L`altra - Comune di Piombino
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L`altra - Comune di Piombino
libertà Premio letterario Emanuele Casalini Premio letterario Nazionale “Emanuele Casalini” riservato ai detenuti delle carceri italiane Medaglia d’argento del Presidente della Repubblica Medaglia del Presidente del Senato Medaglia del Presidente della camera dei deputati L’altra libertà Con il patrocinio e il contributo della Provincia di Livorno Premio letterario nazionale “Emanuele Casalini” L’altra L’altra libertà Premio letterario nazionale “Emanuele Casalini” 7a edizione - Torino 2008 L’ALTRA LIBERTÀ Premio Letterario Nazionale “Emanuele Casalini” 7 ª edizione 2008 Il Premio Letterario Nazionale “Emanuele Casalini” è promosso da Università delle Tre Età-Unitre di Porto Azzurro e di Volterra, Fiera internazionale del libro di Torino, Presìdi del libro Piemonte presìdi del libro piemonte con il patrocinio di: Regione Piemonte Regione Toscana Provincia di Livorno Provincia di Torino Comune di Torino Comune di Piombino Comune di Porto Azzurro (Li) Segreteria del Premio Lucia Casalini Via L. da Vinci 30 57025 Piombino Tel. 0565.221079 www.premiocasalini.it Redazione e impaginazione: Presìdi del Libro Piemonte e Blu Edizioni Copertina: Laura Caratti Stampa: Benvenuti e Cavaciocchi, Livorno Il Premio letterario “Emanuele Casalini” Nel 2002 ricorreva il cinquantenario de La Grande Promessa, la prima rivista carceraria italiana, nata a Porto Azzurro per iniziativa dei detenuti. In quell’occasione, la Società di San Vincenzo De Paoli e l’Università delle Tre Età - Unitre, che da decenni svolgono attività di volontariato nel carcere elbano, hanno ritenuto opportuno sottolineare il valore della ricorrenza con un’iniziativa significativa: l’istituzione di un premio letterario nazionale riservato ai detenuti e dedicato a Emanuele Casalini, attento lettore, collaboratore ed estimatore de La Grande Promessa, oltre che fondatore, presidente e docente dell’Unitre di Porto Azzurro. L’iniziativa nasceva anche da una motivazione più profonda: il proposito di offrire nuove occasioni, nuovi incentivi a quelle prove di scrittura che da sempre sono presenti nel mondo carcerario come tentativo di rappresentare se stessi e il proprio rapporto con il mondo. Anche in carcere si scrive per ripensare il proprio percorso esistenziale, per liberarsi, oggettivandoli, dai fantasmi dell’isolamento e dall’angoscia di essere confinati in luoghi tanto remoti dalla comprensione degli altri uomini, per ritrovare la propria identità, per tentare un dialogo con gli altri. È la ricerca di un ordine interiore che possa dare un senso al proprio vissuto, e renderlo condivisibile con altri, attraverso la grammatica della scrittura, sia che si scelga la forma del racconto sia che si scelga quella della poesia. È proprio così che si può raggiungere una nuova consapevolezza, offrire nuove occasioni alla costruzione di sé, e al tempo stesso coinvolgere il lettore, facendogli conoscere storie, sentimenti, ambienti, situazioni che altrimenti non avrebbe occasione di approfondire. Si tratta insomma di costruire un piccolo ponte che metta in contatto il carcere con il mondo esterno, e che trasformi la segregazione in un momento di incontro e di dialogo, di approfondimento reciproco, invitando il lettore all’ascolto. Nei primi due anni la premiazione dei vincitori si è tenuta nel penitenziario di Porto Azzurro. Poi, anche per le difficoltà di trasferimento e comunicazione che presenta un’isola, dal 2004 la cerimonia di premiazione è diventata itinerante, ed è stata ospitata, grazie alla sensibilità e alla collaborazione delle istituzioni, nel carcere di “Rebibbia” a Roma, nel “Lo Russo e Cutugno” di Torino, al “Montorio” di Verona, al “San Vittore” di Milano, e infine nel 2008 nuovamente a Torino. Fin dalla prima edizione, dirigenti e operatori del mondo carcerario hanno apprezzato e incoraggiato l’iniziativa, che ha ottenuto il patrocinio della Presidenza della Repubblica, della Presidenza della Regione Toscana e della Provincia di Livorno, del Comune di Piombino e delle amministrazioni degli enti locali e regionali e delle città che hanno ospitato le premiazioni. I giurati del premio, variamente impegnati nell’editoria, nell’organizzazione culturale, nell’insegnamento e nelle arti, hanno avuto il piacere e l’onore di avere con loro Anna Maria Rimoaldi, studiosa di storia, regista, già attiva collaboratrice di Maria Bellonci, poi direttore della Fondazione Bellonci, che promuove il Premio Strega, il maggior riconoscimento letterario italiano. Anna Maria ha speso generosamente la sua vita nella promozione del libro e della lettura, e ci ha lasciati il 2 agosto 2007, a Poggio nell’Elba, mentre a pochi passi dalla sua casa si teneva una riunione della Giuria del Premio Casalini. A lei il nostro ricordo più grato e più affettuoso. Possiamo concludere queste poche note con le parole che lei stessa aveva dettato: “Ogni premio letterario è una ricchezza che deve essere perseguita e valorizzata. Il Premio letterario ‘Emanuele Casalini’ ha una valenza sociale e umana che lo rende particolarmente importante”. 4 Chi era Emanuele Casalini Tutti coloro che l’hanno conosciuto ricordano di Emanuele Casalini il carattere mite, l’affabilità nel conversare, l’elegante compostezza del comportamento. Quelli che hanno avuto con lui più stretti rapporti di lavoro, sia nello spazio della scuola, in cui lui è stato per molti anni professore di letteratura italiana e poi preside, sia in quello più movimentato dell’attività sociale e politica, che lo ha visto a lungo attivissimo consigliere comunale, hanno avuto agio di apprezzare in lui da un lato la raffinata sensibilità estetica, maturata in un lungo, vivo e sistematico rapporto con la grande poesia, dall’altro l’illimitata disponibilità per i problemi umani, fossero quelli del giovane studente angustiato da un inserimento non del tutto agevole nell’ambiente scolastico, o quelli del comune cittadino alle prese con le esigenze del vivere quotidiano, o, ancora, quelli del recluso afflitto dalla sua esistenza solitaria, atomistica, senza grazia di cielo, di libertà e di amore. Questo strenuo impegno sociale era in lui informato alla più genuina sostanza dell’insegnamento evangelico. Uno degli atti più rispondenti al suo carattere e ai suoi principi è stata l’istituzione, all’interno della Casa di Reclusione di Porto Azzurro, di una sezione dell’Università delle Tre Età – Unitre, non certo con lo scopo di elargire cultura, di cui del resto molti reclusi sono tutt’altro che privi, ma con quello, molto più alto anche se meno appariscente, di creare un rapporto umano, un tramite fra la solitudine e la socialità. Emanuele Casalini avrebbe potuto far sua la grande frase che un commediografo romano, Terenzio, pose in bocca a un suo personaggio. Homo sum: umani nil a me alienum puto (“Sono un uomo: niente di umano considero estraneo a me”). Luigi Alberto Mascia 5 Comitato d’Onore MERCEDES BRESSO Presidente Regione Piemonte PIETRO BUFFA Direttore Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino SERGIO CHIAMPARINO Sindaco di Torino ALDO FABOZZI Provveditore Amministrazione Penitenziaria del Piemonte FRANCO IONTA Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria GIORGIO KUTUFÀ Presidente Provincia di Livorno CLAUDIO MARTINI Presidente Regione Toscana GIANNI OLIVA Assessore alla Cultura e Politiche Giovanili Regione Piemonte S. E. PAOLO PADOIN Prefetto di Torino ROLANDO PICCHIONI Presidente Fondazione per il libro, la musica e la cultura S. E. Cardinale SEVERINO POLETTO Arcivescovo di Torino SIMONETTA POLVERINI Presidente Consiglio Comunale di Piombino IRMA MARIA RE Presidente Nazionale Università delle Tre Età ANTONIO SAITTA Presidente Provincia di Torino S. E. Monsignor GIOVANNI SANTUCCI Vescovo di Massa Marittima - Piombino 6 Giuria ERNESTO FERRERO (PRESIDENTE) Scrittore, direttore della Fiera Internazionale del libro di Torino MIMMA CUFFARO Pittrice RAFFAELLA D’ESPOSITO Docente al Conservatorio di Santa Cecilia, Roma PAOLO FERRUZZI Direttore Vicario dell’Accademia di Belle Arti, Roma PABLO GORINI Docente di materie letterarie al Liceo Classico di Piombino PAOLO PESCIATINI Direttore Confcommercio Isola d’Elba CARLA SACCHI FERRERO Collaboratrice editoriale, presidente dei Presìdi del libro Piemonte 7 Porto Azzurro (LI), 2002: l’interno del carcere Porto Azzurro (LI), 2003: Momenti della premiazione con Veronica Pivetti Introduzione del Presidente della Provincia di Livorno Con la settima edizione del Premio “Emanuele Casalini” si conferma l’impegno dell’Amministrazione Provinciale a promuovere nel nostro territorio iniziative che tendono sempre più ad aprirsi sul panorama nazionale. La nostra provincia si contraddistingue per importanti e affermate rassegne letterarie. Tra queste ricordo con orgoglio il Premio di Cultura Politica “Giovanni Spadolini”, promosso nell’ambito del Premio letterario “Castiglioncello”, che quest’anno è stato assegnato a due grandi personaggi della cultura: al politologo Giovanni Sartori per La democrazia in trenta lezioni e al padre del giornalismo contemporaneo Eugenio Scalfari per il libro L’uomo che non credeva in Dio. Ricordo inoltre il Premio “Brignetti” dell’Isola d’Elba, che annovera tra i vincitori nomi illustri, quali Eugenio Montale, Mario Luzi ed Heinrich Böll. E non ultimo il “Casalini”, che si affianca a questi riconoscimenti di rilevanza nazionale e internazionale. Il nostro impegno a favore di queste rassegne si basa sul principio che occorre incentivare ogni attività che promuova lo sviluppo della cultura, come sancisce l’articolo 9 della nostra Costituzione. Quest’anno, nel sessantesimo anniversario della nostra Carta costituzionale, il Premio è accolto nella città di Torino e acquista ancora maggior importanza. È un piccolo segno di quanto sia fondamentale impegnarci tutti a realizzare i principi dell’articolo 27 della Costituzione nel quale si afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ritengo che il Premio “Casalini”, anche se rappresenta una goccia tra molteplici iniziative, possa realmente costituire un “tendere alla rieducazione”, ad aiutare ognuno a pensare in modo nuovo e più profondo. Sono anche queste 9 proposte che, offrendo occasioni di confronto, di dialogo e di speranza, ci aiutano a comprendere il bisogno primario “di essere per gli altri”, di impegnarci di più a favore dei diritti inviolabili dell’uomo e di essere instancabili promotori dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale. Nel ringraziare la città di Torino che quest’anno ospita il Premio, esprimo un caloroso saluto a tutte le Istituzioni civili, militari e religiose. Rivolgo un pensiero particolare a quanti hanno partecipato al premio e alle loro famiglie, a tutti gli operatori delle carceri e alle associazioni di volontariato che con grande spirito di servizio operano a favore di questo mondo. Giorgio Kutufà Presidente della Provincia di Livorno 10 Presentazione Letteratura è conoscenza dell’altro, è stato detto lapidariamente. O anche: letteratura è conoscere con piacere. L’attività conoscitiva è quello che ci fa uomini, significa inoltrarsi per mari non ancora esplorati, viaggiare dentro di noi attraverso paesaggi nuovi e incontri imprevedibili. Leggere e scrivere restano gli strumenti migliori che abbiamo per capire noi stessi e il mondo. Giunto alla sua settima edizione, il Premio “Casalini” vuole sottolineare proprio questo nesso, aggiungendo libri al riconoscimento in denaro, e intraprendendo una serie di iniziative per incentivare la lettura e potenziare le biblioteche delle carceri italiane, in collaborazione con la Fiera internazionale del libro di Torino e l’Associazione Presìdi del libro Piemonte. La letteratura vive di un felice paradosso: insegue una verità umana attraverso una finzione dichiarata esplicitamente come tale. Per fare questo, la scrittura deve restituire alla parola la sua perduta intensità originale, e cercare il taglio di un’immagine che ci faccia “vedere” quello che abbiamo sotto gli occhi, eppure non riusciamo a percepire. È la lente deformante che corregge la nostra miopia, mette a fuoco le cose, ce le rivela. Così per Gabriele Aral, ancora una volta sul podio del “Casalini”, le chiavi carcerarie diventano le nuove “lancette della memoria”. La poesia deve trovare appunto lo scatto di un’immagine o di una metafora, la forza dei simboli, che possono anche essere “due orecchini d’ametista”; o parole cadute a terra come foglie d’autunno, e tuttavia ancora capaci di bruciare, di diventare un fumo acre che ci chiama in causa. Antonio Faulisi, secondo classificato, parla di “amaca dei ricordi” appesa “ai rami della vita”, e insegue la propria immagine che si disfa tra i cerchi dell’acqua, e vorrebbe non essere per divenire quello che non è. Nella sua trilogia dell’ergastolano, “strano fantasma/che non riesce a morire”, alle prese con un “passato che non passa” e con un presente immobile, quasi fuori del tempo, Carmelo Musumeci ricorre all’iterazione 11 (“Passi lunghi ben distesi…”) perché è la figura retorica che meglio rispecchia il ripetersi di giorni sempre eguali a se stessi, una condizione che non concede niente, “neppure la sofferenza”, in un presente immobile che dura per sempre. “Si muore tutti i giorni/per tornare di nuovo/a morire ancora”. Può accadere che gli autori non si fermino al proprio vissuto, ma si rendano interpreti e testimoni di tragedie collettive, quali quelle dei clandestini che giocano una partita disperata su “ruggini galleggianti” (bella immagine davvero) come fa Marcello Dell’Anna, terzo classificato, che si affida alla suggestione della rima con l’immediatezza, approssimativa ma colorita, dei cantastorie, dei naïfs. Anche nei lavori segnalati si possono cogliere immagini suggestive: i “desideri purpurei” di cui parla Silvano Bartolini, gli “occhi grandi come uova di faraona bianca” di Abdoulaye Konarè, l’uso colorito che Maurizio Peruzzi fa del dialetto (la lingua della confidenza quotidiana, come lo chiamava Fellini), Flavio Grugnetti che intitola “Tra le righe di questa notte”. E ancora la “sagoma stanca/che allo specchio disegna/ con crudeli graffiti/le sue guance scavate”di Sebastiano Milazzo, i fiori fatti soltanto di parole di Houmine Kamal. Per la prima volta ci sono giunti lavori anche dai carceri minorili, e il lettore troverà qui i testi di Ciro, Marina e Salvatore. Le prove più convincenti e originali dell’edizione 2008 ci pare tuttavia siano offerte da alcuni racconti davvero riusciti per ritmo e intensità. Marco Purita, che si è laureato di recente, racconta con rapidità hemingwayana, senza fronzoli - quasi una stenografia- un combattimento pugilistico tra dilettanti che consente al protagonista di ripercorrere la propria storia famigliare e il conflitto con i genitori. Suggestiva l’immagine del cono di luce che proietta sul quadrato del ring “l’imbuto dell’acidità luminosa”. Così come di forte impatto è l’appassionato canto d’amore che Domenico Strangio dedica al suo paese, San Luca in Aspromonte, tristemente noto alle cronache per le sue faide sanguinose. Strangio non le nasconde e non le minimizza. Parla 12 anzi di una “malfamata periferia calabrese” in cui tutti sono al tempo stesso colpevoli e innocenti, ma sostanzialmente “dementi”: “grumo inverminito”con le sue donne eternamente in lutto, favo di afrodisiaco miele greco, malato terminale, mangiatoia di Betlemme e camposanto,arsenale di armi, forziere di banche che ogni tanto si abbandona alle sue insensate convulsioni. Torna sugli straniamenti delle giornate di un ergastolano Sebastiano Bontempo, che svolge in prosa il tema declinato poeticamente da Musumeci, dandoci un referto asciutto, quasi da cartella clinica, di giornate eguali che si distinguono solo per minime differenze. Anche in questo caso l’effetto drammatico è raggiunto con semplicità di mezzi. Le scelte sono fatalmente soggettive e discutibili. Altri partecipanti avrebbero meritato il podio. Così Santi Pullarà, con la sua storia di una famiglia baronale, ambientata nella Sicilia tra le due guerre, che utilizza il ricorso a parole dialettali efficacemente introdotto da Camilleri. Gustosa anche la storia di paese raccolta da Girolamo Di Gregorio: un marito accorre commosso al capezzale della moglie morente, rimproverandosi di non aver saputo amare abbastanza quell’angelo, salvo provare furori omicidi quando lei gli chiede con un soffio di voce di perdonare un antico tradimento. Carmelo Rollo dimostra una notevole capacità costruttiva nel delineare il ritratto di una enigmatica nobildonna,e Corrado Ferioli sa consegnare senza commenti superflui la dura cronaca oggettiva di uno sballo da eroina. Francesco Di Pasquale riesce addirittura a calarsi nella testa di un kamikaze irakeno, e ci spiega dall’interno perché decide di imbottirsi di tritolo e consumare una sua privata vendetta (felice è la sospensione finale, aperta a soluzioni diverse). Tutte prove di buon livello, che dimostrano come i partecipanti abbiano saputo raccogliere le sfide del Premio “Casalini” e trasformarle in un’esperienza costruttiva, in un percorso motivato da una sua interna necessità. Chi scrive come chi legge ne esce un po’ più consapevole, e magari un po’ cambiato. Ernesto Ferrero 13 Veronica Pivetti, madrina dell’edizione 2007, con Luca Lischi, Capo di Gabinetto del Presidente della Provincia di Livorno. Sezione Poesia Opere premiate Roma, 2004: (in alto) Benito Ovidi con Margaret Mazzantini (in basso) Anna Maria Rimoaldi ed Ernesto Ferrero premiano uno dei vincitori Torino, 2005: Ernesto Ferrero premia uno dei vincitori 1° classificato ex aequo Carmelo Musumeci La ballata dell’ergastolano Passi lunghi ben distesi un passo, ancora un passo per tornare subito indietro un altro giorno null’altro senza andare da nessuna parte sogni che iniziano dove finiscono rumori di metallo di chiavi per giorni per mesi per anni mura di cinta sbarre cancelli occhi carichi di ricordi ormai solo corpi parlanti più vicini alla morte che alla vita. Passi lunghi ben distesi un passo, ancora un passo per tornare subito indietro prigionieri per sempre togliendoci tutto senza lasciarci niente neppure la sofferenza la disperazione il dolore perché non si fa più parte degli esseri umani. Passi lunghi ben distesi un passo, ancora un passo 17 un altro giorno null’altro morendo dentro a poco a poco presente uguale al futuro uguale a domani uguale a ieri sofferenza per il giorno dopo e per il giorno dopo ancora. Passi lunghi ben distesi un passo, ancora un passo un altro giorno null’altro immaginando di vivere, ma immaginare non è vivere. Passi lunghi ben distesi un passo, ancora un passo con l’ergastolo la vita diventa una malattia, una morte bevuta a sorsi; non ci uccidono: peggio, ci lasciano morire per sempre, di un dolore che è per l’eternità. Un altro giorno, null’altro. La ballata dell’ergastolano due Si muovono come spettri tre passi avanti tre passi indietro nulla neppure il nulla non hanno nulla per cui attendere nulla per cui sperare nulla per cui vivere. 18 Si muovono come spettri tre passi avanti tre passi indietro nulla neppure il nulla non pensano non vogliono pensare forse non possono pensare. Si muovono come spettri tre passi avanti tre passi indietro nulla neppure il nulla in un mondo che non conoscono più in un mondo che non li riconosce più. Si muovono come spettri tre passi avanti tre passi indietro nulla neppure il nulla in un mondo dove il sopravvivere uccide il vivere. Si muovono come spettri tre passi avanti tre passi indietro nulla neppure il nulla in un mondo dove la morte non fa più paura dove la notte divora il giorno dove la luna oscura il giorno dove i giorni sono lunghi e le notti ancora di più. Si muovono come spettri tre passi avanti tre passi indietro 19 nulla neppure il nulla guardando il tempo che va via senza prima né dopo solo presente che dura per sempre. Si muovono come spettri tre passi avanti tre passi indietro nulla neppure il nulla sopravvissuti al passato ma non al futuro perduti per sempre in un modo perduto. La ballata dell’ergastolano tre Si muore tutti i giorni per tornare di nuovo a morire ancora: l’ergastolano non può guardare in faccia il futuro, può solo guardare il tempo che va via. Il suo futuro è tutto scritto una lenta agonia senza rimedio che dura un’intera vita e che rende innocente chi è colpevole. Si muore tutti i giorni per tornare di nuovo a morire ancora: l’ergastolano tira a fare sera e a fare mattino, 20 uno strano fantasma che non riesce a morire una persona che c’è e non c’è che non ha più una vita propria perché non appartiene più a se stesso. Si muore tutti i giorni per tornare di nuovo a morire ancora: la pena dell’ergastolo ti mangia l’anima, il corpo il cuore e l’amore l’ergastolano non pensa al futuro perché pensare al futuro, ha senso solo se si ha futuro: lui non sa più chi è dov’è, né dove va. Si muore tutti i giorni per tornare di nuovo a morire ancora: l’ergastolo è una vendetta la vendetta dei forti, dei vivi. È una corsa della morte con la morte, per la morte. Si muore tutti i giorni per tornare di nuovo a morire ancora: l’ergastolo distrugge più dei nostri reati. L’ergastolano non ha nessun domani ha solo un passato che non passa è come essere morti prima di morire. 21 Motivazione Tre sono le Ballate dell’ergastolano, da leggere contestualmente perché fra loro inscindibili, anche da un punto di vista metrico. La scelta di iniziare ogni strofe con gli stessi versi riesce a suggerire, secondo le intenzioni dell’autore, quel senso di terribile monotonia, di inutilità, di frustrazione, oltreché di inesorabilità, che caratterizza una pena come l’ergastolo: “Passi lunghi ben distesi” nella cella, “per tornare subito indietro”, “senza andare da nessuna parte”. Null’altro. La cronaca quotidiana di una vita interrotta, sospesa a tempo indeterminato, dove al massimo ti è concesso di “immaginare di vivere”, ma “immaginare non è vivere”. Ci si muove come fantasmi “tre passi avanti, tre passi indietro”, senza pensare, senza avere nulla in cui sperare, in cui credere, ormai estranei a un mondo estraneo. In quello che è, ormai, il loro universo, “il sopravvivere uccide il vivere” e “la notte divora il giorno”. In una condizione del genere, dove ogni giorno si torna a morire, dove non c’è futuro ma un passato che non passa mai, questa lunga agonia che “distrugge più dei nostri reati” sembra conferire innocenza a chi è colpevole. Analisi lucidamente oggettiva, ancora più efficace perché l’autore non cede ad alcun impulso di autocommiserazione. 