L`altra - Comune di Piombino

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L`altra - Comune di Piombino
libertà
Premio letterario Emanuele Casalini
Premio letterario Nazionale
“Emanuele Casalini”
riservato ai detenuti delle carceri italiane
Medaglia d’argento del Presidente della Repubblica
Medaglia del Presidente del Senato
Medaglia del Presidente della camera dei deputati
L’altra libertà
Con il patrocinio
e il contributo della
Provincia di Livorno
Premio letterario nazionale “Emanuele Casalini”
L’altra
L’altra
libertà
Premio letterario nazionale
“Emanuele Casalini”
7a edizione - Torino 2008
L’ALTRA LIBERTÀ
Premio Letterario Nazionale
“Emanuele Casalini”
7 ª edizione 2008
Il Premio Letterario Nazionale “Emanuele Casalini”
è promosso da Università delle Tre Età-Unitre
di Porto Azzurro e di Volterra, Fiera internazionale
del libro di Torino, Presìdi del libro Piemonte
presìdi
del libro
piemonte
con il patrocinio di:
Regione Piemonte
Regione Toscana
Provincia di Livorno
Provincia di Torino
Comune
di Torino
Comune
di Piombino
Comune
di Porto Azzurro (Li)
Segreteria del Premio
Lucia Casalini
Via L. da Vinci 30 57025 Piombino
Tel. 0565.221079
www.premiocasalini.it
Redazione e impaginazione: Presìdi del Libro Piemonte e Blu Edizioni
Copertina: Laura Caratti
Stampa: Benvenuti e Cavaciocchi, Livorno
Il Premio letterario “Emanuele Casalini”
Nel 2002 ricorreva il cinquantenario de La Grande Promessa, la
prima rivista carceraria italiana, nata a Porto Azzurro per iniziativa dei detenuti. In quell’occasione, la Società di San Vincenzo De Paoli e l’Università delle Tre Età - Unitre, che da
decenni svolgono attività di volontariato nel carcere elbano,
hanno ritenuto opportuno sottolineare il valore della ricorrenza con un’iniziativa significativa: l’istituzione di un premio letterario nazionale riservato ai detenuti e dedicato a Emanuele
Casalini, attento lettore, collaboratore ed estimatore de La
Grande Promessa, oltre che fondatore, presidente e docente dell’Unitre di Porto Azzurro.
L’iniziativa nasceva anche da una motivazione più profonda: il proposito di offrire nuove occasioni, nuovi incentivi a
quelle prove di scrittura che da sempre sono presenti nel
mondo carcerario come tentativo di rappresentare se stessi e
il proprio rapporto con il mondo.
Anche in carcere si scrive per ripensare il proprio percorso
esistenziale, per liberarsi, oggettivandoli, dai fantasmi dell’isolamento e dall’angoscia di essere confinati in luoghi tanto
remoti dalla comprensione degli altri uomini, per ritrovare la
propria identità, per tentare un dialogo con gli altri. È la ricerca di un ordine interiore che possa dare un senso al proprio
vissuto, e renderlo condivisibile con altri, attraverso la grammatica della scrittura, sia che si scelga la forma del racconto
sia che si scelga quella della poesia. È proprio così che si può
raggiungere una nuova consapevolezza, offrire nuove occasioni alla costruzione di sé, e al tempo stesso coinvolgere il lettore, facendogli conoscere storie, sentimenti, ambienti, situazioni che altrimenti non avrebbe occasione di approfondire.
Si tratta insomma di costruire un piccolo ponte che metta in
contatto il carcere con il mondo esterno, e che trasformi la
segregazione in un momento di incontro e di dialogo, di approfondimento reciproco, invitando il lettore all’ascolto.
Nei primi due anni la premiazione dei vincitori si è tenuta
nel penitenziario di Porto Azzurro. Poi, anche per le difficoltà di trasferimento e comunicazione che presenta un’isola, dal
2004 la cerimonia di premiazione è diventata itinerante, ed è
stata ospitata, grazie alla sensibilità e alla collaborazione delle
istituzioni, nel carcere di “Rebibbia” a Roma, nel “Lo Russo e
Cutugno” di Torino, al “Montorio” di Verona, al “San Vittore”
di Milano, e infine nel 2008 nuovamente a Torino.
Fin dalla prima edizione, dirigenti e operatori del mondo
carcerario hanno apprezzato e incoraggiato l’iniziativa, che
ha ottenuto il patrocinio della Presidenza della Repubblica,
della Presidenza della Regione Toscana e della Provincia di
Livorno, del Comune di Piombino e delle amministrazioni
degli enti locali e regionali e delle città che hanno ospitato le
premiazioni.
I giurati del premio, variamente impegnati nell’editoria,
nell’organizzazione culturale, nell’insegnamento e nelle arti,
hanno avuto il piacere e l’onore di avere con loro Anna Maria
Rimoaldi, studiosa di storia, regista, già attiva collaboratrice di
Maria Bellonci, poi direttore della Fondazione Bellonci, che
promuove il Premio Strega, il maggior riconoscimento letterario italiano. Anna Maria ha speso generosamente la sua vita
nella promozione del libro e della lettura, e ci ha lasciati il 2
agosto 2007, a Poggio nell’Elba, mentre a pochi passi dalla sua
casa si teneva una riunione della Giuria del Premio Casalini.
A lei il nostro ricordo più grato e più affettuoso.
Possiamo concludere queste poche note con le parole che
lei stessa aveva dettato: “Ogni premio letterario è una ricchezza che deve essere perseguita e valorizzata. Il Premio letterario ‘Emanuele Casalini’ ha una valenza sociale e umana che lo
rende particolarmente importante”.
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Chi era Emanuele Casalini
Tutti coloro che l’hanno conosciuto ricordano di Emanuele
Casalini il carattere mite, l’affabilità nel conversare, l’elegante
compostezza del comportamento. Quelli che hanno avuto con
lui più stretti rapporti di lavoro, sia nello spazio della scuola,
in cui lui è stato per molti anni professore di letteratura italiana e poi preside, sia in quello più movimentato dell’attività
sociale e politica, che lo ha visto a lungo attivissimo consigliere comunale, hanno avuto agio di apprezzare in lui da un lato
la raffinata sensibilità estetica, maturata in un lungo, vivo e
sistematico rapporto con la grande poesia, dall’altro l’illimitata disponibilità per i problemi umani, fossero quelli del giovane studente angustiato da un inserimento non del tutto agevole nell’ambiente scolastico, o quelli del comune cittadino alle
prese con le esigenze del vivere quotidiano, o, ancora, quelli
del recluso afflitto dalla sua esistenza solitaria, atomistica,
senza grazia di cielo, di libertà e di amore.
Questo strenuo impegno sociale era in lui informato alla
più genuina sostanza dell’insegnamento evangelico. Uno
degli atti più rispondenti al suo carattere e ai suoi principi è
stata l’istituzione, all’interno della Casa di Reclusione di Porto
Azzurro, di una sezione dell’Università delle Tre Età – Unitre,
non certo con lo scopo di elargire cultura, di cui del resto
molti reclusi sono tutt’altro che privi, ma con quello, molto
più alto anche se meno appariscente, di creare un rapporto
umano, un tramite fra la solitudine e la socialità. Emanuele
Casalini avrebbe potuto far sua la grande frase che un commediografo romano, Terenzio, pose in bocca a un suo personaggio. Homo sum: umani nil a me alienum puto (“Sono un uomo:
niente di umano considero estraneo a me”).
Luigi Alberto Mascia
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Comitato d’Onore
MERCEDES BRESSO
Presidente Regione Piemonte
PIETRO BUFFA
Direttore Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino
SERGIO CHIAMPARINO
Sindaco di Torino
ALDO FABOZZI
Provveditore Amministrazione Penitenziaria del Piemonte
FRANCO IONTA
Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria
GIORGIO KUTUFÀ
Presidente Provincia di Livorno
CLAUDIO MARTINI
Presidente Regione Toscana
GIANNI OLIVA
Assessore alla Cultura e Politiche Giovanili Regione Piemonte
S. E. PAOLO PADOIN
Prefetto di Torino
ROLANDO PICCHIONI
Presidente Fondazione per il libro, la musica e la cultura
S. E. Cardinale SEVERINO POLETTO
Arcivescovo di Torino
SIMONETTA POLVERINI
Presidente Consiglio Comunale di Piombino
IRMA MARIA RE
Presidente Nazionale Università delle Tre Età
ANTONIO SAITTA
Presidente Provincia di Torino
S. E. Monsignor GIOVANNI SANTUCCI
Vescovo di Massa Marittima - Piombino
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Giuria
ERNESTO FERRERO (PRESIDENTE)
Scrittore, direttore della Fiera Internazionale del libro di Torino
MIMMA CUFFARO
Pittrice
RAFFAELLA D’ESPOSITO
Docente al Conservatorio di Santa Cecilia, Roma
PAOLO FERRUZZI
Direttore Vicario dell’Accademia di Belle Arti, Roma
PABLO GORINI
Docente di materie letterarie al Liceo Classico di Piombino
PAOLO PESCIATINI
Direttore Confcommercio Isola d’Elba
CARLA SACCHI FERRERO
Collaboratrice editoriale, presidente dei Presìdi del libro Piemonte
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Porto Azzurro (LI), 2002:
l’interno del carcere
Porto Azzurro (LI), 2003:
Momenti della premiazione con Veronica Pivetti
Introduzione del Presidente
della Provincia di Livorno
Con la settima edizione del Premio “Emanuele Casalini” si conferma l’impegno dell’Amministrazione Provinciale a promuovere nel nostro territorio iniziative che tendono sempre più ad
aprirsi sul panorama nazionale.
La nostra provincia si contraddistingue per importanti e
affermate rassegne letterarie. Tra queste ricordo con orgoglio
il Premio di Cultura Politica “Giovanni Spadolini”, promosso
nell’ambito del Premio letterario “Castiglioncello”, che quest’anno è stato assegnato a due grandi personaggi della cultura: al politologo Giovanni Sartori per La democrazia in trenta
lezioni e al padre del giornalismo contemporaneo Eugenio
Scalfari per il libro L’uomo che non credeva in Dio.
Ricordo inoltre il Premio “Brignetti” dell’Isola d’Elba, che
annovera tra i vincitori nomi illustri, quali Eugenio Montale,
Mario Luzi ed Heinrich Böll. E non ultimo il “Casalini”, che si
affianca a questi riconoscimenti di rilevanza nazionale e internazionale.
Il nostro impegno a favore di queste rassegne si basa sul
principio che occorre incentivare ogni attività che promuova
lo sviluppo della cultura, come sancisce l’articolo 9 della nostra
Costituzione.
Quest’anno, nel sessantesimo anniversario della nostra Carta costituzionale, il Premio è accolto nella città di Torino e
acquista ancora maggior importanza. È un piccolo segno di
quanto sia fondamentale impegnarci tutti a realizzare i principi dell’articolo 27 della Costituzione nel quale si afferma che
“le pene non possono consistere in trattamenti contrari al
senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ritengo che il Premio “Casalini”, anche se rappresenta una goccia tra molteplici iniziative, possa realmente
costituire un “tendere alla rieducazione”, ad aiutare ognuno a
pensare in modo nuovo e più profondo. Sono anche queste
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proposte che, offrendo occasioni di confronto, di dialogo e di
speranza, ci aiutano a comprendere il bisogno primario “di
essere per gli altri”, di impegnarci di più a favore dei diritti
inviolabili dell’uomo e di essere instancabili promotori dei
doveri di solidarietà politica, economica e sociale.
Nel ringraziare la città di Torino che quest’anno ospita il
Premio, esprimo un caloroso saluto a tutte le Istituzioni civili,
militari e religiose. Rivolgo un pensiero particolare a quanti
hanno partecipato al premio e alle loro famiglie, a tutti gli operatori delle carceri e alle associazioni di volontariato che con
grande spirito di servizio operano a favore di questo mondo.
Giorgio Kutufà
Presidente della Provincia di Livorno
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Presentazione
Letteratura è conoscenza dell’altro, è stato detto lapidariamente. O anche: letteratura è conoscere con piacere. L’attività conoscitiva è quello che ci fa uomini, significa inoltrarsi per mari
non ancora esplorati, viaggiare dentro di noi attraverso paesaggi nuovi e incontri imprevedibili. Leggere e scrivere restano gli
strumenti migliori che abbiamo per capire noi stessi e il mondo.
Giunto alla sua settima edizione, il Premio “Casalini” vuole sottolineare proprio questo nesso, aggiungendo libri al riconoscimento in denaro, e intraprendendo una serie di iniziative per
incentivare la lettura e potenziare le biblioteche delle carceri
italiane, in collaborazione con la Fiera internazionale del libro
di Torino e l’Associazione Presìdi del libro Piemonte.
La letteratura vive di un felice paradosso: insegue una verità
umana attraverso una finzione dichiarata esplicitamente come
tale. Per fare questo, la scrittura deve restituire alla parola la sua
perduta intensità originale, e cercare il taglio di un’immagine
che ci faccia “vedere” quello che abbiamo sotto gli occhi, eppure non riusciamo a percepire. È la lente deformante che corregge la nostra miopia, mette a fuoco le cose, ce le rivela.
Così per Gabriele Aral, ancora una volta sul podio del
“Casalini”, le chiavi carcerarie diventano le nuove “lancette
della memoria”. La poesia deve trovare appunto lo scatto di
un’immagine o di una metafora, la forza dei simboli, che possono anche essere “due orecchini d’ametista”; o parole cadute a terra come foglie d’autunno, e tuttavia ancora capaci di
bruciare, di diventare un fumo acre che ci chiama in causa.
Antonio Faulisi, secondo classificato, parla di “amaca dei
ricordi” appesa “ai rami della vita”, e insegue la propria immagine che si disfa tra i cerchi dell’acqua, e vorrebbe non essere
per divenire quello che non è. Nella sua trilogia dell’ergastolano, “strano fantasma/che non riesce a morire”, alle prese con
un “passato che non passa” e con un presente immobile, quasi
fuori del tempo, Carmelo Musumeci ricorre all’iterazione
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(“Passi lunghi ben distesi…”) perché è la figura retorica che
meglio rispecchia il ripetersi di giorni sempre eguali a se stessi, una condizione che non concede niente, “neppure la sofferenza”, in un presente immobile che dura per sempre. “Si
muore tutti i giorni/per tornare di nuovo/a morire ancora”.
Può accadere che gli autori non si fermino al proprio vissuto,
ma si rendano interpreti e testimoni di tragedie collettive, quali
quelle dei clandestini che giocano una partita disperata su “ruggini galleggianti” (bella immagine davvero) come fa Marcello
Dell’Anna, terzo classificato, che si affida alla suggestione della
rima con l’immediatezza, approssimativa ma colorita, dei cantastorie, dei naïfs. Anche nei lavori segnalati si possono cogliere
immagini suggestive: i “desideri purpurei” di cui parla Silvano
Bartolini, gli “occhi grandi come uova di faraona bianca” di
Abdoulaye Konarè, l’uso colorito che Maurizio Peruzzi fa del
dialetto (la lingua della confidenza quotidiana, come lo chiamava Fellini), Flavio Grugnetti che intitola “Tra le righe di questa
notte”. E ancora la “sagoma stanca/che allo specchio disegna/
con crudeli graffiti/le sue guance scavate”di Sebastiano Milazzo,
i fiori fatti soltanto di parole di Houmine Kamal.
Per la prima volta ci sono giunti lavori anche dai carceri
minorili, e il lettore troverà qui i testi di Ciro, Marina e
Salvatore.
Le prove più convincenti e originali dell’edizione 2008 ci pare
tuttavia siano offerte da alcuni racconti davvero riusciti per
ritmo e intensità. Marco Purita, che si è laureato di recente,
racconta con rapidità hemingwayana, senza fronzoli - quasi
una stenografia- un combattimento pugilistico tra dilettanti
che consente al protagonista di ripercorrere la propria storia
famigliare e il conflitto con i genitori. Suggestiva l’immagine
del cono di luce che proietta sul quadrato del ring “l’imbuto
dell’acidità luminosa”.
Così come di forte impatto è l’appassionato canto d’amore
che Domenico Strangio dedica al suo paese, San Luca in
Aspromonte, tristemente noto alle cronache per le sue faide sanguinose. Strangio non le nasconde e non le minimizza. Parla
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anzi di una “malfamata periferia calabrese” in cui tutti sono al
tempo stesso colpevoli e innocenti, ma sostanzialmente “dementi”: “grumo inverminito”con le sue donne eternamente in lutto,
favo di afrodisiaco miele greco, malato terminale, mangiatoia
di Betlemme e camposanto,arsenale di armi, forziere di banche
che ogni tanto si abbandona alle sue insensate convulsioni.
Torna sugli straniamenti delle giornate di un ergastolano
Sebastiano Bontempo, che svolge in prosa il tema declinato
poeticamente da Musumeci, dandoci un referto asciutto,
quasi da cartella clinica, di giornate eguali che si distinguono
solo per minime differenze. Anche in questo caso l’effetto
drammatico è raggiunto con semplicità di mezzi.
Le scelte sono fatalmente soggettive e discutibili. Altri partecipanti avrebbero meritato il podio. Così Santi Pullarà, con la
sua storia di una famiglia baronale, ambientata nella Sicilia tra
le due guerre, che utilizza il ricorso a parole dialettali efficacemente introdotto da Camilleri. Gustosa anche la storia di paese
raccolta da Girolamo Di Gregorio: un marito accorre commosso al capezzale della moglie morente, rimproverandosi di non
aver saputo amare abbastanza quell’angelo, salvo provare furori omicidi quando lei gli chiede con un soffio di voce di perdonare un antico tradimento. Carmelo Rollo dimostra una notevole capacità costruttiva nel delineare il ritratto di una enigmatica nobildonna,e Corrado Ferioli sa consegnare senza commenti superflui la dura cronaca oggettiva di uno sballo da eroina. Francesco Di Pasquale riesce addirittura a calarsi nella testa
di un kamikaze irakeno, e ci spiega dall’interno perché decide
di imbottirsi di tritolo e consumare una sua privata vendetta
(felice è la sospensione finale, aperta a soluzioni diverse).
Tutte prove di buon livello, che dimostrano come i partecipanti abbiano saputo raccogliere le sfide del Premio “Casalini”
e trasformarle in un’esperienza costruttiva, in un percorso
motivato da una sua interna necessità. Chi scrive come chi legge
ne esce un po’ più consapevole, e magari un po’ cambiato.
Ernesto Ferrero
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Veronica Pivetti, madrina dell’edizione 2007, con Luca Lischi,
Capo di Gabinetto del Presidente della Provincia di Livorno.
Sezione Poesia
Opere premiate
Roma, 2004:
(in alto) Benito Ovidi con Margaret Mazzantini
(in basso) Anna Maria Rimoaldi ed Ernesto Ferrero premiano
uno dei vincitori
Torino, 2005:
Ernesto Ferrero premia uno dei vincitori
1° classificato ex aequo
Carmelo Musumeci
La ballata dell’ergastolano
Passi lunghi ben distesi
un passo, ancora un passo
per tornare subito indietro
un altro giorno null’altro
senza andare da nessuna parte
sogni che iniziano dove finiscono
rumori di metallo di chiavi
per giorni per mesi per anni
mura di cinta sbarre cancelli
occhi carichi di ricordi
ormai solo corpi parlanti più
vicini alla morte che alla vita.
Passi lunghi ben distesi
un passo, ancora un passo
per tornare subito indietro
prigionieri per sempre
togliendoci tutto
senza lasciarci niente
neppure la sofferenza
la disperazione il dolore
perché non si fa più parte degli esseri umani.
Passi lunghi ben distesi
un passo, ancora un passo
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un altro giorno null’altro
morendo dentro a poco a poco
presente uguale al futuro
uguale a domani uguale a ieri
sofferenza per il giorno dopo
e per il giorno dopo ancora.
Passi lunghi ben distesi
un passo, ancora un passo
un altro giorno null’altro
immaginando di vivere,
ma immaginare non è vivere.
Passi lunghi ben distesi
un passo, ancora un passo
con l’ergastolo la vita diventa una malattia,
una morte bevuta a sorsi;
non ci uccidono: peggio,
ci lasciano morire per sempre,
di un dolore che è per l’eternità.
Un altro giorno, null’altro.
La ballata dell’ergastolano due
Si muovono come spettri
tre passi avanti
tre passi indietro
nulla neppure il nulla
non hanno nulla per cui attendere
nulla per cui sperare
nulla per cui vivere.
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Si muovono come spettri
tre passi avanti
tre passi indietro
nulla neppure il nulla
non pensano
non vogliono pensare
forse non possono pensare.
Si muovono come spettri
tre passi avanti
tre passi indietro
nulla neppure il nulla
in un mondo che non conoscono più
in un mondo che non li riconosce più.
Si muovono come spettri
tre passi avanti
tre passi indietro
nulla neppure il nulla
in un mondo dove
il sopravvivere uccide il vivere.
Si muovono come spettri
tre passi avanti
tre passi indietro
nulla neppure il nulla
in un mondo dove la morte
non fa più paura
dove la notte divora il giorno
dove la luna oscura il giorno
dove i giorni sono lunghi
e le notti ancora di più.
Si muovono come spettri
tre passi avanti
tre passi indietro
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nulla neppure il nulla
guardando il tempo che va via
senza prima né dopo
solo presente che dura per sempre.
Si muovono come spettri
tre passi avanti
tre passi indietro
nulla neppure il nulla
sopravvissuti al passato
ma non al futuro
perduti per sempre
in un modo perduto.
La ballata dell’ergastolano tre
Si muore tutti i giorni
per tornare di nuovo
a morire ancora:
l’ergastolano non può guardare
in faccia il futuro, può solo
guardare il tempo che va via.
Il suo futuro è tutto scritto
una lenta agonia senza rimedio
che dura un’intera vita
e che rende innocente
chi è colpevole.
Si muore tutti i giorni
per tornare di nuovo
a morire ancora:
l’ergastolano tira a fare sera
e a fare mattino,
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uno strano fantasma
che non riesce a morire
una persona che c’è e non c’è
che non ha più una vita propria
perché non appartiene più a se stesso.
Si muore tutti i giorni
per tornare di nuovo
a morire ancora:
la pena dell’ergastolo
ti mangia l’anima, il corpo
il cuore e l’amore
l’ergastolano non pensa
al futuro perché pensare
al futuro, ha senso solo
se si ha futuro:
lui non sa più chi è
dov’è, né dove va.
Si muore tutti i giorni
per tornare di nuovo
a morire ancora:
l’ergastolo è una vendetta
la vendetta dei forti, dei vivi.
È una corsa della morte
con la morte, per la morte.
Si muore tutti i giorni
per tornare di nuovo
a morire ancora:
l’ergastolo distrugge
più dei nostri reati.
L’ergastolano non ha nessun domani
ha solo un passato che non passa
è come essere morti
prima di morire.
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Motivazione
Tre sono le Ballate dell’ergastolano, da leggere contestualmente
perché fra loro inscindibili, anche da un punto di vista metrico. La
scelta di iniziare ogni strofe con gli stessi versi riesce a suggerire,
secondo le intenzioni dell’autore, quel senso di terribile monotonia,
di inutilità, di frustrazione, oltreché di inesorabilità, che caratterizza una pena come l’ergastolo: “Passi lunghi ben distesi” nella cella,
“per tornare subito indietro”, “senza andare da nessuna parte”.
Null’altro. La cronaca quotidiana di una vita interrotta, sospesa a
tempo indeterminato, dove al massimo ti è concesso di “immaginare di vivere”, ma “immaginare non è vivere”. Ci si muove come fantasmi “tre passi avanti, tre passi indietro”, senza pensare, senza
avere nulla in cui sperare, in cui credere, ormai estranei a un
mondo estraneo. In quello che è, ormai, il loro universo, “il sopravvivere uccide il vivere” e “la notte divora il giorno”. In una condizione del genere, dove ogni giorno si torna a morire, dove non c’è
futuro ma un passato che non passa mai, questa lunga agonia che
“distrugge più dei nostri reati” sembra conferire innocenza a chi è
colpevole. Analisi lucidamente oggettiva, ancora più efficace perché
l’autore non cede ad alcun impulso di autocommiserazione.
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1° classificato ex aequo
Gabriele Aral
Il nostro silenzio
Dormono le cetre all’ombra dei muri
gelosi custodi di un silenzio antico,
ferme le corde coraggiose
come mi appare l’immobile beffardo scorrere
del tempo che consola
della vita che tradisce.
Dormono le cetre sovrastate
dal clangore dei cancelli,
da serrati concerti di chiavistelli,
dal folle balletto delle chiavi
scalpelli appuntiti, che battono
il tempo ai pensieri del giorno,
novelle lancette della memoria.
Dormono le cetre alla luce ferita
sotto uno strato sottile
di costante, quotidiana ipocrisia
che cade su fratelli sconosciuti
di patrie e case sperdute
e di cuore più lontano.
Dormono le cetre e l’inclito alloro
nella vacuità delle parole:
sono i libri di diritto,
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gli altoparlanti comizi elettorali,
e i colorati proclami da Tv,
eppur vibravano per un fiocco di neve
per un sussurro o uno sguardo
per il suono di un’idea.
Dormono le cetre appese alle sbarre
un lenzuolo l’unica corda
per un nodo che non si scioglie,
la testa di ghiaccio, gli occhi sognanti
e un peso indescrivibile
che non puoi sollevare
che non puoi dimenticare.
E anche ora
che suono con forza gli accordi
non è di note ciò che io canto:
le mie parole sono carne
sono nomi e cognomi le mie ore,
sono rughe sotto il sole
sono occhi per guardare
sono piaghe nelle mani
che non volevano toccare
sono chicchi di grano…
… da seminare.
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Profumo
Come possono
all’improvviso
i legacci di così lunghi inverni
e i colori pieni di rampicanti estati
sciogliersi?
E come può la dolcezza essere affilata?
Sandalo, baobab
il cuoio e l’argento antico:
in un piccolo negozio
di un vecchio vicolo
comprai due orecchini d’ametista
per due occhi verdi
che riempivano i miei.
Le mie parole
Le mie parole
sono foglie d’autunno,
cadute prima di cadere,
d’intralcio a terra
alla vostra vista
e al vostro cammino,
nei lunghi viali
e nei cortili sicuri.
Bruciatele pure!
… Ma che fuoco, e che fiamme!
Che denso fumo
nel vostro cielo vuoto.
