Televisione, Radio ed Editoria

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Televisione, Radio ed Editoria
CAPITOLO 9
Te levisione, Radio ed Editoria
Michelangelo Pistoletto
“Lo specchio parlante”
2004
specchio, 230 x 125 cm
azione in occasione della mostra Azione-comunic-azione, 2005, Galleria Oredaria in
collaborazione con RAM-radioartemobile, Roma.
Foto: C. Abate
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1. Osservazioni generali
L'editoria libraria, la radio, la televisione, costituiscono, con il cinema il disco e la stampa
quotidiana e periodica i principali settori di quella che con finalità critiche più che analiticodescrittive venne definita fin dagli anni Quaranta “industria culturale”. Sono cioè settori
produttivi che hanno come esito l'elaborazione e/o la diffusione di contenuti letterari,
musicali, saggistici, narrativo-spettacolari, informativi, e che vengono gestiti con criteri
prevalentemente di mercato pur in presenza di forti soggetti pubblici (che in campo
radiotelevisivo hanno operato in regime di monopolio fino agli anni Settanta mentre oggi
agiscono in concorrenza con imprese privato) e di un settore no profit che sempre in
campo radiotelevisivo è soggetto a proprie specifiche regole. La funzione di questi settori
nel complesso della produzione di cultura di un paese è assolutamente strategica: nel loro
insieme, e specificamente dei tre comparti di cui qui ci occupiamo.
L'editoria libraria è non solo il più antico dei settori dell'industria culturale ma anche quello
che ha storicamente il compito di promuovere e diffondere testi, a carattere letterario o
scientifico, educativo o strumentale (dalle guide turistiche ai manuali per le più varie attività
professionali o amatoriali): la sua salute e il suo andamento sono pertanto tra i sintomi più
rilevanti della vita culturale di un paese, intesa in senso ampio. La radio e la televisione
sono fin dagli anni tra le due guerre la prima, dagli anni Cinquanta la seconda, i principali
strumenti di diffusione culturale in generale, se non altro in quanto sono tra i media
rispettivamente la seconda e la prima in termini di tempo di utilizzo nel nostro paese e non
solo nel nostro. Secondo alcuni dati (rapporto Censis/Ucsi del 2005) il 95,4% degli italiani
si dichiaravano utenti abituali della televisione (più un 1,8 di occasionali), il 59% della radio
(più l'11,1 di occasionali); molto distanti i libri: il 31,5% di utenti “abituali” più il 15,1% di
occasionali, ma su questi ultimi dati avremo modo di tornare. Inoltre, la televisione in
particolare è il principale diffusore di film e uno straordinario promotore di ogni tipo di
prodotto culturale, libri inclusi.
Sta di fatto che, nonostante le differenze evidenti, per dimensioni e per caratteristiche, tra i
diversi comparti, essi presentano alcuni tratti comuni che vale la pena di ricordare, solo in
parte tipici di tutta l'industria culturale italiana.
1.1. Le dimensioni d'impresa Sia in campo editoriale, sia in campo radiofonico e televisivo
(e per quanto riguarda quest'ultimo, sia nel settore dell'emittenza che in quello distinto,
seppure non nettamente separato, della produzione) si nota un fortissimo squilibrio: da un
lato un grande numero di imprese piccole e piccolissime o addirittura virtuali (editori che
non pubblicano libri, “emittenti” che si limitano alle attività indispensabili per potere
occupare le frequenze) dall'altro un numero molto limitato di imprese di grandi dimensioni
che occupano da sole percentuali elevatissime del mercato. Così il gruppo Mondadori (dati
Istat 2006) realizza da solo il 28% del fatturato del settore editoriale, e con altri sette gruppi
arriva al 55% mentre il resto viene diviso teoricamente fra oltre 8.000 imprese di cui 2.300
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“attive” nel senso che pubblicano almeno un titolo l'anno.
Nel campo televisivo è noto per quanto riguarda l'emittenza il divario tra il fatturato delle
due grandi imprese leader (che condizionano non solo il loro specifico settore ma, vista la
presa che hanno sull'intero mercato pubblicitario, il sistema dei media in generale), quello
delle altre emittenti nazionali via etere o satellitari, e le diverse centinaia di reti locali. Per
fermarci a dati di cinque anni fa quindi forse meno controversi di quelli più recenti (la
materia, anche per la contiguità con il sistema politico, è da tempo in Italia oggetto di
continue discussioni) la RAI e Mediaset gestivano nel 2002-03 circa il 75% del totale delle
risorse del sistema televisivo, mentre il resto si distribuiva tra le reti satellitari, le reti
nazionali minori (come la 7 e MTV e varie centinaia di emittenti locali, in tutto circa
seicento). Meno noto ma pure significativo è lo squilibrio nel campo della produzione per le
emittenti: secondo i dati di una recente ricerca dell'Istituto di Economia dei Media (2006)
su 505 imprese censite di produzione indipendente (un concetto, quello di indipendenza,
che in questo campo merita come vedremo qualche specificazione) il 65% del fatturato era
realizzato dal 6,5% delle aziende.
Anche nel settore radiofonico lo squilibrio è considerevole. Come in campo televisivo,
alcune emittenti “nazionali” (una definizione in verità assai generica in quanto comprende
emittenti che diffondono uno stesso programma simultaneamente su tutto il territorio del
paese come “circuiti” che condividono solo parte della programmazione) rastrellano da
sole un fatturato pari alla somma di tutte le emittenti locali di intere regioni, emittenti locali il
cui numero totale non si riesce a calcolare con precisione ma secondo la maggior parte
delle stime risulta superiore alle 1500. Limitandoci ai dati sul fatturato pubblicitario di uno
studio promosso nel 2007 dalla Federazione Radio Televisione in collaborazione con SLCCgil, FISTel-Cisl, UILCOM-Uil (Studio economico del settore radiotelevisivo italiano)
possiamo dire che nel 2005 su 571 società prese in esame ben 269 presentavano fatturati
inferiori ai centomila euro, solo quindici superiori ai tre milioni, e circa il 90% del totale
restava sotto il milione di euro.
