenere in sede nazionale ed europea per attuare le priorità qui definite.
In Italia, un primo esempio di avvio di concertazione interregionale sul problema dei trasporti è rappresentato dall’intesa fra le Regioni di Toscana,
Marche, Umbria, Abruzzo e Lazio, che sta lavorando costruttivamente.
197
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
LA NECESSITÀ DI UN
TAVOLO DI
CONCERTAZIONE
INTERREGIONALE
Un tavolo di concertazione interregionale dell’Italia del Nord, a somiglianza
di quanto si sta facendo con successo nelle regioni del Centro Italia, sarebbe
utile e necessario in fase di ridefinizione degli obiettivi e delle regole del nostro sistema dei trasporti nazionali mediante la revisione in corso del Piano
Generale dei Trasporti.
Un’intesa delle regioni dell’Italia settentrionale basata su una piattaforma minima – da tutti condivisa – di programmi e di priorità da attuarsi nel medio e
lungo termine per scongiurare il rischio di un aggravamento dello stato attuale di arretratezza infrastrutturale tecnologica e organizzativa del sistema dei
trasporti del Nord, potrebbe contribuire a imprimere alla revisione del Piano
Generale dei Trasporti gli indirizzi giusti di cui il sistema-Paese ha urgente
necessità.
I contenuti di un’eventuale intesa – siano essi tutti quelli accennati oppure solo una parte di essi – non potrebbero essere ignorati dagli estensori del nuovo
Piano Generale dei Trasporti, poiché essi rappresentano le esigenze minime
indifferibili di un’area territoriale, l’Italia settentrionale, la cui economia costituisce l’asse portante dell’intera economia nazionale.
A fronte di una “questione meridionale”, si deve evitare che, tardando ad intervenire organicamente, si consolidi – con conseguenze ben gravi per il nostro Paese – una “questione settentrionale” (si veda il saggio introduttivo).
La proposta qui suggerita, ci pare, al momento, l’unico apporto costruttivo
che possa essere fornito per cominciare a fare uscire il sistema dei trasporti
dell’Italia settentrionale dall’attuale stato di arretratezza in cui esso versa.
L’accettazione e l’attuazione di tale proposta non può essere condizionata
dalle differenze partitiche esistenti fra i governi delle varie regioni: essa è basata infatti su esigenze “tecniche” minime su cui tutti, quale sia il colore dei
propri orientamenti e la forza dei propri interessi localistici, dovrebbero riconoscere un superiore interesse comune. L’accettazione e l’attuazione della
proposta dipenderà, quindi, dal grado di responsabilità verso il bene comune
di cui sapranno dare prova le classi dirigenti pubbliche e private sia dei territori dell’Italia settentrionale, sia, poi, di tutto il Paese.
198
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
ALLEGATI:
LE CARATTERISTICHE STRUTTURALI DEL SISTEMA DEI
TRASPORTI DEL NORD ITALIA E GLI INTERVENTI
STRATEGICI PER IL SUO SVILUPPO
In queste sezioni prenderemo in considerazione i principali nodi di interconnessione fra le diverse modalità di trasporto. In particolare verranno considerati i più importanti porti, interporti ed aeroporti del Nord Italia descrivendone le caratteristiche infrastrutturali, i dati di flusso, il loro inserimento nelle
grandi direttrici di traffico. Successivamente verrà tracciata una panoramica
generale sullo stato della rete ferroviaria e stradale. Verrà fornito infine un
quadro sintetico degli interventi infrastrutturali considerati strategici per lo
sviluppo della rete dei trasporti del Nord Italia, lungo le direttrici Ovest-Est e
Nord-Sud.
ELENCO ALLEGATI:
1. I PORTI DEL NORD ITALIA
2. GLI INTERPORTI DEL NORD ITALIA
3. IL SISTEMA AEROPORTUALE DEL NORD ITALIA
4. LA RETE STRADALE DEL NORD ITALIA
5. LA RETE FERROVIARIA DEL NORD ITALIA
6. GLI INTERVENTI STRATEGICI PER LO SVILUPPO
DELLA RETE DEI TRASPORTI NEL NORD ITALIA
199
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
ALLEGATO 1 – I PORTI DEL NORD ITALIA
I trasporti marittimi esercitano da sempre, per posizione geografica e tradizioni storiche, un’influenza rilevante nell’economia italiana.
Bisogna inoltre rilevare che in questi ultimi anni abbiamo assistito ad un incremento rilevante dei traffici (in particolare containers) dovuti essenzialmente alla riforma portuale verificatasi con la legge 84 del 28.01.94 che ha
istituito le Autorità Portuali e al “fenomeno Gioia Tauro”, che ha ridato nuovo significato al ruolo strategico della nostra penisola nell’intero panorama
europeo e mediterraneo.
Ne è dimostrazione il fatto che dal 1990 al 1997 la quota del traffico container del Mediterraneo è passato da 4.370.000 TEU a 9.864.000 TEU, conquistando circa l’8% dei traffici dei porti del Mare del Nord.
Per le finalità che questo lavoro si prefigge prenderemo in considerazione i
seguenti porti: Savona, Genova, La Spezia, Livorno, Gioia Tauro, Ravenna,
Venezia, Monfalcone, Trieste. Considerata la sua particolarità, il porto di
Gioia Tauro verrà analizzato separatamente.
LO STATO DELLE
INFRASTRUTTURE
Si riportano di seguito i dati relativi alle infrastrutture dei porti considerati
tratte dal Conto Nazionale dei Trasporti 1997. Per ogni porto viene indicato il
numero di accosti, la lunghezza, la superficie dei piazzali. Gli accosti vengono distinti a seconda che siano utilizzati per movimentare merci secche o per
movimentare prodotti petroliferi.
Tab. 2 – I porti del Nord per tipo di operazioni effettuate (1995)
TIPO DI OPERAZIONI EFFETTUATE
Merci secche e passeggeri
Prodotti petroliferi
Accosti
Lungh. Tot.
Superficie
Accosti
Lungh. Tot.
PORTi
N.
Accosti (m)
Piazzali mq
N.
Accosti (m)
Savona-Vado
18
4.326
407.500
4
2.004
Genova
38
15.680
490.760
(a) 12+2
3.481
La Spezia
24
3.933
305.120
3
971
Livorno
25
7.830
561.160
6
236
Ravenna
34
11.306
1.217.520
5
1.251
Venezia
88
21.739
581.445
57
3.487
Monfalcone
3
1.698
220.000
Trieste
41
13.405
424.000
8
2.922
Fonte: Conto Nazionale Trasporti, 1997
Tab. 3 – I porti del Nord Italia. Lunghezza delle banchine in ml. per fondali 1993)
fino a
da
da
da 10 a da 12 a da 14 a oltre 18 Totale
PORTi
5m
5 a 8 m 8 a 10 m 12m
14 m
18 m
m
ml.
Savona-Vado
1.344
2.814
1.830
372
Boe
6.360
Genova
505
1.947
6.421
7.085
2.272
931 Piattaf. 19.161
La Spezia
472
1.329
771
751
810
4.133
Livorno
30
875
4.497
1.185
1.479
8.066
Ravenna
3.597
6.279
270
- 10.146
Venezia
2.272
3.154 12.991
5.716
453
640
- 25.226
Trieste
1.563
6.041
2.947
431
570
3.460
- 15.012
Totale
4.842 18.287 36.720 17.268
5.584
5.403
- 88.104
Fonte: Conto Nazionale Trasporti, 1997
200
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
ANDAMENTO DEL
TRAFFICO MERCI DAL
A conferma della ripresa dei porti italiani in atto, riportiamo di seguito i dati
relativi all’andamento del totale imbarchi/sbarchi e quello al netto dalle rinfuse liquide per gli anni 1995-1996-1997.
1995 AL 1997
Tab. 4 – Andamento totale imbarchi/sbarchi (valori in ton x 1.000.000)
1995
1996
1997
Tot.
Escluse
Tot.
Escluse
Tot.
Escluse
PORTI
Imb/sbar
rinf. liq.
Imb/sbar
rinf. liq.
Imb/sbar
rinf. liq.
Savona-Vado
13,300
5,582
11,989
4,675
10,619
4,434
Genova
46,511
20,190
46,736
21,979
42,699
27,036
La Spezia
12,700
11,990
11,281
10,324
12,026
9,703
Livorno
20,462
12,453
21,584
13,080
21,360
12,437
Ravenna
20,130
11,239
18,740
10,448
19,347
11,552
Venezia
24,850
14,460
24,054
13,596
24,117
13,511
Monfalcone
2,961
2,961
2,591
2,591
2,635
2,635
Trieste
37,732
8,894
41,460
11,073
46,411
9,687
Fonte: Conto Nazionale Trasporti, 1997
Come si può notare dalla tabella qui sopra riportata, se dal totale dei traffici
movimentati si escludono le rinfuse liquide (in particolare prodotti derivanti
dal petrolio e gas naturali liquefatti), merci meno ricche e meno interessanti,
si può constatare una tendenziale crescita.
Più in particolare Livorno, Venezia, Monfalcone e La Spezia mostrano un
andamento pressochè costante.
Savona-Vado ha avuto una flessione dovuta essenzialmente alle tariffe portuali e a motivi legati al mercato. La Spezia presenta un calo nel traffico delle
merci containerizzate connesso all’apertura di Gioia Tauro, terminal di proprietà della medesima società che gestisce il terminal container del porto ligure. Il porto di Genova presenta un forte decremento sul totale degli imbarchi/sbarchi (circa 4.000.000 di ton), essenzialmente imputabile al
trasferimento di un oleodotto collegato con la Germania, dal capoluogo ligure
a Trieste. Come si può notare, infatti, se si escludono i traffici oil il porto di
Genova mostra un incremento notevole del volume movimentato (circa
7.000.000 ton). Infine i lavori di dragaggio per aumentare il pescaggio del
porto di Ravenna, sono all’origine della flessione registrata in questi due ultimi anni.
Il considerevole aumento delle rinfuse liquide movimentate dal porto friulano
è strettamente connesso a quanto sopra detto per il porto di Genova.
IL PORTO DI GIOIA
TAURO: UN NODO
SEMPRE PIÙ CENTRALE
Il porto di Gioia Tauro, situato pochi chilometri a nord di Reggio Calabria, è
diventato nel giro di tre anni il più importante terminal containers italiano.
Gestito dalla Medcenter Container Terminal, il porto ha ottime caratteristiche
strutturali che gli consentono di accogliere le grandi “navi giramondo”:
NELL’ECONOMIA
MEDITERRANEA
Imboccatura
Bacino di rotazione - Sud
Bacino di rotazione - Nord
Banchina lo-lo (Est)
Banchina ro-ro (Nord)
Canale
Larghezza
Diametro
Diametro
Lunghezza
Lunghezza
Larghezza min
201
250 m
750 m
350 m
3011 m
144 m
200 m
fondale
fondale
fondale
fondale
fondale
navigabile
20 m
15 m
12,5 m
15/12,5 m
12,5 m
170 m
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
Anche i mezzi di movimentazione presenti nel porto hanno permesso di fronteggiare adeguatamente la forte crescita della domanda:
Gru a portale
Gru mobili
Straddle carriers
Reach stackers
Fork lift
Trattori
Semirimorchi
n.
n.
n.
n.
n.
n.
n.
14
3
45
6
1
11
60
Riportiamo di seguito un grafico che mostra l’andamento del traffico containers nel porto di Gioia Tauro, comparato a quello degli altri porti presi in
considerazione nei paragrafi precedenti.
Fig. 1 – L’andamento del traffico containers (Teus x 1000)
1600
1400
Gioia Tauro
1200
Genova
1000
800
600
La Spezia
Livorno
400
Venezia, Trieste
Ravenna
200
0
1995
1996
1997
Trieste
150
177
204
Monfalcone
0,2
0,4
0,4
Venezia
128
169
212
Ravenna
193
191
188
Savona
47
20
13
Genova
615
826
1179
La Spezia
965
871
615
Livorno
424
416
520
Gioia Tauro
17
572
1448
Savona, Monfalcone
Risulta evidente l’elevato trend di crescita del porto calabrese rispetto agli
altri porti. Tuttavia è importante sottolineare come questo andamento abbia
influenzato positivamente anche il traffico containers degli altri porti, verso
cui infatti partono da Gioia Tauro servizi feeder (in particolare verso Genova
e Trieste).
L’importanza di Gioia Tauro è stata riconosciuta dalla Commissione Europea
stessa, che ha deciso di promuovere l’integrazione del porto nelle reti transeuropee, considerata la rispondenza di questo “nodo di interscambio merci”
a quanto stabilito dalla Decisione 1697/96.
Nel piano direttore comunitario si fa riferimento alla rete del combinato ferroviario merci, i cui servizi logistici si dovranno attestare nel porto di Gioia
Tauro, sia sul terminal transhipment, mediante treni completi per il trasporto
di containers in banchina, sia nell’interporto da realizzarsi in prossimità del
202
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
sedime portuale dell’area di sviluppo industriale, che interesserà il traffico
delle unità di carico (semirimorchi e casse mobili) provenienti per i servizi di
cabotaggio Ro-Ro, dalle banchine specializzate del porto.
Nel porto di Gioia Tauro si sta quindi realizzando una duplice integrazione
modale con le reti transeuropee TEN costituita:
• dalla rete autostradale, che è collegata con il porto e diventerà la via per il
trasporto dell’unità di carico su mezzo stradale sul territorio nazionale e
comunitario;
• dalla rete ferroviaria, che è stata potenziata in funzione dello sviluppo di
servizi al trasporto combinato sulle banchine portuali e nell’interporto. In
tal senso è stata attivata una “freeway”, che interessa Italia, Germania,
Austria e Olanda.
Il porto di Gioia Tauro ha quindi un importante ruolo per realizzare
l’interconnessione terrestre e marittima con i paesi dell’Unione Europea e
con quelli extracomunitari e questo fatto ha diretta e indiretta incidenza sul
funzionamento del sistema dei trasporti del Nord Italia.
ALLEGATO 2 – GLI INTERPORTI DEL NORD ITALIA
La legge n. 240 del 4 agosto 1990 definisce con il termine interporto “un
complesso organico di strutture di servizi integrati e finalizzati allo scambio
di merci tra diverse modalità di trasporto, comunque comprendenti uno scalo
ferroviario idoneo a formare o ricevere treni e in collegamento con porti, aeroporti e viabilità di grande comunicazione”. L’interporto è pertanto in grado
non solo di razionalizzare i flussi delle merci su ferrovia e su strada (e, ove
necessario, per via marittima, idroviaria ed aerea), ma anche di fornire un sistema di servizi agli scambi e agli operatori, portando ordine sul territorio ed
aumentando l’efficienza di tutto il sistema economico.
Gli interporti previsti dal Piano Generale dei Trasporti sono 10 di cui 3 in fase di realizzazione e 7 operativi. In questi ultimi sono presenti n. 406 aziende
su una superficie coperta operativa al momento di circa un milione di mq,
con un numero complessivo di 56 binari e con 31 gru operative. Il totale delle
merci movimentate nei terminal operativi nel 1996 ha raggiunto 9,5 milioni
di tonnellate. Il totale movimentato corrisponde al 15 % delle merci trasportate dalle ferrovie italiane ed è di oltre il 40% circa dei traffici intermodali italiani.
Per le finalità del presente rapporto prenderemo in considerazione i seguenti
interporti: Torino Orbassano, Novara, Rivalta Scrivia, Bologna, Parma, Verona Quadrante Europa, Padova (si veda la tab. 5i).
Tab. 5 – I principali dati infrastrutturali degli interporti presi in esame
Torino Novara Rivalta Parma Bolog. Verona Padova
Tipologia dati
Orb.
Scrivia
Mq tot magazzini copertii
350.000 4.100 291.000 190.000 250.000 205.000 100.000
Mq tot dedicati ad attività intermodale
140.000 60.000 300.000 190.000 560.000 350.000 350.000
N. binari tdel terminal
2
3
5
2
15
12
14
Lunghezza dei binari
600
330
400
450
650
650
450
Distanza (Km) dalla linea F.S.
0,60
2,50
1,50
5,00
5,00
0,50
4,00
N. gru operanti nel terminal
3
3
1
2
2
12
8
Fonte Assointerporti
203
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
I PROGRAMMI E LE
PROPOSTE DELLA
COMMISSIONI EUROPEA
PER LO SVILUPPO
DELL’INTERMODALITÀ
Lo scenario europeo del trasporto intermodale si presenta caratterizzato da
una grande varietà di situazioni e da una forte complessità.
Si può anzitutto rilevare come ormai da molti anni le autorità comunitarie abbiano individuato nell’intermodalità una delle chiavi di volta di una politica
per la mobilità sostenibile ed abbiano incentivato una rilevante attività di ricerca in materia. Tuttavia i risultati di un tale impegno non sono stati certo
tali da poter essere definiti incoraggianti:
L’intermodalità continua a rappresentare una minima quota (circa il 4%) rispetto alle altre modalità di trasporto. Partendo da questa consapevolezza la
Commissione europea sta in questa fase ricalibrando l’intera strategia per lo
sviluppo dell’intermodalità. I capisaldi di questa riflessione strategica sono:
• conseguenze della rivoluzione logistica. Una logistica efficace è ormai un
fattore essenziale di competitività. Infatti, accanto alla ricerca di una ottimizzazione delle prestazioni interne dei diversi modi di trasporto e della
catena delle operazioni intermodali, comincia a farsi strada la consapevolezza che è altresì necessario inserire l’intermodalità nel cuore del ciclo
logistico;
• individuazione ed eliminazione dei “costi di frizione”. Il trasporto intermodale, in ragione della complessità delle operazioni che richiede, genera elevati costi di frizione dovuti alla carenza di interconnessioni ai seguenti tre livelli: a) infrastrutture e materiali di trasporto; b) operazioni e
utilizzazione dell’infrastrutture, in particolare dei terminal; c) servizi e
regolamentazioni orientati sui singoli modi. L’abbattimento di questi costi richiede sia investimenti, sia interventi sia regolativi;
• completamento ed interoperabilità delle reti. È questo l’elemento essenziale per un adeguato sviluppo dell’intermodalità ed è strettamente legato
al punto precedente. Comunque l’obiettivo è perseguito come uno degli
obiettivi principali della creazione della Rete Transeuropea dei Trasporti
(in base alla Co-decisione n. 1692/CE del Parlamento europeo, della
Commissione U.E. e del Consiglio dei Ministri e successive modifiche);
• rivedere l’imputazione dei costi per assicurare una corretta competizione
ed integrazione tra i modi di trasporto. I prezzi e le tariffe sono stabiliti
in maniera diversa secondo i differenti modi di trasporto e si constatano
importanti variazioni nella copertura dei costi di infrastruttura e dei costi
esterni. Da un lato si verifica quindi una distorsione delle scelte modali
dovuta alle differenze fra i tassi di copertura dei costi e alla diversità delle basi utilizzate per l’imputazione dei costi; dall’altro la coesistenza di
differenti sistemi di tariffazione implica che i carichi applicabili ai diversi
elementi dalla catena (strada e ferrovia, per esempio) si fondano su principi differenti e a volte contraddittori;
• utilizzo esteso delle applicazioni telematiche. La Commissione si sta orientando alla definizione di un’architettura comune di sistemi intermodali di informazioni elettroniche che possa garantire le seguenti funzioni: la
fornitura di informazioni (orari, operatori e terminali, prezzi medi, tempi
medi di transito ecc.); un sistema di prenotazione di spazi e di servizi;
tracking e tracing dei carichi.
Un particolare impegno è promesso per una concertazione sulle procedure
doganali attraverso la messa in opera del programma “Dogana 2000”.
Comunque, in questo settore, i responsabili italiani sono “al traino” degli altri
Paesi europei, quanto allo sviluppo della ricerca e ad applicazioni, con notevoli danni per gli sviluppi delle applicazioni telematiche ai trasporti che ap-
204
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
paiono ingenti in tutto il Paese, ma soprattutto nel sistema dei trasporti
dell’Italia settentrionale.
ANDAMENTO DEI
TRAFFICI E CRITICITÀ
PER LO SVILUPPO
DELL’INTERMODALITÀ
NELL’INTERPORTO
Si riportano, nella tabella di seguito riportata, i dati relativi all’andamento dei
traffici nei terminal degli interporti considerati. I dati sono relativi al periodo
1994-1996 suddivisi in migliaia di tonnellate, migliaia di Teu, e migliaia di
casse mobili/semirimorchi. Si rileva una tendenziale crescita del traffico movimentato negli interporti considerati: come si può notare dal grafico che segue l’incremento maggiore è stato registrato dall’interporto di Verona, mentre l’interporto di Novara ha registrato una lieve flessione.
Tab. 6 – L’andamento dei traffici negli interporti considerati
1996
1997
Interporto
ton
teu
cm/sr
ton
teu
cm/sr
(000)
(000)
(000)
(000)
(000)
(000)
Torino
637
35
841
3
38
Novara*
1.560
1.490
83
56
Rivalta S. 1.282
95
33
1.370
100
36
Bologna
1.556
71
57
1.459
58
54
Parma
564
6
24
657
6
30
Verona
3.839
11
178
4.069
6
192
Padova
1.620
142
29
2.000
201
35
Ton
(000)
206
406
351
450
150
1.100
505
31/03/98
teu
cm/sr
(000)
(000)
1
9
22
15
26
10
17
14
1
7
2
50
51
10
* Si fa presente che l’interporto di Novara è operativo dal 17 ottobre 1995.
Fonte Assointerporti
Fig. 2 – L’andamento dei traffici negli interporti considerati (tonn x 1000)
4500
4000
3500
3000
2500
2000
1500
1000
500
0
Torino
Novara
Rivalta S.
Bologna
Parma
Verona
Padova
1996
1997
Fonte Assointerporti
205
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
ALLEGATO 3 – IL SISTEMA AEROPORTUALE DEL NORD
ITALIA
Il trasporto aereo italiano dopo anni di immobilismo è attivamente interessato
da sostanziali modifiche normative e organizzative, sollecitato dalla spinta
del processo di liberalizzazione comunitario.
In particolare si possono richiamare i seguenti cambiamenti:
• gli aeroporti non dovranno costituire più strutture da finanziare a carico
della collettività, ma dovranno divenire organismi efficienti in grado di
produrre utile;
• le gestioni aeroportuali dovranno essere presto riordinate e affidate a società di capitale;
• alcune posizioni di monopolio dovranno essere temperate;
• gli organismi pubblici preposti al settore hanno intrapreso una sostanziale
riorganizzazione per rispondere meglio alle nuove esigenze;
• è imminente la creazione di un ulteriore organismo che investigherà sugli
incidenti e inconvenienti aeronautici e che avrà il compito di prevenzione
degli stessi.
IL TRAFFICO NEI
PRINCIPALI AEROPORTI
DEL NORD ITALIA
In Italia nel 1996 il traffico aereo civile (commerciale e di aviazione generale) si è svolto in 97 aeroporti.
Si allegano di seguito i dati relativi ai movimenti aerei nazionali ed internazionali nei principali aeroporti del Nord Itala.
Tab. 7 – Traffico commerciale negli scali del Nord Italia (1996) (in ordine di traffico)
Passeggeri (arrivi
Passeggeri in
Merci (tonn. imbar+ partenze)
transito
cate + sbarcate)
MILANO Linate
12.638.429
53.747
66.048
MILANO Malpensa
3.363.961
430.483
97.834
VENEZIA Tessera
2.636.280
6.428
8.986
BOLOGNA Borgo Panigale
2.155.124
54.511
7.853
TORINO Caselle
1.994.461
5.640
44.618
VERONA Villafranca
1.278.946
18.450
1.627
GENOVA Sestri
834.275
11.045
2.709
TRIESTE Ronchi dei Leg.
504.603
820
686
BERGAMO Orio al Serio
367.764
0
45.867
RIMINI Miramare
260.880
4.981
1.018
TREVISO Sant’Angelo
113.716
3.589
1.882
PARMA
25.568
132
1.192
CUNEO Levaldigi
4.779
0
0
VICENZA
4.066
0
0
AOSTA
1.036
0
0
ALBENGA
727
0
0
PADOVA
146
0
0
BIELLA Cerrione
26
0
0
TOTALE NORD
26.184.787
589.826
280.320
TOTALE CENTRO-SUD
38.676.306
756.155
289.936
nel quale, ROMA Fiumicino
22.707.864
328.039
259.288
TOTALE ITALIA
64.861.093
1.345.981
579.256
L’AEROPORTO DI
MALPENSA 2000: HUB
DEL NORD ITALIA
L’aeroporto di Malpensa 2000 è stato inserito tra i 14 progetti prioritari della
Rete Transeuropea dei Trasporti dell’Unione Europea.
L’aeroporto viene considerato un hub, cioè perno centrale nel sistema dei collegamenti diretti, che permette di raggiungere destinazioni diverse non collegate direttamente fra loro. Malpensa 2000 giocherà quindi un ruolo strategico
206
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
per lo sviluppo socio-economico della Lombardia e di tutto il Nord Italia, potendo competere con gli altri aeroporti europei e recuperando quelle quote di
mercato che fino ad ora sono gravitate quasi esclusivamente negli hub del
nord Europa.
Il 25 ottobre 1998, nonostante i problemi sollevati dalla Commissione Europea sulla sua accessibilità, è stato inaugurato. Tuttavia per un adeguato sviluppo dell’hub e affinchè realmente possa competere con gli altri concorrenti
europei, è necessario pervenire i tempi brevi alla realizzazione dei collegamenti prioritari stradali e ferroviari:
• rete stradale: potenziamento della A8, prolungamento della SS336, collegamento della Malpensa – A4 (Boffalora) – SS11;
• rete ferroviaria: realizzazione del prolungamento della linea delle FNM
da Busto Arsizio fino all’aeroporto, Malpensa Express, potenziamento
dell’atrio della stazione Cadorna.
Sono da considerarsi invece strategici i seguenti interventi:
• rete stradale: prolungamento della Malpensa – A4 (Boffalora) – SS11
sino alla tangenziale Ovest, la variante alla SS 33 del Sempione da Milano a Gallarate, la variante alla SS 341 a Semarate e suo collegamento sino alla autostrada A8, la diramazione della bretella Malpensa 2000 – autostrada A8 a Legnano con interconnessione alla Gronda intermedia, il
sub-sistema della Gronda Intermedia da Legnano (A8) a Dalmine (A4), il
sub-sistema comasco, il sub-sistema varesino;
• rete ferroviaria: collegamento di Malpensa con Milano Centrrale, connessione tr FNM e Fs e riassetto del nodo di Novara, connessione con la
linea del Sempione (Malpensa-Gallarate), linea Arcisate-Stabio, Gronda
Nord ferroviaria (Novara – Saronno – Seregno – Bergamo – Brescia).
Infine nell’ambito della realizzazione del sistema aeroportuale sono previsti
ulteriori interventi che consentiranno di mettere in relazione i tre aeroporti
(Orio al serio, Linate e Malpensa 2000) facilitando i collegamenti: il raddoppio della linea ferroviaria Bergamo – Treviglio e la bretella Bergamo – Orio
al Serio.
Il successo di Malpensa 2000 e del più generale sistema aeroportuale del nord
Italia dipende senza dubbio dall’affidabilità e dai tempi di realizzazione di
queste opere.
ALLEGATO 4 – LA RETE STRADALE DEL NORD ITALIA
A livello di aree geografiche, la rete stradale e autostradale italiana presenta
la ripartizione di infrastrutture che si evince dalla seguente tabella (nella quale non sono compresi i raccordi autostradali). Il Nord Italia presenta uno sbilanciamento marcato in favore delle strade comunali extraurbane, molto più
estese in lunghezza rispetto alle autostrade e alle strade statali e provinciali.
Disaggregando l’analisi al livello delle singole regioni del Nord, si noti come
la Valle d’Aosta presenti la quota più considerevole di strade nel territorio di
tipo autostradale e comunale, laddove il Friuli - Venezia Giulia presenta la
quota maggiore di strade statali e la Liguria di strade provinciali.
Tab. 8 – La rete stradale e autostradale in Italia (dati espressi in km)
207
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
Autostrade
Strade statali
Strade provinciali
Nord
3.320
15.507
42.239
Centro – Sud
3.153
29.623
72.203
Italia
6.473
45.130
114.442
Fonte: Ministero dei Trasporti, I Trasporti in Italia, 1997.
Strade comunali extraurbane
76.652
65.014
141.666
Tab. 9 – La rete stradale e autostradale nell’Italia del Nord (dati espressi in km)
Autostrade Strade sta- Strade pro- Strade cotali
vinciali
munali extraurbane
Piemonte
788
2.949
10.977
16.436
Valle d’Aosta
94
153
496
1.299
Lombardia
560
3.273
4.764
15.202
Trentino A.A.
207
1.698
2.672
4.501
Veneto
457
2.363
7.303
13.828
Friuli V.G.
207
1.179
2.169
2.491
Liguria
374
1.027
3.623
4.508
Emilia Romagna
633
2.865
7.235
18.387
Totale
3.320
15.507
42.239
76.652
Fonte: Ministero dei Trasporti, I Trasporti in Italia, 1997.
Tab. 10 – La rete stradale e autostradale nell’Italia del Nord (dati percentuali)
Autostrade Strade stata- Strade proStrade coli
vinciali
munali extraurbane
Piemonte
2,53
9,47
35,24
52,76
Valle d’Aosta
4,60
7,49
24,29
63,61
Lombardia
2,01
11,77
31,53
54,69
Trentino A.A.
2,28
18,70
29,43
49,58
Veneto
1,91
9,87
30,49
57,73
Friuli V.G.
3,42
19,50
35,87
41,20
Liguria
4,38
12,04
42,46
52,84
Emilia Romagna
2,17
9,84
24,85
63,14
Totale
2,41
11,26
30,67
55,66
Fonte: Ministero dei Trasporti, I Trasporti in Italia, 1997.
208
Totale
137.718
169.993
307.711
Totale
31.150
2.042
27.799
9.078
23.951
6.046
8.532
29.120
137.718
Totale
100,00
100,00
100,00
100,00
100,00
100,00
100,00
100,00
100,00
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
ALLEGATO 5 – LA RETE FERROVIARIA DEL NORD ITALIA
Qui di seguito si riportano i dati relativi all’estensione della rete ferroviaria
italiana, che per il 18% è gestita da società concessionarie o in gestione
commissariale. Si noti come le linee a doppio binario sono pressochè completamente elettrificate (98%), mentre si ha una percentuale di elettrificazione
del 59% sul totale delle linee, dato che si abbassa al 37% nell’ambito delle
ferrovie in concessione.
Tab. 11 – La rete ferroviaria italiana (dati espressi in km all’anno 1995)
A binario semplice
A doppio binario
Totale
Tot.
Elett.
%
tot.
Elett.
%
tot.
Elett.
%
elett.
elett.
elett..
Rete FS
9.935 4.294
43
6.020 5.908 98
15.956 10.202 64
Rete in concess.
3.297 1.120
34
230
201 87
3.527
1.321 37
o in gestione
commissariale
Totale
13.232 5.414
41
6.250 6.109 98
19.483 11.523 59
Fonte: Ministero dei Trasporti, I Trasporti in Italia, 1997.
Tab. 12 – La rete ferroviaria nell’Italia del Nord (dati espressi in km all’anno 1995)
A binario semplice
A doppio binario
Totale
Tot.
Elett.
%
tot.
Elett.
%
tot.
Elett.
%
elett.
elett.
elett..
Piemonte
1.169
495
42
668
668 100
1.838
1.163 63
Valle d’Aosta
83
0
0
0
0
0
83
0
0
Lombardia
987
633
64
578
578 100
1.565
1.212 77
Trentino A.A.
170
105
62
196
196 100
367
302 82
Veneto
578
83
14
515
504
98
1.093
587 53
Friuli
219
106
48
268
268 100
487
374 77
Ven.Giulia
Liguria
212
190
89
287
287 100
500
478 95
Emilia Romagna
575
416
72
477
477 100
1.052
893 84
Totale Nord
3.993 2.028
51
2.989 2.978
99
6.982
5.006 72
Totale Cen5.942 2.266
38
3.031 2.930
96
8.974
5.196 58
tro.Sud
Totale Italia
9.935 4.294
43
6.020 5.908
98
15.956 10.202 64
Fonte: Ministero dei Trasporti, I Trasporti in Italia, 1997.
209
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
ALLEGATO 6 – INTERVENTI STRATEGICI PER LO
SVILUPPO DELLA RETE DEI TRASPORTI
NEL NORD ITALIA
Si riporta di seguito un quadro sintetico delle principali infrastrutture considerate strategiche per lo sviluppo della rete trasportistica del nord Italia. Per
comodità di esposizione le varie tratte sono state suddivise in segmenti.
Segmento : MARSEILLE - NICE – VENTIMIGLIA
Intervento
TGV Cote d’Azur
Tipo
Linea ferroviaria
alta velocità
Liason Est - Ouest
Collegamento
autostradale
Collegamento autostra- Autostrada
dale Marseille - Pertuis
(collegamento A8 /
Liason Est - Ouest e A
51)
Note
Nuova linea ad alta velocità > 250 Km/h
inserita nello “Schema directeur du reseau europeen des train a grand vitesse”,
prevista per traffico passeggeri.
Ancora in fase di proposta.
Collegamento tra Avignone Pertuis
Draguignan Tratto autostradale sulle
Alpi Marittime per sgravare parte del
traffico della A8. In fase di prima progettazione
Collegamento autostradale Marseille –
Pertuis (collegamento A8/Liason EstOuest e A51). In fase di prima progettazione.