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Motivazione
Nella più lunga delle tre liriche della silloge (Il nostro silenzio)
l’andamento anaforico che caratterizza l’inizio di ogni strofe e il riferimento alle cetre che dormono appese è, con tutta probabilità, un
omaggio a Salvatore Quasimodo che imprime a tutta la lirica un
tono alto. Le cetre dormono, tacciono mortificate dalla banalità del
presente, dalla “vacuità delle parole”. Sotto metafora: è difficile, se
non impossibile, far poesia in un mondo sempre più contrassegnato dall’ipocrisia quotidiana e da un materialismo dilagante che
impedisce di ispirarsi all’incanto delle cose semplici e pure. Tanto
più se il nostro tempo è scandito dal suono di chiavi e chiavistelli
che ci riportano inesorabilmente alla dura concretezza della nostra
(attuale) condizione. Delle altre due liriche, Le mie parole e
Profumo, vale la pena di sottolineare l’utilizzo di abbinamenti lessicali di sapiente ricercatezza: “foglie cadute prima di cadere”, “dolcezza affilata”, “due occhi verdi che riempivano i miei”, a ulteriore
conferma della maturità espressiva raggiunta dall’autore.
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2° classificato
Antonio Faulisi
Speranze
Speranze,
illusioni nate già stanche
invano inseguite.
Irripetibili momenti
cancellati dal vento della tempesta.
L’amaca dei ricordi,
ai rami della vita,
da troppo tempo appesa,
da qui, ora,
agitata dalla mia memoria
mi pare che si muova,
ancora
e ricomincia il gioco
delle mie dimenticate
speranze.
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Ho bisogno
Ho bisogno di un cielo
tutto mio.
Ho bisogno di un cielo
dove navigano bianche
cascate di pensieri
fra onde di speranze
e deliri di eternità.
Immagine
Intrepido,
la mia immagine
inseguo.
Si fa e si disfa
fra i cerchi dell’acqua
e mentre sono
vorrei non essere
per divenire quello che
non sono.
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Motivazione
Difficile, quando ci si trova in una dimensione coatta, continuare
ad alimentare speranze e illusioni “nate già stanche”, come le definisce l’autore, e cancellate, in apparenza definitivamente, dalle tempeste della vita. Ma quando “l’amaca dei ricordi”, da troppo tempo
appesa ai rami dell’esistenza, accenna a muoversi di nuovo, ecco
che ricomincia ad affacciarsi il gioco delle speranze che sembravano
ormai dimenticate. In Ho bisogno la libertà, la cui privazione è la
maggiore sofferenza per chi si trova nella condizione di detenuto, si
concretizza nella necessità di avere a disposizione uno spazio esclusivo e privato di cielo, dove diffondere i propri pensieri “fra onde di
speranze e deliri di eternità”. Infine un riferimento alla particolare
suggestione che trasmette l’ Immagine dell’ultima poesia, capace di
scomporsi e ricomporsi infinite volte senza trovare il modo di fissarsi in una forma stabile, mentre il poeta vorrebbe rinunciare all’attuale esistenza per poter divenire altra cosa da quello che è: “mentre
sono/vorrei non essere/per divenire quello che/non sono”...
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3° classificato
Marcello Dell’Anna
Clandestini su ruggini galleggianti
Ruggini galleggianti
lasciando la mezzaluna
portando visi affranti
in cerca di fortuna.
Ruggini galleggianti
dai nomi maestosi
vengono avanti
spinte dai marosi.
Ruggini galleggianti
cariche di dannati
portano visi spenti, visi mascherati,
con l’odio fra i denti perché perseguitati.
Ruggini galleggianti
cercando la riva
cariche d’innocenti
lasciati alla deriva…
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Questo fiore è…
Sono lontano dal mio giardino
e non lo posso curare il mio fiorellino.
Per questo dolore si sente appassire
ma io sono certo che lo farò rifiorire.
Dalla finestra guardo il giardino
senza vedere il mio fiorellino.
Non lo vedo e mi sento svenire
penso al ritorno e mi sento rinvenire.
Questa stranezza dà molta importanza…
un amico mi chiede dalla sua stanza.
Io gli rispondo, guardando il giardino,
che adoro molto un fiorellino.
Non è una rosa né una primula né una margherita,
ma è l’unico fiore della mia vita.
Per questo soffro tanta nostalgia
questo fiore sei tu Vita Mia!
31
Il mostro
Con espressione incolta
e con fumosa mente
a chi di voi m’ascolta
racconterò di gente.
A rima tanto chiara
racconterò del “Mostro”
che vive tra Livorno
e il grande mare nostro.
Un immenso “Mostro” oscuro
che contrasta i nostri appigli
poi ci appende al muro
come… miseri conigli.
È un “Mostro” silenzioso
che tutti fa tacere
è tanto religioso
con sete di potere.
Con il passar del tempo
scruta nei nostri cuori
divertenti nel silenzio
i suoi relatori.
Come ogni sera
in una oscura stanza
il “Mostro” silenzioso
è “l’Elevato Indice di Vigilanza”.
32
Motivazione
L’autore di questa silloge utilizza, in aperta controtendenza rispetto
alle odierne preferenze, una metrica di tipologia tradizionale, facendo uso, con efficacia, della rima, per lo più alterna. Ne risulta, sulla
scorta della facile orecchiabilità dei versi, un apparente alleggerimento delle tematiche, serie, se non addirittura tragiche. Ma le “ruggini galleggianti”, le carrette del mare che portano, attraverso il
Mediterraneo, il loro carico di derelitti, di disperati, di innocenti
“lasciati alla deriva”, trasmettono al lettore un messaggio di angoscia, di rabbia, di frustrazione più diretto e immediato che se fosse
espresso attraverso l’analisi approfondita di un testo letterario.
Con la stessa scioltezza metrica, accompagnata da una lieve ironia, si esprimono dure verità: che in carcere, dove il dolore prevale
su qualunque altro sentimento, è difficile curare e coltivare il fiore
della propria esistenza e che, con battuta a sorpresa finale, il terribile “Mostro”che si aggira furtivo fra le mura, capace con il suo
potere di ridurre tutti al silenzio, è “l’Elevato Indice di Vigilanza”!
Parole lievi che spingono a riflessioni profonde.
33
Verona, 2006:
Consegna premio e attestato a Pierangelo Rubagotti da parte di Luca
Lischi, Capo di Gabinetto del Presidente della Provincia di Livorno
La Giuria riunitasi a Poggio (Isola d’Elba) il 2 agosto 2007
Opere segnalate
Barbara Attanasio
Canzone
Alza lo sguardo
ma resta in silenzio.
Ascolta il suono
dell’aria immobile.
Non è il vento col suo volare,
né la brezza col suo sussurrare
è l’immobilità
che fa rumore.
Chiudi gli occhi
ora,
prova a immaginare,
immagina una stella
e il suo bagliore.
Chiudo gli occhi
ora
e ti vengo a incontrare
su quella stella
immersa nel bagliore
lontano da qui
da questo luogo
di disperazione,
di espiazione,
di risurrezione.
Alza lo sguardo
ascolta il silenzio
di questo cielo
terso.
36
Ascolta il tuo cuore
e il suo pulsare
è la tua canzone
non la dimenticare.
Via
Sentirmi sola, quando,
in mezzo a finti sorrisi,
le parole diventano
afone e la mia mente
vola altrove
a cercare un senso diverso.
Via, lontano
da tutto quel dolore altrui
che mi travolge, mi sommerge
e amplifica il mio
lasciandomi esausta, stremata, smarrita.
Via, lontano
in cerca di quel sorriso
il solo che sa lenire la mia agonia;
in cerca di quel calore
l’unico in grado di scaldarmi ancora il cuore:
in cerca di quell’abbraccio
che sa trasformare in rugiada le lacrime mie.
Via, lontano
costantemente sola, in cerca di te
su questa giostra, senza fine corsa,
che è la mia malinconia.
37
Canto a Morfeo
O dolce Morfeo
compagno instancabile
delle mie tormentate notti,
m’incanti e m’illudi.
E ora che il sole è sorto
malinconica ti guardo,
beffardo padrone,
e lì ti lascio,
tra il cuscino e le lenzuola.
38
Ciro D.
Caro papà
È tant’ tiemp’ can un te sogn’
chissà a ’ro stai
chissà che fai
se c’ pienz’, oppure no.
Tu c’ ’e lassat
senza nu perché
l’orgoglio t’ha purtat’
addò stai mò
i’ so’ sicur’
ca stai buon’
miez’ a’ l’angel’ comm’ a te
e nu juorn
pur’ io veng’ a dù te.
Tu nun m’ ir sulo pate
pe’ me faciv pur ’o frat’
e i’ t’ confidai
’a primma ’nammurata
che desiderio ’e te vedè
pe’ l’urdima vota affianc’ a me.
Caro papà
m’ ’e rimast’ sulo cu’ mammà
ca nun vò’ mangia’
e sta semp’ a pensà
ca nu juorn
tuorn ccà.
Da quann’ t’ n’ s’i jut’
mai ’na notte
me venut’ a salutà
39
e primm ’e ma durmì
sperav’ ca passav’ ’a ’cà.
Com’ me mancan’ ’e carezz’
mamma mi’ quant’ amarezz’
si m’ sos’ ’a dint’ ’o liett’
e nun te trov’ affianc’ a me.
Tu vuliv’ ’nu nepot’
ma però t’ n’ si jut’
e mò ca stu suonn’ s’ è avverat’
da langopp’ l’ ia guardà.
Pur’ si stiv malat’
nun te mancav’ mai a resata
mai nient’ c’ ’e fatt’ capì
nun c’ ’e fatt’ mai suffrì.
Caro papà
t’agg’ scritt’ ’sta poesì
spero ca t’a può sentì
i’ mò m’ vac’ a cuccà
ca speranz’ ’e te sunnà.
Carcere
Natu juorn’ accummencia
che fastidio stu sole
filtr’ ’a ’na finestrella
e nun ce sape scarfà
chi dice nun ’a durmuto,
’a mamma s’a sunnato
che l’ha stesa ’na mano,
pe’ l’accarezzà
e pur’ i’ comm’ a loro
sogn’ a chi tengo caro
40
che corrono ’a chiesa
e me vann’ a pregà
che dolore ’o core me fa
si pens’ a te, cara mammà.
È ’na scelta sbagliat’,
ca purtroppo è capitat’
nun è ’o destin’ ca l’ha criat’
ma simm’ nuie ca ce l’amme cercat’.
Chi mette speranza
chi pens’ a’ libertà
so’ chest’ ’e cos’
ca c’aiutan’ a campà.
Ce sta chi pe’ compagnia
sa stregn’ ’na fotografia
facen’ ’na preghier’ a’ dì,
chi telefon’ a’ ’nammurata
oppure ’a mamma e o pate,
vulessen’ fermà ’o tiemp’
ma nun ’o puonn fa
e quando chiamm’ l’appuntat’
è fernut’ ’a telefonata.
Iamm a saglì
e i’ dic’ “ve chiamm’ viernerì”.
Appen’ ’o sole chiamm’ ’a luna
e tutt’ a tuorn se fa scur’
è silenzio dint’ ’o reparto!
Se fa fint’ ’e durmì
chi se vot’ e se gira,
chi ce menca ’o respir’.
È semp’ ’o stess’ ccà dint’, e che fa
’a speranza aiuta a campà.
41
Alessandro Crisafulli
I
Sospesa, la mente
arranca sull’erta
dell’esistenza.
Non desistere, anima
soffocata;
nutriti col silenzio
dei sogni e libera
l’inesprimibile pensiero:
dolce trasalimento di
un verso esitante.
Occhi vigili ti
strappano le attese,
penetrano nelle carni;
l’eco del fondo
annulla le certezze.
Sono un grumo
sotterrato che
tremante si
scioglie
alla vita.
42
II
Muto il pensiero,
congelato il respiro,
riempio il silenzio
aspettando di
esistere.
III
Un frammento
stuprato si
smarrisce nell’eco
sprofonda
il gesto che
recide il pensiero.
43
Luigi D’Avino
A mia figlia
Cara Gemma ti amo da morire
e sei sempre nei miei pensieri.
Mi ricordo quando ti portai alle giostre
e tu avevi paura,
io ridevo e tu piangevi:
non volevi salire.
Avevi 12 anni, era sotto Natale
e ti rivedo ancora
col tuo cappottino nero
e cappuccio in testa fino agli occhi.
Tu piangevi e io ti baciavo.
Una volta…
Una volta ero una tigre molto aggressiva
ma adesso sono un leone stanco
dormo dalla mattina alla sera
e non do fastidio a nessuno.
44
Ero solo…
Ero solo
ma ora ho mia figlia Gemma
che mi vuole bene.
Mi manca tanto mia figlia Gemma,
la sua presenza piena di allegria
le sue risate contagiose e la sua voce che mi chiama:
“Babbo babbo babbo”.
Mi sembra di rivederla al nostro ultimo colloquio
lei era diventata una donna bellissima
con i suoi capelli lunghi lisci castani
e i suoi grandi occhi scuri.
45
Gabriel
Sospiri
Silenziosa cala la notte
nei sospiri degli amanti lontani
sospiri di labbra che si baciano
senza toccarsi
sospiri di anime che si avvinghiano
nello sfiorare di una mano calda
occhi che si guardano
dietro sipari di purpurei desideri
vogliosi
di attimi eterni
mani delicate
confessioni silenziose
di immensità carpite
in un desiderio realizzabile
solo a metà.
Impatti di battiti
tristezze sussurrate
sogni raccontati
chiusi negli occhi dell’amore
gemiti di ardore
dentro canzoni stonate
cadere all’indietro
nel vuoto del buio
che culla teneramente
l’essenza dello spirito
l’essenza dell’attimo
silenziosa cala la notte
nei sospiri…
46
Il mio nome
“… Dormi anima mia,
riposa,
nel silenzio di questa notte,
dove il mio sguardo si posa
sui tuoi profili
e il mio orecchio conta
i battiti del tuo cuore…
Mi inebrio dei tuoi profumi,
e
teneramente abbraccio il tuo respiro.
Tendi serenamente la tua mano a Morfeo,
che io,
tenendo fede al nome mio,
sarò qui a proteggerti.”
47
E vengo da te
E vengo da te
a te
per celebrare la vita
inghiotti le mie ansie
le porti via con te
nell’immenso
il tuo moto incessante
come le profonde maree
del respiro
allieta il mio cuore
e come il miele è dolce
il tuo frastuono
viva immensità
ogni parola è vana
non si raggiunge…
Racchiude…
La tua profondità.
48
Flavio Grugnetti
Tra le righe di questa notte
Sotto un cielo stellato
danzi a piedi nudi
in un’altalena di sorrisi e pianto.
Danzi senza fermarti mai
senza voltarti indietro.
Nella speranza di ciò che è stato
non fu sofferto invano.
Danza anche lo sguardo
ad abbracciare tutto il cielo…
Un cielo che non perdona
e ha occhi che scavano dentro
a scoprire anche i silenzi.
Le chiavi del tuo passato
le troverai per caso o per fortuna
tra le righe di questa notte
dove fortuna non è
se non per caso.
49
Pezzi di una storia
È aspro l’odore dell’aria stasera
si direbbe che il tempo passato
è andato perduto.
Mi ritrovo fra i denti
i pezzi di una storia
mille e poi ancora mille volte riletta.
Ora la tua voce
è confusa nel vento
e nel fruscio delle foglie.
Tesa come un lancio di sassi
rimbalza si smembra
s’adagia in lamine piatte.
Mi hai lasciato il profumo
d’un lungo volo d’ali
una rabbia stretta in pugno
e nell’alba…
La sorpresa di un sorriso.
50
Sguardo complice
La vita resta un segreto
dove le prospettive divergono
in angoli d’amore e ironia.
Discorda anche il presente
che fugace
ferisce soltanto un’ultima illusione.
È dunque solo un miraggio
il desiderio di un tempo
che potrebbe e forse dovrebbe
essere migliore?
Porgere la mano alla vita
sarà come scindersi sul cuore.
Lontani per un giorno
da quell’ira della mente
che si spegne nello sguardo complice
di due occhi limpidi.
Tra le spire di questo monologo
conto le ore
su un quadrante che non ha dubbi
o echi…
Di possibile ritorno.
51
Houmine Kamal
Vola pensiero
Oh mio pargolo!
Tu che hai messo i primi denti
tu che hai fatto i primi passi
tu che hai cominciato a giocare con i bambini,
e io sono qui, con i miei pensieri
non so se la musica mi fa pensare
o il pensiero mi fa sembrare
che la musica è più bella.
Ma so che tutto si mischia in una dimensione
di pura fantasia come il tuo
sguardo bambina mia,
guarda, guarda Amore.
Se forse ci separa un paese e la mancanza
è lunga, non avere paura amore,
il ritorno è vicino.
Vorrei fare tante cose ma la sera
giunge al calar del sole
E rinvio all’indomani quello che non
porto a termine.
Ma resta solo il mio pensiero che
vola come una farfalla,
che cerca di abbracciare il tuo cuore.
52
Sul viaggio
Signora mia
sono venuto da te
dal mio viaggio con fretta,
spaccandomi come le onde
sopra la tua spiaggia
per raccontarti le mie avventure
sul mio viaggio
rubo il tuo sogno,
e accendo la luce dei tuoi occhi.
Signora mia,
sei orientale nel tuo amore
quando ho cercato
ti ho trovato nei miei libri,
ti ho trovato nella mia sera, come una luna
ti ho trovato come grande di profumo
nei miei fiori.
Ti ho trovato come il sole.
Torna tutto il mondo nel tuo senso,
il mio stile è orientale
il mio regno è mille città,
la spiaggia dentro i miei occhi
i miei sentimenti nei miei regni
i miei fiori sono soltanto di parole.
53
Abdoulaye Konarè
Nel fiume isolato dalla città
Nel fiume isolato dalla città
un mattino ho marinato la scuola
ho incontrato una strana persona
con corpo coperto di paglia secca.
Dritto in piedi, baffo bianco,
si incamminava tranquillamente
lo guardo con meraviglia
le labbra sorridenti, in fronte sei occhi,
gli occhi bianchi senza pupille,
occhi grandi come uova di faraona bianca,
mormorava: “Giovane, sta nascendo il giorno…
Giorno uguale come tutti gli altri pari!”
Non dimentico mai le sue meravigliose parole:
“Se non vuoi essere picchiato evita di picchiare l’altro”
“Se non vuoi provare vergogna dovrai lavorare tanto”
“Se vorrai che le porte del paradiso ti siano aperte dovrai
credere in Dio”
“La comunità che ti è destinata, vivila responsabilmente”
“Quando abbiamo paura di soffrire dobbiamo soffrire per
quello che temiamo”.
Passo dopo passo ripeto le sue lunghe e belle parole senza
sosta
cammino sul lembo del fiume con la gola arida
vedo un po’ d’ombra vicino a un albero.
Per terra tutto tappezzato d’erba fine di cui non rammento il nome
ho bevuto in un pozzo d’acqua chiara, limpida,
dopo tanti anni la freschezza mi rimane vivace.
54
Il cuore nel viso come l’angoscia anzi il piacere
… Che bisogno avrò di questa libertà.
Ero nel resto d’acqua piovana che gli uccelli
non sono ancora riusciti a sporcare.
55
Marina S.
Le mie lacrime
Per dire le mie lacrime io canto
canto per raccontare il mio dolore.
Al chiuso delle sbarre mi sento morire
ma se la luce si accende nella mia stanza,
per la gioia mi abbandono nella mia stanza.
E danzo, danzo
che mi sembra di volare
e il cielo, con le dita, mi pare di toccare.
Danzo come una farfalla color lillà
di fiore in fiore, verso la libertà
libertà di essere amata
e come un fiore da te essere sfiorata…
E intanto
per dire le mie lacrime io canto.
56
Sebastiano Milazzo
Graffiti
Ora che i fragili cristalli
sono cocci e il vuoto
d’anni luce agghiaccia
le pupille
più nulla resta
del fanciullo di ieri
rapito dal tempo.
Ora che corvi neri
e ali immonde
volteggiano sulla valle
più nulla resta
del ventenne di ieri
sfumato nel nulla.
Rimane quest’uomo
questo misero avanzo
questa sagoma stanca
che allo specchio disegna
con crudeli graffiti
le sue guance scavate.
57
La statistica
Di giorno rubo
spiragli di luce al cielo
con trastulli momentanei
stanco di essere vivo.
La notte vivo il furore
della mia condizione
stanco di essere un numero
di una statistica.
Un numero che elenca
la vita e la morte in cifre
non racconta
che piango e graffio pareti
tra scorci di cielo notturno
e rantoli mattutini.
58
La luna
Quel disco bianco
che si vede a occhio nudo
da ogni parte della terra
da questo luogo
si tiene a debita distanza.
Qui mostra il buio
del fondo della valle
e mentre gelida sonnecchia
annera la terra con le case
agli occhi di chi medita ed è solo.
Non soffre mentre ammira
i pesci che si dimenano sulla riva
e se qualche volta si vergogna
lo fa per circostanza…
Condiziona l’acqua del mare
che avanza e si ritira
e mentre tronfia si specchia
ha preso l’abitudine di prendersela
con i pesci che stanno a riva
a contare gli eventi con le dita.
Pazienza piccola, i giorni saranno secondi,
ma succeda quello che succeda,
tornerò ai tuoi occhi.
59
Mille Madri
Ciao stella!
Alla vita e a tutte le madri del mondo che
piangono per i propri figli quelle lacrime che…
alimentano lo straordinario giardino dei sogni.
Per Francesca affinché continui a credere nelle
meraviglie del mondo nonostante tutto.
Ciao stella!
Lucente in quell’altissimo cielo,
avvicinati, almeno un po’ da poterti sfiorare.
Piccola cosa appari lontana,
grande cosa sarebbe averti.
Vorrei abbracciarti così forte da
far esplodere tutta la tua luce!
Ma ben piccola cosa sei in confronto a ciò che
sento vorrei dentro!
Portami con te, portami via!
L’ultimo dei miei pensieri vale troppo per
seppellirlo
ma al primo di essi rinuncerei
pur di stringere te, bambina mia!
E mentre le lacrime irradiano il cielo, come
pioggia sottile,
gli occhi riflettono il tuo volto…
Meraviglioso, enorme amore mio, Francesca,
che sai darmi senza neppure saperlo!
Sempre dentro il cuore,
sempre urlando al cielo il tuo nome
60
affinché tu possa ascoltarmi in qualche luogo
del mondo!
Guardami ora, lucentissima stella;
irradia il firmamento affinché ogni corpo
possa risplendere del mio amore per te!
Mentre parrà un sogno averti ancora a fianco
sarà realtà il nostro grandioso abbraccio!
Ora Francesca perdona il mondo che
troppo in fretta
ti ha svelato i suoi arcani,
io maledico il tempo passato lontane,
ma tu, amore mio,
credi ancora alle favole, fallo!
Credici,
piccola Francesca!
Anche le stelle possono parlare!
Chiamale per nome come faccio io!
Non è follia, piccolo amore mio,
è il mondo della ragione che
da troppo regna impunito,
le fiabe non morranno mai,
mai saranno piegate dalla realtà,
perché nulla è più reale al mondo
del desiderio d’una bambina!
Nulla vale più al mondo,
più anche della ragione,
delle tue parole urlate al cielo
assieme alle mie!
Sarà!
Di nuovo assieme…
61
Maurizio Peruzzi
Laoràa, pregàa
Per mi el me laoràa,
ij tanti rôb che fo
ij tanti rôb che mi farìa,
l’è istess che recitàa l’Ave Maria.
Domà che de pregàa son minga bon
e inveci, dai me man
quaicoss vegn foera.
Laoràa l’è, de pregàa
la mia manera.
Ma adess som chi in galera
me lassen nient de fàa.
Me giri in gir, me vardi i man…
me par de bestemmàa!
Incoeu, bonora,
dormiva domà on oeucc,
l’alter vardava
vegnìi on alter dì de disperazion
de noja,
me son insognà Maria
che entrava in la mia cella
e la g’aveva in vis
domà ona lagrima
domà un soris.
La m’ha ciapà ij man in dij sô man
la g’ha lassà cascàa la lagrima in del mezz
62
poeu mi ha miss sul coeur e la m’ha dit:
“Adess te insegni mi!
Lassa stàa de pregàa
se te set minga bon,
parla con mi.
Parlom de quei che stan pegg de ti
parlam de quei che te voeren ben
e de quei che t’han dismentegà.
Parlom dij to fioeu
e on po’ anca del mé.
Te vedaret che sem l’istess, mi e ti,
mi mamma, ti papà,
stessa speranza, stessa disperazion
stessa carna, istess dolor, l’istessa vida”.
Poeu la m’ha cavà foera del coeur,
cont el soris,
du ô tri bestemm ij ultim,
e l’è sparida.
E mi – doman so nô
ma per incoeu –
me par che ho comincià a pregàa.
63
Lavorare, pregare
Per me il mio lavorare,
le tante cose che faccio
le tante cose che ancora farei,
è come recitar l’Ave Maria.
Soltanto che di pregar non son capace
e, invece, dalle mie mani
qualcosa viene fuori.
Lavorare è, di pregare
la mia maniera.
Ma adesso sono qui in galera
non mi lasciano niente da fare.
Mi giro in giro, mi guardo le mani…
mi sembra di bestemmiare!
Stamattina presto,
dormiva un occhio solo
l’altro guardava arrivare
un altro giorno di disperazione
di noia,
mi son sognato Maria
che entrava nella mia cella
e aveva in viso
solo una lacrima, solo un sorriso.
Mi ha preso le mani nelle sue mani
gli ha lasciato cadere la lacrima nel mezzo
poi me le ha messe sul cuore e mi ha detto:
“Adesso ti insegno io!
Lascia perdere di pregare
se non ne sei capace,
parla con me!
64
Parlami di quelli che stanno peggio di te
parlami di quelli che ti vogliono bene
e di quelli che ti hanno dimenticato.
Parlami dei tuoi figli
e un po’ anche del mio.
Vedrai che siamo uguali, io e te,
io mamma, tu papà
stessa speranza, stessa disperazione,
stessa carne, stesso dolore, la stessa vita”.
Poi mi ha tirato fuori dal cuore,
con il sorriso,
due o tre bestemmie,
le ultime,
ed è sparita.
E io – domani non lo so
ma per oggi –
mi pare che ho cominciato a pregare.
65
Salvatore D.
Riflessione sulla guerra
La luce è fioca sul campo di battaglia
Solo un cero resta illuminato,
... non c’è fango, né sterpaglia
solo un piano lucidato.
Anche oggi teatro di competizione
Tra mani esperte con l’animo guerriero.