22 1° classificato ex aequo Gabriele Aral Il nostro silenzio Dormono le cetre all’ombra dei muri gelosi custodi di un silenzio antico, ferme le corde coraggiose come mi appare l’immobile beffardo scorrere del tempo che consola della vita che tradisce. Dormono le cetre sovrastate dal clangore dei cancelli, da serrati concerti di chiavistelli, dal folle balletto delle chiavi scalpelli appuntiti, che battono il tempo ai pensieri del giorno, novelle lancette della memoria. Dormono le cetre alla luce ferita sotto uno strato sottile di costante, quotidiana ipocrisia che cade su fratelli sconosciuti di patrie e case sperdute e di cuore più lontano. Dormono le cetre e l’inclito alloro nella vacuità delle parole: sono i libri di diritto, 23 gli altoparlanti comizi elettorali, e i colorati proclami da Tv, eppur vibravano per un fiocco di neve per un sussurro o uno sguardo per il suono di un’idea. Dormono le cetre appese alle sbarre un lenzuolo l’unica corda per un nodo che non si scioglie, la testa di ghiaccio, gli occhi sognanti e un peso indescrivibile che non puoi sollevare che non puoi dimenticare. E anche ora che suono con forza gli accordi non è di note ciò che io canto: le mie parole sono carne sono nomi e cognomi le mie ore, sono rughe sotto il sole sono occhi per guardare sono piaghe nelle mani che non volevano toccare sono chicchi di grano… … da seminare. 24 Profumo Come possono all’improvviso i legacci di così lunghi inverni e i colori pieni di rampicanti estati sciogliersi? E come può la dolcezza essere affilata? Sandalo, baobab il cuoio e l’argento antico: in un piccolo negozio di un vecchio vicolo comprai due orecchini d’ametista per due occhi verdi che riempivano i miei. Le mie parole Le mie parole sono foglie d’autunno, cadute prima di cadere, d’intralcio a terra alla vostra vista e al vostro cammino, nei lunghi viali e nei cortili sicuri. Bruciatele pure! … Ma che fuoco, e che fiamme! Che denso fumo nel vostro cielo vuoto. 25 Motivazione Nella più lunga delle tre liriche della silloge (Il nostro silenzio) l’andamento anaforico che caratterizza l’inizio di ogni strofe e il riferimento alle cetre che dormono appese è, con tutta probabilità, un omaggio a Salvatore Quasimodo che imprime a tutta la lirica un tono alto. Le cetre dormono, tacciono mortificate dalla banalità del presente, dalla “vacuità delle parole”. Sotto metafora: è difficile, se non impossibile, far poesia in un mondo sempre più contrassegnato dall’ipocrisia quotidiana e da un materialismo dilagante che impedisce di ispirarsi all’incanto delle cose semplici e pure. Tanto più se il nostro tempo è scandito dal suono di chiavi e chiavistelli che ci riportano inesorabilmente alla dura concretezza della nostra (attuale) condizione. Delle altre due liriche, Le mie parole e Profumo, vale la pena di sottolineare l’utilizzo di abbinamenti lessicali di sapiente ricercatezza: “foglie cadute prima di cadere”, “dolcezza affilata”, “due occhi verdi che riempivano i miei”, a ulteriore conferma della maturità espressiva raggiunta dall’autore. 26 2° classificato Antonio Faulisi Speranze Speranze, illusioni nate già stanche invano inseguite. Irripetibili momenti cancellati dal vento della tempesta. L’amaca dei ricordi, ai rami della vita, da troppo tempo appesa, da qui, ora, agitata dalla mia memoria mi pare che si muova, ancora e ricomincia il gioco delle mie dimenticate speranze. 27 Ho bisogno Ho bisogno di un cielo tutto mio. Ho bisogno di un cielo dove navigano bianche cascate di pensieri fra onde di speranze e deliri di eternità. Immagine Intrepido, la mia immagine inseguo. Si fa e si disfa fra i cerchi dell’acqua e mentre sono vorrei non essere per divenire quello che non sono. 28 Motivazione Difficile, quando ci si trova in una dimensione coatta, continuare ad alimentare speranze e illusioni “nate già stanche”, come le definisce l’autore, e cancellate, in apparenza definitivamente, dalle tempeste della vita. Ma quando “l’amaca dei ricordi”, da troppo tempo appesa ai rami dell’esistenza, accenna a muoversi di nuovo, ecco che ricomincia ad affacciarsi il gioco delle speranze che sembravano ormai dimenticate. In Ho bisogno la libertà, la cui privazione è la maggiore sofferenza per chi si trova nella condizione di detenuto, si concretizza nella necessità di avere a disposizione uno spazio esclusivo e privato di cielo, dove diffondere i propri pensieri “fra onde di speranze e deliri di eternità”. Infine un riferimento alla particolare suggestione che trasmette l’ Immagine dell’ultima poesia, capace di scomporsi e ricomporsi infinite volte senza trovare il modo di fissarsi in una forma stabile, mentre il poeta vorrebbe rinunciare all’attuale esistenza per poter divenire altra cosa da quello che è: “mentre sono/vorrei non essere/per divenire quello che/non sono”... 29 3° classificato Marcello Dell’Anna Clandestini su ruggini galleggianti Ruggini galleggianti lasciando la mezzaluna portando visi affranti in cerca di fortuna. Ruggini galleggianti dai nomi maestosi vengono avanti spinte dai marosi. Ruggini galleggianti cariche di dannati portano visi spenti, visi mascherati, con l’odio fra i denti perché perseguitati. Ruggini galleggianti cercando la riva cariche d’innocenti lasciati alla deriva… 30 Questo fiore è… Sono lontano dal mio giardino e non lo posso curare il mio fiorellino. Per questo dolore si sente appassire ma io sono certo che lo farò rifiorire. Dalla finestra guardo il giardino senza vedere il mio fiorellino. Non lo vedo e mi sento svenire penso al ritorno e mi sento rinvenire. Questa stranezza dà molta importanza… un amico mi chiede dalla sua stanza. Io gli rispondo, guardando il giardino, che adoro molto un fiorellino. Non è una rosa né una primula né una margherita, ma è l’unico fiore della mia vita. Per questo soffro tanta nostalgia questo fiore sei tu Vita Mia! 31 Il mostro Con espressione incolta e con fumosa mente a chi di voi m’ascolta racconterò di gente. A rima tanto chiara racconterò del “Mostro” che vive tra Livorno e il grande mare nostro. Un immenso “Mostro” oscuro che contrasta i nostri appigli poi ci appende al muro come… miseri conigli. È un “Mostro” silenzioso che tutti fa tacere è tanto religioso con sete di potere. Con il passar del tempo scruta nei nostri cuori divertenti nel silenzio i suoi relatori. Come ogni sera in una oscura stanza il “Mostro” silenzioso è “l’Elevato Indice di Vigilanza”. 32 Motivazione L’autore di questa silloge utilizza, in aperta controtendenza rispetto alle odierne preferenze, una metrica di tipologia tradizionale, facendo uso, con efficacia, della rima, per lo più alterna. Ne risulta, sulla scorta della facile orecchiabilità dei versi, un apparente alleggerimento delle tematiche, serie, se non addirittura tragiche. Ma le “ruggini galleggianti”, le carrette del mare che portano, attraverso il Mediterraneo, il loro carico di derelitti, di disperati, di innocenti “lasciati alla deriva”, trasmettono al lettore un messaggio di angoscia, di rabbia, di frustrazione più diretto e immediato che se fosse espresso attraverso l’analisi approfondita di un testo letterario. Con la stessa scioltezza metrica, accompagnata da una lieve ironia, si esprimono dure verità: che in carcere, dove il dolore prevale su qualunque altro sentimento, è difficile curare e coltivare il fiore della propria esistenza e che, con battuta a sorpresa finale, il terribile “Mostro”che si aggira furtivo fra le mura, capace con il suo potere di ridurre tutti al silenzio, è “l’Elevato Indice di Vigilanza”! Parole lievi che spingono a riflessioni profonde. 33 Verona, 2006: Consegna premio e attestato a Pierangelo Rubagotti da parte di Luca Lischi, Capo di Gabinetto del Presidente della Provincia di Livorno La Giuria riunitasi a Poggio (Isola d’Elba) il 2 agosto 2007 Opere segnalate Barbara Attanasio Canzone Alza lo sguardo ma resta in silenzio. Ascolta il suono dell’aria immobile. Non è il vento col suo volare, né la brezza col suo sussurrare è l’immobilità che fa rumore. Chiudi gli occhi ora, prova a immaginare, immagina una stella e il suo bagliore. Chiudo gli occhi ora e ti vengo a incontrare su quella stella immersa nel bagliore lontano da qui da questo luogo di disperazione, di espiazione, di risurrezione. Alza lo sguardo ascolta il silenzio di questo cielo terso. 36 Ascolta il tuo cuore e il suo pulsare è la tua canzone non la dimenticare. Via Sentirmi sola, quando, in mezzo a finti sorrisi, le parole diventano afone e la mia mente vola altrove a cercare un senso diverso. Via, lontano da tutto quel dolore altrui che mi travolge, mi sommerge e amplifica il mio lasciandomi esausta, stremata, smarrita. Via, lontano in cerca di quel sorriso il solo che sa lenire la mia agonia; in cerca di quel calore l’unico in grado di scaldarmi ancora il cuore: in cerca di quell’abbraccio che sa trasformare in rugiada le lacrime mie. Via, lontano costantemente sola, in cerca di te su questa giostra, senza fine corsa, che è la mia malinconia. 37 Canto a Morfeo O dolce Morfeo compagno instancabile delle mie tormentate notti, m’incanti e m’illudi. E ora che il sole è sorto malinconica ti guardo, beffardo padrone, e lì ti lascio, tra il cuscino e le lenzuola. 38 Ciro D. Caro papà È tant’ tiemp’ can un te sogn’ chissà a ’ro stai chissà che fai se c’ pienz’, oppure no. Tu c’ ’e lassat senza nu perché l’orgoglio t’ha purtat’ addò stai mò i’ so’ sicur’ ca stai buon’ miez’ a’ l’angel’ comm’ a te e nu juorn pur’ io veng’ a dù te. Tu nun m’ ir sulo pate pe’ me faciv pur ’o frat’ e i’ t’ confidai ’a primma ’nammurata che desiderio ’e te vedè pe’ l’urdima vota affianc’ a me. Caro papà m’ ’e rimast’ sulo cu’ mammà ca nun vò’ mangia’ e sta semp’ a pensà ca nu juorn tuorn ccà. Da quann’ t’ n’ s’i jut’ mai ’na notte me venut’ a salutà 39 e primm ’e ma durmì sperav’ ca passav’ ’a ’cà. Com’ me mancan’ ’e carezz’ mamma mi’ quant’ amarezz’ si m’ sos’ ’a dint’ ’o liett’ e nun te trov’ affianc’ a me. Tu vuliv’ ’nu nepot’ ma però t’ n’ si jut’ e mò ca stu suonn’ s’ è avverat’ da langopp’ l’ ia guardà. Pur’ si stiv malat’ nun te mancav’ mai a resata mai nient’ c’ ’e fatt’ capì nun c’ ’e fatt’ mai suffrì. Caro papà t’agg’ scritt’ ’sta poesì spero ca t’a può sentì i’ mò m’ vac’ a cuccà ca speranz’ ’e te sunnà. Carcere Natu juorn’ accummencia che fastidio stu sole filtr’ ’a ’na finestrella e nun ce sape scarfà chi dice nun ’a durmuto, ’a mamma s’a sunnato che l’ha stesa ’na mano, pe’ l’accarezzà e pur’ i’ comm’ a loro sogn’ a chi tengo caro 40 che corrono ’a chiesa e me vann’ a pregà che dolore ’o core me fa si pens’ a te, cara mammà. È ’na scelta sbagliat’, ca purtroppo è capitat’ nun è ’o destin’ ca l’ha criat’ ma simm’ nuie ca ce l’amme cercat’. Chi mette speranza chi pens’ a’ libertà so’ chest’ ’e cos’ ca c’aiutan’ a campà. Ce sta chi pe’ compagnia sa stregn’ ’na fotografia facen’ ’na preghier’ a’ dì, chi telefon’ a’ ’nammurata oppure ’a mamma e o pate, vulessen’ fermà ’o tiemp’ ma nun ’o puonn fa e quando chiamm’ l’appuntat’ è fernut’ ’a telefonata. Iamm a saglì e i’ dic’ “ve chiamm’ viernerì”. Appen’ ’o sole chiamm’ ’a luna e tutt’ a tuorn se fa scur’ è silenzio dint’ ’o reparto! Se fa fint’ ’e durmì chi se vot’ e se gira, chi ce menca ’o respir’. È semp’ ’o stess’ ccà dint’, e che fa ’a speranza aiuta a campà. 41 Alessandro Crisafulli I Sospesa, la mente arranca sull’erta dell’esistenza. Non desistere, anima soffocata; nutriti col silenzio dei sogni e libera l’inesprimibile pensiero: dolce trasalimento di un verso esitante. Occhi vigili ti strappano le attese, penetrano nelle carni; l’eco del fondo annulla le certezze. Sono un grumo sotterrato che tremante si scioglie alla vita. 42 II Muto il pensiero, congelato il respiro, riempio il silenzio aspettando di esistere. III Un frammento stuprato si smarrisce nell’eco sprofonda il gesto che recide il pensiero. 43 Luigi D’Avino A mia figlia Cara Gemma ti amo da morire e sei sempre nei miei pensieri. Mi ricordo quando ti portai alle giostre e tu avevi paura, io ridevo e tu piangevi: non volevi salire. Avevi 12 anni, era sotto Natale e ti rivedo ancora col tuo cappottino nero e cappuccio in testa fino agli occhi. Tu piangevi e io ti baciavo. Una volta… Una volta ero una tigre molto aggressiva ma adesso sono un leone stanco dormo dalla mattina alla sera e non do fastidio a nessuno. 44 Ero solo… Ero solo ma ora ho mia figlia Gemma che mi vuole bene. Mi manca tanto mia figlia Gemma, la sua presenza piena di allegria le sue risate contagiose e la sua voce che mi chiama: “Babbo babbo babbo”. Mi sembra di rivederla al nostro ultimo colloquio lei era diventata una donna bellissima con i suoi capelli lunghi lisci castani e i suoi grandi occhi scuri. 45 Gabriel Sospiri Silenziosa cala la notte nei sospiri degli amanti lontani sospiri di labbra che si baciano senza toccarsi sospiri di anime che si avvinghiano nello sfiorare di una mano calda occhi che si guardano dietro sipari di purpurei desideri vogliosi di attimi eterni mani delicate confessioni silenziose di immensità carpite in un desiderio realizzabile solo a metà. Impatti di battiti tristezze sussurrate sogni raccontati chiusi negli occhi dell’amore gemiti di ardore dentro canzoni stonate cadere all’indietro nel vuoto del buio che culla teneramente l’essenza dello spirito l’essenza dell’attimo silenziosa cala la notte nei sospiri… 46 Il mio nome “… Dormi anima mia, riposa, nel silenzio di questa notte, dove il mio sguardo si posa sui tuoi profili e il mio orecchio conta i battiti del tuo cuore… Mi inebrio dei tuoi profumi, e teneramente abbraccio il tuo respiro. Tendi serenamente la tua mano a Morfeo, che io, tenendo fede al nome mio, sarò qui a proteggerti.” 47 E vengo da te E vengo da te a te per celebrare la vita inghiotti le mie ansie le porti via con te nell’immenso il tuo moto incessante come le profonde maree del respiro allieta il mio cuore e come il miele è dolce il tuo frastuono viva immensità ogni parola è vana non si raggiunge… Racchiude… La tua profondità. 48 Flavio Grugnetti Tra le righe di questa notte Sotto un cielo stellato danzi a piedi nudi in un’altalena di sorrisi e pianto. Danzi senza fermarti mai senza voltarti indietro. Nella speranza di ciò che è stato non fu sofferto invano. Danza anche lo sguardo ad abbracciare tutto il cielo… Un cielo che non perdona e ha occhi che scavano dentro a scoprire anche i silenzi. Le chiavi del tuo passato le troverai per caso o per fortuna tra le righe di questa notte dove fortuna non è se non per caso. 49 Pezzi di una storia È aspro l’odore dell’aria stasera si direbbe che il tempo passato è andato perduto. Mi ritrovo fra i denti i pezzi di una storia mille e poi ancora mille volte riletta. Ora la tua voce è confusa nel vento e nel fruscio delle foglie. Tesa come un lancio di sassi rimbalza si smembra s’adagia in lamine piatte. Mi hai lasciato il profumo d’un lungo volo d’ali una rabbia stretta in pugno e nell’alba… La sorpresa di un sorriso. 50 Sguardo complice La vita resta un segreto dove le prospettive divergono in angoli d’amore e ironia. Discorda anche il presente che fugace ferisce soltanto un’ultima illusione. È dunque solo un miraggio il desiderio di un tempo che potrebbe e forse dovrebbe essere migliore? Porgere la mano alla vita sarà come scindersi sul cuore. Lontani per un giorno da quell’ira della mente che si spegne nello sguardo complice di due occhi limpidi. Tra le spire di questo monologo conto le ore su un quadrante che non ha dubbi o echi… Di possibile ritorno. 51 Houmine Kamal Vola pensiero Oh mio pargolo! Tu che hai messo i primi denti tu che hai fatto i primi passi tu che hai cominciato a giocare con i bambini, e io sono qui, con i miei pensieri non so se la musica mi fa pensare o il pensiero mi fa sembrare che la musica è più bella. Ma so che tutto si mischia in una dimensione di pura fantasia come il tuo sguardo bambina mia, guarda, guarda Amore. Se forse ci separa un paese e la mancanza è lunga, non avere paura amore, il ritorno è vicino. Vorrei fare tante cose ma la sera giunge al calar del sole E rinvio all’indomani quello che non porto a termine. Ma resta solo il mio pensiero che vola come una farfalla, che cerca di abbracciare il tuo cuore. 52 Sul viaggio Signora mia sono venuto da te dal mio viaggio con fretta, spaccandomi come le onde sopra la tua spiaggia per raccontarti le mie avventure sul mio viaggio rubo il tuo sogno, e accendo la luce dei tuoi occhi. Signora mia, sei orientale nel tuo amore quando ho cercato ti ho trovato nei miei libri, ti ho trovato nella mia sera, come una luna ti ho trovato come grande di profumo nei miei fiori. Ti ho trovato come il sole. Torna tutto il mondo nel tuo senso, il mio stile è orientale il mio regno è mille città, la spiaggia dentro i miei occhi i miei sentimenti nei miei regni i miei fiori sono soltanto di parole. 53 Abdoulaye Konarè Nel fiume isolato dalla città Nel fiume isolato dalla città un mattino ho marinato la scuola ho incontrato una strana persona con corpo coperto di paglia secca. Dritto in piedi, baffo bianco, si incamminava tranquillamente lo guardo con meraviglia le labbra sorridenti, in fronte sei occhi, gli occhi bianchi senza pupille, occhi grandi come uova di faraona bianca, mormorava: “Giovane, sta nascendo il giorno… Giorno uguale come tutti gli altri pari!” Non dimentico mai le sue meravigliose parole: “Se non vuoi essere picchiato evita di picchiare l’altro” “Se non vuoi provare vergogna dovrai lavorare tanto” “Se vorrai che le porte del paradiso ti siano aperte dovrai credere in Dio” “La comunità che ti è destinata, vivila responsabilmente” “Quando abbiamo paura di soffrire dobbiamo soffrire per quello che temiamo”. Passo dopo passo ripeto le sue lunghe e belle parole senza sosta cammino sul lembo del fiume con la gola arida vedo un po’ d’ombra vicino a un albero. Per terra tutto tappezzato d’erba fine di cui non rammento il nome ho bevuto in un pozzo d’acqua chiara, limpida, dopo tanti anni la freschezza mi rimane vivace. 54 Il cuore nel viso come l’angoscia anzi il piacere … Che bisogno avrò di questa libertà. Ero nel resto d’acqua piovana che gli uccelli non sono ancora riusciti a sporcare. 55 Marina S. Le mie lacrime Per dire le mie lacrime io canto canto per raccontare il mio dolore. Al chiuso delle sbarre mi sento morire ma se la luce si accende nella mia stanza, per la gioia mi abbandono nella mia stanza. E danzo, danzo che mi sembra di volare e il cielo, con le dita, mi pare di toccare. Danzo come una farfalla color lillà di fiore in fiore, verso la libertà libertà di essere amata e come un fiore da te essere sfiorata… E intanto per dire le mie lacrime io canto. 56 Sebastiano Milazzo Graffiti Ora che i fragili cristalli sono cocci e il vuoto d’anni luce agghiaccia le pupille più nulla resta del fanciullo di ieri rapito dal tempo. Ora che corvi neri e ali immonde volteggiano sulla valle più nulla resta del ventenne di ieri sfumato nel nulla. Rimane quest’uomo questo misero avanzo questa sagoma stanca che allo specchio disegna con crudeli graffiti le sue guance scavate. 57 La statistica Di giorno rubo spiragli di luce al cielo con trastulli momentanei stanco di essere vivo. La notte vivo il furore della mia condizione stanco di essere un numero di una statistica. Un numero che elenca la vita e la morte in cifre non racconta che piango e graffio pareti tra scorci di cielo notturno e rantoli mattutini. 58 La luna Quel disco bianco che si vede a occhio nudo da ogni parte della terra da questo luogo si tiene a debita distanza. Qui mostra il buio del fondo della valle e mentre gelida sonnecchia annera la terra con le case agli occhi di chi medita ed è solo. Non soffre mentre ammira i pesci che si dimenano sulla riva e se qualche volta si vergogna lo fa per circostanza… Condiziona l’acqua del mare che avanza e si ritira e mentre tronfia si specchia ha preso l’abitudine di prendersela con i pesci che stanno a riva a contare gli eventi con le dita. Pazienza piccola, i giorni saranno secondi, ma succeda quello che succeda, tornerò ai tuoi occhi. 59 Mille Madri Ciao stella! Alla vita e a tutte le madri del mondo che piangono per i propri figli quelle lacrime che… alimentano lo straordinario giardino dei sogni. Per Francesca affinché continui a credere nelle meraviglie del mondo nonostante tutto. Ciao stella! Lucente in quell’altissimo cielo, avvicinati, almeno un po’ da poterti sfiorare. Piccola cosa appari lontana, grande cosa sarebbe averti. Vorrei abbracciarti così forte da far esplodere tutta la tua luce! Ma ben piccola cosa sei in confronto a ciò che sento vorrei dentro! Portami con te, portami via! L’ultimo dei miei pensieri vale troppo per seppellirlo ma al primo di essi rinuncerei pur di stringere te, bambina mia! E mentre le lacrime irradiano il cielo, come pioggia sottile, gli occhi riflettono il tuo volto… Meraviglioso, enorme amore mio, Francesca, che sai darmi senza neppure saperlo! Sempre dentro il cuore, sempre urlando al cielo il tuo nome 60 affinché tu possa ascoltarmi in qualche luogo del mondo! Guardami ora, lucentissima stella; irradia il firmamento affinché ogni corpo possa risplendere del mio amore per te! Mentre parrà un sogno averti ancora a fianco sarà realtà il nostro grandioso abbraccio! Ora Francesca perdona il mondo che troppo in fretta ti ha svelato i suoi arcani, io maledico il tempo passato lontane, ma tu, amore mio, credi ancora alle favole, fallo! Credici, piccola Francesca! Anche le stelle possono parlare! Chiamale per nome come faccio io! Non è follia, piccolo amore mio, è il mondo della ragione che da troppo regna impunito, le fiabe non morranno mai, mai saranno piegate dalla realtà, perché nulla è più reale al mondo del desiderio d’una bambina! Nulla vale più al mondo, più anche della ragione, delle tue parole urlate al cielo assieme alle mie! Sarà! Di nuovo assieme… 61 Maurizio Peruzzi Laoràa, pregàa Per mi el me laoràa, ij tanti rôb che fo ij tanti rôb che mi farìa, l’è istess che recitàa l’Ave Maria. Domà che de pregàa son minga bon e inveci, dai me man quaicoss vegn foera. Laoràa l’è, de pregàa la mia manera. Ma adess som chi in galera me lassen nient de fàa. Me giri in gir, me vardi i man… me par de bestemmàa! Incoeu, bonora, dormiva domà on oeucc, l’alter vardava vegnìi on alter dì de disperazion de noja, me son insognà Maria che entrava in la mia cella e la g’aveva in vis domà ona lagrima domà un soris. La m’ha ciapà ij man in dij sô man la g’ha lassà cascàa la lagrima in del mezz 62 poeu mi ha miss sul coeur e la m’ha dit: “Adess te insegni mi! Lassa stàa de pregàa se te set minga bon, parla con mi. Parlom de quei che stan pegg de ti parlam de quei che te voeren ben e de quei che t’han dismentegà. Parlom dij to fioeu e on po’ anca del mé. Te vedaret che sem l’istess, mi e ti, mi mamma, ti papà, stessa speranza, stessa disperazion stessa carna, istess dolor, l’istessa vida”. Poeu la m’ha cavà foera del coeur, cont el soris, du ô tri bestemm ij ultim, e l’è sparida. E mi – doman so nô ma per incoeu – me par che ho comincià a pregàa. 