Ci siamo limitati fin qui alle cifre del fatturato, le più “oggettive”, ma gli squilibri che esse
evidenziano risultano se possibile ulteriormente rafforzati se facciamo riferimento ad altri
aspetti: dall'occupazione al potere derivante tra l'altro dalle cosiddette sinergie con altri
media. Basterà ricordare che il principale gruppo editoriale è parte dello stesso
raggruppamento finanziario-industriale che controlla la maggiore emittente televisiva
privata e che diverse delle maggiori radio nazionali per audience e fatturato sono parte del
gruppo Espresso che è tra le maggiori imprese della stampa quotidiana e periodica
nazionale.
1.2. Le caratteristiche delle imprese Un'altra caratteristica dei settori di cui parliamo,
caratteristica che riprende alcune tendenze proprie del cosiddetto “capitalismo italiano” ma
le esaspera, è la relativa scarsità di imprese di capitali nel senso più classico del termine, a
fronte, oltre al peso ancora considerevole di aziende di Stato come la RAI, di
-imprese a carattere personale e familiare
-di imprese strettamente dipendenti da un numero ridottissimo di clienti fino al caso del
cliente unico
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-di imprese anche multi-cliente caratterizzate da estrema precarietà.
Si contano sulle dita le aziende editoriali e le emittenti quotate in borsa: i più grandi dei
gruppi editoriali (Mondadori, RCS, DeAgostini che in realtà ormai è ben più che una realtà
editoriale, più l'Editoriale Espresso rilevante per il settore radiofonico) nessuna delle
aziende produttrici indipendenti per la TV salvo una attiva in tutta Europa nel campo
dell'animazione, Mondo TV, e una delle emittenti dominanti, Mediaset. Anche tra queste
comunque ha prevalso fino a tempi recenti la gestione personale o familiare: questo vale
sicuramente per Mediaset, ma vale anche per il gruppo De Agostini, del quale la famiglia
Boroli detiene non solo importanti quote ma anche diverse rilevanti posizioni manageriali; i
casi di Mondadori e Rizzoli sono invece interessanti anche perché la loro storia e i nuovi
ingressi nella proprietà sarebbe incomprensibile senza le vicende conseguìte alla morte
dei fondatori e alle tensioni relative alla suddivisioni ereditarie.
Se dai gruppi di dimensioni più grandi scendiamo a livelli inferiori la caratteristica appena
ricordata si accentua, in campo editoriale e forse ancora di più in quelli dell'emittenza
radiotelevisiva, dove come si vedrà agisce quale fattore condizionante il controllo delle
frequenze da parte di coloro, o degli eredi di coloro, che le occuparono nella fase del
cosiddetto “etere selvaggio”.
Queste osservazioni non implicano necessariamente un giudizio, che del resto
costituirebbe uno sconfinamento dalle finalità di questo testo. Va però ricordato che se le
figure dei fondatori di queste imprese sono caratterizzate, almeno nei casi maggiori, se
non altro da quella peculiare risorsa che si suole designare in mancanza di meglio con il
termine “fiuto”, i loro successori in linea dinastica non sempre hanno dimostrato qualità
paragonabili, e non tutte le volte hanno selezionato per le posizioni manageriali le persone
più competenti. Inoltre la gestione familiare soprattutto dalla seconda generazione in poi
sembra mirare a volte a utili simili a rendite, a volte all'esaltazione di una tradizione antica
o recente, in ogni caso a rischio di ridurre sia la disponibilità all'innovazione sia la gestione
oculata ma non avara degli investimenti.
Molte imprese di minori dimensioni, soprattutto nel settore della produzione televisiva
cosiddetta “indipendente” sono segnate da un altro problema, che spesso va ad
aggiungersi a una composizione proprietaria analoga a quella ricordata: l'inesistenza di un
vero mercato, in cui i loro prodotti possano esseere “messi in palio” tra soggetti diversi e in
competizione fra loro. Si tratta quindi di imprese indipendenti solo di nome, ma fortemente
condizionate di fatto dai voleri e a volte dagli umori, o dagli avvicendamenti, dei dirigenti o
funzionari, che nel caso dell'emittente pubblica sono a loro volta condizionati dagli
andamenti della politica. Anche questo incide pesantemente sulla possibilità di effettuare
investimenti, non solo per il male endemico della sottocapitalizzazione ma anche per la
difficoltà di effettuare pur nell'incertezza del mercato serie valutazioni di medio periodo.
C'è poi un modello di impresa che si è venuto sviluppando molto negli ultimi vent'anni, con
compiti importanti non solo e non tanto di produzione diretta di “contenuti” quanto di
produzione di servizi e di intermediazione in filiere sempre più articolate quali stanno
diventando sia quella del libro sia quella dell'audiovisivo (meno quella della radio). Per
esempio le imprese di editing e ricerca iconografica per l'editoria libraria, o le imprese
specializzate in ricerca di documentazione e dei relativi diritti per la produzione
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documentaristica. Si tratta di imprese piccole e piccolissime che sono state costituite da
giovani, spesso di alta qualificazione, reagendo da un lato alla scarsa offerta di posizioni di
lavoro dall'altro alla diffusa esigenza di autonomia anche personale. Pur non nascendo
solo da costrizione ma anche in parte da scelta, queste imprese che potrebbero costituire
un patrimonio importante di professionalità e di esperienza sono una realtà estremamente
fragile sul piano finanziario, volatile sul piano della durata temporale e anche sul piano
strettamente giuridico; le stesse dimensioni reali del fenomeno sono difficili da valutare con
precisione in mancanza di inchieste approfondite.
1.3. Le dimensioni del mercato Sia a proposito del settore televisivo sia di quello
radiofonico abbiamo parlato di emittenti “locali” e di gruppi, o circuiti, nazionali. Un ipotetico
extraterrestre che avesse visitato il nostro paese a distanza di trent'anni tra il 1976-77 e i
giorni nostri non potrebbe che esserne stupito, visto che la sentenza del 1976 a cui si deve
la cosiddetta liberalizzazione delle trasmissioni via etere escludeva l'emittenza nazionale al
di fuori del servizio pubblico cioè della RAI. In realtà già nel corso degli anni Ottanta, in
modo clamoroso in campo televisivo, più sottile ma non meno tenace in quello radiofonico,
il mercato nazionale si è imposto su quello locale, in termini di raccolta pubblicitaria ma
anche di strategie di programmazione e di promozione. Le emittenti locali, come per altro
le case editrici locali, appaiono confinate salvo eccezioni a un mercato sostanzialmente
residuale.