Che si scontreranno senza esitazione
Con la sola forza del pensiero.
Quante guerre travagliate
Tra innumerevoli condottieri
ma con milizie sempre immutate:
gli uni bianchi e gli altri neri.
Sul campo i fanti già presenti
Tutti figli della stessa spiga
Disposti con le facce assenti
come ballerine in riga.
Dagli insediamenti più angolati
Torri merlate con occhi osservatori
A sorvegliar i diletti soldati
Ma soprattutto gli imperatori:
Lui adiacente alla sua amata
Dà ordini al plotone
e la sua morte anche inaspettata
può sancire la distruzione.
66
Lei può muoversi in ogni direzione
ma rimane al re sempre vicino.
Non essendoci educazione
è il più ambito bottino.
Ai fianchi regi dei sovrani
con quella bocca addolorata
hai l’alfiere tra le mani
padrone della via inclinata.
E infine c’è il destriero
Veloce e valido esemplare
Fedele, combattente vero
Unico autorizzato nel saltare.
Disposti fanteria e cavalleria
Su quell’apposito banco
Come sempre al via
Comincerà il colore bianco.
Lo scontro può durare delle ore
E alla fine del conflitto
Avremo un grande vincitore
e inesorabilmente uno sconfitto
Non ci sono tradimenti,
né morti, né feriti, né cattivi
Solo mosse e movimenti
Di ragionamenti inoffensivi.
Dovrebbe essere da esempio
Questa guerra senza armi
Battaglia senza scempio
Di innocenti o di gendarmi.
Con responsabilità attinente
Le due intere fazioni
67
Non si nascondono per niente
Dietro a dogmi o religioni.
Ma la cosa più bella
Accade dopo l’ultimo atto
Dopo che uno dei re crolla
Con il celebre scacco matto.
Infatti è stupendo, finito il conflitto
dopo combattimenti succinti,
vedere in pace in un cassetto
i vincitori e i vinti!
68
Veronica Pivetti, madrina dell’edizione 2007,
Ernesto Ferrero, Raffaella d’Esposito, Pablo Gorini.
Carlo Barsi (vice Sindaco del comune di Piombino),
Veronica Pivetti, Giuseppe Gallico,
Simonetta Polverini (Presidente del Consiglio
Comunale di Piombino), Giuseppe Cafora.
Sezione Prosa
Opere premiate
1° classificato
Marco Purita
La colpa
C’è silenzio compresso, un odore di sudore avvizzito, e tensione nel sangue.
L’orologio alle mie spalle cattura l’attenzione.
Tic tac. Tic tac. Tic, tac. Tic. Tac. Tic. Le lunghe e sottili lancette rosse si allineano nell’istante.
Gong?!?
Il match inizia. Primo round. Hai tre minuti per mostrare agli altri (compreso Dio) e a te stesso quanto vali. Ma tu
lo sai già, non devi dimostrare niente a nessuno, tu non vali
niente, sei meno di zero.
I due pugili si avvicinano. La luce, alta, fredda, pungente, rivela, sul tappeto grigio del quadrato, abbozzi metafisici di corpi deformati. Una tuta con dentro un uomo, i suoi
occhi mi guardano: mi sta studiando. È il mio maestro,
campione italiano di boxe negli anni migliori, oggi padre
di famiglia e fiorista, con il naso a patata, gli occhi sottili,
appesantito, e la pelle scura. Oltre le corde del ring le
ombre si condensano e si raffreddano fino al sacco verdastro, agganciato a una grossa catena, sospeso nel vuoto. La
panca, lì accanto, espone la bellezza lucida e nera dei pesi
circolari. Gli specchi, schierati qua e là per i saltatori di
corda, riflettono l’immagine indefinita del ring e oltre
della grande guantiera, custode di guantoni variopinti
nuovi e consumati, rotti, che lasciano cadere lacci annodati, e odori nauseanti. La radio è spenta. La palestra è deser72
ta, è sabato pomeriggio, nessuno si allena fuorché il mio
maestro e due pugili. Uno sono io. Fuori piove.
Sono in guardia a destra. La dentiera mi dà fastidio, non
riesco a deglutire. Come al solito, all’inizio, bisogna farci
l’abitudine. Lui mi saltella intorno, sembra un pugile serio, gioca con la sua dentiera giallo fosforescente, la estrae
dalla bocca, la risucchia, mi scruta, attento. È in guardia, a
destra, la mia preferita, lo provoco con un diretto, lo para,
e un gancio destro a sorpresa, all’inizio, il colpo del match,
lo schiva.
Abbassa la guardia, sogghigna, sotto i baffi, stringe il bicipite nervoso al petto, il gomito all’addome per proteggere
il fegato. Essere colpiti al fegato significa perdere il controllo delle gambe. E lui lo sa. Ci sa fare, e mi saltella intorno.
Le frange degli stivaletti danzano di qua e di là, parte con
un diretto al mento, di sorpresa, mi colpisce sui guantoni,
un colpo secco, profondo.
“Prima regola: non farti mai distrarre dalle apparenze
quando combatti!” mi urla il maestro all’angolo.
Risistemo la guardia, la luce intensa sopra di me, sono al
centro del quadrato, il sudore si mischia alla vaselina spalmata sul viso, sul petto, per far scivolare i colpi, e la scioglie.
“Non stare fermo sulle gambe, muoviti!” urla il maestro,
e lui si avvicina con il sinistro come per giocare, lo devio
con il destro e sinistro, destro, gancio sinistro, secco, deciso, lo prendo in pieno viso. Lui vacilla sulle gambe. Non se
l’aspettava, lo chiudo all’angolo e destro sinistro destro sinistro alle reni.
“Non ti fermare, non ti fermare!” urla il maestro. Lui si strappona e si allontana da me, basito, innervosito, schernito.
Gong?!?
Il primo round è terminato.
Il maestro mi attende all’angolo. “Sono già passati tre
minuti?” tento di dire, con il fiatone, dopo aver sputato la
dentiera nel secchio. Mi butta l’asciugamano umido addosso.
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All’angolo il maestro mi stringe i guantoni. Mi controlla
gli occhi, m’infila le grosse dita in bocca, a momenti vomito.
I suoi occhi mi rassicurano. Non ho rotto nulla. Mi massaggia le gambe, distese, tremanti, lucidate dalla crema. Ho
ancora il fiatone.
Oltre le alte finestre, poste in serie al limite del soffitto,
nell’ombra schiarita, la pioggia persiste, inesorabile, il suo
implacabile ticchettio. L’identica pioggia che precipita oltre il finestrone del liceo, nella mia classe, i neon spenti, i
banchi disordinati, una giacca dimenticata sulla sedia,
schizzi di greco sulla nera lavagna tagliati a metà dal cancellino… Che precipita oltre il finestrino della mia auto, l’arbre magique al pino selvatico immobile, i tergicristalli a riposo, una sigaretta lasciata bruciare nel portacenere, poco
prima di entrare in palestra… Che precipita nelle strade,
l’asfalto bagnato, gli ombrelli aperti, i lampioni accesi, le
pozzanghere punteggiate dall’acqua riflettono enormi
costruzioni… Che precipita oltre la finestra della camera
dei miei, il letto ordinato, stirato, le persiane chiuse, una
foto di mio padre e di mia madre che giocano con un bambino, davanti all’albero scintillante di luci natalizie, sul
comodino bianco, nel buio della stanza, un crocifisso inargentato appeso alla bianca parete.
Gong?!?
Lui si alza, schiocca il collo con un movimento rapido
della testa, stringe i guantoni e si avvicina al centro del ring.
Io mi alzo, faccio il segno della croce, stringo i guantoni e
comincio la danza. Tic tac, tic tac, tic tac, tic tac... Batte inesorabile l’orologio il ritmo del secondo round. Questa volta
è lui a starsene fermo al centro, sotto l’imbuto dell’acidità
luminosa. Gli giro intorno, mi avvicino e mi allontano, rapido, stringo il mento alla spalla, sempre in guardia, gioco
con il sinistro, lo para, ancora sinistro, parato, finta di
destro e affondo il sinistro, preso sul mento, in controtempo. Scuote la testa, ritorna in guardia, cerca di chiudermi
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all’angolo, con passi rapidi, riesco a districarmi, gli giro
intorno, sempre, lo tengo distante con il sinistro. È nervoso. Mi si avvicina prepotente, sinistro, lo paro, sinistro, lo
paro, gancio destro lo schivo e montante sinistro: mi arriva
in faccia. Secco, pesante, prepotente. Barcollo, mi si avvicina veloce e mi stringo al suo corpo, sinistro destro sinistro,
al fegato. Pausa. Incrocio i suoi occhi. Seri, intensi, scavati,
dolci, come quelli di mio padre. Già mio padre…
… Che testa di cazzo mio padre: “Non ti manca niente,
vai al liceo, hai la ragazza, impegnati negli studi, lasciala
stare la boxe!” mi ripeteva, ogni sera, a cena, prima di rinchiudersi nel suo ufficio per sbrigare gli affari del giornale.
“Non vedi tua madre: sta male! Non è bello che tu torni a
casa la sera tardi con le labbra spaccate e gli occhi gonfi, e
poi la mattina vai a scuola stanco! La Carla mi ha già telefonato più volte per avvertirmi!” “Cazzo vuole quella troia d’italiano!?” “E non usare questo linguaggio davanti a tua
madre!” “Lo impara in palestra, in mezzo agli zingari e ai
terun!” sosteneva lei, mia madre, professoressa di matematica alla scuola media del paese e fanatica ciellina! Come la
Carla del resto…
Un destro al mento, preciso, meditato, impietoso. Cado
sulle corde e mi rialzo veloce. “Prima regola: non farti distrarre dalle apparenze quando combatti!” urla il maestro,
all’angolo. (Ma quali cazzo di apparenze!) Riprendo lucidità, a fatica saltello sulle gambe, ho il fiatone, rabbioso,
voglio eppure non mi muovo, non riesco a muovermi.
“Non stare fermo sulle gambe! Muoviti!” urla il maestro.
Mi avvicino a fatica, stringo la guardia, non ce la faccio più,
vedo i suoi occhi, vedo mio padre…
… “Se non ti va bene cercati un altro alloggio! Noi ti
abbiamo mantenuto abbastanza!” fa mio padre, fissandomi
con i suoi occhi intensi, scavati, seri, dolci. “Ma scusa…”
M’interrompe, non l’ha mai fatto: “Non voglio sentire giustificazioni! Non sta bene che vai lì! Non sta bene per i tuoi
amici che trascuri, da come mi hanno riferito, visto che
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non vai più agli incontri di comunità! Non sta bene per noi
visto che la boxe è uno sport da figli di operai!” fa mio
padre, dalla sua altezza borghese, guardandomi con la speranza di essere stato chiaro e determinante. “Va bene! Me
ne sto andando di casa!”...
Un gancio sinistro al mento e un montante nello stomaco,
perdo il controllo delle gambe. Lui sogghigna, anche lui
affaticato, sudato, appiccicoso, mi stringe al suo corpo con
una serie debole di montanti destri e sinistri.
“Non ti fermare! Non ti fermare! Non ti fermare!” urla il
maestro (a me o a lui?)
Gong?!?
“Ma l’orologio si è fermato?” affermo respirando le parole.
“Ora respira! Non sprecare fiato!” mi ordina freddo.
Cado sullo sgabello. Nel secchio sputo la dentiera fosforescente e sangue.
All’angolo del quadrato, seduto sullo sgabello, una cannuccia
in bocca, la faccia gonfia, il maestro mi scioglie la tensione
somatizzata dentro le fibre nervose della schiena. La pioggia
precipita, fitta, decisa, schiacciante, sugli oggetti della terra:
parabrezza, asfalto, immondizie, spacciatori, pneumatici,
fascisti. Ripenso a mio padre, quella sera, non se l’aspettava,
non l’avevo mai contraddetto, credeva che scherzassi, mi
arrabbiavo ma poi mi passava, come al solito, era sempre mio
padre e io, suo figlio. “Va bene! Me ne sto andando!” e me ne
sono andato. Senza scherzi. Per un sei mesi, senza chiamare,
nemmeno una volta. Ho dormito dalla nonna, lei dolce,
occhi dolci, verdi, intensi come mio padre. Lei una seconda
madre, che mi ha convinto, con il tempo, a ritornare. In
fondo, era sempre mio padre. E lui, quella sera, non me l’aspettavo, piangeva, in casa, sulla poltrona in salotto, davanti
alla televisione, spenta. “Dov’è la mamma?” “Sei stato tu! Vai
via di qui, non ti voglio più vedere!”
“Dov’è la mamma?”
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“Tua madre è all’ospedale!”
“Che ha?” “Le hanno trovato un tumore!” “Un tumore?”
“Il medico dice che ha un mese di vita!” “E che c’entro io?”
Gong?! ?
Comincia il terzo round. Il definitivo. Ancora tre minuti
per dimostrare chi sei ma io lo so già chi sono. Uno che un
giorno diventerà un oggetto, in un istante, vedi la pioggia,
sempre la stessa che cade, nervosa, oltre la solita finestra.
Vedi due pugili che saltano la corda, l’aria fibrilla, frustata,
tagliata, lo stridore ti penetra nelle orecchie. Senti la radio
che impazza musica inacidita, senti l’odore di sudore marcio che ti penetra nei polmoni, ti manca l’aria. E poi, d’un
tratto, non vedi più niente, non senti più niente, non ti
manca più niente. Un diretto destro mi arriva sul mento.
All’improvviso. Si spengono le luci. Si riaccendono subito
dopo. Tra il prima e il dopo non cambia nulla tranne la rabbia. Hai preso un pugno, ti ha fatto male, ti fa male, il dolore brucia. Mi avvicino, rapito, ritmico, in guardia a destra,
finta di destro, sinistro, lo para, destro, lo schiva, gancio
sinistro, lo prendo, affondato. Avanzo, indietreggia, ancora
scosso, sinistro, sul guanto, sinistro, sul guanto, gancio sinistro, affondato. Gli tolgo il sogghigno e ora avanza, e anch’io al centro del mondo, il nostro. Sinistro contro sinistro, pugno contro pugno, ci stringiamo al petto. Lui è più
alto, ha il braccio più lungo, le ossa più grosse, e gli occhi
dolci ma pieni di rabbia. Si gira, cambia la guardia, guardia
a sinistra, un montante al fegato, forte, duro, di sorpresa.
M’inginocchio a terra. Mi fischiano le orecchie. Sputo dentiera e sangue.
Le frange dei suoi stivaletti mi gironzolano intorno.
“Prima regola: non farti distrarre dalle apparenze quando combatti!” urla il maestro.
Il telefono squilla. Mia nonna non c’è in casa. Rispondo.
È mio padre. Mi dice che mia madre non ce l’ha fatta.
Mi rialzo. Non lo vedo. Mi volto, non c’è.
Un diretto mi arriva sul naso, forte, di striscio. E cado.
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“Non stare fermo sulle gambe! Muoviti!” urla il maestro.
Il telefono squilla nelle mie orecchie. Per minuti. Sono
solo in casa, mia nonna non c’è. Rispondo. “Tua madre è
morta!” mi dice.
Mi alzo. Ora lo vedo, sembra mio padre. Si avvicina veloce, cambia la guardia, non reggo le braccia, sono scoperto,
cerca di sorprendermi, gli sposto il destro e affondo il gancio sinistro sul mento. Sputa sangue e dentiera sul tappetino del quadrato.
“Non ti fermare! Non ti fermare! Mancano dieci secondi
alla fine!” urla il maestro.
Si rialza, si mette in guardia a sinistra.
Nove.
Incrociamo gli sguardi.
Otto.
Un giorno diventerò un oggetto. Lui si avvicina. Sono
scoperto.
Lo fisso negli occhi.
Sette.
Vedo i suoi colpi al rallentatore.
“Non stare fermo sulle gambe! Muoviti!”
Sento il maestro al rallentatore.
Sei.
Mi colpisce al viso.
L’arcata sopraccigliare si rompe.
Nei suoi occhi schizza del liquido denso. Il mio. Si pulisce.
Sono scoperto. Senza guardia.
Cinque.
“Non ti fermare! Non ti fermare!”
Mi trascina all’angolo e comincia a colpirmi.
Quattro.
Destro e sinistro sul volto, veloce, e montante sul fegato.
Tre.
Non sento più niente.
Non m’interessa più niente.
Continua a colpirmi, senza pace, senza tregua.
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Due.
“Non ti fermare!”
La dentiera mi esce da sola.
Un destro in pieno viso.
Uno.
Cado sulle ginocchia.
Salvami Dio, non sono nessuno.
Gong?!?
“Respiri ancora?” dice il maestro.
Sorrido.
La doccia, non mi asciugo i capelli, tanto fuori piove,
senza pace, senza tregua. La palestra, sotto le scalinate del
piccolo stadio del paese, il paese che ho sempre odiato, si
nasconde a sguardi indiscreti. Un corvo scivola via, nel
cielo inzuppato, inargentato.
Ora mi sento libero, come quando si ama.
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Motivazione
Una palestra in periferia, un incontro di pugilato fra dilettanti,
combattuto sulla distanza delle tre riprese, con l’inevitabile violenza ma senz’odio. Uno dei due rivali è destinato a vincere, l’altro a
perdere e lo sa già perché gli è sempre capitato, nella vita. Ecco che,
davanti agli occhi del protagonista, si ripresentano episodi cruciali della sua esistenza, quelli che più di altri hanno contribuito a
determinare il suo attuale presente. Le incomprensioni con il padre
che, da buon borghese, non vuole che il figlio si dedichi a uno sport
“plebeo”come il pugilato. La fuga da casa, il ritorno, la malattia e
la morte della madre. Tutto gli passa davanti mentre è costretto a
incassare i colpi pesanti dell’avversario che ha, stranamente, “gli
occhi seri, intensi, scavati, dolci” come quelli di suo padre e il maestro continua a urlargli nelle orecchie “non farti distrarre dalle
apparenze”, frase che gli suona totalmente priva di senso. Intanto
una pioggia fitta e monotona cade ininterrottamente e non è neppure simbolicamente purificatrice. È una sorta di “Black Rain”,
una pioggia sporca che inonda di sé le miserie del mondo mettendone in tragica evidenza lo squallore. Nel racconto di Purita la
boxe diventa, attraverso una scrittura di notevole suggestione e originalità, lucida metafora della vita.
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2° classificato
Domenico Strangio
Il mio paese è…
Uno spuntone di roccia, che come un dito dal fianco della
montagna si stacca verso il cielo; e che a guisa d’una prua
di maestoso veliero si protende leggero nell’immensità del
vuoto. Sospeso nel nulla, come fosse un balcone.
E quando in inverno la tramontana soffia gelida, e quando in autunno le acque impetuose della fiumara sottostante travolgono ogni cosa, e quando il mare verde dei giardini di aranci è coperto dalla calura soffocante dell’estate,
sempre più bella e imponente si scorge l’intera nave di pietra, che scivola lieve e altèra sulle case bianche abbarbicate
sui costoni aspromontani dai colori degli oleandri e delle
ginestre in fiore. Case antiche e nuove che occhieggiano
silenziose e furtive l’aprirsi del vasto spazio verso sud-est; e
che spiano con un lieve spostare delle tendine delle ampie
finestre, dai vetri colorati, un eventuale viso forestiero, un
passo non solito.
Il mio paese è
una fiumara, il Bonamico, che alle prime piogge si
ingrossa talmente da sembrare il Rio delle Amazzoni; ed
essendo privo di argini si diverte ad allagare gli agrumeti e
se li trascina verso il mare, per la dannazione degli agricoltori, testardi e bestemmiatori. Il Bonamico a primavera
inoltrata diventa una bestia rabbonita e dorme su un letto
che è una pietraia assolata, in un paesaggio lunare. Allora
la sua immagine sembra riflettere il volto scarnito delle
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donne che non hanno più lacrime da versare, perché
hanno pianto troppo sui corpi, senza vita, dei loro cari. Ma
è lo stesso fiume che poi, nella furia degli eventi, si fissa sul
viso di altre mamme e figlie che piangeranno a loro volta,
molto di più delle prime; e che, impaurite e stravolte,
imploreranno pace, o che, invece, con il cuore gonfio di
odio, pretenderanno dai loro congiunti ancora vendetta
per tutto il tempo che verrà. E il sangue di fratelli sarà versato all’infinito.
Il mio paese è
un antico monastero basiliano, sperduto tra i monti;
irraggiungibile. Privo di monaci. Ma per la festa della
Madonna, il 2 settembre, sono decine di migliaia i pellegrini che vi accorrono da ogni parte della Calabria, e della
Sicilia. Ognuno di loro desidera sciogliere un voto, ognuno chiede una grazia, ognuno lascia un pensiero. Un monastero dove sacro e profano si fondono e nel tempio si
prega e si impreca.
Il mio paese è
uno splendido parco. Quasi tutto il suo territorio comunale fa parte del Parco: torrenti e colline, montagne e
valli. Eppure la sede si trova altrove, come d’altra parte è
la sede dell’inutile comunità montana. Se qualcuno la
cerca, magari la troverà in un paese della costa, in riva al
mare. Da sfrontati, ancora una volta è stato ingannato;
defraudato di ciò che gli spettava.
Il mio paese è
da sempre uno sfregio insopportabile e permanente al
buon senso, alla vista, alla logica, all’intelligenza degli
uomini. Si deve volutamente non guardare per non vedere
l’obbrobrio di una, dieci frane immani, che puntualmente
a ogni inverno scivolano a valle; in modo orrendo deturpano il paesaggio, come le cicatrici sfigurano il viso e le piaghe purulente tutto il corpo.
Il mio paese è
lo scarto, il rifiuto della società cosiddetta civile. È la
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dimenticanza inspiegabile, ossessiva e continua da parte
di Dio.
È il silenzio assordante, capace di squarciare il cielo alemanno nelle notti stellate d’agosto; è l’abbandono cupo
che buca l’orecchio distratto e sonnacchioso del centro
del potere romano.
Tra i suoi vicoli è così difficile coltivare la speranza, perché la realtà di tutti i giorni nega perfino ai più piccoli la
felicità e qualsiasi progetto di vita.
Al di là dell’ultimo confine della terra è questo lembo
desolato di terra; al di là della più squallida periferia del
mondo è questa malfamata periferia calabrese. Straziata dal
dolore, dilaniata da una guerra assurda, di cui nessuno si
sente responsabile o estraneo, perché tutti siamo colpevoli
e parimenti innocenti. In verità siamo soltanto dementi.
Il mio paese è
un mare di lacrime ormai prosciugato; come morto e
asciutto è il laghetto naturale, posto ai piedi della frana
imponente di Costantino, nel cuore dell’Aspromonte. È
un grumo inverminito, un marchio indecente e indelebile, un’infamia, una colpa imperdonabile; è comunque
un’aggravante per una sicura condanna, dopo un processo farsa, sommario.
Come minimo è un intimidatorio provvedimento di diffida da parte della questura, una proposta di confino o di
libertà vigilata. È un arresto in massa di intere famiglie per
estorcere loro confessioni e delazioni.
Il mio paese è
Oxford e la Cayenne senza distinzione alcuna. Centinaia
sono i laureati di tutte le facoltà. Però disoccupati, mortificati, delusi e nauseati. Senza numero i detenuti o agli arresti domiciliari o nelle prigioni di ogni regione d’Italia.
Ergastolani ai quali non è concesso il diritto di sperare.
Murati vivi. Questo paese è mangiatoia di Betlemme e camposanto. Nascita e morte. È arsenale di armi leggere e
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pesanti; è forziere di banche mondiali. Raramente però,
qualcuno verrà sorpreso armato, anche se può sembrare
strano; impossibile prelevare o versare denaro in banca,
perché qui non esiste alcuno sportello bancario.
Il mio paese è
sordomuto, divenuto tale nel tempo, perché da altri proditoriamente privato della voce e dell’udito. Ma non si
sente menomato, affatto. E quando ha voglia di farsi sentire, dato che da lungo tempo sta ad aspettare e ad ascoltare,
e quando vuole gridare al mondo intero l’ingiustizia di
Stato che lo ignora e l’opprime come pure la maledizione
divina, che gli tormenta l’anima, allora ha delle reazioni da
folle; ha le convulsioni.
E come per un vulcano devastatore, come per ogni altro
tragico evento al suo capezzale precipitose accorreranno le
televisioni; e simili a iene immonde i fotoreporter e i pennivendoli della carta stampata si avventeranno sulla preda
ormai sfinita.
Il mio paese è
un malato terminale, che sta esalando l’ultimo respiro.
Ormai non si intravede un barlume di speranza. I dottoroni, in camice di lino bianco, e i sapientoni, vestiti di grisaglia, tutti bravi a parole, sprofondati in comode poltrone
dei salotti della capitale, disquisiscono di tutto e di niente.
Indifferenti e lontani, tronfi della sicumera più spocchiosa
e irritante.
Mai nessuno di loro che sia venuto qui di persona a portare il proprio contributo di speranza e di effettivo sostegno a questa gente sofferente. Anzi, come a Cristo sulla
croce, assetato e morente, le viene offerta in abbondanza
l’amarezza del fiele, e del veleno.
Il mio paese è
anni luce distante da Roma; eppure dista poche ore di
volo da Madrid o da Francoforte, da Caracas o da Montréal, perfino da Sydney e da Buenos Aires. Rotte molto frequentate, quasi familiari ormai. In ognuna di queste città,
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come in altre cento, si troveranno dei Santulucoti, che
avranno fatto fortuna nella polvere dei cantieri edili; o che
saranno reclusi in un affollato carcere cittadino. Molto
verosimilmente, in incognito, dormono il sonno eterno in
un anonimo cimitero. Senza lacrime, senza fiori e fotografia sulle loro tombe.
Il mio paese è
un inattaccabile favo di afrodisiaco miele di Grecia, trafitto e sorretto dagli aculei della pala rinsecchita dei fichidindia. È un nido inavvicinabile di calabroni velenosi,
appiccicato sul ramo più alto di un perastro dai frutti per
soli navigati ghiottoni. È anche una tela d’incomparabile
bellezza di divina pittura; è una fuga suggestiva di tetti in
coppi antichi che coprono le case basse, addossate l’una
all’altra come per sorreggersi nella caduta; come per aiutarsi vicendevolmente nell’abbandono degli stolti, i quali
hanno preferito le comodità della marina.
Il mio paese è
la donna più bella dell’universo, la più sensuale, affettuosa, estroversa e solare; ma quando le gira l’estro diventa la
più spietata e cattiva, la più crudele e frigida, chiusa nella
sua durezza e scontrosità, nel suo mutismo di tragedia greca e di mistero insondabile.