Segmento : LYON - CHAMBERY – TORINO
Intervento
Tipo
Linea ferroviaria ad
Linea ferroviaria
alta velocità / capacità alta velocità
e nuovo traforo del Frejus
Autostrada S. Pierre
d’A.- San Jean de Maurienne tunnel del Frejus
(A43)
Potenziamento dei due
terminal intermodali di
Lyon e Avignon
Potenziamento
dell’interporto di Orbassano
Terminal Intermodale
Note
Nuova linea ferroviaria ad alta velocità
e capacità > 200 Km/h prevista nello
“Schema directeur du reseau europeen
des train a grand vitesse”, e definita
“Key Link”.
Traffico misto passeggeri/merci
Attualmente in fase di progettazione
preliminare.
Collegamento tra St. Pierre d’A. ed il
tunnel del Frejus. Costruita fino a San
Jean de Maurienne, in costruzione per la
rimanente parte.
Realizzazione del potenziamento dei
terminal
Terminal Intermodale
Realizzazione del potenziamento
dell’interporto
Collegamento
autostradale
210
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
Segmento : NICE - CUNEO – ASTI
Intervento
Autostrada internazionale Nice- Cuneo
Tipo
Autostrada e traforo
Nuova autostrada Cuneo-Asti
Autostrada
Note
Nuova autostrada con traforo del Mercantour. L’intervento è in fase di prima definizione progettuale.
Nuovo collegamento autostradale in
fase di progettazione. È prossima
l’apertura della Conferenza dei Servizi
Segmento : VENTIMIGLIA - GENOVA
Intervento
Ferrovia tradizionale
Ventimiglia - Genova
Tipo
Note
Raddoppio ferro- Costruzione secondo binario nella tratviario
ta Finale Ligure - San Lorenzo al Mare che permetterà il passaggio dagli
attuali 90 a 180 treni al giorno.
Variante alla autostrada Autostrada
L’opera ha come obiettivo di decongeA10
stionare il nodo di Genova Ovest che
rappresenta una strozzatura ai collegamenti Est - Ovest ma anche ai traffici che dal porto si dirigono verso
l’entroterra.
Segmento 12 bis: SAVONA - TORINO
Intervento
Completamento raddoppio autostrada Torino - Savona
Tipo
Raddoppio autostradale
Note
Costruzione della seconda carreggiata
nella tratta Fossano - Mondovì e realizzazione del nodo di Millesimo. In
fase di costruzione, da completare entro il 2000.
Segmento : GENOVA - MILANO - SVIZZERA (SEMPIONE - GOTTARDO)
Intervento
Tipo
Ferrovia alta capacità
Ferrovia alta caGenova - Milano Sviz- pacità
zera (Sempione Gottardo) con terza galleria di
valico
Adeguamento autostra- Autostrada
da Genova Milano tra
Genova e Serravalle
211
Note
Costruzione di una nuova linea ad alta
capacità (passeggeri - merci) con sagoma idonea al passaggio dei carichi
“high cube” tra Genova, Milano con
diramazione verso le nuove linee di
adduzione al Sempione (Novara Domodossola) e al Gottardo (alternativa Varese / Como - Lugano).
Attualmente in fase di prima progettazione l’intervento mira a fornire una
alternativa alla prima tratta della A7
gravemente congestionata e che attualmente non consente il passaggio
dei carichi “high cube”.
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
Segmento : TORINO – MILANO
Intervento
Ferrovia alta capacità
Torino - Milano
Tipo
Ferrovia alta capacità
Completamento arco
settentrionale della Pedemontana (Piemonte)
Autostrada
Collegamento A4 con
l’aeroporto di Malpensa
Autostrada
Collegamento A8 con
l’aeroporto di Malpensa
Autostrada
Potenziamento interporto di Novara
Nuovo sistema di tangenziali di Milano
Terminal Intermodale
Autostrada
Pedegronda (tratto Ovest)
Autostrada
212
Note
Costruzione di una nuova linea ad alta
capacità (passeggeri - merci) con interconnessioni con le direttrici Svizzera (Sempione Gottardo) e Genova.
L’infrastruttura è in fase di progettazione preliminare e ha tuttora aperte
numerose alternative riguardanti il
tracciato (quadruplicamento in sede o
su nuovo tracciato) e i nodi di Torino,
Novara e Milano.
Attualmente in fase di prima progettazione l’intervento mira a collegare la
autostrada A4/A5 con la A26 servendo
la zona di Biella.
Costruzione di un collegamento autostradale tra Boffalora Ticino e Malpensa per consentire un collegamento
diretto con il nuovo aeroporto. Previsto anche il potenziamento dell’attuale
A4 nel tratto Boffalora-Milano
Realizzazione di una bretella di collegamento dall’autostrada A8
all’aeroporto di Malpensa e potenziamento della viabilità ordinaria (SS 336
e SS 341)
Realizzazione del potenziamento
dell’interporto.
Costruzione di una autostrada con
funzioni di tangenziale esterna a Milano. In fase di prima definizione progettuale.
Attualmente in fase di prima progettazione, l’intervento nel suo complesso
mira a collegare l’autostrada A4 con la
A8 e la A9, servendo la zona Nord di
Milano.
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
Segmento: MILANO – VERONA
Intervento
Ferrovia tradizionale
quadruplicamento Milano Treviglio
Tipo
Ferrovia tradizionale
Note
L’intervento è in fase di progettazione
esecutiva e mira ad aumentare la capacità sulla tratta Milano – Brescia
attualmente satura (196 treno giorno
su 200 disponibili ‘96).
Ferrovia alta capacità e Ferrovia alta ca- Costruzione di una nuova linea ad alta
velocità Milano Vene- pacità Autostrada capacità (traffico misto passeggeri e
zia
merci). L’infrastruttura è in fase di
progettazione preliminare ed ha tuttora
aperte numerose alternative riguardanti il tracciato e i nodi.
Nuovo sistema di tan- Autostrada
Costruzione di una autostrada con
genziali di Milano
funzioni di tangenziale esterna a Milano. In fase di prima definizione progettuale.
Pedegronda (tratto Est) Autostrada
Attualmente in fase di prima progettazione, l’intervento nel suo complesso
mira a collegare l’autostrada A4 con la
A8 e la A9, servendo la zona Nord di
Milano.
Attivazione interporti
Interporto
Attivazione degli interporti di Segrate
di Segrate
e Montello
Sistema idroviario pa- Vie d’acqua inTracciato definito e progetto inserito
dano-veneto
terne
nella rete transeuropea delle vie navigabili. (dec. 1692/96/CE). In funzione
nel tratto fluviale Cremona – Mantova
- Adriatico
Segmento : GENOVA - LA SPEZIA – LIVORNO
Intervento
Raccordo autostradale
A7/A12
Tipo
Autostrada
Note
In fase di proposta. Servirebbe per bypassare il nodo di Genova
Segmento : LA SPEZIA - PARMA – MANTOVA
Intervento
Tipo
Raddoppio e riqualifica Ferrovia
della ferrovia Tirreno Brennero
Raccordo autostradale
A22/A15
Note
Intervento in fase di progettazione mirante a realizzare un più efficace collegamento tra i porti dell’alto Tirreno
(La Spezia, Marina di Carrara, Livorno)
In corso di elaborazione il progetto
preliminare dell’opera
Autostrada
213
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
Segmento : VERONA - VENEZIA - TRIESTE
Intervento
Tipo
Ferrovia alta capacità e Ferrovia alta cavelocità Milano Vene- pacità
zia
Note
Costruzione di una nuova linea ad alta
capacità (passeggeri - merci).
L’infrastruttura è in fase di progettazione preliminare e ha tuttora aperte
numerose alternative riguardanti il
tracciato e i nodi.
Quadruplicamento Padova Mestre
Pedemontana Veneta
Ferrovia alta capacità
Autostrada
Connessione Brennero
Ferrovia alta capacità
Sistema intermo- Potenziamento dei centri di Verona
dale
Quadrante Europa, Padova, Cervignano
Rafforzamento sistema
intermodale
Progetto preliminare di una autostrada
a due corsie tra la A4 a Montebello, la
A31 a Thiene e la A27 a Spresiano
(TV).
Segmento : TRIESTE - VILLA OPICINA
Intervento
Quadruplicamento Venezia – Trieste
Tipo
Ferrovia
Note
Studio di fattibilità
Sulla tratta Venezia - Ronchi dei Legionari sono previste alcune varianti
per adeguare la linea a 200 km/h
Per la tratta Ronchi dei Legionari –
Trieste è prevista la progettazione della linea su sede separata
Segmento : TRIESTE - VIENNA
Intervento
Raddoppio della ferrovia Pontebbana
Tipo
Ferrovia
Note
Raddoppio della ferrovia Pontebbana
e adeguamento a sagoma del tratto
Monfalcone Trieste
214
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
Segmento : TRIESTE- KIEV (CORRIDOIO n. V)
Intervento
Autostrada Trieste Ljublijana - Maribor –
Bucarest
Tipo
Autostrada
Note
L’autostrada attraversa la Slovenia in
direzione Ovest - Est. Dei 326 Km totali, 130 sono già in esercizio a 4 corsie. I lavori sulle restanti tratte progrediscono velocemente.
L’autostrada attraversa la Croazia in
direzione Ovest- Est. Il tracciato globale è già costruito per 104 Km (tratte:
By pass di Rijeka, Km 18,5; Rijeka Kikovica Km 11,9; Karlovac - Zagreb
Km 60,3. Da a Zagreb - Letenye (Km
178,5 in parte in costruzione e in parte
in progetto).
L’autostrada è in costruzione
Autostrada Rijeka Zagreb - Letenye
Autostrada
Autostrada Letenye Budapest
Autostrada Budapest Gyongyos - Zahony
(Confine Ucraina)
Autostrada
Track Terminal di Zahony
Track Terminal
Autostrada
Autostrada Bratislava - Autostrada
Zilina - Kosice - Uzgarod
Qudruplicamento velo- Ferrovia
ce ferroviario Trieste Ljublijana
215
Il tratto Budapest - Gyongyos è in esercizio mentre il rimanente tratto è in
costruzione e la sua ultimazione è prevista per il 2015.
La UE finanzia la costruzione di un
Track terminal in territorio Ucraino e
l’adeguamento delle infrastrutture di
confine.
Il tratto slovacco di Km 519 è in parte
costruito (Km 152 a quattro corsie)
mentre la restante parte è in progettazione.
Studio di fattibilità - progettazione di
una nuova linea in quanto l’esistente
non è adeguabile ai nuovi standard.
5 tracciati alternativi previsti
IL SISTEMA DEI TRASPORTI NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
BIBLIOGRAFIA
Assointerporti (1997), Quaderno n. 1 “I nodi dell’intermodalità”, Roma.
D.G. VII U.E. (1998), Rete Transeuropea dei trasporti: Relazione sull’applicazione
degli orientamenti e priorità per il futuro, Bruxelles.
Ministero dei Trasporti e della Navigazione (1997), Conto nazionale dei trasporti,
Roma.
Regione Lombardia (1998), Trasporti in Lombardia speciale Malpensa, Milano.
Uniontrasporti (1997), Corridoio Plurimodale Adriatico, Milano.
Uniontrasporti (1998), Corridoio Plurimodale Tirrenico, Milano.
Uniontrasporti (1998), Documento di base per la promozione di un sistema integrato
di trasporto lungo la Direttrice Ovest-Est a Sud dell’Europa, Milano.
Uniontrasporti, Metis (1998), Rapporto Annuale sulla Portualità Italiana 1996/97,
Milano.
216
RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE
DELLE CITTÀ
Piero Bonavero*
INTRODUZIONE – LA RETE URBANA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL CONTESTO EUROPEO – LA
SPECIFICITÀ DELLA RETE URBANA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE: LE “CENTO CITTÀ” –
L’APERTURA INTERNAZIONALE – CARENZE E VINCOLI – PROSPETTIVE E OPPORTUNITÀ –
BIBLIOGRAFIA
INTRODUZIONE
Questa scheda è dedicata ad una analisi delle caratteristiche del sistema urbano dell’Italia settentrionale e delle loro implicazioni per le prospettive di sviluppo economico e sociale della macroregione oggetto del nostro studio.
Si tratta di un tema di notevole rilevanza, in quanto le reti urbane sono le
strutture portanti dell’organizzazione dei diversi territori, soprattutto sotto il
profilo della dotazione di funzioni qualificate, in campo economico, politico,
culturale, ecc. L’esame delle caratteristiche funzionali e dell’assetto territoriale dei sistemi di città è quindi fondamentale per lo studio dei processi di
trasformazione in atto nei diversi insiemi geografici. In particolare, acquistano un’importanza crescente, in ordine alla capacità dei diversi territori di realizzare e riprodurre nel tempo i propri processi di sviluppo, le relazioni sovralocali (e internazionali in particolare) che essi sono in grado di attivare, e le
città si presentano come i luoghi privilegiati per la dotazione di funzioni di
questa natura1.
In quest’ottica, si cercherà di dare una risposta ad alcuni interrogativi: quali
sono le specificità della rete urbana dell’Italia settentrionale nel contesto nazionale ed europeo? Quali sono le caratteristiche della sua apertura internazionale? Quali sono i suoi “punti di forza” e quali i suoi “punti di debolezza”
e le sue carenze? La parte centrale della scheda è quindi dedicata alla trattazione di questi temi. Essa è preceduta da una contestualizzazione della rete
urbana dell’Italia settentrionale nel panorama europeo, ed è seguita da alcune
riflessioni sulle opportunità e prospettive per lo sviluppo economico e sociale
di medio e lungo periodo dell’area oggetto del nostro studio legate alle caratteristiche del suo sistema urbano.
*
Istituto di Geografia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
Il lettore, pur avendo un’idea generale di che cosa si intenda per città, si chiederà forse qual è
la definizione “scientifica” di questo concetto. A tale proposito, va detto che non esiste “la”
definizione corretta di città, ma soltanto una molteplicità di soluzioni convenzionali (basate su
criteri di natura demografica, economica, morfologica, amministrativa, ecc.), funzionali alle
finalità specifiche che i diversi studi sul fenomeno urbano si propongono. In questa scheda,
pertanto, non si adotterà una definizione unica di città, ma si farà riferimento alle diverse definizioni utilizzate negli studi presi in esame. Il lettore interessato all’argomento può comunque
vedere Eurostat (1992) e Moriconi-Ebrard (1993).
1
217
RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ
LA RETE URBANA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL
CONTESTO EUROPEO
Gli studi sulla struttura del sistema urbano europeo indicano per l’Italia settentrionale una collocazione relativamente favorevole nel contesto continentale, soprattutto se raffrontata con quella delle altre aree del paese, e
dell’Europa meridionale e mediterranea nel suo complesso.
IL SISTEMA URBANO
EUROPEO
A questo proposito, è possibile ricordare la suddivisione territoriale del sistema urbano europeo proposta da Dematteis (1996)2; in questa rappresentazione, considerando il segmento superiore del sistema urbano europeo (città
di portata internazionale, nazionale e regionale)3, vengono distinte tre zone
concentriche, caratterizzate da una densità complessiva di città non molto
dissimile (sia rispetto alla superficie territoriale, sia rispetto alla popolazione),
ma da una significativa differenziazione della densità delle città di livello internazionale, con una netta predominanza dell’area centrale rispetto alle altre
due (tab. 1). In questa immagine di sintesi, il sistema urbano italiano risulta
suddiviso in tre parti, ciascuna delle quali è compresa in una nelle tre zone
individuate: il sistema urbano dell’Italia settentrionale (intesa in una accezione corrispondente alla delimitazione adottata nel nostro studio) nell’area centrale, quello dell’Italia centrale nella prima fascia o zona intermedia, quello
del Mezzogiorno e delle Isole nella seconda fascia o periferia (fig. 1).
Tab. 1 – La distribuzione delle città europee di livello internazionale e nazionle/regionale
Livello
area centrale
I fascia
II fascia
Totale
numero
%
numero
%
numero
% numero %
Internaz.
26
53,1
10
20,4
13
26,5
49 100
Naz./reg.
10
14,9
26
38,8
31
46,3
67 100
Totale
36
31,0
36
31,0
44
38,0
116 100
area centrale (800.000 I fascia (800.000
II fascia (2.500.000
kmq, 180 mil. ab.)
kmq,120 mil. ab.)
kmq, 200 mil. ab.)
A
B
A
B
A
B
Internaz.
3,25
6,9
1,25
12,0
0,52
15,4
Naz./reg.
1,25
18,0
3,25
4,6
1,24
6,5
Totale
4,5
5,0
4,5
3,3
1,76
4,5
A = densità rispetto alla superficie territoriale (numero di città per 100.000 kmq)
B = densità rispetto alla popolazione (milioni di abitanti per città)
Totale
A
B
1,19 10,2
1,63 7,5
2,83 4,3
Fonte: Dematteis (1996)
LE RAPPRESENTAZIONI
DI SINTESI DEL
TERRITORIO EUROPEO
Un altro interessante riferimento è costituito dalla nota rappresentazione di
sintesi dell’assetto territoriale del sistema urbano europeo proposta in uno
studio francese della fine degli anni Ottanta (Brunet, 1989; fig. 2). In questo
lavoro, al sistema urbano dell’Italia settentrionale viene attribuito un ruolo
rilevante nel quadro del sistema urbano continentale. Esso viene infatti individuato, da un lato, come estremità meridionale della “dorsale centrale euro2
Non ci si sofferma qui sui numerosi studi nei quali non si propongono interpretazioni
dell’assetto territoriale del sistema urbano europeo, ma si definiscono graduatorie e classificazioni delle città europee in base al loro livello gerarchico e alla loro dotazione funzionale. Per
una sintesi di questi lavori si rinvia a Bonavero e Salone (1997).
3
Si tratta di 116 città, per l’individuazione delle quali si rinvia al lavoro citato.
218
RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ
pea” di importanza consolidata, dall’altro, come segmento orientale di una
nuova direttrice di sviluppo cui viene attribuita la possibilità di controbilanciare (almeno in parte) la dominanza della dorsale centrale: una fascia ispanofranco-padana comprendente la Spagna nord-orientale, la Francia meridionale e, appunto, l’Italia settentrionale. In questa prospettiva, viene in particolare
attribuito alla rete urbana lombarda il ruolo di “snodo” fra questi due assi portanti del sistema urbano continentale, e alla conurbazione milanese quello di
polo dominante nell’ambito del sistema urbano dell’Europa meridionale.
Sempre con riferimento alla scala continentale, si può infine ricordare come,
nella suddivisione del territorio dell’Unione europea in dieci “macroregioni
transnazionali” proposta in un noto rapporto della Direzione Generale XVI
della Commissione europea (CE DG XVI, 1995), il territorio del nostro paese
venga suddiviso in tre insiemi territoriali, ognuno dei quali compreso in una
delle macroregioni individuate: l’Italia settentrionale (corrispondente alle otto
regioni considerate nel nostro studio con l’esclusione della Liguria e con
l’aggiunta delle Marche), nella macroregione denominata “arco alpino”,
comprendente anche le regioni alpine di Francia, Austria e Germania; la Liguria, la Toscana il Lazio, l’Umbria e la Sardegna nella macroregione denominata “arco latino” (o “Mediterraneo occidentale”), costituita dalla fascia
costiera mediterranea di Spagna, Francia e Italia; le restanti regioni del Mezzogiorno, insieme alla Grecia, nella macroregione denominata “Mediterraneo
centrale”.
LA SPECIFICITÀ DELLA RETE URBANA DELL’ITALIA
SETTENTRIONALE: LE “CENTO CITTÀ”
La prima immagine a cui si pensa quando si considera la rete urbana italiana
è quella delle “cento città”. Si tratta di un’immagine ormai abusata e da qualche tempo diventata una sorta di luogo comune e utilizzata anche come slogan, la quale tuttavia, come la maggior parte dei luoghi comuni, si fonda su
una constatazione oggettiva. In questo caso, la caratteristica oggettiva è la notevole articolazione del sistema urbano italiano, sia dal punto di vista del suo
assetto territoriale, sia sotto il profilo della sua struttura gerarchica. Questa
caratteristica, che è il risultato dell’evoluzione storica secolare della struttura
insediativa del nostro paese, risulta particolarmente accentuata nell’Italia settentrionale.
UN TESSUTO URBANO
AD ALTA DENSITÀ
TERRITORIALE
... E A NOTEVOLE
ARTICOLAZIONE
DIMENSIONALE
Da un lato, infatti, il tessuto urbano della pianura padana presenta una notevole “densità territoriale”, che risulta tale se raffrontata sia con il resto del
territorio italiano (fig. 3) sia con altre aree dell’Europa meridionale (come
gran parte della Spagna e della Grecia, ma anche della Francia), e accomuna
invece l’area oggetto del nostro studio a quelle del “cuore europeo” (per esempio il “golden triangle” Bruxelles-Amsterdam-Francoforte e l’Inghilterra
sud-orientale).
Dall’altro lato, la rete urbana dell’Italia settentrionale presenta una notevole
articolazione sotto il profilo dimensionale, espressa da una cospicua presenza
di centri di tutti i livelli gerarchico-funzionali, dalle maggiori aree metropolitane ai centri di piccola e piccolissima dimensione, passando per i diversi livelli intermedi; in particolare, una delle specificità del sistema urbano
219
RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ
dell’area oggetto del nostro studio rispetto a quelli di altre realtà nel contesto
nazionale (ed europeo) è la presenza di un robusto tessuto di città di media
dimensione.
IL PROCESSO DI
CONTROURBANIZZAZIONE
HA RAFFORZATO I MEDI
CENTRI
I PUNTI DI FORZA DEL
SISTEMA URBANO
DELL’ITALIA DEL
NORD
Quest’ultimo ha registrato, negli anni recenti, un significativo rafforzamento,
in seguito al verificarsi in Italia (così come in numerosi altri paesi europei) a
partire all’incirca dalla metà degli anni Settanta, del fenomeno della “controurbanizzazione”, termine con il quale si indica una inversione di tendenza
rispetto ai processi operanti negli anni Cinquanta e Sessanta e nei primi anni
Settanta, quando lo sviluppo industriale aveva privilegiato, in Italia come altrove, il modello dello sviluppo urbano polarizzato, inducendo una rapida espansione demografica delle grandi città e un corrispondente declino dei centri di media e piccola dimensione. Negli anni più recenti si assiste invece ad
un declino demografico dei maggiori poli urbani e ad un recupero dei centri
di media (e in alcuni casi di piccola) dimensione, sia situati in prossimità delle grandi aree urbane (fatto che rende quindi il fenomeno riconducibile in
parte ad una estensione di queste ultime) sia situati in aree geograficamente
periferiche rispetto ad esse (e ciò appare invece particolarmente significativo).
Nella fattispecie italiana, questo processo si è tradotto in un accentuato calo
della popolazione dei Comuni con più di 250.000 abitanti, e in un notevole
rafforzamento demografico dei comuni di dimensione compresa fra i 10.000
e i 50.000 abitanti; entrambi questi fenomeni appaiono più accentuati in Italia
settentrionale, dove il declino demografico ha interessato anche i Comuni con
popolazione compresa fra i 50.000 e i 250.000 abitanti, che risultano invece
in crescita nelle altre macroaree del paese (vedi tab. 8 della scheda sulla demografia).
Il fenomeno della “controurbanizzazione”, che così definito si configura come un processo di natura demografica, presenta però anche una significativa
valenza economica e funzionale, soprattutto se riferito alla seconda delle due
tipologie di situazioni sopra indicate (quella dei centri di media e piccola dimensione situati in aree geograficamente periferiche rispetto ai maggiori poli
urbani), così da potere essere interpretato come una “rivincita delle cento città” (Dematteis, 1998).
Le due caratteristiche di cui si è detto – la rilevante “densità territoriale” e la
notevole articolazione gerarchico-funzionale – possono essere considerate
come un “punto di forza” del sistema urbano dell’Italia settentrionale (e
dell’area padana in particolare, dove queste caratteristiche appaiono più spiccate) nel contesto nazionale e internazionale. Il primo elemento, che esprime
l’esistenza di una fitta ed articolata distribuzione di funzioni urbane sul territorio, rappresenta infatti una delle condizioni che consentono una piena valorizzazione del potenziale di sviluppo endogeno specifico dei diversi contesti
locali, la quale, a sua volta, costituisce un fondamentale fattore di competitività di medio e lungo periodo dei territori di cui essi fanno parte; il secondo
elemento, strettamente connesso al primo, esprime una diversificazione del
sistema urbano sotto il profilo della tipologia di centri, e si traduce anch’esso
in un vantaggio nella competizione fra territori, rispetto alle situazioni di accentuata polarizzazione delle funzioni urbane in un numero limitato di centri
di grande dimensione.
220
RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ
L’APERTURA INTERNAZIONALE
Come si è accennato nell’introduzione, in un contesto, come quello attuale, di
crescente integrazione e competizione dei sistemi territoriali su scala internazionale, appare sempre più importante la loro apertura esterna, cioè la loro
capacità di sviluppare relazioni e funzioni sovralocali, funzioni rispetto alla
localizzazione delle quali le città si presentano senz’altro come i luoghi privilegiati.
Anche sotto questo profilo la rete urbana dell’Italia settentrionale sembra presentare caratteristiche nel complesso relativamente favorevoli: da una recente
analisi sull’apertura internazionale del sistema urbano italiano nel contesto
europeo (Bonavero, 1997)4 emerge infatti non solo una presenza di funzioni
internazionali nella macroregione oggetto della nostra analisi notevolmente
più cospicua rispetto a quella delle altre aree del paese, ma anche una differenza di carattere qualitativo che appare assai significativa.
IL NORD ITALIA: IL
MODELLO DELLE
RETI INTERCONNESSE
IL MEZZOGIORNO: IL
MODELLO DELLE
RETI GERARCHICHE
UN’APERTURA
INTERNAZIONALE PIÙ
DEVERSIFICATA NEL
NORD OVEST
Come si può osservare nella figura 4, nell’Italia settentrionale si rileva, accanto ad una (ampiamente prevedibile) concentrazione di funzioni internazionali nelle maggiori aree urbane, una loro significativa diffusione nel tessuto delle città di media e medio-piccola dimensione; questa caratteristica può
essere interpretata come un sintomo dell’avvenuta affermazione in quest’area
del cosiddetto “modello delle reti interconnesse” con riferimento
all’integrazione internazionale del sistema urbano: si tratta di un modello –
che caratterizza per lo più le aree del “cuore europeo” - nel quale i centri di
dimensione media e medio-piccola sono in grado di accedere direttamente ai
circuiti internazionali, senza passare per il tramite dei centri di livello metropolitano più prossimi.
Al contrario, in altre aree del paese (e in particolare in quasi tutto il Mezzogiorno, ma anche nel Lazio) si osserva la prevalenza del cosiddetto “modello
delle reti gerarchiche” – tipico delle “periferie europee” - nel quale la presenza di funzioni internazionali è fortemente polarizzata sui maggiori centri, e le
città di media e medio-piccola dimensione devono necessariamente accedere
ai circuiti internazionali per il tramite di questi ultimi. Va peraltro sottolineato come il primo modello non caratterizzi soltanto le regioni della macroregione oggetto del nostro studio ma, analogamente a quanto si verifica per i
modelli di evoluzione demografica (si veda la scheda sulla demografia), interessi anche alcune regioni rientranti, secondo l’articolazione territoriale del
sistema statistico nazionale, nella circoscrizione Centro, come la Toscana e le
Marche.
Un altro aspetto significativo del fenomeno dell’apertura internazionale
nell’Italia settentrionale è l’esistenza di una differenziazione sotto il profilo
dell’articolazione settoriale delle funzioni. In particolare, dall’indagine citata
emerge una tendenziale maggiore diversificazione dei sistemi urbani di precoce apertura internazionale (come quelli del Nord-Ovest) rispetto a quelli di
4
Si tratta di una ricerca nella quale è stata presa in considerazione la distribuzione sul territorio
nazionale di funzioni internazionali esprimenti l’esistenza di relazioni con paesi dell’Europa
occidentale in diversi settori: industriale, finanziario, della ricerca scientifica, della formazione, delle connessioni aeree, della ricettività, della diplomazia e “paradiplomazia urbana”. Le
unità territoriali utilizzate in questa indagine sono i “sistemi locali del lavoro” definiti dall’Istat
(si veda Istat, 1996); il concetto di città considerato è quindi quello di “sistema urbano locale”.
221
RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ
apertura internazionale più recente (come quelli del Nord-Est): nei primi infatti, accanto ai fenomeni di internazionalizzazione del settore industriale, si
rileva la presenza di funzioni internazionali nell’ambito di altri settori, come
quello della ricerca scientifica e della formazione, e quello finanziario, mentre nei secondi l’apertura internazionale – cospicua e notevolmente articolata
sotto il profilo territoriale – appare maggiormente specializzata nel campo
delle attività industriali (e in qualche caso in quello delle attività ricettive,
come le funzioni fieristico-espositive) (fig. 5).
LA SPECIFICITÀ DEL
NORD EST
Così come già rilevato con riferimento al settore della formazione (si veda la
scheda sui sistemi formativi), si può quindi ipotizzare, anche nel campo delle
funzioni internazionali, l’esistenza di una “Terza Italia”, con caratteristiche
diverse sia dal Mezzogiorno (in termini di una maggiore dotazione di funzioni internazionali e di una loro maggiore articolazione nell’ambito del sistema
urbano) sia dal Nord-Ovest (in termini di una minore diversificazione settoriale della dotazione di funzioni internazionali).
Questa caratteristica è in parte spiegabile col fatto che la presenza di una dotazione settorialmente diversificata di funzioni internazionali richiede una
sorta di “massa critica” in termini di funzioni e relazioni economiche e sociali, disponibile soltanto nelle aree urbane che superano determinate soglie dimensionali, come quelle dei sistemi urbani polarizzati del Nord-Ovest. Questa interpretazione è supportata dal fatto che per quasi tutte le aree urbane di
maggiore dimensione la dotazione complessiva di funzioni internazionali osservata risulta superiore alla dotazione “teorica attesa” sulla base della loro
dimensione demografica: il “residuo” esprimente la differenza fra la dotazione effettiva rilevata e la dotazione “attesa” risulta infatti positivo per tutte le
maggiori aree urbane del paese, comprese quelle del Centro e del Sud, con la
sola eccezione di Napoli (fig. 6) .
CARENZE E VINCOLI
Accanto alle caratteristiche fin qui indicate, che possono essere considerate
come “punti di forza” del sistema urbano dell’Italia settentrionale nel contesto nazionale nonché, in certa misura, nel contesto europeo (e in particolare
nel contesto dell’Europa meridionale), esistono diversi “punti di debolezza” o
fattori di criticità. Essi appaiono legati a carenze di varia natura, che rappresentano dei limiti e dei vincoli per una maggiore integrazione dell’area oggetto della nostra analisi nel sistema economico continentale e mondiale, e in
particolare per la sua capacità di proporsi come gateway per le altre aree del
paese e dell’Europa meridionale, nonché, in una prospettiva più ampia, come
“cerniera” fra il territorio dell’Unione europea e i paesi del Mediterraneo meridionale e orientale (si veda il paragrafo successivo).
LE CARENZE
INFRASTRUTTURALI
Uno dei fattori di criticità più evidenti emerge con riferimento al sistema infrastrutturale. Ciò vale soprattutto, nella prospettiva ora indicata, per i collegamenti del sistema urbano dell’Italia settentrionale con l’esterno dell’area: le
carenze relative a questo aspetto sono numerose, e vanno dall’incertezza riguardante le prospettive e i tempi di realizzazione del collegamento ferroviario ad alta velocità sulla linea Torino-Lione, così come dell’asse “padano” del
sistema nazionale dell’alta velocità sulla linea Torino-Venezia,
222
RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ
all’inadeguatezza dei collegamenti di Milano (e di Torino) con il nuovo aeroporto Malpensa 2000, alla necessità di potenziare il sistema delle infrastrutture al servizio dell’intermodalità, ecc. (si veda la scheda sui trasporti).
LE CARENZE SUL
FRONTE
ISTITUZIONALE
Un secondo ordine di carenze riguarda aspetti di natura istituzionale (o “paraistituzionale”), e interessa prevalentemente il livello metropolitano del sistema urbano: si tratta di una insufficiente manifestazione di capacità di governance nelle aree metropolitane e nelle aree urbane di maggiore
dimensione, dove per governance si intende l’affermazione di forme di cooperazione e concertazione fra i diversi soggetti (di natura pubblica, privata e
mista), intorno a linee e progetti di sviluppo urbano rientranti in una visione
strategica di lungo periodo da essi condivisa e in grado di aggregare il loro
consenso5.
Si tratta di una carenza che non riguarda peraltro soltanto le aree metropolitane dell’Italia Settentrionale, ma l’intero livello metropolitano del sistema urbano nazionale, e costituisce un elemento di svantaggio rispetto ad altre realtà
europee, soprattutto dell’area centro e nord-occidentale, ma non solo (si può
ricordare, infatti, il caso di Barcellona, che viene spesso citato come una “storia di successo” in questo campo). L’esistenza di questo tipo di carenze è esemplificata dal fatto che la legge 142 del 1990 sulla riforma delle autonomie
locali è rimasta inapplicata nella parte che tendeva a favorire forme di “intercomunalità” nelle aree metropolitane attraverso la creazione di nuove unità
amministrative denominate “città metropolitane”, da individuare aggregando
al Comune principale di ciascuna delle maggiori aree urbane italiane i suoi
Comuni contermini 6.