D'altra parte, nessuno dei grandi gruppi attivi in questi settori, a parte l'azienda
monopolista della TV satellitare, filiazione di un gruppo anglosassone, agisce come
impresa transnazionale competitiva sull'insieme del mercato, non si dice globale ma
neppure europeo (salvo la presenza spagnola del gruppo Mediaset). Si tratta
probabilmente di una scelta saggia, vista la sorte toccata in questo ventennio ai diversi
gruppi mediali europei che hanno tentato di fare diretta concorrenza ai colossi statunitensi,
con la parziale eccezione del gruppo Bertelsmann; ma è certo che si tratta di una scelta
molto prudente. Per quanto riguarda il principale gruppo televisivo ed editoriale italiano
(ancora una volta Mediaset) questa scelta si collega da circa un quindicennio a un fatto
esterno a quelli che trattiamo in questa sede: la diretta assunzione di un ruolo politico da
parte del suo patron, che può (stando ai suoi critici) avere favorito le sue fortune nel paese,
ma sicuramente ha reso la sua azienda “diversa” dalle altre attive in questo già
delicatissimo mercato, e come ha dimostrato la vicenda seguita al fallimento del gruppo
tedesco Kirsch ha reso i suoi investimenti problematici da accettare per molti governi
stranieri.
Come per l'azienda Mediaset in particolare, così per l'insieme dei settori di cui parliamo in
generale, il mercato nazionale sembra insieme l'orizzonte quasi esclusivo di azione e un
confine difficile da superare per le iniziative strategiche. Ciò si collega anche a un dato
apparentemente ovvio ma al quale si presta insufficiente attenzione. Sia l'editoria libraria,
sia la televisione, sia quella parte della programmazione radiofonica che non è puramente
musicale (e quando lo è, è per una componente significativa d'importazione) sono legati a
una lingua nazionale, l'italiano, diversa da quella parlata dai paesi confinanti: fattore
essenziale d'identità per i nostri cittadini, differenza e problema di reciproca comprensibilità
per gli altri. Il problema non riguarda solo il nostro paese, possiamo al contrario
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considerarlo uno dei maggiori freni (oggettivi e non) a qualsiasi politica culturale europea:
che trova proprio nella diversità delle lingue e nel rifiuto verso qualsiasi omogeneizzazione
delle tradizioni e identità orgogliosamente e comprensibilmente difese una diversità
difficilmente superabile nei confronti degli USA ma anche della superpotenza emergente,
la Cina (caratterizzata come si sa dal netto prevalere di un'etnìa relativamente omogenea
su tutte le altre).
Comunque, il problema è particolarmente grave per il nostro paese. La lingua italiana
infatti è parlata da meno dell'uno per cento della popolazione mondiale, concentrato
interamente nel nostro paese e in un cantone svizzero. E' una cifra nettamente inferiore
rispetto a tutte le altre potenze europee di dimensioni paragonabili per popolazione o
rilevanza economica: paesi che hanno goduto di un impero coloniale duraturo o possono
contare su popolazioni linguisticamente omogenee assai superiori in quantità, come è il
caso della Germania, la cui lingua è parlata dalla maggioranza della popolazione anche
dell'Austria, di gran parte dei cantoni svizzeri, e anche di una provincia autonoma del
nostro paese.
Non è forse esagerato dire che la lingua italiana, pur con le sue straordinarie tradizioni,
costituisce oggi uno dei maggiori problemi della vita culturale del nostro paese, problema
che non può certo essere risolto con le ricorrenti e consolatorie notizie giornalistiche
sull'aumento degli studenti di italiano nel mondo. L'italiano sembra una lingua troppo
importante per spingere la cultura nazionale (come è accaduto in paesi di tradizioni certo
non secondarie, dall'Olanda alla Svezia) ad accettare un sostanziale bilinguismo
soprattutto in campo accademico, troppo poco per imporre davvero i suoi prodotti come
prodotti di esportazione.
Parlando dei condizionamenti linguistici alle esportazioni di prodotti culturali si fa
riferimento prima di tutto all'esportazione diretta di libri, periodici, programmi radiotelevisivi
o film. Conviene distinguere in materia tre casi distinti:
-il rapporto tra paesi come il Regno Unito la Francia la Spagna o il Portogallo e le loro excolonie (anche remote quali sono per la Francia il Quebec e per i paesi iberici gli stati
latino-americani): in questi casi si hanno forme di mercato definibile in qualche misura
come captive
-gli universi linguistici transfrontalieri come il già ricordato mondo germanofono in Europa
centrale o quello francofono che include il Belgio e parte della stessa Valle d'Aosta, che
permettono in più paesi la diffusione di prodotti provenienti da un unico editore o
produttore, non necessariamente situato nel paese leader
-infine (si tratta del grande vantaggio ottenuto dalla lingua inglese nella seconda metà del
Novecento, e oggi in parte dalla lingua spagnola e in altre parti del mondo dall'arabo)
l'accettazione di fatto di alcune lingue come koinè della fase attuale.
I paesi che sono esclusi da tutte e tre queste situazioni, come è il caso del nostro, hanno
per l'esportazione diretta mercati limitatissimi; non solo ma sono condizionati anche in
modo indiretto: perché un'industria culturale decida di acquistare e tradurre un prodotto di
lingua diversa dalla propria occorre che disponga di qualcuno in grado di capirlo; oppure
che le imprese produttrici si assumano i costi e i rischi del farli tradurre e promuovere.