63 Lavorare, pregare Per me il mio lavorare, le tante cose che faccio le tante cose che ancora farei, è come recitar l’Ave Maria. Soltanto che di pregar non son capace e, invece, dalle mie mani qualcosa viene fuori. Lavorare è, di pregare la mia maniera. Ma adesso sono qui in galera non mi lasciano niente da fare. Mi giro in giro, mi guardo le mani… mi sembra di bestemmiare! Stamattina presto, dormiva un occhio solo l’altro guardava arrivare un altro giorno di disperazione di noia, mi son sognato Maria che entrava nella mia cella e aveva in viso solo una lacrima, solo un sorriso. Mi ha preso le mani nelle sue mani gli ha lasciato cadere la lacrima nel mezzo poi me le ha messe sul cuore e mi ha detto: “Adesso ti insegno io! Lascia perdere di pregare se non ne sei capace, parla con me! 64 Parlami di quelli che stanno peggio di te parlami di quelli che ti vogliono bene e di quelli che ti hanno dimenticato. Parlami dei tuoi figli e un po’ anche del mio. Vedrai che siamo uguali, io e te, io mamma, tu papà stessa speranza, stessa disperazione, stessa carne, stesso dolore, la stessa vita”. Poi mi ha tirato fuori dal cuore, con il sorriso, due o tre bestemmie, le ultime, ed è sparita. E io – domani non lo so ma per oggi – mi pare che ho cominciato a pregare. 65 Salvatore D. Riflessione sulla guerra La luce è fioca sul campo di battaglia Solo un cero resta illuminato, ... non c’è fango, né sterpaglia solo un piano lucidato. Anche oggi teatro di competizione Tra mani esperte con l’animo guerriero. Che si scontreranno senza esitazione Con la sola forza del pensiero. Quante guerre travagliate Tra innumerevoli condottieri ma con milizie sempre immutate: gli uni bianchi e gli altri neri. Sul campo i fanti già presenti Tutti figli della stessa spiga Disposti con le facce assenti come ballerine in riga. Dagli insediamenti più angolati Torri merlate con occhi osservatori A sorvegliar i diletti soldati Ma soprattutto gli imperatori: Lui adiacente alla sua amata Dà ordini al plotone e la sua morte anche inaspettata può sancire la distruzione. 66 Lei può muoversi in ogni direzione ma rimane al re sempre vicino. Non essendoci educazione è il più ambito bottino. Ai fianchi regi dei sovrani con quella bocca addolorata hai l’alfiere tra le mani padrone della via inclinata. E infine c’è il destriero Veloce e valido esemplare Fedele, combattente vero Unico autorizzato nel saltare. Disposti fanteria e cavalleria Su quell’apposito banco Come sempre al via Comincerà il colore bianco. Lo scontro può durare delle ore E alla fine del conflitto Avremo un grande vincitore e inesorabilmente uno sconfitto Non ci sono tradimenti, né morti, né feriti, né cattivi Solo mosse e movimenti Di ragionamenti inoffensivi. Dovrebbe essere da esempio Questa guerra senza armi Battaglia senza scempio Di innocenti o di gendarmi. Con responsabilità attinente Le due intere fazioni 67 Non si nascondono per niente Dietro a dogmi o religioni. Ma la cosa più bella Accade dopo l’ultimo atto Dopo che uno dei re crolla Con il celebre scacco matto. Infatti è stupendo, finito il conflitto dopo combattimenti succinti, vedere in pace in un cassetto i vincitori e i vinti! 68 Veronica Pivetti, madrina dell’edizione 2007, Ernesto Ferrero, Raffaella d’Esposito, Pablo Gorini. Carlo Barsi (vice Sindaco del comune di Piombino), Veronica Pivetti, Giuseppe Gallico, Simonetta Polverini (Presidente del Consiglio Comunale di Piombino), Giuseppe Cafora. Sezione Prosa Opere premiate 1° classificato Marco Purita La colpa C’è silenzio compresso, un odore di sudore avvizzito, e tensione nel sangue. L’orologio alle mie spalle cattura l’attenzione. Tic tac. Tic tac. Tic, tac. Tic. Tac. Tic. Le lunghe e sottili lancette rosse si allineano nell’istante. Gong?!? Il match inizia. Primo round. Hai tre minuti per mostrare agli altri (compreso Dio) e a te stesso quanto vali. Ma tu lo sai già, non devi dimostrare niente a nessuno, tu non vali niente, sei meno di zero. I due pugili si avvicinano. La luce, alta, fredda, pungente, rivela, sul tappeto grigio del quadrato, abbozzi metafisici di corpi deformati. Una tuta con dentro un uomo, i suoi occhi mi guardano: mi sta studiando. È il mio maestro, campione italiano di boxe negli anni migliori, oggi padre di famiglia e fiorista, con il naso a patata, gli occhi sottili, appesantito, e la pelle scura. Oltre le corde del ring le ombre si condensano e si raffreddano fino al sacco verdastro, agganciato a una grossa catena, sospeso nel vuoto. La panca, lì accanto, espone la bellezza lucida e nera dei pesi circolari. Gli specchi, schierati qua e là per i saltatori di corda, riflettono l’immagine indefinita del ring e oltre della grande guantiera, custode di guantoni variopinti nuovi e consumati, rotti, che lasciano cadere lacci annodati, e odori nauseanti. La radio è spenta. La palestra è deser72 ta, è sabato pomeriggio, nessuno si allena fuorché il mio maestro e due pugili. Uno sono io. Fuori piove. Sono in guardia a destra. La dentiera mi dà fastidio, non riesco a deglutire. Come al solito, all’inizio, bisogna farci l’abitudine. Lui mi saltella intorno, sembra un pugile serio, gioca con la sua dentiera giallo fosforescente, la estrae dalla bocca, la risucchia, mi scruta, attento. È in guardia, a destra, la mia preferita, lo provoco con un diretto, lo para, e un gancio destro a sorpresa, all’inizio, il colpo del match, lo schiva. Abbassa la guardia, sogghigna, sotto i baffi, stringe il bicipite nervoso al petto, il gomito all’addome per proteggere il fegato. Essere colpiti al fegato significa perdere il controllo delle gambe. E lui lo sa. Ci sa fare, e mi saltella intorno. Le frange degli stivaletti danzano di qua e di là, parte con un diretto al mento, di sorpresa, mi colpisce sui guantoni, un colpo secco, profondo. “Prima regola: non farti mai distrarre dalle apparenze quando combatti!” mi urla il maestro all’angolo. Risistemo la guardia, la luce intensa sopra di me, sono al centro del quadrato, il sudore si mischia alla vaselina spalmata sul viso, sul petto, per far scivolare i colpi, e la scioglie. “Non stare fermo sulle gambe, muoviti!” urla il maestro, e lui si avvicina con il sinistro come per giocare, lo devio con il destro e sinistro, destro, gancio sinistro, secco, deciso, lo prendo in pieno viso. Lui vacilla sulle gambe. Non se l’aspettava, lo chiudo all’angolo e destro sinistro destro sinistro alle reni. “Non ti fermare, non ti fermare!” urla il maestro. Lui si strappona e si allontana da me, basito, innervosito, schernito. Gong?!? Il primo round è terminato. Il maestro mi attende all’angolo. “Sono già passati tre minuti?” tento di dire, con il fiatone, dopo aver sputato la dentiera nel secchio. Mi butta l’asciugamano umido addosso. 73 All’angolo il maestro mi stringe i guantoni. Mi controlla gli occhi, m’infila le grosse dita in bocca, a momenti vomito. I suoi occhi mi rassicurano. Non ho rotto nulla. Mi massaggia le gambe, distese, tremanti, lucidate dalla crema. Ho ancora il fiatone. Oltre le alte finestre, poste in serie al limite del soffitto, nell’ombra schiarita, la pioggia persiste, inesorabile, il suo implacabile ticchettio. L’identica pioggia che precipita oltre il finestrone del liceo, nella mia classe, i neon spenti, i banchi disordinati, una giacca dimenticata sulla sedia, schizzi di greco sulla nera lavagna tagliati a metà dal cancellino… Che precipita oltre il finestrino della mia auto, l’arbre magique al pino selvatico immobile, i tergicristalli a riposo, una sigaretta lasciata bruciare nel portacenere, poco prima di entrare in palestra… Che precipita nelle strade, l’asfalto bagnato, gli ombrelli aperti, i lampioni accesi, le pozzanghere punteggiate dall’acqua riflettono enormi costruzioni… Che precipita oltre la finestra della camera dei miei, il letto ordinato, stirato, le persiane chiuse, una foto di mio padre e di mia madre che giocano con un bambino, davanti all’albero scintillante di luci natalizie, sul comodino bianco, nel buio della stanza, un crocifisso inargentato appeso alla bianca parete. Gong?!? Lui si alza, schiocca il collo con un movimento rapido della testa, stringe i guantoni e si avvicina al centro del ring. Io mi alzo, faccio il segno della croce, stringo i guantoni e comincio la danza. Tic tac, tic tac, tic tac, tic tac... Batte inesorabile l’orologio il ritmo del secondo round. Questa volta è lui a starsene fermo al centro, sotto l’imbuto dell’acidità luminosa. Gli giro intorno, mi avvicino e mi allontano, rapido, stringo il mento alla spalla, sempre in guardia, gioco con il sinistro, lo para, ancora sinistro, parato, finta di destro e affondo il sinistro, preso sul mento, in controtempo. Scuote la testa, ritorna in guardia, cerca di chiudermi 74 all’angolo, con passi rapidi, riesco a districarmi, gli giro intorno, sempre, lo tengo distante con il sinistro. È nervoso. Mi si avvicina prepotente, sinistro, lo paro, sinistro, lo paro, gancio destro lo schivo e montante sinistro: mi arriva in faccia. Secco, pesante, prepotente. Barcollo, mi si avvicina veloce e mi stringo al suo corpo, sinistro destro sinistro, al fegato. Pausa. Incrocio i suoi occhi. Seri, intensi, scavati, dolci, come quelli di mio padre. Già mio padre… … Che testa di cazzo mio padre: “Non ti manca niente, vai al liceo, hai la ragazza, impegnati negli studi, lasciala stare la boxe!” mi ripeteva, ogni sera, a cena, prima di rinchiudersi nel suo ufficio per sbrigare gli affari del giornale. “Non vedi tua madre: sta male! Non è bello che tu torni a casa la sera tardi con le labbra spaccate e gli occhi gonfi, e poi la mattina vai a scuola stanco! La Carla mi ha già telefonato più volte per avvertirmi!” “Cazzo vuole quella troia d’italiano!?” “E non usare questo linguaggio davanti a tua madre!” “Lo impara in palestra, in mezzo agli zingari e ai terun!” sosteneva lei, mia madre, professoressa di matematica alla scuola media del paese e fanatica ciellina! Come la Carla del resto… Un destro al mento, preciso, meditato, impietoso. Cado sulle corde e mi rialzo veloce. “Prima regola: non farti distrarre dalle apparenze quando combatti!” urla il maestro, all’angolo. (Ma quali cazzo di apparenze!) Riprendo lucidità, a fatica saltello sulle gambe, ho il fiatone, rabbioso, voglio eppure non mi muovo, non riesco a muovermi. “Non stare fermo sulle gambe! Muoviti!” urla il maestro. Mi avvicino a fatica, stringo la guardia, non ce la faccio più, vedo i suoi occhi, vedo mio padre… … “Se non ti va bene cercati un altro alloggio! Noi ti abbiamo mantenuto abbastanza!” fa mio padre, fissandomi con i suoi occhi intensi, scavati, seri, dolci. “Ma scusa…” M’interrompe, non l’ha mai fatto: “Non voglio sentire giustificazioni! Non sta bene che vai lì! Non sta bene per i tuoi amici che trascuri, da come mi hanno riferito, visto che 75 non vai più agli incontri di comunità! Non sta bene per noi visto che la boxe è uno sport da figli di operai!” fa mio padre, dalla sua altezza borghese, guardandomi con la speranza di essere stato chiaro e determinante. “Va bene! Me ne sto andando di casa!”... Un gancio sinistro al mento e un montante nello stomaco, perdo il controllo delle gambe. Lui sogghigna, anche lui affaticato, sudato, appiccicoso, mi stringe al suo corpo con una serie debole di montanti destri e sinistri. “Non ti fermare! Non ti fermare! Non ti fermare!” urla il maestro (a me o a lui?) Gong?!? “Ma l’orologio si è fermato?” affermo respirando le parole. “Ora respira! Non sprecare fiato!” mi ordina freddo. Cado sullo sgabello. Nel secchio sputo la dentiera fosforescente e sangue. All’angolo del quadrato, seduto sullo sgabello, una cannuccia in bocca, la faccia gonfia, il maestro mi scioglie la tensione somatizzata dentro le fibre nervose della schiena. La pioggia precipita, fitta, decisa, schiacciante, sugli oggetti della terra: parabrezza, asfalto, immondizie, spacciatori, pneumatici, fascisti. Ripenso a mio padre, quella sera, non se l’aspettava, non l’avevo mai contraddetto, credeva che scherzassi, mi arrabbiavo ma poi mi passava, come al solito, era sempre mio padre e io, suo figlio. “Va bene! Me ne sto andando!” e me ne sono andato. Senza scherzi. Per un sei mesi, senza chiamare, nemmeno una volta. Ho dormito dalla nonna, lei dolce, occhi dolci, verdi, intensi come mio padre. Lei una seconda madre, che mi ha convinto, con il tempo, a ritornare. In fondo, era sempre mio padre. E lui, quella sera, non me l’aspettavo, piangeva, in casa, sulla poltrona in salotto, davanti alla televisione, spenta. “Dov’è la mamma?” “Sei stato tu! Vai via di qui, non ti voglio più vedere!” “Dov’è la mamma?” 76 “Tua madre è all’ospedale!” “Che ha?” “Le hanno trovato un tumore!” “Un tumore?” “Il medico dice che ha un mese di vita!” “E che c’entro io?” Gong?! ? Comincia il terzo round. Il definitivo. Ancora tre minuti per dimostrare chi sei ma io lo so già chi sono. Uno che un giorno diventerà un oggetto, in un istante, vedi la pioggia, sempre la stessa che cade, nervosa, oltre la solita finestra. Vedi due pugili che saltano la corda, l’aria fibrilla, frustata, tagliata, lo stridore ti penetra nelle orecchie. Senti la radio che impazza musica inacidita, senti l’odore di sudore marcio che ti penetra nei polmoni, ti manca l’aria. E poi, d’un tratto, non vedi più niente, non senti più niente, non ti manca più niente. Un diretto destro mi arriva sul mento. All’improvviso. Si spengono le luci. Si riaccendono subito dopo. Tra il prima e il dopo non cambia nulla tranne la rabbia. Hai preso un pugno, ti ha fatto male, ti fa male, il dolore brucia. Mi avvicino, rapito, ritmico, in guardia a destra, finta di destro, sinistro, lo para, destro, lo schiva, gancio sinistro, lo prendo, affondato. Avanzo, indietreggia, ancora scosso, sinistro, sul guanto, sinistro, sul guanto, gancio sinistro, affondato. Gli tolgo il sogghigno e ora avanza, e anch’io al centro del mondo, il nostro. Sinistro contro sinistro, pugno contro pugno, ci stringiamo al petto. Lui è più alto, ha il braccio più lungo, le ossa più grosse, e gli occhi dolci ma pieni di rabbia. Si gira, cambia la guardia, guardia a sinistra, un montante al fegato, forte, duro, di sorpresa. M’inginocchio a terra. Mi fischiano le orecchie. Sputo dentiera e sangue. Le frange dei suoi stivaletti mi gironzolano intorno. “Prima regola: non farti distrarre dalle apparenze quando combatti!” urla il maestro. Il telefono squilla. Mia nonna non c’è in casa. Rispondo. È mio padre. Mi dice che mia madre non ce l’ha fatta. Mi rialzo. Non lo vedo. Mi volto, non c’è. Un diretto mi arriva sul naso, forte, di striscio. E cado. 77 “Non stare fermo sulle gambe! Muoviti!” urla il maestro. Il telefono squilla nelle mie orecchie. Per minuti. Sono solo in casa, mia nonna non c’è. Rispondo. “Tua madre è morta!” mi dice. Mi alzo. Ora lo vedo, sembra mio padre. Si avvicina veloce, cambia la guardia, non reggo le braccia, sono scoperto, cerca di sorprendermi, gli sposto il destro e affondo il gancio sinistro sul mento. Sputa sangue e dentiera sul tappetino del quadrato. “Non ti fermare! Non ti fermare! Mancano dieci secondi alla fine!” urla il maestro. Si rialza, si mette in guardia a sinistra. Nove. Incrociamo gli sguardi. Otto. Un giorno diventerò un oggetto. Lui si avvicina. Sono scoperto. Lo fisso negli occhi. Sette. Vedo i suoi colpi al rallentatore. “Non stare fermo sulle gambe! Muoviti!” Sento il maestro al rallentatore. Sei. Mi colpisce al viso. L’arcata sopraccigliare si rompe. Nei suoi occhi schizza del liquido denso. Il mio. Si pulisce. Sono scoperto. Senza guardia. Cinque. “Non ti fermare! Non ti fermare!” Mi trascina all’angolo e comincia a colpirmi. Quattro. Destro e sinistro sul volto, veloce, e montante sul fegato. Tre. Non sento più niente. Non m’interessa più niente. Continua a colpirmi, senza pace, senza tregua. 78 Due. “Non ti fermare!” La dentiera mi esce da sola. Un destro in pieno viso. Uno. Cado sulle ginocchia. Salvami Dio, non sono nessuno. Gong?!? “Respiri ancora?” dice il maestro. Sorrido. La doccia, non mi asciugo i capelli, tanto fuori piove, senza pace, senza tregua. La palestra, sotto le scalinate del piccolo stadio del paese, il paese che ho sempre odiato, si nasconde a sguardi indiscreti. Un corvo scivola via, nel cielo inzuppato, inargentato. Ora mi sento libero, come quando si ama. 79 Motivazione Una palestra in periferia, un incontro di pugilato fra dilettanti, combattuto sulla distanza delle tre riprese, con l’inevitabile violenza ma senz’odio. Uno dei due rivali è destinato a vincere, l’altro a perdere e lo sa già perché gli è sempre capitato, nella vita. Ecco che, davanti agli occhi del protagonista, si ripresentano episodi cruciali della sua esistenza, quelli che più di altri hanno contribuito a determinare il suo attuale presente. Le incomprensioni con il padre che, da buon borghese, non vuole che il figlio si dedichi a uno sport “plebeo”come il pugilato. La fuga da casa, il ritorno, la malattia e la morte della madre. Tutto gli passa davanti mentre è costretto a incassare i colpi pesanti dell’avversario che ha, stranamente, “gli occhi seri, intensi, scavati, dolci” come quelli di suo padre e il maestro continua a urlargli nelle orecchie “non farti distrarre dalle apparenze”, frase che gli suona totalmente priva di senso. Intanto una pioggia fitta e monotona cade ininterrottamente e non è neppure simbolicamente purificatrice. È una sorta di “Black Rain”, una pioggia sporca che inonda di sé le miserie del mondo mettendone in tragica evidenza lo squallore. Nel racconto di Purita la boxe diventa, attraverso una scrittura di notevole suggestione e originalità, lucida metafora della vita. 80 2° classificato Domenico Strangio Il mio paese è… Uno spuntone di roccia, che come un dito dal fianco della montagna si stacca verso il cielo; e che a guisa d’una prua di maestoso veliero si protende leggero nell’immensità del vuoto. Sospeso nel nulla, come fosse un balcone. E quando in inverno la tramontana soffia gelida, e quando in autunno le acque impetuose della fiumara sottostante travolgono ogni cosa, e quando il mare verde dei giardini di aranci è coperto dalla calura soffocante dell’estate, sempre più bella e imponente si scorge l’intera nave di pietra, che scivola lieve e altèra sulle case bianche abbarbicate sui costoni aspromontani dai colori degli oleandri e delle ginestre in fiore. Case antiche e nuove che occhieggiano silenziose e furtive l’aprirsi del vasto spazio verso sud-est; e che spiano con un lieve spostare delle tendine delle ampie finestre, dai vetri colorati, un eventuale viso forestiero, un passo non solito. Il mio paese è una fiumara, il Bonamico, che alle prime piogge si ingrossa talmente da sembrare il Rio delle Amazzoni; ed essendo privo di argini si diverte ad allagare gli agrumeti e se li trascina verso il mare, per la dannazione degli agricoltori, testardi e bestemmiatori. Il Bonamico a primavera inoltrata diventa una bestia rabbonita e dorme su un letto che è una pietraia assolata, in un paesaggio lunare. Allora la sua immagine sembra riflettere il volto scarnito delle 81 donne che non hanno più lacrime da versare, perché hanno pianto troppo sui corpi, senza vita, dei loro cari. Ma è lo stesso fiume che poi, nella furia degli eventi, si fissa sul viso di altre mamme e figlie che piangeranno a loro volta, molto di più delle prime; e che, impaurite e stravolte, imploreranno pace, o che, invece, con il cuore gonfio di odio, pretenderanno dai loro congiunti ancora vendetta per tutto il tempo che verrà. E il sangue di fratelli sarà versato all’infinito. Il mio paese è un antico monastero basiliano, sperduto tra i monti; irraggiungibile. Privo di monaci. Ma per la festa della Madonna, il 2 settembre, sono decine di migliaia i pellegrini che vi accorrono da ogni parte della Calabria, e della Sicilia. Ognuno di loro desidera sciogliere un voto, ognuno chiede una grazia, ognuno lascia un pensiero. Un monastero dove sacro e profano si fondono e nel tempio si prega e si impreca. Il mio paese è uno splendido parco. Quasi tutto il suo territorio comunale fa parte del Parco: torrenti e colline, montagne e valli. Eppure la sede si trova altrove, come d’altra parte è la sede dell’inutile comunità montana. Se qualcuno la cerca, magari la troverà in un paese della costa, in riva al mare. Da sfrontati, ancora una volta è stato ingannato; defraudato di ciò che gli spettava. Il mio paese è da sempre uno sfregio insopportabile e permanente al buon senso, alla vista, alla logica, all’intelligenza degli uomini. Si deve volutamente non guardare per non vedere l’obbrobrio di una, dieci frane immani, che puntualmente a ogni inverno scivolano a valle; in modo orrendo deturpano il paesaggio, come le cicatrici sfigurano il viso e le piaghe purulente tutto il corpo. Il mio paese è lo scarto, il rifiuto della società cosiddetta civile. È la 82 dimenticanza inspiegabile, ossessiva e continua da parte di Dio. È il silenzio assordante, capace di squarciare il cielo alemanno nelle notti stellate d’agosto; è l’abbandono cupo che buca l’orecchio distratto e sonnacchioso del centro del potere romano. Tra i suoi vicoli è così difficile coltivare la speranza, perché la realtà di tutti i giorni nega perfino ai più piccoli la felicità e qualsiasi progetto di vita. Al di là dell’ultimo confine della terra è questo lembo desolato di terra; al di là della più squallida periferia del mondo è questa malfamata periferia calabrese. Straziata dal dolore, dilaniata da una guerra assurda, di cui nessuno si sente responsabile o estraneo, perché tutti siamo colpevoli e parimenti innocenti. In verità siamo soltanto dementi. Il mio paese è un mare di lacrime ormai prosciugato; come morto e asciutto è il laghetto naturale, posto ai piedi della frana imponente di Costantino, nel cuore dell’Aspromonte. È un grumo inverminito, un marchio