Va d’altra parte sottolineato come alcune eccezioni a questa carenza di ordine
generale esistano nel contesto italiano, e come esse possano essere trovate
proprio nell’area oggetto della nostra ricerca: il caso forse più significativo a
questo proposito è quello di Bologna, con la sua esperienza di costruzione
consensuale, “dal basso”, della “città metropolitana”, attraverso la creazione
di una “Conferenza metropolitana” fra i Comuni interessati e la definizione di
una Convenzione quadro per l’organizzazione e la gestione di servizi comuni
(si veda Bolocan e Salone, 1996); altri esempi di iniziative inquadrabili nella
logica della governance metropolitana e della pianificazione strategica sono
5
È usuale a questo proposito la distinzione fra governance e “governo” delle aree urbane e
metropolitane, intendendo quest’ultimo come la gestione e il controllo dei processi di sviluppo
urbano da parte dell’autorità pubblica locale (e quindi come espressione di una concezione tradizionale dell’amministrazione e della pianificazione territoriale su scala urbana), e attribuendo invece alla prima il significato che si è detto nel testo (e quindi considerandola come espressione delle concezioni più innovative dell’amministrazione e della pianificazione
territoriale su scala urbana, che vanno sotto il nome di “pianificazione negoziale” e “pianificazione strategica”).
6
Le aree urbane indicate per la costituzione di “città metropolitane” dalla legge 142 (integrata
da alcune leggi della Regione siciliana) erano quelle di Torino, Milano, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Palermo, Catania, Cagliari. Va peraltro rilevato come la
legge non indicasse i criteri da seguire per l’aggregazione dei Comuni, demandandone la definizione alle Regioni. Va ricordato inoltre come di recente sia stato ripreso a livello normativo
il tema della costituzione delle città metropolitane: il disegno di legge relativo all’ordinamento
federale della Repubblica approvato dal Consiglio dei Ministri il 9 marzo 1999 prevede infatti
che le aree metropolitane individuate dalla legge dello Stato possano costituirsi in città metropolitane, e propone la modifica dell’articolo 114 della Costituzione, la cui nuova versione recita: «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle
Regioni e dallo Stato».
223
RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ
l’esperienza avviata di recente del Progetto “Torino Internazionale”, e quelle,
sia pur di diversa natura, dell’Agenzia Sviluppo Nord Milano per la riqualificazione e lo sviluppo della parte nord-orientale dell’area metropolitana milanese (e dell’area di Sesto San Giovanni in particolare), e del processo di riqualificazione e reindustrializzazione dell’area di Porto Marghera presso
Venezia.
LA CARENZA DI
POLITICHE URBANE
SOVRA-LOCALI
... E SOPRATTUTTO DI
POLITICHE URBANE DI
RETE
Ulteriori fattori di criticità del sistema urbano dell’Italia settentrionale nel
contesto europeo emergono poi con riferimento al settore delle politiche urbane. Due sono gli aspetti che vanno menzionati a questo proposito. Da un
lato, la sostanziale assenza di una politica urbana di scala nazionale, a differenza di quanto è avvenuto in alcune altre nazioni europee, come i Paesi Bassi, la Francia e la Germania (Salone, 1998): in questo campo, l’esperienza
avviata alla fine degli anni Sessanta con il Progetto ’80 (Ministero del Bilancio e della Programmazione economica, 1969) non ha avuto seguito, anche se
è attualmente operante presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri un Dipartimento per le aree urbane, la cui funzione è quella di sviluppare le linee e
gli orientamenti di una politica nazionale per le città in una prospettiva non di
tipo dirigistico, ma fondata sulla considerazione dei processi di sviluppo locale e sui principi della concertazione e della pianificazione negoziale; il Dipartimento ha inoltre svolto un ruolo significativo nel campo delle relazioni
con le istituzioni comunitarie competenti per le iniziative per lo sviluppo urbano (in particolare la Direzione Generale XVI della Commissione europea),
partecipando in particolare all’elaborazione dello Schema di sviluppo dello
spazio europeo (SSSE) per la parte relativa alle problematiche della rete urbana, che costituisce una componente essenziale di questo documento. Una
significativa attività su temi analoghi e complementari è svolta inoltre dalla
Dicoter (Direzione per il coordinamento territoriale), operante presso il Ministero dei Lavori Pubblici; a quest’ultima, nell’ambito di un recente riordino di
competenze, è stato attribuito un ruolo centrale nel campo delle politiche territoriali, demandandole la maggior parte delle analisi e degli interventi
sull’assetto territoriale complessivo del paese (in particolare con riferimento
all’assetto delle reti infrastrutturali) e, nel campo delle politiche urbane, la
gestione dei programmi di riqualificazione urbana “di seconda generazione”.
Il secondo fattore di criticità concernente le politiche urbane è rappresentato
dalla carenza di “politiche urbane di rete” di scala sub-nazionale (regionale e
locale) promosse sia dal governo centrale sia, soprattutto, da soggetti regionali e locali (sia di carattere pubblico che privato, nell’ottica della governance
di cui si è detto sopra): politiche di questo tipo dovrebbero svolgere la funzione di promuovere e sviluppare l’integrazione e la complementarietà fra i
centri di media e piccola dimensione in determinati contesti regionali e locali
(ma anche su scala “transregionale”), così da favorire il raggiungimento a livello di rete di quelle economie di scala e di varietà territoriali generalmente
ottenibili soltanto nell’ambito di aree urbane e metropolitane di grande dimensione. Le iniziative più rilevanti in questo campo riguardano la progettazione e gestione comune di infrastrutture, la creazione e gestione comune di
servizi specializzati, l’articolazione concertata di funzioni urbane qualificate
fra i centri della rete. I riferimenti più significativi a questo proposito sono
rappresentati da alcune esperienze francesi come i Districts urbains, i contrats de ville, i réseaux de villes. In Italia un orientamento in questo senso si
ha con l’attivazione dello strumento dei Patti territoriali, sebbene la sua fina-
224
RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ
lità sia essenzialmente limitata a misure per lo sviluppo economico ed occupazionale delle aree in ritardo di sviluppo e delle aree in fase di declino economico e sociale.
PROSPETTIVE E OPPORTUNITÀ
La rete urbana dell’Italia settentrionale presenta dunque, come risulta dalle
considerazioni effettuate sopra, alcuni “punti di forza” e alcuni “punti di debolezza” nel quadro nazionale e soprattutto nel quadro europeo. Dal consolidamento e rafforzamento dei primi e dal superamento o attenuazione dei secondi derivano le sue prospettive di medio e lungo periodo e le sue
opportunità di integrazione e sviluppo nel contesto continentale e mondiale.
LE OPPORTUNITÀ DI
UN RUOLO DI
GATEWAY:
Una “opportunità” che va senz’altro menzionata, per le città dell’area oggetto
del nostro studio, è la possibilità di svolgere una funzione di gateway verso i
circuiti economici internazionali rispetto al resto del territorio nazionale,
nonché rispetto ad altre aree dell’Europa meridionale e della macroregione
mediterranea complessivamente intesa (in particolare i paesi del Mediterraneo meridionale e orientale)7.
La possibilità di valorizzare questa opportunità appare legata ad alcuni elementi, che si configurano come un superamento dei fattori di criticità sopra
ricordati. È utile a questo proposito distinguere due livelli nel sistema urbano
dell’Italia settentrionale: il livello metropolitano e il livello “non metropolitano” (delle città di media e piccola dimensione).
… PER IL LIVELLO
METROPOLITANO
… E PER IL LIVELLO NON
METROPOLITANO
Con riferimento al primo, si può affermare che la possibilità dei poli urbani
che ne fanno parte di potenziare il loro ruolo di gateway su scala nazionale e
internazionale dipende dal rafforzamento della loro capacità di governance; la
capacità di porsi come soggetti unitari e di realizzare politiche e strategie di
sviluppo urbano di medio e lungo periodo rappresenta infatti il presupposto
necessario per una maggiore apertura e proiezione esterna delle città, e quindi
per un rafforzamento della loro competitività e del loro ruolo nel contesto internazionale.
Con riferimento al livello “non metropolitano” del sistema urbano, appare
importante lo sviluppo di “politiche urbane di rete”, che in questo contesto
dovrebbero avere la specifica funzione di consentire a insiemi di città di media e piccola dimensione di raggiungere quella “massa critica” e quella articolazione settoriale di funzioni tale da metterli in condizione di svolgere un
ruolo di gateway verso i circuiti internazionali analogo a quello delle maggiori aree metropolitane. Sotto questo profilo, la situazione dell’Italia settentrionale appare relativamente più favorevole rispetto a quella di altre realtà territoriali in Europa, in virtù delle caratteristiche del suo sistema urbano, vale a
dire la notevole “densità territoriale”, la significativa articolazione sotto il
7
A questo proposito, va peraltro sottolineato come, su scala nazionale, sia comunque auspicabile nel medio e lungo periodo il superamento di un modello di tipo gerarchico nel quale le
località periferiche (come quelle del Mezzogiorno) accedono ai circuiti internazionali per il
tramite dei maggiori poli urbani nazionali, in favore dell’affermazione di un modello di integrazione internazionale nel quale esse accedono direttamente ai circuiti internazionali senza
passare per i gateway nazionali.
225
RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ
profilo dimensionale, e la ampia diffusione delle funzioni internazionali nel
tessuto delle città di media e piccola dimensione.
LE OPPORTUNITÀ DI
INTEGRAZIONE
TRANSFRONTALIERA
Una seconda opportunità che può essere indicata è l’integrazione del sistema
urbano dell’Italia settentrionale con quelli di altre aree nel contesto europeo.
A questo proposito, il riferimento più significativo è quello ai territori delle
due “macroregioni transnazionali” che interessano l’Italia settentrionale:
l’arco alpino e l’arco latino (si veda sopra). Queste due macroregioni si presentano entrambe come aree in forte crescita, già consolidata nel primo caso,
in via di consolidamento nel secondo; l’integrazione del sistema urbano
dell’Italia settentrionale con i sistemi urbani di questi territori rappresenta
quindi senz’altro una notevole opportunità di sviluppo.
Alcune iniziative in questo senso sono già in corso. Vanno ricordati a questo
proposito i processi di cooperazione e integrazione transfrontaliera fra le regioni dell’Italia settentrionale e le regioni alpine contermini: il programma
Interreg Piemonte/Rhône-Alpes nel quadro delle politiche di coesione comunitarie, il progetto dell’“euroregione Tirolo”, le “Comunità di lavoro” alpine
(la Cotrao, Communauté de Travail des Alpes Occidentales; l’Arge Alp,
Communauté de Travail des Alpes Centrales; l’Alpe-Adria, Communauté de
Travail des Alpes Orientales). Nella stessa logica si muovono le azioni collegate all’idea del cosiddetto “diamante alpino”, con la cooperazione fra Torino, Lione e Ginevra in vari settori (si veda AA. VV., 1998), e l’iniziativa
“Quattro motori per l’Europa” che promuove la cooperazione e l’integrazione
fra quattro regioni a elevato dinamismo economico dell’Europa centromeridionale, il Baden-Württenberg, la Catalunya, la Lombardia e il RhôneAlpes.
La possibilità di una effettiva integrazione nell’ambito di queste aree appare
tuttavia strettamente legata all’adeguamento della loro dotazione infrastrutturale: nel momento in cui si affermano varie iniziative sotto il profilo istituzionale e paraistituzionale, il superamento delle attuali carenze relative al sistema infrastrutturale sembra rappresentare la condizione principale, da un
lato, per la effettiva affermazione di un nuovo “asse di crescita” in Europa
lungo l’arco latino, dall’altro, per una più completa e articolata integrazione
economica e sociale nell’ambito della regione alpina. A questo proposito,
sembra ragionevole affermare che l’attenzione debba essere rivolta
all’adeguamento di entrambi i segmenti del sistema infrastrutturale delle aree
interessate: da un lato, i collegamenti transnazionali, inquadrabili nello sviluppo del sistema delle grandi reti transeuropee, dall’altro, le reti secondarie
di interesse regionale e locale, con riferimento sia alla loro struttura e articolazione interna sia alla loro connessione con le reti transnazionali.
I RAPPORTI CON L’EST
EUROPEO
Sempre a proposito delle relazioni del sistema urbano dell’Italia settentrionale con quelli di altre aree nel contesto europeo, va sottolineato come una ulteriore opportunità possa essere rappresentata dall’integrazione con le città e i
territori dell’Europa orientale, e in particolare con alcuni paesi dell’Europa
sud-orientale. Se da un lato l’inclusione della Slovenia e dell’Ungheria nel
primo gruppo di paesi ammessi ad avviare il processo di adesione all’Unione
europea rappresenta senz’altro un fattore favorevole a questo tipo di evoluzione, dall’altro i tragici eventi verificatisi negli ultimi anni nelle Repubbliche della ex Jugoslavia e la generale instabilità politica ed economica in tutta
l’area dei Balcani rendono incerte (e sicuramente dilatate nel tempo) le pro-
226
RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ
spettive, sovente indicate, di un ruolo guida dell’Italia nel processo di integrazione economica dell’insieme dei paesi dell’Europa sud-orientale con
l’Unione europea.
In ogni caso, sia per le prospettive di breve e medio periodo di una crescente
integrazione con un numero limitato di paesi, sia per quelle di lungo periodo
di una integrazione con l’Europa sud-orientale nel suo insieme, appare centrale ancora un volta l’evoluzione delle reti infrastrutturali, e in particolare la
realizzazione di un forte asse di collegamento in direzione Ovest-Est a sud
delle Alpi, lungo la direttrice Lione-Torino-Milano-Venezia-TriesteLjubljana e oltre, in funzione complementare rispetto agli assi che si vanno
consolidando a nord delle Alpi facendo capo a Vienna, a Monaco e a Berlino.
IL RUOLO
DELL’ITALIA NELLE
POLITICHE
TERRITORIALI
COMUNITARIE
Una ulteriore opportunità che può essere infine ricordata riguarda aspetti di
natura istituzionale, ed è rappresentata dalla possibilità per l’Italia di svolgere
un ruolo più attivo rispetto al passato nella messa a punto degli indirizzi e degli orientamenti delle politiche territoriali comunitarie, per esempio
nell’ambito del processo di elaborazione, da parte del Comitato per lo sviluppo spaziale dell’Unione europea, dello “Schema di sviluppo dello spazio europeo”
(SSSE),
documento
contenente
gli
scenari
evolutivi
dell’organizzazione del territorio europeo e le linee guida per le politiche comunitarie in grado di influenzarli. Si tratta in realtà di una opportunità che
non riguarda soltanto l’Italia settentrionale, ma che coinvolge i rappresentanti
italiani nelle sedi comunitarie, presupponendo che essi si facciano portatori di
posizioni chiare, univoche ed innovative in tema di idee e indirizzi per lo sviluppo urbano e territoriale europeo. Va d’altra parte sottolineato che questa
condizione potrebbe realizzarsi a partire dal riconoscimento e dalla valorizzazione di alcune esperienze significative riscontrabili nell’ambito del nostro
sistema urbano, molte delle quali, come si è ricordato, si riferiscono a realtà
dell’Italia settentrionale: tali esperienze potrebbero essere portate nelle sedi
istituzionali comunitarie, da un lato come modelli eventualmente riproponibili in altri contesti europei (o almeno in paesi dell’Europa meridionale),
dall’altro come un nucleo intorno al quale costruire una posizione chiara ed
autorevole dell’Italia nell’ambito nei processi di elaborazione ed attuazione
delle politiche territoriali comunitarie.
227
RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ
Fig. 1 – Le configurazioni territoriali del sistema urbano europeo
Fonte: Dematteis, 1996
228
RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ
Fig. 2 – L’immagine di sintesi del territorio europeo secondo lo studio Datar-Reclus
Fonte; Brunet, 1989
229
RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ
Fig. 3 – La popolazione urbana in Italia
Fonte: Lanza Dematteis C., 1998, “Popolazione e città”, in Gregoli F., Lanza Dematteis C.,
Nano F. L’Italia nell’Europa, Milano, Bompiani per la scuola, pp. 223.
230
RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ
Fig. 4 – La dotazione complessiva di funzioni internazionali nei sistemi urbani locali
Fonte: Bonavero, 1997, p. 255
231
RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ
Fig. 5 – L’articolazione complessiva delle funzioni internazionali nel sistema urbano italiano
Fonte: Bonavero, 1997, p. 282
232
RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ
Fig. 6 – Distribuzione degli scostamenti (residui) fra dotazione effettiva e dotazione teorica di funzioni internazionali
Fonte: Bonavero, 1997, p. 260
233
RETI URBANE E APERTURA INTERNAZIONALE DELLE CITTÀ
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234
IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA
Rosella Barberis∗
SOMMARIO – L’ECONOMIA SETTENTRIONALE: UN SISTEMA A FORTE VOCAZIONE ESPORTATIVA –
LA DINAMICA DELLE ESPORTAZIONI: UNA CRESCITA RILEVANTE MA DIFFERENZIATA PER REGIONI –
L’ORIENTAMENTO GEOGRAFICO DELLE ESPORTAZIONI – BIBLIOGRAFIA
SOMMARIO
La presenza nell’Italia settentrionale delle regioni a maggior sviluppo economico comporta che, anche sul versante dell’internazionalizzazione,
quest’area concorra in misura determinante sia alla formazione dei flussi di
interscambio nazionale con il resto del mondo, sia all’attivazione di una rilevante quota degli investimenti diretti in entrata e in uscita dall’Italia.
Diversificazione produttiva e buona capacità di adattamento ai cambiamenti
sui mercati hanno favorito il processo di internazionalizzazione dell’area, con
la partecipazione non solo delle imprese di grandi o medio-grandi dimensioni, ma anche di numerose piccole e medie aziende.
Nel corso degli ultimi anni però, mentre le regioni del Nord Est continuano a
far registrare risultati in crescita, compaiono segnali di perdita di competitività nel Nord Ovest. Le due velocità di marcia che sono emerse rendono sempre più difficile parlare di un’unica macroarea, ma piuttosto di due contesti:
l’uno, l’Est, che è stato capace di imprimere una continuità espansiva alle
proprie esportazioni, l’altro, l’Ovest, afflitto dagli effetti inerziali della crisi
del modello produttivo della grande impresa e dalla perdita di competitività
specialmente nei settori ad alta tecnologia.
La valutazione delle performance del Nord Ovest probabilmente, però, non è
così negativa come può apparire dall’analisi dei dati del solo commercio estero. Infatti in quest’area, più che nel resto del Nord Italia, il processo di internazionalizzazione avviene in misura crescente con l’apertura delle imprese
all’estero attraverso investimenti diretti. La presenza sempre più pervasiva di
imprese deterritorializzate accanto all’interrogativo su come evolverà la
competitività sui mercati internazionali delle imprese del Nord, ed in particolare del Nord Ovest, pone l’interrogativo di quanto gli investimenti diretti e le
esportazioni dell’area siano complementari tra loro e quanto invece gli investimenti diretti siano sostitutivi delle esportazioni.
Anche per quanto concerne il Nord Est, in prospettiva, si presentano luci ed
ombre. Se è vero che nel recente passato quest’area ha dimostrato buone capacità competitive, la sua specializzazione produttiva concentrata su prodotti
tradizionali la pone in una posizione alquanto critica ed un segnale proviene
dalle crisi in alcuni distretti che stanno emergendo in questi ultimi tempi. Le
produzioni del Nord Est, infatti, non potranno più trarre vantaggi, come in
passato, da svalutazioni competitive e dovranno confrontarsi con una concorrenza crescente proveniente dai paesi in via di transizione e dai Pvs.
In conclusione, dunque, possiamo dire che l’Italia settentrionale si colloca in
una posizione di primo piano nel contesto europeo e internazionale per quanto concerne gli scambi commerciali grazie all’impulso che questi hanno avuto nel corso degli ultimi decenni. Questo suo ruolo, però, rischia un ridimensionamento anche piuttosto rilevante per la progressiva perdita di
∗
Cesdi srl, Torino
235
IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA
competitività nell’export dei prodotti ad alta tecnologia ed una focalizzazione, invece, su settori tradizionali in controtendenza rispetto a quanto avviene
negli altri paesi industrializzati.
L’ECONOMIA SETTENTRIONALE: UN SISTEMA A FORTE
VOCAZIONE ESPORTATIVA
Alcuni dati di quadro ci permettono, da un lato, di misurare l’importanza del
commercio estero nell’economia delle regioni settentrionali e guardare al loro
posizionamento nel contesto internazionale per certi versi più simile a quello
delle grandi economie europee che non al resto dell’Italia; dall’altro, di cogliere il peso delle conseguenze (proprio per la rilevanza degli scambi internazionali sull’equilibrio economico di queste regioni) che possono derivare
dai problemi che negli ultimi tempi affliggono le potenzialità esportative
dell’area in esame.
IL PESO DEL
COMMERCIO ESTERO
NEL CONTESTO
NAZIONALE …
… E INTERNAZIONALE
È noto come le esportazioni italiane siano fortemente concentrate nelle otto
regioni settentrionali del paese.
Il Nord Italia, con un export nel 1997 pari 300.904 miliardi di lire, concorre
infatti alla formazione del 74,2% dei flussi di merci in uscita dall’Italia, ed
esprime parallelamente una elevata domanda di beni di importazione che,
sempre nello stesso anno, ammonta a 250.409 miliardi di lire pari al 70,6% di
quella nazionale. I dati più recenti indicano che, nel 1998, l’export è ulteriormente cresciuto a 310.123 miliardi di lire, con un trend di poco inferiore
alla media nazionale che ha portato il peso dell’area in esame al 73,9%.
Per cogliere le dimensioni del peso dell’area non solo nel contesto italiano,
ma anche internazionale è sufficiente ricordare come il livello delle esportazioni, sia pari a oltre un terzo (36,7%) di quello dell’intera Germania e quasi i
due terzi (65,1%) di quello della Francia, mentre è simile o anche superiore a
quello di paesi come Olanda e Belgio-Lussemburgo, in Europa, o a quelli di
Canada e Hong Kong. Queste performance fanno assumere al Nord Italia un
ruolo decisamente rilevante nel contesto del mercato Unico europeo: le otto
regioni dell’Italia settentrionale concorrono da sole alla formazione dell’8%
delle esportazioni intra-Ue dell’intera Unione Europea e alla formazione del
10,6% di quelle extra-Ue.
Per completezza va ricordato che anche per quanto concerne l’interscambio
di servizi alle imprese1 il Settentrione assume un ruolo di notevole rilevanza.
Con un export, nel 1997, di 8.537 miliardi di lire ed un import di 11.462 miliardi il Nord attiva più dei tre quarti dei flussi nazionali sia in entrata che in
uscita. Più precisamente il Nord Ovest contribuisce per il 61,7%
all’esportazione nazionale di servizi professionali e, parallelamente, attiva il
64,1% della domanda di servizi rivolta all’estero; a sua volta il Nord Est concorre per l’11,1% alla formazione dell’export di settore e al 14,0%
dell’import.
1
I dati sui servizi alle imprese sono di fonte Ufficio Italiano Cambi e comprendono servizi
pubblicitari, informatici, tecnologici, legali, di consulenza fiscale e contabile, ricerche di mercato, spese di rappresentanza e altri servizi per le imprese. In particolare nei servizi tecnologici
sono compresi: brevetti, invenzioni, know-how, marchi di fabbrica, assistenza tecnica, studi
tecnici ed engineering, formazione.
236
IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA
La Lombardia, regione ad alta vocazione per le attività di servizi e in particolare dei servizi professionali per le imprese, da sola concorre alla formazione
del 44,9% del fatturato del settore realizzato all’estero a livello nazionale.
Segue il Piemonte con un 13,5%, mentre più distanziate si pongono le regioni
nordorientali (Veneto 5,4% ed Emilia Romagna 4,5%). La posizione del
Nord
Ovest,
e
in
particolare
della
regione
Lombardia,
nell’internazionalizzazione dei servizi avanzati si rafforza ulteriormente nel
1998.
IL GRADO DI
APERTURA
DELL’ECONOMIA
SETTENTRIONALE
Il valore complessivo dei flussi di beni da e verso l’estero originati dalle regioni settentrionali già da solo esprime il rilievo del mercato internazionale
per l’economia di quest’area, ma il confronto con alcuni parametri economici
mette in ulteriore evidenza questa importanza.
Per ogni occupato nell’industria in senso stretto e nell’agricoltura nel 1998
sono stati esportati beni per un ammontare pari a 83,2 milioni di lire nel Nord
Ovest e a 81,4 milioni nel Nord Est quando, nello stesso periodo, i valori per
il Centro ed il Mezzogiorno sono rispettivamente di 64,0 e 29,7 milioni di lire.
Anche il confronto del flusso delle esportazioni con il valore della produzione
realizzata nel Nord Italia esprime un elevato grado di internazionalizzazione
dell’area che pone il Settentrione italiano ai massimi livelli europei.
Mentre l’Italia nel suo complesso esprime un grado di apertura inferiore a
quello degli altri maggiori paesi europei, il Nord del paese si pone ai loro livelli, se non a livelli superiori: i dati nazionali di fonte Eurostat valutano, per
il 1997, la quota dell’export sul Pil pari a 26,7% per la Francia, 26,6% per la
Germania, 28,4% per il Regno Unito e 24,7% per l’Italia. La stessa fonte non
fornisce i dati disaggregati a livello regionale, ma guardando all’ultimo dato
disponibile di fonte Istat-Tagliacarne (1995) risulta che le esportazioni del
Nord Italia rappresentano il 31,7% del Pil dell’area (con differenze contenute
tra Ovest 32,3% ed Est 30,7%) a fronte di un 12,2% delle restanti regioni (per
quell’anno il valore medio per l’Italia è 22,8%).
Dobbiamo ancora osservare che l’apertura del sistema produttivo nel Nord
non solo è molto elevata, ma è anche in costante crescita; infatti, l’incidenza
dell’export sul Pil nell’arco di un decennio è cresciuta di otto punti percentuali, passando dal 23,4% del 1985 al 31,7% del 1995.
L’attività sui mercati internazionali non è circoscritta solo a imprese di una
certa dimensione, ma è ampiamente diffusa in tutto il tessuto produttivo: oltre
il 70% delle aziende settentrionali è presente sui mercati esteri (nel Nord Ovest il 76% delle imprese, nel Nord Est il 73%) e la quota media di fatturato
esportato non è affatto trascurabile attestandosi attorno al 40%.
IL CONTENUTO DELLE
ESPORTAZIONI: UNA
FORTE
DIVERSIFICAZIONE
Le performance sui mercati internazionali derivano dalla notevole diversificazione settoriale dell’export del Nord Italia: sono presenti in misura significativa praticamente tutte le tipologie di prodotti, ma in particolare sono le
produzioni a maggior contenuto tecnologico quelle che si collocano nelle
prime posizioni.
237
IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA
Piemonte e Lombardia da sole coprono oltre la metà dell’export di prodotti
high tech2 (rispettivamente 20,4% e 32,3% del valore nazionale) e una quota
quasi simile (46,4%) dell’export di prodotti standard ovvero di macchinario
industriale e agricolo, di altri mezzi di trasporto e di alcuni prodotti della
chimica.
Nel complesso, le regioni settentrionali concorrono per l’80-90% alla formazione dell’export nazionale della meccanica strumentale, macchine per ufficio, computer e materiale elettronico, prodotti della petrolchimica e carbochimica, materiale e forniture elettriche, autoveicoli e loro parti, prodotti in
plastica e gomma, carta, cartotecnica e prodotti dell’editoria.
IMPORT-EXPORT: UN
INTERSCAMBIO A
SALDO POSITIVO
La concentrazione nelle otto regioni del Nord Italia di larga parte
dell’industria manifatturiera nazionale comporta non solo consistenti flussi di
esportazioni, ma anche una elevata domanda di beni di importazione.
Nonostante ciò la bilancia commerciale del Settentrione, a partire dal 1992,
ha sempre presentato un saldo positivo e, a partire dal 1993, in grado di coprire il deficit presentato dalle altre regioni.
Anche nell’ultimo periodo (1996 e 1997), quando le altre regioni hanno iniziato a presentare saldi positivi, il contributo del Settentrione è rimasto comunque determinante.
Nel 1997 la bilancia commerciale aggregata delle otto regioni del Nord, con
un saldo positivo di 50,5 mila miliardi, ha concorso per il 98,5% alla formazione della bilancia commerciale nazionale.
È in particolare il Nord Est a presentare un surplus più consistente, grazie al
contributo positivo di tutte le regioni che lo compongono; invece nel Nord
Ovest solo Piemonte e Valle d’Aosta sono regioni a saldo positivo, mentre
Lombardia e Liguria presentano saldi negativi.
LA DINAMICA DELLE ESPORTAZIONI: UNA CRESCITA
RILEVANTE MA DIFFERENZIATA PER REGIONI
Ciclicità della domanda interna e opportunità offerte dai mercati esteri, comprese la creazione del mercato unico e la svalutazione della lira, hanno favorito una costante crescita di flussi di prodotti italiani verso mercati esteri.
Anche le imprese del Settentrione sempre più frequentemente hanno trovato
sui mercati esteri sbocchi alternativi al mercato interno.
IL DECOLLO DEL
NORD EST E IL
RALLENTAMENTO
DEL NORD OVEST
L’export delle otto regioni nel corso degli anni Novanta (1990-98) è cresciuto
costantemente ad un tasso medio del 9,4% (in linea con la crescita dell’export
nazionale) grazie in particolare ai significativi incrementi registrati negli anni
immediatamente successivi alla svalutazione della lira.
Non tutte le regioni, però, hanno contribuito in egual misura alla dinamica
esportativa. Il ruolo trainante è assunto dalle regioni del Nord Est: la loro
maggior dinamicità ha fatto passare la loro quota sull’export nazionale dal
27,5% dell’inizio anni Novanta al 31,1% nel 1998. Al contrario il Nord Ovest, pur restando il principale attivatore dei flussi esportativi, ha fatto regi2
La fonte di riferimento (Prometeia) inserisce fra i prodotti ad alta tecnologia l’auto e i veicoli
industriali con una conseguente “sopravvalutazione” del livello di eccellenza tecnologica.
Questo, comunque, non modifica sostanzialmente i dati di confronto come il peso di una regione sul totale nazionale.
238
IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA
strare un trend più modesto che ha portato il suo contributo all’export nazionale dal 46,9% del 1990 al 42,8% nel 1998. Anche i dati più recenti, dunque,
confermano le diverse intensità di marcia presenti nella macroarea settentrionale: alla crescita delle esportazioni nazionali (+3,5% rispetto al 1998) hanno
ampiamente contribuito le regioni nordorientali (+6,0%), mentre il Nord Ovest ha dato un apporto decisamente contenuto (+1,0%) che si traduce nel caso della Liguria in un vero e proprio crollo (-16,1%).
La diversa dinamica rilevata nelle due componenti territoriali del Settentrione
è un fenomeno che riguarda non solo l’andamento esportativo, ma anche altri
indicatori economici tant’è che il Censis (1997) propone una nuova lettura
longitudinale (Est-Ovest) dei fenomeni socio-economici, in contrapposizione
a quella latitudinale (Nord-Sud): “...In termini dinamici la frattura tra l’area
centro-settentrionale e il Mezzogiorno cresce, ma dietro questi grandi numeri
si celano tanto una sensibile dinamicità socio-economica del Mezzogiorno,
quanto un rallentamento dell’area nordoccidentale del Paese...” (si veda il
saggio introduttivo).
E in particolare per quanto riguarda il grado di apertura dell’economia (percentuale export e import sul valore aggiunto prodotto) fa notare che
“...un’analisi longitudinale mostra che nel 1981 la parte Ovest del Paese aveva un grado di apertura dell’economia pari quasi al doppio dell’Est del Paese
(45,8 contro 23,4%). Nel 1995 il gap tra le due aree non solo è stato colmato,
ma l’Est sopravanza l’Ovest di quasi il 10% (43,9 contro 40,0%). Va inoltre
sottolineato che l’Est raggiunge questo risultato con il concorso determinante
della sua area meridionale...”.
IL NORD EST: UN
“FATTORE
COMPETITIVITÀ”
POSITIVO
Se guardiamo in dettaglio l’evoluzione dell’export degli ultimi anni emergono le indicazioni che confermano la tendenza ad una differenziazione progressiva delle due aree che compongono il Nord Italia: mentre il Nord Est
deve i suoi successi prevalentemente ad un “fattore competitività” positivo, il
Nord Ovest presenta un “fattore competitività” negativo3.
Il Nord Est continua a presentare elevate performance, grazie ad una ormai
buona diversificazione settoriale e geografica dell’export che lo pone al riparo da possibili effetti di crisi settoriale, ma il successo di queste regioni è dovuto principalmente ad un “effetto competitività” piuttosto che ad un “effetto
struttura” ovvero alle caratteristiche della loro specializzazione settoriale. Infatti, nel 1997, le esportazioni italiane sono risultate relativamente poco dinamiche proprio in alcuni principali punti di forza della struttura produttiva di
queste regioni: abbigliamento, agroalimentare, mezzi di trasporto, minerali e
prodotti non metallici (Veneto e Emilia Romagna), cuoio e calzature e carta
(Veneto). Per l’Emilia Romagna, inoltre, è risultato anche negativo l’effetto
della specializzazione geografica, perché le aree nelle quali le sue esportazioni hanno quote più elevate (Unione Europea ed Estremo Oriente) tendono a
coincidere con quelle verso le quali la crescita delle esportazioni italiane è
stata relativamente più lenta.
3
Ice, Rapporto sul commercio estero, 1997. Per indagare sulle determinanti dei differenziali
dei tassi di crescita dell’export regionale tra il 1996 e il 1997, l’ICE ha compiuto un’analisi
con la tecnica shift&share. Tale tecnica consente di scorporare l’effetto “struttura”
dall’effetto “competitività”. Il primo è positivo quando la regione è specializzata in quei settori e aree geografiche che, a livello nazionale, crescono più della media; l’effetto competitività è positivo quando una regione, data la composizione settoriale e geografica del suo export, tende a crescere più della media nei singoli settori/mercati.