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Se l'industria culturale italiana esporta poco, in compenso importa e traduce molto, anche
da lingue che in molti paesi europei sono di comprensione relativamente comune. Una
delle conseguenze paradossali e anche in questo caso poco notate del fenomeno sta nelle
grandi dimensioni di un mercato secondo, quello non semplicemente delle traduzioni ma
anche degli adattamenti, incluse revisioni dei testi, doppiaggi ecc. al mercato italiano di
prodotti stranieri, a cominciare da quelli statunitensi. E' difficile fornire cifre precise in
materia ma è certo che se sommiamo la quantità di lavoro editoriale e quello di lavoro nel
settore audiovisivo ci troviamo di fronte a un sotto-settore di considerevoli dimensioni, che
assorbe consistenti energie, anche molto qualificate, solo in parte diverse per
caratteristiche di fondo da quelle proprie dei settori strettamente definibili come “creativi”,
attive però in un'azione essenzialmente derivativa e come tale trattata anche in termini
giuridici. Negli ultimi anni questi processi si sono ulteriormente intensificati nel settore
televisivo, come vedremo, con l'affermarsi di un peculiare mercato, quello dei format, che
implica l'attivazione di filiere produttive in tutto analoghe a quelle proprie della produzione
autonoma ma negando al lavoro degli autori il riconoscimento essenziale dell'originalità.
1.4. La geografia della produzione Il carattere prevalentemente nazionale del mercato non
corrisponde per altro a una distribuzione geografica facilmente leggibile delle imprese
produttive. Non si può parlare per i settori di cui ci occupiamo né di una concentrazione
organica né d'altra parte di veri e propri distretti.
La matrice geografica dell'editoria italiana discende soprattutto dalle tradizioni in sé
importanti e ricche delle “cento città”, e infatti dei maggiori gruppi editoriali diversi sono
basati in città differenti da Milano (Giunti a Firenze, Sellerio a Palermo), e molti marchi tra i
più prestigiosi ancora altrove, dal Mulino (Bologna) a Laterza (Bari e Roma) a Einaudi e
Utet (Torino), ma il vero “distretto dell'editoria” resta Milano, dove per altro non è chiaro se
non si arriva a un'indagine approfondita quanto pesi per esempio nella formazione di
società di service l'editoria libraria e quanto quella periodica. Anche per quanto riguarda la
radio esiste una grande dispersione geografica che fa sì che alcuni dei maggiori gruppi
abbiano sedi come Napoli, Bologna, ecc. Per la televisione, mentre le grandi emittenti
sono concentrate a Roma e Milano e lo stesso le produttrici “indipendenti” che sembrano
vincolate a seguirne le sorti, esistono grandi impianti anche in altre aree per la prestazione
di servizi specializzati: si pensi alla torinese-canavesana Telecity che costituisce uno dei
poli più importanti, certo il maggiore fuori da Roma e Milano, per il doppiaggio e gli
adattamenti delle serie straniere.
Di per sé questa struttura distribuita non è una debolezza, potrebbe anzi costituire un
elemento importante di vivificazione del tessuto culturale distribuito e di raccolta delle
energie su tutto il territorio. Si pongono però due problemi:
-il primo è che in questo modo si accresce ulteriormente la polverizzazione già derivante
dalle caratteristiche delle imprese
-il secondo è la sconsiderata moltiplicazione da parte dei politici locali degli investimenti nel
campo ad esempio dei grandi impianti audiovisivi e non solo, nella convinzione
insostenibile che un paese relativamente piccolo si possa permettere n piccole Hollywood,
n fiere del libro, o festival letterari.
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In sostanza, vi sarebbero le potenzialità per una politica decentrata della produzione,
coordinata della progettazione mentre l'impressione attuale è, all'opposto, quella di una
politica del tutto non coordinata della progettazione, che moltiplica le iniziative in
concorrenza tra di loro tutte aspiranti comunque a mercati sostanzialmente omogenei.
1.5. Ultime osservazioni Indichiamo infine alcuni ultimi tratti che accomunano i diversi
settori di cui parliamo.
Il primo è l'attenzione relativamente scarsa dedicata fino a tempi recenti alla formazione
professionale specifica. Mentre nel campo del cinema l'Italia ha da un settantennio una
delle scuole più qualificate del mondo, mentre per la formazione dei giornalisti si sta
passando sia pure molto gradualmente dall'arcaica istituzione del praticantato a uno
strumento più articolato, le scuole professionali (in parallelo con l'attività anch'essa
relativamente antica di formazione dei giornalisti televisivi), lo sviluppo di scuole per la
formazione delle professionalità dell'editoria è stato molto più incerto, tra i master
universitari sorti numerosi negli ultimi dieci anni, le iniziative dell'Associazione Italiana
Editori, e i numerosi corsi di iniziativa privata; in ogni caso a quanto risulta dalle inchiesti
più recenti il modello tuttora prevalente è la formazione on the job in particolare nella forma
dell'affiancamento, cosa che tiene conto naturalmente del carattere ancora in buona parte
artigianale del settore ma rischia di favorire una mentalità del “si è sempre fatto così”
potenzialmente perniciosa in una fase di innovazioni anche di grande portata come questa.
Per ciò che riguarda le professioni radiofoniche e televisive la cosa è anche più evidente,
soprattutto per tutte quelle professionalità che non sono ricollegabili a modelli consolidati
come la produzione di fiction (nella sua vicinanza al cinema) o il giornalismo.
I corsi di laurea in Dams e scienze della comunicazione, se hanno favorito in parte un
cambiamento di mentalità in materia, facendo accettare le professioni della comunicazione
come oggetti di un percorso formativo parallelo a quelli già consolidati in altre aree, si sono
però con la loro moltiplicazione rapida e incontrollata rivelati anche causa di numerosi
equivoci e soprattutto non sembrano aver dato luogo nei campi che qui ci interessano a
itinerari educativi sufficientemente solidi. Se lo hanno fatto, ciò è accaduto in una piccola
minoranza dei casi.
Un secondo fattore di anomalia del mercato italiano nei settori di cui parliamo è la
presenza diretta o indiretta della politica, sotto la forma diretta dei condizionamenti
normativi soprattutto nel campo radiotelevisivo -l'andamento oscillante della legislazione,
tra un interventismo spesso condizionato da interessi specifici o dal desiderio di punirli, e
un “astensionismo” comunque non neutrale- e/o della promozione diretta: basta pensare al
ruolo del cosiddetto “preacquisto” nell'editoria a carattere istituzionale, che costituisce un
segmento di notevole rilievo nell'attività libraria di molte aree del paese, e che per altri versi
ha meriti indubbi ad esempio nella produzione di libri fotografici e d'arte, che a loro volta
anche per il collegamento a una ricchezza indiscussa del paese costituiscono un aspetto
importante della visibilità all'estero del libro italiano. Il peso della politica è doppiamente
condizionante: in primo luogo in quanto ha dato vita nel tempo soprattutto in ambito locale
a veri e propri complessi politico-(giornalistico) culturali, che agiscono spesso da freno
all'innovazione; in secondo luogo in quanto rende la dialettica democratica un fattore di
incertezza anche strettamente economica, e lo si vede bene in campo radiotelevisivo, dove
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la prossimità di un cambiamento ai vertici dell'azienda pubblica può provocare situazioni di
paralisi decisionale che durano anche mesi di seguito.