indecente e indelebile, un’infamia, una colpa imperdonabile; è comunque un’aggravante per una sicura condanna, dopo un processo farsa, sommario. Come minimo è un intimidatorio provvedimento di diffida da parte della questura, una proposta di confino o di libertà vigilata. È un arresto in massa di intere famiglie per estorcere loro confessioni e delazioni. Il mio paese è Oxford e la Cayenne senza distinzione alcuna. Centinaia sono i laureati di tutte le facoltà. Però disoccupati, mortificati, delusi e nauseati. Senza numero i detenuti o agli arresti domiciliari o nelle prigioni di ogni regione d’Italia. Ergastolani ai quali non è concesso il diritto di sperare. Murati vivi. Questo paese è mangiatoia di Betlemme e camposanto. Nascita e morte. È arsenale di armi leggere e 83 pesanti; è forziere di banche mondiali. Raramente però, qualcuno verrà sorpreso armato, anche se può sembrare strano; impossibile prelevare o versare denaro in banca, perché qui non esiste alcuno sportello bancario. Il mio paese è sordomuto, divenuto tale nel tempo, perché da altri proditoriamente privato della voce e dell’udito. Ma non si sente menomato, affatto. E quando ha voglia di farsi sentire, dato che da lungo tempo sta ad aspettare e ad ascoltare, e quando vuole gridare al mondo intero l’ingiustizia di Stato che lo ignora e l’opprime come pure la maledizione divina, che gli tormenta l’anima, allora ha delle reazioni da folle; ha le convulsioni. E come per un vulcano devastatore, come per ogni altro tragico evento al suo capezzale precipitose accorreranno le televisioni; e simili a iene immonde i fotoreporter e i pennivendoli della carta stampata si avventeranno sulla preda ormai sfinita. Il mio paese è un malato terminale, che sta esalando l’ultimo respiro. Ormai non si intravede un barlume di speranza. I dottoroni, in camice di lino bianco, e i sapientoni, vestiti di grisaglia, tutti bravi a parole, sprofondati in comode poltrone dei salotti della capitale, disquisiscono di tutto e di niente. Indifferenti e lontani, tronfi della sicumera più spocchiosa e irritante. Mai nessuno di loro che sia venuto qui di persona a portare il proprio contributo di speranza e di effettivo sostegno a questa gente sofferente. Anzi, come a Cristo sulla croce, assetato e morente, le viene offerta in abbondanza l’amarezza del fiele, e del veleno. Il mio paese è anni luce distante da Roma; eppure dista poche ore di volo da Madrid o da Francoforte, da Caracas o da Montréal, perfino da Sydney e da Buenos Aires. Rotte molto frequentate, quasi familiari ormai. In ognuna di queste città, 84 come in altre cento, si troveranno dei Santulucoti, che avranno fatto fortuna nella polvere dei cantieri edili; o che saranno reclusi in un affollato carcere cittadino. Molto verosimilmente, in incognito, dormono il sonno eterno in un anonimo cimitero. Senza lacrime, senza fiori e fotografia sulle loro tombe. Il mio paese è un inattaccabile favo di afrodisiaco miele di Grecia, trafitto e sorretto dagli aculei della pala rinsecchita dei fichidindia. È un nido inavvicinabile di calabroni velenosi, appiccicato sul ramo più alto di un perastro dai frutti per soli navigati ghiottoni. È anche una tela d’incomparabile bellezza di divina pittura; è una fuga suggestiva di tetti in coppi antichi che coprono le case basse, addossate l’una all’altra come per sorreggersi nella caduta; come per aiutarsi vicendevolmente nell’abbandono degli stolti, i quali hanno preferito le comodità della marina. Il mio paese è la donna più bella dell’universo, la più sensuale, affettuosa, estroversa e solare; ma quando le gira l’estro diventa la più spietata e cattiva, la più crudele e frigida, chiusa nella sua durezza e scontrosità, nel suo mutismo di tragedia greca e di mistero insondabile. Il mio paese è una voce senza suono, un urlo muto; da tutti ignorato e che nessuno vuole ascoltare. È il luogo della diaspora, delle fughe, delle assenze; un luogo di fantasmi, di usci serrati, di case vuote. Di uomini fujuti, come del resto latitante è lo Stato. Quelli che sono rimasti, i valenti, sono lì che ti guardano sgomenti dalle lapidi, e sembra che ti chiedano: “Perché?” Crivellati nelle carni, e ricordati dal pianto disperato delle loro donne, eternamente in lutto. La loro più che una domanda per me è un esplicito messaggio, a rinsavire, a smetterla, una buona volta. È pure un luogo di culle a centinaia; di sciami di ragazzi85 ni che per le strade acciottolate disputano interminabili partite a pallone, sognando personaggi e platee impossibili. Il mio paese è terra dell’assurdo e della contraddizione perenne. Paradiso e inferno; luce abbagliante e buio pesto, la dolcezza dell’amore e l’amarezza del fiele. Tutto e niente; vita e morte. Il mio paese è San Luca. E io lo amo quanto e più della mia vita. L’amo perché ha bisogno di essere amato dai suoi figli; l’amo perché ogni sua casa è un Golgota di sofferenza, e ogni suo uscio è l’indirizzo di un carcerato, o di un morto assassinato. L’amo perché dopo la notte buia, violenta di tempesta, sulla collina che lo separa dal mare placido, spunta l’arcobaleno che reca con sé la maestosità dell’incredibile resurrezione. L’amo perché è la luce dei miei occhi, più appagante dell’aurora che incendia il mare, e dei fuochi dei tramonti, i quali divampano di mille colori le alte cime dell’Aspromonte. L’amo perché la sua aria è ossigeno vitale per i miei bronchi; è profumo di pane appena sfornato dai forni di creta e straci; è forte fragranza di origano selvatico e di fieno maturo e di zagara che invadente sale dai giardini della pianura. L’amo perché le sue giovani madri allattano al seno i neonati; e le donne anziane sono delle dee greche d’un tempo, adornate di vesti antiche. Portano sulla testa grosse ceste su e giù per le stradine, dove non si transita se non a piedi. Sono le stesse donne che hanno in dote il sacro dono dell’ospitalità; quelle che salutano appena mi vedono e che mi augurano la buona giornata e la felice nottata. L’amo perché ci conosciamo tutti e alla lontana tutti siamo parenti; perché mai capita che alcuno si senta solo ed emarginato. 86 L’amo perché qui nessuno giammai si è suicidato. L’amo perché a Natale vi si prepara il presepe. Tutto il paese è un presepe, e i suoi vicoli si animano mentre va lieve e struggente la nenia delle zampogne dei pastori. Poi, nella settimana della Passione, il giovedì santo nella piazzetta antistante la Chiesa Madre, un grande falò brucia i fantasmi e illumina il cielo per tutta la notte, con i dodici apostoli che spezzano il pane a un unico tavolo, e bevono tutti dal medesimo panciuto boccale. L’amo perché su per i suoi monti respiro un’aria di mistica atmosfera e mi percorre il corpo una vibrazione sacra. Vi spira un’aura di magia e di energia, di mistero e di spiritualità, di armonia in una dimensione irreale e metafisica. E mi sembra allora che non esista tempo, né spazio attorno a me. Neanche l’odio e la morte. In un’immensità profonda più degli abissi marini e alta più dell’infinito del cielo: quella della mia anima e del mio cuore, che vedo riflettersi negli occhi di chi sa perdonare e di chi è perdonato; di chi sa soffrire e di chi sa cogliere e accettare la mano aperta del fratello. Il mio paese è San Luca. E l’amo. 87 Motivazione San Luca, un paese sperduto nell’Aspromonte, fra la montagna e il mare, sospeso in una dimensione che può apparire fuori del tempo. Qui anche i sentimenti e le passioni si vivono con un’intensità che non è più dei nostri giorni, sia nel bene sia nel male. Paese di migranti, ha sparso nel mondo i suoi figli, sono andati incontro a destini diversi: chi ha fatto fortuna, chi è finito in carcere. Dove c’è un amore assoluto per la vita (nessuno si suicida) ma dove non c’è quasi famiglia che non pianga i suoi morti, vittime di assurde faide. Dove moltissimi sono i laureati che però non trovano lavori dignitosi. Dove lo Stato latita e altri sono i poteri forti che lo sostituiscono. Paese di mille contraddizioni, bello e brutto allo stesso tempo, dove le donne hanno un portamento, una gentilezza innata, una dignità altrove perduti e, nei loro gesti quasi ieratici sembrano antiche divinità di un mondo matriarcale. Per amarlo incondizionatamente bisogna esserci nati e vissuti, come il nostro autore, che ci offre di San Luca un’inedita immagine “dall’interno”, ben diversa da quella che ci presentano di solito le pagine di cronaca nera. Racconto di notevole interesse anche per la qualità della scrittura, talvolta volutamente enfatica, ma sempre ben controllata. Un gesto d’amore che vuole dichiarare, a chiare lettere, l’orgoglio della propria appartenenza a una comunità, malgrado i problemi, i drammi e le contraddizioni che la caratterizzano. 88 3° classificato Sebastiano Bontempo Vita di un ergastolano Lunedì: mi alzo alle cinque, mi preparo il caffè, faccio colazione poi vado in bagno. È ancora presto, cosa faccio? Leggo un passo a caso della Bibbia, comincio ad alzare i cestini, li appoggio sul piccolo tavolo, sollevo il materasso così posso alzare tutto da terra nella mia cella di due metri per tre. Giovanni, il mio vicino di cella, ancora dorme, non posso aprire il rubinetto sennò lo sveglio, mi preparo per la ginnastica e, in attesa che lui si svegli e arrivi il carrello del latte, faccio un po’ di riscaldamento fisico. Alle sette e trenta arriva il latte, ne prendo un bicchiere, adesso Giovanni si è svegliato, posso aprire il rubinetto dell’acqua per fare le pulizie, alle nove c’è l’ora d’aria, io faccio la corsa, alle undici salgo, faccio la doccia, alle undici e trenta passa il pranzo, non ho fame, comunque mangio qualcosa, così per abitudine, faccio un po’ di meditazione, mi aiuta, stando con Dio mi aiuta molto, non mi sento giudicato da lui, soprattutto mi sento amato così come sono. Sono le tredici, c’è l’ora d’aria, siamo tutti pronti davanti al cancello, per non far perdere tempo, ci ritroviamo tutti insieme, ognuno con i conoscenti o parenti, si parla prevalentemente di processi; noi che siamo da più anni in carcere la buttiamo sul calcio, siamo stanchi dei processi, alle quindici rientriamo in cella, mi riposo un po’, poi mi preparo qualcosa da mangiare. Alle diciassette comincia Geo&geo, alle diciotto mangio, dopo aver mangiato faccio le pulizie, 89 alle nove vado a letto, vedo qualche film, ormai li ho visti quasi tutti. La Tv mi stanca, la spengo e cerco di dormire. Durante la notte mi sveglio di colpo, mi assale una gran paura, non so cosa sia, da quando mi hanno dato l’ergastolo mi capita spesso, mi accorgo di non avere più nessuna speranza di uscire, ho perso tutto. Martedì: mi alzo alle cinque, mi preparo il caffè, faccio colazione, vado in bagno, leggo un passo a caso della Bibbia, alzo i cestini, li appoggio sul tavolo, sollevo il materasso, alzo tutto da terra, Giovanni dorme, non apro il rubinetto, faccio un po’ di riscaldamento fisico; arriva il latte, prendo il latte, faccio le pulizie, alle nove c’è l’ora d’aria, faccio la corsa, alle undici rientro in cella, faccio la doccia, alle undici e trenta passa il pranzo, faccio un po’ di meditazione. Sono le tredici, c’è l’ora d’aria, ci ritroviamo tutti insieme, parliamo di calcio o di processi, alle quindici rientriamo in cella, mi riposo un po’, mi preparo qualcosa da mangiare; alle diciassette comincia Geo&geo, alle diciotto mangio, lavo i tegami, alle nove vado a letto, vedo qualche film, ormai li ho visti tutti, spengo la TV e cerco di dormire. Mercoledì: mi alzo alle cinque, mi preparo il caffè, faccio colazione, vado in bagno, leggo un passo a caso della Bibbia, alzo i cestini, li appoggio sul tavolo, sollevo il materasso, alzo tutto da terra, Giovanni dorme, non apro il rubinetto, faccio un po’ di riscaldamento fisico; arriva il latte, prendo il latte, faccio le pulizie, alle nove c’è l’ora d’aria, faccio la corsa, alle undici rientro in cella, faccio la doccia, alle undici e trenta passa il pranzo, faccio un po’ di meditazione. Sono le tredici, c’è l’ora d’aria, ci ritroviamo tutti insieme, parliamo di calcio o di processi, alle quindici rientriamo in cella, mi riposo un po’, mi preparo qualcosa da mangiare; alle diciassette comincia Geo&geo, alle diciotto mangio, lavo i tegami, alle nove vado a letto, vedo qualche film, ormai li ho visti tutti, spengo la TV e cerco di dormire. 90 Giovedì: mi alzo alle cinque, mi preparo il caffè, faccio colazione, vado in bagno, leggo un passo a caso della Bibbia, alzo i cestini, li appoggio sul tavolo, sollevo il materasso, alzo tutto da terra, Giovanni dorme, non apro il rubinetto, faccio un po’ di riscaldamento fisico; arriva il latte, prendo il latte, faccio le pulizie, alle nove c’è l’ora d’aria, faccio la corsa, alle undici rientro in cella, faccio la doccia, alle undici e trenta passa il pranzo, faccio un po’ di meditazione. Sono le tredici, c’è l’ora d’aria, ci ritroviamo tutti insieme, parliamo di calcio o di processi, alle quindici rientriamo in cella, mi riposo un po’, mi preparo qualcosa da mangiare; alle diciassette comincia Geo&geo, alle diciotto mangio, lavo i tegami, alle nove vado a letto, vedo qualche film, ormai li ho visti tutti, spengo la TV e cerco di dormire. Venerdì: mi alzo alle cinque, mi preparo il caffè, faccio colazione, vado in bagno, leggo un passo a caso della Bibbia, alzo i cestini, li appoggio sul tavolo, sollevo il materasso, alzo tutto da terra, Giovanni dorme, non apro il rubinetto, faccio un po’ di riscaldamento fisico; arriva il latte, prendo il latte, faccio le pulizie, alle nove c’è l’ora d’aria, faccio la corsa, alle undici rientro in cella, faccio la doccia, alle undici e trenta passa il pranzo, faccio un po’ di meditazione. Sono le tredici, c’è l’ora d’aria, ci ritroviamo tutti insieme, parliamo di calcio o di processi, alle quindici rientriamo in cella, mi riposo un po’, mi preparo qualcosa da mangiare; alle diciassette comincia Geo&geo, alle diciotto mangio, lavo i tegami, alle nove vado a letto, vedo qualche film, ormai li ho visti tutti, spengo la TV e cerco di dormire. Sabato: mi alzo alle cinque, mi preparo il caffè, faccio colazione, vado in bagno, leggo un passo a caso della Bibbia, faccio le pulizie, alzo i cestini, li appoggio sul tavolo, sollevo il materasso, così posso alzare tutto da terra. Giovanni dorme, non apro il rubinetto. Comincio a prepararmi per il colloquio! Oggi è un giorno particolare perché, come ogni due o tre mesi, ven91 gono dalla Sicilia mio padre, mia madre e mia sorella. Fanno molti sacrifici per me, ma la cosa più grande che hanno fatto è che non hanno mai pronunciato la frase: “Io te l’avevo detto”. Durante il colloquio mia sorella, che vive con loro, mi ha detto che li ha sentiti parlare tra loro. “Speravano che prima di morire ti avrebbero rivisto fuori. Ma ormai sono sedici anni che dici: fra cinque anni ce la posso fare. Io non so più cosa dire.” L’ora del colloquio è finita, ci salutiamo e io rientro in cella. Sono le tredici, c’è l’ora d’aria, parliamo di calcio o di processi, mi chiedono dei miei. Alle quindici rientro in cella, mi riposo un po’, mi preparo qualcosa da mangiare; alle diciassette comincia Geo&geo, alle diciotto mangio, lavo i tegami, alle nove vado a letto, vedo qualche film, ormai li ho visti tutti, spengo la TV. Cerco di dormire, ma l’immagine dei miei, vecchi, stanchi, tristi e delusi è sempre davanti ai miei occhi. Mi sveglio di colpo, mi assale la solita paura. Domenica: mi alzo alle cinque, mi preparo il caffè, faccio colazione, vado in bagno, leggo un passo a caso della Bibbia, alzo i cestini, li appoggio sul tavolo, sollevo il materasso, alzo tutto da terra, Giovanni dorme, non apro il rubinetto, faccio un po’ di riscaldamento fisico; arriva il latte, prendo il latte, faccio le pulizie, alle nove c’è l’ora d’aria, oggi giochiamo a calcio, alle undici rientro in cella, faccio la doccia, alle undici e trenta passa il pranzo, faccio un po’ di meditazione. Sono le tredici, c’è l’ora d’aria, ci ritroviamo tutti insieme, parliamo della partita giocata oggi, alle quindici rientro in cella, mi riposo un po’, mi preparo qualcosa da mangiare; alle diciassette comincia Geo&geo, alle diciotto mangio, lavo i tegami, alle nove vado a letto, vedo qualche film, ormai li ho visti tutti, spengo la TV e cerco di dormire. Lunedì: sono le tre di notte! Mi sveglio e sono sudato, è la solita paura che mi assale. Comincio a pregare, pregare Dio mi aiuta. Non riesco a prendere sonno, succede spesso, mi sono abituato. Sono le cinque, mi alzo preparo il… 92 Motivazione La vita quotidiana di un ergastolano. Lo stillicidio inesorabile di minuti, ore, giorni, sempre uguali a se stessi, il cui ritmo monotono, immutabile, si carica della pesantezza insostenibile di un tempo che non trascorre mai, con i giorni che valgono il doppio, il triplo di quelli normalmente vissuti. Una sorta di sopravvivenza in cui la luce in fondo al tunnel, quand’anche si riesca a intravvederla, è un’ipotesi ancora remota. Appare significativa, nel racconto, la ripetizione ossessiva con cui sono caratterizzati i vari giorni, con pochissime, impercettibili differenze, al punto che lo si potrebbe trasformare in un rap o in una tediosa cantilena. Senza proclami, senza accuse, senza invettive l’autore ci immette in una realtà in cui l’espiazione della colpa non consiste nel carcere duro, nei lavori forzati così cari a tanta tradizione letteraria e cinematografica, ma nella sottrazione, a tempo indeterminato, di ogni normale forma di esistenza, bella o brutta che sia. Fuori del carcere la vita continua, con la sua imprevedibilità, che ne costituisce una delle maggiori attrattive. Tra le mura del carcere ogni giorno sembra sempre lo stesso, rivissuto all’infinito, scandito dagli stessi ritmi, dagli stessi gesti quasi ritualizzati. Efficace e coinvolgente parabola di una condizione (dis)umana la cui reale drammaticità spesso non viene colta all’esterno. 93 Milano edizione 2007: Luca Lischi, Capo di Gabinetto del Presidente della Provincia di Livorno Mariolina Moioli Assessore politiche sociali Comune di Milano Simonetta Polverini Presidente del Consiglio Comunale di Piombino Antonella Maiolo, Delegato del Presidente della Regione Lombardia, Diritti del cittadino e pari opportunità Opere segnalate Francesco Annoscia Ricordi e speranze Questo racconto fa riferimento a fatti realmente accaduti e che accadono ancora. Una vita sacrificata, fatta di gioie, dolori, ansia, angoscia, rabbia, pazienza, perché di quella ce ne vuole tanta, e il tutto racchiuso in un orologio: sembra che cammini, in realtà è fermo. Ebbene sì, qui la vita è ferma: vivo unicamente di ricordi e speranze che solo il mio cuore conosce. Il primo impatto con la realtà di questo istituto è stato forte: ti senti perso, perché non riesci ancora a capire cosa ti sta succedendo, i primi pensieri sono per la tua famiglia che ti mancherà, e chissà quando avrai la gioia di riabbracciare. Non riesci a darti pace, non puoi credere che tutto sia finito qui, eppure sta succedendo a te; se sei colpevole, in un modo o nell’altro ti rassegni, ma non è facile quando ti accusano di azioni che non hai commesso, e neanche hai sognato di commettere. Abbiamo solo sei ore di vita al mese: sono quelle che ci concedono per i colloqui con i nostri parenti. C’è tanta ansia quando li aspettiamo, i nostri cuori accelerano il battito, in quell’ora a tua madre, alle tue sorelle, ai tuoi bimbi vorresti dire tante cose per tranquillizzare gli animi, vorresti dare tanto calore, affetto, amore e serenità: ma il tempo è già volato. Finita l’ora, un’ora in cui sei osservato centoventi minuti su sessanta, i tuoi cari vanno via, ritorna l’ansia, e pensi al bacio dimenticato, a quella carezza non data alla piccola, alle parole d’affetto non dette alla madre. Torni in cella, e 96 ci rimani male: ti senti un grosso peso sul cuore e uno nello stomaco; sarà la fame? No, è l’angoscia, che attende lì come uno sciacallo e non ti molla più. “Enrico!”, esclama l’agente, e sale la tensione, che vorranno ancora da me? “Dall’avvocato!”, e si accendono un sospiro di sollievo e un barlume di speranza: chissà, forse mi porta buone notizie. Mi vesto e mi scortano fino alla sala colloqui, mi fanno accomodare, e inizio a parlare con il mio legale, che mi ripete la solita frase: “Enrico, non preoccuparti, ce la faremo”. È da alcuni anni che la sento a colazione, pranzo e cena… E intanto la mia gioventù, i miei affetti, le occasioni più preziose volano via. Ricordo, come se fosse accaduto oggi, il giorno in cui mi arrestarono: ero a cena a casa dei miei genitori, l’atmosfera era allegra, si scherzava e si parlava del più e del meno, la mia nipotina preferita recitava una poesia, orgogliosa di ricevere un bacio e una carezza da me, il suo zione. Nulla lasciava presagire cosa sarebbe accaduto di lì a poco. L’esistenza di mia nipote è una ragione in più per andare avanti e superare questi momenti difficili. Fu lei, in lacrime, a dire quella stessa sera: “Non tornerà più, come ha fatto papà”. Quelle parole, riferite da mia madre al primo colloquio, da allora sono marchiate a fuoco nel mio cuore. La piccola, purtroppo, ha perso il papà in un incidente diversi anni fa, e io ero il suo unico punto di riferimento, la figura paterna che l’accompagnava nella sua crescita, e che lei sentiva nuovamente venir meno. Volevo vederla a tutti costi, anche per farle capire che sono vivo, che esisto e ci sarò sempre per lei. Quante volte guardo dalla finestra e vedo la gente che passa, le auto, il tran tran quotidiano, la vita che scorre come un fiume in piena, mentre io mi sento fuori da quell’acqua, come una barca tirata sulla riva e abbandonata. L’immagine della barca mi è familiare, mi ricorda il mio lavoro che svolgevo con tanta cura e passione, perché mi 97 piaceva: ero imbarcato come mozzo sulle navi passeggeri. Anche lì ero lontano dalla mia famiglia, ma era un buon lavoro, e lo facevo perché così potevo conoscere mondi diversi, entrare in contatto con culture differenti, e arricchire in questo modo la mia valigia dei sogni. E intanto il tempo scorre inesorabilmente e ogni settimana leggo la sofferenza negli occhi lucidi di mia madre, che scompare quasi magicamente quando mi vede stringere e baciare la mia nipotina, e allora quell’ambiente freddo all’improvviso si riempie di luce e calore: “Mi manchi tanto zione, ti voglio bene!”, esclama la bimba. Il mio cuore si riempie di gioia: “Anch’io, piccola!”