Il mio paese è
una voce senza suono, un urlo muto; da tutti ignorato
e che nessuno vuole ascoltare. È il luogo della diaspora,
delle fughe, delle assenze; un luogo di fantasmi, di usci
serrati, di case vuote.
Di uomini fujuti, come del resto latitante è lo Stato.
Quelli che sono rimasti, i valenti, sono lì che ti guardano
sgomenti dalle lapidi, e sembra che ti chiedano: “Perché?”
Crivellati nelle carni, e ricordati dal pianto disperato delle
loro donne, eternamente in lutto. La loro più che una
domanda per me è un esplicito messaggio, a rinsavire, a
smetterla, una buona volta.
È pure un luogo di culle a centinaia; di sciami di ragazzi85
ni che per le strade acciottolate disputano interminabili
partite a pallone, sognando personaggi e platee impossibili.
Il mio paese è
terra dell’assurdo e della contraddizione perenne. Paradiso e inferno; luce abbagliante e buio pesto, la dolcezza
dell’amore e l’amarezza del fiele.
Tutto e niente; vita e morte. Il mio paese è San Luca.
E io lo amo quanto e più della mia vita.
L’amo perché ha bisogno di essere amato dai suoi figli;
l’amo perché ogni sua casa è un Golgota di sofferenza, e
ogni suo uscio è l’indirizzo di un carcerato, o di un morto
assassinato. L’amo perché dopo la notte buia, violenta di
tempesta, sulla collina che lo separa dal mare placido,
spunta l’arcobaleno che reca con sé la maestosità dell’incredibile resurrezione.
L’amo perché è la luce dei miei occhi, più appagante
dell’aurora che incendia il mare, e dei fuochi dei tramonti, i quali divampano di mille colori le alte cime dell’Aspromonte.
L’amo perché la sua aria è ossigeno vitale per i miei
bronchi; è profumo di pane appena sfornato dai forni di
creta e straci; è forte fragranza di origano selvatico e di
fieno maturo e di zagara che invadente sale dai giardini
della pianura.
L’amo perché le sue giovani madri allattano al seno i neonati; e le donne anziane sono delle dee greche d’un tempo,
adornate di vesti antiche. Portano sulla testa grosse ceste su
e giù per le stradine, dove non si transita se non a piedi.
Sono le stesse donne che hanno in dote il sacro dono dell’ospitalità; quelle che salutano appena mi vedono e che mi
augurano la buona giornata e la felice nottata. L’amo perché ci conosciamo tutti e alla lontana tutti siamo parenti;
perché mai capita che alcuno si senta solo ed emarginato.
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L’amo perché qui nessuno giammai si è suicidato.
L’amo perché a Natale vi si prepara il presepe. Tutto il
paese è un presepe, e i suoi vicoli si animano mentre va
lieve e struggente la nenia delle zampogne dei pastori. Poi,
nella settimana della Passione, il giovedì santo nella piazzetta antistante la Chiesa Madre, un grande falò brucia i fantasmi e illumina il cielo per tutta la notte, con i dodici apostoli che spezzano il pane a un unico tavolo, e bevono tutti
dal medesimo panciuto boccale.
L’amo perché su per i suoi monti respiro un’aria di mistica atmosfera e mi percorre il corpo una vibrazione sacra. Vi
spira un’aura di magia e di energia, di mistero e di spiritualità, di armonia in una dimensione irreale e metafisica.
E mi sembra allora che non esista tempo, né spazio attorno a me. Neanche l’odio e la morte. In un’immensità profonda più degli abissi marini e alta più dell’infinito del
cielo: quella della mia anima e del mio cuore, che vedo
riflettersi negli occhi di chi sa perdonare e di chi è perdonato; di chi sa soffrire e di chi sa cogliere e accettare la
mano aperta del fratello.
Il mio paese è San Luca. E l’amo.
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Motivazione
San Luca, un paese sperduto nell’Aspromonte, fra la montagna e
il mare, sospeso in una dimensione che può apparire fuori del
tempo. Qui anche i sentimenti e le passioni si vivono con un’intensità che non è più dei nostri giorni, sia nel bene sia nel male. Paese
di migranti, ha sparso nel mondo i suoi figli, sono andati incontro
a destini diversi: chi ha fatto fortuna, chi è finito in carcere. Dove
c’è un amore assoluto per la vita (nessuno si suicida) ma dove non
c’è quasi famiglia che non pianga i suoi morti, vittime di assurde
faide. Dove moltissimi sono i laureati che però non trovano lavori
dignitosi. Dove lo Stato latita e altri sono i poteri forti che lo sostituiscono. Paese di mille contraddizioni, bello e brutto allo stesso
tempo, dove le donne hanno un portamento, una gentilezza innata, una dignità altrove perduti e, nei loro gesti quasi ieratici sembrano antiche divinità di un mondo matriarcale.
Per amarlo incondizionatamente bisogna esserci nati e vissuti,
come il nostro autore, che ci offre di San Luca un’inedita immagine
“dall’interno”, ben diversa da quella che ci presentano di solito le
pagine di cronaca nera. Racconto di notevole interesse anche per la
qualità della scrittura, talvolta volutamente enfatica, ma sempre ben
controllata. Un gesto d’amore che vuole dichiarare, a chiare lettere,
l’orgoglio della propria appartenenza a una comunità, malgrado i
problemi, i drammi e le contraddizioni che la caratterizzano.
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3° classificato
Sebastiano Bontempo
Vita di un ergastolano
Lunedì: mi alzo alle cinque, mi preparo il caffè, faccio colazione poi vado in bagno. È ancora presto, cosa faccio? Leggo
un passo a caso della Bibbia, comincio ad alzare i cestini, li
appoggio sul piccolo tavolo, sollevo il materasso così posso
alzare tutto da terra nella mia cella di due metri per tre.
Giovanni, il mio vicino di cella, ancora dorme, non posso
aprire il rubinetto sennò lo sveglio, mi preparo per la ginnastica e, in attesa che lui si svegli e arrivi il carrello del latte,
faccio un po’ di riscaldamento fisico. Alle sette e trenta arriva il latte, ne prendo un bicchiere, adesso Giovanni si è svegliato, posso aprire il rubinetto dell’acqua per fare le pulizie,
alle nove c’è l’ora d’aria, io faccio la corsa, alle undici salgo,
faccio la doccia, alle undici e trenta passa il pranzo, non ho
fame, comunque mangio qualcosa, così per abitudine, faccio
un po’ di meditazione, mi aiuta, stando con Dio mi aiuta
molto, non mi sento giudicato da lui, soprattutto mi sento
amato così come sono.
Sono le tredici, c’è l’ora d’aria, siamo tutti pronti davanti
al cancello, per non far perdere tempo, ci ritroviamo tutti
insieme, ognuno con i conoscenti o parenti, si parla prevalentemente di processi; noi che siamo da più anni in carcere la buttiamo sul calcio, siamo stanchi dei processi, alle
quindici rientriamo in cella, mi riposo un po’, poi mi preparo qualcosa da mangiare. Alle diciassette comincia Geo&geo,
alle diciotto mangio, dopo aver mangiato faccio le pulizie,
89
alle nove vado a letto, vedo qualche film, ormai li ho visti
quasi tutti. La Tv mi stanca, la spengo e cerco di dormire.
Durante la notte mi sveglio di colpo, mi assale una gran
paura, non so cosa sia, da quando mi hanno dato l’ergastolo mi capita spesso, mi accorgo di non avere più nessuna
speranza di uscire, ho perso tutto.
Martedì: mi alzo alle cinque, mi preparo il caffè, faccio colazione, vado in bagno, leggo un passo a caso della Bibbia, alzo
i cestini, li appoggio sul tavolo, sollevo il materasso, alzo
tutto da terra, Giovanni dorme, non apro il rubinetto, faccio un po’ di riscaldamento fisico; arriva il latte, prendo il
latte, faccio le pulizie, alle nove c’è l’ora d’aria, faccio la
corsa, alle undici rientro in cella, faccio la doccia, alle undici e trenta passa il pranzo, faccio un po’ di meditazione.
Sono le tredici, c’è l’ora d’aria, ci ritroviamo tutti insieme,
parliamo di calcio o di processi, alle quindici rientriamo in
cella, mi riposo un po’, mi preparo qualcosa da mangiare;
alle diciassette comincia Geo&geo, alle diciotto mangio, lavo
i tegami, alle nove vado a letto, vedo qualche film, ormai li
ho visti tutti, spengo la TV e cerco di dormire.
Mercoledì: mi alzo alle cinque, mi preparo il caffè, faccio
colazione, vado in bagno, leggo un passo a caso della Bibbia,
alzo i cestini, li appoggio sul tavolo, sollevo il materasso, alzo
tutto da terra, Giovanni dorme, non apro il rubinetto, faccio un po’ di riscaldamento fisico; arriva il latte, prendo il
latte, faccio le pulizie, alle nove c’è l’ora d’aria, faccio la
corsa, alle undici rientro in cella, faccio la doccia, alle undici e trenta passa il pranzo, faccio un po’ di meditazione.
Sono le tredici, c’è l’ora d’aria, ci ritroviamo tutti insieme,
parliamo di calcio o di processi, alle quindici rientriamo in
cella, mi riposo un po’, mi preparo qualcosa da mangiare;
alle diciassette comincia Geo&geo, alle diciotto mangio, lavo
i tegami, alle nove vado a letto, vedo qualche film, ormai li
ho visti tutti, spengo la TV e cerco di dormire.
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Giovedì: mi alzo alle cinque, mi preparo il caffè, faccio colazione, vado in bagno, leggo un passo a caso della Bibbia, alzo
i cestini, li appoggio sul tavolo, sollevo il materasso, alzo
tutto da terra, Giovanni dorme, non apro il rubinetto, faccio un po’ di riscaldamento fisico; arriva il latte, prendo il
latte, faccio le pulizie, alle nove c’è l’ora d’aria, faccio la
corsa, alle undici rientro in cella, faccio la doccia, alle undici e trenta passa il pranzo, faccio un po’ di meditazione.
Sono le tredici, c’è l’ora d’aria, ci ritroviamo tutti insieme,
parliamo di calcio o di processi, alle quindici rientriamo in
cella, mi riposo un po’, mi preparo qualcosa da mangiare;
alle diciassette comincia Geo&geo, alle diciotto mangio, lavo
i tegami, alle nove vado a letto, vedo qualche film, ormai li
ho visti tutti, spengo la TV e cerco di dormire.
Venerdì: mi alzo alle cinque, mi preparo il caffè, faccio colazione, vado in bagno, leggo un passo a caso della Bibbia, alzo
i cestini, li appoggio sul tavolo, sollevo il materasso, alzo tutto
da terra, Giovanni dorme, non apro il rubinetto, faccio un
po’ di riscaldamento fisico; arriva il latte, prendo il latte, faccio le pulizie, alle nove c’è l’ora d’aria, faccio la corsa, alle
undici rientro in cella, faccio la doccia, alle undici e trenta
passa il pranzo, faccio un po’ di meditazione. Sono le tredici, c’è l’ora d’aria, ci ritroviamo tutti insieme, parliamo di calcio o di processi, alle quindici rientriamo in cella, mi riposo
un po’, mi preparo qualcosa da mangiare; alle diciassette
comincia Geo&geo, alle diciotto mangio, lavo i tegami, alle
nove vado a letto, vedo qualche film, ormai li ho visti tutti,
spengo la TV e cerco di dormire.
Sabato: mi alzo alle cinque, mi preparo il caffè, faccio colazione, vado in bagno, leggo un passo a caso della Bibbia, faccio le
pulizie, alzo i cestini, li appoggio sul tavolo, sollevo il materasso, così posso alzare tutto da terra. Giovanni dorme, non apro
il rubinetto. Comincio a prepararmi per il colloquio! Oggi è
un giorno particolare perché, come ogni due o tre mesi, ven91
gono dalla Sicilia mio padre, mia madre e mia sorella. Fanno
molti sacrifici per me, ma la cosa più grande che hanno fatto
è che non hanno mai pronunciato la frase: “Io te l’avevo
detto”. Durante il colloquio mia sorella, che vive con loro, mi
ha detto che li ha sentiti parlare tra loro. “Speravano che
prima di morire ti avrebbero rivisto fuori. Ma ormai sono sedici anni che dici: fra cinque anni ce la posso fare. Io non so più
cosa dire.” L’ora del colloquio è finita, ci salutiamo e io rientro in cella. Sono le tredici, c’è l’ora d’aria, parliamo di calcio
o di processi, mi chiedono dei miei. Alle quindici rientro in
cella, mi riposo un po’, mi preparo qualcosa da mangiare; alle
diciassette comincia Geo&geo, alle diciotto mangio, lavo i tegami, alle nove vado a letto, vedo qualche film, ormai li ho visti
tutti, spengo la TV. Cerco di dormire, ma l’immagine dei miei,
vecchi, stanchi, tristi e delusi è sempre davanti ai miei occhi.
Mi sveglio di colpo, mi assale la solita paura.
Domenica: mi alzo alle cinque, mi preparo il caffè, faccio
colazione, vado in bagno, leggo un passo a caso della Bibbia,
alzo i cestini, li appoggio sul tavolo, sollevo il materasso, alzo
tutto da terra, Giovanni dorme, non apro il rubinetto, faccio un po’ di riscaldamento fisico; arriva il latte, prendo il
latte, faccio le pulizie, alle nove c’è l’ora d’aria, oggi giochiamo a calcio, alle undici rientro in cella, faccio la doccia, alle
undici e trenta passa il pranzo, faccio un po’ di meditazione. Sono le tredici, c’è l’ora d’aria, ci ritroviamo tutti insieme, parliamo della partita giocata oggi, alle quindici rientro
in cella, mi riposo un po’, mi preparo qualcosa da mangiare; alle diciassette comincia Geo&geo, alle diciotto mangio,
lavo i tegami, alle nove vado a letto, vedo qualche film, ormai li ho visti tutti, spengo la TV e cerco di dormire.
Lunedì: sono le tre di notte! Mi sveglio e sono sudato, è la
solita paura che mi assale. Comincio a pregare, pregare Dio
mi aiuta. Non riesco a prendere sonno, succede spesso, mi
sono abituato. Sono le cinque, mi alzo preparo il…
92
Motivazione
La vita quotidiana di un ergastolano. Lo stillicidio inesorabile di
minuti, ore, giorni, sempre uguali a se stessi, il cui ritmo monotono,
immutabile, si carica della pesantezza insostenibile di un tempo che
non trascorre mai, con i giorni che valgono il doppio, il triplo di quelli normalmente vissuti. Una sorta di sopravvivenza in cui la luce in
fondo al tunnel, quand’anche si riesca a intravvederla, è un’ipotesi
ancora remota.
Appare significativa, nel racconto, la ripetizione ossessiva con
cui sono caratterizzati i vari giorni, con pochissime, impercettibili
differenze, al punto che lo si potrebbe trasformare in un rap o in una
tediosa cantilena. Senza proclami, senza accuse, senza invettive
l’autore ci immette in una realtà in cui l’espiazione della colpa non
consiste nel carcere duro, nei lavori forzati così cari a tanta tradizione letteraria e cinematografica, ma nella sottrazione, a tempo
indeterminato, di ogni normale forma di esistenza, bella o brutta
che sia. Fuori del carcere la vita continua, con la sua imprevedibilità, che ne costituisce una delle maggiori attrattive. Tra le mura del
carcere ogni giorno sembra sempre lo stesso, rivissuto all’infinito,
scandito dagli stessi ritmi, dagli stessi gesti quasi ritualizzati.
Efficace e coinvolgente parabola di una condizione (dis)umana la
cui reale drammaticità spesso non viene colta all’esterno.
93
Milano edizione 2007:
Luca Lischi, Capo di Gabinetto del Presidente
della Provincia di Livorno
Mariolina Moioli Assessore politiche sociali Comune di Milano
Simonetta Polverini Presidente del Consiglio Comunale di Piombino
Antonella Maiolo, Delegato del Presidente della Regione Lombardia,
Diritti del cittadino e pari opportunità
Opere segnalate
Francesco Annoscia
Ricordi e speranze
Questo racconto fa riferimento a fatti realmente accaduti e che
accadono ancora.
Una vita sacrificata, fatta di gioie, dolori, ansia, angoscia, rabbia, pazienza, perché di quella ce ne vuole tanta, e il tutto racchiuso in un orologio: sembra che cammini, in realtà è fermo. Ebbene
sì, qui la vita è ferma: vivo unicamente di ricordi e speranze che
solo il mio cuore conosce.
Il primo impatto con la realtà di questo istituto è stato
forte: ti senti perso, perché non riesci ancora a capire cosa
ti sta succedendo, i primi pensieri sono per la tua famiglia
che ti mancherà, e chissà quando avrai la gioia di riabbracciare. Non riesci a darti pace, non puoi credere che tutto
sia finito qui, eppure sta succedendo a te; se sei colpevole,
in un modo o nell’altro ti rassegni, ma non è facile quando
ti accusano di azioni che non hai commesso, e neanche hai
sognato di commettere.
Abbiamo solo sei ore di vita al mese: sono quelle che ci
concedono per i colloqui con i nostri parenti. C’è tanta
ansia quando li aspettiamo, i nostri cuori accelerano il battito, in quell’ora a tua madre, alle tue sorelle, ai tuoi bimbi
vorresti dire tante cose per tranquillizzare gli animi, vorresti dare tanto calore, affetto, amore e serenità: ma il tempo
è già volato.
Finita l’ora, un’ora in cui sei osservato centoventi minuti su sessanta, i tuoi cari vanno via, ritorna l’ansia, e pensi al
bacio dimenticato, a quella carezza non data alla piccola,
alle parole d’affetto non dette alla madre. Torni in cella, e
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ci rimani male: ti senti un grosso peso sul cuore e uno
nello stomaco; sarà la fame? No, è l’angoscia, che attende lì come uno sciacallo e non ti molla più.
“Enrico!”, esclama l’agente, e sale la tensione, che vorranno ancora da me? “Dall’avvocato!”, e si accendono un
sospiro di sollievo e un barlume di speranza: chissà, forse
mi porta buone notizie. Mi vesto e mi scortano fino alla sala
colloqui, mi fanno accomodare, e inizio a parlare con il
mio legale, che mi ripete la solita frase: “Enrico, non preoccuparti, ce la faremo”. È da alcuni anni che la sento a colazione, pranzo e cena… E intanto la mia gioventù, i miei
affetti, le occasioni più preziose volano via.
Ricordo, come se fosse accaduto oggi, il giorno in cui mi
arrestarono: ero a cena a casa dei miei genitori, l’atmosfera era allegra, si scherzava e si parlava del più e del meno,
la mia nipotina preferita recitava una poesia, orgogliosa di
ricevere un bacio e una carezza da me, il suo zione. Nulla
lasciava presagire cosa sarebbe accaduto di lì a poco. L’esistenza di mia nipote è una ragione in più per andare avanti
e superare questi momenti difficili.
Fu lei, in lacrime, a dire quella stessa sera: “Non tornerà
più, come ha fatto papà”. Quelle parole, riferite da mia
madre al primo colloquio, da allora sono marchiate a fuoco
nel mio cuore. La piccola, purtroppo, ha perso il papà in
un incidente diversi anni fa, e io ero il suo unico punto di
riferimento, la figura paterna che l’accompagnava nella
sua crescita, e che lei sentiva nuovamente venir meno.
Volevo vederla a tutti costi, anche per farle capire che sono
vivo, che esisto e ci sarò sempre per lei.
Quante volte guardo dalla finestra e vedo la gente che
passa, le auto, il tran tran quotidiano, la vita che scorre come un fiume in piena, mentre io mi sento fuori da quell’acqua, come una barca tirata sulla riva e abbandonata.
L’immagine della barca mi è familiare, mi ricorda il mio
lavoro che svolgevo con tanta cura e passione, perché mi
97
piaceva: ero imbarcato come mozzo sulle navi passeggeri.
Anche lì ero lontano dalla mia famiglia, ma era un buon
lavoro, e lo facevo perché così potevo conoscere mondi
diversi, entrare in contatto con culture differenti, e arricchire in questo modo la mia valigia dei sogni.
E intanto il tempo scorre inesorabilmente e ogni settimana leggo la sofferenza negli occhi lucidi di mia madre, che
scompare quasi magicamente quando mi vede stringere e
baciare la mia nipotina, e allora quell’ambiente freddo
all’improvviso si riempie di luce e calore: “Mi manchi tanto
zione, ti voglio bene!”, esclama la bimba. Il mio cuore si
riempie di gioia: “Anch’io, piccola!”.
È notte; sdraiato su questo letto al buio sto pensando a
casa mia e alla mia famiglia. Forse qualcuno già dorme, mia
madre starà guardando ancora la Tv.
È notte; mi sembra di udire parole e suoni mai sentiti.
È notte; i ricordi dei bei giorni trascorsi con Mario, il
papà della piccola, riaffiorano nella mia mente. In una di
queste interminabili notti mio cugino mi è apparso in
sogno, ripetendomi le stesse parole che mi disse da vivo:
“Enrico, proteggi la mia famiglia come se fossi me”.
E così arriva nuovamente il giorno del colloquio. Mia
madre mi porta la biancheria pulita, che ha il profumo di
casa mia: non vorrei perdere neanche un minuto di quel
profumo che mi inonda di ricordi e sensazioni familiari.
Comincio a sognare a occhi aperti, e a immaginare il ritorno fra i miei cari pieno di festa e allegria.
Oggi ho pensato di raccontarvi la mia giornata con i compagni di cella.
È martedì, ed è una giornata molto particolare rispetto
alle altre, perché attendiamo con tanta ansia il momento in
cui telefoniamo ai nostri cari.
Quando arriva il mio turno, ogni volta sento tremare le
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mani e la voce per l’emozione: “Ciao piccola, tutto a posto
lì da voi?”.
In quell’attimo vorrei dirle tante cose, ma il tempo scorre veloce e, quando l’appuntato mi dice di interrompere la
telefonata, ritorno in cella sentendo di aver regalato almeno un minuto di emozione alla mia nipotina.
La sera, le ore passano giocando a carte con gli amici o
scrivendo lettere: sono momenti in cui la mente lascia spazio
a dolci pensieri, che mi accompagnano fino a notte fonda.
Il giorno dopo mi alzo, preparo la colazione, e sono arrivate le nove, andiamo fuori all’aria e giochiamo a calcio, la
mia passione.
Quando gioco tra finte, dribbling, assist e gol faccio
divertire i compagni di squadra e gli spettatori, che a fine
partita mi fanno sempre i complimenti e dicono che sono un asso, un campione.
Un campione, è la stessa parola che mi ripetevano quando avevo solo otto anni, e giocavo in una squadra di poco
valore, una società povera e senza ambizioni.
Fu un anno indimenticabile. C’era una persona che veniva ogni domenica a guardare le mie partite e, avendo notato il mio talento, a fine stagione mi portò a giocare in una
squadra di categoria superiore: quella persona era il mister,
De Trizio, ex giocatore del Bari.
Ero solo un bambino, ma per me era un sogno giocare nel
Bari: e il sogno si avverò. Il mister riponeva in me la sua fiducia, perché giocavo alla grande, all’epoca ero il giovane
talento più forte, e tutti tifavano per me, specialmente le
mamme dei miei compagni di squadra, che venivano a
vedermi ogni domenica e sussultavano ogni volta che toccavo la palla facendo impazzire gli avversari con le mie finte.
Credeteci, solo nel girone di andata segnai ventitré gol,
nonostante non avessi un ruolo da attaccante. Ero fantasista, e giostravo la palla con fatasia come un vero regista.
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Questo mio talento venne riconosciuto qualche anno
dopo anche da una grande società: la Roma. Quando sentii che mi avevano selezionato, il mio cuore batteva all’impazzata, e piangevo di gioia perché era un traguardo che
avevo raggiunto nonostante i miei tredici anni.
Mia madre però fu chiara: “Io non posso seguirlo fino a
Roma, perché non posso lasciare il resto della famiglia”.
Ricordo perfettamente questa frase, che lei riferì al mister:
all’improvviso mi sentii crollare il mondo addosso e capii
che il mio sogno era svanito.
Continuai così a giocare nella primavera del Bari e, dopo
aver vinto il titolo di Campioni d’Italia, abbandonai definitivamente il calcio e la mia carriera per un grave infortunio.
Oggi, a distanza di dodici anni sono qui, davanti a questo computer, in quest’aula piccola e fredda, a raccontare
la mia esperienza, i miei sentimenti e le mie sensazioni. È
qui che frequento il secondo anno di ragioneria, è qui che
condivido le difficoltà e le soddisfazioni dello studio con
compagni e insegnanti, attraverso un costante confronto e
scambio di emozioni e nozioni.
Certo che ne è trascorso di tempo! Giorni, ore, minuti
passati spesso nel buio più profondo, ma pur sempre legati da un sottile filo di speranza: in fondo al tunnel anche
per me c’è uno spiraglio di luce, ne sono sicuro.
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Lorenzo Bozano
Galeoni e vascelli per riscoprire un uomo
Una cella si affaccia, appena oltre le sbarre, sull’ampia distesa tranquilla di un braccio di mare turchino, su cui domina dall’alto l’austera rocca di un’antica fortezza spagnola,
dal 1870 il penitenziario di Porto Azzurro. Un volo di gabbiani, che portano sulle ali gocce di salsedine smeraldo e il
profumo frizzante del salmastro, fende l’aria nello specchio della finestra spalancata, una sorta di prua che si protende verso l’orizzonte convesso. Una cella che non è una
cella: quasi una conchiglia, che ritma il respiro della marea
e il frangersi dell’onda, come a dar vita a un sottofondo
continuo e in esclusiva. In un angolo la branda, fedele scialuppa di salvataggio per attraversare in solitario le notti
tempestose della sofferenza dei troppi anni di galera. Due
tendine svolazzano sotto la brezza frizzante, carica dei profumi di questo squarcio di primavera, che galleggia nel
cobalto. Alla luce tiepida del mattino di primavera brillano
cento cartoline appese, un collage di ricordi che ricopre
tutta la parete: immagini di mare che odorano di casa, di
un’altra isola che gli è patria, quella Sardegna profonda
che al Sud si crogiola al sole quasi africano. Nell’angolo in
faccia regnano, sovrani su tutto, il palpito incessante e l’animazione di un cantiere navale in centesimo: trinchetti e
pappafichi, alberi maestri e verricelli, pagliolati e assicelle
di noce per il fasciame. E precisamente ordinati su una
rastrelliera gli attrezzi indispensabili: traforo, piallino, carta
vetrata d’ogni tipo, trapanino a mano, pennelli per tirare la
vernice, e… tanto ingegno. Alla fonda immaginaria si dondola maestosa una Amerigo Vespucci più lunga d’un metro: la
101
sua linea è agile e slanciata, la velatura perfetta si gonfia
come un respiro.