239
IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA
IL NORD OVESTE: UN
“EFFETTO
COMPETITIVITÀ
NEGATIVO” MA UN
“EFFETTO STRUTTURA
POSITIVO”
UNA PROGRESSIVA
REGRESSIONE DEL
LIVELLO DI
SPECIALIZZAZIONE:
SEMPRE MENO HIGHTECH NELL’EXPORT
Nel Nord Ovest, e in particolare nelle regioni più grandi Piemonte e Lombardia, le esportazioni sono cresciute più lentamente della media italiana per un
“effetto competitività” negativo (l’effetto struttura derivante dalla composizione merceologica dell’export è invece positivo) e la loro quota, pur rappresentando ancora più del 40% dell’intero export italiano, negli ultimi cinque
anni si è ridotta di 3,6 punti percentuali. In queste due regioni, esportatrici di
beni di investimento, si registrano maggiori difficoltà non solo nel comparto
della meccanica tradizionale, ma specialmente nei comparti a più alta tecnologia (aeronautica, elettronica, macchine per ufficio, autoveicoli).
Questo è conseguenza di una specializzazione produttiva focalizzata prevalentemente su prodotti tradizionali che ha comportato, in genere, una maggior
attenzione alla competitività sul prezzo piuttosto che alla ricerca di innovazioni tecnologiche. Questi comportamenti aziendali hanno provocato, nel periodo in cui la quota dei prodotti high-tech sugli scambi mondiali saliva dal
15 al 30%, la contrazione dal 3,4 al 2,7% dell’incidenza di prodotti italiani ad
alta tecnologia sulle esportazioni mondiali ed oggi rende la nostra economia
assai vulnerabile di fronte ai ribassi praticati dagli esportatori del Sud-Est asiatico.
Studi recenti4 mettono in rilievo come, rispetto agli altri paesi più industrializzati, la specializzazione italiana nell’esportazione poggi i suoi punti di forza su tessili, calzature, pelli e cuoio, legno e prodotti in legno, prodotti minerali non metalliferi. Invece, sono sottospecializzati i comparti aerospaziale,
autoveicoli, comunicazioni, farmaceutico e chimico e sono ben lontani dal
livello medio di altri paesi come Germania, Francia, Regno Unito, Stati Uniti,
Giappone. In questi comparti vi è assenza di evoluzione nel periodo che va
dall’inizio degli anni Ottanta alla prima parte degli anni Novanta e per alcuni,
anzi, si è registrata una regressione nel livello di specializzazione (chimica,
comunicazioni, autoveicoli, computer, macchine per ufficio) (si veda la scheda sull’industria).
A questo proposito basta ricordare che le esportazioni di prodotti ad alta tecnologia incidono sull’export nazionale complessivo solo per il 14,7%, quota
molto preoccupante se confrontata con quella di altri paesi (Germania 22,5%,
Francia 27,6%, Regno Unito 36,8%, Stati Uniti 40,7%, Giappone 31,5%). Inoltre, la loro dinamica negli ultimi quindici anni è stata molto contenuta
passando soltanto dall’11,4% al 14,7% mentre in altri paesi, che all’inizio erano su posizioni inferiori o pari all’Italia, il trend di sviluppo è stato molto
più elevato, come ad esempio Spagna (dall’8,8% al 14,6%) e Svezia
(dall’11,1% al 22,6%).
Poiché larga parte di queste produzioni ad alta tecnologia sono localizzate
nelle regioni del Nord Ovest, sono proprio queste regioni quelle maggiormente penalizzate dalla disattenzione della politica economica verso
l’innovazione tecnologica e ne deriva che i flussi esportativi provenienti da
quest’area siano quelli più sensibili alla perdita di competitività dei prodotti
italiani e che risentono in maggior misura della concorrenza di produzioni offerte da paesi favoriti da differenziali di costo.
4
A. Forti in VII Rapporto Cer-Irs, 1997. Analisi condotta sulla base dei dati Ocse per il periodo 1980-1992.
240
IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA
LE SPIEGAZIONI
DELLE DEBOLI
PEERFORMANCE
ESPORTATIVE DEL
NORD OVEST
Sulle deboli performance esportative del Nord Ovest giocano però anche altri
fattori conseguenti sia a criticità dell’area, sia a scelte strategiche delle imprese. Tra i primi vanno ricordati la chiusura o il ridimensionamento, avvenuti
negli ultimi dieci anni, di alcune grandi imprese, come ad esempio Olivetti,
Montedison, Finmeccanica, senza che si siano formati nel contempo nuovi
grandi gruppi.
La perdita di potenzialità produttive, accompagnata da una crisi del modello
produttivo della grande impresa, ha frenato specialmente in Piemonte e Liguria lo sviluppo di numerose realtà industriali, con conseguenti riflessi negativi
sugli investimenti e sui risultati esportativi.
Un altro fattore è, invece, connesso alle strategie di internazionalizzazione
interne alle aziende. Tale processo in regioni come Lombardia e Piemonte
non è più solo legato agli scambi commerciali, ma a cooperazioni transnazionali e alla apertura all’estero delle imprese con una conseguente deterritorializzazione dei processi produttivi. Tale aspetto – che in quanto relativamente
nuovo, almeno per il nostro Paese, tende a sfuggire alle analisi più classiche
– non viene rilevato dalle statistiche sul commercio estero, ma ha tuttavia riflessi sulla contabilizzazione dei flussi di beni in uscita ed in entrata
dall’estero.
La perdita di competitività del Nord Ovest, quale emerge dalla lettura dei dati
sulle esportazioni, va pertanto analizzata in modo più articolato, con la considerazione anche di altre variabili. Certamente esiste un problema di scarsa
innovazione tecnologica e di perdita di competitività nei settori high-tech, acuito dalla crisi del modello industriale su cui si basava il sistema produttivo
dell’area, ma è in atto anche una trasformazione del modo di operare con
l’estero.
Sorge a questo punto l’interrogativo su come evolverà nel prossimo futuro il
processo di internazionalizzazione di queste regioni e come una eventuale dinamica espansiva delle partnership e degli investimenti diretti condizionerà
l’evoluzione dei flussi esportativi, creando condizioni di complementarietà e
quindi stimolando ulteriori sviluppi dell’export oppure andando a sostiture le
esportazioni.
Ci sono dunque ombre sullo sviluppo futuro dell’area, ma anche qualche luce
che merita di essere approfondita.
L’ORIENTAMENTO GEOGRAFICO DELLE ESPORTAZIONI
I partner commerciali degli operatori del Nord Italia sono localizzati in prevalenza nei paesi UE, come avviene d’altronde per il resto dell’Italia e degli altri Paesi membri dell’Unione Europea. Senza dubbio la vicinanza geografica,
le modalità operative simili a quelle domestiche, nonché la realizzazione del
mercato unico hanno favorito la ricerca di opportunità in primo luogo su questi mercati, opportunità che sono state colte in particolare nel commercio intra-aziendale. Infatti l’integrazione nel mercato unico sembra aver incoraggiato lo scambio di prodotti differenziati più che il consolidamento di
vantaggi comparati (Rondi e Sembenelli, 1998).
NON SOLO IL MERCATO
UNICO EUROPEO
La propensione a sviluppare il commercio intra-Ue, seppure elevata, è comunque simile a quanto si registra altrove: l’export intra-Ue del Nord Italia
rappresenta il 55,2% delle esportazioni complessive dell’area (54,6% è il dato
241
IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA
nazionale), quando tale quota è pari a 55,5% per la Germania, 62,9% per la
Francia, 61% per il Regno Unito.
Tra l’altro, va osservato che l’orientamento verso il mercato unico europeo
tende a ridimensionarsi a favore di altre aree quali l’Est Europa o l’America
Latina. Infatti la quota export indirizzata verso il mercato Ue è passata dal
57,5% del 1994 al 55,2% del 1997, tendenza che sembra proseguire anche nel
1998.
Gli altri mercati di sbocco verso cui si indirizzano con maggior frequenza le
esportazioni del Nord Italia sono, in primo luogo, l’Europa Centrale e Orientale, dove viene realizzato l’8,7% dell’export del Settentrione, seguiti dal
Nord America (8%) e dai Paesi Asiatici (7,2%).
La flessione registrata sui mercati asiatici, e anche negli altri paesi industrializzati extra Ue, è stata recuperata con incrementi di export superiori alla media verso i Paesi in transizione (+13,3% tra il 1996 ed il 1997), verso i Paesi
Africani (+14,5%) e gli Usa (+12,2%), tendenza che si conferma anche nel
corso del 1998.
Questo riorientamento delle direttrici dell’export del Settentrione è un segnale della capacità di queste regioni di cogliere le opportunità sui mercati che
stanno assumendo un rilievo crescente nello scenario internazionale.
IL DIVERSO
ORIENTAMENTO
GEOGRAFICO DEL
NORD OVEST E DEL
NORD EST
L’analisi degli indici di specializzazione geografica delle esportazioni del
Settentrione mette però in evidenza che anche sul versante dell’orientamento
geografico dell’export esistono differenze tra la parte occidentale e quella orientale dell’area.
La diversa specializzazione produttiva che caratterizza le due aree (prevalenza di beni strumentali e d’investimento a ovest, di prodotti tradizionali e di
beni di consumo ad est) e, in parte, anche la collocazione geografica originano flussi che si indirizzano verso mercati diversi.
Le regioni occidentali presentano una propensione più elevata del Nord Est, e
dell’Italia in generale, a sviluppare rapporti commerciali con le aree tecnologicamente più evolute, paesi industrializzati europei ed extraeuropei, e con il
Sud America.
Le regioni del Nord Est, invece, denotano una elevata propensione ad operare
sui mercati dell’Europa Centrale e Orientale. L’indice di specializzazione geografica verso questi paesi è pari a 125.
Se guardiamo alle tendenze più recenti possiamo però osservare che
l’interesse per i paesi in via di transizione è presente in tutto il Settentrione:
infatti la dinamica dell’ultimo anno è sostenuta sia nel Nord Est (+12,6%)
che nel Nord Ovest (+14,0%, inferiore solo all’incremento dell’export verso
il Sud America pari al 16,5%).
Sempre nel Nord Est sta emergendo una tendenza ad incrementare i rapporti
commerciali anche con i paesi africani a ritmi decisamente sostenuti e superiori alla media nazionale (nell’ultimo anno le esportazioni verso quest’area
sono cresciute del 25,8% a fronte di un incremento dell’11,0% a livello italiano).
Se è vero che i livelli degli scambi con quest’area sono al momento ancora
piuttosto contenuti, la dinamica recente indica una crescita di importanza di
questi mercati per gli operatori del Nord Est.
242
IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA
Anche sul versante degli sbocchi di mercato ricercati dagli operatori in ambito extra UE e, più in generale extra Europa, sembrano accentuarsi alcune divergenze fra le due aree del Settentrione: la parte occidentale tende ad orientarsi verso il continente americano, mentre quella orientale pare guardare con
maggior interesse al bacino del Mediterraneo e più in generale al continente
africano.
Export dell'Italia Settentrionale
Anni 1990-1997
500
Export 1997 in miliardi di lire
It. Settentrionale 300.904
Italia 405.732
400
300
200
100
0
% Sett. su Italia
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
75,7
75,6
75,9
75,4
75,4
75,5
75,2
74,2
fonte: elaborazioni Cesdi su dati Istat
Export delle regioni settentrionali
Anni 1990-1997
350
300
250
200
Lombardia
Veneto
Piemonte
Emilia Romagna
Friuli V.G.
Trentino A.A.
Liguria
Valle d'Aosta
150
100
50
0
1990
1991
1992
1993
1994
fonte: elaborazioni Cesdi su dati Istat
243
1995
1996
1997
IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA
Incidenza dell'export sul PIL
31,7%
26,0%
23,9%
23,4%
21,7%
21,2%
20,0%
20,2%
12,5%
8,8%
1985
8,7%
1988
1990
Settentrione
9,3%
8,4%
1991
12,2%
10,2%
8,0%
1992
1993
1994
1995
Altre regioni
Fonte: ISTAT; Ist. Tagliacarne per Pil 1995
Tab. 1 – L’interscambio commerciale dell’Italia del Nord nel 1997 (miliardi di lire)
EXPORT
% su IMPORT % su
SALDO % su Saldo normaItalia
Italia
Italia
lizzato
Settentrione
300.904
74,2
250.409
70,6
50.495
98,5
9,16
Nord Ovest
Piemonte
Valle d’Aosta
Lombardia
Liguria
177.732
51.781
466
119.038
6.447
43,8
12,8
0,1
29,3
1,6
174.325
35.064
369
131.239
7.652
49,2
9,9
0,1
37,0
2,2
3.407
16.716
97
-12.201
-1.205
6,6
32,6
0,2
-23,8
-2,4
0,97
19,25
11,60
-4,88
-8,55
Nord Est
Trentino A.A.
Veneto
Friuli Venezia
G.
Emilia Romagna
123.172
6.880
56.190
13.381
30,4
1,7
13,8
3,3
76.084
5.720
38.849
6.201
21,5
1,6
11,0
1,7
47.088
1.160
17.341
7.180
91,8
2,3
33,8
14,0
23,63
9,20
18,25
36,67
46.721
11,5
25.313
7,1
21.408
41,7
29,72
Mezzogiorno
e Centro
104.828
25,8
104.047
29,4
781
1,5
0,37
Italia
405.732
100,0
354.456
100,0
51.276 100,0
6,75
Fonte: ISTAT
244
IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA
Tab. 2 – La dinamica delle esportazioni dell’Italia settentrionale (miliardi di lire)
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
Settentrione
Nord Ovest
Piemonte
Valle d’Aosta
Lombardia
Liguria
Nord Est
Trentino A.A.
Veneto
Friuli Venezia G.
Emilia Romagna
Mezzogiorno,
Centro
Italia
1997
151.460 154.356 163.983 199.638 231.882 287.779 290.643
95.511 96.855 102.959 120.811 139.731 174.238 173.580
28.571 28.719 30.218 34.072 40.138 52.142 51.017
201
247
270
424
437
771
563
62.995 64.280 68.625 81.373 93.362 115.236 115.835
3.744
3.609
3.846
4.942
5.794
6.089
6.165
55.949 57.501 61.024 78.827 92.151 113.541 117.063
3.366
3.570
4.153
4.599
5.616
7.162
6.633
25.155 25.699 27.826 35.852 42.359 51.746 54.011
6.096
6.166
6.365
8.863 10.055 12.473 12.712
21.332 22.066 22.680 29.513 34.121 42.160 43.707
52.055 55.389 55.453 66.576 76.164 93.396 96.303
300.904
177.732
51.781
466
119.038
6.447
123.172
6.880
56.190
13.381
46.721
104.828
203.515 209.745 219.436 266.214 308.046 381.175 386.946
405.732
Tassi di variazione sull’anno precedente
Settentrione
Nord Ovest
Nord Est
Mezzogiorno, Centro
Italia
Fonte: ISTAT
1,9
1,4
2,8
6,4
6,2
6,3
6,1
0,1
21,7
17,3
29,2
20,1
16,2
15,7
16,9
14,4
24,1
24,7
23,2
22,6
1,0
-0,4
3,1
3,1
3,5
2,4
5,2
8,9
3,1
4,6
21,3
15,7
23,7
1,5
4,9
Tab. 3 – Grado di apertura sui mercati esteri dell’Italia settentrionale (miliardi di lire)
Pil 1995
Export 1995
Export/Pil Export per Oc(%) cupato 1997 (1)
Settentrione
Nord Ovest
Piemonte
Valle d’Aosta
Lombardia
Liguria
Nord Est
Trentino A.A.
Veneto
Friuli Venezia G.
Emilia Romagna
Mezzogiorno e Centro
Italia
908.995
539.541
143.662
4.421
335.156
56.302
369.454
32.615
151.635
41.151
144.053
763.651
287.779
174.238
52.142
771
115.236
6.089
113.541
7.162
51.746
12.473
42.160
93.396
31,7
32,3
36,3
17,4
34,4
10,8
30,7
22,0
34,1
30,3
29,3
12,2
80,4
82,8
78,8
46,6
86,8
58,6
77,2
63,1
76,6
85,2
78,4
42,2
1.672.646
381.175
22,8
65,2
(1) Occupati nell’agricoltura e nell’industria in senso stretto (esclusa l’edilizia) nel 1997
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT e Istituto Tagliacarne
245
Tab. 4 – Le esportazioni dell’Italia settentrionale per settori nel 1997
Prodotti Minerali Minerali e Prodotti Prodotti Mezzi di
agro ali- ferrosi e prodotti
chimici
metaltrasporto
mentari non ferrosi non metalmeccanici
lici
Carta e
stampa
Prodotti in
gomma e
plastica
Altri
Totale
18.464
8.573
3.724
12
3.882
955
9.891
1.426
3.309
769
4.387
8.807
11.978
8.837
1.617
245
6.440
535
3.141
138
1.622
523
858
4.461
11.762
2.862
698
7
1.892
265
8.900
323
2.553
356
5.668
4.104
25.118
18.437
2.755
1
14.747
934
6.681
548
2.665
322
3.146
9.828
122.438
74.622
18.139
125
54.389
1.969
47.816
1.986
19.404
6.246
20.180
22.857
28.629
19.761
12.678
17
6.486
580
8.868
729
3.047
856
4.236
11.234
13.539
10.996
3.433
2
7.539
22
2.543
115
1.788
285
355
5.711
19.923
10.250
1.943
10
8.236
61
9.673
283
5.500
94
3.796
6.963
9.542
2.515
364
5
2.114
32
7.027
134
5.848
130
915
11.473
9.569
2.870
278
5
2.537
50
6.699
322
2.861
2.666
850
4.444
6.724
3.880
1.477
5
2.319
79
2.844
412
1.356
498
578
2.141
13.187
9.005
2.957
12
5.781
255
4.182
364
2.023
472
1.323
3.379
10.030
5.122
1.717
20
2.676
709
4.908
98
4.214
166
430
9.427
300.904
177.732
51.781
466
119.038
6.447
123.172
6.879
56.190
13.381
46.721
104.828
27.271
16.439
15.866
34.946 1457.295
39.863
19.250
26.886
21.015
14.013
8.865
16.566
19.457
405.732
4,0
5,0
2,6
3,9
1,6
7,2
8,3
10,4
5,4
40,7
42,0
38,8
9,5
11,1
7,2
4,5
6,2
2,1
6,6
5,8
7,9
3,2
1,4
5,7
3,2
1,6
5,4
2,2
2,2
2,3
4,4
5,1
3,4
3,3
2,9
4,0
100,0
100,0
100,0
4,1
3,9
8,6
35,8
9,8
4,7
6,6
5,2
3,5
2,2
4,1
4,8
100,0
Composizione percentuale
Settentrione
6,1
Nord Ovest
4,8
Nord Est
8,0
Italia
Fonte: Istat
Legno e
mobili in
legno
6,7
IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA
246
Settentrione
Nord Ovest
Piemonte
Valle d’Aosta
Lombardia
Liguria
Nord Est
Trentino A.A.
Veneto
Friuli Venezia G.
Emilia Romagna
Mezzogiorno,
Centro
Italia
Tessile Abbiglia- Cuoio e
mento e calzature
maglieria
Tab. 5 – Le esportazioni dell’Italia settentrionale per settori nel 1997 (Percentuali sul totale di settore nazionale)
Prodotti Minerali Minerali e Prodotti Prodotti Mezzi di
Tessile Abbiglia- Cuoio e
agro ali- ferrosi e prodotti
chimici
metaltrasporto
mento e calzature
mentari non ferrosi non metalmeccanici
maglieria
lici
Legno e
mobili in
legno
Carta e
stampa
Prodotti in
gomma e
plastica
Altri
Totale
67,7
72,9
74,1
71,9
84,3
71,8
70,3
74,1
45,4
68,3
75,8
79,6
51,5
74,2
Nord Ovest
Piemonte
Valle d’Aosta
Lombardia
Liguria
31,4
13,7
0,0
14,2
3,5
53,8
9,8
1,5
39,2
3,3
18,0
4,4
0,0
11,9
1,7
52,8
7,9
0,0
42,2
2,7
51,4
12,5
0,1
37,4
1,4
49,6
31,8
0,0
16,3
1,5
57,1
17,8
0,0
39,2
0,1
38,1
7,2
0,0
30,6
0,2
12,0
1,7
0,0
10,1
0,2
20,5
2,0
0,0
18,1
0,4
43,8
16,7
0,1
26,2
0,9
54,4
17,8
0,1
34,9
1,5
26,3
8,8
0,1
13,8
3,6
43,8
12,8
0,1
29,3
1,6
Nord Est
Trentino A.A.
Veneto
Friuli Venezia G.
Emilia Romagna
36,3
5,2
12,1
2,8
16,1
19,1
0,8
9,9
3,2
5,2
56,1
2,0
16,1
2,2
35,7
19,1
1,6
7,6
0,9
9,0
32,9
1,4
13,4
4,3
13,9
22,2
1,8
7,6
2,1
10,6
13,2
0,6
9,3
1,5
1,8
36,0
1,1
20,5
0,3
14,1
33,4
0,6
27,8
0,6
4,4
47,8
2,3
20,4
19,0
6,1
32,1
4,6
15,3
5,6
6,5
25,2
2,2
12,2
2,8
8,0
25,2
0,5
21,7
0,9
2,2
30,4
1,7
13,8
3,3
11,5
Mezzogiorno,
Centro
32,3
27,1
25,9
28,1
15,7
28,2
29,7
25,9
54,6
31,7
24,2
20,4
48,5
25,8
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
Italia
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT
IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA
247
Settentrione
Tab. 6 – La specializzazione esportativa dell’Italia settentrionale per settori nel 1997 (Quota regionale su quota nazionale)
Prodotti Minerali Minerali e Prodotti Prodotti Mezzi di
Tessile Abbiglia- Cuoio e
Legno e
agro ali- ferrosi e prodotti
chimici
metaltrasporto
mento e calzature mobili in
mentari non ferrosi non metalmeccanici
maglieria
legno
lici
Carta e
stampa
Prodotti in
gomma e
plastica
Altri
Totale
0,91
0,98
1,00
0,97
1,14
0,97
0,95
1,00
0,61
0,92
1,02
1,07
0,70
1,00
Nord Ovest
Piemonte
Valle d’Aosta
Lombardia
Liguria
0,72
1,07
0,38
0,49
2,20
1,23
0,77
12,98
1,34
2,05
0,41
0,34
0,38
0,41
1,05
1,20
0,62
0,02
1,44
1,68
1,17
0,98
0,75
1,28
0,85
1,13
2,49
0,37
0,55
0,92
1,30
1,40
0,09
1,33
0,07
0,87
0,57
0,32
1,04
0,14
0,27
0,14
0,21
0,34
0,10
0,47
0,16
0,31
0,62
0,22
1,00
1,31
0,49
0,89
0,56
1,24
1,40
0,63
1,19
0,97
0,60
0,69
0,89
0,47
2,29
1,00
1,00
1,00
1,00
1,00
Nord Est
Trentino A.A.
Veneto
Friuli Venezia G.
Emilia Romagna
1,19
3,08
0,88
0,86
1,40
0,63
0,50
0,71
0,96
0,45
1,85
1,20
1,16
0,68
3,10
0,63
0,92
0,55
0,28
0,78
1,08
0,81
0,96
1,30
1,21
0,73
1,08
0,55
0,65
0,92
0,44
0,35
0,67
0,45
0,16
1,19
0,62
1,48
0,11
1,23
1,10
0,38
2,01
0,19
0,38
1,57
1,36
1,47
5,77
0,53
1,06
2,74
1,10
1,70
0,57
0,83
1,30
0,88
0,86
0,69
0,83
0,30
1,56
0,26
0,19
1,00
1,00
1,00
1,00
1,00
Mezzogiorno, Centro
1,25
1,05
1,00
1,09
0,61
1,09
1,15
1,00
2,11
1,23
0,93
0,79
1,88
1,00
Italia
1,00
1,00
1,00
1,00
1,00
1,00
1,00
1,00
1,00
1,00
1,00
1,00
1,00
1,00
Fonte: elaborazioni su dati Istat
IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA
248
Settentrione
Tab.7 – Orientamento geografico delle esportazioni nel 1997
valori in miliardi di lire
UE
EFTA
Nord America
Paesi in
transiz.
MO e Europa
America
Asia
Africa
Altri
TOTALE
166.187
97.937
68.250
55.285
221.472
12.488
8.599
3.889
3.903
16.391
24.068
12.906
11.162
11.310
35.378
8.478
5.105
3.373
2.890
11.368
26.059
13.293
12.766
7.530
33.589
20.047
12.496
7.551
8.192
28.239
13.570
8.848
4.722
4.116
17.686
21.627
13.315
8.312
7.578
29.205
7.513
4.598
2.915
3.041
10.554
867
635
232
983
1.850
300.904
177.732
123.172
104.828
405.732
55,2
55,1
55,4
52,7
54,6
4,2
4,8
3,2
3,7
4,0
8,0
7,3
9,1
10,8
8,7
2,8
2,9
2,7
2,8
2,8
8,7
7,5
10,4
7,2
8,3
6,7
7,0
6,1
7,8
7,0
4,5
5,0
3,8
3,9
4,4
7,2
7,5
6,7
7,2
7,2
2,5
2,6
2,4
2,9
2,6
0,3
0,4
0,2
0,9
0,5
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
1,03
1,20
0,78
0,92
1,00
0,92
0,83
1,04
1,24
1,00
1,01
1,03
0,98
0,98
1,00
1,05
0,90
1,25
0,87
1,00
0,96
1,01
0,88
1,12
1,00
1,03
1,14
0,88
0,90
1,00
1,00
1,04
0,94
1,00
1,00
0,96
0,99
0,91
1,12
1,00
0,63
0,78
0,41
2,06
1,00
1,00
1,00
1,00
1,00
1,00
Composizione percentuale
249
Settentrione
Nord Ovest
Nord Est
Mezzogiorno e Centro
Italia
Indici di specializzazione geografica
Settentrione
Nord Ovest
Nord Est
Mezzogiorno e Centro
Italia
Fonte: Istat
1,01
1,01
1,02
0,97
1,00
IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA
Settentrione
Nord Ovest
Nord Est
Mezzogiorno e Centro
Italia
Altri paesi
industr.
IL COMMERCIO ESTERO DEL NORD ITALIA
BIBLIOGRAFIA
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U.I.C., Bollettino statistico, numeri vari.
250
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE:
GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO
Ruggero Cominotti*
SOMMARIO – LE COMPONENTI DELL’INTERNAZIONALIZZAZIONE – I FATTORI DETERMINANTI DELLE
– IL RUOLO CRESCENTE DEGLI IDE NEI PAESI
INDUSTRIALIZZATI – LA MULTINAZIONALIZZAZIONE IN ENTRATA E IN USCITA DALL’ITALIA – LA
CONSISTENZA DEGLI IDE-IN E DEGLI IDE-OUT NELL’ITALIA SETTENTRIONALE – LA PROPENSIONE
ALL’INVESTIMENTO ESTERO NELLE REGIONI ITALIANE – BIBLIOGRAFIA
STRATEGIE DI MULTINAZIONALIZZAZIONE
SOMMARIO
In questa scheda si fa riferimento all’articolazione corrente dei processi di internazionalizzazione delle imprese: export (si veda la scheda sul commercio
estero), investimenti diretti all’estero (IDE) e collaborative ventures.
Inoltre, nei processi internazionalizzazione continuano a svolgere un ruolo
significativo i tradizionali trasferimenti di tecnologia cross border attraverso
la cessione/acquisizione di brevetti, licenze e di know-how. Infine assumono
un rilievo crescente e rilevante i contratti di subfornitura industriale cross
border.
A livello mondiale nell’ultimo decennio si è capovolto il rapporto fra IDE e
l’esportazione: a metà dei Novanta il fatturato delle filiali estere delle multinazionali supera del 30% il valore dell’export dai paesi industrializzati. Per
l’Italia prevale ancora il valore dell’export che supera nettamente il valore del
fatturato delle imprese estere partecipate da imprese italiane: 430 mila
mld/lire per l’export contro 186 mila miliardi di fatturato all’estero da parte
delle sussidiarie estere di multinazionali a base italiana (cfr. tab. 1 e tab. 2).
Nello scenario mondiale degli IDE la posizione dell’Italia non si colloca a livello marginale, come insistentemente sottolinea l’informazione corrente; pur
essendo inferiore alla quota italiana nell’interscambio commerciale mondiale.
Sul fronte degli IDE in uscita, il ruolo del nostro paese è venuto crescendo a
partire dagli anni Ottanta, per consolidarsi nel decennio successivo. Dai dati
resi disponibili nel rapporto delle Nazioni Unite (1998), si deduce come il peso del paese in termini di stock di IDE in uscita sia aumentato nel tempo: tra
il 1980 ed il 1990 l’incidenza sullo stock mondiale è passata dall’1,39% al
3,29%, stabilizzandosi poi attorno al 3,5% (1995–1997). Per quanto concerne
l’entrata, si assiste ad una dinamica parallela per tutti gli anni ‘80: l’incidenza
sullo stock mondiale sale dall’1,85% del 1980 al 3,29% del 1990, a sottolineare il sostanziale bilanciamento tra la consistenza cumulata degli IDE in uscita ed in entrata alla fine di quel decennio. Tuttavia negli anni novanta si manifestano nuove tendenze: nel 1995, l’incidenza degli IDE nel paese sullo
stock mondiale scende infatti al 2,32%, con la perdita di un punto percentuale, confermata anche per il 1997 (quota del 2,27%).
La dinamica comparata degli IDE in uscita e in entrata è confermata
dall’analisi dei flussi, così come risulta dai dati presentati da Banca d’Italia
(1998) (tabb. 3 e 4). Nel complesso, al di là delle oscillazioni congiunturali,
gli anni Novanta indicano una ragguardevole crescita dei flussi in uscita e un
*
R&P, Ricerche e Progetti, Torino
251
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE:
GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO
andamento relativamente cedente dei flussi in entrata, che sembra chiamare
in causa un rallentamento nel processo di integrazione internazionale del paese specificatamente dovuto al deterioramento della capacità di attrarre nuovi
investimenti internazionali comparativamente alle altre aree dell’economia
mondiale.
Sono state considerate in questo scritto le componenti degli IDE in entrata e
in uscita dall’Italia: per settore di attività industriale, per area geografica di
origine e di destinazione, investimenti in nuove imprese e in acquisizioni di
imprese private e di imprese a partecipazione pubblica. Nel complesso,
l’occupazione nelle imprese a partecipazione estera operanti in l’Italia (1998)
supera i 560 mila addetti, circa il 20% dell’occupazione industriale italiana
(al netto delle microimprese sotto i 20 addetti). Tre quarti di questi investimenti sono localizzati nelle regioni del Nord Ovest (51%) e del Nord Est
(24%).
Negli IDE effettuati all’estero da parte di imprese italiane l’occupazione supera i 600 mila addetti. A seguito di questo processo di apertura internazionale in entrata e in uscita, il sistema delle imprese italiane è entrato fra i protagonisti dei processi di multinazionalizzazione, sia pure non nelle prime
posizioni.
LE COMPONENTI DELL’INTERNAZIONALIZZAZIONE
La progressiva liberalizzazione degli scambi commerciali e della circolazione
dei capitali e delle persone, la rapida evoluzione e diffusione dei servizi reali
e finanziari alle imprese1, dalla logistica alle tecnologie dell’informazione e
delle telecomunicazioni2 hanno segnato l’avvio di quel nuovo stadio di evoluzione al quale correntemente si riferisce il concetto di globalizzazione.
Le policies pubbliche operano sul versante della liberalizzazione
dell’interscambio e della liberalizzazione dei movimenti dei capitali e delle
persone, a volte tumultuosamente e spesso non linearmente, comunque
nell’ambito di una consolidata tendenza nel lungo periodo.
Le imprese produttrici di beni, di fonti di energia e di servizi hanno adottato
strategie di internazionalizzazione, sotto la spinta di quel fattore endogeno
che è l’innovazione tecnologica. Il costo crescente della ricerca di base, della
ricerca applicata e dello sviluppo e l’elevato rischio di rapida obsolescenza
delle tecnologie e dei prodotti innovativi costringono le imprese a vendere i
risultati dell’innovazione nel “tempo più rapido possibile, nel mercato più
ampio possibile”.
Simmetricamente perdono peso le imprese che operano in nicchie locali di
mercato, al riparo della competizione internazionale e a scarsa propensione di
investimento nell’innovazione3.
LE TRE VIE ALLA
INTERNAZIONA-
Lo sviluppo dell’internazionalizzazione delle imprese si snoda lungo tre percorsi:
LIZZAZIONE
1
D’ora in poi BRSs, Business Related Services.
D’ora in poi ICTs, Information Communication Technologies.
3
Tendenzialmente le imprese poco innovative e a mercato locale ricercano il supporto di politiche di scarsa apertura internazionale; la pressione raggiunge soglie elevate nelle aree in cui
questo settore dell’economia è ancora esteso.
2
252
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE:
GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO
1. l’interscambio commerciale (si veda a proposito la scheda sul commercio
estero);
2. gli IDE in entrata e gli IDE in uscita4;
3. le collaboratives ventures: che comprendono le forme di cooperazione
internazionale tra imprese [accordi non equity; in assenza di partecipazioni al capitale di rischio]: cooperazione tecnica e commerciale, programmi comuni di R&D, cessione e acquisizione di brevetti, licenze e
know how, subfornitura cross border.
La difesa e la ricerca di vantaggi proprietari può generare il passaggio dalle
forme di collaboratives ventures e di subfornitura all’investimento diretto.
I FATTORI DETERMINANTI DELLE STRATEGIE DI
MULTINAZIONALIZZAZIONE
Storicamente le strategie degli IDE sono state avviate dalle imprese nord americane ed europee per assicurarsi il controllo nel rifornimento di materie
prime e di derrate alimentari, per le quali le imprese dei paesi industrializzati
non potevano basarsi soltanto sull’offerta nazionale.