. È notte; sdraiato su questo letto al buio sto pensando a casa mia e alla mia famiglia. Forse qualcuno già dorme, mia madre starà guardando ancora la Tv. È notte; mi sembra di udire parole e suoni mai sentiti. È notte; i ricordi dei bei giorni trascorsi con Mario, il papà della piccola, riaffiorano nella mia mente. In una di queste interminabili notti mio cugino mi è apparso in sogno, ripetendomi le stesse parole che mi disse da vivo: “Enrico, proteggi la mia famiglia come se fossi me”. E così arriva nuovamente il giorno del colloquio. Mia madre mi porta la biancheria pulita, che ha il profumo di casa mia: non vorrei perdere neanche un minuto di quel profumo che mi inonda di ricordi e sensazioni familiari. Comincio a sognare a occhi aperti, e a immaginare il ritorno fra i miei cari pieno di festa e allegria. Oggi ho pensato di raccontarvi la mia giornata con i compagni di cella. È martedì, ed è una giornata molto particolare rispetto alle altre, perché attendiamo con tanta ansia il momento in cui telefoniamo ai nostri cari. Quando arriva il mio turno, ogni volta sento tremare le 98 mani e la voce per l’emozione: “Ciao piccola, tutto a posto lì da voi?”. In quell’attimo vorrei dirle tante cose, ma il tempo scorre veloce e, quando l’appuntato mi dice di interrompere la telefonata, ritorno in cella sentendo di aver regalato almeno un minuto di emozione alla mia nipotina. La sera, le ore passano giocando a carte con gli amici o scrivendo lettere: sono momenti in cui la mente lascia spazio a dolci pensieri, che mi accompagnano fino a notte fonda. Il giorno dopo mi alzo, preparo la colazione, e sono arrivate le nove, andiamo fuori all’aria e giochiamo a calcio, la mia passione. Quando gioco tra finte, dribbling, assist e gol faccio divertire i compagni di squadra e gli spettatori, che a fine partita mi fanno sempre i complimenti e dicono che sono un asso, un campione. Un campione, è la stessa parola che mi ripetevano quando avevo solo otto anni, e giocavo in una squadra di poco valore, una società povera e senza ambizioni. Fu un anno indimenticabile. C’era una persona che veniva ogni domenica a guardare le mie partite e, avendo notato il mio talento, a fine stagione mi portò a giocare in una squadra di categoria superiore: quella persona era il mister, De Trizio, ex giocatore del Bari. Ero solo un bambino, ma per me era un sogno giocare nel Bari: e il sogno si avverò. Il mister riponeva in me la sua fiducia, perché giocavo alla grande, all’epoca ero il giovane talento più forte, e tutti tifavano per me, specialmente le mamme dei miei compagni di squadra, che venivano a vedermi ogni domenica e sussultavano ogni volta che toccavo la palla facendo impazzire gli avversari con le mie finte. Credeteci, solo nel girone di andata segnai ventitré gol, nonostante non avessi un ruolo da attaccante. Ero fantasista, e giostravo la palla con fatasia come un vero regista. 99 Questo mio talento venne riconosciuto qualche anno dopo anche da una grande società: la Roma. Quando sentii che mi avevano selezionato, il mio cuore batteva all’impazzata, e piangevo di gioia perché era un traguardo che avevo raggiunto nonostante i miei tredici anni. Mia madre però fu chiara: “Io non posso seguirlo fino a Roma, perché non posso lasciare il resto della famiglia”. Ricordo perfettamente questa frase, che lei riferì al mister: all’improvviso mi sentii crollare il mondo addosso e capii che il mio sogno era svanito. Continuai così a giocare nella primavera del Bari e, dopo aver vinto il titolo di Campioni d’Italia, abbandonai definitivamente il calcio e la mia carriera per un grave infortunio. Oggi, a distanza di dodici anni sono qui, davanti a questo computer, in quest’aula piccola e fredda, a raccontare la mia esperienza, i miei sentimenti e le mie sensazioni. È qui che frequento il secondo anno di ragioneria, è qui che condivido le difficoltà e le soddisfazioni dello studio con compagni e insegnanti, attraverso un costante confronto e scambio di emozioni e nozioni. Certo che ne è trascorso di tempo! Giorni, ore, minuti passati spesso nel buio più profondo, ma pur sempre legati da un sottile filo di speranza: in fondo al tunnel anche per me c’è uno spiraglio di luce, ne sono sicuro. 100 Lorenzo Bozano Galeoni e vascelli per riscoprire un uomo Una cella si affaccia, appena oltre le sbarre, sull’ampia distesa tranquilla di un braccio di mare turchino, su cui domina dall’alto l’austera rocca di un’antica fortezza spagnola, dal 1870 il penitenziario di Porto Azzurro. Un volo di gabbiani, che portano sulle ali gocce di salsedine smeraldo e il profumo frizzante del salmastro, fende l’aria nello specchio della finestra spalancata, una sorta di prua che si protende verso l’orizzonte convesso. Una cella che non è una cella: quasi una conchiglia, che ritma il respiro della marea e il frangersi dell’onda, come a dar vita a un sottofondo continuo e in esclusiva. In un angolo la branda, fedele scialuppa di salvataggio per attraversare in solitario le notti tempestose della sofferenza dei troppi anni di galera. Due tendine svolazzano sotto la brezza frizzante, carica dei profumi di questo squarcio di primavera, che galleggia nel cobalto. Alla luce tiepida del mattino di primavera brillano cento cartoline appese, un collage di ricordi che ricopre tutta la parete: immagini di mare che odorano di casa, di un’altra isola che gli è patria, quella Sardegna profonda che al Sud si crogiola al sole quasi africano. Nell’angolo in faccia regnano, sovrani su tutto, il palpito incessante e l’animazione di un cantiere navale in centesimo: trinchetti e pappafichi, alberi maestri e verricelli, pagliolati e assicelle di noce per il fasciame. E precisamente ordinati su una rastrelliera gli attrezzi indispensabili: traforo, piallino, carta vetrata d’ogni tipo, trapanino a mano, pennelli per tirare la vernice, e… tanto ingegno. Alla fonda immaginaria si dondola maestosa una Amerigo Vespucci più lunga d’un metro: la 101 sua linea è agile e slanciata, la velatura perfetta si gonfia come un respiro. Tre alberi con due ponti, il modello della celebre navescuola della Marina è ricostruito con cura certosina in ogni minimo particolare. Al suo fianco, in un impossibile accostamento di velieri di epoche così diverse, geme il sartiame di una Santisima Madre (con una esse sola, alla castigliana), splendido e grandioso vascello spagnolo del 1700, tre alberi di vele quadre, uno specchio di poppa che è un capolavoro di sculture lignee, tre ponti e cento cannoni. Sullo scivolo del prossimo varo, lo scafo di uno sciabecco corsaro del 1750: l’Indiscret cresce ogni giorno sotto le mani abili e pazienti di un pirata buono. Si chiama Antonio e, nonostante i suoi cinquantacinque anni, ha conservato un sorriso fanciullesco, semplice e pulito. Un uomo che nella sua vita ha conosciuto soverchie traversie giovanili che, per certi aspetti e perfino suo malgrado, l’hanno condotto a diventare un carcerato di lungo corso, un ergastolano. Nato sulla battigia, la stanza dove emise il suo primo strillo sorgeva su una spiaggia di pescatori, fu svezzato a base di sardelle, granchietti e moscardini. Il suo primo e ultimo giocattolo fu una stella di mare carmino, mentre dei gusci delle cozze faceva palette per i suoi castelli di sabbia. Trovò la sua prima scuola all’ombra delle reti da pesca, un vecchio marinaio le ricuciva tirando boccate di fumo azzurro da una pipa di coccio, raccontando ai monelli storie di mare e di avventure nella burrasca. Adolescente, rimasto orfano, quando non riusciva a saltare su una barca altrui per una giornata di pesca e una minestra, gironzolava in un cantiere di carpenteria navale lì vicino: lo chiamavano “su piccioccheddu”, curioso apprendista dei misteri della calafatura… Crebbe nutrendo il suo scheletro di fosforo, irrobustendo il suo fisico sotto la sferza della tramontana, o lottando corpo a corpo con una vela gonfia di libeccio. Poi ci fu la guerra, lungo 102 e sconquassato periodo con tante storie dentro. Storie sempre brutte, che sconvolsero anche per lui gli equilibri già fragili della pesca, del cantiere e della minestra. Persa la guerra restò la fame, la più cattiva consigliera che ci sia. Sbandato, frequentò persone tra le più sbagliate. Finì come doveva finire: la fame gli passò quando ormai erano trascorsi anni e anni di galera. Tanti. Ora però sono troppi. Antonio ha ritrovato il suo sguardo pulito di ragazzo, alla scuola del vecchio pescatore ha aggiunto le ghirlande dei pomposi diplomi dello Stato, il suo tempo di carcerato è ammobiliato da sei giorni di lavoro e uno di attesa. Un pirata buono che prima di tutto è un uomo. Ricostruisce velieri aspettando la sua buona brezza, quella che un giorno, chissà quando, lo riporterà al mondo e alla sua terra. Il Servizio Meteorologico faccia uno sforzo… 103 Girolamo Di Gregorio L’estrema unzione Era d’uso una volta raccontare fatterelli più o meno veri, fatti curiosi, per alimentare la cronaca, raccontati in segreto tra le risate, che formavano la cultura popolare contadina. Non appena Giovanna espresse il desiderio di volersi confessare, Maria scattò come una molla e corse a chiamare il prete. Quando arrivò, bussò agitata alla porta e il parroco corse ad aprire. “È grave, è grave, ha chiesto i sacramenti, padre faccia presto!” “Vengo, vengo subito…” rispose il prete. Il prete prese l’occorrente, chiamò il sacrista perché lo accompagnasse e si avviò. Appena arrivato alla casa della moribonda, alzò la mano in segno di benedizione e le persone che erano vicino al letto dell’ammalata uscirono, compreso l’addolorato marito. La moglie aveva chiesto il prete per fare l’ultima confessione, e ciò significava che sentiva venir meno le forze. Il marito se ne stava zitto con lo sguardo fisso nel vuoto… Sentiva di perderla, e rivedeva tutto il loro passato in ogni minimo particolare. La rivedeva giovane, come quando l’aveva guardata la prima volta con gli occhi pieni di desiderio… La rivedeva il giorno delle nozze, commossa e con gli occhi pieni di lacrime… Poi rivedeva la vita trascorsa insieme per quindici anni. Si sentiva colpevole verso di lei; colpevole di non averla saputa apprezzare per quanto valeva, di non averla amata tanto 104 quanto l’avrebbe potuta amare; pensava alla gioia e alla felicità che non le aveva dato e che avrebbe potuto darle. Il cuore gli batteva forte, e sentì di amarla come non mai. “E se muore?” disse fra sé… E un brivido gli scosse tutte le membra, gli attraversò il corpo; sudava… sudava freddo. Alzò gli occhi al cielo in segno di preghiera. Dopo un po’, “Nicola” chiamò il prete, “Vostra moglie vi vuole parlare”, e se ne andò “Forse vuole darmi l’ultimo addio” pensò il marito, e si precipitò dentro. Si avvicinò al letto senza poter pronunciare parole, aspettava con ansia che la moglie parlasse per poi dirle tutto ciò che aveva nel cuore. “Nicola” disse con un filo di voce la malata, “mi devi perdonare, se tu non mi perdoni, non posso morire tranquilla; avrò una lunga agonia, soffrirò molto, ma non potrò morire.” Guardava e tremava “Che cosa dovrei perdonarti, tu sei stata un angelo! Sono io che debbo chiedere perdono a te”. Abbassò la testa; la voce gli tremava. La moglie gli chiedeva perdono… Si era commosso e a stento tratteneva le lacrime. “Mi devi perdonare”, continuò l’ammalata. “È la febbre, il delirio” dissero i parenti che si erano avvicinati al letto. “Sì, ti perdono, non pensarci più; stai tranquilla, calmati.” “Io ti ho tradito, questa mancanza me la perdoni?” A queste parole il pover’uomo ebbe una scossa. “Tu, tu” disse fremendo “e con chi?”, il suo viso divenne paonazzo; strinse il pugno, e tutto il dolore provato prima cambiò in un istinto feroce. “Non crederle, Nicola”, dissero tutti i presenti, “è la febbre, è il delirio dell’agonia; Giovanna è stata una donna onesta, noi la conosciamo.” “Gesù, Gesù! Che sono queste cose!”, alcune si fecero il segno della croce. “È il diavolo! Il diavolo che le suggerisce, il diavolo che vuole quest’anima santa! Subito prendete l’acqua benedet105 ta, affinché la tentazione scappi, scappi!” Una parente prese l’acqua benedetta e ne gettò alcune gocce sul letto e per terra. Ma l’ammalata guardava il marito e affermava di averlo tradito. “Con chi? Con chi?!” esclamò il marito furibondo… “Con Guglielmo, quello che se n’è andato in America…” “Da quanto tempo?” La moglie non rispondeva, solo chiedeva perdono, perdono per poter morire tranquilla. “Ti perdono, ti perdono…”, disse il marito, e pronunciò le parole come una condanna. Uscì dalla stanza con un diavolo per capello; voleva gridare, voleva piangere… “Mi ha tradito, mi ha tradito!”, sedette sullo scalino della porta e si prese la testa fra le mani. “Disgraziata! Disgraziata! Mi ha tradito! Ma se muore la perdono, se vive… Faremo i conti. L’ammazzo! L’ammazzo!” L’indomani, Giovanna morì. Nessuno credette all’infedeltà di cui essa stessa si accusava: “Era una donna buona e onesta…”, dicevano tutte. “Meno male che è morta”, commentavano nel vicinato, “se campava, chi lo avrebbe persuaso il marito che sua moglie era una buona… Era la tentazione che la faceva parlare! L’accompagnarono al cimitero, e lungo la strada il marito mormorava tra i denti: “Se non moriva, l’ammazzavo!”. 106 Francesco Di Pasquale Click O voi che credete, in materia di omicidio vi è stato prescritto il contrappasso: libero per libero, schiavo per schiavo, donna per donna. Chi di voi, dopo ciò, trasgredisce la legge, avrà un doloroso castigo. Corano, Sura II Al-Baqara Il sole sorge oltre la moschea e si proietta contro la mia finestra. Il minareto traccia come ogni mattina la sua ombra nella mia stanza formando una sorta di meridiana che attraversa il tavolo e si protende sul muro. Il Muezzin intona il primo richiamo per l’assobh, la preghiera del mattino; prendo il mio zarbiya, lo srotolo e lo adagio sul pavimento. Tolgo le scarpe e in piedi inizio a pregare Allah il misericordioso. Un’altra giornata inizia, è quella della mia seconda morte. Non sono mai stato molto religioso. Pensavo che questa carenza fosse dovuta alla mia visione della fede come un appiglio che le persone usano quando vogliono sfuggire allo sconforto giornaliero oppure come sostegno per tutti quelli che, nel mio Paese martoriato, non hanno la forza di ribellarsi all’oppressore. In questi ultimi tre anni mi sono ricreduto. Souad era mia moglie, la conobbi all’età di quindici anni, io ne avevo due più di lei. Avrei dovuto aspettare tre anni prima di poterla sposare, perché suo padre, sunnita, non voleva darla in moglie, e poi non sarebbe stato un buon momento per celebrare le nozze, perché il presidente del mio Paese aveva invaso militarmente il Kuwait. Era il 1990. 107 Passai quell’estate a guardare le truppe ammassarsi al confine, mentre la propaganda ci convinceva che il Kuwait era una nostra regione e che avevamo il diritto di riprendercela. Tutto quell’entusiasmo terminò a gennaio dell’anno seguente, quando l’Onu deliberò una risoluzione che prevedeva l’uso della forza da parte dei Paesi occidentali capeggiati dagli Stati Uniti, affinché cessasse l’occupazione del Kuwait. L’Iraq si trovò così diviso tra la politica imposta dal presidente e le minacce di ritorsioni militari internazionali. In mezzo a tutto questo: io e Souad. Eravamo troppo giovani e parecchio innamorati per capire quello che avveniva in realtà e, ancora più rilevante, il nostro sentimento ci faceva vivere con incoscienza anche la circostanza per cui il liberatore del Kuwait diventava invasore dell’Iraq. Dopo i primi echi di bombe, conoscemmo la paura e la imparammo osservando i volti dei nostri soldati che ripiegavano dal confine, inseguiti dalle truppe americane che “visitavano” tutte le case alla ricerca di uomini da catturare e, un pomeriggio d’inverno, visitarono anche la casa di Souad. Il pretesto fu quello di cercare suo fratello Youssif, dicevano facesse parte dei servizi segreti, ma ben presto si capirono le vere intenzioni che avevano: oltre alla razzia, prevedevano una sistematica violenza su chiunque non volesse collaborare. Sarebbe bello poter dire che Souad fu risparmiata da una simile sorte, sarebbe ancora più bello poter dire che gli americani si comportarono da esseri umani, ma la realtà fu più cruda di quello che ci piacerebbe raccontare. La guerra non è uno spettacolo televisivo, come molti occidentali hanno imparato a conoscere dalle riprese dei network, e non è nemmeno una finzione, assimilabile a quella cinematografica: è una tragedia vera, con sangue vero, con lutti veri ed è terribile quando viene vissuta senza uno schermo che ti protegge. Superai parecchie difficoltà per fidanzarmi, una fra tutte era la legge coranica che prevedeva la flagellazione della 108 donna che si è lasciata violentare. Il padre di Souad voleva applicare la legge alla lettera e non era valso nemmeno il riconoscimento del tribunale internazionale che sanzionava i tre militari responsabili a distoglierlo dall’intento: Kalid non la riteneva più figlia sua, in quanto lei non si era uccisa dopo l’infamia subita. La mia estrazione sciita offrì al mio futuro suocero l’occasione per differire quelle intenzioni, sapeva che avrei sposato comunque sua figlia e avrebbe avuto modo, ancora una volta, di dire che tutti gli sciiti non erano veri credenti. Non mi importava di nulla, poteva scaricarmi addosso tutte le brutture e le sciagure che la vita gli aveva riservato, io avrei comunque diviso il mio futuro con Souad. Il matrimonio andò a buon fine; mia mamma Fatiha, insieme a mio padre, riuscì a mettere insieme una piccola dote che ci permise di trasferirci a Negal, un villaggio sulle rive del fiume Shatt al-Arab, dove potemmo iniziare una nuova esistenza. Trovammo una piccola casa nella periferia circostante, e iniziai a esercitare il mio lavoro di artigiano del ferro. Passavo intere giornate a girare per la città raccattando qualsiasi rottame, lo portavo a casa e nel piccolo laboratorio che avevo ricavato dietro l’orticello lo lavoravo, facendogli assumere mille forme. Il lavoro che più mi riusciva era la costruzione di ceste da attaccare alle biciclette e ai carretti e il giovedì, quando scendevo al mercato di Bassora, ne vendevo abbastanza da poter sostenere me e Souad. La nostra vita era modesta, ma non desideravamo niente di più, anche perché una sera di primavera del nuovo millennio appena arrivato nacque mio figlio Imad. Avevo raggiunto l’apice della felicità: io, Ben Hamza Mohamed Ali Jaber, ero diventato padre, e mia moglie si era davvero gettata alle spalle il suo tremendo trascorso. Ma il destino a volte riserva l’impensabile alla mente umana e in breve mi resi conto che mi sarebbe stato avverso. Fu durante la seconda invasione americana. Quella 109 volta i rumori di guerra furono ancora più fragorosi della prima, e la paura era più tangibile perché stavolta dovevo proteggere anche mio figlio. L’angoscia ripiombò nella nostra vita, in quella del mio bambino, in me, in mia moglie, e in lei tornarono anche i mille fantasmi che in passato l’avevano perseguitata. Lo stesso Paese, le stesse divise dei soldati, lo stesso dolore. Cercavamo di vivere alla giornata, sperando che la guerra non toccasse il nostro villaggio, ma ben presto mi resi conto che era una vana speranza. Un giovedì sera, al ritorno dal mercato di Bassora, vidi alcune case del mio villaggio distrutte. Il fumo saliva da cumuli di macerie, per strada persone che piangevano, imprecavano, cercavano a mani nude di scavare fra i detriti, qualcuno si aggirava per la strada con lo sguardo perso nel vuoto. La paura mi prese allo stomaco, non volevo credere all’impensabile, iniziai a sudare, mi misi a correre verso casa mia, le tempie mi scoppiavano, il cuore sotto quello sforzo pompava sangue e ne sentivo il battito in ogni muscolo. Correvo all’impazzata, cercando di raggiungere la mia casa, non riconoscevo nessuno, cercavo con lo sguardo un punto di riferimento, un muro familiare. Dove sei casa mia? Dove sei Souad? Continuavo a gridare: “Imad! Imad! Imad!”. Non c’era più niente di ciò che avevo lasciato al mattino. Niente che potessi ricordare con la mente offuscata, non c’era casa, orto, laboratorio. Non c’era famiglia. Fu la mia prima morte. Verso l’alba trovai il corpo di Souad, dopo aver spostato molti detriti. Era riversa con il viso rivolto al pavimento. Da sotto il suo fianco vidi il braccio di nostro figlio, aveva una piega innaturale. Alzai il corpo di mia moglie, lo girai e le sue braccia cingevano il bambino in quell’ultimo gesto di protezione che solo il corpo di una madre può dare. Aveva cercato di preservarlo dal mondo che gli cadeva addosso, sembrava quasi volesse rimetterlo in grembo, 110 quello stesso grembo che un tempo era stato per lui un alveo protettivo, tiepido e molle. Non ricordo se piansi o se mai smisi di farlo per tutta la notte, ma ricordo che qualcuno mi aiutò a sollevare i corpi e a condurli nel luogo comune di sepoltura che era stato approntato. Sulla terra che man mano veniva gettata sui loro cataletti elevai la mia prima preghiera. Qualche mese dopo seppi che i “signori” del mondo, gli “esportatori” della democrazia, coloro che provengono dalla “patria d’eroi” avevano giustificato l’accaduto con una semplice espressione: danno collaterale. Che strano termine per indicare la morte! Mi alzo dallo zarbiya, ho ancora tempo prima della seconda preghiera, calzo le scarpe e mi dirigo verso l’armadio. Apro le ante e vedo appesa la cintura. La prendo, l’appoggio sul letto, apro il cassetto e tiro fuori gli involucri. Quanta forza distruttiva c’è in ogni panetto. Inizio a sistemarli negli appositi occhielli del cinto, sono quattro in totale. Il primo bossolo per la violenza su Souad. Il secondo per la sua morte. Il terzo per il piccolo Imad. Il quarto per il mio dolore. Prendo i detonatori, li infilo nel plastico, li unisco con il filo elettrico tra loro e ne lascio abbastanza perché possa passarlo, attraverso la manica della giacca, fino ad arrivare alle mani. Controllo il congegno di innesco. È un semplice pulsante che sembra far parte di un videogioco. Controllo lo scatto. Click. Funziona. Che strano quel lieve rumore, dicono che sia l’ultima cosa che si sente. È quasi tutto pronto. Manca un’ultima cosa. Mi reco in bagno, inizio il rituale del lavaggio. Prima le parti intime, poi le mani, tre volte iniziando dalla destra. Ora la bocca, tre volte. Il naso, tre volte. La faccia, tre volte. Ora gli avambracci, tre volte, si inizia sempre con la destra. Poi una passata sui capelli e le orecchie, infine i piedi partendo dal destro. Sono puro, inizio l’Adduca, la preghiera fatta per chiedere. Ripeto: “Allah Akbar” (Allah è grande) trentatré 111 volte; “Al Hamdo Allah” (grazie Allah) trentatré volte; “Subhana Allah” (sia fatta la volontà di Allah) trentatré volte. Poi, per arrivare a cento “Lailaha Allah Shain Kadir” (Allah è potente e vi è un solo e unico Allah). Mi alzo, mi vesto, indosso la cintura, la giacca, collego i fili all’innesco, lo stringo nella mano, apro la porta della stanza, attraverso il corridoio ed esco in strada. Davanti a me gente che si muove nel mercatino, lo attraverso, costeggio il muro, giro l’angolo, e vedo il centro di reclutamento americano. Devo stare attento a non sudare, potrebbero scoprirmi e l’innesco fallire. Devo ricordare di dire “Allah Akbar” prima di schiacciare il pulsante, in modo che sappiano che il loro destino si compie. Rallento il passo, stavo andando troppo veloce. Allah sostienimi, sii pronto ad accogliermi, sono un tuo martire. Souad, Imad, arrivo da voi. Staremo insieme per sempre, senza paure, senza dolore, senza guerra. Infliggerò la pena che i vostri carnefici si meritano. Entro nel centro militare, le guardie all’ingresso non mi notano, volti di gente si alternano vorticosamente davanti ai miei occhi. Mi fermo in mezzo allo stanzone tra gli sportelli adibiti alla registrazione delle domande d’arruolamento. Prendo un grosso respiro e urlo: “Allah Akbar!” Si voltano verso di me, i miei occhi incrociano quelli di un ragazzo che avrebbe l’età di Imad. Le mani mi tremano. “Allah Akbar!” ripeto. Inizia un trambusto, persone che fuggono, gente che grida. So che devo schiacciare il pulsante, ma sono bloccato dallo sguardo del ragazzo che, fermo lì davanti, mi scruta e mi penetra. Scappa ragazzo, scappa. Intuisce il mio pensiero, forse è solo istinto, si volta e fugge. Sento rumori di spari, qualcosa lacera la mia schiena, il vuoto è ormai intorno a me. Sto morendo. Alzo gli occhi, allargo le braccia e con l’ultimo fiato che ho in gola urlo ancora una volta. “Allah Akbar” e in tutto quel trambusto e quelle grida, un solo suono giunge alle mie orecchie: click. 