Tre alberi con due ponti, il modello della celebre navescuola della Marina è ricostruito con cura certosina in ogni
minimo particolare.
Al suo fianco, in un impossibile accostamento di velieri di
epoche così diverse, geme il sartiame di una Santisima
Madre (con una esse sola, alla castigliana), splendido e grandioso vascello spagnolo del 1700, tre alberi di vele quadre,
uno specchio di poppa che è un capolavoro di sculture
lignee, tre ponti e cento cannoni. Sullo scivolo del prossimo
varo, lo scafo di uno sciabecco corsaro del 1750: l’Indiscret
cresce ogni giorno sotto le mani abili e pazienti di un pirata buono.
Si chiama Antonio e, nonostante i suoi cinquantacinque
anni, ha conservato un sorriso fanciullesco, semplice e
pulito. Un uomo che nella sua vita ha conosciuto soverchie
traversie giovanili che, per certi aspetti e perfino suo malgrado, l’hanno condotto a diventare un carcerato di lungo
corso, un ergastolano.
Nato sulla battigia, la stanza dove emise il suo primo strillo sorgeva su una spiaggia di pescatori, fu svezzato a base di
sardelle, granchietti e moscardini. Il suo primo e ultimo
giocattolo fu una stella di mare carmino, mentre dei gusci
delle cozze faceva palette per i suoi castelli di sabbia. Trovò
la sua prima scuola all’ombra delle reti da pesca, un vecchio
marinaio le ricuciva tirando boccate di fumo azzurro da
una pipa di coccio, raccontando ai monelli storie di mare e
di avventure nella burrasca. Adolescente, rimasto orfano,
quando non riusciva a saltare su una barca altrui per una
giornata di pesca e una minestra, gironzolava in un cantiere di carpenteria navale lì vicino: lo chiamavano “su piccioccheddu”, curioso apprendista dei misteri della calafatura…
Crebbe nutrendo il suo scheletro di fosforo, irrobustendo il
suo fisico sotto la sferza della tramontana, o lottando corpo a
corpo con una vela gonfia di libeccio. Poi ci fu la guerra, lungo
102
e sconquassato periodo con tante storie dentro. Storie sempre
brutte, che sconvolsero anche per lui gli equilibri già fragili
della pesca, del cantiere e della minestra. Persa la guerra restò
la fame, la più cattiva consigliera che ci sia. Sbandato, frequentò persone tra le più sbagliate.
Finì come doveva finire: la fame gli passò quando ormai
erano trascorsi anni e anni di galera. Tanti.
Ora però sono troppi. Antonio ha ritrovato il suo sguardo pulito di ragazzo, alla scuola del vecchio pescatore ha
aggiunto le ghirlande dei pomposi diplomi dello Stato, il
suo tempo di carcerato è ammobiliato da sei giorni di lavoro e uno di attesa.
Un pirata buono che prima di tutto è un uomo. Ricostruisce velieri aspettando la sua buona brezza, quella che
un giorno, chissà quando, lo riporterà al mondo e alla sua
terra. Il Servizio Meteorologico faccia uno sforzo…
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Girolamo Di Gregorio
L’estrema unzione
Era d’uso una volta raccontare fatterelli più o meno veri, fatti
curiosi, per alimentare la cronaca, raccontati in segreto tra le risate, che formavano la cultura popolare contadina.
Non appena Giovanna espresse il desiderio di volersi
confessare, Maria scattò come una molla e corse a chiamare il prete.
Quando arrivò, bussò agitata alla porta e il parroco corse
ad aprire. “È grave, è grave, ha chiesto i sacramenti, padre
faccia presto!”
“Vengo, vengo subito…” rispose il prete.
Il prete prese l’occorrente, chiamò il sacrista perché lo
accompagnasse e si avviò. Appena arrivato alla casa della
moribonda, alzò la mano in segno di benedizione e le persone che erano vicino al letto dell’ammalata uscirono, compreso l’addolorato marito.
La moglie aveva chiesto il prete per fare l’ultima confessione, e ciò significava che sentiva venir meno le forze.
Il marito se ne stava zitto con lo sguardo fisso nel vuoto…
Sentiva di perderla, e rivedeva tutto il loro passato in ogni
minimo particolare.
La rivedeva giovane, come quando l’aveva guardata la
prima volta con gli occhi pieni di desiderio…
La rivedeva il giorno delle nozze, commossa e con gli
occhi pieni di lacrime… Poi rivedeva la vita trascorsa insieme per quindici anni.
Si sentiva colpevole verso di lei; colpevole di non averla saputa apprezzare per quanto valeva, di non averla amata tanto
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quanto l’avrebbe potuta amare; pensava alla gioia e alla felicità
che non le aveva dato e che avrebbe potuto darle.
Il cuore gli batteva forte, e sentì di amarla come non mai.
“E se muore?” disse fra sé… E un brivido gli scosse tutte le
membra, gli attraversò il corpo; sudava… sudava freddo.
Alzò gli occhi al cielo in segno di preghiera.
Dopo un po’, “Nicola” chiamò il prete, “Vostra moglie vi
vuole parlare”, e se ne andò “Forse vuole darmi l’ultimo
addio” pensò il marito, e si precipitò dentro.
Si avvicinò al letto senza poter pronunciare parole, aspettava con ansia che la moglie parlasse per poi dirle tutto ciò
che aveva nel cuore.
“Nicola” disse con un filo di voce la malata, “mi devi perdonare, se tu non mi perdoni, non posso morire tranquilla; avrò una lunga agonia, soffrirò molto, ma non potrò
morire.”
Guardava e tremava “Che cosa dovrei perdonarti, tu sei
stata un angelo! Sono io che debbo chiedere perdono a te”.
Abbassò la testa; la voce gli tremava. La moglie gli chiedeva
perdono… Si era commosso e a stento tratteneva le lacrime.
“Mi devi perdonare”, continuò l’ammalata.
“È la febbre, il delirio” dissero i parenti che si erano avvicinati al letto.
“Sì, ti perdono, non pensarci più; stai tranquilla, calmati.”
“Io ti ho tradito, questa mancanza me la perdoni?”
A queste parole il pover’uomo ebbe una scossa.
“Tu, tu” disse fremendo “e con chi?”, il suo viso divenne
paonazzo; strinse il pugno, e tutto il dolore provato prima
cambiò in un istinto feroce.
“Non crederle, Nicola”, dissero tutti i presenti, “è la febbre, è il delirio dell’agonia; Giovanna è stata una donna
onesta, noi la conosciamo.”
“Gesù, Gesù! Che sono queste cose!”, alcune si fecero il
segno della croce.
“È il diavolo! Il diavolo che le suggerisce, il diavolo che
vuole quest’anima santa! Subito prendete l’acqua benedet105
ta, affinché la tentazione scappi, scappi!” Una parente
prese l’acqua benedetta e ne gettò alcune gocce sul letto e
per terra. Ma l’ammalata guardava il marito e affermava di
averlo tradito.
“Con chi? Con chi?!” esclamò il marito furibondo…
“Con Guglielmo, quello che se n’è andato in America…”
“Da quanto tempo?”
La moglie non rispondeva, solo chiedeva perdono, perdono per poter morire tranquilla.
“Ti perdono, ti perdono…”, disse il marito, e pronunciò
le parole come una condanna. Uscì dalla stanza con un diavolo per capello; voleva gridare, voleva piangere…
“Mi ha tradito, mi ha tradito!”, sedette sullo scalino della
porta e si prese la testa fra le mani.
“Disgraziata! Disgraziata! Mi ha tradito! Ma se muore la
perdono, se vive… Faremo i conti. L’ammazzo! L’ammazzo!”
L’indomani, Giovanna morì.
Nessuno credette all’infedeltà di cui essa stessa si accusava: “Era una donna buona e onesta…”, dicevano tutte.
“Meno male che è morta”, commentavano nel vicinato, “se
campava, chi lo avrebbe persuaso il marito che sua moglie era
una buona… Era la tentazione che la faceva parlare!
L’accompagnarono al cimitero, e lungo la strada il marito
mormorava tra i denti: “Se non moriva, l’ammazzavo!”.
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Francesco Di Pasquale
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O voi che credete, in materia di omicidio vi è stato prescritto il contrappasso: libero per libero, schiavo per schiavo, donna per donna. Chi di voi, dopo ciò, trasgredisce
la legge, avrà un doloroso castigo.
Corano, Sura II Al-Baqara
Il sole sorge oltre la moschea e si proietta contro la mia finestra. Il minareto traccia come ogni mattina la sua ombra nella
mia stanza formando una sorta di meridiana che attraversa il
tavolo e si protende sul muro. Il Muezzin intona il primo
richiamo per l’assobh, la preghiera del mattino; prendo il mio
zarbiya, lo srotolo e lo adagio sul pavimento. Tolgo le scarpe e
in piedi inizio a pregare Allah il misericordioso. Un’altra giornata inizia, è quella della mia seconda morte. Non sono mai
stato molto religioso. Pensavo che questa carenza fosse dovuta alla mia visione della fede come un appiglio che le persone usano quando vogliono sfuggire allo sconforto giornaliero oppure come sostegno per tutti quelli che, nel mio Paese
martoriato, non hanno la forza di ribellarsi all’oppressore. In
questi ultimi tre anni mi sono ricreduto.
Souad era mia moglie, la conobbi all’età di quindici
anni, io ne avevo due più di lei.
Avrei dovuto aspettare tre anni prima di poterla sposare,
perché suo padre, sunnita, non voleva darla in moglie, e
poi non sarebbe stato un buon momento per celebrare le
nozze, perché il presidente del mio Paese aveva invaso militarmente il Kuwait. Era il 1990.
107
Passai quell’estate a guardare le truppe ammassarsi al confine, mentre la propaganda ci convinceva che il Kuwait era
una nostra regione e che avevamo il diritto di riprendercela.
Tutto quell’entusiasmo terminò a gennaio dell’anno
seguente, quando l’Onu deliberò una risoluzione che prevedeva l’uso della forza da parte dei Paesi occidentali
capeggiati dagli Stati Uniti, affinché cessasse l’occupazione
del Kuwait. L’Iraq si trovò così diviso tra la politica imposta
dal presidente e le minacce di ritorsioni militari internazionali. In mezzo a tutto questo: io e Souad.
Eravamo troppo giovani e parecchio innamorati per
capire quello che avveniva in realtà e, ancora più rilevante,
il nostro sentimento ci faceva vivere con incoscienza anche
la circostanza per cui il liberatore del Kuwait diventava invasore dell’Iraq.
Dopo i primi echi di bombe, conoscemmo la paura e la
imparammo osservando i volti dei nostri soldati che ripiegavano dal confine, inseguiti dalle truppe americane che “visitavano” tutte le case alla ricerca di uomini da catturare e, un
pomeriggio d’inverno, visitarono anche la casa di Souad.
Il pretesto fu quello di cercare suo fratello Youssif, dicevano facesse parte dei servizi segreti, ma ben presto si capirono le vere intenzioni che avevano: oltre alla razzia, prevedevano una sistematica violenza su chiunque non volesse collaborare. Sarebbe bello poter dire che Souad fu risparmiata
da una simile sorte, sarebbe ancora più bello poter dire che
gli americani si comportarono da esseri umani, ma la realtà
fu più cruda di quello che ci piacerebbe raccontare.
La guerra non è uno spettacolo televisivo, come molti
occidentali hanno imparato a conoscere dalle riprese dei
network, e non è nemmeno una finzione, assimilabile a
quella cinematografica: è una tragedia vera, con sangue
vero, con lutti veri ed è terribile quando viene vissuta senza
uno schermo che ti protegge.
Superai parecchie difficoltà per fidanzarmi, una fra tutte
era la legge coranica che prevedeva la flagellazione della
108
donna che si è lasciata violentare. Il padre di Souad voleva
applicare la legge alla lettera e non era valso nemmeno il
riconoscimento del tribunale internazionale che sanzionava i tre militari responsabili a distoglierlo dall’intento: Kalid
non la riteneva più figlia sua, in quanto lei non si era uccisa dopo l’infamia subita.
La mia estrazione sciita offrì al mio futuro suocero l’occasione per differire quelle intenzioni, sapeva che avrei
sposato comunque sua figlia e avrebbe avuto modo, ancora
una volta, di dire che tutti gli sciiti non erano veri credenti. Non mi importava di nulla, poteva scaricarmi addosso
tutte le brutture e le sciagure che la vita gli aveva riservato,
io avrei comunque diviso il mio futuro con Souad.
Il matrimonio andò a buon fine; mia mamma Fatiha,
insieme a mio padre, riuscì a mettere insieme una piccola
dote che ci permise di trasferirci a Negal, un villaggio sulle
rive del fiume Shatt al-Arab, dove potemmo iniziare una
nuova esistenza.
Trovammo una piccola casa nella periferia circostante, e
iniziai a esercitare il mio lavoro di artigiano del ferro. Passavo intere giornate a girare per la città raccattando qualsiasi rottame, lo portavo a casa e nel piccolo laboratorio che
avevo ricavato dietro l’orticello lo lavoravo, facendogli assumere mille forme. Il lavoro che più mi riusciva era la costruzione di ceste da attaccare alle biciclette e ai carretti e il giovedì, quando scendevo al mercato di Bassora, ne vendevo
abbastanza da poter sostenere me e Souad. La nostra vita
era modesta, ma non desideravamo niente di più, anche
perché una sera di primavera del nuovo millennio appena
arrivato nacque mio figlio Imad.
Avevo raggiunto l’apice della felicità: io, Ben Hamza Mohamed Ali Jaber, ero diventato padre, e mia moglie si era
davvero gettata alle spalle il suo tremendo trascorso.
Ma il destino a volte riserva l’impensabile alla mente
umana e in breve mi resi conto che mi sarebbe stato avverso. Fu durante la seconda invasione americana. Quella
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volta i rumori di guerra furono ancora più fragorosi della
prima, e la paura era più tangibile perché stavolta dovevo
proteggere anche mio figlio. L’angoscia ripiombò nella
nostra vita, in quella del mio bambino, in me, in mia
moglie, e in lei tornarono anche i mille fantasmi che in passato l’avevano perseguitata. Lo stesso Paese, le stesse divise
dei soldati, lo stesso dolore.
Cercavamo di vivere alla giornata, sperando che la guerra non toccasse il nostro villaggio, ma ben presto mi resi
conto che era una vana speranza.
Un giovedì sera, al ritorno dal mercato di Bassora, vidi
alcune case del mio villaggio distrutte. Il fumo saliva da
cumuli di macerie, per strada persone che piangevano,
imprecavano, cercavano a mani nude di scavare fra i detriti,
qualcuno si aggirava per la strada con lo sguardo perso nel
vuoto.
La paura mi prese allo stomaco, non volevo credere
all’impensabile, iniziai a sudare, mi misi a correre verso
casa mia, le tempie mi scoppiavano, il cuore sotto quello
sforzo pompava sangue e ne sentivo il battito in ogni
muscolo. Correvo all’impazzata, cercando di raggiungere
la mia casa, non riconoscevo nessuno, cercavo con lo sguardo un punto di riferimento, un muro familiare. Dove sei
casa mia? Dove sei Souad? Continuavo a gridare: “Imad!
Imad! Imad!”. Non c’era più niente di ciò che avevo lasciato al mattino. Niente che potessi ricordare con la mente
offuscata, non c’era casa, orto, laboratorio. Non c’era famiglia. Fu la mia prima morte.
Verso l’alba trovai il corpo di Souad, dopo aver spostato
molti detriti. Era riversa con il viso rivolto al pavimento.
Da sotto il suo fianco vidi il braccio di nostro figlio, aveva
una piega innaturale. Alzai il corpo di mia moglie, lo girai
e le sue braccia cingevano il bambino in quell’ultimo
gesto di protezione che solo il corpo di una madre può
dare. Aveva cercato di preservarlo dal mondo che gli cadeva addosso, sembrava quasi volesse rimetterlo in grembo,
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quello stesso grembo che un tempo era stato per lui un
alveo protettivo, tiepido e molle. Non ricordo se piansi o
se mai smisi di farlo per tutta la notte, ma ricordo che
qualcuno mi aiutò a sollevare i corpi e a condurli nel
luogo comune di sepoltura che era stato approntato. Sulla
terra che man mano veniva gettata sui loro cataletti elevai
la mia prima preghiera.
Qualche mese dopo seppi che i “signori” del mondo, gli
“esportatori” della democrazia, coloro che provengono
dalla “patria d’eroi” avevano giustificato l’accaduto con una
semplice espressione: danno collaterale. Che strano termine per indicare la morte!
Mi alzo dallo zarbiya, ho ancora tempo prima della seconda preghiera, calzo le scarpe e mi dirigo verso l’armadio.
Apro le ante e vedo appesa la cintura. La prendo, l’appoggio sul letto, apro il cassetto e tiro fuori gli involucri.
Quanta forza distruttiva c’è in ogni panetto. Inizio a sistemarli negli appositi occhielli del cinto, sono quattro in totale. Il primo bossolo per la violenza su Souad. Il secondo per
la sua morte. Il terzo per il piccolo Imad. Il quarto per il
mio dolore.
Prendo i detonatori, li infilo nel plastico, li unisco con il
filo elettrico tra loro e ne lascio abbastanza perché possa
passarlo, attraverso la manica della giacca, fino ad arrivare
alle mani. Controllo il congegno di innesco. È un semplice
pulsante che sembra far parte di un videogioco. Controllo
lo scatto. Click. Funziona. Che strano quel lieve rumore,
dicono che sia l’ultima cosa che si sente.
È quasi tutto pronto. Manca un’ultima cosa. Mi reco in
bagno, inizio il rituale del lavaggio. Prima le parti intime,
poi le mani, tre volte iniziando dalla destra. Ora la bocca,
tre volte. Il naso, tre volte. La faccia, tre volte. Ora gli avambracci, tre volte, si inizia sempre con la destra. Poi una passata sui capelli e le orecchie, infine i piedi partendo dal
destro. Sono puro, inizio l’Adduca, la preghiera fatta per
chiedere. Ripeto: “Allah Akbar” (Allah è grande) trentatré
111
volte; “Al Hamdo Allah” (grazie Allah) trentatré volte;
“Subhana Allah” (sia fatta la volontà di Allah) trentatré
volte. Poi, per arrivare a cento “Lailaha Allah Shain Kadir”
(Allah è potente e vi è un solo e unico Allah).
Mi alzo, mi vesto, indosso la cintura, la giacca, collego i
fili all’innesco, lo stringo nella mano, apro la porta della
stanza, attraverso il corridoio ed esco in strada. Davanti a
me gente che si muove nel mercatino, lo attraverso, costeggio il muro, giro l’angolo, e vedo il centro di reclutamento
americano. Devo stare attento a non sudare, potrebbero
scoprirmi e l’innesco fallire.
Devo ricordare di dire “Allah Akbar” prima di schiacciare il pulsante, in modo che sappiano che il loro destino si
compie. Rallento il passo, stavo andando troppo veloce.
Allah sostienimi, sii pronto ad accogliermi, sono un tuo
martire. Souad, Imad, arrivo da voi. Staremo insieme per
sempre, senza paure, senza dolore, senza guerra. Infliggerò
la pena che i vostri carnefici si meritano.
Entro nel centro militare, le guardie all’ingresso non mi
notano, volti di gente si alternano vorticosamente davanti
ai miei occhi. Mi fermo in mezzo allo stanzone tra gli sportelli adibiti alla registrazione delle domande d’arruolamento. Prendo un grosso respiro e urlo: “Allah Akbar!” Si voltano verso di me, i miei occhi incrociano quelli di un ragazzo che avrebbe l’età di Imad. Le mani mi tremano. “Allah
Akbar!” ripeto. Inizia un trambusto, persone che fuggono,
gente che grida. So che devo schiacciare il pulsante, ma
sono bloccato dallo sguardo del ragazzo che, fermo lì
davanti, mi scruta e mi penetra. Scappa ragazzo, scappa.
Intuisce il mio pensiero, forse è solo istinto, si volta e fugge.
Sento rumori di spari, qualcosa lacera la mia schiena, il
vuoto è ormai intorno a me. Sto morendo. Alzo gli occhi,
allargo le braccia e con l’ultimo fiato che ho in gola urlo
ancora una volta. “Allah Akbar” e in tutto quel trambusto e
quelle grida, un solo suono giunge alle mie orecchie: click.
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Corrado Ferioli
Ai margini della città
Sono le sei di sera; sono stanco e sudato, varco distratto il
portone di casa, con pochi rapidi gesti sono sotto la doccia,
mi lavo in fretta perché la sera bramosa mi attende. Con
altrettanta fretta mi metto addosso i primi vestiti arraffati
nell’armadio, conto i soldi, controllo le sigarette, un ultimo
distratto colpo d’occhio nella specchiera: sono pronto!
Sono fermo davanti al portone di casa, mancano pochi
minuti alle sette di sera, e già sono irritato perché Antonio
non si vede ancora, poi d’improvviso avverto il rumore
delle ruote dell’auto sulla ghiaia della strada; con una frenata si ferma davanti a me e apre la portiera. In un lampo
sono seduto al suo fianco sbattendo la portiera, lo saluto
con una stretta di mano e via!
Nell’auto la musica alta copre i nostri stupidi commenti
sulla giornata lavorativa, le parole uscite dalle labbra non
corrispondono ai nostri pensieri; entrambi non vediamo
l’ora di arrivare a destinazione e il viaggio non è lungo. Il
paesaggio collinare scorre veloce e monotono dai finestrini
dell’auto, non ci interessa nulla di quello che ci circonda,
per adesso l’interesse primario è la prima tappa del nostro
viaggio: la farmacia.
Con un forte stridore delle gomme, l’auto si ferma davanti alla farmacia. Entro veloce come un felino, salto la fila
con prepotenza e chiedo con tono perentorio due insuline
e due acque distillate; la farmacista mi guarda con occhio
pietoso ma fa in fretta, perché ha paura e non vede l’ora
che me ne vada.
Pago e salto nell’auto che sgommando riprende il viaggio.
113
19,30: siamo a metà strada e i primi sintomi dell’astinenza si fanno sentire. Nausea, mal di reni e grosse gocce
di sudore che mi imperlano la fronte: sto male ma non
dico nulla, perché niente deve incrinare la mia immagine.
La stroboscopica striscia di asfalto nero mi trasporta
verso il “benessere”, nemmeno le altre auto, le strisce bianche della strada o le luci della sera ci distolgono dalla
nostra meta. I casellanti, avvezzi a tutto quel che può accadere in autostrada, ci guardano con l’occhio di chi già sa
chi sei e quello che stai andando a combinare a Milano.
Sono le 20,00: la sera è già scesa, e le mille luci della malfamata periferia nord di Milano ci attendono e ci inglobano
in una specie di coltre protettiva. I lunghi viali alberati scorrono veloci, tra prostitute e pusher, immondizia, sporcizia e
gente come noi; non siamo lontani dal nostro tipo, ancora
pochi minuti e saremo a casa sua. Sto sempre peggio.
Ci avviciniamo lentamente alla sua abitazione dall’altra
parte della strada, sotto casa c’è suo nipote, Andrea, sedici
anni molto vissuti e con la faccia da duro; suo è il compito
di selezionare i clienti per lo zio, ma noi non abbiamo questo problema. Sono mesi che ci conosciamo, e difatti appena mi vede mi saluta con un caloroso abbraccio, e ci scambiamo immediatamente l’informazione che a entrambi più
interessa: quanta roba compro oggi. Non parlo nemmeno,
alzo la mano destra con l’indice e il medio distesi: due, sono
due sacchetti da cinque grammi di eroina l’uno. Attraversa
veloce la strada e citofona allo zio, dicendo solo il numero;
poi mi fa un cenno con la testa e parto veloce attraversando
la strada, infilo di corsa il portone, evito l’ascensore perché
c’è da aspettare e mi mangio i tre piani di scale. Sto sempre
peggio, e la fatica delle scale non migliora la situazione,
ormai la camicia è zuppa, e la nausea è diventata quasi vomito, ma resisto perché fra poco tutto sarà finito.
Arrivato al pianerottolo, i neon rotti emanano una strana luce, a scacchi; la porta dello zio è aperta, varco veloce
la soglia dell’appartamento, infilo rapido la mano destra
114
nella tasca destra dei pantaloni, avverto il contatto con la
carta moneta. Sono cinque banconote da centomila lire, il
prezzo per stare bene; lo scambio è veloce: i soldi giusti
per dieci grammi d’eroina di buona qualità.
Il prezzo e la qualità sono di favore, perché ci conosciamo da mesi e ogni giorno lo vado a trovare. Esco in fretta,
salutando velocissimo lo zio, nemmeno lo guardo in faccia,
in un lampo sono in strada e adesso mi manca anche il
fiato. Sto sempre peggio, ma devo resistere.
Antonio mi aspetta in auto, il motore è già acceso, mi
apre la porta e sono dentro; il caldo dell’auto mi scatena un
attacco di vomito, apro la portiera e svuoto lo stomaco sull’asfalto del parcheggio. Lui parte in retro, e per un soffio
non cado dall’auto.
L’astinenza si fa sentire sempre di più, ma resisto; mi
chiede se ho la roba, e non ho la forza di rispondergli, gli
faccio un cenno con la testa. Sa dove andare e vi si dirige in
fretta, saltando i semafori e passando sui marciapiedi. In
pochissimi minuti siamo arrivati: sono orti, un pezzo di terreno dietro quattro condomini che i residenti coltivano
nello smog milanese.
Siamo fermi, ognuno ha il suo compito, lui scarta le siringhe e apre le fiale d’acqua distillata, io afferro il grosso cucchiaio da cucina da sotto il sedile e ci metto dentro l’eroina: sono circa due grammi. Il passo successivo è quello di
metterci l’acqua con qualche goccia di limone per sciogliere meglio l’eroina, fare bollire il tutto con l’accendino, e
poi aspirare il magico liquido nelle due siringhe, filtrandolo con l’ovatta del filtro di una sigaretta. Siamo pronti: il
braccio sinistro disteso sul ginocchio sinistro, la mano
destra impugna la siringa. Pochi secondi d’incertezza se
affondare l’ago nella vena oppure no, poi la bestia prende
il comando e l’ago affonda delicato nella vena. Ancora non
è successo niente, poi lentamente aspiro il sangue nella
siringa che si mischia veloce con l’eroina liquida dal colore
marrone scuro; poi ancora più lentamente spingo lo stan115
tuffo della siringa verso il fondo e il maledetto liquido, vita
e morte mischiate, entra in corpo. Ci siamo, mi sono fatto
ancora, una vampata di calore mi sale dalla pancia e un
miliardo di punture di spillo mi spaccano il cervello.