Le politiche protezionistiche dei mercati nazionali hanno stimolato gli IDE;
di fronte alle barriere di confine erette nei paesi produttori di auto in Europa
negli anni Trenta, e non ancora del tutto smantellate, GM e Ford hanno reagito con gli IDE, attraverso acquisizioni e investimenti green field in Europa5.
Nella seconda metà di questo secolo, in presenza della crescente liberalizzazione degli scambi e del sistema dei cambi fissi, durato quasi trent’anni, sono
esplose le strategie di multinazionalizzazione delle imprese che operano in
numerosi settori industriali e nella produzione dei servizi. Si può fare riferimento all’interazione di sette fattori determinanti che hanno concorso a generare questa tendenza:
FATTORI E
STRATEGIE DI
MULTINAZIONALIZZAZIONE
1. strategie market seeking, alla ricerca di consolidamento ed espansione
delle quote già acquisite attraverso la penetrazione commerciale;
2. strategie labour seeking, alla ricerca di disponibilità di risorse umane e di
un conveniente rapporto costo/produttività del lavoro;
3. strategie rivolte alla estensione dei vantaggi proprietari, attraverso
l’interiorizzazione di capacità tecnologiche, disponibilità di consulenza
world experienced, di skills manageriali e di marketing più avanzati e/o
complementari rispetto a quelli disponibili nel paese di origine;
4. strategie rivolte al superamento delle imperfezioni del mercato locale,
dovute a barriere oligopolistiche e alle barriere di confine, erette dai governi su pressione delle imprese locali;
5. opportunità di: (a) acquisizioni e di fusioni; (b) di bassi costi di protezione ambientale; (c) incentivi finanziari e fiscali allo sviluppo industriale
locale;
6. acquisizione di vantaggi competitivi all’interno di settori a consolidata
strategia mondiale: chimica di base e la maggior parte dei settori della
chimica derivata; la costruzione di autoveicoli e di componenti; costruzione di elettrodomestici; industrie aerospaziali; costruzioni navali; nu-
4
5
D’ora in poi IDE in entrata:: IDE-in; IDE in uscita: IDE-out.
Già nel corso degli anni Trenta.
253
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE:
GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO
merosi settori della filiera agroalimentare; sistemi per la ricerca, sfruttamento e trasporto degli idrocarburi; sistemi logistici;
7. acquisizione di vantaggi proprietari attraverso il radicamento produttivo
in contesti territoriali specializzati: distretti industriali, filière, cluster e
diamond (Jacobson, Andreosso, 1996) e simmetricamente l’esplosione
della capacità di multinazionalizzazione delle imprese che operano in
questi contesti territoriali6.
L’ATTRATTIVITÀ
DELL’ITALIA
PER GLI IDE-IN
Per quanto riguarda l’Italia, il fattore determinante dell’attrazione degli investimenti industriali dall’estero è quello della ricerca di penetrazione – o di incremento della penetrazione – nel mercato italiano, che a seconda delle linee
di prodotto, si colloca tra il quarto e l’ottavo posto fra i mercati dei paesi Ocde7.
Per le imprese a base estera, già commercialmente presenti in Italia, e che
considerano l’opportunità di un radicamento produttivo in Italia o di sviluppo
degli investimenti già avviati, le valutazioni di convenienza sono di due ordini:
• le opportunità del mercato italiano;
• e subordinatamente, la ragionevole certezza di assenza di discriminazioni
nel medio e nel lungo periodo a favore delle imprese italiane, tali da creare condizioni di minore competitività per le imprese a base estera.
I fattori negativi nel campo fiscale, previdenziale, nella logistica, nella mobilità del lavoro agiscono sulle imprese che operano in Italia, indipendentemente dalla origine nazionale o estera del capitale investito; ma non è trascurabile
la discriminazione a favore di molte imprese nazionali nel ricorso (a) alle subforniture provenienti dai settori del sommerso e del semi-sommerso; (b)
all’evasione e all’elusione fiscale e previdenziale.
A questi fattori, generalmente “negativi” per l’Italia, sono sensibili le scelte
di localizzazione degli investimenti a livello europeo, quando l’obiettivo strategico dell’investimento estero riguarda la penetrazione nel mercato europeo
nel suo complesso e non è rivolto alla penetrazione in un singolo mercato nazionale. Nell’ambito di questo ordine di scelte localizzative, attualmente
l’Irlanda, la Spagna e il Portogallo si collocano fra le aree che maggiormente
competono con l’Italia.
IL RUOLO CRESCENTE DEGLI IDE NEI PAESI
INDUSTRIALIZZATI
Nel 1995 i flussi di investimento verso l’estero originati da parte di imprese
con head quarter nei paesi industrializzati sono stati pari a 290 mld$; nel
1970 furono soltanto 12 mld$ (a prezzi correnti).
Nel 1993, ultima rilevazione disponibile, l’ammontare del fatturato delle consociate estere delle imprese multinazionali MNEs8 è stato pari a 1,3 volte il
6
Quest’ultima tendenza è tipica dei distretti industriali italiani, tanto che si fa riferimento alle
piccole multinazionali all’italiana.
7
Nel corso degli anni Cinquanta e parte dei Sessanta, l’attrazione degli IDE in entrata è stata
generata anche dal differenziale del costo del lavoro, dell’imposizione fiscale dei costi per la
sicurezza del lavoro e per il controllo delle emissioni.
8
D’ora in poi: MNEs, Multinational Enteprises.
254
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE:
GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO
valore delle esportazioni di beni e servizi dai paesi industrializzati (Mori,
Rolli 1998).
Il fatturato delle consociate estere delle MNEs è stato dell’ordine di 6.000
mld$ nel 19939, a fronte di un ammontare dell’ordine di 4.700 mld$ delle esportazioni di beni e servizi a livello mondiale.
IL RITARDO
DELL’ITALIA
NEGLI IDE
Questo stesso indicatore segnala inoltre un ritardo nei processi di multinazionalizzazione in entrata e in uscita dall’Italia: nel 1998 il rapporto fra il fatturato delle multinazionali italiane all’estero e l’export italiano (si veda la scheda sul commercio estero) arriva allo 0,5 per l’Italia nel complesso e per il
Nord Italia.
Per il Piemonte questo indicatore è significativamente più elevato: 0,8. Infatti
il tasso di multinazionalizzazione in uscita dal Piemonte è il più elevato fra le
regioni italiane, in presenza dei diffusi processi di multinazionalizzazione di
Fiat e di altre imprese a base piemontese; comunque anche il Piemonte è ancora abbondantemente al di sotto del valore raggiunto dalla maggior parte dei
paesi industrializzati.
Il prevalere della produzione all’estero sull’esportazione di beni e servizi pone in evidenza il salto qualitativo nell’evoluzione strutturale dei processi di
internazionalizzazione delle imprese. È uno degli aspetti più consistenti della
attuale fase di globalizzazione, ma anche uno dei meno approfonditi a livello
di sistemazione teorica, della politica e dell’economia internazionale. A loro
volta queste carenze di analisi e di informazione generano gravi distorsioni
nell’azione dei mezzi di comunicazione di massa e specializzati.
LA MULTINAZIONALIZZAZIONE IN ENTRATA E IN
USCITA DALL’ITALIA
IDE-IN E IDE-OUT:
UN RITARDO IN
RECUPERO
Nel corso del 1997, le 2007 le imprese estere partecipate da 804 imprese italiane hanno fatturato 186 mila mld/lire, con un’occupazione estera di oltre
602 mila unità (tab. 5). Si consideri che, alla metà degli anni Ottanta (1986)
le 696 imprese estere a partecipazione italiana avevano fatturato 43.000
mld/lire, con un’occupazione di 244 mila unità.
Sempre al 1997 ammontava a 1047 lo stock delle imprese estere che avevano
effettuato investimenti in 1768 imprese industriali italiane (articolate in 2774
stabilimenti). Il fatturato complessivo è stato di 263 mld/lire, con un'occupazione di 562 mila unità (cfr. tab. 6).
Il rapporto fra lo stock degli IDE-in e lo stock degli IDE-out dall’Italia passa
da 0,5 (1986), in termini di fatturato e di addetti, a ben 1,1 in termini di addetti nel 1998 e soltanto a 0,7 in termini di fatturato.
Nei paesi di consolidata industrializzazione il rapporto fra IDE-out IDE-in è
compreso fra 2 a 1 e 3 a 1. Il caso del Giappone è a parte, in relazione alla
tradizionale scarsa penetrabilità in questo paese da parte delle imprese estere,
in crescente attenuazione soltanto dagli anni Ottanta.
In Italia, al ritardo nei processi di industrializzazione ha fatto riscontro anche
un ritardo nei processi di multinazionalizzazione, in fase di recupero dalla
metà degli anni Ottanta.
9
Ultima stima dell’UNCTAD.
255
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE:
GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO
In ogni caso l’attuale tasso di multinazionalizzazione del sistema italiano ha
raggiunto un livello elevato: circa il 20% dell’occupazione industriale (con
esclusione delle microimprese sotto i 20 addetti) è assorbita dalle imprese a
partecipazione estera. Analogamente, negli IDE-out delle imprese italiane
l’occupazione raggiunge una quota di poco superiore al 20%
dell’occupazione industriale in Italia.
L’ASIMMETRIA
TECNOLOGICA
TRA GLI IDE-IN E
GLI IDE-OUT
L’ARRETRATEZZA
ITALIANA NEI
BUSINESS RELATED
SERVICES
Negli IDE italiani in entrata e negli IDE in uscita prevale il macroaggregato
dei settori a elevata economie di scala (Pavitt 1984)10 (fig.1 e fig. 2).
Il 66% dell’occupazione negli IDE-out in uscita sul totale è generato dalle
imprese che operano nei settori a forti economie di scala (produzione finale
di autoveicoli e componentistica, elettrodomestici). Negli IDE-in questo macroaggregato continua a essere pur sempre il più importante (50%).
Nei settori tradizionali gli IDE-in e gli IDE-out hanno un peso abbastanza limitato: 15% in uscita e 6% in entrata.
I settori specialistici (meccanica strumentale) partecipano per il 10% negli
IDE-out e per 20% negli IDE-in.
Nei settori a elevata intensità tecnologica, l’asimmetria è drammaticamente
accentuata: 9% negli IDE-out e il 24% negli IDE-in. Le controllate estere in
questo aggregato contribuiscono in misura rilevante all’avanzamento tecnologico del sistema industriale italiano.
L’asimmetria fra la crescita in termini di addetti e la crescita in termini di fatturato trova una spiegazione forte nella diversa composizione del mix tecnologico negli IDE-out rispetto al mix degli IDE-in.
Anche nei settori dei BRSs gli IDE-in assicurano l’avanzamento della maggior parte dei settori che compongono questo macroaggregato, dal software ai
servizi informatici e all’outsourcing informatico, dal management consultancy all'auditing e alla pubblicità (si veda la scheda sul sistema dei servizi
alle imprese).
Malgrado alcuni recenti evoluzioni, nei BRSs l’arretratezza italiana è tuttora
consistente, tanto da raggiungere livelli di handicap di sistema, per quanto
riguarda l’offerta di servizi avanzati generata dalla domanda pubblica.
Nell’area dei settori trainati dalla ricerca tecnologica e dall’attività di R&D
nelle imprese sono noti i fattori del ritardo italiano, mentre le aree di arretratezza nel campo dei BRSs non sono ancora oggetto di rilevazioni e di analisi
sistematiche, tanto da rendere improbabili i progetti di policies rivolte allo
sviluppo delle imprese che operano nell’offerta dei singoli BRSs11.
Nei settori dell’engineering gli IDE-in sono sviluppati e anche le imprese italiane hanno raggiunto un buon piazzamento.
10
I quattro macrosettori “alla Pavitt” sono:
settori tradizionali: abbigliamento, tessile, mobili ecc.
settori a forti economie di scala: auto e componentistica, chimica di base, derivati alimentari, bevande ecc.
3. settori specialistici: meccanica strumentale, costruzioni navali ferrotranviarie;
4. settori a elevata intensità tecnologica: derivati chimici, farmaceutica, informatica e macchina per ufficio, elettronica e telecomunicazioni, strumentazione e meccanica di precisione, costruzioni aerospaziali.
11
Negli altri paesi industrializzati lo strumento storico di queste policies è quello della qualificazione della domanda pubblica di servizi avanzati (sistemi di outsourcing degli operatori
pubblici).
1.
2.
256
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE:
GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO
In generale negli IDE-out dei settori BRSs, le imprese italiane hanno posizioni marginali. Soltanto nel settore assicurativo, le imprese a base italiana hanno raggiunto una visibile presenza fra le imprese multinazionali del settore
assicurativo.
L’ORIGINE
GEOGRAFICA
DEGLI IDE-OUT E LA
DESTINAZIONE
DEGLI IDE-IN
L’Europa Occidentale continua a essere la principale area storica di destinazione degli IDE-out effettuati dalle imprese italiane (fig. 3): in termini di addetti nelle imprese partecipate all’estero, il 42% è ancora in quest’area.
In forte e significativa crescita la destinazione degli IDE-out nei paesi
dell’Europa Centrale e Orientale, che ha raggiunto il 20% (sul totale degli
addetti delle partecipate estere da parte di imprese italiane), e nei paesi asiatici, dove ha raggiunto il 13%. Complessivamente la destinazione degli IDEout verso l’Europa Centro-orientale e l’Asia ha raggiunto una quota del 33%,
quasi analoga a quella dell’Europa Occidentale. Questa evoluzione strutturale
sembra essere generata da tre ordini di fattori dominanti:
1. il completamento del mercato comune ha tendenzialmente abbattuto le
barriere di confine intra UE e ha ridotto la convenienza alla localizzazione produttiva all’interno di singoli paesi dell’Unione;
2. lo sviluppo della domanda dei paesi dell’Europa Centro-orientale e di
numerosi paesi asiatici, in presenza di una riduzione delle difficoltà di
penetrazione degli IDE;
3. le crescenti opportunità di IDE labour seeking da parte di imprese italiane nei paesi dell’Europa Centro-orientale e in numerosi paesi del Sud Est
asiatico.
Nel corso degli anni Novanta vi è stato un progressivo arretramento della destinazione Nord America, che si è assestata al 10%.
La maggioranza assoluta (69%) degli investitori esteri proviene dall’Europa
Occidentale, il 25% dal Nord America e soltanto un 3% dal Giappone (fig. 4).
La diversa ripartizione geografica delle origini e delle destinazioni geografiche degli IDE-in e degli IDE-out è correlata alla diversa composizione dei
fattori tecnologia-prodotto-mercato che ha generato l’asimmetria tecnologica.
Le teorie dei vantaggi comparati e le successive recenti evoluzioni ci offrono
una esauriente sistemazione teorica di queste asimmetrie.
LA CONSISTENZA DEGLI IDE-IN E DEGLI IDE-OUT
NELL’ITALIA SETTENTRIONALE
LA LOMBARDIA:
UN’ATTRATTIVITÀ
ESTERA IN
È utile fare riferimento alla localizzazione degli stabilimenti delle imprese
italiane partecipate da imprese estere (86% partecipazioni di controllo e 14%
in posizione paritaria o di minoranza); in presenza di numerose imprese multiplant, il riferimento alla sede legale genera risultati diversi, tali da alterare la
stima dell’attrattività di IDE-in da parte delle singole regioni.
L’attrattività relativa degli IDE-in da parte delle regioni del Nord Ovest è in
fase di contrazione dal 55,8 al 51%; comunque, oltre la metà degli stabilimenti e degli addetti degli IDE-in sono ancora localizzati nelle regioni del
Nord Ovest.
In Lombardia, dove era stato raggiunto un massimo di attrattività nel 1986
con una quota del 41% del totale Italia, nel 1998 la quota è scesa al 35% (tab.
7), in presenza di effetti di saturazione. La Lombardia e il Nord Ovest in
SATURAZIONE
257
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE:
GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO
complesso si collocano fra le aree europee più attrattive di investimenti industriali dall’estero, malgrado la quasi assenza di interventi rivolti all’attrazione
di investimenti esteri e alla fornitura di servizi localizzativi, a cui solo di recente si sta cercando di ovviare. In quest’area si concentrano tendenzialmente
le localizzazioni degli IDE-in, mentre gli indicatori a livello nazionale segnalano un’attrazione di IDE-in inferiore a quella degli altri paesi industrializzati.
È stata rilevante la crescita delle altre regioni del Nord Ovest; fra queste la
migliore performance è stata quella del Piemonte, dove il numero degli stabilimenti delle imprese estere è più che raddoppiato, con una crescita ulteriore
della quota sul totale Italia (dal 12 al 13,6%).
Nel periodo 1986-1998 nel Nord Est la crescita è stata del +160%; la quota
passa dal 17% al 23,9%. Le due regioni tigri del Nord Est, Veneto ed EmiliaRomagna mettono a segno una eccezionale crescita di attrattività: rispettivamente del +156% e del +218%.
La quota del Centro sul totale Italia è consistente, ma in fase di attenuazione:
dal 15,7% al 13,7%. Il numero degli stabilimenti IDE-in comunque sale del
64,5%.
Nelle regioni meridionali in fase di recupero del ritardo di sviluppo (Campania, Abruzzo, Molise, Puglia e Basilicata) la quota di partecipazione non è
irrilevante ed è in leggera crescita dall’8,5 al 9,2% sul totale Italia, con una
crescita di +140%. Nell’ambito di questo aggregato la regione più importante, la Campania, ha registrato una crescita modesta, con una diminuzione della sua quota di partecipazione a totale Italia degli IDE-in (dal 5 al 3,9).
Nel Sud e nelle Isole, l’attrattività delle tre regioni, dove il ritardo di sviluppo
è in fase di aggravamento (Sicilia, Calabria e Sardegna), il livello di attrattività si mantiene a un livello marginale ed è persino in calo (2,5% nell’86 e 2,4
nel ‘98); gli investitori esteri contribuiscono soltanto marginalmente al tentativo di decollo di queste tre regioni, aggravando la situazione generata dalle
dismissioni degli investitori dell’Italia settentrionale e delle imprese pubbliche.
L’ATTRATTIVITÀ
RELATIVA DELLE
REGIONI E DELLE
PROVINCE
ITALIANE
Una valutazione di ordine generale si ricava dalla stima dell’attrattività relativa delle regioni e delle province italiane (sopra o sotto l’attrattività media
nazionale).
Nel Nord Ovest e nel Nord Est l’indicatore è di segno positivo con un valore
quasi doppio nel Nord Ovest (2.2) rispetto al Nord Est 1,7 (cfr. tab. 8).
Nel Centro e nel Sud-Isole l’indicatore è di segno negativo: -0.9 nel Centro e
-2,2 nel Centro Sud.
Gli indicatori di attrattività nelle singole province pongono in evidenza la relazione fra la presenza di IDE-in e il livello di sviluppo dei contesti territoriali locali. Nelle grandi città del Nord i valori sono superiori a uno, con eccezione di Genova, Udine e Brescia. Nelle grandi città del Centro e del Centro
Sud i valori sono sempre inferiori all’unità.
Nella maggior parte delle regioni europee e in numerosi stati Usa hanno operato specifiche policies e strumenti di intervento finalizzati all’attrazione di
IDE dall’estero. In Irlanda e in Spagna l’adozione di queste policies ha generato consistenti effetti sulla struttura economica di questi paesi. Comunque
negli Stati europei hanno agito politiche e strumenti nazionali e agenzie di
promozione degli IDE a livello regionale.
258
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE:
GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO
LA CARENZA DI
POLITICHE PER
ATTIRARE IDE-IN
In Italia soltanto nel 1994 la legge Baratta ha generato un primo intervento
con un finanziamento limitato a otto mld/lire nell’arco di un anno e mezzo
(seconda metà 1995 e 1996) a supporto di programmi promozionali da parte
di regioni in grado di offrire aree industriali attrezzate a investitori esteri.
Soltanto in Piemonte nel 1997 è stata avviata ITP, la prima agenzia italiana
che ha operato con successo nella promozione degli IDE-in, anche attraverso
l’implementazione di un progetto regionale cofinanziato dalla Ue .
Azioni di promozione sono state avviate nel Friuli-Venezia Giulia, in Umbria, a Milano e Brindisi.
A livello nazionale non sono stati formulati indirizzi nel campo della promozione degli IDE-in e degli IDE-out, che pure costituiscono le componenti di
maggior peso dei processi di internazionalizzazione delle imprese.
La recente costituzione dell’agenzia “Sviluppo Italia” segna un inizio promettente di un intervento strategico, a sua volta destinato a supportare le iniziative a livello regionale.
In ogni caso all’attrattività di fatto esercitata dalle regioni e dalle singole province italiane le policies di supporto hanno concorso soltanto marginalmente.
A differenza di quanto avviene da tempo in Europa e nel Nord America, in
Italia si può fare riferimento a un processo di attrattività “neutrale”, nella
quasi assenza di interventi rivolti all’attrazione degli IDE. Non sembra peregrina l’ipotesi che questa quasi assenza di politiche rivolte all’attrazione di
investimenti industriali sia connessa a una tendenziale resistenza di fatto
all’ingresso e allo sviluppo di competitori esteri, per definizione a forte competitività internazionale. In ogni caso si rileva che in questa seconda metà di
secolo, l’Italia si presenta come uno dei paesi più liberisti per quanto riguarda
i vincoli agli investimenti industriali in entrata. Si può escludere che questa
posizione di avanzato liberismo normativo sia stata frutto di scelte consapevoli. Piuttosto essa sembra attribuibile a una pragmatica indifferenza di fatto
alle problematiche della multinazionalizzazione delle imprese a livello di governo, di parlamento e delle stesse associazioni imprenditoriali e sindacali.
Soltanto nel corso degli anni Novanta sono stati avviati comportamenti e politiche di crescente attenzione nei riguardi dei processi di multinazionalizzazione delle imprese in entrata e in uscita dall’Italia.
LA PROPENSIONE ALL’INVESTIMENTO ESTERO NELLE
REGIONI ITALIANE
Anche negli investimenti in uscita si fa riferimento a un indicatore neutrale di
propensione agli IDE da parte delle imprese delle singole regioni, in assenza
di qualsiasi progetto di policies, con eccezione della partecipazione ai negoziati internazionali rivolti a ottenere pari condizioni nei flussi bilaterali di
IDE.
I valori di questo indicatore (sopra o sotto la media nazionale) sono a livelli
drammaticamente negativi per il Sud-Isole e anche per il centro (tab. 9).
Nel Nord sorprende l’elevato valore di questo indicatore: a fronte di un valore pur sempre elevato nel nel Nord Est fa riscontro un valore più contenuto
nel Nord Ovest, dove è tuttora localizzata la maggior parte degli head quarters delle maggiori imprese multinazionali a base italiana (soltanto alcuni degli head quarters sono localizzati a Roma).
INVESTIMENTI
GREEN FIELD
259
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE:
GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO
La grande maggioranza di IDE-in è effettuata attraverso M&A12; nel corso
del biennio 1986-97 soltanto in tre anni (1986, 1990 e 1991) gli investimenti
green field hanno superato il 10% (numero di imprese). In termini di addetti,
le quote annuali di investimenti green field sono inferiori (tab. 10), in ragione
della minor dimensione degli investimenti green field. Nel periodo 19861997, l’incremento complessivo generato dagli IDE-in green field è stato esiguo: 128 nuove imprese, con 10.340 occupati addizionali. Nello stesso periodo l’incremento complessivo dell’occupazione nelle imprese nelle imprese
partecipate da imprese estere è aumentato di 95 mila unità (+20%) soltanto in
parte attribuibile a M&A; l’incremento di 46 mila addetti è avvenuto in presenza di ulteriori investimenti nelle imprese a partecipazione estera già esistenti.
L’IMPORTANZA
CRESCENTE DI
ACQUISIZIONI E
FUSIONI
GLI INVESTITORI
ESTERI ED I
PROCESSI DI
PRIVATIZZAZIONE
Alla fine degli anni Cinquanta gli investimenti green field costituivano i tre
quarti degli IDE-in. Dagli anni Settanta l’inversione di tendenza osservata in
Italia è pressoché analoga in quasi tutti i paesi industrializzati.
Si osserva che M&A costituiscono un apporto positivo, perché generalmente
accrescono la competitività e il potenziale di crescita delle imprese acquisite,
che a loro volta sono in grado di generare investimenti di ampliamento e ulteriori investimenti green field. Per questo è fuorviante il termine di shopping
da parte delle imprese estere, perché non tiene conto dei due aspetti: (a) relazione di complementarità – e non di sostituzione – fra le varie forme di internazionalizzazione dell’impresa; (b) la penetrazione in un mercato attraverso
un’acquisizione è una componente di base nella strategia dell’investimento
cross border; l’impresa investitrice opera le sue scelte fra le opportunità di
un’acquisizione e un investimento green field. In un secondo tempo gli investimenti di acquisizione generano frequentemente investimenti di ampliamento attraverso ulteriori acquisizioni e attraverso investimenti green field.
Più che agli effetti della svalutazione della lira, la forte ripresa degli IDE-in
nel quadriennio 1993-96 è stata determinata dall’intervento delle MNEs estere nei processi di privatizzazione delle imprese a partecipazione pubblica
(tab. 11), attraverso 23 acquisizioni.
Con una sola eccezione, queste acquisizioni sono state effettuate da parte di
MNEs che operano nei rispettivi settori a livello mondiale.
Gli addetti nelle imprese collegate a queste operazioni di privatizzazione
hanno costituito il 45% dell’occupazione complessiva nelle nuove partecipazioni estere effettuate nel 1994, il 68% nel 1995 e il 28% nel 1996.
12
M&A, Mergers and Acquisitions
260
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE:
GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO
Tab. 1 − Investimenti diretti esteri mondiali e selezionati indicatori economici: valori a
prezzi correnti, 1996 e 1997
Valore a prezzi correnti
(miliardi di dollari)
1996
1997
IDE – Flussi in entrata
IDE – Flussi in uscita
IDE – Stock in entrata
IDE – Stock in uscita
Cross–border M&As (a)
Fatturato delle affiliate estere delle IMN (b)
Valore della produzione delle affiliate estere
Attività totali delle affiliate estere
338
333
3.065
3.115
163
8.851 b
1.950 b
11.156 b
400
424
3.456
3.541
236
9.500 b
2.100 b
12.606 b
PIL nominale al costo dei fattori
Investimenti interni lordi
Royalties
Esportazioni
28.822
5.136
53
6.245
30.551
5.393
61
6.432
c
c
c
c
a) Solo investimenti di maggioranza.
b) Proiezioni sulla base dei dati relativi al 1995.
c) Stime.
Fonte: United Nations (1998)
Tab. 2 − Investimenti diretti esteri mondiali e selezionati indicatori economici: tassi di
crescita, 1986−1997
Tasso di crescita %
medio annuo composto
1986−90
1991−95
1996
1997
IDE – Flussi in entrata
IDE – Flussi in uscita
IDE – Stock in entrata
IDE – Stock in uscita
Cross–border M&As (a)
Fatturato delle affiliate estere delle IMN
(c)
Valore della produzione affiliate estere
Attività totali delle affiliate estere
23,6
27,1
18,2
21,0
21.0 b
16,3
20,1
15,1
9,7
10,3
30,2
13,4
1,9
–0,5
12,2
11,5
15,5
6,0 c
18,6
27,1
12,7
13,7
45,2
7,3 c
16,6
18,3
6,2
24,4
7,7 c
12,0 c
7,7 c
13,0 c
PIL nominale al costo dei fattori
Investimenti interni lordi
Royalties
Esportazioni
12,1
12,5
21,9
14,6
5,5
2,6
12,4
8,9
0,8
–0,1
8,2
2,9
6,0
5,0
15,0
3,0
a)
b)
c)
d)
Solo investimenti di maggioranza.
Dato riferito al periodo 1987–1990.
Proiezioni sulla base dei dati relativi al 1995.
Stime.
Fonte: United Nations (1998)
261
d
d
d
d
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE:
GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO
Tab. 3 – Flussi di investimenti diretti italiani all’estero, 1990–1997 (in miliardi di lire)
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
Investimenti
13.972 19.963 22.694 24.257 23.285 24.396 23.940 34.054
422
292
611
556 1.209 1.211 2.256 2.753
− prodotti energetici
3.795 4.712 8.310 7.139 7.289 7.621 5.844 9.414
− prodotti industriali
Disinvestimenti
− prodotti energetici
− prodotti industriali
5.290 11.686 15.765 13.312 15.350 15.481 14.398 16.692
249
163
483
978 1.095
639
671
740
1.832 2.575 7.389 3.378 4.219 5.758 3.850 4.238
Saldo
− prodotti energetici
− prodotti industriali
8.682
173
1.963
8.277
129
2.137
6.929 10.945
128
-422
921 3.761
7.935
114
3.070
8.915
572
1.863
9.542 17.362
1.585 2.013
1.994 5.176
Fonte: Banca d’Italia (1998)
Tab. 4 – Flussi di investimenti diretti dall’estero in Italia, 1990–1997 (in miliardi di lire)
1990
1991
1992
1993
1994
Investimenti
− prodotti energetici
− prodotti industriali
25.089 26.140
257
1
8.877 6.147
8.991
501
3.010
8.824
306
3.600
8.838 12.395 10.668 10.443
125
289
44
72
2.690 4.553 3.831 4.546
Disinvestimenti
− prodotti energetici
− prodotti industriali
17.520 22.988
7
105
8.401 3.459
5.046
12
1.151
3.197
2
846
5.320
133
2.098
4.993
74
1.192
5.457
306
2.876
4.442
21
2.506
3.945
489
1.859
5.627
304
2.754
3.518
-8
592
7.402
215
3.361
5.211
-262
955
6.001
51
2.040
Saldo
− prodotti energetici
− prodotti industriali
7.569
250
476
3.152
-104
2.688
1995
1996
1997
Fonte: Banca d’Italia (1998)
Tab. 5 − L’investimento diretto industriale delle imprese italiane all’estero (al 1/1/1998)
Investitori all’estero
Imprese estere partecipate:
− Imprese (N.)
− Addetti (N.)
− Fatturato (Md. di lire)
Partecipazioni
di controllo
N.
%
Partecipazioni
paritarie e minoritarie
N.
%
616
76,6
294
36,6
804 100,0
1.504
433.453
153.527
74,9
72,0
80,8
503
168.752
36.473
25,1
28,0
19,2
2.007 100,0
602.205 100,0
190.000 100,0
Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano
262
Totale
N.
%
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE:
GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO
Tab. 6 − L’investimento diretto estero nell’industria italiana al 1/1/1998
Partecipazioni
di controllo
N.
%
Investitori esteri
Imprese italiane partecipate:
− Imprese (N.)
− Stabilimenti (N.)
− Addetti (N.)
− Fatturato (Md. di lire)
Partecipazioni
paritarie e minoritarie
N.
%
867
82,8
256
24,5
1.532
2.377
460.613
216.947
86,7
85,7
81,9
82,5
236
397
101.736
46.165
13,3
14,3
18,1
17,5
Totale
N.
%
1.047 100,0
1.768
2.774
562.349
263.112
100,0
100,0
100,0
100,0
Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano
Tab. 7 – Localizzazione degli stabilimenti delle imprese industriali italiane a partecipazione estera, al 1/1/1998, per regione
1986
N.
1998
%
N.
Variaz. %
1986-98
%
Nord Ovest
Valle d’Aosta
Piemonte
Lombardia
Liguria
819
3
176
602
38
55,8
0,2
12,6
40,9
2,5
1.416
8
377
969
62
51,0
0,3
13,6
34,9
2,2
72,9
1,7
114.0
61,0
63.0
Nord Est
Veneto
Trentino–Alto Adige
Friuli–Venezia Giulia
Emilia Romagna
252
93
41
31
88
17,2
6,3
2,8
2,1
6,0
654
238
71
65
280
23,6
8,6
2,6
2,3
10,1
159,5
155,9
73,1
109,7
218.2
Centro
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
230
72
13
17
133
15,7
4,9
0,9
1,2
9,1
379
136
37
41
165
13,7
4,9
1,3
1,5
5,9
64,8
88,9
184,6
141,2
24,1
Sud e Isole
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
168
29
4
73
18
0
4
22
12
11,4
2,0
0,3
5,0
1,2
0
0,3
1,5
0,8
325
70
13
109
44
19
9
35
26
11,7
2,5
0,5
3,9
1,6
0,7
0,3
1,3
0,9
93,5
141,4
225,0
49,3
144,0
max
1,25
59,1
1,7
Totale Italia
1469
100,0
2.774
100,0
59,1
Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano; e successive elaborazioni.
263
CENTRO
FIRENZE
AREZZO
GROSSETO
LIVORNO
LUCCA
MASSA CARRARA
PISA
PISTOIA
SIENA
-0.954
-0.765
-1.078
-5.364
0.208
0.218
-3.343
-1.901
1.678
-3.534
SUD
PESCARA
L'AQUILA
CHIETI
TERAMO
CAMPOBASSO
ISERNIA
-2.219
PALERMO
AGRIGENTO
CALTANISSETTA
CATANIA
ENNA
-5.546 MESSINA
12.302 RAGUSA
SIRACUSA
-4.366 TRAPANI
1.734
-5.568 CAGLIARI
-2.895 NUORO
0.610 ORISTANO
SASSARI
-3.089
-0.894
-0.661
-3.340
-4.360
0.674
5.681
6.143
-3.625
-3.610
-5.014
-5.910
-4.362
-4.375
-2.724
-5.893
-4.151
-5.097
NAPOLI
AVELLINO
PERUGIA
-1.360 BENEVENTO
-4.033
TERNI
1.203 CASERTA
-5.745
SALERNO
-5.561
ANCONA
-1.484
-0.943
ASCOLI PICENO
1.218 BARI
MACERATA
-1.656 BRINDISI
PESARO
-3.384 FOGGIA
LECCE
ROMA
-5.131 TARANTO
FROSINONE
2.257
LATINA
3.697 POTENZA
4.464
RIETI
0.036 MATERA
-0.207
VITERBO
-0.597
R. CALABRIA
-6.209
COSENZA
-3.380
CATANZARO
-5.498
(*)
I valori riportati in tabella sono quelli assunti dalla variabile proxy della attrattività delle singole province. A valori più elevati della variabile corrisponde una maggiore attrattività della provincia mentre, viceversa, valori negativi indicano una attrattività inferiore a quella potenziale, date le caratteristiche della provincia/regione.
Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano; e successive elaborazioni.
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE:
GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO
264
Tab. 8 – L’attrattività delle singole province e regioni (*)
NORD OVEST
2.241 NORD EST
1.165
TORINO
1.427 BOLZANO
-5.018
ALESSANDRIA
5.127 TRENTO
7.359
ASTI
7.892
CUNEO
2.165 BOLOGNA
1.739
NOVARA
1.982 FERRARA
1.534
VERCELLI
0.083 FORLÌ
-2.098
MODENA
0.194
AOSTA
5.813 PIACENZA
3.729
PARMA
4.390
MILANO
1.306 RAVENNA
0.836
BERGAMO
2.420 REGGIO EMILIA
-5.893
BRESCIA
-1.330
COMO
0.259 UDINE
-0.508
CREMONA
3.818 GORIZIA
1.481
MANTOVA
1.362 PORDENONE
-0.671
PAVIA
0.682 TRIESTE
1.897
SONDRIO
5.746
VARESE
2.642 VENEZIA
2.504
BELLUNO
8.039
GENOVA
-3.327 PADOVA
0.606
IMPERIA
-0.757 ROVIGO
3.322
LA SPEZIA
-4.957 TREVISO
-0.467
SAVONA
2.473 VICENZA
2.726
VERONA
-1.246
BARI
BRINDISI
FOGGIA
LECCE
TARANTO
-3.64
PALERMO
AGRIGENTO
CALTANISSETTA
CATANIA
ENNA
-4.25 MESSINA
-4.07 RAGUSA
SIRACUSA
-2.13 TRAPANI
-3.04
-4.26 CAGLIARI
-3.50 NUORO
-4.55 ORISTANO
SASSARI
-1.64
-1.07
-2.56
-4.02
-1.97
POTENZA
MATERA
-2.36
-4.88
R. CALABRIA
COSENZA
CATANZARO
-4.13
-3.09
-4.23
PESCARA
L'AQUILA
CHIETI
TERAMO
CAMPOBASSO
ISERNIA
NAPOLI
AVELLINO
BENEVENTO
CASERTA
SALERNO
SUD
-2.83
-5.20
-3.39
-2.51
-4.15
-4.18
-4.45
-4.82
-4.12
-4.59
-4.28
-4.59
-3.20
-5.01
-0.78
-4.90
-4.94
(*) I valori riportati in tabella sono quelli assunti dalla variabile proxy della propensione all’internazionalizzazione. A valori più elevati della variabile
corrisponde una maggiore propensione della provincia a internazionalizzarsi mentre valori negativi indicano una propensione inferiore a quella potenziale, date le caratteristiche della provincia/regione.
Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano; e successive elaborazioni.
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE:
GLI INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO
265
Tab. 9 – La propensione all’internazionalizzazione delle singole province e regioni (*)
NORD OVEST
1.39 NORD EST
2.47 CENTRO
-2.52
TORINO
2.15 BOLZANO
2.77 FIRENZE
-1.56
ALESSANDRIA
3.43 TRENTO
-0.45 AREZZO
-1.92
ASTI
-2.85
GROSSETO
-4.95
CUNEO
5.93 BOLOGNA
-0.49 LIVORNO
-2.74
NOVARA
-1.46 FERRARA
-1.48 LUCCA
-4.90
VERCELLI
3.89 FORLÌ
3.15 MASSA CARRARA
-2.95
MODENA
5.78 PISA
-2.15
AOSTA
-4.58 PIACENZA
5.60 PISTOIA
-3.60
PARMA
0.26 SIENA
-3.34
MILANO
2.25 RAVENNA
-2.16
BERGAMO
0.39 REGGIO EMILIA
1.03 PERUGIA
0.33
BRESCIA
1.87
TERNI
-4.87
COMO
1.85 UDINE
2.61
CREMONA
11.02 GORIZIA
-5.73 ANCONA
1.31
MANTOVA
1.20 PORDENONE
4.53 ASCOLI PICENO
1.29
PAVIA
-1.45 TRIESTE
4.81 MACERATA
-3.94
SONDRIO
14.98
PESARO
0.70
VARESE
-1.65 VENEZIA
-1.71
BELLUNO
2.25 ROMA
-1.42
GENOVA
0.57 PADOVA
5.46 FROSINONE
-3.34
IMPERIA
-5.20 ROVIGO
13.78 LATINA
-5.11
LA SPEZIA
-5.81 TREVISO
5.09 RIETI
-5.08
SAVONA
1.20 VICENZA
0.15 VITERBO
-2.06
VERONA
6.62
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI
INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO
265
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI
INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO
Tab. 10 − Incidenza degli investimenti greenfield sulle partecipazioni estere nell’industria
italiana nel periodo 1986-1997
Totale partecipazioni (a)
di cui greenfield (b)
Incidenza % (b) / (a)
Imprese
Addetti
Imprese
Addetti
Imprese
Addetti
1986
63
14.744
15
1.553
23,8
10,5
1987
116
41.752
9
497
7,8
1,2
1988
142
29.045
10
736
7,0
2,5
1989
198
52.895
16
792
8,1
1,5
1990
182
33.405
27
1.807
14,8
5,4
1991
96
17.314
9
1.755
9,4
10,1
1992
99
16.583
10
601
10,1
3,6
1993
101
32.370
5
358
5,0
1,1
1994
123
30.896
8
631
6,5
2,0
1995
104
43.637
7
352
6,7
0,8
1996
149
36.405
6
944
4,0
2,6
1997
97
14.629
6
314
6,2
2,1
Totale
1.470
363.675
128
10.340
8,7
2,8
Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano
Tab. 11 − Nuove partecipazioni estere nell’industria italiana collegate a privatizzazioni e
dismissioni delle partecipazioni statali, 1993 − 1997.
Quota (a)
Anno Impresa partecipata
Settore
Investitore estero
1993
1993
1993
1993
1994
1994
1994
1994
1994
1994
1994
1994
19941
1994
1994
1994
1995
1995
1995
1995
1995
1995
1995
1996
1996
1996
1996
1996
1996
1996
1996
1996
1996
Gruppo Dolciario Italiano
Italgel
SIV −Società Italiana Vetro
Società Chimica Larderello
AST − Acciai Speciali Terni
Bertolli
Cogne Acciai Speciali
DEA
Enichem Augusta
Enichem Synthesis (b)
Enichem Synthesis (b)
Enichem Synthesis (b)
Ilva Laminati Piani
MAC
Nuovo Pignone
Ponte Nossa
Enichem (b)
Enichem Synthesis (b)
Italtel
Nuova Mecfond
Polimeri Europa
Safiplast
Termomeccanica
Alumix (b)
Carbolux
Dalmine
Enichem Agricoltura
Gencord
Grandi Motori Trieste
Inca International
Italimpianti (b)
Italimpianti (b)
Tubettificio Europeo
Alimentare
Alimentare
Vetro
Chimica
Siderurgia
Alimentare
Siderurgia
Strumentaz.
Chimica
Chimica
Chimica
Chimica
Siderurgia
Telecom.
Meccanica
Meccanica
Chimica
Chimica
Telecom.
Meccanica
Chimica
Plastica
Meccanica
Metallurgia
Chimica
Siderurgia
Chimica
Prod.metallo
Meccanica
Chimica
Impiantistica
Imbiantistica
Prod.metallo
Nestlé (CH)
Nestlé (CH)
Pilkington (GB)
DG Harris (USA)
Krupp−Hoesch (D)
Unilever (NL/GB)
Marzorati (CH)
Brown & Sharpe (USA)
RWE−DEA (D)
Borregaard (N)
Ciba Geigy (CH)
Great Lakes (USA)
Essar (IND)
GEC (GB)
General Electric (USA)
Metalgesellschaft (D)
Elf Aquitaine (F)
Sud Chemie (D)
Siemens (D)
Muller Weingarten (D)
Union Carbide (USA)
Solvay (B)
Huarte (E)
Alcoa (USA)
Bayer (D)
Rocca (RA)
Norsk Hydro (N)
Bridgestone (J)
Metra (SF)
Dow Chemical (USA)
Rocca (RA)
Mannesmann (D)
Cambria
(a) CTR = Part. di controllo; PAR = Part. paritaria; MIN = Part. Minoritaria
(b) Ramo d’azienda.
Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano
266
CTR
CTR
CTR
CTR
CTR
CTR
CTR
CTR
CTR
CTR
CTR
CTR
MIN
PAR
CTR
CTR
CTR
CTR
CTR
PAR
PAR
PAR
MIN
CTR
CTR
CTR
CTR
CTR
CTR
CTR
CTR
CTR
PAR
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI
INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO
Fig. 1 – Ripartizione delle imprese industriali estere a partecipazione italiana e dei relativi addetti per macro-settori alla Pavitt, al 1/1/1998
Addetti delle imprese partecipate
9%
15%
10%
66%
Settori tradizionali
Settori specialistici
Settori con forti economie di scala
Settori ad elevata intensità tecnologica
Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano.
Fig. 2 – Ripartizione delle imprese industriali italiane a partecipazione estera al 1/1/1998,
per macro-settori alla Pavitt
Addetti delle imprese partecipate
Settori
tradizionali
6%
Settori ad
elevata intensità
tecnologica
24%
Settori
specialistici
20%
Settori con forti
economie di
scala
50%
Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano.
267
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI
INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO
Fig. 3 – Destinazioni geografiche degli IDE delle imprese italiane all'estero
Addetti delle imprese partecipate
America Latina
8%
Asia
13%
Nord America
10%
Oceania ed Africa
6%
Europa Centrale
ed Orientale
20%
Europa
Occidentale
43%
Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano.
Fig. 4 – Imprese industriali italiane a partecipazione estera al 1 gennaio 1998, per area
geografica di origine del principale investitore estero
Addetti delle imprese partecipate
N o rd
A m e r ic a
26%
G ia p p o n e A ltr i
3%
1%
U n io n e
E u ro p e a
62%
A lt r i p a e s i
e u ro p e i
8%
Fonte: banca dati REPRINT, CNEL − R&P − Politecnico di Milano.
268
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: GLI
INVESTIMENTI DIRETTI DA E PER L’ESTERO
BIBLIOGRAFIA
Jacobson D., Andreosso-O’Calagham B. (1996), Industrial Economics and
Organization, a European perpespective, Mc Grow-Hill, Maidenhead, England.
Piscitello L. (1999), “Territorio e Processi di Internazionalizzazione”, in CNEL Italia
Multinazionale 1998, Roma.
Mori A., Rolli V. (1998), Investimenti Diretti dall’Estero e Commercio: Complementari o Sostituti, Temi di discussione del Servizio Studi di Banca d’Italia, n.
337, ottobre.
Pavitt K. (1984), “Sectoral Pattern of Technical Change: Towards a Taxonomy and a
Theory”, Research Policy, 13.
269
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA
SETTENTRIONALE NEL DUEMILA:
UNA LETTURA DI SINTESI
Giampiero Bordino*
UNA NUOVA “QUESTIONE SETTENTRIONALE”: LA COLLOCAZIONE E IL PESO RELATIVO DELL’ITALIA
SETTENTRIONALE IN EUROPA – LA POPOLAZIONE E LA FORMAZIONE DEL CAPITALE UMANO: RISCHI
E OPPORTUNITÀ PER UNA SOCIETÀ SEMPRE PIÙ “VECCHIA” – RICERCA E SVILUPPO, INNOVAZIONE E
SISTEMA DELLE IMPRESE: FORZA E DEBOLEZZA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL CONTESTO
EUROPEO – PRODUZIONE MANIFATTURIERA E TERZIARIO DI SERVIZIO: PRIMATO IN ITALIA, MA
COLLOCAZIONE PERIFERICA IN EUROPA – SENZA RETI NIENTE EUROPA: TERZIARIO E FINANZA,
INFRASTRUTTURE, CITTÀ E ISTITUZIONI COME DECISIVI “FATTORI DI RETE” PER L’ITALIA
SETTENTRIONALE NEL NUOVO SECOLO – COMMERCIO ESTERO E INTERNAZIONALIZZAZIONE: LE
POTENZIALITÀ COMPETITIVE E “DI CERNIERA” DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL CONTESTO
EUROPEO E INTERNAZIONALE – QUALI STRADE POSSIBILI PER L’ITALIA SETTENTRIONALE NEL
NUOVO SECOLO: UNA PROSPETTIVA REALISTICA PER LO SVILUPPO.
UNA NUOVA “QUESTIONE SETTENTRIONALE”: LA
COLLOCAZIONE E IL PESO RELATIVO DELL’ITALIA
SETTENTRIONALE IN EUROPA
LA NUOVA
“QUESTIONE
SETTENTRIONALE” …
Nella prospettiva del nuovo secolo, l’Italia settentrionale propone di se stessa
un’immagine nuova e problematica, che fa emergere la sua “questione” in
termini in qualche misura diversi da quelli tradizionali, sinteticamente ripercorsi e delineati nel saggio introduttivo di Dansero.
La nuova “questione settentrionale”, in altre parole, non è più tanto o soltanto
quella delle sue tensioni interne, del suo malessere sociale, della sua “rabbia”
anti centralistica e anti romana, del suo “rancore verso lo Stato nazionale”,
quanto quella – per così dire estroversa ed europea – del suo peso relativo e
della sua identità nel nuovo contesto continentale e globale.
In effetti, dopo la nascita dell’euro e l’espansione del processo di globalizzazione, le regioni settentrionali non hanno più come mercato domestico quello
della penisola, bensì quello dell’Europa. Le loro istituzioni di riferimento non
sono più tanto o soltanto quelle nazionali, quanto quelle comunitarie. Il loro
orizzonte competitivo è sempre più continentale e, più in là, globale.
E ancora, le regioni settentrionali, in questo nuovo contesto, sempre più “si
affacciano” – e anche percepiscono di affacciarsi – con tutto il loro peso di
potenzialità e insieme di debolezze, sulle due grandi “frontiere” dell’Europa
comunitaria: quella dell’Est post-comunista esteso fino alla Russia (su un
piano politico-militare il conflitto nel Kosovo l’ha evidenziato in modo incontrovertibile) e, in secondo luogo, quella del Mediterraneo e in particolare
della sua sponda meridionale, presumibilmente il più denso e incombente bacino migratorio mondiale di fine secolo.
… LA COLLOCAZIONE
IN EUROPA
La nuova “questione settentrionale”, dunque, proietta se stessa in un orizzonte che va ben al di là di quello – divenuto sempre più “provinciale” – dei rapporti con Roma e con i poteri centrali nazionali.
La domanda fondamentale che emerge nel nuovo contesto, e che gli individui
e i soggetti collettivi dell’Italia settentrionale si pongono, non è più tanto
*
Cesdi srl, Torino
271
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA:
quella “Come stiamo in Italia?”, quanto quella “Come stiamo in Europa?”,
“Qual è il nostro peso rispetto agli altri europei?”, “Quanto contiamo nel
mercato europeo e globale?”, “Quale ruolo possiamo svolgere nel quadro delle strategie e delle politiche comunitarie?”.
Forse non è un caso, in questa prospettiva interpretativa, che nella politica
italiana l’appeal e la forza elettorale della Lega siano negli ultimi tempi fortemente declinati. La rabbia e il rancore verso Roma, da soli, “non pagano”
più come in passato. Più o meno distintamente, forse tutti ormai percepiscono
che stiamo “cambiando casa”, e che quindi dobbiamo “prendere le misure”
(misurando pesi e spazi reciproci) di questa nuova casa, dove abbiamo
un’identità da costruire e un ruolo da esercitare, dai quali dipendono in misura crescente il nostro presente e il nostro avvenire.
“Fare il punto” sui punti di forza e sui punti di debolezza dell’Italia settentrionale nel contesto europeo, cioè appunto “prendere le misure” nella nuova
casa, diventa quindi un bisogno essenziale per progettare e costruire il futuro
dell’Italia settentrionale.
In sostanza, nella prospettiva del nuovo secolo, si può legittimamente parlare
di una “questione settentrionale” come problema della collocazione dell’Italia
settentrionale nell’Europa.
L’ITALIA
SETTENTRIONALE
COME “SPECCHIO
DELL’EUROPA”
L’Italia settentrionale – va ricordato (come emerge del resto dai contributi di
ricerca che presentiamo) – non ha un’identità economico-sociale del tutto unitaria (è un mosaico di sub-sistemi) né un’identità culturale veramente omogenea né istituzioni macroregionali comuni.
L’Italia settentrionale, in questo senso, è per così dire “specchio”
dell’Europa: come l’Europa, ha un’identità più progettuale e politica che fattuale. Non è tanto quello che è, quanto quello che progetta di diventare. La
sua identità si costruisce di fronte alle sfide che il divenire del tempo progressivamente le pone.
Prima di “tirare i fili” dei numerosi contributi di ricerca che presentiamo sulle
prospettive dell’Italia settentrionale nel Duemila, può essere quindi utile e
opportuno definire quali siano le “sfide” di fronte alle quali l’Italia settentrionale, nel nuovo contesto, a nostro parere si trova. Avremo così un possibile
paradigma di valutazione dei punti di forza e di debolezza , nei diversi campi
indagati, che emergono dai contributi di ricerca.
LE NUOVE SFIDE:
COME “FARE
SISTEMA”
In concreto, queste sfide del nuovo secolo – la cui soluzione configura i termini della nuova “questione settentrionale” – possono essere così delineate:
• Come “fare sistema”, “essere sistema”, e non soltanto un insieme di territori e di istituzioni privi (o poveri) di interconnessioni, risorse, progetti
comuni (incapaci ad esempio, se non forse in tempi “biblici”, di costruire
infrastrutture di trasporto comuni)?
• Come “essere sistema”, ma non soltanto in Italia, bensì nel contesto europeo più avanzato, “gettando ponti” e costruendo interconnessioni verso
l’area forte anglo-franco-tedesca?
• Infine, come – in quanto sistema interconnesso con l’area forte
dell’Europa – “fare cerniera” con le due frontiere (l’Est e il Sud)
dell’Unione, proponendosi come piattaforma in grado di contribuire al
collegamento fra “cuore” e periferie del continente?
272
UNA LETTURA DI SINTESI
LA POPOLAZIONE E LA FORMAZIONE DEL CAPITALE
UMANO: RISCHI E OPPORTUNITÀ PER UNA SOCIETÀ
SEMPRE PIÙ “VECCHIA”
UN’ITALIA DEL
NORD SEMPRE PIÙ
“VECCHIA” …
Il dato demografico, in una qualsiasi analisi prospettica, è per più aspetti una
base utile e opportuna, soprattutto dato che – come osserva Molina nel suo
contributo – offre proiezioni caratterizzate rispetto ad altre (economiche, sociali ecc.) da un minor grado di aleatorietà.
Ciò che emerge in primo piano dall’analisi demografica sull’Italia settentrionale è il processo di invecchiamento: “L’Italia è l’unico grande paese europeo
in cui le persone anziane già oggi superano quelle più giovani. In alcune regioni del Nord il rapporto giovani/anziani è addirittura di due a uno…” (Molina). Di conseguenza l’Italia settentrionale ha crescenti difficoltà a garantire
il ricambio generazionale e la riproduzione del capitale umano.
Dagli anni Novanta, e presumibilmente per i prossimi due decenni, in particolare, si verifica una crescente “rarefazione della clientela universitaria”,
cioè dei giovani compresi fra i 19 e i 24 anni, con conseguenze facilmente
intuibili per il mercato del lavoro, almeno nelle sue fasce più qualificate. “È
quasi superfluo sottolineare – osserva Molina – come dal modo in cui si manifesteranno le possibili carenze di capitale umano discenderà la possibilità, o
l’impossibilità, di realizzare i diversi progetti di sviluppo attualmente proponibili per l’area”.
Se poi l’attenzione si sposta dalle classi giovanili a quelle adulte, si può rilevare come “nei prossimi anni il baricentro della popolazione tenderà a scivolare verso le età mature”. Già oggi l’età media della popolazione settentrionale si colloca intorno ai 42-43 anni, e raggiungerà i 45 nel 2010. È interessante
osservare come i cittadini dell’area abbiano attualmente un’età doppia rispetto a quelli del Nord Africa, una delle due frontiere “calde” dell’Europa comunitaria, e come ciò contribuisca a rendere ancora più complesso e difficile
il dialogo culturale e la mediazione fra queste aree.
… PORTA CON SÉ UN
AUMENTO DELLE
RIGIDITÀ INTERNE AL
SISTEMA
Meno giovani e più anziani significa, secondo l’analisi di Molina, un presumibile “aumento delle rigidità interne al sistema”, proprio mentre, come è noto, quasi universalmente si invoca l’introduzione nella società e
nell’economia di maggiori elementi di flessibilità come condizione necessaria
dello sviluppo.
In specifico, si possono individuare almeno tre fattori di rigidità, derivanti
dall’invecchiamento demografico: le finanze pubbliche, con la prevedibile
riduzione dei margini di manovra per le politiche di bilancio;
l’organizzazione del lavoro (meno flessibilità sul lavoro, tensioni sui costi,
problemi di riqualificazione ecc.); la propensione alla mobilità, che è “variabile in funzione dell’età degli individui”.
“In assenza di correttivi – osserva ancora Molina – la relativa esiguità delle
risorse pubbliche non vincolate, l’espansione dei costi del lavoro, le difficoltà
emergenti nella gestione delle risorse umane da parte delle imprese, la minor
mobilità degli individui sul territorio potrebbero quindi influire negativamente sulle motivazioni occorrenti per nuovi investimenti nell’area, sia da parte
di investitori locali, che da parte di stranieri”. E ciò si innesterebbe – possiamo aggiungere – su una situazione degli investimenti esteri in Italia, in particolare del tipo greenfield, già oggi come è noto assai poco soddisfacente.
273
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA:
I PROCESSI MIGRATORI
IN ENTRATA NON
POSSONO COMPENSARE
IL VENIR MENO DEL
BABY BOOM
… OCCORRONO
DUNQUE POLITICHE
APPROPRIATE
IN PARTICOLARE NEI
SISTEMI FORMATIVI:
PIÙ FLESSIBILI ED
EFFICIENTI
In questo quadro – che unisce elementi preoccupanti a opportunità da cogliere, come vedremo in seguito, attraverso adeguate politiche in particolare formative – si collocano i processi migratori che investono le regioni settentrionali provenendo da aree extra-comunitarie. Sembrerebbero poter contribuire
in modo decisivo, almeno a prima vista, al ricambio generazionale e alla riproduzione del capitale umano.
Ma la tesi di Molina a questo proposito è negativa. “Per compensare l’effetto
strutturale sulla popolazione europea determinato dal venir meno del baby
boom occorrerebbero infatti da 8 a 14 volte in più di immigranti rispetto a
quanti ve ne sono oggi”, e per l’Italia settentrionale, dove la denatalità è particolarmente intensa, occorrerebbero moltiplicatori ancora più elevati. Va osservato, inoltre, che vi sono attualmente anche problemi irrisolti di “qualità”
dei flussi migratori, che implicherebbero politiche selettive, oggi inesistenti
almeno in Italia, volte a favorire segmenti migratori particolarmente qualificati.
La situazione demografica dell’Italia settentrionale – presente e soprattutto
futura – pone dunque problemi e interrogativi e sollecita la necessità di politiche appropriate.
In primo piano emerge la questione dei processi formativi e dei tassi di popolazione attiva: se vi sono minori risorse umane disponibili, bisogna migliorarne la qualità, tentare di “non perdere per la strada nessuno”, aumentare i
tassi della popolazione attiva e utilizzare tutte le risorse latenti. In queste direzioni, vi sono per l’Italia settentrionale – secondo i contributi di ricerca che
presentiamo, in particolare di Molina e Davico – ampi margini di possibilità e
opportunità da cogliere.
Per quanto riguarda i processi formativi, i forti tassi attuali di abbandono e di
dispersione a livello superiore (oltre 200 mila studenti l’anno), l’inefficienza
del sistema universitario (testimoniata in modo evidente dal fatto che in Italia
solo il 10% degli studenti riesce a laurearsi “in corso”, contro il 16% in Germania, il 19% in Olanda, il 26% in Belgio), la debolezza del sistema di formazione professionale (e la quasi assenza di una formazione professionale di
secondo livello post-diploma e post-laurea), il ritardo nella creazione di un
sistema di formazione ricorrente e permanente per adulti (decisivo in un contesto nel quale gli adulti maturi diventano la quota centrale della popolazione) configurano ampi margini di possibile intervento per i poteri pubblici.
Va ancora tenuto presente, in questo quadro, che secondo i più recenti dati
Ocse (relativi al 1996) l’Italia, sesta potenza economica mondiale, è soltanto
al ventitreesimo posto per quanto riguarda la percentuale di popolazione adulta (24-64 anni) con il titolo di studio universitario, con l’8,1% contro il
25,8 degli USA, il 22,5 dell’Olanda, il 13,1 della Germania, il 12,8 del Regno
Unito e della Spagna, il 9,7 della Francia.
Sempre sul piano nazionale, ma con evidenze comunque significative anche
per la sola parte settentrionale dell’Italia, è opportuno ricordare – in connessione alla scarsità dei titoli universitari – che i ricercatori sono soltanto 32
ogni 10 mila lavoratori attivi, mentre sono 92 in Giappone, 78 in Svezia, 74
negli USA (dati Ocse relativi al 1996).
274
UNA LETTURA DI SINTESI
Gli investimenti nella formazione sono quindi la grande sfida che i decisori
politici devono anzitutto cogliere, almeno per garantire una gestione più oculata delle risorse umane (sempre più scarse, come si è visto, in una prospettiva demografica) oggi in buona misura sprecate.
I MARGINI DI MANOVRA
DELL’ITALIA A FRONTE
DEL CALO DEMOGRAFICO E
DELL’INVECCHIAMENTO
DELLA POPOLAZIONE
Anche dal punto di vista dei tassi della popolazione attiva vi sono, per l’Italia
settentrionale, ampi margini di correzione, per recuperare risorse inutilizzate,
dato che, nei confronti con il resto dell’Europa (e pur tenuto conto di
un’ampia area di economia sommersa, superiore a quella di altri paesi), i tassi
di attività italiani per le persone fra i 50 e i 60 anni sono bassissimi, come pure sono bassi i tassi di attività della popolazione femminile. Ma anche in questo caso, occorrono politiche formative adeguate, in particolare politiche per
la formazione ricorrente e degli adulti, volte a rendere concretamente utilizzabili, e non solo a livelli di bassa qualificazione, le risorse umane attualmente marginali e inutilizzate.
In sostanza, come osserva sinteticamente Molina, “Alcune caratteristiche nostrane, che ancora oggi ci distinguono dal resto d’Europa, potrebbero rivelarsi
una sorta di assicurazione contro gli effetti del declino demografico: la massa
di studenti che non riescono a portare a conclusione i cicli scolastici e i corsi
universitari avviati, la maggioranza della popolazione femminile che rimane
ancora estranea al mercato del lavoro, la scarsa attività non solo degli anziani,
ma anche dei cinquantenni, indicano … l’esistenza di abbondanti riserve di
popolazione e garantiscono ampi margini di manovra per attenuare alcune
delle conseguenze dirette dell’evoluzione demografica”.
RICERCA E SVILUPPO, INNOVAZIONE E SISTEMA DELLE
IMPRESE: FORZA E DEBOLEZZA DELL’ITALIA
SETTENTRIONALE NEL CONTESTO EUROPEO
Il livello non soddisfacente di formazione del capitale umano, di cui si è parlato in precedenza, non è evidentemente estraneo alla qualità della R&S e del
sistema delle imprese. Come osserva sinteticamente Vitali nel suo contributo,
non a caso “le imprese del Nord Italia primeggiano a livello internazionale in
settori definibili più o meno tradizionali, quali il tessile-abbigliamento, calzature, mobilio, macchinari. In tali settori le imprese settentrionali vincono la
concorrenza internazionale utilizzando fattori competitivi non-price.., ma non
di tipo tecnologico (al contrario di quanto accade nelle regioni avanzate europee) …”.
LONTANI DAI PRIMI IN
EUROPA SIA NELL’INPUT
TECNOLOGICO (SPESE E
ADDETTI IN R&S)
Più analiticamente, per quanto riguarda l’input tecnologico, il dato relativo
alle spese in R&S, con l’1,2% del Pil nel 1994, conferma che l’Italia settentrionale primeggia tra le regioni italiane e tra gli stati mediterranei (Grecia e
Spagna), ma che è fortemente distaccato dalle regioni e dagli stati del centro
Europa (come Baden Wurttemberg con il 2,9% o Rhone Alpes con il 2,2%,
Francia con il 2,4% o Germania con il 2,3%).
Anche in termini di addetti alla R&S, calcolati sul totale della popolazione
attiva, e in comparazione con le regioni e gli stati dell’Europa più avanzata, il
dato “appare particolarmente basso in tutte le regioni italiane… In negativo,
emerge il dato relativo al Nord Est, a conferma della differenza esistente tra
queste regioni e Lombardia e Piemonte” (Vitali).
275
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA:
… SIA NELL’OUTPUT
TECNOLOGICO (BREVETTI
DEPOSITATI)
I PROBLEMI DI FONDO:
LA DISCRASIA TRA
DOMANDA E OFFERTA DI
INNOVAZIONE
Per quanto riguarda poi l’output tecnologico (cioè i risultati dell’innovazione
tecnologica), che può essere misurato sia in termini di brevetti depositati dalle imprese sia in termini di numero di imprese definibili come “innovative”, i
dati (relativi al 1990-95) evidenziano una situazione ugualmente problematica nella comparazione europea.
“L’output tecnologico, misurato in termini di brevetti depositati dalle imprese, vede le regioni settentrionali, come del resto tutte le regioni italiane, nei
posti più bassi della classifica dei valori assoluti e di quelli normalizzati con
il numero di abitanti presenti… La Lombardia … con 88 brevetti per abitanti
non supera nemmeno la media UE. Tale media è determinata da regioni leader che mostrano livelli altissimi di brevetti per abitanti, quali il Baden Wurttemberg (327), il Bayern (248), la stessa media tedesca (174), a fronte di alcune aree a scarsissima intensità brevettuale, quali Grecia (3 brevetti per
abitante) e Spagna (7)” (Vitali).
Va ancora segnalato che fra il 1990 e il 1995 la dinamica brevettuale italiana
e settentrionale ha manifestato pochi casi di miglioramento (in particolare
l’Emilia Romagna), mentre le più forti regioni del Nord hanno evidenziato un
sensibile arretramento (la Lombardia con meno 9% e il Piemonte con meno
18%) nelle loro posizioni.
I problemi di fondo, che emergono dall’analisi relativamente ai processi di
innovazione tecnologica delle imprese dell’Italia settentrionale, possono essere delineati sinteticamente nel modo seguente:
• l’elevata presenza di piccole imprese riduce la possibilità di attivare progetti di R&S dotati di quella massa critica che è necessaria a superare le
alte barriere all’ingresso nei settori delle nuove tecnologie;
• la domanda di innovazione da parte delle imprese è fortemente parcellizzata e si traduce nella richiesta di tecnologie non standardizzate (a fronte
di un’offerta che ricerca invece economie di scala in progetti ampi e coinvolgenti un gran numero di imprese), a causa della forte propensione
delle imprese italiane a differenziare i prodotti per fare fronte alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo, che, come è noto, risulta vincente nei
prodotti più standardizzati e di bassa qualità;
• le innovazioni introdotte derivano generalmente dall’esperienza accumulata o dalle conoscenze create in altri settori o imprese, più che da un
processo formalizzato di R&S;
• le piccole imprese settentrionali hanno bisogno in genere di un “sapere”
molto pratico e specifico, e ciò rende difficili i rapporti con enti pubblici
di ricerca e università, che hanno propensioni e capacità di tipo più teorico e generale;
• vi è dunque, per concludere, una relativa discrasia fra domanda e offerta
di innovazione, e ciò vale non solo per le università e gli enti pubblici di
ricerca, ma anche per quanto riguarda l’offerta che proviene dai centri di
servizio per l’innovazione tecnologica, diffusi particolarmente nelle areedistretto, che pure sono maggiormente a contatto con le imprese e con i
loro bisogni.
È certamente possibile obiettare che questa analisi, nel suo relativo pessimismo, non sembra rendere conto delle ragioni dei successi delle imprese settentrionali nella competizione internazionale, ma il fatto è che queste ragioni
sembrano essere solo scarsamente di tipo tecnologico.
276
UNA LETTURA DI SINTESI
L’INNOVAZIONE
ORGANIZZATIVA COME
PUNTO DI FORZA DELLE
IMPRESE DISTRETTUALI
IL MODELLO INNOVATIVO
DELL’ITALIA DEL NORD:
LUCI
Come osserva Vitali, “I fattori che consentono alle piccole imprese dell’Italia
settentrionale di essere competitive a livello internazionale sono solo in parte
di tipo tecnologico, nell’accezione più pura del termine… Infatti, da numerose indagini svolte sui fattori che rendono competitive le imprese distrettuali
emerge come l’innovazione più importante per tali imprese sia quella di tipo
organizzativo: il modo di produrre, che si materializza nell’insieme delle relazioni fra le imprese, è diventato un importante elemento per determinare la
vittoria internazionale di tale tipo di imprese”. Anche se – osserva ancora Vitali – è sicuramente vero che all’interno di queste innovazioni organizzative
vi sono probabili componenti tecnologiche, relative ad esempio a nuovi materiali, a nuovi processi di lavorazione, a nuovi macchinari, a nuovi approcci e
metodologie nella logistica.