112 Corrado Ferioli Ai margini della città Sono le sei di sera; sono stanco e sudato, varco distratto il portone di casa, con pochi rapidi gesti sono sotto la doccia, mi lavo in fretta perché la sera bramosa mi attende. Con altrettanta fretta mi metto addosso i primi vestiti arraffati nell’armadio, conto i soldi, controllo le sigarette, un ultimo distratto colpo d’occhio nella specchiera: sono pronto! Sono fermo davanti al portone di casa, mancano pochi minuti alle sette di sera, e già sono irritato perché Antonio non si vede ancora, poi d’improvviso avverto il rumore delle ruote dell’auto sulla ghiaia della strada; con una frenata si ferma davanti a me e apre la portiera. In un lampo sono seduto al suo fianco sbattendo la portiera, lo saluto con una stretta di mano e via! Nell’auto la musica alta copre i nostri stupidi commenti sulla giornata lavorativa, le parole uscite dalle labbra non corrispondono ai nostri pensieri; entrambi non vediamo l’ora di arrivare a destinazione e il viaggio non è lungo. Il paesaggio collinare scorre veloce e monotono dai finestrini dell’auto, non ci interessa nulla di quello che ci circonda, per adesso l’interesse primario è la prima tappa del nostro viaggio: la farmacia. Con un forte stridore delle gomme, l’auto si ferma davanti alla farmacia. Entro veloce come un felino, salto la fila con prepotenza e chiedo con tono perentorio due insuline e due acque distillate; la farmacista mi guarda con occhio pietoso ma fa in fretta, perché ha paura e non vede l’ora che me ne vada. Pago e salto nell’auto che sgommando riprende il viaggio. 113 19,30: siamo a metà strada e i primi sintomi dell’astinenza si fanno sentire. Nausea, mal di reni e grosse gocce di sudore che mi imperlano la fronte: sto male ma non dico nulla, perché niente deve incrinare la mia immagine. La stroboscopica striscia di asfalto nero mi trasporta verso il “benessere”, nemmeno le altre auto, le strisce bianche della strada o le luci della sera ci distolgono dalla nostra meta. I casellanti, avvezzi a tutto quel che può accadere in autostrada, ci guardano con l’occhio di chi già sa chi sei e quello che stai andando a combinare a Milano. Sono le 20,00: la sera è già scesa, e le mille luci della malfamata periferia nord di Milano ci attendono e ci inglobano in una specie di coltre protettiva. I lunghi viali alberati scorrono veloci, tra prostitute e pusher, immondizia, sporcizia e gente come noi; non siamo lontani dal nostro tipo, ancora pochi minuti e saremo a casa sua. Sto sempre peggio. Ci avviciniamo lentamente alla sua abitazione dall’altra parte della strada, sotto casa c’è suo nipote, Andrea, sedici anni molto vissuti e con la faccia da duro; suo è il compito di selezionare i clienti per lo zio, ma noi non abbiamo questo problema. Sono mesi che ci conosciamo, e difatti appena mi vede mi saluta con un caloroso abbraccio, e ci scambiamo immediatamente l’informazione che a entrambi più interessa: quanta roba compro oggi. Non parlo nemmeno, alzo la mano destra con l’indice e il medio distesi: due, sono due sacchetti da cinque grammi di eroina l’uno. Attraversa veloce la strada e citofona allo zio, dicendo solo il numero; poi mi fa un cenno con la testa e parto veloce attraversando la strada, infilo di corsa il portone, evito l’ascensore perché c’è da aspettare e mi mangio i tre piani di scale. Sto sempre peggio, e la fatica delle scale non migliora la situazione, ormai la camicia è zuppa, e la nausea è diventata quasi vomito, ma resisto perché fra poco tutto sarà finito. Arrivato al pianerottolo, i neon rotti emanano una strana luce, a scacchi; la porta dello zio è aperta, varco veloce la soglia dell’appartamento, infilo rapido la mano destra 114 nella tasca destra dei pantaloni, avverto il contatto con la carta moneta. Sono cinque banconote da centomila lire, il prezzo per stare bene; lo scambio è veloce: i soldi giusti per dieci grammi d’eroina di buona qualità. Il prezzo e la qualità sono di favore, perché ci conosciamo da mesi e ogni giorno lo vado a trovare. Esco in fretta, salutando velocissimo lo zio, nemmeno lo guardo in faccia, in un lampo sono in strada e adesso mi manca anche il fiato. Sto sempre peggio, ma devo resistere. Antonio mi aspetta in auto, il motore è già acceso, mi apre la porta e sono dentro; il caldo dell’auto mi scatena un attacco di vomito, apro la portiera e svuoto lo stomaco sull’asfalto del parcheggio. Lui parte in retro, e per un soffio non cado dall’auto. L’astinenza si fa sentire sempre di più, ma resisto; mi chiede se ho la roba, e non ho la forza di rispondergli, gli faccio un cenno con la testa. Sa dove andare e vi si dirige in fretta, saltando i semafori e passando sui marciapiedi. In pochissimi minuti siamo arrivati: sono orti, un pezzo di terreno dietro quattro condomini che i residenti coltivano nello smog milanese. Siamo fermi, ognuno ha il suo compito, lui scarta le siringhe e apre le fiale d’acqua distillata, io afferro il grosso cucchiaio da cucina da sotto il sedile e ci metto dentro l’eroina: sono circa due grammi. Il passo successivo è quello di metterci l’acqua con qualche goccia di limone per sciogliere meglio l’eroina, fare bollire il tutto con l’accendino, e poi aspirare il magico liquido nelle due siringhe, filtrandolo con l’ovatta del filtro di una sigaretta. Siamo pronti: il braccio sinistro disteso sul ginocchio sinistro, la mano destra impugna la siringa. Pochi secondi d’incertezza se affondare l’ago nella vena oppure no, poi la bestia prende il comando e l’ago affonda delicato nella vena. Ancora non è successo niente, poi lentamente aspiro il sangue nella siringa che si mischia veloce con l’eroina liquida dal colore marrone scuro; poi ancora più lentamente spingo lo stan115 tuffo della siringa verso il fondo e il maledetto liquido, vita e morte mischiate, entra in corpo. Ci siamo, mi sono fatto ancora, una vampata di calore mi sale dalla pancia e un miliardo di punture di spillo mi spaccano il cervello. Pochi secondi e sto bene, sfilo la siringa dal braccio e la getto dal finestrino, mi accendo una Camel, e mi allungo sul sedile godendomi lo sballo. Non guardo nemmeno Antonio, in fondo non mi interessa niente di lui. Le luci in lontananza si fanno più fioche, la musica dello stereo più ovattata, ho caldo e sto bene, non ho più problemi, e inizio a straparlare con Antonio, parole senza senso dalla bocca di un vuoto a perdere. Decidiamo di andarcene, perché sono ormai le 21 passate, e la notte reclama la nostra falsa presenza; con molta calma ci allontaniamo e imbocchiamo l’autostrada per tornare indietro. Prossima tappa: l’autogrill. Il viaggio di ritorno è sempre più calmo e rilassato; il mio corpo sta bene e la mia mente è sgombra da ogni problema ma gonfia di sballo. Antonio mi parla, gli rispondo, ma non so nemmeno quel che dico, mi sembra di essere due persone in una. Arriviamo all’autogrill, ogni sera la stessa scena: entriamo, facciamo un giro tra gli scaffali e acquistiamo da bere e da mangiare. I soliti alimenti per placare la coscienza. Usciamo all’aperto e incontriamo due ragazze sole che ci chiedono un passaggio in macchina per Varese; non sento nemmeno i loro nomi, ma le faccio salire sui sedili posteriori. Partiamo, e non siamo nemmeno usciti dall’autogrill che ci chiedono se abbiamo della roba; anche loro hanno i nostri stessi gusti, e hanno capito che siamo fatti per bene. Non mi fido molto, ma ormai sono in ballo e gli rispondo di sì; per un po’ parliamo delle solite banalità, poi il discorso passa alla roba, e una delle due dice che, se le facciamo sniffare, faranno l’amore con noi. Guardo Antonio, che mi risponde con un cenno della testa: gli rispondo che ci sta bene, e usciamo dall’autostrada per dirigerci in un posto 116 tranquillo di nostra conoscenza. Il posto è dietro una fabbrica dismessa: brutto posto, sporco e decisamente squallido. Le facciamo sniffare, poi si spogliano e iniziamo a fare l’amore, ma mi accorgo che la ragazza che sta sotto di me sta cercando di rubarmi il portafoglio. Le tiro un pugno in faccia, il sangue caldo mi schizza in faccia, di colpo apro la portiera dell’auto e la spingo fuori, la stessa cosa fa anche Antonio, poi parte sgommando mentre le butto i vestiti dal finestrino. Brutta serata, ma la notte continua e non provo proprio nulla per quel che è successo… Può accadere con la vita tossica. Sono ormai le 23 passate quando arriviamo in un locale, noto ritrovo di tossici: scendiamo lentamente dall’auto e entriamo ciondolando. Alcuni nostri amici si avvicinano per sapere se abbiamo della roba. Rispondo di no, perché non voglio rotture di scatole, voglio solo divertirmi, e per farlo affittiamo un biliardo. Non siamo molto lucidi, e la partita si trascina con le palle che schizzano fuori dal tavolo verde: non ci divertiamo e ce ne andiamo. Destinazione discoteca. Non mi piace, ma guida Antonio e decido di andare con lui. Guida troppo veloce, ma la velocità non ci spaventa, rischiamo un paio di incidenti, poi finalmente entriamo nel parcheggio della discoteca. Con calma scendiamo, e ci dirigiamo all’entrata: saltiamo la fila e non paghiamo, perché il buttafuori che conta è un nostro amico. Entriamo, le luci accecanti e la musica al massimo ci accolgono suadenti; vado al bar mentre Antonio si mette a ballare, mi scolo due whisky in rapida successione, e mi siedo su un divano. Mi annoio a morte ma lo sballo mi sorregge, e mi abbandono alle luci e alla musica. Sogno a occhi aperti una vita non mia: belle donne, soldi, successo e grosse macchine. Sogno talmente bene che mi addormento, vengo svegliato dopo molto tempo da una bella ragazza con i capelli rossi. Le piaccio, si vede, ma appena apro bocca si accorge che sono sballato d’eroina: si inventa una scusa e mi molla così, come uno stupido. 117 Non è un problema, è già capitato. La non vita continua; decido di uscire a prendere aria, mi viene voglia di sballarmi ancora, quindi mi dirigo in fondo al parcheggio, dove c’è un posticino tranquillo. Mi faccio un altro buco. Dopo un po’ mi avvicino all’auto di Antonio, lui è lì che mi aspetta: sono ormai le 3 di notte, è ora di tornare a casa. Saliamo in auto e lentamente mi accompagna a casa; distratto infilo la chiave nella toppa, entro nel portone di casa, nascondo la roba in garage e salgo in casa, facendo attenzione a non far rumore. Mi spoglio e mi metto a letto, mi addormento subito, sognando una vita diversa e migliore. Domani sarà ancora autostrada, parcheggi, asfalto e pusher. L’essere riuscito a scrivere un giorno del mio passato da tossico dalla cella di un carcere, ormai sono passati 16 anni, non significa che sia diventato un uomo perfetto, ma solo che la mia mente e il mio corpo si sono staccati dagli schemi del passato, ridandomi la certezza di una vita nuova, lontana dalle vecchie prigioni invisibili e interiori. 118 Marlene Introduzione e premessa Dedico il mio scritto a chiunque abbia mai pensato che la rabbia sia solo un fuoco di paglia, o che l’intelligenza da sola basti ad abbattere mille guerrieri; solo il perfetto equilibrio tra Marte e le Muse, la loro simbiotica unione, può irradiare o far tacere il tutto e ogni cosa. Al thai chi e al kick boxing che mi hanno salvata dall’anoressia. A Senofonte, Socrate, Platone, Euripide, Temistocle, Talete, e a tutti gli stoici per il loro grande coraggio nella ricerca del piacere. A Voltaire che ci ha illuminati tutti fino ad accecarsi egli stesso. Ai folli perché sono diversi, ai coraggiosi che non hanno paura di nulla perché sono deboli. A chiunque abbia voglia di aprire gli occhi anche solo un attimo; a chiunque senta di farcela!!! A mio fratello Armando figlio della rabbia, ma spero presto inebriato dalle Muse. Alla rabbia e all’odio, infine, perché siano flusso energetico e non distruttivo. La forza è nell’equilibrio. Ad Assunta e a suo figlio. Al mio maestro Hory e al mio modello, mio padre! A Luca Marangi, grandissimo artista che ha dipinto il mio corpo come fosse una tela preziosa. A tutto ciò io dedico il mio scritto, 119 e che Nikolaj Gogol mi scusi l’omonimia con una delle sue opere, per me la più bella! Perché Anime morte è ciò che siamo finché viviamo limitandoci a vestire le nostre carni! Salutando il sole anche oggi chinerò il mio capo. Al mattino nuovamente china, Egli mi raggiungerà. Anime morte Nello strano flusso delle energie, la rabbia, alle volte, la fa da padrona. Nella danza senofontea Marte e le Muse si aggrovigliano, appaiono per poi scomparire, danzano a ritmici passi ma con musica di guerra. Quale l’incontro nell’equilibrio del mio saluto al sole? Dov’è la straordinarietà nel saltare a piedi uniti le latrine di fango? Rimango delusa spettatrice, scottante interprete ma, rachitica nei gesti, appaio assai inespressiva in volto, il corpo non si muove, nessuna emozione è palesata. A lungo ho provato nel silenzio a cercare qualcosa, ma erano assordanti le urla di chi vende, nell’alto dei cieli, vane speranze. Urlano le folle dei selvaggi, i barbari al seguito chiedono promesse, eterne nuove conquiste!!! Pacifisti e stoici assordano questi silenzi; astronomi e folle di genti a strappare future previsioni, leggi a me… Leggi dentro me… Nell’alto del cielo speranza!!! Emozioni non in vendita, così poco interessanti, pure il vento pare lamentarsi. Improvviso il rosso illumina il volto di chi stava rivolto a quel cielo pregando… Marte fa il suo ritorno, è solo, infuocato. 120 L’ira irradia il vuoto e coglie i riflessi dei corpi in fuga. Alla rabbia, al fuoco, all’odio, balia di molti, tomba di troppi. Ecco melodie suonate quasi fosse possibile l’austero filosofeggiare d’Eufonia, che il mito stia per avverarsi!? Canti austeri e passionali, danze in drappi di seta, ma sono le Muse!!! Ora! Qui! Adesso! Giungiamo le mani in preghiera. Che calmino Marte, che portino via la rabbia e il fuoco della lotta. Lussureggiante Foresta che fai da scenario, sii posto inequivoco di tale maraviglia, agli uomini mai concessa. Allarga le braccia, Quercia, e nascondi gli occhi, ancora vitrei, di chi non scappa per vanagloria. Giungono le infuocate voci, silenzio!!! Tappa gli orecchi, Vento, d’Eolo soffio. Fallo ti prego!!! Volteggiano drappi di seta, profumi d’ambrosia, ricordi conosciuti saltano al mio pensiero. L’incontro dell’Arte e la Guerra! Nulla vissi mai prima d’ora, né in questa né in mill’altre vite vivrò. Assai lieve da parermi un sogno ma, troppo indelicato sarebbe allora l’abbraccio di Morfeo… Non sogno; è intonato e colto il canto, messali giungono da ogni dove, cariche di viole e roselline. Melodico è il librarsi, affascinanti i gesti: non guardare è assassinio all’arte, fissandolo si muore. M’inebrio, smetto le mie carni e cagna io divengo che insegue di Marte il fuoco, fiuto i suoi passi e m’infiammo mentre balzo al cielo e le vedo discendere sempre più belle. Rantolo, mi scotto, brucia! Lo voglio! Lentamente danzando taluna verseggia la propria strofa. Ringhio!!! Io, cagna che insegue quel dio, che darei, ora, per un suo solo pezzo di carne!!! 121 Ma stanno librandosi ancor più vicine, ora che ne sento l’odore! Mi arresto, in guardia del mio boccone mentre le Tre cominciano a girargli intorno. Osservo. Piano mi muovo, ma fremo. Che odore di rabbia, che voglia di carne, la guerra, la carne, mille battaglie, mio Dio, voglio il tuo corpo!!! Assetata, senza quella ragione che fa l’uomo tale, mi scotto del tuo respiro, tento un balzo… Azzanno la seta delle loro vesti… Ricado. Cagna di Marte annuso i suoi passi, brandisce lo scudo, ma non è tempo di resa!!! Insofferente animale, il sangue, la carne. È mio Signore sol’egli! Riprovo, ancora, ancora, ancora… Con ardue capriole, mi scacciano i loro canti, silenzio!!! Troppo lontani, ora volteggiano i Quattro, uniti dal fuoco delle rispettive passioni. Ancora più in alto, salendo al cielo, verseggiando di battaglie passate in rima simbiotica, come fossero uno lo stesso dell’altro. Ardo, mi rode dentro, che fuoco, che passione!!! Un solo boccone, un brandello di carne a saziarmi sarebbe bastato. Sofferente, affamata… Troppo lontani! Cagna, bestia, animale ma, non nutro rancore, è la passione a spingermi ancora, pur incosciente… Pure se vano è il tentativo, balzo, e tanto più in alto mi spingo, tanto più dolore mi provoco nella caduta! Invasa dalla passione, appena la luce scompare mi ritrovo stupita, sono donna ora, io che vesto solo le carni mie, lacerate dal fuoco. Tutt’intorno animali, uomini, donne e bambini che ridono, pirandelliane risate, sonanti onde contro maestosi scogli. Venere, vieni ora in mio soccorso. Ma Zacinto è lontana e gli sguardi seguono le dita tutte addosso puntate. Sofferente dell’intelletto animale. Mi stringo, mi chiudo in me stessa, sogno, ti prego… 122 Santi Pullarà Casina Corvaja La cancellata che demarcava la tenuta Corvaja era sostenuta da pilastri di tufo. Alla sommità due falchi gentilizi, lì, erosi, custodi del tempo perduto. Tre volte di una catena fermata da un lucchetto serravano l’inferriata. Zù Cola Billeci, il gabelloto, lo lasciava aperto solo durante il periodo della raccolta delle arance per favorire la spola dei motocarri con il mercato. La prima volta che Vannuzzo varcò il cancello Corvaja era un giovinetto. Accompagnava, mano nella mano, suo nonno a trattare le arance con Zù Cola. Zù Cola era un uomo tozzo, basso di statura. Il volto olivastro, solcato da profonde rughe, pativa una precoce senilità. Si copriva la testa con una coppola che teneva anche quando la canicola ne sconsigliava l’uso. I suoi discorsi erano improntati a una singolare moralità. Chiamava sempre in giudizio: “I miei tempi”. Quei tempi di miseria e ignoranza, in cui i vossignoria baruni facevano i loro piacimenti, quando la prepotenza era istruita in nome della giustizia, e chi, per affrancarsi dalle depravazioni, reagiva con la violenza, sopraffacendo i più deboli in una spirale di ritorsioni. Zù Cola e suo nonno negoziavano gli agrumi sotto la pergola di casa Billeci, antistante villa Corvaja. Spinto dalla curiosità di quella villa ripudiata, Vannuzzo si allontanò dai vecchi e dai loro ragionamenti, e si spinse all’esplorazione della casina. L’entrata introduceva in un atrio da cui si diramavano simmetricamente due scale che portavano al piano superiore. Oltre la loggia delle scalinate c’era il salone dei 123 ricevimenti: occupava buona parte del pianoterra, ora era destinato a deposito. Le altre stanze erano vuote o vi erano strumenti di lavoro. I locali del piano superiore erano vuoti fuorché due stanze chiuse e ammobiliate con gli avanzi del fasto dei Corvaja. Era quello l’ultimo ciglio del patrimonio di famiglia. Tutto odorava d’antico. Le volte delle stanze serbavano sbiaditi affreschi di pergole floreali, sostenute da colonne posticce che si levavano dalle pareti come fossero reali. Vannuzzo precipitò in un’estasi di fantasia. Aveva sentito menzionare la casina con disprezzo senza che ne conoscesse le ragioni. Eppure era lì, innocua, a languire nel suo abbandono senza che alcuno le offrisse le attenzioni dovute al suo blasone. “Nun entrare cchiù là dintra”, lo ammonì il nonno sulla via del ritorno. Vannuzzo, con il candore infantile, lo incalzò di perché. Solo a casa il nonno gli raccontò la storia: “I Corvaja erano stata gente ricca e buona. Stavano a Palermo, qui ci viniano a passare l’estati”, così iniziò la sua narrazione. “Lu vecchio, don Tancredi, era omo di principio e di carità, cristianu pevveru, aiutava tutti e tutti ci vuliano grande bene. Quando io e l’altri picciotti tornammo dalla guerra di Cicco Peppe, don Tancredi Corvaja fece ’na gran festa pe’ tutto lu baglio del noce. Pure lu figlio, don Manuele, fu bono, ma fu bono fino a quando campò la buonanima di suo patre. Poi don Manuele principiò a fare lu baruni e nun si ci putia cchiù parlari. A mio patre però lu teneva in dovuta considerazione e ci dava pure lu vossia. “Come a un cane bono accompare la rugna, ’na sta quiete accomparve Lucrezia. “Lucrezia era la figghia di don Manuele; suo patre l’aveva mandata a lu colleggio na lu continente che era picciridda. Quando turnò s’era fatta bedda come ’nu ciuri di zagara. Dritta come ’na spada era e avìa li capelli biondi come lu furmento. D’estate era solita passiare tra l’aranci, sola, sempre vestita di bianco con un paracqua che riparava lu 124 candore di la sua facciuzza da lu sole cocenti. Li viddani la viniravano come fossi la Santuzza. La vidi ’na volta e mi parse ’na creatura divina. Me frate Peppino, cu lu pretesto di lu commercio, sovente si presentava a don Manuele, ma pe’ la via ’ncontrava Lucrezia e scanciava du’ parole. “Du’ parole oggi, du’ parole dumani, finì chi li parole si fecero inghippo. Peppino era picciotto di talento e di beddizzi, li fimmini se lu mangiavano co’ l’occhi, principiò a trescare co’ Lucrezia Corvaja. ’Sta storia presto arrivò a conoscenza di don Manuele e di mio patre. “Li picciotti si volevano bene e aspiravano a legittimare ’sto ’nnamoramento. Mio patre andava tirando la coppola stanza pe’ stanza, ’mprecando che quelli erano nobili, libertini e facili di corna e non si ci vuliva ’mmischiare la roba: ‘Quando mai ’na picciotta per bene gira solo pe’ li jardini!’, diceva. “Don Manuele pestava li piedi perché la mia famigghia, seppure benestante, contadina era. Finì che Lucrezia Corvaja a la casina non si vide cchiù. Si seppe, tempo dopo, che suo padre l’aveva maritata con un conte di Napuli. “Pe’ sta facenna, la bona creanza tra mio patre e don Manuele si fece rancorosa. Quanno a lu governo vennero li fascista, don Manuele ci cadde come ’n’arancio dintra lu panaro. Girava cu ’na divisa ca pareva lu generale Giufà. Accussì parato, ’na duminica matina, si presentò a la casa nostra e cercò mio patre pe’ riconciliarisi, la smanceria era lu pretesto pe’ proporci di farsi fascista come iddu. ‘Fascista io?’, ci disse ‘Li fascisti su peggio di li sbirri, portano divise e danno mazzate.’ “Un giorno Tancredino, lu figghio di don Manuele, tutto vistuto di nero come lu beccamorto di Santa Maria di Gesù, venne, scurtato da quattro sciacalli da sua stessa timpra, a lu nostro magazzino, aveva lu ritratto di Mussolino e ci disse d’appizzarlo a lu muro. Me frate Peppe che di levata era focoso e cu li Corvaja ce l’avia pe’ la questione di Lucrezia, lu quadro ce lu dette na li corna e li cacciò a colpi di pala. 125 “La malindranata nun passò sutta banco. Notte che fu si presenterano li carrubbinieri p’arrestarlo. Peppino se l’era fujuta e grazie all’amici scampò a Tunisi e la fece franca. Pe’ ritorsione arrestarono mio patre e mio frate Ciccio e ci fecero fare due anni di galera. Poi fu lu tempo di Mori. ’Sto prefetto misi a ferro e foco li paesi, li contrade e ’ncominciò a persecuiri l’omini di rispetto. “La casina di don Manuele l’aveano destinata a caserma: ci portavano li fermati. Quando nun trovavano l’omini, arrestavano li fimmini, e co’ li fimmini si portavano li carusi e li tenevano chiusi dintra li stanze ’nguste di quella casa ’nfame, e si l’omini ricercati nun si consegnavano, portavano fimmini e carusi a lu carcere. Là, li fascisti pe’ anni e anni torturarono e ammazzarono cristiani: boni e cattivi. Mio patre e mio frate Ciccio ci subirono ogni sevizia, ma ’na parola nun la dissero. Quanno sbarcarono li ’mericani, don Manuele si levò la camicia nera, si fece alleato e tornò a dichiararsi amico. La gente però nun s’avia scordato della casina. Quando passò la frenesia di la guerra li galantuomini tornarono a ragionare. Don Manuele Corvaja ora faceva lu democristiano e si voleva portare a lu parlamento di Roma. Come nenti avia stato, frisco come ’na rosa di majo, girava co’ lu calesse ’ntra li contrade a garantire lu mundu a cu ci dava lu voto. ’Na sera, lu calesse tornò senza lu barone. Dopo tanto circare, tì carrubbineri trovarono un paio di stivali con li piedi dintra. Furono ricanusciuti come quelli di don Manuele: du resto nun si seppe cchiù nenti. I Corvaja a la casina nun si videro cchiù. Pure a Palermo di ’sta razza Corvaja nun si seppe cchiù cosa. La proprietà se la pigliò Cola Billeci che era stato lu sovrastante di li Corvaja: dintra la casina però nun ci fece mai dimora. “Tempo recente si presentò Tancredino Corvaja: s’era fatto vecchio. Recriminava diritti di proprietà, dopo carte e tribunale si riappropriò di la casina. Voleva principiare a fare lu signore, quanno davanti la porta di la sua casa di Palermo trovò ’na regalia: ’nu porco morto cu li zampi 126 tagliati. Tancredino capì la sonata: si pigliò, muto muto, li cose sue e tornò da dove venne”. Crescendo Vannuzzo conobbe tanti episodi capitati nella casina durante gli anni della repressione. Interrogò superstiti; ascoltò le leggende di notti in cui si levavano i lamenti dei seviziati; studiò le carte scampate ai roghi della Liberazione e ricavò le cause che rendevano quel pregiato liberty un posto così ricusato: ne fece una tesi che presentò all’università per la sua laurea. Su di lui, però, quella casina aveva operato un incantesimo che l’aveva spinto a compiere dei progetti. Suo nonno era morto. Vannuzzo s’era persuaso ad acquistare la casina. Il proposito si era svelato arduo a causa della mancata definizione del contratto di gabella con Billeci. Zù Cola, prima che venisse a mancare, gli riferì che la compravendita doveva farla con Tancredino Corvaja. Vannuzzo lo cercò come un segugio; quando ne ebbe notiza, seppe che anche lui era morto. L’erede esclusiva rimaneva Lucrezia Corvaja. Lei lo ricevette nel suo appartamento napoletano. La cameriera lo fece entrare in salotto. Nella stanza non c’era nessuno: era arredata con gusto. Su una mensola c’erano alcune foto. Vannuzzo concentrò il suo interesse su un ritratto. Lo prese tra le mani: mirandolo rammentò la descrizione che gli fece suo nonno. “La posi pure quella foto, è vetusta come il tempo.” Vannuzzo si voltò, teneva sempre il ritratto tra le mani, e vide una donna alta, magra, con i capelli candidi raccolti sulla nuca e il volto coperto da un intrico di solchi. Nessun indizio la restituiva a quella fotografia. “Siete la signora… La contessa Corvaja?” “Esattamente. Mi è stato riferito che venite da Palermo, in cosa posso aiutarvi?” “Sono Giovanni Terranova, sono venuto per trattare della casina… Spero che abbiate intenzione di vendere.” La vecchia signora rimase in silenzio; dopo una piccola pausa disse: “Appartenete ai Terranova del baglio del noce?” 127 “Per l’appunto.” “Peppino Terranova cosa vi viene?”, gli chiese sommessa. Vannuzzo aveva capito dove stava virando il discorso della contessa. Rispose come se non sapesse nulla di quella vicenda: “Ah! Zio Peppino. Sì… Era il fratello di mio nonno Vanni.” “Era?” “Io non l’ho mai conosciuto. Ho sentito raccontare che era andato a Tunisi prima della guerra, da lì non è più tornato, né abbiamo ricevuto notizie sulla sua sorte.” “Cos’è che vuole?”, riprese la vecchia signora declinando il capo. Vannuzzo le parlò della sua offerta d’acquisto. Riferì delle condizioni in cui era la casina e quali erano i sui progetti di recupero. Chiese infine che la signora facesse un prezzo adeguato alle attuali condizioni dell’immobile. “Mi ascolti”, riprese la vecchia signora “ammiro il suo impeto. A me di quella casa non importa nulla. I suoi occhi mi ricordano qualcuno che mi è stato caro, sicuramente anche lei che fa l’omertoso ne conoscerà il motivo. Quella casa gliela cedo in donazione. Torni tra due giorni così firmeremo la transazione.” “Donazione…”, esclamò Vannuzzo “… i suoi eredi potrebbero contestarla!” “Mio figlio neppure conosce l’esistenza di quel villino, da anni vive a Londra e non torna nemmeno per visitare sua madre.” La casina era stata circondata dai ponteggi per il restauro. Vannuzzo attendeva ai lavori di ripristino con l’entusiasmo che gliene veniva dall’essere prossimo al suo proposito. Una notte il quartiere fu destato da un incendio che era divampato all’interno del cantiere. Bruciò presto e a lungo. I pompieri arrivarono quando anche i muri erano annientati. Anche Vannuzzo era arrivato tardi. Dal baglio i vecchi s’erano precipitati a contemplare le fiamme che nell’aere disperdevano i gemiti e le memorie del villino maledetto. 128 Bruno Rapone Storie di vita La mia vita è un Dvd Rw, dove il blu ricopre la metà della superficie, pari alla percentuale di tempo trascorso in galera lungo i sessant’anni della mia esistenza. Nondimeno, neppure l’altra parte del dischetto è tutta rosa, diciamo che contiene una tavolozza di colori in cui la sorte dipinge un arcobaleno differente da quello delle piogge, a volte pastello come nei giorni migliori, altre che sembra imbrattato dalla coda del demonio, con le tinte fosche proprie dell’inferno. Era un giorno d’estate del 1999, avevo da poco lasciato il casale che abitavo a Valle Martella per un villino di Torvajanica, residence Sabbie d’Oro, a uno sputo dalla spiaggia e a pochi chilometri da Roma, ma sufficienti a dribblare le tentazioni quotidiane. Avevo superato abbondantemente i cinquanta ed era giunta l’ora di una completa abluzione “attaccando gli scarpini al chiodo”, come si suol dire nel mondo del calcio quando si vuole smettere; perciò mi allontanai dai milieu per un’esistenza finalmente tranquilla: mi sarebbe stato concesso? Guadagnavo piuttosto bene come direttore delle vendite alla Golden Product, un’importante ditta americana con sede sulla Cristoforo Colombo e meeting settimanali al Midas Palace sull’Aurelia. Avevo ottenuto dall’imponente direttore generale, come il vescovo riceve l’anello, un brillantino sul revers della giacca, distintivo di grande prestigio. Tenevo discorsi ufficiali, proprio io, sul tema del lavoro e delle possibilità di successo degli operatori di vendita, nella 129 sala di rappresentanza più prestigiosa dell’hotel: si profilava un futuro sereno e potevo cominciare a sognare. In prospettiva, una famiglia da riconquistare e una figlia che fioriva come un pesco a primavera, l’albero più bello del mio giardino, che dopo anni di chiaroscuro potevo finalmente riabbracciare con gli occhi e accarezzarne i germogli che si affacciavano alla vita. “Riconosco i miei errori”, le dicevo, “in carcere attingevo dal mio cuore, come l’assetato l’acqua dalla fonte, l’amore che mi ha nutrito nei momenti disperati e che ha dato linfa ai mio sistema nervoso, là dove dimora l’anima.” Quel giorno ero libero, e pregustavo già un tenero pomeriggio inoltrato con lei, questo pensavo in macchina mentre parcheggiavo nel Piazzale dell’Anagnina, quasi tronfio, il BMW 520 turbo blu metallizzato, e m’infilavo nella metro per evitare il traffico del centro. Raggiunsi il mio amico Massimo, cui avevo dato appuntamento in Piazza Pio IX presso l’autosalone dove avevo visto un’Alfa 156 rosso fuoco. Il suo “gattone”, un vecchio Mercedes 200, andava assolutamente cambiato, il prezzo era vantaggiosissimo, e con il gioco della permuta era una vera occasione. Nonostante l’escamotage, arrivai lo stesso in ritardo, così decidemmo di aspettare l’apertura del pomeriggio, visto che con Romina avevo il rendez-vous verso sera insieme a Bruna, un’altra creatura meravigliosa che non ripagherò mai abbastanza, mentre Pamela, più grande di dieci anni, aveva già la sua famiglia e i nostri rapporti rimanevano affettuosamente stazionari. Andammo a pranzo in un localino adiacente, mi sembra fosse Le Tre Caravelle, ma non ci giurerei, dopo essere andati a zonzo (cosa che amavo tantissimo), per ingannare il tempo. Verso le due e mezzo avvenne l’inverosimile, l’ennesima, ma stavolta ingiustificata cattura insieme all’amico Massimo, per una fantomatica rapina nella banca in via Gregorio VII, poco più su di Piazza Pio IX. In quel tratto di strada ci sono almeno tre 130 istituti bancari in meno di cento metri, e per evitarli, se non hai il turbo sotto il culo, devi possedere un paio d’ali da fare invidia all’Uomo Ragno cosicché, mentre uscivamo dal ristorante e ci accingevamo a prendere un amaro al bar di una figa da sballo intravista nella mattinata infingarda, siamo caduti in un vero e proprio agguato. Nel frangente, si è scatenato un inspiegabile safari, nemmeno lontano parente di quelli cari a Moravia, il mio preferito dei primi anni d’approccio alla lettura, con la differenza non da poco, che l’obiettivo non era l’ignara fiera della savana, ma l’inconsapevole animale d’asfalto. Una trentina di sbirri in motociclette, pantere e a piedi della Quinta Sezione, reparto speciale antirapina della questura di Roma, congiuntamente con il commissariato Boccea, hanno scatenato una sorta di “mezzogiorno di fuoco”. C’erano sceriffi metropolitani e cavalli silenti, in attesa di sprigionare la loro potenza nei motori delle alfette parcheggiate nel cortile della centrale di via Genova, e volanti nelle strade di Roma pronte a nitrire, il più delle volte per gettare fumo negli occhi del contribuente. Era lecito immaginare che fosse accaduto qualcosa di notevole. “Ci dev’essere in corso un’operazione di criminalità organizzata”, pensavo, ma non ho avuto nemmeno il tempo di dare respiro ai miei pensieri, perché ce l’avevano proprio con noi, che attraversavamo la strada, ignari, fischiettanti e spensierati, pregustando sia l’Amaro Lucano che illuminava l’insegna sia le curve della prorompente barista (che culo!). Ma in luogo della sua silhouette si materializzarono uomini in borghese con le canne delle pistole spianate, ahimè persuasi da quel bastardo di Italo, ispettore di polizia sempre in cerca di gloria e di fottere il prossimo, pur di vantarsi di un’operazione che sarebbe andata ad arricchire il suo medagliere di latta. Fatto sta che mi sono ritrovato faccia a terra lungo il selciato con un anfibio ficcato nelle costole, a opera di fanatici con la patente da Top Gun, “ahoo”, esclamai, “ma che cazzo c’avete”, e giù calci alla cieca: come si dice a Roma: 131 “Il sessantotto era finito da un pezzo, ma per il sottoscritto si faceva sempre un’eccezione”. Non entro nei dettagli, ma a onor del vero ne sono uscito assolto (sic!), dopo un’estenuante processione a piazzale Clodio per le varie fasi processuali, porca miseria zozza! Se non posso più camminare a piedi per le strade della mia città, speditemi su un altro pianeta, ma per carità, dove non ci siano sportelli bancari! Intanto mi sono fatto una ventina di giorni schifosi di Regina Coeli, choc cui non ti puoi sottrarre nemmeno se fossi stato vaccinato al vetriolo. Giunti all’Ufficio Matricola: “Rapone, la cintura”, “Rapone, i lacci delle scarpe”, “Rapone, gli oggetti preziosi”, “Rapone spogliati, e abbassati le mutande, e fai la flessione, per guardarti il buco del culo, e ora rivestiti!”, “Rapone, dammi la mano destra, passa l’inchiostro sulle dita: pollice, indice, medio, anulare, mignolo”, “Mortacci vostra! ’A brigadiè, ce n’avrete un mijone de st’impronte!” Ennesimo sacrificio al dio Stato, lì ho maturato l’idea che alla mia età è quasi impossibile affrancarsi dal sistema per voltare pagina: era scritto che io dovessi riprendere il percorso obbligato. Ne uscii fiaccato nel fisico e nel morale, non potete immaginare la delusione della mia famiglia che avrebbe fatto fatica a capire; la purificazione non aveva funzionato. Cosi lasciai il lavoro e ripresi i contatti con “quelli che avevo perso di vista”, ben presto accumulai molto denaro, ma nella stessa misura anche molti guai (“il crimine non paga”, mi diceva un giovane magistrato napoletano cui stavo simpatico durante gli anni della mia giovinezza): niente di più vero. Man mano che trascorrevano i giorni, sentivo l’alito sul collo dei segugi, perciò decisi di procurarmi l’alias per cambiare aria. Mi rifeci una verginità prendendo il nome di un noto professionista dell’Olgiata, il dottore odontotecnico Giuseppe Sascaro. 132 La prima tappa la feci a Barcellona insieme a Jorge, un simpaticissimo sudamericano che mi avrebbe fatto dannare. Mi ero portato dietro una trentina di milioni delle vecchie lire, e gli mostrai un biglietto da cinquecentomila: “Lo vedi”, gli dissi sventolandoglielo sotto il naso, “il giorno che dovessimo fare ricorso a questo”, tenendolo tra pollice e indice, “vorrà dire che dovremo fare miseramente ritorno a Roma”. Intanto ce la spassammo un po’ tra Plaça Cataluña e la rambla che porta verso il Mediterraneo; presi casa in un residence di Calella, più volte scesi fino a Valencia per un blitz che non si concretizzò mai, e a Barcellona Jorge mi mandò a monte un ufficio cambi zeppo di dollari proprio sulla rambla, accanto al Bar Italia. Avevo comperato una vecchia Citroën nera per gli spostamenti più brevi, ma un giorno mi avventurai sulla Costa del Sol pretendendo più chilometri di quanti ne potesse sopportare quel ferro da stiro, e perciò mi lasciò miseramente sulla ruta. La dovetti abbandonare presso un meccanico più scalcinato della stessa vettura: non solo feci ricorso all’ultima banconota, ma dovetti rivolgermi alla Western Union per farmi mandare denaro dall’Italia. Questo mi suggerì che era giunto il momento di fare ritorno a casa. Dopo molte peripezie comprai due biglietti per la Liberia, nonostante il secondo obiettivo fosse in realtà la Costa d’Avorio, perché quella era l’ambasciata che mi avrebbe accordato il visto, previo un piccolo regalo, senza dover passare al vaglio delle autorità italiane. Partii da Capodichino per aggirare lo scalo di Fiumicino, dove avrei rischiato l’incontro con i segugi, in compagnia di un partenopeo, da anni amico della moglie del presidente liberiano, alla quale forniva prodotti italiani e cocaina a gogò. Mi portai dietro mazzette di dollari e varie valute per alleviare la mia latitanza. Mentre si alzava dalla pista il mastodonte della compagnia belga, la Sabena, che avrebbe fatto scalo a Bruxelles prima d’involarsi verso l’Africa, il 133 mio cuore ebbe un paio di sussulti, il primo perché vedevo finalmente dissolversi lo spettro della cattura, il secondo per un magone alla gola dovuto agli italici sentimenti per la famiglia e per il suolo natio che stavo lasciando. Scacciai i cattivi pensieri e respinsi anche quelli più dolci, che più fanno soffrire, e m’immersi nel volo che mi avrebbe portato all’aeroporto internazionale d’Abidjan. Con un inganno chiamai un taxi e feci portare fuori tutti i bagagli diretti in Liberia, Monrovia poteva attendere, avrei terminato il viaggio nel Paese che mi ero prefissato, soprattutto per la lingua, avendo trascorso più di un lustro in quel di Francia negli anni Settanta. L’amico di Napoli vi conosceva Tourè, che presto si sarebbe rivelato preziosissimo: tra l’altro era vissuto in Italia, dove aveva frequentato un’università del Veneto, e si sarebbe messo ai miei piedi agognando un futuro migliore. Non per niente ero stato presentato come industriale. A sua volta mi mise in contatto con Bema, personaggio singolare ed eccezionale: ex membro della guardia personale del Presidente della Repubblica, ex agente dei servizi segreti, ex non so più cosa ma attivo su ogni fronte, avrebbe costituito la chiave di volta per il mio disegno. L’unico handicap erano le quattro mogli e le venti bocche da sfamare, per questo l’argent non gli bastava mai, e con il sottoscritto aveva trovato una sorta di pozzo di San Patrizio. Alloggiai al Casinò Ivoire la prima settimana: mi sarebbe costato duecento dollari al giorno, e altri cinque-sei mila sui tavoli da gioco e di compenso alle puttane travestite da steward. Dopo un mese trascorso in una villa che non si addiceva al mio standing, secondo l’affermazione di Bema, affittai prima un’ala al tredicesimo piano di un grattacielo con piscina di fronte al Safety Hotel, nell’elegante quartiere Plateau, e successivamente anche una splendida villa nel quartiere europeo, con tanto di servitù e di guardiano a tutto tondo. Non era uno scherzo, c’erano diversi rapinatori tribali con il machete molto attivi in quel periodo, e la 134 cronaca mi rivelò che la banda più pericolosa era stata sterminata a colpi d’arma da fuoco mentre era in procinto di attaccare la residenza di una famiglia benestante francese. Pur succhiandomi una barca di soldi, Bema mi fece conoscere tutti quelli che erano necessari alla mia permanenza sul territorio, in primis il Procuratore Capo della Repubblica, che mi avrebbe spianato la strada burocratica attraverso un notaio del suo entourage, una bella signora che aveva l’ufficio cinque piani sotto il mio appartamento, quindi il vice Ministro dell’Industria, passando per i vari colonnelli che occupavano i posti nevralgici della città, come la dogana, l’aeroporto e via dicendo, fino al centro commerciale più importante del Paese. Pagando il dovuto ottenni quasi subito il lasciapassare presidenziale, strumento necessario per non farsi rompere le balle decine di volte al giorno dai militari che sorvegliavano le strade, e dalla polizia locale che ti tormentava per pochi franchi. Presso il notaio creai una s.r.l. finalizzata a scambi commerciali con l’Italia, senza avere però neppure il tempo di mettere piede nell’ufficio, che avevo affidato a una bella e brava commercialista (altra creatura di monsieur Bema), dato che ogni giorno che passava le mie finanze crollavano verticalmente. In un locale notturno incontrai Luise, che mi rapì lo sguardo dal primo momento, una caramella al sapore di nocciola, metà liberiana e metà americana: aveva lavorato, giovanissima, sia a Londra sia a Parigi, da dove riceveva mazzi di fiori da fare invidia a Josephine Baker. Le aprii un night club, che non avrebbe neppure visto la luce sotto i miei occhi, portandosi però via gli ultimi dollari. Feci per questo un paio di viaggi a Roma, via Londra, per rimpinguare le casse, “Nemmeno si trattasse di Roma-Ostia Lido!”, mi diceva qualcuno. La terza tappa non la raggiunsi mai, tuttavia feci in tempo a fare un salto in Sierra Leone, dove presi contatti con alcuni guerriglieri, per una storia di diamanti. Portai la creola nella caput mundi, e la presentai ai miei amici più fidati con cui 135 avrebbe dovuto fare da trait-d’union per una serie di affari; avevo messo in piedi un business davvero intrigante, la semina era fatta, ora si trattava soltanto di raccogliere i frutti. Rispedii Luise in Costa D’Avorio, ma prima di imbarcarla a Fiumicino trascorsi con lei un’ultima serata da Corsetti, all’Eur, con noi c’era anche Romina che non avrebbe mai creduto alla storiella della segretaria, “‘A papà, che m’hai preso pe’ scema!?”, mi disse serafica, e infatti al piano bar le dedicai Up and Down, la sua canzone preferita, che le metteva allegria spalancandole un sorriso meraviglioso. Mi baciò sulla guancia dove si posò una lacrima, poi l’accompagnai al Leonardo da Vinci salutandola con un improbabile “See you later”: ebbi per la prima volta un groppo alla gola, certe cose si sentono dentro. Infatti, non la rividi mai più. Al mio ritorno a Torvajanica, un giuda figlio di puttana mi vendette agli sbirri di Albano Laziale: era il 20 settembre 2000. Così è finita la vita di Giuseppe Sascaro e ne è iniziata un’altra, quella che mi ha visto protagonista per un altro quarto di secolo a spese dello Stato. Poco importa se le armi per me siano sempre state un optional, le ho spesso mostrate, mai usate. Sotto questo punto di vista il mio curriculum è assolutamente vergine, non ho ancora capito i parametri di giudizio, tuttavia mi adeguo. “Guai a toccare le banane a Palermo”, diceva Johnny Stecchino nell’omonimo film, ma mentre quella era soltanto una farsa, qui invece la tragedia si è impossessata della mia pelle. Ciò nonostante non ho rimorsi, quando si fanno certe scelte nella vita bisogna accettarne le conseguenze, anche quando queste ti sembrano ingiuste. Semmai ho molti rimpianti, questi sì, ne ho tantissimi, il primo che mi viene in mente è il seguente: “ ’A Brunè, ma chi te l’ha fatto fare, potevi rimanere in Africa!” 