Infine, vista la fragilità finanziaria dei comparti dell'industria culturale di cui parliamo (con la
parziale eccezione delle aziende di più grandi dimensioni) un altro tratto caratteristico e
pesantemente condizionante è la mancanza di istituzioni, o anche di singoli uffici,
specializzati in questo campo, e in grado di valutare rischi e investimenti che risultano
anomali in altri campi economici.
2. Sui singoli settori
Veniamo ora, in modo necessariamente sintetico, ai problemi relativi alle caratteristiche e
alle esigenze degli specifici settori.
2.1. Editoria. Debolezze del mercato Per quanto riguarda il bacino d'utenza va ricordato
che il mercato librario italiano, notoriamente, non è penalizzato soltanto dai limiti già
discussi della penetrazione linguistica dell'italiano; il nostro è anche un paese di deboli
lettori, caratterizzato inoltre da un apparato distributivo meno efficiente e dinamico che in
altri paesi.
In effetti, i dati sui lettori italiani sono stati di recente sottoposti da uno studioso di
economia dei media, Marco Gambaro, a un'attenta analisi (in Tirature 08, il Saggiatore,
Milano 2008). Questa permette di ridimensionare alcuni luoghi comuni. Per esempio il
fatturato dell'editoria italiana per abitante è di 73 euro, inferiore ai 79 di Francia e Germania
ma non quanto ci si potrebbe aspettare. Anche la percentuale di coloro che leggono libri
per diletto (42% della popolazione che legge almeno un libro l'anno) non è molto diversa
da quella di Francia e Germania (40%). Come si spiega allora il fatto che il numero di libri
acquistati per abitante in Italia resta al di sotto di questi paesi? Due dati: a: è maggiore il
numero di coloro che non leggono neppure un libro l'anno, conseguenza del più basso
livello di istruzione, in sostanza è maggiore la percentuale non solo e non tanto dei “deboli”
lettori quanto dei non lettori tout court; b. in Italia è molto più bassa che in altri paesi la
percentuale di coloro che acquistano libri non di svago o scolastici ma a carattere
manualistico e strumentale: un settore nel quale l'editoria italiana è fortemente penalizzata.
Le osservazioni appena riportate, e che naturalmente possono essere discusse, indicano
da un lato quanto sia facile anche in questo campo cadere nei luoghi comuni, dall'altro
(ferma restando la debolezza generale del settore) l'esistenza di margini di possibile
riequilibrio, per esempio attraverso un rilancio della manualistica: va detto per altro che la
manualistica più di altri generi richiede investimenti, sia in quanto il lettore di questo genere
richiede collane curate e complete sia in quanto si tratta tipicamente di long seller, che
danno i loro frutti nell'arco degli anni.
Sta modificandosi anche in questi anni, in direzione di un potenziale allargamento del
bacino di utenza, il sistema di circolazione del libro. Alla tradizionale libreria, che costituiva
una grande risorsa per il lettore già abituato ma spesso un fattore intimidente per chi non lo
era, si sono affiancate negli anni Novanta e dopo le catene di multimedia store, nazionali
(Feltrinelli-Ricordi) ed estere (Fnac); inoltre accanto alla vendita dei libri allegati a
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quotidiani, fenomeno massiccio ma ormai in declino, si nota una crescita costante delle
vendite presso supermercati e altri punti vendita (cresciute di oltre il 30% negli ultimi due
anni) e anche via web. Va detto per altro che questi canali distributivi sembrano favorire
non tanto il nuovo quanto il già consolidato: come si esprime un dirigente del settore
periodico “i libri che noi vendiamo allegati ai nostri giornali sono prodotti di seconda
visione, già sperimentati e dal risultato sostanzialmente sicuro”; mentre è noto che il canale
grande distribuzione amplia sì la circolazione, ma quasi esclusivamente dei best seller.
E quasi esclusivamente, va aggiunto, di best seller promossi dai grandi media, a
cominciare dalla TV. Una visione dell'industria editoriale che si limitasse alla pura
valutazione numerica delle vendite, alla generica promozione della lettura come presunto
bene in sé, rischia di sottovalutare questo problema, di leggere per esempio in termini
eccessivamente ottimistici la fiammata di vendite che ha accompagnato gli anni a cavallo
del 2003-2004; se vogliamo valutarla come industria della creatività allora occorre tener
conto anche di questo aspetto, del rischio cioè che l'intento di una crescita rapida di volumi
e redditi favorisca in realtà i prodotti meno innovativi.
Vi è poi un altro dato che dovrebbe dare da pensare. Negli ultimi trent'anni del Novecento
un settore importante della vita editoriale nazionale è stato costituito dalle cosiddette
“grandi opere”, che hanno consentito tra l'altro l'avvio di importanti filoni di ricerca nel
campo delle scienze umane e anche di alcuni settori delle scienze naturali, e la diffusione
del nuovo sapere presso settori di pubblico non necessariamente specializzato. La
concorrenza della rete, certamente, ma anche la cannibalizzazione delle grandi opere da
parte del settore delle vendite da edicola ha causato nell'ultimo decennio una progressiva
restrizione della disponibilità agli investimenti nel settore anche da parte delle case editrici
che più vi avevano operato. La “seconda visione” delle edicole, se ha ulteriormente
ampliato il pubblico, potrebbe avere alla lunga agito negativamente sulle produzioni
realmente innovative.
2.2. L'editoria. La filiera produttiva Più rapidamente del pubblico dei lettori e dei canali
distributivi, si è modificata in questi anni la produzione del libro, al punto da potersi dire che
mentre la forma fisica del prodotto finale (contrariamente a molte previsioni) rimane
sostanzialmente la stessa, tutto il resto del processo di elaborazione sta cambiando.