Nell’attuale modello di sviluppo settentrionale, guardato in particolare dal
punto di vista dell’innovazione tecnologica, emergono quindi non solo aspetti
positivi, ma anche notevoli motivi di preoccupazione.
I primi sono relativi alla capacità di adattamento incrementale e di integrazione fra i diversi fattori competitivi (oltre alla tecnologia, il marketing, la
pubblicità, il design, la qualità di processo ecc.) dimostrata dal sistema di imprese, con risultati ben visibili sul piano dei risultati commerciali.
… ED OMBRE
I secondi, che più interessano in questa sede anche nella prospettiva di un ripensamento delle politiche, consistono nella mancanza di posizione di avanguardia nelle innovazioni radicali, nei rischi di spiazzamento in presenza di
forti innovazioni tecnologiche, nella difficoltà all’impiego di capitale di rischio finalizzato all’innovazione tecnologica.
“Purtroppo – osserva Vitali – è ormai un dato acquisito come l’industria italiana abbia ormai perso il treno della specializzazione nei settori high-tech,
quali le biotecnologie, la chimica fine, il farmaceutico, i personal computer,
gli apparati di telecomunicazione, il software, la micromeccanica”. Ciò non
esclude, tuttavia, che sia possibile recuperare posizioni o insediarsi (come già
alcune imprese settentrionali hanno fatto, ad esempio nel campo della meccatronica) in particolari “nicchie” di alta tecnologia.
PREOCCUPA,
L’unico aspetto sicuramente negativo – osserva ancora Vitali – è che comunque allo stato dei fatti “la struttura industriale del Nord Italia non è posizionata nei comparti dell’economia a forte crescita, e quindi che essa può aumentare le quote di mercato solo a scapito delle attività dei concorrenti”.
In altre parole, latitano nuovi prodotti e nuovi mercati, e quindi non esistono
adeguati “motori” dello sviluppo, né interno all’area né – tantomeno – esterno ad essa, nella direzione di quelle “frontiere” a Sud e ad Est di cui si è parlato in precedenza.
Non a caso la finalità degli investimenti produttivi nell’area mediterranea (in
settori come tessile-abbigliamento e calzature) “è soprattutto di tipo resource-seeking, cioè l’impresa dell’Italia settentrionale è indotta ad investire in
tali paesi mediterranei per sfruttare i minori costi dei fattori produttivi, lavoro
in primis” e, per quanto riguarda l’Est, oltre a questa finalità, “vi è l’obiettivo
di aprire nuovi sbocchi di mercato” (Vitali). Il trasferimento tecnologico che
si realizza è quindi molto limitato, anche se può indubbiamente contribuire a
qualche positivo sviluppo per i paesi destinatari almeno in settori tradizionali
e maturi.
SOPRATTUTTO, LA SCARSA
PRESENZA NEI COMPARTI
PRODUTTIVI A FORTE
POTENZIALITÀ DI
CRESCITA
277
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA:
LA NASCITA DI NUOVE
IMPRESE:
I RISCHI DEL “NANISMO”
IMPRENDITORIALE
I limiti tecnologici e di innovazione del sistema imprenditoriale settentrionale
emergono anche dall’analisi delle dinamiche della neoimprenditorialità, condotta nel contributo di Bordino. Se è vero, infatti, che nascono molte nuove
imprese e se è vero che la densità imprenditoriale italiana primeggia in Europa, è altrettanto vero che diminuisce parallelamente la dimensione media delle imprese e che, di conseguenza, il nostro paese “primeggia” anche per il
“nanismo” del suo sistema industriale. Sul piano nazionale, come risulta dal
Censimento intermedio dell’industria e dei servizi, il numero medio di addetti
non ha fatto che scendere nel corso degli anni: da 7,7 per azienda nel 1991 a
6,5 nel 1996. E, in questo quadro, anche il Nord più sviluppato non fa eccezione, e continua anzi a caratterizzarsi sempre di più per la carenza di imprese grandi ed anche medie, particolarmente significativa se vista comparativamente nel contesto europeo.
Le imprese nuove che nascono, in sostanza, nascono piccole e, soprattutto,
restano piccole: troppo spesso non riescono a raggiungere quella dimensione
critica che consentirebbe loro di accedere al capitale di rischio, di ottenere
finanziamenti all’innovazione, di realizzare processi adeguati di R&S, di
concepire nuovi prodotti e di aprire nuovi mercati, di entrare in quei circuiti
distributivi globali che sempre più, come è evidenziato nel contributo di Lecca sulla distribuzione commerciale, condizionano e in qualche misura si impongono ai sistemi produttivi.
Certamente, a questa analisi preoccupata si possono fare, e vengono fatte, tre
tipi di legittime obiezioni: la prima, è che la riduzione della dimensione media è in qualche misura fisiologica in quanto “figlia” di processi di modernizzazione come l’outsourcing, le reti, la terziarizzazione dell’economia in generale; la seconda è che l’esistenza e la forza, tipicamente italiane e
settentrionali, dei distretti e dei sistemi locali di impresa compensa e surroga
il nanismo delle singole unità produttive; la terza, infine, è che la crescita dei
“gruppi”, costituiti da imprese giuridicamente autonome ma “tenute insieme”
da un’unica proprietà, corregge e compensa a sua volta la ridotta dimensione
media delle singole imprese.
Come risulta dal contributo di Bordino, si tratta tuttavia di “correttivi” che
non consentono di eliminare dubbi e preoccupazioni.
Anzitutto outsourcing, reti, terziarizzazione non sono fenomeni soltanto italiani, ma francesi, tedeschi, inglesi ecc.: eppure, in quei paesi non vi è il crescente “nanismo” imprenditoriale italiano.
In secondo luogo, distretti e sistemi locali di imprese rappresentano un modello vincente (ma, come risulta dai dati più recenti sul commercio estero, in
alcuni settori sempre meno vincente, di fronte alla concorrenza dei paesi in
via di sviluppo) nei settori tradizionali e maturi del “made in Italy”, ed è invece molto dubbio che “i problemi derivanti dalla scarsa, ed anzi sempre più
debole negli anni, presenza italiana nei settori ad alta tecnologia possano essere affrontati attraverso il modello tradizionale dei sistemi di piccola impresa…” in quanto appare probabile che “nessuna economia esterna derivante
dal territorio possa compensare davvero le carenze di investimenti ad effetto
differito e di innovazione derivanti dalla dimensione media troppo piccola
delle imprese” (Bordino).
In terzo luogo, la crescita dei “gruppi” è stata comunque minore che in altri
paesi, non ha riguardato i settori a più elevato contenuto tecnologico e non ha
278
UNA LETTURA DI SINTESI
prodotto sostanziali incrementi occupazionali, in quanto nuova occupazione
si crea solo essendo presenti e sviluppando nuovi prodotti e nuovi mercati.
In sostanza, è possibile affermare, e con legittima preoccupazione, che le dinamiche della neoimprenditorialità in atto continuano a riprodurre ed anzi ad
ampliare, nel nostro paese, e in specifico nella sua parte settentrionale, il modello delle piccole imprese corretto al più dalle “economie esterne” dei sistemi locali, proprio mentre tuttavia questo modello – fondato sulla ricerca costante di “economie di diversità” e di “nicchie” di mercato molto segmentate
in settori prevalentemente tradizionali e maturi -– negli anni Novanta è probabilmente in fase di esaurimento, di fronte alla nuova realtà dell’Europa
come economia ormai “domestica”, della globalizzazione come orizzonte
competitivo ineludibile per tutti, dei mercati virtuali come nuova frontiera
dello “stare sul mercato”, dei grandi circuiti distributivi transnazionali e
mondiali come nuovi “signori” per un numero crescente di settori produttivi.
PRODUZIONE MANIFATTURIERA E TERZIARIO DI
SERVIZIO: PRIMATO IN ITALIA, MA COLLOCAZIONE
PERIFERICA IN EUROPA
Nel loro contributo sul sistema industriale del Nord Italia, Russo e Vitali evidenziano, anzitutto, da un lato il peso relativo centrale dell’area nel contesto
nazionale (l’industria settentrionale come “cuore” del sistema, con il 79,9%
degli addetti nazionali), d’altro lato le sue caratteristiche strutturali, fondate
sul modello organizzativo settorial-territoriale dei “distretti”, con le loro particolari specializzazioni produttive.
“Noi nutriamo il dubbio – osservano a questo proposito fin dall’inizio gli Autori – che i vantaggi competitivi scaturenti dalle specializzazioni distrettuali
possano, da soli, rimediare agli svantaggi e alle debolezze eventualmente emergenti in altri campi”.
È DUBBIO CHE
L’ECONOMIA
DISTRETTUALE , DA SOLA,
POSSA CONTINUARE A
SORREGGERE LO SVILUPPO
INDUSTRIALE
Questo dubbio, nell’analisi di Russo e Vitali, è fondato su molteplici ragioni,
relative non solo alla realtà settentrionale, ma più in generale all’intero sistema industriale italiano:
• lo scarso sviluppo relativo della produzione industriale italiana relativamente ad altri paesi avanzati fra il 1993 (anno della ripresa produttiva,
grazie alla svalutazione seguita alla crisi monetaria del 1992) e il 1998
che, a differenza di quanto avvenuto in altri paesi come Regno Unito e
Olanda, si è anche accompagnato alla mancata crescita del settore dei
servizi;
• gli elevati indici di specializzazione, in comparazione internazionale, nei
settori tradizionali (cuoio, calzature, tessile, abbigliamento, mobile, ma
anche meccanica, beni strumentali ecc.) e, nello stesso tempo, i bassi indici di specializzazione in settori come la chimica, l’elettronica,
l’automobile ecc.;
• la costante diminuzione relativa di imprese ad alta intensità di capitale
nel corso degli anni Novanta;
• la scarsa crescita relativa nei settori high-tech, in comparazione a paesi
come Francia o Gran Bretagna;
279
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA:
•
la debolezza relativa dei flussi di investimenti dall’estero e all’estero (su
cui si veda lo specifico contributo di Cominotti).
Secondo l’analisi di Russo e Vitali, si può ipotizzare che “non vi è stato un
radicale cambiamento delle specializzazioni dell’industria italiana in accordo
con la domanda mondiale di prodotti e servizi a forte contenuto tecnologico e
innovativo, in grado di remunerare con un premio di prezzo i fattori che li
producono” e, in questo quadro, “il mantenimento delle specializzazioni tradizionali è stato realizzato pagandone il costo in termini di ‘dimagrimenti
produttivi e occupazionali’, piuttosto sensibili, non compensati da una pari
crescita di settori e vocazioni nuove”.
In questa prospettiva interpretativa, il fenomeno “distretti” può essere visto
essenzialmente come un “eccellente esempio di adattamento imprenditoriale
e territoriale a una serie di vincoli del sistema…” relativi sia alle risorse finanziarie sia a quelle umane.
In sostanza, si tratta quindi di un fenomeno che non può, da solo (proprio
perché si tratta ora di rimuovere questi vincoli, non di continuare ad adattarvisi), garantire il futuro sviluppo, nel nuovo contesto competitivo, del sistema
industriale italiano, né tantomeno di quello settentrionale.
Venendo ora a quest’ultimo, si può rilevare, secondo gli Autori, come nel
corso degli ultimi decenni sia progressivamente cresciuto proprio il peso dei
settori tradizionali del “made in Italy” sull’insieme dei settori e sul complesso
dell’economia nazionale: “…si nota una netta specializzazione del Nord Italia
rispetto al resto della nazione: l’indice di specializzazione settoriale del complesso dei settori tradizionali è di 1.5…indicando quindi che il peso di tale
macro-comparto nell’Italia del Nord (64% dell’occupazione complessiva) è
maggiore di circa il 50% del peso di tale comparto nell’industria italiana
(43% dell’occupazione complessiva)”.
Possiamo dire, in sintesi, che proprio da questo quadro evolutivo, ricostruito
da Russo e Vitali, si evidenzino la forza (presumibilmente più per il passato
che per il futuro) e nello stesso tempo la debolezza (che è lecito temere per il
futuro) del sistema industriale dell’Italia settentrionale nel contesto internazionale.
“Made in Italy”, distretti, macchinari industriali per il “made in Italy” sono
stati senza dubbio, e in parte sono ancora, i cardini non solo dello sviluppo
settentrionale, ma anche della complessiva forza competitiva del sistema economico italiano sui mercati mondiali, ma è per lo meno incerto che possano continuare ad esserlo, e nella stessa misura, anche in futuro.
I RISCHI DI
DEINDUSTRIALIZZAZIONE
Dalla ricostruzione di Russo e Vitali emerge poi uno specifico motivo di
dubbio, di grande rilevanza anche sociale, sulle vicende del sistema produttivo settentrionale negli ultimi decenni: la riduzione degli occupati manifatturieri che è avvenuta nel corso del tempo è espressione di un processo di
“deindustrializzazione” o soltanto (nell’ipotesi migliore) di “riorganizzazione
delle fasi produttive”?
La legittimità della preoccupazione (e sul punto si veda anche, a conferma, il
contributo di Bordino sulla neoimprenditorialità) deriva dal fatto che “parziali conferme del processo di deindustrializzazione in atto nascono dalla constatazione che le imprese ‘innovative’ non vengono localizzate nell’Italia del
Nord Ovest, ma in altre regioni europee, evidenziando un deficit di rigenera-
280
UNA LETTURA DI SINTESI
zione imprenditoriale dell’area da cui il mercato sta eliminando le produzioni
obsolete”.
È vero che su questi problemi il dibattito fra gli economisti è aperto, come
osservano Russo e Vitali, “tra chi prevede una sostanziale tenuta delle produzioni manifatturiere e la maggiore importanza dei ‘servizi avanzati’ per il sistema manifatturiero stesso”, ma i dubbi sulla tenuta dovrebbero per lo meno
alimentare un’adeguata riflessione sulle politiche opportune per prevenire i
rischi (se non le certezze) di decadenza, anche in considerazione del fatto che
– come emerge dal contributo di Iano sui servizi alle imprese – la realtà e le
prospettive del terziario avanzato settentrionale non appaiono, allo stato delle
cose, per nulla rassicuranti.
UNA RITROVATA
CENTRALITÀ DELLA
GRANDE IMPRESA
IL RUOLO DEI BUSINESS
SERVICES
Vi è ancora un ulteriore elemento di valutazione da evidenziare circa il sistema manifatturiero settentrionale, che emerge particolarmente sia dal contributo di Russo e Vitali sia da quello di Bordino, relativo ai rapporti fra la dimensione di impresa e la capacità competitiva del sistema stesso. Se “all’inizio
degli anni Ottanta le piccole dimensioni si trovano notevolmente avvantaggiate sulle grandi…la rivincita e il recupero della grande impresa avvengono
negli anni Novanta grazie, nuovamente, all’evoluzione tecnologica. L’uso
dell’informatica assume un aspetto sistemico con la sua estensione dall’area
meramente produttiva a tutte le rimanenti funzioni aziendali … Solo la grande impresa può permettersi di effettuare gli elevati investimenti che le innovazioni di sistema comportano, talvolta aiutata in ciò dai freschi capitali raccolti in borsa … Negli anni Novanta, il ritorno dell’importanza delle
economie di scala avviene in nuovi ambiti di applicazione: non più economie
di scala tecniche, che afferiscono all’ampiezza degli stabilimenti produttivi,
ma soprattutto economie di scala economiche, finanziarie, distributive, tecnologiche, di gamma prodotta. In questo contesto di ripresa della grande impresa, le imprese del Nord Italia registrano dimensioni nettamente inferiori ai
concorrenti europei, sollevando alcuni dubbi sulla loro capacità di contenere
la concorrenza dei grandi gruppi internazionali” (Russo e Vitali).
Va ancora ricordato che il ritorno di importanza delle economie di scala è anche determinato, alla fine degli anni Novanta, dalla realizzazione della moneta unica europea, “un ulteriore catalizzatore dello sviluppo della grande dimensione: i vantaggi di efficienza garantiti dai minori costi transazionali che
la moneta unica consente sono sfruttati soprattutto dalle grandi dimensioni
che operano in tutto il mercato europeo come se si trattasse di un grande mercato domestico. Chi non ha le dimensioni per fare ciò … non può sfruttare i
benefici dell’Unione Economica e Monetaria, subendone comunque la maggiore concorrenza determinata dalla trasparenza dei prezzi” (Russo e Vitali).
Accanto ai settori manifatturieri, un ruolo sempre più decisivo è svolto nelle
economie attuali – come è noto – dai settori terziari di servizio alle imprese
(o Business Services – BS), sui quali si sofferma lo specifico contributo di ricerca di Iano. Si tratta di un aggregato molto eterogeneo di attività, delle quali sono prese in particolare considerazione, con riferimento ai dati del Censimento intermedio Istat 1996, l’informatica e le attività connesse, la ricerca e
sviluppo, i servizi professionali e imprenditoriali.
Come rileva Iano, analizzando i dati in base a diversi indicatori di densità (rispetto a popolazione, occupati totali e addetti alle imprese) e scorporando
dall’insieme del BS le attività di tipo più moderno o potenzialmente innovativo, “il fatto che nel Nord Italia si concentri una quota importante
281
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA:
dell’offerta nazionale di Business Services di tipo moderno (63%) qualifica
certamente l’economia di questo territorio, ma in misura che è sostanzialmente coerente con le dimensioni del suo sistema di imprese e, quindi, poco più
che in linea con il suo potenziale interno di domanda”.
Nel quadro delineato, emerge come sul piano nazionale solo in tre regioni –
Piemonte, Lombardia e Lazio – la presenza di forme moderne di servizio alle
imprese ecceda la media nazionale qualunque sia il parametro di riferimento
in base al quale si propone il confronto.
Nel Nord, Piemonte e Lombardia sono il “cuore” del sistema terziario avanzato, con al centro i nodi urbani di Milano e Torino: aree nelle quali si concentra, non a caso, “la presenza di grandi imprese, delle sedi di grandi gruppi
o di centri direzionali, di istituzioni e centri culturali che esprimono direttamente o generano indirettamente livelli di domanda più elevati in termini di
servizi avanzati e di funzioni terziarie innovative” o, ancora, aree in cui “si
collocano le più importanti infrastrutture di mercato, o principali snodi dei
trasporti e delle comunicazioni…” (Iano).
Ma ciò che è necessario chiedersi, al di là del noto e prevedibile primato del
Nord in Italia, “è…se il Nord dell’Italia, attraverso i poli terziari lombardo e
piemontese, possa aspirare ad una posizione di centralità su scala continentale o se al contrario Milano e Torino non si limitino invece a svolgere un ruolo
di raccordo tra le aree forti dell’Europa e un Nord dell’Italia, magari ricco e
con una solida base industriale, ma sostanzialmente periferico nella gerarchia
dei territori del continente per quanto riguarda talune funzioni che sono strategiche per il governo ed il controllo di processi economici” (Iano).
Ciò che emerge a questo proposito, utilizzando i dati relativi alla voce “servizi alle imprese” di UIC-Banca d’Italia per quanto riguarda l’interscambio con
l’estero, è anzitutto che “circa i quattro quinti del movimento compete al
Nord Italia e che in particolare quasi i due terzi riguardano l’area di Nord
Ovest”, e soprattutto i poli urbani di Milano (40,9% dell’interscambio) e, in
misura molto minore, di Torino (11,3%).
In secondo luogo, ciò che balza in evidenza è che il saldo degli scambi con
l’estero è fortemente passivo. Per quanto riguarda il Nord Italia, nel 1998 i
crediti del periodo hanno coperto poco più del 70% dei debiti, e il saldo negativo ha rappresentato il 16,4% del corrispondente movimento.
Questo saldo negativo si determina per quasi tutte le voci attraverso le quali
gli interscambi di servizio vengono classificati, come ad esempio pubblicità,
ricerche di mercato, servizi tecnologici e ancor più servizi informatici, per i
quali l’export copre soltanto una modesta quota (37%) del valore importato.
Ancora, è importante osservare come nell’interscambio di servizi vi sia per
l’Italia, e in specifico per il Nord, un ristretto numero di paesi di riferimento,
imperniato su Stati Uniti e Gran Bretagna (e in secondo piano Francia, Germania, Svizzera, Paesi Bassi e Belgio), nei confronti dei quali il nostro paese
si pone decisamente come un importatore netto di servizi.
In sostanza, i movimenti sia in entrata che in uscita riguardano esclusivamente le economie forti e i paesi avanzati, mentre non si evidenzia quasi per nulla
un export diretto di servizi verso aree economiche – significative dal punto di
vista di un eventuale ruolo di “cerniera” del Nord Italia verso le “frontiere”
dell’Europa comunitaria – come il Nord Africa o l’Est europeo.
282
UNA LETTURA DI SINTESI
IL SISTEMA DEI SERVIZI
ALLE IMPRESE: LE
DIFFICOLTÀ AD ESSERE
PUNTO DI RIFERIMENTO
PER IL SUD E L’EST
“È evidente … dall’insieme dei dati – osserva Iano nella sua analisi – che il
sistema economico italiano ed anche quello del Nord Italia non appare in
grado di sviluppare autonomamente, ed in misura adeguata, molte funzioni di
terziario moderno, né tanto meno di proporsi come bacino di offerta di rilievo
internazionale e strutturato per proporsi complessivamente come area di riferimento su scala continentale”.
Il Nord Italia, come del resto in qualche misura anche la Germania, sembra
quindi conservare il suo punto di forza economico nel settore manifatturiero,
dove peraltro – come si è visto in precedenza – i problemi e i fattori di indebolimento sono consistenti e crescenti.
Del resto, è evidente che fra i due fenomeni vi sono rilevanti interazioni funzionali, dato che alcune caratteristiche (prevalenza di settori tradizionali, basso livello tecnologico, piccola dimensione delle imprese, scarsa innovatività
di prodotto ecc.) del sistema manifatturiero, che pure – è bene ricordarlo –
sono il punto di forza italiano e settentrionale, sono tali da generare una scarsa propensione del sistema stesso a “consumare” servizi e in particolare a incorporare quelle risorse professionali qualificate e innovative che il terziario
“moderno” è chiamato a produrre.
Va infine rilevato come alcuni dati comparativi a livello europeo (Eurostat,
1997) relativi al terziario di servizio – e in particolare alle ricerche di mercato, alla spesa pubblicitaria e ai servizi di informazione elettronica – confermino il relativo “pessimismo” di questa analisi. Si tratta di dati nazionali ma,
tenuto conto del rilievo preminente del Nord in questi segmenti di servizi,
possono essere considerati significativi anche per la sola Italia settentrionale.
Per la pubblicità, ad esempio, in termini di spesa pro-capite l’Italia si colloca
al penultimo posto della graduatoria dei paesi comunitari, dietro a Spagna e
Grecia. Per i servizi di informazione elettronica la domanda interna è poco
più di un quarto di quella inglese ed è poco più della metà di quella tedesca e
francese.
Un quadro particolarmente significativo della realtà e delle prospettive
dell’Italia settentrionale nell’area del terziario avanzato emerge, infine,
dall’esame del settore e del mercato dell’information technology visti nella
loro globalità (hardware, software e servizi), dato il loro crescente ruolo strategico nell’economia contemporanea.
ALCUNI SEGNALI DEL
RITARDO ITALIANO IN
EUROPA NEL SETTORE
DELL’INFORMATION
TECHNOLOGY
In questo campo, come rileva Iano nel suo contributo, molteplici segnali evidenziano il ritardo italiano, anche del Nord sviluppato:
• la spesa EDP pro-capite in Italia è circa la metà di quella francese, tedesca, inglese;
• la consistenza relativa del parco installato di personal computer (10,3 PC
per abitante) è ben lontana dagli standard europei;
• il mercato delle tecnologie informatiche (16,3 miliardi di ECU nel 1998)
ha dimensioni molto inferiori a quello francese (34,1), a quello inglese
(40,4) e a quello tedesco (44,9);
• inoltre i tassi di crescita di questo mercato, pur essendo superiori a quelli
del Pil, sono più lenti che altrove, anche negli ultimissimi anni, e comunque si collocano nettamente sotto la media europea non solo per il passato
ma anche secondo le previsioni per l’immediato futuro;
283
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA:
• è rivelatore del ritardo italiano anche il modesto assorbimento di prodotti/servizi di provenienza diretta dagli Stati Uniti, cioè dal paese che detiene la leadership tecnologica nel settore: l’Italia rappresenta solo 1,7%
dell’export di prodotti software americani, contro il 3,7 della Francia, l’8,2
della Gran Bretagna e l’8,4 della Germania (dati 1994).
In sostanza – come osserva Iano nel suo contributo – “questo e numerosi altri
indicatori … dimostrano una volta di più che l’Italia, oltre ad esprimere una
domanda debole e a dipendere in misura rilevante dall’estero, si inserisce in
una posizione piuttosto marginale nei circuiti di interscambio internazionale
attraverso i quali si alimenta lo sviluppo del settore dell’IT”.
Guardando più in specifico alla sola Italia del Nord, il quadro valutativo non
cambia. Se si considera infatti un’area territoriale europea “forte” come quella comprendente Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo – di dimensioni simili a
quelle del Nord Italia (26 milioni di abitanti contro 25,2) – si vede che in
quell’area il mercato dell’IT nel 1998 raggiunge i 15,4 miliardi di ECU, cioè
una cifra prossima non a quella del solo Settentrione ma dell’intero mercato
nazionale italiano.
“È indubbio pertanto – conclude Iano – che anche sul piano dell’IT il livello
raggiunto dall’Italia del Nord, sia pure con divari attenuati, rimane distante
da quello dei paesi economicamente più sviluppati, soprattutto da quell’area
che, facendo perno su capitali e importanti città e sedi europee, come Londra,
Parigi, Amsterdam, Bruxelles, si è da tempo candidata come sistema integrato e interdipendente di poli terziari avanzati del continente”.
SENZA RETI NIENTE EUROPA:
TERZIARIO E FINANZA, INFRASTRUTTURE, CITTÀ E
ISTITUZIONI COME DECISIVI “FATTORI DI RETE” PER
L’ITALIA SETTENTRIONALE NEL NUOVO SECOLO
L’analisi del sistema terziario di servizio alle imprese riconduce la riflessione
sull’Italia settentrionale ad un tema generale di importanza decisiva per le
sorti dell’area, come del resto di qualsiasi territorio che sia coinvolto nel processo di globalizzazione: quello delle reti, cioè dei sistemi di interconnessione, di varia lunghezza (reti lunghe, brevi ecc.) e natura (di trasporto, di comunicazione, finanziarie, distributive ecc.) fra i diversi attori economici e
sociali e fra i diversi territori.
Anche i servizi alle imprese danno vita a processi di rete, a sistemi di interconnessione che irraggiano i territori, fanno comunicare e incontrare gli attori, favoriscono le collaborazioni e i “matrimoni” fra imprese. In questo senso,
possono essere considerati decisivi “fattori di rete”, accanto agli altri sopra
indicati.
Come è noto, “essere in rete” e “fare rete”, nell’economia globalizzata, è
sempre più un fattore competitivo di importanza decisiva, da cui dipende in
buona misura il successo o l’insuccesso degli attori di mercato. Sono infatti le
reti che consentono il passaggio (delle risorse, delle persone, delle imprese
ecc.) dal “locale” al “globale” e, circolarmente, ancora dal “globale” al “locale”. Senza reti, il circolo virtuoso non si instaura o, nel migliore dei casi, almeno si interrompe.
284
UNA LETTURA DI SINTESI
È quindi legittimo e opportuno chiedersi, in relazione alla riflessione sulle
prospettive dell’Italia settentrionale nel Duemila, quale sia lo “stato di salute”
di quest’area in termini di reti e di interconnessioni di rete.
LE RETI DEL TERZIARIO
D’IMPRESA: UN
INTERSCAMBIO PASSIVO
CON L’ESTERO
Per quanto riguarda il terziario di servizio alle imprese, come si è visto in
precedenza, si tratta di uno “stato di salute” almeno problematico. I soggetti
terziari settentrionali che “fanno rete”, con le loro molteplici e complesse
funzioni relazionali, non coprono neppure il fabbisogno degli operatori economici dell’area, tant’è che l’interscambio con l’estero è nettamente passivo.
E, nello stesso tempo, questi soggetti non hanno evidentemente neppure le
potenzialità per agire come “fattori di rete” fuori dall’area, in particolare verso quelle “frontiere” (Est europeo e Mediterraneo) dove si dovrebbero esercitare le vocazioni “mediatrici” – indotte anzitutto dalla geografia – del sistema
economico e della società dell’Italia settentrionale.
Ma i contributi di ricerca che presentiamo consentono un’analisi e una valutazione anche su alcuni altri essenziali “fattori di rete”: il sistema finanziario,
alimentato dal risparmio prodotto nell’area; la distribuzione commerciale,
sempre più dominata da grandi gruppi globali; le infrastrutture di trasporto,
che interconnettono o dovrebbero interconnettere “fisicamente” gli attori dentro e fuori l’area; i centri urbani, che costituiscono i fondamentali “poli” e
“nodi di interconnessione” di qualsiasi sistema territoriale di rete.
Anche se non esaustiva, l’analisi contenuta nei diversi contributi di ricerca
può offrire quindi un quadro complessivo di valutazione del “fare rete” e dello “stare in rete” di cui è attualmente – e in qualche misura anche in una prospettiva di breve periodo – capace l’Italia settentrionale.
Può anche offrire – crediamo – una prima possibilità di riflessione sulle politiche attualmente realizzate nei diversi campi e, soprattutto, su quelle che dovrebbero essere avviate per rendere migliori e più garantite le prospettive di
sviluppo dell’Italia settentrionale nel nuovo secolo.
UN RISPARMIO DA
PRIMATO
… MA NON PIÙ COSÌ
SOVRABBONDANTE
Una prima riflessione emerge dai contributi di ricerca di Russo sul futuro del
risparmio dell’Italia padana e di Rossi sul sistema finanziario dell’area.
La capacità di risparmio dell’Italia, e in particolare della sua parte settentrionale, ha raggiunto in passato – come è universalmente noto – livelli da primato. Questo risparmio, essenzialmente delle famiglie, ha contribuito in modo
decisivo non solo al finanziamento del sistema imprenditoriale ma anche ai
più generali successi dell’economia italiana nella competizione internazionale
e ancora, con la sottoscrizione del debito, alla “tenuta” della finanza pubblica
negli anni della spesa facile.
Tuttavia, come osserva Russo, a fine secolo ormai “il risparmio delle famiglie italiane, anche settentrionali, non è più così sovrabbondante. È un fatto
che la propensione al risparmio delle famiglie eccedesse nel 1980 di ben 11
punti la media dei paesi europei (23 per cento contro il 12 per cento); nel
1990 il vantaggio si era ridotto a soli 7 punti (17 contro 10 per cento) e nel
1998 i due valori, italiano ed europeo, si sono rivelati schiacciati intorno
all’11 per cento”.
Ma ciò che più interessa, ai fini della prospettiva di riflessione sulle reti che
abbiamo avviato in queste pagine, non è tanto il problema dell’entità del risparmio, quanto quello dei canali che lo convogliano, o meno, a finanziare i
285
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA:
soggetti e i progetti dell’area settentrionale (oppure lo fanno “deviare” in
luoghi più attraenti e lontani), cioè in altre parole un problema di reti e di servizi finanziari.
“Il quadro delle risorse finanziarie endogene delle regioni della pianura padana – osserva Russo – è del tutto confortante, se si ragiona sull’entità attuale di
tali risorse; esso diviene problematico se invece si cercano di proiettare gli
scenari futuri. Pur costituendo uno dei bacini di ricchezza e risparmio più importanti d’Europa, in un contesto di progressiva liberalizzazione dei flussi di
investimento e di moltiplicazione dei canali di intermediazione finanziaria,
rispetto al tradizionale canale bancario, le minacce di abbandono regionale di
una quota crescente degli impieghi sono realistiche”.
… E NON PIÙ SALDAMENTE
ANCORATO AL TERRITORIO
DEL NORD ITALIA
I PROBLEMI DEL SISTEMA
FINANZIARIO
SETTENTRIONALE: DAL
LATO DELLA DOMANDA
… E DAL LATO
DELL’OFFERTA
Più precisamente, Rossi nel suo contributo sul sistema finanziario segnala
che “dal 1990 al 1998 la quota di depositi bancari detenuti dalle famiglie è
passata dal 28 al 16% mentre i fondi comuni sono cresciuti dal 2 all’11%. Si
è registrata, di fatto, una sottrazione del risparmio dai tradizionali centri di
allocazione, le banche, a vantaggio di gestori professionali che investono il
denaro raccolto in una dimensione non più locale, ma internazionale”.
Dal canto loro, nel contempo, anche le imprese hanno modificato i loro comportamenti, realizzando un allargamento territoriale delle attività finanziarie e
moltiplicando i loro investimenti all’estero.
In questo nuovo quadro – destinato ad assumere “colori” sempre più marcati
a causa degli sviluppi dell’unione economica e monetaria europea e della
globalizzazione dei mercati – diventa decisivo per le sorti dell’Italia settentrionale lo “stato di salute” del suo sistema finanziario, cioè dei servizi, dei
canali e delle reti che possono convogliare più o meno efficacemente i capitali, tanto endogeni quanto esogeni, verso l’impiego nell’area, oppure “deviarli” o lasciarli andare altrove.