Pochi secondi e sto bene, sfilo la siringa dal braccio e la
getto dal finestrino, mi accendo una Camel, e mi allungo
sul sedile godendomi lo sballo. Non guardo nemmeno Antonio, in fondo non mi interessa niente di lui. Le luci in
lontananza si fanno più fioche, la musica dello stereo più
ovattata, ho caldo e sto bene, non ho più problemi, e inizio
a straparlare con Antonio, parole senza senso dalla bocca
di un vuoto a perdere.
Decidiamo di andarcene, perché sono ormai le 21 passate, e la notte reclama la nostra falsa presenza; con molta
calma ci allontaniamo e imbocchiamo l’autostrada per tornare indietro. Prossima tappa: l’autogrill.
Il viaggio di ritorno è sempre più calmo e rilassato; il mio
corpo sta bene e la mia mente è sgombra da ogni problema ma gonfia di sballo. Antonio mi parla, gli rispondo, ma
non so nemmeno quel che dico, mi sembra di essere due
persone in una. Arriviamo all’autogrill, ogni sera la stessa
scena: entriamo, facciamo un giro tra gli scaffali e acquistiamo da bere e da mangiare. I soliti alimenti per placare la
coscienza.
Usciamo all’aperto e incontriamo due ragazze sole che ci
chiedono un passaggio in macchina per Varese; non sento
nemmeno i loro nomi, ma le faccio salire sui sedili posteriori. Partiamo, e non siamo nemmeno usciti dall’autogrill
che ci chiedono se abbiamo della roba; anche loro hanno i
nostri stessi gusti, e hanno capito che siamo fatti per bene.
Non mi fido molto, ma ormai sono in ballo e gli rispondo
di sì; per un po’ parliamo delle solite banalità, poi il discorso passa alla roba, e una delle due dice che, se le facciamo
sniffare, faranno l’amore con noi. Guardo Antonio, che mi
risponde con un cenno della testa: gli rispondo che ci sta
bene, e usciamo dall’autostrada per dirigerci in un posto
116
tranquillo di nostra conoscenza. Il posto è dietro una fabbrica dismessa: brutto posto, sporco e decisamente squallido. Le facciamo sniffare, poi si spogliano e iniziamo a
fare l’amore, ma mi accorgo che la ragazza che sta sotto
di me sta cercando di rubarmi il portafoglio.
Le tiro un pugno in faccia, il sangue caldo mi schizza in
faccia, di colpo apro la portiera dell’auto e la spingo fuori,
la stessa cosa fa anche Antonio, poi parte sgommando mentre le butto i vestiti dal finestrino. Brutta serata, ma la notte
continua e non provo proprio nulla per quel che è successo… Può accadere con la vita tossica.
Sono ormai le 23 passate quando arriviamo in un locale,
noto ritrovo di tossici: scendiamo lentamente dall’auto e
entriamo ciondolando. Alcuni nostri amici si avvicinano
per sapere se abbiamo della roba. Rispondo di no, perché
non voglio rotture di scatole, voglio solo divertirmi, e per
farlo affittiamo un biliardo. Non siamo molto lucidi, e la
partita si trascina con le palle che schizzano fuori dal tavolo verde: non ci divertiamo e ce ne andiamo. Destinazione
discoteca. Non mi piace, ma guida Antonio e decido di
andare con lui. Guida troppo veloce, ma la velocità non ci
spaventa, rischiamo un paio di incidenti, poi finalmente
entriamo nel parcheggio della discoteca. Con calma scendiamo, e ci dirigiamo all’entrata: saltiamo la fila e non
paghiamo, perché il buttafuori che conta è un nostro
amico. Entriamo, le luci accecanti e la musica al massimo ci
accolgono suadenti; vado al bar mentre Antonio si mette a
ballare, mi scolo due whisky in rapida successione, e mi
siedo su un divano. Mi annoio a morte ma lo sballo mi sorregge, e mi abbandono alle luci e alla musica. Sogno a
occhi aperti una vita non mia: belle donne, soldi, successo
e grosse macchine. Sogno talmente bene che mi addormento, vengo svegliato dopo molto tempo da una bella
ragazza con i capelli rossi. Le piaccio, si vede, ma appena
apro bocca si accorge che sono sballato d’eroina: si inventa una scusa e mi molla così, come uno stupido.
117
Non è un problema, è già capitato. La non vita continua;
decido di uscire a prendere aria, mi viene voglia di sballarmi ancora, quindi mi dirigo in fondo al parcheggio, dove
c’è un posticino tranquillo.
Mi faccio un altro buco. Dopo un po’ mi avvicino all’auto di Antonio, lui è lì che mi aspetta: sono ormai le 3 di notte, è ora di tornare a casa.
Saliamo in auto e lentamente mi accompagna a casa; distratto infilo la chiave nella toppa, entro nel portone di casa,
nascondo la roba in garage e salgo in casa, facendo attenzione a non far rumore. Mi spoglio e mi metto a letto, mi
addormento subito, sognando una vita diversa e migliore.
Domani sarà ancora autostrada, parcheggi, asfalto e pusher.
L’essere riuscito a scrivere un giorno del mio passato da tossico
dalla cella di un carcere, ormai sono passati 16 anni, non significa che sia diventato un uomo perfetto, ma solo che la mia mente e
il mio corpo si sono staccati dagli schemi del passato, ridandomi la
certezza di una vita nuova, lontana dalle vecchie prigioni invisibili e interiori.
118
Marlene
Introduzione e premessa
Dedico il mio scritto a chiunque abbia mai pensato che la
rabbia sia solo un fuoco di paglia,
o che l’intelligenza da sola basti
ad abbattere mille guerrieri;
solo il perfetto equilibrio tra Marte e le Muse,
la loro simbiotica unione, può
irradiare o far tacere il tutto e ogni cosa.
Al thai chi e al kick boxing
che mi hanno salvata dall’anoressia.
A Senofonte, Socrate, Platone, Euripide, Temistocle,
Talete, e a tutti gli stoici
per il loro grande coraggio nella ricerca del piacere.
A Voltaire
che ci ha illuminati tutti fino ad accecarsi egli stesso.
Ai folli perché sono diversi, ai coraggiosi
che non hanno paura di nulla perché sono deboli.
A chiunque abbia voglia di aprire gli occhi
anche solo un attimo; a chiunque senta di farcela!!!
A mio fratello Armando figlio della rabbia,
ma spero presto inebriato dalle Muse.
Alla rabbia e all’odio, infine,
perché siano flusso energetico e non distruttivo.
La forza è nell’equilibrio.
Ad Assunta e a suo figlio.
Al mio maestro Hory e al mio modello, mio padre!
A Luca Marangi, grandissimo artista
che ha dipinto il mio corpo come fosse una tela preziosa.
A tutto ciò io dedico il mio scritto,
119
e che Nikolaj Gogol mi scusi l’omonimia
con una delle sue opere, per me la più bella!
Perché Anime morte è ciò che siamo finché viviamo
limitandoci a vestire le nostre carni!
Salutando il sole anche oggi chinerò il mio capo.
Al mattino nuovamente china, Egli mi raggiungerà.
Anime morte
Nello strano flusso delle energie, la rabbia, alle volte, la fa
da padrona.
Nella danza senofontea Marte e le Muse si aggrovigliano,
appaiono per poi scomparire, danzano a ritmici passi ma
con musica di guerra.
Quale l’incontro nell’equilibrio del mio saluto al sole?
Dov’è la straordinarietà nel saltare a piedi uniti le latrine di fango?
Rimango delusa spettatrice, scottante interprete ma, rachitica nei gesti, appaio assai inespressiva in volto, il corpo
non si muove, nessuna emozione è palesata.
A lungo ho provato nel silenzio a cercare qualcosa, ma
erano assordanti le urla di chi vende, nell’alto dei cieli,
vane speranze.
Urlano le folle dei selvaggi, i barbari al seguito chiedono
promesse, eterne nuove conquiste!!!
Pacifisti e stoici assordano questi silenzi; astronomi e
folle di genti a strappare future previsioni, leggi a me…
Leggi dentro me…
Nell’alto del cielo speranza!!!
Emozioni non in vendita, così poco interessanti, pure il
vento pare lamentarsi. Improvviso il rosso illumina il volto
di chi stava rivolto a quel cielo pregando…
Marte fa il suo ritorno, è solo, infuocato.
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L’ira irradia il vuoto e coglie i riflessi dei corpi in fuga.
Alla rabbia, al fuoco, all’odio, balia di molti, tomba di
troppi. Ecco melodie suonate quasi fosse possibile l’austero filosofeggiare d’Eufonia, che il mito stia per avverarsi!?
Canti austeri e passionali, danze in drappi di seta, ma
sono le Muse!!! Ora! Qui! Adesso!
Giungiamo le mani in preghiera.
Che calmino Marte, che portino via la rabbia e il fuoco
della lotta.
Lussureggiante Foresta che fai da scenario, sii posto inequivoco di tale maraviglia, agli uomini mai concessa.
Allarga le braccia, Quercia, e nascondi gli occhi, ancora
vitrei, di chi non scappa per vanagloria.
Giungono le infuocate voci, silenzio!!!
Tappa gli orecchi, Vento, d’Eolo soffio.
Fallo ti prego!!!
Volteggiano drappi di seta, profumi d’ambrosia, ricordi
conosciuti saltano al mio pensiero.
L’incontro dell’Arte e la Guerra!
Nulla vissi mai prima d’ora, né in questa né in mill’altre
vite vivrò.
Assai lieve da parermi un sogno ma, troppo indelicato
sarebbe allora l’abbraccio di Morfeo…
Non sogno; è intonato e colto il canto, messali giungono
da ogni dove, cariche di viole e roselline.
Melodico è il librarsi, affascinanti i gesti: non guardare è
assassinio all’arte, fissandolo si muore.
M’inebrio, smetto le mie carni
e cagna io divengo che insegue di Marte il fuoco, fiuto i
suoi passi e m’infiammo mentre balzo al cielo e le vedo
discendere sempre più belle.
Rantolo, mi scotto, brucia! Lo voglio!
Lentamente danzando taluna verseggia la propria strofa.
Ringhio!!!
Io, cagna che insegue quel dio,
che darei, ora, per un suo solo pezzo di carne!!!
121
Ma stanno librandosi ancor più vicine,
ora che ne sento l’odore!
Mi arresto, in guardia del mio boccone
mentre le Tre cominciano a girargli intorno.
Osservo. Piano mi muovo, ma fremo.
Che odore di rabbia, che voglia di carne, la guerra,
la carne, mille battaglie, mio Dio, voglio il tuo corpo!!!
Assetata, senza quella ragione che fa l’uomo tale, mi scotto del tuo respiro, tento un balzo… Azzanno la seta delle
loro vesti… Ricado.
Cagna di Marte annuso i suoi passi, brandisce lo scudo,
ma non è tempo di resa!!! Insofferente animale, il sangue,
la carne. È mio Signore sol’egli!
Riprovo, ancora, ancora, ancora…
Con ardue capriole, mi scacciano i loro canti, silenzio!!!
Troppo lontani, ora volteggiano i Quattro, uniti dal fuoco delle rispettive passioni. Ancora più in alto, salendo al
cielo, verseggiando di battaglie passate in rima simbiotica,
come fossero uno lo stesso dell’altro.
Ardo, mi rode dentro, che fuoco, che passione!!!
Un solo boccone, un brandello di carne a saziarmi sarebbe bastato. Sofferente, affamata… Troppo lontani!
Cagna, bestia, animale ma, non nutro rancore, è la passione a spingermi ancora, pur incosciente… Pure se vano è
il tentativo, balzo, e tanto più in alto mi spingo, tanto più
dolore mi provoco nella caduta!
Invasa dalla passione, appena la luce scompare mi ritrovo stupita, sono donna ora, io che vesto solo le carni mie,
lacerate dal fuoco.
Tutt’intorno animali, uomini, donne e bambini che ridono, pirandelliane risate, sonanti onde contro maestosi scogli.
Venere, vieni ora in mio soccorso.
Ma Zacinto è lontana e gli sguardi seguono le dita tutte addosso puntate. Sofferente dell’intelletto animale.
Mi stringo, mi chiudo in me stessa, sogno, ti prego…
122
Santi Pullarà
Casina Corvaja
La cancellata che demarcava la tenuta Corvaja era sostenuta da pilastri di tufo. Alla sommità due falchi gentilizi, lì,
erosi, custodi del tempo perduto. Tre volte di una catena
fermata da un lucchetto serravano l’inferriata. Zù Cola
Billeci, il gabelloto, lo lasciava aperto solo durante il periodo
della raccolta delle arance per favorire la spola dei motocarri con il mercato.
La prima volta che Vannuzzo varcò il cancello Corvaja
era un giovinetto. Accompagnava, mano nella mano, suo
nonno a trattare le arance con Zù Cola.
Zù Cola era un uomo tozzo, basso di statura. Il volto olivastro, solcato da profonde rughe, pativa una precoce senilità. Si copriva la testa con una coppola che teneva anche
quando la canicola ne sconsigliava l’uso. I suoi discorsi
erano improntati a una singolare moralità. Chiamava sempre in giudizio: “I miei tempi”. Quei tempi di miseria e
ignoranza, in cui i vossignoria baruni facevano i loro piacimenti, quando la prepotenza era istruita in nome della
giustizia, e chi, per affrancarsi dalle depravazioni, reagiva
con la violenza, sopraffacendo i più deboli in una spirale
di ritorsioni.
Zù Cola e suo nonno negoziavano gli agrumi sotto la pergola di casa Billeci, antistante villa Corvaja. Spinto dalla
curiosità di quella villa ripudiata, Vannuzzo si allontanò dai
vecchi e dai loro ragionamenti, e si spinse all’esplorazione
della casina. L’entrata introduceva in un atrio da cui si diramavano simmetricamente due scale che portavano al piano
superiore. Oltre la loggia delle scalinate c’era il salone dei
123
ricevimenti: occupava buona parte del pianoterra, ora era
destinato a deposito. Le altre stanze erano vuote o vi erano
strumenti di lavoro. I locali del piano superiore erano vuoti
fuorché due stanze chiuse e ammobiliate con gli avanzi del
fasto dei Corvaja. Era quello l’ultimo ciglio del patrimonio di famiglia. Tutto odorava d’antico.
Le volte delle stanze serbavano sbiaditi affreschi di pergole floreali, sostenute da colonne posticce che si levavano dalle pareti come fossero reali.
Vannuzzo precipitò in un’estasi di fantasia. Aveva sentito
menzionare la casina con disprezzo senza che ne conoscesse le ragioni. Eppure era lì, innocua, a languire nel suo
abbandono senza che alcuno le offrisse le attenzioni dovute al suo blasone.
“Nun entrare cchiù là dintra”, lo ammonì il nonno sulla
via del ritorno. Vannuzzo, con il candore infantile, lo incalzò di perché. Solo a casa il nonno gli raccontò la storia: “I
Corvaja erano stata gente ricca e buona. Stavano a Palermo, qui ci viniano a passare l’estati”, così iniziò la sua narrazione. “Lu vecchio, don Tancredi, era omo di principio e
di carità, cristianu pevveru, aiutava tutti e tutti ci vuliano
grande bene. Quando io e l’altri picciotti tornammo dalla
guerra di Cicco Peppe, don Tancredi Corvaja fece ’na gran
festa pe’ tutto lu baglio del noce. Pure lu figlio, don
Manuele, fu bono, ma fu bono fino a quando campò la
buonanima di suo patre. Poi don Manuele principiò a fare
lu baruni e nun si ci putia cchiù parlari. A mio patre però
lu teneva in dovuta considerazione e ci dava pure lu vossia.
“Come a un cane bono accompare la rugna, ’na sta quiete accomparve Lucrezia.
“Lucrezia era la figghia di don Manuele; suo patre l’aveva mandata a lu colleggio na lu continente che era picciridda. Quando turnò s’era fatta bedda come ’nu ciuri di zagara. Dritta come ’na spada era e avìa li capelli biondi come
lu furmento. D’estate era solita passiare tra l’aranci, sola,
sempre vestita di bianco con un paracqua che riparava lu
124
candore di la sua facciuzza da lu sole cocenti. Li viddani la
viniravano come fossi la Santuzza. La vidi ’na volta e mi
parse ’na creatura divina. Me frate Peppino, cu lu pretesto
di lu commercio, sovente si presentava a don Manuele, ma
pe’ la via ’ncontrava Lucrezia e scanciava du’ parole.
“Du’ parole oggi, du’ parole dumani, finì chi li parole si
fecero inghippo. Peppino era picciotto di talento e di beddizzi, li fimmini se lu mangiavano co’ l’occhi, principiò a
trescare co’ Lucrezia Corvaja. ’Sta storia presto arrivò a conoscenza di don Manuele e di mio patre.
“Li picciotti si volevano bene e aspiravano a legittimare
’sto ’nnamoramento. Mio patre andava tirando la coppola
stanza pe’ stanza, ’mprecando che quelli erano nobili,
libertini e facili di corna e non si ci vuliva ’mmischiare la
roba: ‘Quando mai ’na picciotta per bene gira solo pe’ li
jardini!’, diceva.
“Don Manuele pestava li piedi perché la mia famigghia,
seppure benestante, contadina era. Finì che Lucrezia
Corvaja a la casina non si vide cchiù. Si seppe, tempo dopo,
che suo padre l’aveva maritata con un conte di Napuli.
“Pe’ sta facenna, la bona creanza tra mio patre e don Manuele si fece rancorosa. Quanno a lu governo vennero li
fascista, don Manuele ci cadde come ’n’arancio dintra lu
panaro. Girava cu ’na divisa ca pareva lu generale Giufà.
Accussì parato, ’na duminica matina, si presentò a la casa
nostra e cercò mio patre pe’ riconciliarisi, la smanceria era
lu pretesto pe’ proporci di farsi fascista come iddu. ‘Fascista
io?’, ci disse ‘Li fascisti su peggio di li sbirri, portano divise
e danno mazzate.’
“Un giorno Tancredino, lu figghio di don Manuele, tutto
vistuto di nero come lu beccamorto di Santa Maria di Gesù,
venne, scurtato da quattro sciacalli da sua stessa timpra, a lu
nostro magazzino, aveva lu ritratto di Mussolino e ci disse
d’appizzarlo a lu muro. Me frate Peppe che di levata era
focoso e cu li Corvaja ce l’avia pe’ la questione di Lucrezia,
lu quadro ce lu dette na li corna e li cacciò a colpi di pala.
125
“La malindranata nun passò sutta banco. Notte che fu si
presenterano li carrubbinieri p’arrestarlo. Peppino se l’era
fujuta e grazie all’amici scampò a Tunisi e la fece franca.
Pe’ ritorsione arrestarono mio patre e mio frate Ciccio e ci
fecero fare due anni di galera. Poi fu lu tempo di Mori. ’Sto
prefetto misi a ferro e foco li paesi, li contrade e ’ncominciò a persecuiri l’omini di rispetto.
“La casina di don Manuele l’aveano destinata a caserma:
ci portavano li fermati. Quando nun trovavano l’omini,
arrestavano li fimmini, e co’ li fimmini si portavano li carusi e li tenevano chiusi dintra li stanze ’nguste di quella casa
’nfame, e si l’omini ricercati nun si consegnavano, portavano fimmini e carusi a lu carcere. Là, li fascisti pe’ anni e
anni torturarono e ammazzarono cristiani: boni e cattivi.
Mio patre e mio frate Ciccio ci subirono ogni sevizia, ma
’na parola nun la dissero. Quanno sbarcarono li ’mericani,
don Manuele si levò la camicia nera, si fece alleato e tornò
a dichiararsi amico. La gente però nun s’avia scordato della
casina. Quando passò la frenesia di la guerra li galantuomini tornarono a ragionare. Don Manuele Corvaja ora faceva
lu democristiano e si voleva portare a lu parlamento di
Roma. Come nenti avia stato, frisco come ’na rosa di majo,
girava co’ lu calesse ’ntra li contrade a garantire lu mundu
a cu ci dava lu voto. ’Na sera, lu calesse tornò senza lu barone. Dopo tanto circare, tì carrubbineri trovarono un paio
di stivali con li piedi dintra. Furono ricanusciuti come quelli di don Manuele: du resto nun si seppe cchiù nenti. I
Corvaja a la casina nun si videro cchiù. Pure a Palermo di
’sta razza Corvaja nun si seppe cchiù cosa. La proprietà se
la pigliò Cola Billeci che era stato lu sovrastante di li Corvaja: dintra la casina però nun ci fece mai dimora.
“Tempo recente si presentò Tancredino Corvaja: s’era
fatto vecchio. Recriminava diritti di proprietà, dopo carte e
tribunale si riappropriò di la casina. Voleva principiare a
fare lu signore, quanno davanti la porta di la sua casa di
Palermo trovò ’na regalia: ’nu porco morto cu li zampi
126
tagliati. Tancredino capì la sonata: si pigliò, muto muto, li
cose sue e tornò da dove venne”.
Crescendo Vannuzzo conobbe tanti episodi capitati nella
casina durante gli anni della repressione. Interrogò superstiti; ascoltò le leggende di notti in cui si levavano i lamenti dei seviziati; studiò le carte scampate ai roghi della
Liberazione e ricavò le cause che rendevano quel pregiato
liberty un posto così ricusato: ne fece una tesi che presentò
all’università per la sua laurea. Su di lui, però, quella casina aveva operato un incantesimo che l’aveva spinto a compiere dei progetti.
Suo nonno era morto. Vannuzzo s’era persuaso ad acquistare la casina. Il proposito si era svelato arduo a causa della
mancata definizione del contratto di gabella con Billeci. Zù
Cola, prima che venisse a mancare, gli riferì che la compravendita doveva farla con Tancredino Corvaja. Vannuzzo lo
cercò come un segugio; quando ne ebbe notiza, seppe che
anche lui era morto. L’erede esclusiva rimaneva Lucrezia
Corvaja. Lei lo ricevette nel suo appartamento napoletano.
La cameriera lo fece entrare in salotto. Nella stanza non
c’era nessuno: era arredata con gusto. Su una mensola c’erano alcune foto. Vannuzzo concentrò il suo interesse su un
ritratto. Lo prese tra le mani: mirandolo rammentò la
descrizione che gli fece suo nonno.
“La posi pure quella foto, è vetusta come il tempo.”
Vannuzzo si voltò, teneva sempre il ritratto tra le mani, e
vide una donna alta, magra, con i capelli candidi raccolti
sulla nuca e il volto coperto da un intrico di solchi. Nessun
indizio la restituiva a quella fotografia.
“Siete la signora… La contessa Corvaja?”
“Esattamente. Mi è stato riferito che venite da Palermo,
in cosa posso aiutarvi?”
“Sono Giovanni Terranova, sono venuto per trattare
della casina… Spero che abbiate intenzione di vendere.”
La vecchia signora rimase in silenzio; dopo una piccola
pausa disse: “Appartenete ai Terranova del baglio del noce?”
127
“Per l’appunto.”
“Peppino Terranova cosa vi viene?”, gli chiese sommessa.
Vannuzzo aveva capito dove stava virando il discorso
della contessa. Rispose come se non sapesse nulla di quella
vicenda:
“Ah! Zio Peppino. Sì… Era il fratello di mio nonno Vanni.”
“Era?”
“Io non l’ho mai conosciuto. Ho sentito raccontare che
era andato a Tunisi prima della guerra, da lì non è più tornato, né abbiamo ricevuto notizie sulla sua sorte.”
“Cos’è che vuole?”, riprese la vecchia signora declinando
il capo. Vannuzzo le parlò della sua offerta d’acquisto. Riferì
delle condizioni in cui era la casina e quali erano i sui progetti di recupero. Chiese infine che la signora facesse un
prezzo adeguato alle attuali condizioni dell’immobile.
“Mi ascolti”, riprese la vecchia signora “ammiro il suo
impeto. A me di quella casa non importa nulla. I suoi occhi
mi ricordano qualcuno che mi è stato caro, sicuramente
anche lei che fa l’omertoso ne conoscerà il motivo. Quella
casa gliela cedo in donazione. Torni tra due giorni così firmeremo la transazione.”
“Donazione…”, esclamò Vannuzzo “… i suoi eredi potrebbero contestarla!”
“Mio figlio neppure conosce l’esistenza di quel villino,
da anni vive a Londra e non torna nemmeno per visitare
sua madre.”
La casina era stata circondata dai ponteggi per il restauro.
Vannuzzo attendeva ai lavori di ripristino con l’entusiasmo
che gliene veniva dall’essere prossimo al suo proposito. Una
notte il quartiere fu destato da un incendio che era divampato all’interno del cantiere. Bruciò presto e a lungo. I pompieri arrivarono quando anche i muri erano annientati. Anche Vannuzzo era arrivato tardi. Dal baglio i vecchi s’erano
precipitati a contemplare le fiamme che nell’aere disperdevano i gemiti e le memorie del villino maledetto.
128
Bruno Rapone
Storie di vita
La mia vita è un Dvd Rw, dove il blu ricopre la metà della
superficie, pari alla percentuale di tempo trascorso in
galera lungo i sessant’anni della mia esistenza. Nondimeno, neppure l’altra parte del dischetto è tutta rosa, diciamo che contiene una tavolozza di colori in cui la sorte
dipinge un arcobaleno differente da quello delle piogge,
a volte pastello come nei giorni migliori, altre che sembra
imbrattato dalla coda del demonio, con le tinte fosche
proprie dell’inferno.
Era un giorno d’estate del 1999, avevo da poco lasciato il
casale che abitavo a Valle Martella per un villino di Torvajanica, residence Sabbie d’Oro, a uno sputo dalla spiaggia e a pochi chilometri da Roma, ma sufficienti a dribblare le tentazioni quotidiane. Avevo superato abbondantemente i cinquanta ed era giunta l’ora di una completa abluzione “attaccando gli scarpini al chiodo”, come si suol dire
nel mondo del calcio quando si vuole smettere; perciò mi
allontanai dai milieu per un’esistenza finalmente tranquilla:
mi sarebbe stato concesso? Guadagnavo piuttosto bene
come direttore delle vendite alla Golden Product, un’importante ditta americana con sede sulla Cristoforo
Colombo e meeting settimanali al Midas Palace sull’Aurelia. Avevo ottenuto dall’imponente direttore generale,
come il vescovo riceve l’anello, un brillantino sul revers della
giacca, distintivo di grande prestigio.