Questo è vero sul piano tecnologico, in quanto la digitalizzazione ha portato con sé una
fluidificazione prima impensabile di tutti i passaggi: i libri prendono forma come file
elaborati con programmi di scrittura, in genere vengono inviati all'editore via posta
elettronica e sono sottoposti a editing con gli stessi programmi, per poi essere costruiti
graficamente e messi in pagina, eventualmente con le illustrazioni, con altri software, ed
essere inviati direttamente allo stampatore.
La fluidificazione tecnologica, congiunta alla intensa pressione del management (spesso di
origine non editoriale) in favore di un taglio dei costi, ha favorito un generalizzato
fenomeno di outsourcing: molte attività che in precedenza venivano svolte all’interno delle
case editrici, dall’editing alla correzione di bozze, sono state trasferite verso piccole
imprese, spesso di elevata professionalità ma fragili economicamente e per le quali in molti
casi il libro è solo uno dei campi di attività: altri sono il web, prima di tutto, eventualmente i
servizi alla stampa periodica, e in non pochi casi i servizi alla comunicazione aziendale.
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Alle redazioni editoriali sono rimasti i compiti di selezione e rapporto con gli autori, di
gestione dei diritti, di promozione del marchio. Oggi, la maggior parte delle case editrici
italiane presenta un numero di addetti che va dai due ai nove, solo 254 aziende ne
contano più di dieci.
La qualità media dei libri, in termini di contenuto, non ne ha subito peggioramenti, mentre
da più parti si lamenta una caduta della cura dei libri stessi, derivante in parte dalla stessa
accelerazione dei processi oltre che dalla caduta della figura del redattore interno che
seguiva il libro in tutte le sue fasi: aumento degli errori “di stampa”, minor precisione delle
traduzioni ecc.
2.3. Il broadcasting. Alcuni caratteri generali Radio e televisione presentano alcune
caratteristiche che li differenziano dagli altri settori più antichi dell'industria culturale, tra i
quali l'editoria libraria è il più antico di tutti. Mentre il libro è un prodotto fisico che incorpora
un valore culturale, la radio e la televisione distribuiscono un flusso di suoni, o di immagini
e suoni, all'interno del quale sono inseriti materiali di vario genere, inclusa pubblicità (fonte
dei redditi) e prodotti culturali per i quali va pagato un diritto.
Il broadcasting implica quindi, e inevitabilmente, un insieme complesso e stratificato di
attività. Di norma, ogni emittente si occupa di produrre almeno parzialmente i programmi;
di programmare l’emissione, cioè di definire un ordine temporale della messa in onda dei
diversi programmi, inserti pubblicitari, flussi di conversazione; e di trasmettere, cioè di
inviare i programmi nelle abitazioni o negli altri terminali posti su veicoli, in luoghi di lavoro,
in locali pubblici ecc.
Di queste tre attività, la trasmissione ha carattere eminentemente tecnico, la
programmazione ha forti implicazioni socioculturali ma non è assimilabile all’elaborazione
di contenuti, mentre la produzione è certo la più rilevante dal punto di vista culturale.
D’altra parte, le aziende radiofoniche e televisive effettuano sempre la trasmissione;
curano in generale la programmazione, che però negli ultimi anni è sempre più spesso
affidata in tutto o in parte ad appositi software informatici; mentre per quanto riguarda la
produzione si prendono cura direttamente di una parte di ciò che mettono in onda: una
percentuale che, in base ai diversi format e stili di emittenza, può variare da poco più di
zero fino al 100% . In termini di attività culturali ciò significa che sotto una stessa
definizione (“emittente radiofonica o televisiva”) vi sono soggetti che effettuano produzione
di contenuti in misura nulla o minimale, e altri che ne effettuano in misura considerevole:
migliaia di ore l’anno.
Quello che non viene prodotto dalle emittenti da chi viene prodotto? Anche qui abbiamo
una notevole varietà di situazioni. In campo radiofonico non si può sostanzialmente parlare
di aziende di produzione indipendente, né di un mercato dei programmi: l'alternanza è
quindi necessariamente, per le emittenti non affiliate a un raggruppamento, tra produzione
interna (che in molti casi si limita comunque alla sola produzione d'informazione, spesso
pura rielaborazione dei dispacci di agenzia eventualmente aiutata dal solo servizio audio
disponibile, le agenzie specializzate in giornali radio) e flusso musicale, fatto ovviamente
di canzoni pre-registrate, tenuto assieme eventualmente da un conduttore. Per le aziende
affiliate, anche se le formule variano, esiste poi un modello intermedio, basato sulla
distribuzione di programmi (in genere con pubblicità pre-inserita) dall'emittente capofila, o
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dagli uffici centrali del network, alle altre.
In campo televisivo il quadro è molto più complesso in quanto la produzione interna in
senso stretto è abbastanza limitata, ancora una volta soprattutto al campo informativo e
per molte emittenti locali al settore delle televendite, mentre è ampia quella delegata ad
aziende “indipendenti” (nel senso già descritto) e l'acquisizione di programmi esteri da
riadattare e di film. Come si vede da questo rapido quadro, comunque, esiste un'evidente
sproporzione nel broadcasting italiano tra la massa di ore trasmesse e la quantità di
produzione originale, sproporzione che si accentua ancora se escludiamo la produzione
informativa di routine e servizi commerciali come le televendite, le telepromozioni ecc.