Nell’Italia settentrionale, come è noto, vi è un unico, grande e decisivo “polo” finanziario, quello di Milano. Ebbene, “la piazza di Milano mostra un generale svantaggio competitivo rispetto alle maggiori piazze europee e, anche
se più ridotto, rispetto a piazze minori come Bruxelles, Copenhagen e Madrid. Le manifestazioni più evidenti di questa debolezza sono una Borsa valori sottodimensionata, il ritardato sviluppo di un mercato dedicato alle Pmi, la
scarsa rilevanza di operatori specializzati nel corporate finance, l’assenza di
un mercato informale dei capitali di rischio … Un efficace indicatore dello
scarso sviluppo della Borsa di Milano è dato dalla scarsa capacità di attrazione del listino italiano nei confronti delle imprese estere: a Milano sono quotate solo 4 imprese straniere contro le 178 di Parigi e le 521 di Londra” (Rossi).
Ma nell’analisi di Rossi – che per questo aspetto è da leggersi anche alla luce
dei contributi di Vitali sull’innovazione tecnologica, di Bordino sulla neoimprenditorialità e di Russo e Vitali sull’industria manifatturiera – il problema
del sistema finanziario settentrionale emerge anche dal punto di vista della
domanda, oltreché da quello dell’offerta.
Vi sono, secondo questa analisi, alcuni oggettivi vincoli alla domanda di capitali da parte del sistema imprenditoriale che, in un processo a spirale assai
poco virtuoso, contribuiscono a loro volta al relativo “sottosviluppo”
dell’offerta. E cioè: la dimensione delle imprese, la loro scarsa contendibilità
dovuta soprattutto alla struttura proprietaria famigliare di gran parte delle
286
UNA LETTURA DI SINTESI
Pmi, la loro specializzazione produttiva prevalente in settori tradizionali del
“made in Italy”, della meccanica e della subfornitura.
Come osserva Rossi, “Questa specializzazione tradizionale non attrae investimenti degli operatori professionali. Gli investitori e gli intermediari specializzati prediligono, infatti, settori high-tech, quali biotecnologie, IT, telecomunicazioni, che pur avendo un rischio più elevato di fallimento presentano
prospettive di redditività superiori alla media”
LE DECISIVE SORTI DELLA
PIAZZA FINANZIARIA
MILANESE
LA DISTRIBUZIONE
COMMERCIALE: UN TEMA
DI CRESCENTE RILEVANZA
STRATEGICA
LA MODERNIZZAZIONE DEL
COMMERCIO E I SUOI
EFFETTI SUL SISTEMA
INDUSTRIALE
Nel quadro di analisi delineato, le prospettive future dell’economia settentrionale appaiono fortemente legate alle sorti della piazza finanziaria milanese, il decisivo “cuore” dell’area non solo in Italia ma anche nel contesto europeo. Questa piazza ha due possibili scenari di fronte a sé: o venire
emarginata da quelle maggiori, attraverso un processo di centralizzazione di
gran parte del mercato finanziario verso i principali poli finanziari europei;
oppure – in considerazione che “il più evidente vantaggio della Piazza finanziaria milanese sta proprio nella ricchezza imprenditoriale dell’Italia settentrionale, nella migliore conoscenza del mercato locale, nella maggiore accessibilità e velocità di elaborazione delle informazioni” (Rossi) – acquisire
professionalità e specializzazioni particolarmente rivolte al mercato delle Pmi
e far valere in questo modo fattori competitivi per così dire “di nicchia”.
Una seconda rilevante dimensione del “fare rete”, che è analizzata nei contributi di ricerca che presentiamo, è quella della distribuzione commerciale, esplorata nel saggio di Lecca.
Il rilievo centrale e strategico di questa dimensione sta nel fatto che in misura
crescente negli ultimi anni “non è più l’industria a influenzare la distribuzione, ma il contrario. Un cambiamento che produce sul settore industriale almeno due rilevanti conseguenze…una tendenza alla polarizzazione del tessuto produttivo … una maggiore esposizione dell’industria alla concorrenza
estera …” (Lecca).
La modernizzazione della distribuzione commerciale in atto nel Nord Italia –
riduzione dei punti vendita, crescita della grande distribuzione, sviluppo delle
reti di franchising – implica quindi opportunità ma anche forti rischi per il sistema manifatturiero settentrionale, tenuto anche conto del forte e crescente
peso delle imprese estere nel controllo delle nuove reti distributive.
Come osserva Lecca, “Lo sviluppo del commercio moderno genera…da una
parte una spinta alla concentrazione di quelle industrie, di solito multinazionali (come è successo nel settore alimentare), che continuano a perseguire politiche di marca e, dall’altra parte, favorisce la crescita di una schiera di produttori di piccole e medie dimensioni. Questi ultimi, peraltro, devono
mostrare di possedere i requisiti competitivi richiesti (flessibilità produttiva,
rapporto prezzo/qualità, efficienza logistica, capacità di produrre i volumi richiesti e nei tempi stabiliti) per poter operare come imprese fornitrici…”.
In sostanza, le grandi reti distributive globali sempre più presenti nell’Italia
settentrionale e nello stesso tempo sempre più controllate da grandi imprese
estere, possono ormai approvvigionarsi ovunque sia possibile e conveniente,
senza nessuna logica od obbligo di “fedeltà territoriale”. Si apre una nuova
sfida per il sistema economico settentrionale, che deve dimostrare di essere in
grado di “fare rete” e soprattutto di “entrare in rete”, sia costruendo relazioni
cooperative o di partnership fra imprese manifatturiere fornitrici (al fine di
offrire i volumi, gli standard di qualità/prezzo, l’efficienza logistica ecc. ri-
287
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA:
chiesti) sia qualificando e rafforzando i propri legami con le grandi imprese
distributrici.
IL NODO PIÙ CRITICO PER
“FARE RETE”: LE
INFRASTRUTTURE DI
TRASPORTO
… PER SOSTENERE LO
SVILUPPO
… E PER PROPORSI COME
“PIATTAFORMA
LOGISTICA”
FRA NORD E SUD
CITTÀ E RETI RUBANE:
ALLA RICERCA DI
CAPACITÀ DI GOVERNANCE
Proprio l’analisi della nuova realtà distributiva, con le sue implicazioni e i
suoi rilevanti aspetti logistici, conduce a riflettere su una terza dimensione del
“fare rete” che è di decisiva importanza per le prospettive dell’Italia settentrionale nel nuovo secolo: quella delle infrastrutture di trasporto, esplorata nel
contributo di ricerca di Uniontrasporti.
Si tratta, come è noto, di un nodo critico particolarmente sensibile, sul quale
le discussioni e le polemiche sono forti e ricorrenti.
Le regioni italiane che compongono il Nord Italia raccolgono il 44% della
popolazione nazionale, generano il 54% del valore aggiunto, danno origine
all’80% degli scambi con l’estero. Eppure, la situazione del sistema dei trasporti nell’area è per universale riconoscimento gravemente carente, per certi
aspetti (valgano come esempio le difficoltà del traffico commerciale autostradale con la Francia dopo la chiusura provvisoria del traforo del Monte
Bianco) al limite del collasso.
Questo sistema non è in grado di corrispondere né alle necessità interne
dell’area né, tantomeno, a quelle esterne, di relazione con il resto dell’Europa
e del mondo.
Va rilevato, che in questo modo – in assenza di adeguate politiche e di adeguati investimenti, in tempi medio-brevi e prevedibili, in grado di correggere
radicalmente la situazione – l’Italia, e in specifico la sua parte settentrionale,
rischiano di perdere la grande opportunità consistente nella “scoperta del
Mediterraneo” come via d’accesso all’Europa avanzata avvenuta negli ultimi
anni da parte dei maggiori operatori internazionali, e di cui il grande successo
del porto di Gioia Tauro è il principale segnale rivelatore.
L’Italia settentrionale può diventare una grande “piattaforma logistica” fra il
Sud mediterraneo e il Nord continentale – di importanza analoga a quella della “piattaforma” centrata sul Benelux, “cuore” logistico del Nord Europa –
ma per realizzare questo obiettivo deve sviluppare una rete di trasporti adeguata, e in tempi necessariamente limitati.
Per contro, continuare ad avere reti viarie, ferroviarie, aeree, e intermodali
collassate e inadeguate è un handicap che, in prospettiva, mette in pericolo di
crisi anche le stesse ragioni di successo tradizionali del Nord Italia: il “made
in Italy”, i distretti, le leadership “di nicchia”.
Proprio il tema delle reti di trasporto introduce alla riflessione sulla dimensione istituzionale del “fare rete”, che è per alcuni aspetti analizzata nel contributo di Bonavero sulle città e sulle reti urbane.
Le carenze nel sistema dei trasporti sono infatti legate in buona misura
nell’esperienza italiana, come è bene evidenziato nel contributo di Uniontrasporti, al cattivo funzionamento delle istituzioni, e in particolare a carenze di
“governance”, cioè di capacità di negoziazione, cooperazione, concertazione
e infine di decisione dei diversi soggetti istituzionali, sia locali sia nazionali.
E in un sistema macroregionale come quello dell’Italia settentrionale sono
proprio i nodi urbani, insieme alle regioni e alle altre istituzioni territoriali
locali (oltrechè agli organismi dello Stato centrale, e alle autonomie funzionali come in particolare le Camere di Commercio), i principali possibili attori
di processi di “governance”.
288
UNA LETTURA DI SINTESI
Come è generalmente riconosciuto, ciò che caratterizza l’Italia del Nord, ed
anzi le assegna per questo aspetto una posizione di eccellenza nel contesto
europeo, è la grande ricchezza del suo tessuto urbano e, nel contempo, la strategicità della sua posizione geo-economica in quel contesto.
L’Italia settentrionale può essere vista, per un verso, come l’estremità meridionale della “dorsale centrale europea” di importanza consolidata e, per altro
verso, come segmento orientale di una nuova direzione di sviluppo (una fascia ispano-franco-padana dalla Spagna nord-orientale alla Francia meridionale fino appunto all’Italia settentrionale) alla quale viene attribuita la possibilità di controbilanciare almeno in parte la dominanza della dorsale centrale
sopra indicata.
La rete urbana lombarda, in questa prospettiva, si configura come “snodo” fra
questi due assi portanti del sistema urbano continentale e, in essa,
l’agglomerazione milanese appare come il potenziale polo dominante del sistema urbano dell’Europa meridionale.
I PUNTI DI FORZA DEL
SISTEMA URBANO
DELL’ITALIA DEL NORD:
DENSITÀ, ARTICOLAZIONE
FUNZIONALE
… E UNA BUONA APERTURA
INTERNAZIONALE
I PUNTI DI DEBOLEZZA:
INFRASTRUTTURE,
CAPACITÀ DI GOVERNANCE,
POLITICHE URBANE
SOVRALOCALI
Per quanto riguarda le caratteristiche interne del tessuto urbano dell’Italia settentrionale, ciò che emerge anzitutto all’attenzione è la sua densità (l’Italia
delle “cento città”) paragonabile soltanto a quella dell’area forte nordeuropea (il “golden triangle” Bruxelles – Amsterdam – Francoforte e
l’Inghilterra sud-orientale). In secondo luogo, la sua notevole articolazione
sotto il profilo dimensionale, con la presenza (a differenza, ad esempio, della
Francia) di un robusto tessuto di città di media dimensione.
Come osserva Bonavero nel suo contributo, “Le due caratteristiche di cui si è
detto – la rilevante densità territoriale e la notevole articolazione gerarchicofunzionale – possono essere considerate come un ‘punto di forza’ del sistema
urbano dell’Italia settentrionale … nel contesto nazionale e internazionale”.
Oltre a ciò, anche il grado di apertura internazionale delle città settentrionali
appare buono: infatti, “… si rileva, accanto ad una (ampiamente prevedibile)
concentrazione di funzioni internazionali nelle maggiori aree urbane, una loro
significativa diffusione nel tessuto delle città di media e medio-piccola dimensione; quest’ultima può essere interpretata come l’avvenuta affermazione
in quest’area del ‘modello delle reti interconnesse’…: si tratta di un modello
– che caratterizza le aree del ‘cuore europeo’ – nel quale i centri di dimensione media e medio-piccola sono in grado di accedere direttamente ai circuiti
internazionali, senza passare per il tramite dei centri di livello metropolitano
più prossimi” (Bonavero).
Ma accanto a questi elementi di forza emergono anche, dall’analisi di Bonavero, alcuni rilevanti fattori di criticità o punti di debolezza alcuni dei quali
hanno a che fare con i problemi di “governance” precedentemente segnalati.
Un primo punto debole, già evidenziato in precedenza con riferimento al contributo di Uniontrasporti, è rappresentato dal sistema infrastrutturale, che non
interconnette adeguatamente fra loro le diverse parti dell’Italia settentrionale
né, tantomeno, quest’ultima con il mondo esterno.
Un secondo punto debole riguarda aspetti di natura istituzionale (o paraistituzionale) con particolare riferimento al livello metropolitano del sistema urbano: “si tratta di una insufficiente manifestazione di capacità di ‘governance’
nelle aree metropolitane e nelle aree urbane di maggiore dimensione, dove
per ‘governance’ si intende l’affermazione di forme di cooperazione e con-
289
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA:
certazione fra i diversi soggetti (di natura pubblica, privata e mista) intorno a
linee e progetti di sviluppo urbano rientranti in una visione strategica di lungo
periodo da essi condivisa e in grado di aggregare il loro consenso” (Bonavero).
Infine, il terzo rilevante fattore di criticità del sistema urbano dell’Italia settentrionale riguarda il settore delle politiche urbane. Questa criticità si manifesta in due modi. Per un verso, con “la sostanziale assenza di una politica
urbana di scala nazionale, a differenza di quanto è avvenuto in alcune altre
nazioni europee, come i Paesi Bassi, la Francia e la Germania…”. Per altro
verso, con “la carenza di ‘politiche urbane di rete’ di scala sub-nazionale (regionale e locale) promosse sia dal governo centrale sia, soprattutto, da soggetti regionali e locali (sia di carattere pubblico che privato, nell’ottica della
‘governance’ di cui si è detto sopra)…”. Le politiche urbane di rete, “… in
questo contesto dovrebbero avere la specifica funzione di consentire a insiemi di città di piccola e media dimensione di raggiungere quella ‘massa critica’ e quella articolazione settoriale di funzioni tale da consentire loro di svolgere una funzione di ‘gateway’ verso i circuiti internazionali analoga a quella
delle maggiori aree metropolitane” (Bonavero).
In conclusione, il quadro complessivo che emerge sulla situazione e le prospettive dell’Italia settentrionale in tema di reti, nelle loro varie tipologie e
articolazioni, è segnato più da ombre che da luci. Il sistema dei servizi ha un
rilevante bacino potenziale di domanda, ma domanda ed offerta stentano ad
incontrarsi. Alla ricchezza del risparmio si contrappone la debolezza dei canali, delle reti e dei servizi finanziari, con rischi crescenti di emigrazione del
risparmio prodotto. La straordinaria concentrazione di risorse umane e produttive dell’area è in qualche misura “prigioniera” delle carenze infrastrutturali. La densità e l’articolazione urbana rappresentano potenzialità che hanno
difficoltà a realizzarsi per l’assenza o carenza di politiche.
In sostanza, l’Italia settentrionale ha bisogno di moltiplicare e allungare le
sue reti, e non ha più molto tempo per realizzare le politiche necessarie a questi fini.
COMMERCIO ESTERO E INTERNAZIONALIZZAZIONE:
LE POTENZIALITÀ COMPETITIVE E “DI CERNIERA”
DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL CONTESTO
EUROPEO E INTERNAZIONALE
La collocazione competitiva dell’Italia settentrionale nel contesto europeo e
mondiale è in buona misura “leggibile” analizzando lo stato di avanzamento
del processo di internazionalizzazione economica dell’area, ricostruito nei
contributi di ricerca di Barberis e di Cominotti.
I PERCORSI DEL PROCESSO DI
INTERNAZIONALIZZAZIONE
Il processo di internazionalizzazione si sviluppa, come è noto, lungo tre fondamentali percorsi:
• l’interscambio commerciale;
• gli investimenti diretti in uscita (IDE-out) e in entrata (IDE-in);
• le forme di collaborazione fra imprese non equity, senza partecipazione
di capitali (cooperazione tecnica e commerciale, programmi comuni di
R&S, cessioni e acquisizioni di brevetti, licenze e know how ecc.).
290
UNA LETTURA DI SINTESI
Per quanto riguarda l’interscambio commerciale, analizzato nel contributo di
Barberis, va subito osservato che le regioni dell’Italia settentrionale rappresentano da sole l’8% delle esportazioni intra-UE e il 10,6% di quelle extraUE.
Le esportazioni dell’Italia settentrionale corrispondono a più di un terzo
(36,7%) di quelle dell’intera Germania e a quasi i due terzi (65,1%) di quelle
della Francia. Si tratta di una dimensione simile o anche superiore a quella di
paesi come l’Olanda o il Belgio-Lussemburgo o il Canada.
Elevato è anche il grado di apertura dell’economia dell’area, a differenza del
complessivo grado di apertura nazionale, che è inferiore a quello dei maggiori paesi europei.
In rapporto al Pil (dati dell’Istituto Tagliacarne, 1995), le esportazioni delle
regioni settentrionali rappresentano il 31,7% (Nord Ovest 32,3, Nord Est
30,7), mentre quelle delle restanti regioni rappresentano soltanto il 12,2% del
Pil stesso.
UN EXPORT
SPECIALIZZATO NEL
“MADE IN ITALY”
In questo contesto, che fa comunque dell’Italia settentrionale uno dei pilastri
del sistema competitivo europeo sul piano internazionale, emerge chiaramente come la specializzazione esportativa rifletta le caratteristiche e i limiti del
sistema produttivo esistente.
Si tratta in sostanza di una specializzazione fondata sui comparti tradizionali
del “made in Italy” dominanti nei distretti, con una evidente – e crescente negli anni – sottospecializzazione di settori come l’aerospaziale, gli autoveicoli,
le comunicazioni, il farmaceutico e il chimico, l’elettronico e l’informatico.
“A questo proposito – osserva Barberis – basta ricordare che le esportazioni
di prodotti ad alta tecnologia incidono sull’export nazionale complessivo solo
per il 14,7%, quota molto preoccupante se confrontata con quella di altri paesi (Germania 22,5%, Francia 27,6%, Regno Unito 36,8%, Stati Uniti 40,7%,
Giappone 31,5%). Inoltre la loro dinamica negli ultimi quindici anni è stata
molto contenuta, passando soltanto dall’11,4% al 14%, mentre in altri paesi,
che all’inizio erano su posizioni inferiori pari all’Italia, il trend di sviluppo è
stato molto più elevato, come ad esempio in Spagna (dall’8,8% al 14,6%) e in
Svezia (dall’11,1% al 22,6%)
Osserva ancora Barberis che “poiché larga parte di queste produzioni ad alta
tecnologia sono localizzate nelle regioni del Nord Ovest, sono proprio queste
regioni quelle maggiormente penalizzate dalla disattenzione della politica economica verso l’innovazione tecnologica e ne deriva che i flussi esportativi
provenienti da quest’area siano quelli più sensibili alla perdita di competitività dei prodotti italiani e che risentano in maggior misura della concorrenza di
produzioni offerte da paesi favoriti da differenziali di costo”.
L’ORIENTAMENTO
GEOGRAFICO
DELL’EXPORT
Per quanto riguarda l’orientamento geografico, emerge una rilevante – anche
se decrescente negli ultimi anni – propensione del Nord Italia al commercio
intra-UE (55,2% delle esportazioni complessive dell’area), simile alla Germania (55,5%) e non molto inferiore alla Francia e al Regno Unito.
Emerge nel contempo una crescita della propensione verso l’Est Europa e
verso l’America latina e più in generale verso le aree extra-europee. È in corso in qualche misura un processo di riorientamento, anche verso mercati più
lontani e più difficili.
291
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA:
Va rilevato, comunque, che la specializzazione esportativa nei settori forti del
“made in Italy” e dei distretti, pur con tutti i vantaggi competitivi che ha finora generato, non può essere considerata in prospettiva, alle soglie del nuovo secolo, una caratteristica e un punto di forza garantiti e stabilmente acquisiti, di fronte all’emergere di nuovi competitori internazionali, ai rischi di
saturazione dei mercati e, per altro verso, alle potenzialità di sviluppo di nuovi settori e prodotti nelle gerarchie dei consumi globali.
Non è un caso, da questo punto di vista, che si assista ad una costante discesa
del surplus commerciale italiano dal 1995 in poi. Questo surplus, determinato
essenzialmente dal “made in Italy” (tessile e moda, arredo-casa, alimentare
“mediterraneo” e meccanica collegata a questi settori) e dai relativi distretti,
era di 67 mila miliardi nel 1996, è sceso a 46 mila nel 1998 e si prospetta secondo le stime intorno ai 35-39 mila per il 1999.
GLI INVESTIMENTI DIRETTI
DA E PER L’ESTERO
IL RITARDO NEGLI
IDE OUT
Passando ora agli aspetti più complessi e maturi dell’internazionalizzazione
(collaborazioni fra imprese e soprattutto IDE in entrata e in uscita), esaminati
nel contributo di ricerca di Cominotti, il quadro che emerge è per alcuni aspetti positivo e dinamico, per altri invece piuttosto preoccupante.
A livello nazionale, gli aspetti positivi e dinamici sono dati soprattutto dalla
continua crescita nel corso degli anni Novanta degli investimenti diretti italiani all’estero, anche se alla fine del 1997 la loro quota sullo stock mondiale
di IDE (3,5%) era ancora molto inferiore rispetto a quella sulle esportazioni
di beni e servizi (4,8%). Negli IDE effettuati all’estero da imprese italiane
l’occupazione supera ormai i 600 mila addetti.
Si tratta comunque, come osserva Cominotti, di un processo ancora ritardato
rispetto ai paesi più avanzati, in quanto “nel 1998 il rapporto fra il fatturato
delle multinazionali italiane all’estero e l’export italiano … arriva allo 0,5 per
l’Italia nel complesso e per il Nord Italia. Per il Piemonte questo indicatore è
significativamente più elevato: 0,8. Infatti il tasso di multinazionalizzazione
in uscita del Piemonte è il più elevato fra le regioni italiane, in presenza dei
diffusi processi di multinazionalizzazione di Fiat e di altre imprese a base
piemontese; comunque anche il Piemonte è ancora abbondantemente al di
sotto del valore raggiunto dall’insieme dei paesi industrializzati”.
Un altro punto critico degli IDE-out italiani è costituito dal settore del terziario di servizio alle imprese (BRSs). Come risulta anche dall’analisi di Iano su
questo settore, di cui si è già parlato, la situazione italiana, ed anche settentrionale, è molto debole e precaria sul piano internazionale.
“In generale negli IDE-out dei settori BRSs, le imprese italiane hanno posizioni marginali. Soltanto nel settore assicurativo, le imprese a base italiana
hanno raggiunto una visibile presenza fra le imprese multinazionali…” (Cominotti).
In questo settore strategico, appaiono invece determinanti gli IDE in entrata,
che “assicurano l’avanzamento della maggior parte dei settori che compongono questo macroaggregato, dal software ai servizi informatici e
all’outsourcing informatico, dal management consultancy all’auditing e alla
pubblicità” (Cominotti).
Per quanto riguarda gli orientamenti geografici degli IDE in uscita, l’Europa
occidentale continua ad essere la loro principale area di destinazione (con il
37% in termini di addetti), ma appaiono in forte e significativa crescita i paesi
292
UNA LETTURA DI SINTESI
dell’Europa centrorientale (che ha raggiunto il 17% sul totale degli addetti)
con finalità prevalentemente labour seeking e dell’Asia (14% degli addetti).
Per contro, ed è un fatto che non può essere sottovalutato, vi è stato nel corso
degli anni Novanta un progressivo arretramento della destinazione Nordamericana, che si è assestata intorno al 9%.
LA LENTA DINAMICA
DEGLI IDE IN
LA VIVACITÀ DI
ACQUISIZIONE E FUSIONI
OPERATE DA OPERATORI
ESTERI IN ITALIA
Per quanto riguarda lo sviluppo degli IDE in entrata, si tratta di una dinamica
che appare, dopo la fase di crescita degli anni Ottanta, troppo lenta e insoddisfacente sia a livello nazionale sia per l’Italia settentrionale, con una consistenza che alla fine del 1997 si attestava appena sul 2,3% del totale mondiale.
Se è vero che l’attrattività delle regioni settentrionali, e in particolare del
Nord Ovest e della Lombardia, appare rilevante anche a livello europeo – e
ciò “malgrado la quasi assenza di interventi rivolti all’attrazione di investimenti industriali dall’estero” (Cominotti) – va però aggiunto che il processo
manifesta negli ultimi anni un declino, sia nel Nord Ovest sia soprattutto in
Lombardia (dal 41% sul totale italiano del 1986 al 35% del 1998). Per contro,
si assiste ad una crescita di attrattività del Nord Est, specie Veneto ed EmiliaRomagna.
Come osserva Cominotti, inoltre, “la grande maggioranza degli IDE-in è effettuta attraverso M&A (acqusizioni e fusioni)…Nel periodo 1986-1997,
l’incremento complessivo generato dagli IDE-in green field è stato esiguo:
128 nuove imprese, con 10.340 occupati addizionali”.
Va ancora osservato, a questo proposito, che per quanto riguarda gli investimenti di quest’ultimo tipo vi è stato nel 1998 un calo di ben il 28% rispetto
all’anno precedente, in netta controtendenza rispetto a quanto è avvenuto in
tutti i paesi europei, ad eccezione del Portogallo.
Nello stesso anno, gli investimenti delle imprese italiane all’estero hanno
raggiunto i 19 mila miliardi, mentre quelli esteri in Italia si sono fermati a
4500 miliardi: si tratta di uno squilibrio che è stato segnalato con preoccupazione anche dallo stesso governatore della Banca d’Italia Fazio nella sua ultima Relazione annuale del maggio 1999.
Né l’Italia né, anche se in minore misura, la sua parte settentrionale appaiono
quindi adeguatamente attrattivi per quanto riguarda questo tipo di investimenti.
Molto più consistenti sono invece le operazioni di acquisizione e fusione di
operatori esteri in Italia . Secondo stime recenti di Nomisma, dal 1983 a fine
1998 vi sono state 2774 operazioni di questo tipo, contro 1679 operazioni italiane all’estero.
A questo proposito, Cominotti osserva nel suo contributo “che M&A costituiscono un apporto positivo, perché generalmente accrescono la competitività e il potenziale di crescita delle imprese acquisite, che a loro volta sono in
grado di generare investimenti di ampliamento e ulteriori investimenti green
field. Per questo è fuorviante parlare di “shopping” da parte delle imprese estere…”. Va tuttavia rilevato, a questo proposito, che sono anche possibili altre “letture”, più problematiche, di questo fenomeno, che ha portato innumerevoli marchi italiani (ad esempio nel settore alimentare) nell’orbita di
multinazionali estere. In particolare, è stato fatto osservare che è essenziale
vedere se le operazioni realizzate comportano il trasferimento all’estero delle
funzioni strategiche e a maggior valore aggiunto delle imprese (funzioni direzionali, progettuali, di ricerca e sviluppo, di marketing ecc.) con la conservazione in Italia soltanto di quelle più nettamente manifatturiere. In questi casi,
293
LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE NEL DUEMILA:
il gioco delle M&A non può essere considerato “a somma positiva” per
l’Italia.
In conclusione, si può rilevare che “nel complesso, al di là delle oscillazioni
congiunturali, gli anni Novanta indicano una ragguardevole crescita dei flussi
in uscita e un andamento relativamente cedente dei flussi in entrata, che sembra chiamare in causa un rallentamento nel processo di integrazione internazionale del paese specificatamente dovuto al deterioramento della capacità di
attrarre nuovi investimenti internazionali comparativamente alle altre aree
dell’economia mondiale” (Cominotti).
QUALI STRADE POSSIBILI PER L’ITALIA
SETTENTRIONALE NEL NUOVO SECOLO:
UNA PROSPETTIVA REALISTICA PER LO SVILUPPO
LA NECESSITÀ DI
MAGGIORI CAPACITÀ
DECISIONALI E
PROGETTUALI
I PUNTI CRITICI SU CUI
INTERVENIRE
La sfida che l’Italia settentrionale ha di fronte, per costruirsi un futuro di sviluppo e un ruolo propulsivo in Europa (anche nella direzione delle sue
due”frontiere” naturali esterne/interne dell’Est e del Sud), come emerge dai
diversi contributi di ricerca presentati, è difficile e complessa.
Per affrontarla, occorrono nello stesso tempo nuove capacità progettuali e
nuove capacità decisionali, molto superiori a quella di cui attualmente
quest’area dispone.
Per quanto riguarda i progetti, dalle analisi compiute nei contributi di ricerca
proposti emergono per lo meno gli ambiti (corrispondenti ad altrettanti “punti
critici” della realtà settentrionale quale si configura a fine secolo) di questa
nuova progettualità necessaria. In sintesi, essi sono:
• la formazione e lo sviluppo del capitale umano;
• l’innovazione tecnologica;
• la crescita dimensionale delle imprese, e nel contempo il loro grado di
internazionalizzazione;
• la crescita del terziario “moderno” di servizio alle imprese;
• lo sviluppo del sistema finanziario;
• la dotazione di infrastrutture di rete (di trasporto, comunicazione ecc.).
Sulle progettualità specifiche in ciascuno di questi ambiti, e in sostanza sulle
relative policies, sono ovviamente necessarie ulteriori e mirate riflessioni e
proposte, a partire dalle analisi e dai primi spunti propositivi già elaborati.
Per quanto riguarda le capacità decisionali, balzano in primo piano per un
verso problemi di riforma istituzionale di livello nazionale (stabilità dei governi, federalismo ecc.); per altro verso, problemi che possono e devono essere affrontati a livello dell’area, dagli stessi attori (regioni, collettività locali,
autonomie funzionali, mondo associativo ecc.) presenti e operanti nell’area.
Senza una forte crescita dei processi di concertazione, negoziazione e decisione (in una parola di “governance”) degli attori dell’area, e di questi con gli
attori nazionali e comunitari, vi sono scarse possibilità che i progetti, per
quanto ben costruiti, possano tradursi in fatti reali.
294
UNA LETTURA DI SINTESI
Anche in questo campo, si tratta di elaborare e sviluppare ipotesi e proposte,
a partire dagli spunti che già emergono nei contributi di ricerca analitici presentati.
IL RUOLO DELL’ITALIA
SETTENTRIONALE VERSO
EST E VERSO SUD
In sostanza, se la vocazione dell’Italia settentrionale ad essere – nel contesto
europeo e comunitario – “ponte e cerniera” verso Est e verso Sud appare legittimata sia dalla geografia (la posizione nello spazio) sia dalla storia (la posizione come si è configurata nel tempo, basti pensare alle vicende recenti del
Kosovo per quanto riguarda l’Est, oppure ai crescenti flussi migratori verso la
penisola per quanto riguarda il Sud del Mediterraneo), essa appare tuttavia
bisognosa di ulteriore legittimazione sul piano dell’economia, e delle sue potenzialità di fare rete e di innescare sviluppo anche esogeno.
Come emerge dai contributi di ricerca presentati, la società e l’economia settentrionali alle soglie del nuovo secolo appaiono anzi per più aspetti a rischio
di declino, in un mondo nuovo dove la nascita dell’unione monetaria europea
e l’avanzare della globalizzazione moltiplicano le opportunità, ma anche i
vincoli, i rischi e le sfide competitive.
OTTIMISMO E
POSSIBILISMO
UN’ALTERNATIVA
REALISTICA PER IL
FUTURO
A questo proposito, è opportuno rilevare, richiamando ed estendendo quanto
osservato da Russo e Vitali sul tema specifico della produzione industriale,
come “segnali positivi nel contesto di maggiori rischi e opportunità” siano
tuttavia riscontrabili negli ultimi tempi a livello nazionale
Si tratta, in concreto, di nuove normative e di nuove policies avviate recentemente nel nostro paese: alcune innovazioni finanziarie nel settore dei capitali di rischio, la fine dei monopoli pubblici in settori strategici quali la telefonia e l’energia, alcune riforme nel campo dell’istruzione, i più favorevoli
contesti monetari e fiscali ecc.
“Tutte ragioni per essere, se non tout court ottimisti, almeno possibilisti…”
sul futuro dell’Italia e, in specifico, del suo “cuore” economico e produttivo.
In questa prospettiva va tuttavia osservato, infine, come non sarebbe realistico immaginare che l’Italia, e neppure la sua parte settentrionale più avanzata,
possano in breve tempo riposizionarsi su modelli di tipo americano, attuando
una rottura radicale con i vecchi modelli produttivi.
In altre parole, l’alternativa realistica non è fra diventare “come gli USA” ( il
paese dell’alta tecnologia, dell’informatica, delle biotecnologie ecc.) oppure
restare il paese del “made in Italy” tradizionale (delle scarpe, della moda, delle piastrelle,ecc.) e dei distretti di piccole imprese, troppe delle quali permanentemente “nane”.
L’alternativa realistica – attraverso lo sviluppo di progettualità e di capacità
decisionali negli ambiti strategici sopra menzionati – va nella direzione di
rafforzare le leadership di nicchia già possedute; aprirne di nuove in settori
anche di alta tecnologia; mantenere, e sviluppare anche in nuovi settori a
maggior valore aggiunto, quel modello di “economia della diversità” (fondato
su un’accentuata diversificazione dei prodotti e dei servizi) che ci ha finora
caratterizzati; ma crescere nel contempo nella dimensione di impresa per acquisire anche i vantaggi derivanti dalle nuove economie di scala.
Si tratta di costruire un progetto realistico, ma anche ambizioso, che possa
contribuire a dare all’area settentrionale, e indirettamente anche all’Italia di
cui quest’area è la parte forte, un’identità e uno “spirito di sistema” in grado
di farla entrare da protagonista e non da comparsa nel nuovo secolo.
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