Tenevo discorsi ufficiali, proprio io, sul tema del lavoro e
delle possibilità di successo degli operatori di vendita, nella
129
sala di rappresentanza più prestigiosa dell’hotel: si profilava un futuro sereno e potevo cominciare a sognare. In prospettiva, una famiglia da riconquistare e una figlia che fioriva come un pesco a primavera, l’albero più bello del mio
giardino, che dopo anni di chiaroscuro potevo finalmente
riabbracciare con gli occhi e accarezzarne i germogli che si
affacciavano alla vita. “Riconosco i miei errori”, le dicevo,
“in carcere attingevo dal mio cuore, come l’assetato l’acqua
dalla fonte, l’amore che mi ha nutrito nei momenti disperati e che ha dato linfa ai mio sistema nervoso, là dove
dimora l’anima.”
Quel giorno ero libero, e pregustavo già un tenero
pomeriggio inoltrato con lei, questo pensavo in macchina
mentre parcheggiavo nel Piazzale dell’Anagnina, quasi
tronfio, il BMW 520 turbo blu metallizzato, e m’infilavo
nella metro per evitare il traffico del centro. Raggiunsi il
mio amico Massimo, cui avevo dato appuntamento in
Piazza Pio IX presso l’autosalone dove avevo visto un’Alfa
156 rosso fuoco. Il suo “gattone”, un vecchio Mercedes 200,
andava assolutamente cambiato, il prezzo era vantaggiosissimo, e con il gioco della permuta era una vera occasione.
Nonostante l’escamotage, arrivai lo stesso in ritardo, così
decidemmo di aspettare l’apertura del pomeriggio, visto
che con Romina avevo il rendez-vous verso sera insieme a
Bruna, un’altra creatura meravigliosa che non ripagherò
mai abbastanza, mentre Pamela, più grande di dieci anni,
aveva già la sua famiglia e i nostri rapporti rimanevano
affettuosamente stazionari. Andammo a pranzo in un localino adiacente, mi sembra fosse Le Tre Caravelle, ma non
ci giurerei, dopo essere andati a zonzo (cosa che amavo
tantissimo), per ingannare il tempo. Verso le due e mezzo
avvenne l’inverosimile, l’ennesima, ma stavolta ingiustificata cattura insieme all’amico Massimo, per una fantomatica
rapina nella banca in via Gregorio VII, poco più su di
Piazza Pio IX. In quel tratto di strada ci sono almeno tre
130
istituti bancari in meno di cento metri, e per evitarli, se non
hai il turbo sotto il culo, devi possedere un paio d’ali da
fare invidia all’Uomo Ragno cosicché, mentre uscivamo dal
ristorante e ci accingevamo a prendere un amaro al bar di
una figa da sballo intravista nella mattinata infingarda,
siamo caduti in un vero e proprio agguato. Nel frangente,
si è scatenato un inspiegabile safari, nemmeno lontano
parente di quelli cari a Moravia, il mio preferito dei primi
anni d’approccio alla lettura, con la differenza non da
poco, che l’obiettivo non era l’ignara fiera della savana, ma
l’inconsapevole animale d’asfalto. Una trentina di sbirri in
motociclette, pantere e a piedi della Quinta Sezione, reparto speciale antirapina della questura di Roma, congiuntamente con il commissariato Boccea, hanno scatenato una
sorta di “mezzogiorno di fuoco”. C’erano sceriffi metropolitani e cavalli silenti, in attesa di sprigionare la loro potenza nei motori delle alfette parcheggiate nel cortile della
centrale di via Genova, e volanti nelle strade di Roma pronte a nitrire, il più delle volte per gettare fumo negli occhi
del contribuente. Era lecito immaginare che fosse accaduto qualcosa di notevole. “Ci dev’essere in corso un’operazione di criminalità organizzata”, pensavo, ma non ho
avuto nemmeno il tempo di dare respiro ai miei pensieri,
perché ce l’avevano proprio con noi, che attraversavamo la
strada, ignari, fischiettanti e spensierati, pregustando sia
l’Amaro Lucano che illuminava l’insegna sia le curve della
prorompente barista (che culo!). Ma in luogo della sua silhouette si materializzarono uomini in borghese con le
canne delle pistole spianate, ahimè persuasi da quel bastardo di Italo, ispettore di polizia sempre in cerca di gloria e
di fottere il prossimo, pur di vantarsi di un’operazione che
sarebbe andata ad arricchire il suo medagliere di latta.
Fatto sta che mi sono ritrovato faccia a terra lungo il selciato con un anfibio ficcato nelle costole, a opera di fanatici
con la patente da Top Gun, “ahoo”, esclamai, “ma che
cazzo c’avete”, e giù calci alla cieca: come si dice a Roma:
131
“Il sessantotto era finito da un pezzo, ma per il sottoscritto
si faceva sempre un’eccezione”. Non entro nei dettagli, ma
a onor del vero ne sono uscito assolto (sic!), dopo un’estenuante processione a piazzale Clodio per le varie fasi processuali, porca miseria zozza! Se non posso più camminare
a piedi per le strade della mia città, speditemi su un altro
pianeta, ma per carità, dove non ci siano sportelli bancari!
Intanto mi sono fatto una ventina di giorni schifosi di
Regina Coeli, choc cui non ti puoi sottrarre nemmeno se
fossi stato vaccinato al vetriolo. Giunti all’Ufficio Matricola:
“Rapone, la cintura”, “Rapone, i lacci delle scarpe”, “Rapone, gli oggetti preziosi”, “Rapone spogliati, e abbassati le
mutande, e fai la flessione, per guardarti il buco del culo, e
ora rivestiti!”, “Rapone, dammi la mano destra, passa l’inchiostro sulle dita: pollice, indice, medio, anulare, mignolo”, “Mortacci vostra! ’A brigadiè, ce n’avrete un mijone de
st’impronte!” Ennesimo sacrificio al dio Stato, lì ho maturato l’idea che alla mia età è quasi impossibile affrancarsi
dal sistema per voltare pagina: era scritto che io dovessi
riprendere il percorso obbligato. Ne uscii fiaccato nel fisico e nel morale, non potete immaginare la delusione della
mia famiglia che avrebbe fatto fatica a capire; la purificazione non aveva funzionato.
Cosi lasciai il lavoro e ripresi i contatti con “quelli che avevo
perso di vista”, ben presto accumulai molto denaro, ma
nella stessa misura anche molti guai (“il crimine non paga”,
mi diceva un giovane magistrato napoletano cui stavo simpatico durante gli anni della mia giovinezza): niente di più
vero. Man mano che trascorrevano i giorni, sentivo l’alito
sul collo dei segugi, perciò decisi di procurarmi l’alias per
cambiare aria. Mi rifeci una verginità prendendo il nome
di un noto professionista dell’Olgiata, il dottore odontotecnico Giuseppe Sascaro.
132
La prima tappa la feci a Barcellona insieme a Jorge, un simpaticissimo sudamericano che mi avrebbe fatto dannare.
Mi ero portato dietro una trentina di milioni delle vecchie
lire, e gli mostrai un biglietto da cinquecentomila: “Lo
vedi”, gli dissi sventolandoglielo sotto il naso, “il giorno che
dovessimo fare ricorso a questo”, tenendolo tra pollice e
indice, “vorrà dire che dovremo fare miseramente ritorno
a Roma”. Intanto ce la spassammo un po’ tra Plaça Cataluña e la rambla che porta verso il Mediterraneo; presi
casa in un residence di Calella, più volte scesi fino a
Valencia per un blitz che non si concretizzò mai, e a Barcellona Jorge mi mandò a monte un ufficio cambi zeppo di
dollari proprio sulla rambla, accanto al Bar Italia. Avevo
comperato una vecchia Citroën nera per gli spostamenti
più brevi, ma un giorno mi avventurai sulla Costa del Sol
pretendendo più chilometri di quanti ne potesse sopportare quel ferro da stiro, e perciò mi lasciò miseramente sulla
ruta. La dovetti abbandonare presso un meccanico più scalcinato della stessa vettura: non solo feci ricorso all’ultima
banconota, ma dovetti rivolgermi alla Western Union per
farmi mandare denaro dall’Italia.
Questo mi suggerì che era giunto il momento di fare
ritorno a casa.
Dopo molte peripezie comprai due biglietti per la Liberia, nonostante il secondo obiettivo fosse in realtà la
Costa d’Avorio, perché quella era l’ambasciata che mi
avrebbe accordato il visto, previo un piccolo regalo, senza
dover passare al vaglio delle autorità italiane.
Partii da Capodichino per aggirare lo scalo di Fiumicino,
dove avrei rischiato l’incontro con i segugi, in compagnia
di un partenopeo, da anni amico della moglie del presidente liberiano, alla quale forniva prodotti italiani e cocaina a
gogò. Mi portai dietro mazzette di dollari e varie valute per
alleviare la mia latitanza. Mentre si alzava dalla pista il
mastodonte della compagnia belga, la Sabena, che avrebbe
fatto scalo a Bruxelles prima d’involarsi verso l’Africa, il
133
mio cuore ebbe un paio di sussulti, il primo perché vedevo
finalmente dissolversi lo spettro della cattura, il secondo
per un magone alla gola dovuto agli italici sentimenti per
la famiglia e per il suolo natio che stavo lasciando. Scacciai
i cattivi pensieri e respinsi anche quelli più dolci, che più
fanno soffrire, e m’immersi nel volo che mi avrebbe portato all’aeroporto internazionale d’Abidjan.
Con un inganno chiamai un taxi e feci portare fuori tutti i
bagagli diretti in Liberia, Monrovia poteva attendere, avrei
terminato il viaggio nel Paese che mi ero prefissato, soprattutto per la lingua, avendo trascorso più di un lustro in quel
di Francia negli anni Settanta. L’amico di Napoli vi conosceva Tourè, che presto si sarebbe rivelato preziosissimo: tra l’altro era vissuto in Italia, dove aveva frequentato un’università
del Veneto, e si sarebbe messo ai miei piedi agognando un
futuro migliore. Non per niente ero stato presentato come
industriale. A sua volta mi mise in contatto con Bema, personaggio singolare ed eccezionale: ex membro della guardia
personale del Presidente della Repubblica, ex agente dei servizi segreti, ex non so più cosa ma attivo su ogni fronte,
avrebbe costituito la chiave di volta per il mio disegno.
L’unico handicap erano le quattro mogli e le venti bocche
da sfamare, per questo l’argent non gli bastava mai, e con il
sottoscritto aveva trovato una sorta di pozzo di San Patrizio.
Alloggiai al Casinò Ivoire la prima settimana: mi sarebbe
costato duecento dollari al giorno, e altri cinque-sei mila
sui tavoli da gioco e di compenso alle puttane travestite da
steward. Dopo un mese trascorso in una villa che non si
addiceva al mio standing, secondo l’affermazione di Bema,
affittai prima un’ala al tredicesimo piano di un grattacielo
con piscina di fronte al Safety Hotel, nell’elegante quartiere Plateau, e successivamente anche una splendida villa nel
quartiere europeo, con tanto di servitù e di guardiano a
tutto tondo. Non era uno scherzo, c’erano diversi rapinatori tribali con il machete molto attivi in quel periodo, e la
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cronaca mi rivelò che la banda più pericolosa era stata sterminata a colpi d’arma da fuoco mentre era in procinto di
attaccare la residenza di una famiglia benestante francese.
Pur succhiandomi una barca di soldi, Bema mi fece conoscere tutti quelli che erano necessari alla mia permanenza
sul territorio, in primis il Procuratore Capo della
Repubblica, che mi avrebbe spianato la strada burocratica
attraverso un notaio del suo entourage, una bella signora che
aveva l’ufficio cinque piani sotto il mio appartamento, quindi il vice Ministro dell’Industria, passando per i vari colonnelli che occupavano i posti nevralgici della città, come la
dogana, l’aeroporto e via dicendo, fino al centro commerciale più importante del Paese. Pagando il dovuto ottenni
quasi subito il lasciapassare presidenziale, strumento necessario per non farsi rompere le balle decine di volte al giorno dai militari che sorvegliavano le strade, e dalla polizia
locale che ti tormentava per pochi franchi. Presso il notaio
creai una s.r.l. finalizzata a scambi commerciali con l’Italia,
senza avere però neppure il tempo di mettere piede nell’ufficio, che avevo affidato a una bella e brava commercialista
(altra creatura di monsieur Bema), dato che ogni giorno che
passava le mie finanze crollavano verticalmente. In un locale notturno incontrai Luise, che mi rapì lo sguardo dal
primo momento, una caramella al sapore di nocciola, metà
liberiana e metà americana: aveva lavorato, giovanissima, sia
a Londra sia a Parigi, da dove riceveva mazzi di fiori da fare
invidia a Josephine Baker. Le aprii un night club, che non
avrebbe neppure visto la luce sotto i miei occhi, portandosi
però via gli ultimi dollari. Feci per questo un paio di viaggi
a Roma, via Londra, per rimpinguare le casse, “Nemmeno si
trattasse di Roma-Ostia Lido!”, mi diceva qualcuno.
La terza tappa non la raggiunsi mai, tuttavia feci in tempo a
fare un salto in Sierra Leone, dove presi contatti con alcuni
guerriglieri, per una storia di diamanti. Portai la creola nella
caput mundi, e la presentai ai miei amici più fidati con cui
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avrebbe dovuto fare da trait-d’union per una serie di affari;
avevo messo in piedi un business davvero intrigante, la semina era fatta, ora si trattava soltanto di raccogliere i frutti.
Rispedii Luise in Costa D’Avorio, ma prima di imbarcarla a
Fiumicino trascorsi con lei un’ultima serata da Corsetti,
all’Eur, con noi c’era anche Romina che non avrebbe mai
creduto alla storiella della segretaria, “‘A papà, che m’hai
preso pe’ scema!?”, mi disse serafica, e infatti al piano bar le
dedicai Up and Down, la sua canzone preferita, che le metteva allegria spalancandole un sorriso meraviglioso. Mi baciò
sulla guancia dove si posò una lacrima, poi l’accompagnai al
Leonardo da Vinci salutandola con un improbabile “See you
later”: ebbi per la prima volta un groppo alla gola, certe cose
si sentono dentro. Infatti, non la rividi mai più.
Al mio ritorno a Torvajanica, un giuda figlio di puttana
mi vendette agli sbirri di Albano Laziale: era il 20 settembre 2000. Così è finita la vita di Giuseppe Sascaro e ne è iniziata un’altra, quella che mi ha visto protagonista per un
altro quarto di secolo a spese dello Stato. Poco importa se
le armi per me siano sempre state un optional, le ho spesso mostrate, mai usate. Sotto questo punto di vista il mio
curriculum è assolutamente vergine, non ho ancora capito
i parametri di giudizio, tuttavia mi adeguo.
“Guai a toccare le banane a Palermo”, diceva Johnny Stecchino nell’omonimo film, ma mentre quella era soltanto
una farsa, qui invece la tragedia si è impossessata della mia
pelle. Ciò nonostante non ho rimorsi, quando si fanno
certe scelte nella vita bisogna accettarne le conseguenze,
anche quando queste ti sembrano ingiuste. Semmai ho
molti rimpianti, questi sì, ne ho tantissimi, il primo che mi
viene in mente è il seguente: “ ’A Brunè, ma chi te l’ha fatto
fare, potevi rimanere in Africa!”
136
Carmelo Rollo
La nobildonna
Giuditta Gasparetti Sforza, nobildonna romana, faceva parte dell’alta società, e amava trascorrere il periodo estivo a
Montecarlo, per poi dividersi fra Roma e Parigi. A Montecarlo tutti la conoscevano.
C’era qualcosa di strano in quella donna, ma non era
facile dire cosa fosse. Si trattava di qualcosa che non aveva
niente a che fare con il suo aspetto, o con i suoi modi.
Aveva una figura esile, capelli mori, che lasciavano libere le
orecchie, e un nasino con narici rosee e un poco dilatate,
che si staccava dal volto con un angolo un po’ diverso dal
normale. C’era qualcosa di strano in lei, un che di sottomesso, e il suo modo leggero di camminare a volte sembrava quasi furtivo.
Così almeno mi apparve al nostro primo incontro allo
Sporting allorché, alzando gli occhi dal libro che stavo leggendo, me la trovai davanti, linda e fresca nonostante l’afoso pomeriggio estivo. Pronunciò il mio nome e io, posando
il libro sul tavolinetto alla mia destra, mi alzai in piedi, rendendomi conto solo in quel momento di essere in costume
da bagno, avendo terminato poco prima di bagnarmi nella
vicina piscina. È sempre imbarazzante sentirsi rivolgere la
parola da una sconosciuta, anche se a Montecarlo tutti
conoscevano la duchessa Gasparetti, ma lo è ancora di più
quando non si è vestiti. Lei portava un paio di occhiali da
sole che non facevano capire dove guardasse.
“M’interesso di auto d’epoca”, mi disse, “e so che voi
avete scritto un libro su tale argomento.”
“Infatti”, le risposi, invitandola ad accomodarsi. “A Mon137
tecarlo, Cannes e Nizza, c’è la maggior concentrazione di
collezionisti di auto storiche di tutte le marche e modelli”,
l’avevo pregata di sedersi per poterle parlare del mio libro,
poiché è sempre stata grande la mia passione per quel tipo
di autovetture.
Sono perciò felice ogni volta che mi si presenta l’occasione di parlare dell’argomento, discutendo degli aspetti più
intrinseci e talvolta sconosciuti; non rimasi deluso, poiché la
duchessa parve dedicarmi tutta la sua attenzione.
Ero quasi giunto al termine della mia lunga tirata, quando la signora si tolse gli occhiali di Chanel con una decisione che mi parve singolare. Ebbi allora modo di vedere i
suoi occhi, e di notare quanto fossero belli, penetranti e
capaci di leggermi dentro. Occhi che mi parve celassero
una qualche tristezza. Ma prima che avessi il tempo d’individuarvi qualcos’altro che ancora mi sfuggiva, lei si rimise
gli occhiali, lasciandomi con l’impressione che mi avesse
mostrato gli occhi al fine di chiarire a sé stessa, una volta
per sempre, che non intendeva farmi perdere tempo con
finti pretesti. C’era stato qualcosa di troppo voluto e deciso
nel modo in cui aveva eseguito quel breve dénouement. Ero
certo che avesse voluto trasmettere un messaggio che però
non riuscivo a decifrare in quell’esatto istante.
Abbandonando generosamente le mie auto d’epoca, rivolsi un certo interesse alla sua persona, facendole un paio
di complimenti indiretti, e cercando di dare al mio sguardo uno scintillio particolare. Non ricordo di averlo mai
imparato, ma so che la migliore azione che un uomo possa
compiere nei confronti di una donna dallo sguardo triste,
è tentare di infondere ai propri occhi un luccichio d’ammirazione.
La sua reazione fu quella che mi aspettavo. Il suo atteggiamento cambiò d’un tratto, e il suo interesse per le auto
d’epoca scemò per poi scomparire del tutto. Prese a raccontarmi di sé e del suo romanzo, al quale stava dando gli
ultimi ritocchi. Mi disse come le era accaduto di diventare
138
scrittrice con poche frasi brevi e concise, tanto da darmi
l’impressione che fosse veramente un’ottima narratrice.
Parlava senza alcuna esagerazione, e la sua storia, di per sé
insignificante, trasse vantaggio da quel suo contegno. Appartenente a un’antica famiglia romana, con anche un
papa fra gli antenati, si era ribellata alle rigide regole imposte, prima studiando sociologia, in seguito sposando uno
dei suoi professori, contro il volere dei famigliari. Matrimonio poi naufragato nel breve volgere di un lustro. Distribuiva equamente la colpa della sua sfortunata esperienza matrimoniale tra sé stessa e suo marito. Non si era più
voluta sposare, cercando nella convivenza quella certezza
che sino a ora non era riuscita a trovare. Da diversi mesi
libera da legami, si era trasferita a Montecarlo per, a suo
dire, riordinare le idee e cercare di ritrovarsi.
“Ho goduto, sofferto e compreso tante cose da poter
sfruttare la mia vita come una biografia”, disse con tono
semplice, come se si rendesse conto di non averne colpa,
né merito. Si tolse nuovamente gli occhiali neri, e questa
volta notai una profonda malinconia nei pallidi occhi
verdi. Li osservai più attentamente, con la stessa attenzione
che di solito riservo nel cercare imperfezioni nei lamierati
e nei colori delle auto antiche: emanavano una luce intensa, trasmettevano un calore particolare. Lei notò il mio
modo di fissarla incuriosito, e io cercai allora di ammorbidire il mio sguardo, assumendo un’espressione di malinconica comprensione che ottenne l’effetto voluto.
“Non ho mostrato il mio manoscritto ad alcuno”, disse
rimettendosi gli occhiali. Sentivo che dietro quei vetri scuri
mi osservava con un’intensità di cui forse si vergognava.
“Ma mi piacerebbe che lei lo leggesse”, aggiunse dopo una
breve pausa.
Posseggo quello che la mia Adriana chiama “sguardo di
finta sorpresa”. Si tratta di una mia piccola scappatoia, a
dire il vero assai comoda, che spesso mi pone nella fortunata categoria dei poveri di spirito. Dopo quest’attimo di
139
pausa, la ringraziavo per l’onore che mi concedeva, facendo trasparire la mia sorpresa.“Sento in lei molta comprensione”, disse, e mi parve che il mento le tremasse leggermente, come se stesse per piangere, “e so già che potrete
capirmi”.
La vicenda iniziava a infastidirmi. Forse il mio sguardo
era stato troppo eloquente e la duchessa mi aveva frainteso. Ma prima che avessi la possibilità di riprendere il controllo totale della mia espressione rientrando in quella abituale, lei si alzò sorridendo.
“Mille grazie”, mi disse posando la mano sul mio braccio.
Poi lasciò la sua nella mia per un attimo oltre il necessario,
quindi si volse e abbandonò la terrazza lentamente, camminando con il busto in avanti, quasi a offrire un nascondiglio
ai propri seni.
Alcuni giorni dopo me la trovai davanti di nuovo. Adriana era al mare con il bambino e un’amica. Dopo aver lavorato al laptop con l’ausilio dell’inseparabile telefonino,
avevo pranzato al ristorante del circolo, e ora all’ombra sorbivo il solito caffè shakerato. Nelle prime ore del pomeriggio la piscina era pressoché deserta: non c’erano che pochi
bambini i quali, dopo essersi caricati di energia solare,
sguazzavano nella piscina loro dedicata sotto lo sguardo
vigile del maître nageur.
Avevo l’abitudine di sedermi sotto l’ampia tenda a riposare, osservando distrattamente i bambini, o leggendo un
libro. Anche quel giorno la nobildonna sembrava linda e
fresca. Sorrise sedendosi accanto a me, e posò sul tavolo
vicino una cartellina portadocumenti di Louis Vuitton.
“Desideravo rivederla e, francamente, temevo di non trovarla”, mi disse, guardandomi con aria incerta.
“Grazie”, risposi chinando la testa buffonescamente. “Da
quando mia moglie e il bambino hanno deciso per il mare,
si può dire che io viva qui.”
“Ho saputo che avete un bambino delizioso.”
“Ha la virtù di somigliare a chi l’ha messo al mondo.”
140
“Sua moglie!”, disse lei, e scoppiò in una risata strana. Ma
subito le sue labbra si serrarono in un’espressione di disagio.
“Lei ama sua moglie”, dichiarò.
“Sì!”, a dire il vero non era mia intenzione espormi così
presto all’indifferenza della duchessa: c’è sempre tempo
per confessare a una donna bella e attraente che si ama la
propria moglie.
“Da quanto tempo siete sposati?”
“Da cinque anni. So che non è più di moda, e talvolta me
ne vergogno.” Risposi ridendo, affinché comprendesse che
si trattava di una semplice boutade. Mi aspettavo un gesto di
sorpresa, o un sorriso. Ma lei rimase impassibile.
“Cinque anni di felicità”, disse.
“Cielo!”, esclamai. “La sua affermazione è forse un po’
troppo impegnativa. Sono convinto che non si sappia con
esattezza quando si è veramente felici. Comunque, espressa così, sembra addirittura una cosa assurda.”
“Bisogna essere stati molto infelici per imparare che cosa
sia la felicità.”
“Può darsi…”
“Fuorché nell’arte”, precisò lei. “L’artista, infatti, sa sempre che cosa sia la felicità o l’infelicità. Naturalmente nella
sua immaginazione. Ma, infine, la vita è solo immaginazione, non crede?”
“Beh… non saprei”, risposi. “Vi sono persone che vivono
intensamente la propria vita, e per le quali l’immaginazione non è certo indispensabile.”
“È vero”, ammise lei. Tese il braccio verso la cartellina e
la tirò a sé.
Da quel momento il suo umore cambiò bruscamente,
tanto che mi chiesi se non mi volesse piantare in asso.
Alcune donne riescono a nascondere i propri sentimenti meglio di altre, ma in lei apparve subito evidente che alla
conversazione, avendo ormai questa perso ogni elemento
romantico, partecipava in modo distaccato. Io, invece, mi
sentivo ben disposto verso di lei. Possedeva un non so che
141
d’indefinibile, che suscitava in me quasi compassione. M’interessava leggere il manoscritto che doveva essere all’interno dell’elegante custodia. Intuivo che, leggendolo, avrei
trovato la spiegazione a quella sua singolarità che mi lasciava perplesso e, inoltre, pensavo che potesse essere un buon
lavoro. Riportai pertanto la conversazione sul piano del
primo giorno, adottando la stessa tattica, ma dando al mio
sguardo uno scintillio diverso, tale da costituire un invito
all’amicizia. Lei non tardò ad aderire all’invito, in breve ci
trovammo impegnati in una vivace e interessante conversazione, con lei che, un po’ imbarazzata, chiese se potessimo
darci del tu; cosa di cui mi dichiarai onorato. Da sociologa,
si rivelò una mistica e io, che avevo compiuto studi economici, un razionalista. Fu una simpatica schermaglia. Alla
fine, con il caldo che si faceva avvertire, ordinammo due
cocktail a base di frutta, allungandoci tranquillamente
sulle rispettive sedie a sdraio. Fianco a fianco, osservavamo
tre ragazzini che non facevano che entrare nell’acqua per
uscirne subito dopo, con quella tenacia propria dei bambini che giocano.