Pesano comunque, su questa situazione, la nascita peculiare del settore radiotelevisivo
privato italiano e le specificità dell'azienda RAI. Per quanto riguarda quest'ultima, possiamo
ricordare rapidamente che non si tratta solamente di un'impresa letteralmente occupata dal
sistema dei partiti e dalle connesse clientele, ma che la stessa denominazione di “azienda”
è paradossale, in quanto è previsto nel suo stesso progetto istitutivo un regime competitivo
all'interno oltre se non più che nei confronti dei soggetti che agiscono sullo stesso mercato,
e in quanto non esistono figure di management unitario che possano realmente scavalcare
le autonomie delle singole (teoricamente subalterne) direzioni. Va inoltre ricordato un
ulteriore paradosso: la RAI percepisce un canone in quanto prestatrice di un “servizio
pubblico” che dovrebbe comprendere tra le altre cose la sperimentazione di programmi
innovativi, e una speciale attenzione alla cosiddetta “qualità” dei programmi (concetto per
altro discutibile non solo per la sua estrema soggettività ma anche perché vi si
sovrappongono valutazioni di ordine morale, estetico, tecnologico, ecc.). In ogni caso, vi è
una forte pressione della stampa e dell'opinione pubblica perché la RAI raggiunga indici di
ascolto pari alle maggiori aziende private, con l'argomento che “se non interessa a
nessuno perché si dovrebbe pagare il canone?” (a cui a rigore potrebbe corrispondere
anche quello opposto “se può guadagnare normalmente con la pubblicità perché dovrebbe
percepire il canone?”). Sta di fatto che il “servizio pubblico” radiotelevisivo italiano è tale in
modo meno definito e specifico che nella maggior parte degli altri paesi europei; e che se
la RAI agisce come “industria della creatività”, sicuramente una delle maggiori se non la
maggiore del paese, ciò avviene in un quadro politico e normativo che non facilita tale suo
compito, al contrario.
Per quanto riguarda il settore privato, dopo la caduta di un monopolio ormai insostenibile,
l'occupazione delle frequenze da parte di singoli e di gruppi, frequenze che sarebbero
divenute poi proprietà indiscusse in virtù di una norma tardiva e comunque non risolutiva
per molti aspetti, ha dato luogo come si è accennato
-a diffusi problemi di trasparenza nelle proprietà e nelle relazioni tra emittenti
-a una diffusa tendenza nell'emittenza locale a trattare le frequenze stesse come fonte per
rendite di posizione o eventualmente come possibile patrimonio da mettere prima o poi sul
mercato.
Anche il mercato delle frequenze, tuttavia, è circondato da incertezza dovuta al passaggio
alle tecnologie digitali, che se da un lato permetterà l’ingresso di nuovi soggetti nel settore
dall’altro obbligherà le piccole emittenti a scegliere se continuare a investire o liquidare.
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Questa situazione giustifica in parte l’atteggiamento attendista tenuto dalla maggioranza
degli operatori del settore, timorosi di investimenti a lungo termine, ma anche tentati dalla
possibilità di allargare la propria offerta e di conquistare nuove fasce di pubblico. A questa
situazione già non chiara si aggiunge la confusione nei modelli di aggregazione: network,
gruppi, syndication, circuiti più di recente consorzi o addirittura franchising ecc, sebbene
alcuni termini siano definiti con relativa precisione dalla normativa sono spesso nella
pratica sovrapposti, e questo condiziona anche le dinamiche di produzione e circolazione.
Qualsiasi riflessione sulla radio e la televisione come imprese creative deve tener conto di
questo quadro.
2.4. La radio Parlare della radio come il secondo medium più seguito del paese è oggi
quasi un'ovvietà, ma lo è da relativamente poco tempo, da quando alcuni convegni e
servizi giornalistici hanno riportato l'attenzione sul mezzo, a lungo oggetto di scarsa
attenzione da parte dei politici, del sistema dei media nel suo insieme, e anche dei
pubblicitari. Tra le conseguenze principali, per quello che ci riguarda in questa sede, c'è
stata la crescente pressione dei pubblicitari stessi sulle emittenti, per ridurre il peso
nell'audience di fasce ritenute poco appetibili (gli anziani e soprattutto gli adolescenti, che
fino agli anni Novanta costituivano una componente fondamentale del pubblico delle
maggiori radio musicali) e accrescere quello dei cosiddetti giovani adulti, tra i 20 e i 35
anni, target ritenuto tra i più appetibili per disponibilità di denaro e propensione al
consumo. Ciò ha comportato una maggiore attenzione ad alcuni format musicali (come il
cosiddetto adult contemporary) e soprattutto a format misti tipo music and news o
addirittura il non-musicale talk and news, e il ritorno di stazioni tradizionalmente basate
soprattutto sulla presenza e popolarità dei dj all'intrattenimento parlato. Nel complesso, il
linguaggio della radiofonia si è venuto ampliando, anche per lo sviluppo di alcuni settori nel
campo comunitario (l'attivismo della radiofonia cattolica esemplificato ad esempio dal
circuito “In blu”, lo sviluppo inatteso delle radio universitarie), sebbene le speranze di un
ritorno o nuova sperimentazione di generi da tempo scomparsi come il radiodramma o il
radiodocumentario appaiano per ora ancora premature.
E si è ri-articolato anche il panorama tecnologico del medium. Non solo, e almeno per ora
non tanto, grazie all'introduzione della radio digitale sostitutiva dell'analogica (digital audio
broadcast o DAB) quanto per la diffusione di forme miste, radio trasmessa via Internet o
web radio, eventualmente scaricabile e ascoltabile su lettori portatili (podcasting), e/o
abbinata a trasmissioni video, in rete o su canali televisivi veri e propri.
Si sta assistendo così a una sorta di crescente divaricazione nella produzione radiofonica:
da un lato una fascia “alta” dell'emittenza (non più di una decina di soggetti tra pubblici,
privati e comunitari, non necessariamente i più redditizi ma sicuramente i più dinamici
anche per l'abbinamento tra la radio e altre attività editoriali) caratterizzata da un aumento
dell'investimento e una diversificazione dei linguaggi; dall'altro una fascia più “bassa”
(ancora una volta, non necessariamente più povera) caratterizzata da un forte
conservatorismo delle scelte, da una tendenza a contenere al minimo indispensabile
l'occupazione regolare e professionale e a spalmare i costi su una pluralità di emittenti in
genere differenziate esclusivamente o quasi dallo stile musicale. Fermo restando che la
radiofonia comunitaria, basata in gran parte sul lavoro volontario o quasi, ha una funzione
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di stimolo nell'intero sistema, funzione frenata però dal generale sottodimensionamento
economico.