“Mi sento perfettamente felice ora”, disse Giuditta, “e ringrazio la mia immaginazione”.
“Perché?”, chiesi.
“Ho un figlio di quell’età.” Si tolse gli occhiali e indicò
uno dei ragazzini. “Adesso è in vacanza dai nonni paterni;
immagino che, in questo momento, mi stia pensando con
tenerezza.”
“Sono certo che sia proprio così.” Annuii, ma non per
sciocca galanteria. Solo che adesso avvertivo una certa tristezza in lei.
“Ti ho portato il mio manoscritto”, disse aprendo la cartellina e mostrandomi i fogli battuti al computer e raccolti
all’interno di una copertina plastificata. “Come vedi, non
c’è molto. Si tratta di un romanzo breve. Dovresti aiutarmi
a trovare il titolo.”
Si alzò, mi porse la mano e, con il suo passo lungo e
142
lento, si allontanò verso l’uscita. Inspiegabilmente, fui contento che se ne fosse andata, forse anche perché di lì a poco
Adriana sarebbe ritornata dal mare e, conoscendola, non
penso avrebbe accettato di trovarmi in compagnia di una
donna tanto affascinante.
Lessi il manoscritto la sera stessa e scoprii che il mio
intuito non mi aveva ingannato. Era un lavoro pieno di sensibilità, delicato e con passaggi ricchi di sentimento.
Giuditta aveva usato Parigi come sfondo e i francesi come
ambiente, rivelando nei loro riguardi una comprensione
che soltanto un aristocratico può avere per i suoi simili.
L’architettura particolare assieme alle bellezze monumentali di Parigi divenivano nella sua descrizione leggeri e
incantevoli. Uno sfondo dorato, creato sapientemente, che
sorprendeva per la potenza creativa dimostrata. Qui l’autrice intrecciava le fila di un’ardente passione fra tre uomini
d’oltreoceano, una donna e un bambino. Una passione
presente e possente in ogni pagina, che sembrava attenuarsi in presenza del bambino. L’unica stonatura del lavoro, se
così si poteva chiamare, mi si rivelò soltanto il mattino
seguente quando, liberatomi dall’incantesimo che Giuditta
era riuscita a creare, mi fu possibile considerare obiettivamente i suoi personaggi. Compresi allora che i tre uomini,
e anche il bambino, erano dominati da un’unica passione:
un amore disperato e senza speranza per la donna, un
amore che la inseguiva e la perseguitava, lasciandola infine
esausta, disperatamente desiderosa di solitudine e pace.
Uno dopo l’altro, gli uomini erano venuti a pretendere il
suo amore, e il bambino, figlio del primo di loro, esigeva da
lei il più brutale dei sentimenti: l’amore materno. Il
romanzo terminava con un grido di dolore della donna,
messa infine con le spalle al muro da tutte e quattro le persone che tanto disperatamente la amavano.
La passionalità di cui era imbevuto il romanzo rendeva
viva e vibrante la descrizione dei personaggi. Il desiderio
degli uomini e l’abbandono della donna erano resi in
143
maniera così vivida, e l’analisi dei sentimenti di lei, esausta
dopo ogni prova, risultava così voluttuosa che, sebbene l’intenzione dell’autrice di giungere a dimostrare la propria
tesi apparisse evidente, si sentiva nel romanzo la mano di
un’artista che aveva vissuto il tutto in prima persona. “Profondamente sentito”, sarebbe probabilmente stato il giudizio della critica, la quale non avrebbe mancato d’insinuare
che il lavoro, così come tutti i primi romanzi di uno scrittore, era probabilmente autobiografico.
Anch’io la pensavo così. E già pregustavo il piacere che
avrei provato a scrivere a Giuditta, dimostrandole la mia
ammirazione, discutendo su qualche particolare e sottolineando i punti che più mi erano piaciuti. E avrei anche
fatto un accenno discreto alla possibilità di un’ispirazione
autobiografica.
Quel pomeriggio, senza ragione alcuna, rilessi il manoscritto e, questa volta, lo esaminai deliberatamente dal
punto di vista autobiografico. Mentre mi accingevo a leggere, mi venne un’idea originale. Via via che i personaggi si
presentavano, attribuivo loro emozioni opposte a quelle
descritte. Scoprii così una cosa molto divertente, e cioè che
l’intreccio poteva essere paragonato a un gioco di pazienza
e mi chiesi se, sostituendo l’odio all’amore di ciascuno
degli uomini, i risultati sarebbero ugualmente stati quelli
descritti dalla scrittrice. Il gioco riuscì perfettamente. La
sera stessa rimandai il manoscritto all’autrice, con un biglietto d’incoraggiamento e di critica che già mi ero prefissato. Ma non mi sentii di accennare alla possibilità che si
trattasse di un’autobiografia.
Una perturbazione decise di fermarsi sul Golfo del Leone,
portando brutto tempo sul Principato, e per parecchi giorni
non andai al circolo, rimanendo a fare compagnia ad
Adriana, e approfittando per riposarmi in sua compagnia.
Due giorni dopo, nei pressi della discesa del casinò, la vidi, di
spalle, in compagnia del conte Von Nisteroj, un attempato
playboy che si vantava di innumerevoli conquiste, e che rico144
priva sempre un posto di rilievo nel jet set monegasco. Il giorno seguente lo incontrai al circolo, e spontaneamente gli
dissi: “Ieri eravate con la duchessa Gasparetti”.
“Infatti”, rispose pronto, e si strinse nelle spalle come per
farmi intendere che la cosa non gli interessasse. Avevo terminato di fare una salutare sauna, e mi trovavo all’interno
di uno degli spogliatoi che guarda sulla terrazza che fiancheggia la piscina. Dentro è buio e, stando in piedi sulla
panca accanto alla finestra, è possibile guardare fuori senza
essere visti. Quel giorno, mentre mi rivestivo, udii un lieve
scalpiccio sul cemento, e mi parve di riconoscere i passi felpati di Giuditta. Salii sulla panca e guardai fuori. Era proprio lei, sola, lo sguardo verso l’acqua. Ero contento che
non mi avesse visto, così decisi di non muovermi finché
non se ne fosse andata.
Tuttavia la curiosità mi spinse a osservarla. Elegante
come al solito, in tailleur di Hermès color panna, si guardava attorno attraverso le lenti scure. Le gambe esili erano
leggermente aperte, e le braccia, abbandonate lungo i fianchi, rivelavano una certa noia, se non addirittura un senso
di assoluta solitudine. Un moto di tristezza si fece largo in
me. Il suo sguardo andò a posarsi sull’occupante di un altro
un tavolino, riparato da un ampio ombrellone: una ragazzina che avevo avuto modo di vedere già altre volte. Dopo un
attimo d’esitazione, si avvicinò lentamente alla piccola che,
intenta a scopiazzare qualcosa da un libro, non la vide finché Giuditta non fu al suo fianco e non si chinò su di lei.
Soltanto in quel momento alzò gli occhi, sobbalzando. Poi
si sorrisero. Da quella distanza non mi era possibile udire
quello che si dicevano, ma dai gesti della bimba indovinai
che la mia amica le aveva chiesto che cosa stesse facendo. Si
chinarono insieme sul libro. Dal mio punto di osservazione, vidi Giuditta sedersi accanto alla piccola e voltare le
pagine. Poi si tolse gli occhiali, la bimba la guardò ed ella si
lasciò guardare finché, insieme, non abbassarono nuovamente lo sguardo sul libro. Mentre parlava, lei giocherella145
va con gli occhiali e, di tanto in tanto, si volgeva con un sorriso a guardare i lineamenti della bambina. Ma ora la ragazzina sembrava diversa. Avevo la certezza che stesse per
andarsene. E infatti, in quell’istante si alzò.
“Devo andarmene, ora”, disse ad alta voce.
Ancora seduta, Giuditta alzò gli occhi: “Di già?”
“Sì.”
Mi parve che la bimba stesse per scoppiare in lacrime.
“Fermati ancora un poco.”
“No”, e come avevo previsto, si morse le labbra e scoppiò
in lacrime. Singhiozzando, girò le spalle alla donna e corse
verso l’uscita.
Allora si alzò anche Giuditta. Vidi chiaramente l’espressione dolorosa dei suoi occhi. Un attimo prima che li
coprisse di nuovo con gli occhiali, vidi comparire nel suo
sguardo uno strano luccichio. Non sapendo di essere osservata, contrasse le labbra in una smorfia di collera quasi brutale. E quando s’incamminò per dirigersi anche lei verso
l’uscita, intuii il forte stato d’ira che la dominava in tutta la
sua interezza.
Non credo che questo episodio sia servito a darmi la chiave della stranezza della duchessa, che nei due successivi
incontri non riuscii a decifrare. So, quasi con certezza, che
la mia interpretazione del racconto da lei scritto fosse esatto, anche senza poter conoscere l’identità dei personaggi.
146
Giovanni Tripodi
Vivo… apparentemente “morto”
C’era una volta un ragazzino tanto vispo quanto miope,
tanto buono quanto ingenuo. Il suo sogno: diventare subito grande per poter volare con le proprie ali, perché era
solo quello che poteva generare quel solletico allo stomaco!
Per fortuna le “ali” si bruciarono molto presto, e quando lo
presentarono al passeggio molti esclamarono: “Cosa ci fa
questo minorenne tra noi maggiorenni?” Non accettò di
buon grado. Si sentiva già grande, e la consacrazione era
proprio nell’aver fatto chiudere alle spalle la porta carraia
delle sbarre, pensando di scoprire così la culla della vera
essenza. Quella culla, invece, attimo dopo attimo, scavò inesorabilmente l’abisso dove, in men che non si dica, si ritrovò in compagnia della sua miope ingenuità. Erano gli anni
più belli e fecondi, quegli anni dove ogni ragazzo punta i
veri traguardi, quei traguardi che fanno veramente sentire
grandi e realizzati.
Lui invece stava lì, in fondo al suo abisso, insieme alla sua
culla, certo che quella era la più sfarzosa oasi da cui poter
attingere “l’acqua magica”!
Lui stava lì, e pezzo dopo pezzo trasformò la pelle in carcassa, la carne in motore, la forza in carburante. Aveva
costruito la sua “macchina”, nuova di zecca e luccicante,
pronta a correre nelle vie del male! Tirata sempre a lucido,
aspettava il giorno in cui quella porta carraia si sarebbe
schiusa, per poter ritornare in quel mondo, senza capire,
senza pensare, ripetendosi “Devi correre e sgommare, per
non rimanere irrimediabilmente travolto… Per sempre”.
Correre e sgommare, senza pensare, senza capire, ubriaco
147
di quell’acqua magica che quell’oasi aveva, con arte raffinata ed eleganza cinica, saputo trapiantare in ogni cellula di
quel ragazzino miope, ormai macchina da corsa. Nessuno
purtroppo, neanche il Creatore, poteva fermare quel motore acceso, e appena schiusa la porta fece la sua corsa…
Senza capire, senza pensare. Era l’unica cosa che contava,
il resto era niente. Per fortuna il destino volle riaprire la
porta carraia con le sue sbarre, e quando si chiuse alle spalle, davanti… Un conto parecchio salato. Ancora miope,
quella macchina impregnata e infangata scivolò nell’abisso
dove non si contano più i giorni o i mesi, ma solo gli anni.
E di anni ne passarono tanti, molti, forse troppi. Quella
macchina finalmente aveva terminato la sua corsa, e da
quell’abisso iniziavano le prime lotte interiori, intime e
profonde, dopo aver trovato quei piccoli scampoli di carne,
accese di intensa e pulita forza, che da qualche parte si
erano dovute e volute isolare. Era quella piccola parte di
bene che voleva affrontare, a viso aperto, la parte restante
di male, per riconquistare tutte le cellule allora perse.
Ritornare a rivestire la pelle e la carne originale, e ritrovare la forza che permettesse di risalire tutti i gradini dell’abisso per rinnovarsi, nelle sue sembianze interiori, com’era
quel non più ragazzino. Nulla è impossibile quando si inizia a diventare padroni e liberi del proprio pensiero, padroni e liberi del proprio tempo, arbitri e artefici del proprio
destino. Nulla è impossibile quando si riesce a far entrare
dentro quella macchina un uomo capace e coraggioso,
determinato a voler rivedere tutti i fotogrammi che compongono quella sciagurata pellicola impressa come in un
film. È lì, è dall’interno della macchina, che si possono trovare tutte le chiavi di volta per iniziare a smontare, pezzo
per pezzo, quella stessa macchina, e far crescere la pelle e
la carne, che all’origine la componeva e la ricopriva. È stato
durante la visione di questo scabroso film che incontrò chi
aveva subito le conseguenze delle sue azioni.
Poteva scappare, in altri tempi avrebbe dovuto scappare,
148
perché le macchine non possono ascoltare, pensare o capire, ma aveva iniziato a essere padrone delle sue emozioni, e
con non poco imbarazzo volle fermarsi. Aveva bisogno, un
estremo bisogno, di capire! Doveva capire come si paga,
perché si paga, e a cosa serve pagare. Voleva capire se è possibile, per una vittima, avere giustizia dopo aver subito un
torto. Pose mille domande e ricevette mille risposte, e mille
nuove domande cui rispondere con il tempo e con azioni
proporzionalmente inverse alle azioni originarie! Iniziò a
capire come poter risalire da quell’abisso, in cui per tanti
anni aveva vagato come un’anima persa, e scelse di trovare
la via maestra nei libri, attraverso la scuola. S’iscrisse al
primo anno di ragioneria, presso il più vicino I.T.C. come
privatista, studiando da autodidatta. Mille lotte all’inizio
per capire quei concetti, pur elementari, che rappresentavano linfa nuova per quel ragazzo che riprendeva il sentiero della vita. Era molto più semplice buttare tutto e lasciarsi andare alle onde del destino, invece volle insistere con
forza, determinazione e caparbietà. Uno a uno affrontò e
superò mille problemi, e ogni problema conquistato rappresentava un gradino che lo allontanava dal fondo di quell’abisso. Aveva imboccato la via giusta, e più si allontanava
da quell’abisso, più sentiva crescere dentro di sé quel ragazzo che un tempo apparteneva a quel corpo.
Dopo un paio di anni di studio come autodidatta venne
trasferito, e conobbe un’insegnante straordinaria che, tra
milioni di difficoltà, con determinazione e caparbietà, riusciva a portare avanti il suo nobile progetto: credere che ogni
detenuto è, prima di tutto, un essere umano, e come tale, se
lo vuole veramente, può trovare, attraverso lo studio e la
scuola, gli stimoli giusti che nel tempo possono generare i
frutti per cui fu scritto l’art. 27 della Costituzione. In altre
parole, offrire quei mezzi e quelle opportunità affinché nel
tempo, chi decide di mettersi in gioco, possa trasformare
una tragedia in un’esaltante sfida di riscatto, restituendo, a
tempo debito, una persona completamente cambiata, con
149
delle dinamiche parallele a quelle che sono i bisogni e le
volontà di una società sana e onesta. Non poteva sbagliare,
aveva avuto la fortuna di imbattersi nel treno più idoneo, era
già in corsa, e doveva solo salirci su: lui, istintivamente e con
naturalezza, lo fece. C’era la scuola reale da poter frequentare, e con i professori diventava tutto più facile. Con grande
gioia conseguì la maturità con il massimo punteggio. Oggi è
al secondo anno del corso di Laurea in Scienze Agrarie. La
passione per la natura da un lato, e la concreta possibilità di
uno sbocco futuro nel modo del lavoro dall’altro, lo hanno
portato a questa brillante scelta. Oggi è completamente
padrone della sua persona, e grazie allo studio e una famiglia sana e umile, che lo ha sempre saputo aspettare, è certo
di aver risposto, nel modo migliore, a tante di quelle domande cui doveva risposte concrete. Oggi, con una grande fiducia in se stesso, e con gli ingredienti sani che compongono
questa ricetta, è certo che può solo sbocciare quel semplice
progetto che ogni uomo serba nel cuore, e per cui vale veramente la pena mettere in campo tutte quelle risorse figlie
del bene, affinché possa nascere altro bene.
Purtroppo nessuno, neppure Dio, può far tornare indietro il tempo, per impedire a un semplice ragazzo di incarnare il male, attraverso la sua trasformazione in una macchina. Ed è questo che fa nascere nel ragazzo l’estremo
bisogno e la grande volontà di cercare di mettere al servizio dei ragazzi di oggi, tutta l’esperienza negativa accumulata in questi anni, affinché i ragazzi, “ingenui e miopi”
com’era lui quando si sentiva già grande, non rischino di
diventare quelle macchine come lui è stato. È questa la più
brillante risposta che può realmente riscattare chi nel passato si è lasciato inghiottire dal vortice del male. Scommettere, con se stessi, che anche chi è stato causa di male
può oggi essere fonte di bene per il prossimo, e per il futuro della nostra sana società.
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Nomi e pseudonimi dei partecipanti
Abdoulaye Konarè
Acquas Bruno
Acquaviva Andrea
Albano Nicola
Alfredo Paolo
Amato Turiddu
Annoscia Francesco
Attanasio Barbara
Autiero Andrea
Ayari Fathi
Badami Pasquale
Baldi Gianni
Balogun Hassan
Bannò Daniele
Bargache Adil
Barilli Massimo Guelfo
Barreca Giuseppe
Barrignios Jorge
Belghauti Alì
Benabbou Jaafar
Bensi Giovanni
Berti Nik
Bevilacqua Pasquale
Biamonte Tommaso
Bianchi Mario
Bisceglia Angelo
Bob Oniram
Bonifacio David
Bontempo Sebastiano
Borsello Maurizio
Bortoni Luigi
Bozano Lorenzo
Brachini Vincenzo
Brera Enrico
Brunetto Giuseppe
Bruzzaniti Bartolo
C. Carmelo
Caboni Marco
Calabrese Luigi
Calatabiano
Caldaroni Mario
Calzetta Massimo
Canteruccio Manolo
Captano Salvatore
Cardini Girolamo
Carlayn
Caruso Mariano Giuseppe
Cascio Giuseppe
Caso Giuseppe
Celotto Manuele
Charlie 1
Cirella Modestino
Coco Giuseppe
Colabello Luca
Colabello Luca
Colajanni Michele
Colecchia Rael Cesare
Coltoti Massimo
Corona Raffaele
Corvino Romina
Cossu Gianni
Crisafulli Alessandro
Cristian
D. Jo 80
D’Agostino Tonio
D’Alessandro Cipriano
D’Apice Vincenzo
D’Avino Luigi
Dancer
Dante Colombo
De Francesco Luigi
Dell’Anna Marcello
Dettori Nicola
Di Gregorio Alessandro
Di Gregorio Girolamo
Di Muro G.
Di Pasquale Francesco
Di Pino Germano
Dumitrascu Dorinel Mihai
Ebbene Antonio
Eccelso di Onore
Esperti Amedeo
Faulisi Antonio
Felici Francesco
151
Ferioli Corrado
Finessi Alberto
Franchi F.
Franzese Mauro
Fruzzetti Bruno
Fucile Salvatore
G. Toni
Gabriel
Gabriele Aral
Gagica Gheorghe Mircea
Galli Gianni
Gentile Fabio
Giastefano
Grandi Anna
Grignoli G.
Grugnetti Flavio
Guerino S.
Guerrieri Augusto
Hadzovic Hairo
Houmine Kamal
Il Casentino
Il nano
Imputino Carmelo
Intersimone Mattia
Jeak 71
Joe Elberth
Jonny
Jordastro Gisele
Koumba Sekou
Lattanzi Gerardo
Le Bidot Joseph
Le Grottaglie Salvatore
Lentini
Leoni M.
Lillo
Lo Nigro Cosimo
Locatelli U.
Lumani Agim
Luna
Luni
M. Ezio
Machì Salvatore
Marano Teresa
Marelli Giovanni
Marlene
Marosi Mustafà
Marsili Luca
Martino di Bari
Mazzoni Leandro
Merlino Antonino
Milazzo Sebastiano
Mille Madri
Minichino Sebastiano
Mirabò Antonio Alessandro
Monkei
Montoro Marcello
Morandini Carlo
Motta Filippo
Moussayer Mourad
Mozzarella Gennaro
Musumeci Carmelo
Nando Romano
Natati Mohamed
Neri Giacomo
Nicola I°
Nicolosi Giuseppe
Nicosia Fabio Massimo
Niosi Giovanni
Novaresio Aldo
Novembrini C.
O maestro
O’ filosofo
Obiekwe Jullian
Occhipinti Marino
Odai Blasu Benjamin
Odry
Ogliari Gianfranco
Olèg Molovatà-Alecsandrì
Olivo Anna
Palermo Lucio
Paoli Paolo
Paolo 25/1/55
Papalia Antonio
Papi Giovanni
Pappalardo Sebastiano
Parrini Ciro
Pasquale D.L.
Peppe C.
Per Aspera ad Astra
Peruzzi Maurizio
152
Pezzoni Andrea
Picariello Antonello
Pilato Francesco
Podda Ferdinando Antonio
Poppy Valla
Pulejo Rosario
Pullarà Santi
Purita Marco
Quarto Francesco
R. Alvaro
R. V.
Ranieri Nicola
Rapone Bruno
Rincon Tello Juan Carlos
Rodà Alessandro
Rollo Carmelo
Rosmini Demetrio Sesto
Rossi Luigi
Rui Blaz
Russo Gennaro
Rusu Andrei
S. Attilio
S’Astoreddu
Salvini F.
Salvini Francesco
Sardone Salvatore
Sassella Davide
Scardigli Alfonso
Schirò Ulissegia
Sciamano A.V.
Sciara Giovanni
Scibetta Vincenzo
Scola Giacomo
Serio Antonio
Sestito Massimiliano
Shili-Mourad-Ben-Mohamed
Sorru Torre
Spampanato Francesco
Spanalatte Rosario
Stankov Ananas
Stecchino
Stefano
Strangio Domenico
Strisciuglio Sigismondo
Taborda Jesùs Gabriel
Tampelli F.
Tampelli Fernando
Tauro Antonio
Tiezzi Enzo
Tisci Tommaso
Toscano Giò
Travisano
Tripodi Giovanni
Tullio T.
U omo
Ulde
Un uomo solo
Urso Emanuele
Urso Gaetano
Valli Gabriele
Vatalaro Alfredo
Velcu Daniel
Venuto Giuseppe
Viglianesi Luciano
Villasanta Dario Stefano
Virdis Raffy
Virgilio Fabrizio
Vittorio ergastolano
Volpe Giuseppe
Zavettieri Salvatore
Zedda Luciano
Zorba Alfred
Minori
Andrea B.
Ciro D.
Cristian D.
Gaetano M.
Giuliano L.
Loris S.
Luciano
Marina S.
Patrizio
Pratello (1, 2, 3, 4)
Salvatore D.
Toni S.
153
Ringraziamenti
Un grazie particolare al Presidente della Repubblica e ai
Presidenti del Senato e della Camera per l'apprezzamento
dimostrato con la concessione della Medaglia d'Argento.
Si ringrazia per il contributo la CARITAS della Diocesi di
Massa M.ma - Piombino, la Fiera Internazionale del Libro
di Torino, i Presìdi del libro Piemonte, le Sedi locali e il
Consiglio Nazionale dell’Università delle Tre Età.
Un grazie anche a Roberto Cerati, Presidente della Casa
Editrice Einaudi, per i volumi generosamente offerti.
Un sentito ringraziamento a tutta la Casa Circondariale
“Lo Russo e Cutugno” per aver gentilmente ospitato la cerimonia di premiazione dei vincitori di questa VII edizione
del Premio e anche alle numerose Case di reclusione che
hanno collaborato affinchè tanti dei loro reclusi potessero
partecipare al concorso ed essere infine presenti alla premiazione.
154
Indice
Il premio letterario “Emanuele Casalini”
Chi era Emanuele Casalini
Comitato d’onore
Giuria
Introduzione del Presidente della Provincia di Livorno
Presentazione di Ernesto Ferrero
5
7
8
9
11
13
SEZIONE POESIA
Opere Premiate
Carmelo Musumeci
La ballata dell’ergastolano
La ballata dell’ergastolano due
La ballata dell’esgastolano tre
19
20
22
Gabriele Aral
Il nostro silenzio
Profumo
Le mie parole
25
27
27
Antonio Faulisi
Speranze
Ho bisogno
Immagine
29
30
30
Marco Dell’Anna
Clandestini su ruggini galleggianti
Questo fiore è…
Il mostro
32
33
34
155
Opere Segnalate
Barbara Attanasio
Canzone
Via
Canto a Morfeo
38
39
40
Ciro D.
Caro papà
Carcere
41
42
Alessandro Crisafulli
I
II
III
44
45
45
Luigi D’Avino
A mia figlia
Una volta…
Ero solo…
46
46
47
Gabriel
Sospiri
Il mio nome
E vengo da te
48
49
50
Flavio Grugnetti
Tra le righe di questa notte
Pezzi di una storia
Sguardo complice
51
52
53
Houmine Kamal
Vola pensiero
Sul viaggio
54
55
156
Abdoulaye Konarè
Nel fiume isolato della città
56
Marina S.
Le mie lacrime
58
Sebastiano Milazzo
Graffiti
La statistica
La luna
59
60
61
Mille Madri
Ciao stella!
62
Maurizio Peruzzi
Laoràa, pregàa
Lavorare, pregare
64
66
Salvatore D.
Riflessione sulla guerra
68
SEZIONE PROSA
Opere Premiate
Marco Purita
La colpa
74
Domenico Strangio
Il mio paese è…
83
Sebastiano Bontempo
Vita di un ergastolano
91
157
Opere Segnalate
Francesco Annoscia
Ricordi e speranze
98
Lorenzo Bozano
Galeoni e vascelli per riscoprire un uomo
103
Girolamo Di Gregorio
L’estrema unzione
106
Francesco Di Pasquale
Click
109
Corrado Ferioli
Ai margini della città
115
Marlene
Introduzione e premessa
Anime morte
121
122
Santi Pullarà
Casina Corvaja
125
Bruno Rapone
Storie di vita
131
Carmelo Rollo
La nobildonna
139
Giovanni Tripodi
Vivo… apparentemente “morto”
149
Nomi e pseudonimi dei partecipanti
151
158
Hanno contribuito:
Provincia
di Livorno
Comune
di Piombino
Comune
di Porto Azzurro
Finito di stampare nel mese di ottobre 2008
presso Benvenuti&Cavaciocchi
Livorno