2.5. La televisione Per diversi anni è stato un luogo comune largamente condiviso quello
secondo cui la televisione detta “generalista” via etere sarebbe stata destinata a un
inesorabile declino in favore di una televisione più specializzata o “tematica” generalmente
a pagamento. In realtà sebbene la televisione a pagamento prima attraverso il satellite poi
con lo sviluppo di alcuni canali digitali “a scheda” si sia consolidata in particolare per
mezzo dell'offerta di sport, di cinema, e di alcune programmazioni documentarie, il modello
televisivo largamente prevalente resta l'altro. Del resto le reti a pagamento in Italia (per vari
motivi tra cui l'appartenenza della rete monopolista del satellite a un gruppo internazionale)
offrono ben poco di innovativo sul piano della produzione, anche se non manca a volte
qualche esperimento interessante. La programmazione televisiva detta “generalista” può
offrire un ventaglio estremamente variegato di generi, di qualità di prodotto, e anche di
costo: secondo alcune stime un'ora di palinsesto su una rete nazionale può costare dai
10.000 euro circa (replica di un telefilm già noto e vecchio) fino a oltre un milione. E'
difficile quindi formulare una valutazione unitaria sul settore, consigliabile piuttosto
ragionare su alcuni esempi e casi.
Per quanto riguarda le emittenti televisive regionali si è già notato come esse siano, in
generale, caratterizzate da una relativa scarsità di risorse rispetto ai grandi investimenti
richiesti oggi oltre che dalla produzione televisiva in generale anche dall'adeguamento al
grande change over tecnologico avviato con la cosiddetta “legge Gasparri” e la cui reale
attuazione viene continuamente rimandata ma è impossibile prorogare oltre il 2012: il
passaggio al cosiddetto digitale terrestre. Un'indagine sull'emittenza televisiva locale di una
regione che non è tra le più povere né tra le meno imprenditive del paese, il Piemonte (si
veda l'Osservatorio Culturale Piemonte 2007: il capitolo sulla radio e la televisione è curato
da Mediasfera) mette in evidenza la limitatezza e l'estrema prudenza degli investimenti in
produzione originale, produzione che con la motivazione in sé positiva del “radicamento
locale” si limita in gran parte dei casi, a parte le telepromozioni e televendite, a talk show
con politici e figure dello sport locale, cronache sportive e non, e nei casi di maggiore
impegno spettacoli da sale da ballo e simili. Le TV comunitarie in più offrono
documentazione anche di discreta qualità sul mondo dell'associazionismo e del
volontariato, ma per tutte il palinsesto è costituito in gran parte da materiali acquisiti sul
mercato, cioè quasi integralmente importato.
Le grandi emittenti televisive nazionali, RAI e Mediaset in particolare, sono per molti versi
all'opposto dello spettro, oltre che in termini di fatturato anche di impegno produttivo. Sono
infatti forse le massime imprese culturali italiane, anche se la cosiddetta produzione di
contenuti è in parte almeno delegata all'esterno e gran parte delle loro risorse come si
ricordava ha funzioni tecnico-amministrative. Le trasformazioni della loro logica di
produzione e programmazione appaiono quindi strategiche, ma dobbiamo parlare
nell'insieme di una situazione relativamente statica, per certi versi in via di impoverimento
ulteriore.
Senza volerci addentrare in tutti i principali generi, soffermiamoci su uno dei più
qualificanti, la cosiddetta fiction, che comprende le serie di più o meno lunga durata,
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incluse le cosiddette mini-serie (in genere tra le due e le sei puntate) e quelli che negli USA
vengono chiamati made-for-TV-movie. Le caratteristiche produttive della fiction televisiva,
un tempo molto diverse da quelle del cinema, si sono col tempo avvicinate a questo, fino in
alcuni casi a forme di relativa intercambiabilità. In generale oggi la produzione di fiction
tende a collocarsi nella fascia alta dei costi, anche se esistono da qualche tempo nel
paese forme di produzione che conciliano i costi contenuti con un tentativo di preservare
una discreta qualità, servendosi di set stabili, attori professionisti ma non celebri, èquipe di
scrittura addestrate a una produzione seriale relativamente standard.
La produzione di fiction italiana negli anni del nuovo secolo è cresciuta notevolmente per la
decisione comune delle due maggiori aziende, pur non rinunciando alla massiccia
acquisizione di serie dall'estero, di investire nella produzione originaledai cosiddetti biopic
alle serie su polizia, carabinieri, finanza ecc. Va detto per altro che pur non mancando
sceneggiatori, professionalità audiovisive, attori di buon livello la recente fiction italiana non
sta ottenendo sul mercato internazionale riconoscimenti significativi. Ciò deriva prima di
tutto dall'adeguarsi facile delle aziende italiane alla logica dei format: idee-base per serie (o
altri generi) che vengono acquistate all'estero e applicate con piccoli adattamenti. L'Italia in
questi anni è stata quasi esclusivamente importatrice di format in tutti i campi, dall'Olanda
e poi dai più vari paesi, Quèbec e Spagna oltre che le potenze anglosassoni. I casi di
format esportati dal nostro paese si contano sulle dita di una mano.
Se i format costituiscono il segmento generalmente a più basso costo della fiction
televisiva, problemi in fondo non molto diversi si ritrovano nella fascia “alta”, a causa di una
divisione del lavoro spesso perversa tra aziende committenti e produttori: i secondi
producono se e solo se le grandi emittenti garantiscono l'acquisto e quindi hanno
pochissimo spazio per l'elaborazione di idee autonome, per non parlare della produzione a
rischio di prodotti anche solo parziali; le grandi emittenti, a loro volta, commissionano
prodotti solo a partire dalla ragionevole certezza di un investimento pubblicitario adeguato,
cioè sulla base di una pre-vendita se non del prodotto almeno dell'idea.
Una riflessione finale E' possibile un'industria della creatività nella quale nessuno si
assuma il rischio di pensare le idee prima di cominciare a valutare la loro vendibilità?
Contrariamente a quanto si pensa, per esempio, il modello produttivo della fiction televisiva
statunitense dà ampio spazio a processi di questo genere. Il modello italiano, per
debolezze strutturali e anche per consolidate abitudini, no.
E forse si tratta di un esempio che vale ben al di là dello specifico caso della fiction
televisiva, e che ci aiuta a comprendere molti dei processi descritti in tutte queste pagine.
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