136 Carmelo Rollo La nobildonna Giuditta Gasparetti Sforza, nobildonna romana, faceva parte dell’alta società, e amava trascorrere il periodo estivo a Montecarlo, per poi dividersi fra Roma e Parigi. A Montecarlo tutti la conoscevano. C’era qualcosa di strano in quella donna, ma non era facile dire cosa fosse. Si trattava di qualcosa che non aveva niente a che fare con il suo aspetto, o con i suoi modi. Aveva una figura esile, capelli mori, che lasciavano libere le orecchie, e un nasino con narici rosee e un poco dilatate, che si staccava dal volto con un angolo un po’ diverso dal normale. C’era qualcosa di strano in lei, un che di sottomesso, e il suo modo leggero di camminare a volte sembrava quasi furtivo. Così almeno mi apparve al nostro primo incontro allo Sporting allorché, alzando gli occhi dal libro che stavo leggendo, me la trovai davanti, linda e fresca nonostante l’afoso pomeriggio estivo. Pronunciò il mio nome e io, posando il libro sul tavolinetto alla mia destra, mi alzai in piedi, rendendomi conto solo in quel momento di essere in costume da bagno, avendo terminato poco prima di bagnarmi nella vicina piscina. È sempre imbarazzante sentirsi rivolgere la parola da una sconosciuta, anche se a Montecarlo tutti conoscevano la duchessa Gasparetti, ma lo è ancora di più quando non si è vestiti. Lei portava un paio di occhiali da sole che non facevano capire dove guardasse. “M’interesso di auto d’epoca”, mi disse, “e so che voi avete scritto un libro su tale argomento.” “Infatti”, le risposi, invitandola ad accomodarsi. “A Mon137 tecarlo, Cannes e Nizza, c’è la maggior concentrazione di collezionisti di auto storiche di tutte le marche e modelli”, l’avevo pregata di sedersi per poterle parlare del mio libro, poiché è sempre stata grande la mia passione per quel tipo di autovetture. Sono perciò felice ogni volta che mi si presenta l’occasione di parlare dell’argomento, discutendo degli aspetti più intrinseci e talvolta sconosciuti; non rimasi deluso, poiché la duchessa parve dedicarmi tutta la sua attenzione. Ero quasi giunto al termine della mia lunga tirata, quando la signora si tolse gli occhiali di Chanel con una decisione che mi parve singolare. Ebbi allora modo di vedere i suoi occhi, e di notare quanto fossero belli, penetranti e capaci di leggermi dentro. Occhi che mi parve celassero una qualche tristezza. Ma prima che avessi il tempo d’individuarvi qualcos’altro che ancora mi sfuggiva, lei si rimise gli occhiali, lasciandomi con l’impressione che mi avesse mostrato gli occhi al fine di chiarire a sé stessa, una volta per sempre, che non intendeva farmi perdere tempo con finti pretesti. C’era stato qualcosa di troppo voluto e deciso nel modo in cui aveva eseguito quel breve dénouement. Ero certo che avesse voluto trasmettere un messaggio che però non riuscivo a decifrare in quell’esatto istante. Abbandonando generosamente le mie auto d’epoca, rivolsi un certo interesse alla sua persona, facendole un paio di complimenti indiretti, e cercando di dare al mio sguardo uno scintillio particolare. Non ricordo di averlo mai imparato, ma so che la migliore azione che un uomo possa compiere nei confronti di una donna dallo sguardo triste, è tentare di infondere ai propri occhi un luccichio d’ammirazione. La sua reazione fu quella che mi aspettavo. Il suo atteggiamento cambiò d’un tratto, e il suo interesse per le auto d’epoca scemò per poi scomparire del tutto. Prese a raccontarmi di sé e del suo romanzo, al quale stava dando gli ultimi ritocchi. Mi disse come le era accaduto di diventare 138 scrittrice con poche frasi brevi e concise, tanto da darmi l’impressione che fosse veramente un’ottima narratrice. Parlava senza alcuna esagerazione, e la sua storia, di per sé insignificante, trasse vantaggio da quel suo contegno. Appartenente a un’antica famiglia romana, con anche un papa fra gli antenati, si era ribellata alle rigide regole imposte, prima studiando sociologia, in seguito sposando uno dei suoi professori, contro il volere dei famigliari. Matrimonio poi naufragato nel breve volgere di un lustro. Distribuiva equamente la colpa della sua sfortunata esperienza matrimoniale tra sé stessa e suo marito. Non si era più voluta sposare, cercando nella convivenza quella certezza che sino a ora non era riuscita a trovare. Da diversi mesi libera da legami, si era trasferita a Montecarlo per, a suo dire, riordinare le idee e cercare di ritrovarsi. “Ho goduto, sofferto e compreso tante cose da poter sfruttare la mia vita come una biografia”, disse con tono semplice, come se si rendesse conto di non averne colpa, né merito. Si tolse nuovamente gli occhiali neri, e questa volta notai una profonda malinconia nei pallidi occhi verdi. Li osservai più attentamente, con la stessa attenzione che di solito riservo nel cercare imperfezioni nei lamierati e nei colori delle auto antiche: emanavano una luce intensa, trasmettevano un calore particolare. Lei notò il mio modo di fissarla incuriosito, e io cercai allora di ammorbidire il mio sguardo, assumendo un’espressione di malinconica comprensione che ottenne l’effetto voluto. “Non ho mostrato il mio manoscritto ad alcuno”, disse rimettendosi gli occhiali. Sentivo che dietro quei vetri scuri mi osservava con un’intensità di cui forse si vergognava. “Ma mi piacerebbe che lei lo leggesse”, aggiunse dopo una breve pausa. Posseggo quello che la mia Adriana chiama “sguardo di finta sorpresa”. Si tratta di una mia piccola scappatoia, a dire il vero assai comoda, che spesso mi pone nella fortunata categoria dei poveri di spirito. Dopo quest’attimo di 139 pausa, la ringraziavo per l’onore che mi concedeva, facendo trasparire la mia sorpresa.“Sento in lei molta comprensione”, disse, e mi parve che il mento le tremasse leggermente, come se stesse per piangere, “e so già che potrete capirmi”. La vicenda iniziava a infastidirmi. Forse il mio sguardo era stato troppo eloquente e la duchessa mi aveva frainteso. Ma prima che avessi la possibilità di riprendere il controllo totale della mia espressione rientrando in quella abituale, lei si alzò sorridendo. “Mille grazie”, mi disse posando la mano sul mio braccio. Poi lasciò la sua nella mia per un attimo oltre il necessario, quindi si volse e abbandonò la terrazza lentamente, camminando con il busto in avanti, quasi a offrire un nascondiglio ai propri seni. Alcuni giorni dopo me la trovai davanti di nuovo. Adriana era al mare con il bambino e un’amica. Dopo aver lavorato al laptop con l’ausilio dell’inseparabile telefonino, avevo pranzato al ristorante del circolo, e ora all’ombra sorbivo il solito caffè shakerato. Nelle prime ore del pomeriggio la piscina era pressoché deserta: non c’erano che pochi bambini i quali, dopo essersi caricati di energia solare, sguazzavano nella piscina loro dedicata sotto lo sguardo vigile del maître nageur. Avevo l’abitudine di sedermi sotto l’ampia tenda a riposare, osservando distrattamente i bambini, o leggendo un libro. Anche quel giorno la nobildonna sembrava linda e fresca. Sorrise sedendosi accanto a me, e posò sul tavolo vicino una cartellina portadocumenti di Louis Vuitton. “Desideravo rivederla e, francamente, temevo di non trovarla”, mi disse, guardandomi con aria incerta. “Grazie”, risposi chinando la testa buffonescamente. “Da quando mia moglie e il bambino hanno deciso per il mare, si può dire che io viva qui.” “Ho saputo che avete un bambino delizioso.” “Ha la virtù di somigliare a chi l’ha messo al mondo.” 140 “Sua moglie!”, disse lei, e scoppiò in una risata strana. Ma subito le sue labbra si serrarono in un’espressione di disagio. “Lei ama sua moglie”, dichiarò. “Sì!”, a dire il vero non era mia intenzione espormi così presto all’indifferenza della duchessa: c’è sempre tempo per confessare a una donna bella e attraente che si ama la propria moglie. “Da quanto tempo siete sposati?” “Da cinque anni. So che non è più di moda, e talvolta me ne vergogno.” Risposi ridendo, affinché comprendesse che si trattava di una semplice boutade. Mi aspettavo un gesto di sorpresa, o un sorriso. Ma lei rimase impassibile. “Cinque anni di felicità”, disse. “Cielo!”, esclamai. “La sua affermazione è forse un po’ troppo impegnativa. Sono convinto che non si sappia con esattezza quando si è veramente felici. Comunque, espressa così, sembra addirittura una cosa assurda.” “Bisogna essere stati molto infelici per imparare che cosa sia la felicità.” “Può darsi…” “Fuorché nell’arte”, precisò lei. “L’artista, infatti, sa sempre che cosa sia la felicità o l’infelicità. Naturalmente nella sua immaginazione. Ma, infine, la vita è solo immaginazione, non crede?” “Beh… non saprei”, risposi. “Vi sono persone che vivono intensamente la propria vita, e per le quali l’immaginazione non è certo indispensabile.” “È vero”, ammise lei. Tese il braccio verso la cartellina e la tirò a sé. Da quel momento il suo umore cambiò bruscamente, tanto che mi chiesi se non mi volesse piantare in asso. Alcune donne riescono a nascondere i propri sentimenti meglio di altre, ma in lei apparve subito evidente che alla conversazione, avendo ormai questa perso ogni elemento romantico, partecipava in modo distaccato. Io, invece, mi sentivo ben disposto verso di lei. Possedeva un non so che 141 d’indefinibile, che suscitava in me quasi compassione. M’interessava leggere il manoscritto che doveva essere all’interno dell’elegante custodia. Intuivo che, leggendolo, avrei trovato la spiegazione a quella sua singolarità che mi lasciava perplesso e, inoltre, pensavo che potesse essere un buon lavoro. Riportai pertanto la conversazione sul piano del primo giorno, adottando la stessa tattica, ma dando al mio sguardo uno scintillio diverso, tale da costituire un invito all’amicizia. Lei non tardò ad aderire all’invito, in breve ci trovammo impegnati in una vivace e interessante conversazione, con lei che, un po’ imbarazzata, chiese se potessimo darci del tu; cosa di cui mi dichiarai onorato. Da sociologa, si rivelò una mistica e io, che avevo compiuto studi economici, un razionalista. Fu una simpatica schermaglia. Alla fine, con il caldo che si faceva avvertire, ordinammo due cocktail a base di frutta, allungandoci tranquillamente sulle rispettive sedie a sdraio. Fianco a fianco, osservavamo tre ragazzini che non facevano che entrare nell’acqua per uscirne subito dopo, con quella tenacia propria dei bambini che giocano. “Mi sento perfettamente felice ora”, disse Giuditta, “e ringrazio la mia immaginazione”. “Perché?”, chiesi. “Ho un figlio di quell’età.” Si tolse gli occhiali e indicò uno dei ragazzini. “Adesso è in vacanza dai nonni paterni; immagino che, in questo momento, mi stia pensando con tenerezza.” “Sono certo che sia proprio così.” Annuii, ma non per sciocca galanteria. Solo che adesso avvertivo una certa tristezza in lei. “Ti ho portato il mio manoscritto”, disse aprendo la cartellina e mostrandomi i fogli battuti al computer e raccolti all’interno di una copertina plastificata. “Come vedi, non c’è molto. Si tratta di un romanzo breve. Dovresti aiutarmi a trovare il titolo.” Si alzò, mi porse la mano e, con il suo passo lungo e 142 lento, si allontanò verso l’uscita. Inspiegabilmente, fui contento che se ne fosse andata, forse anche perché di lì a poco Adriana sarebbe ritornata dal mare e, conoscendola, non penso avrebbe accettato di trovarmi in compagnia di una donna tanto affascinante. Lessi il manoscritto la sera stessa e scoprii che il mio intuito non mi aveva ingannato. Era un lavoro pieno di sensibilità, delicato e con passaggi ricchi di sentimento. Giuditta aveva usato Parigi come sfondo e i francesi come ambiente, rivelando nei loro riguardi una comprensione che soltanto un aristocratico può avere per i suoi simili. L’architettura particolare assieme alle bellezze monumentali di Parigi divenivano nella sua descrizione leggeri e incantevoli. Uno sfondo dorato, creato sapientemente, che sorprendeva per la potenza creativa dimostrata. Qui l’autrice intrecciava le fila di un’ardente passione fra tre uomini d’oltreoceano, una donna e un bambino. Una passione presente e possente in ogni pagina, che sembrava attenuarsi in presenza del bambino. L’unica stonatura del lavoro, se così si poteva chiamare, mi si rivelò soltanto il mattino seguente quando, liberatomi dall’incantesimo che Giuditta era riuscita a creare, mi fu possibile considerare obiettivamente i suoi personaggi. Compresi allora che i tre uomini, e anche il bambino, erano dominati da un’unica passione: un amore disperato e senza speranza per la donna, un amore che la inseguiva e la perseguitava, lasciandola infine esausta, disperatamente desiderosa di solitudine e pace. Uno dopo l’altro, gli uomini erano venuti a pretendere il suo amore, e il bambino, figlio del primo di loro, esigeva da lei il più brutale dei sentimenti: l’amore materno. Il romanzo terminava con un grido di dolore della donna, messa infine con le spalle al muro da tutte e quattro le persone che tanto disperatamente la amavano. La passionalità di cui era imbevuto il romanzo rendeva viva e vibrante la descrizione dei personaggi. Il desiderio degli uomini e l’abbandono della donna erano resi in 143 maniera così vivida, e l’analisi dei sentimenti di lei, esausta dopo ogni prova, risultava così voluttuosa che, sebbene l’intenzione dell’autrice di giungere a dimostrare la propria tesi apparisse evidente, si sentiva nel romanzo la mano di un’artista che aveva vissuto il tutto in prima persona. “Profondamente sentito”, sarebbe probabilmente stato il giudizio della critica, la quale non avrebbe mancato d’insinuare che il lavoro, così come tutti i primi romanzi di uno scrittore, era probabilmente autobiografico. Anch’io la pensavo così. E già pregustavo il piacere che avrei provato a scrivere a Giuditta, dimostrandole la mia ammirazione, discutendo su qualche particolare e sottolineando i punti che più mi erano piaciuti. E avrei anche fatto un accenno discreto alla possibilità di un’ispirazione autobiografica. Quel pomeriggio, senza ragione alcuna, rilessi il manoscritto e, questa volta, lo esaminai deliberatamente dal punto di vista autobiografico. Mentre mi accingevo a leggere, mi venne un’idea originale. Via via che i personaggi si presentavano, attribuivo loro emozioni opposte a quelle descritte. Scoprii così una cosa molto divertente, e cioè che l’intreccio poteva essere paragonato a un gioco di pazienza e mi chiesi se, sostituendo l’odio all’amore di ciascuno degli uomini, i risultati sarebbero ugualmente stati quelli descritti dalla scrittrice. Il gioco riuscì perfettamente. La sera stessa rimandai il manoscritto all’autrice, con un biglietto d’incoraggiamento e di critica che già mi ero prefissato. Ma non mi sentii di accennare alla possibilità che si trattasse di un’autobiografia. Una perturbazione decise di fermarsi sul Golfo del Leone, portando brutto tempo sul Principato, e per parecchi giorni non andai al circolo, rimanendo a fare compagnia ad Adriana, e approfittando per riposarmi in sua compagnia. Due giorni dopo, nei pressi della discesa del casinò, la vidi, di spalle, in compagnia del conte Von Nisteroj, un attempato playboy che si vantava di innumerevoli conquiste, e che rico144 priva sempre un posto di rilievo nel jet set monegasco. Il giorno seguente lo incontrai al circolo, e spontaneamente gli dissi: “Ieri eravate con la duchessa Gasparetti”. “Infatti”, rispose pronto, e si strinse nelle spalle come per farmi intendere che la cosa non gli interessasse. Avevo terminato di fare una salutare sauna, e mi trovavo all’interno di uno degli spogliatoi che guarda sulla terrazza che fiancheggia la piscina. Dentro è buio e, stando in piedi sulla panca accanto alla finestra, è possibile guardare fuori senza essere visti. Quel giorno, mentre mi rivestivo, udii un lieve scalpiccio sul cemento, e mi parve di riconoscere i passi felpati di Giuditta. Salii sulla panca e guardai fuori. Era proprio lei, sola, lo sguardo verso l’acqua. Ero contento che non mi avesse visto, così decisi di non muovermi finché non se ne fosse andata. Tuttavia la curiosità mi spinse a osservarla. Elegante come al solito, in tailleur di Hermès color panna, si guardava attorno attraverso le lenti scure. Le gambe esili erano leggermente aperte, e le braccia, abbandonate lungo i fianchi, rivelavano una certa noia, se non addirittura un senso di assoluta solitudine. Un moto di tristezza si fece largo in me. Il suo sguardo andò a posarsi sull’occupante di un altro un tavolino, riparato da un ampio ombrellone: una ragazzina che avevo avuto modo di vedere già altre volte. Dopo un attimo d’esitazione, si avvicinò lentamente alla piccola che, intenta a scopiazzare qualcosa da un libro, non la vide finché Giuditta non fu al suo fianco e non si chinò su di lei. Soltanto in quel momento alzò gli occhi, sobbalzando. Poi si sorrisero. Da quella distanza non mi era possibile udire quello che si dicevano, ma dai gesti della bimba indovinai che la mia amica le aveva chiesto che cosa stesse facendo. Si chinarono insieme sul libro. Dal mio punto di osservazione, vidi Giuditta sedersi accanto alla piccola e voltare le pagine. Poi si tolse gli occhiali, la bimba la guardò ed ella si lasciò guardare finché, insieme, non abbassarono nuovamente lo sguardo sul libro. Mentre parlava, lei giocherella145 va con gli occhiali e, di tanto in tanto, si volgeva con un sorriso a guardare i lineamenti della bambina. Ma ora la ragazzina sembrava diversa. Avevo la certezza che stesse per andarsene. E infatti, in quell’istante si alzò. “Devo andarmene, ora”, disse ad alta voce. Ancora seduta, Giuditta alzò gli occhi: “Di già?” “Sì.” Mi parve che la bimba stesse per scoppiare in lacrime. “Fermati ancora un poco.” “No”, e come avevo previsto, si morse le labbra e scoppiò in lacrime. Singhiozzando, girò le spalle alla donna e corse verso l’uscita. Allora si alzò anche Giuditta. Vidi chiaramente l’espressione dolorosa dei suoi occhi. Un attimo prima che li coprisse di nuovo con gli occhiali, vidi comparire nel suo sguardo uno strano luccichio. Non sapendo di essere osservata, contrasse le labbra in una smorfia di collera quasi brutale. E quando s’incamminò per dirigersi anche lei verso l’uscita, intuii il forte stato d’ira che la dominava in tutta la sua interezza. Non credo che questo episodio sia servito a darmi la chiave della stranezza della duchessa, che nei due successivi incontri non riuscii a decifrare. So, quasi con certezza, che la mia interpretazione del racconto da lei scritto fosse esatto, anche senza poter conoscere l’identità dei personaggi. 146 Giovanni Tripodi Vivo… apparentemente “morto” C’era una volta un ragazzino tanto vispo quanto miope, tanto buono quanto ingenuo. Il suo sogno: diventare subito grande per poter volare con le proprie ali, perché era solo quello che poteva generare quel solletico allo stomaco! Per fortuna le “ali” si bruciarono molto presto, e quando lo presentarono al passeggio molti esclamarono: “Cosa ci fa questo minorenne tra noi maggiorenni?” Non accettò di buon grado. Si sentiva già grande, e la consacrazione era proprio nell’aver fatto chiudere alle spalle la porta carraia delle sbarre, pensando di scoprire così la culla della vera essenza. Quella culla, invece, attimo dopo attimo, scavò inesorabilmente l’abisso dove, in men che non si dica, si ritrovò in compagnia della sua miope ingenuità. Erano gli anni più belli e fecondi, quegli anni dove ogni ragazzo punta i veri traguardi, quei traguardi che fanno veramente sentire grandi e realizzati. Lui invece stava lì, in fondo al suo abisso, insieme alla sua culla, certo che quella era la più sfarzosa oasi da cui poter attingere “l’acqua magica”! Lui stava lì, e pezzo dopo pezzo trasformò la pelle in carcassa, la carne in motore, la forza in carburante. Aveva costruito la sua “macchina”, nuova di zecca e luccicante, pronta a correre nelle vie del male! Tirata sempre a lucido, aspettava il giorno in cui quella porta carraia si sarebbe schiusa, per poter ritornare in quel mondo, senza capire, senza pensare, ripetendosi “Devi correre e sgommare, per non rimanere irrimediabilmente travolto… Per sempre”. Correre e sgommare, senza pensare, senza capire, ubriaco 147 di quell’acqua magica che quell’oasi aveva, con arte raffinata ed eleganza cinica, saputo trapiantare in ogni cellula di quel ragazzino miope, ormai macchina da corsa. Nessuno purtroppo, neanche il Creatore, poteva fermare quel motore acceso, e appena schiusa la porta fece la sua corsa… Senza capire, senza pensare. Era l’unica cosa che contava, il resto era niente. Per fortuna il destino volle riaprire la porta carraia con le sue sbarre, e quando si chiuse alle spalle, davanti… Un conto parecchio salato. Ancora miope, quella macchina impregnata e infangata scivolò nell’abisso dove non si contano più i giorni o i mesi, ma solo gli anni. E di anni ne passarono tanti, molti, forse troppi. Quella macchina finalmente aveva terminato la sua corsa, e da quell’abisso iniziavano le prime lotte interiori, intime e profonde, dopo aver trovato quei piccoli scampoli di carne, accese di intensa e pulita forza, che da qualche parte si erano dovute e volute isolare. Era quella piccola parte di bene che voleva affrontare, a viso aperto, la parte restante di male, per riconquistare tutte le cellule allora perse. Ritornare a rivestire la pelle e la carne originale, e ritrovare la forza che permettesse di risalire tutti i gradini dell’abisso per rinnovarsi, nelle sue sembianze interiori, com’era quel non più ragazzino. Nulla è impossibile quando si inizia a diventare padroni e liberi del proprio pensiero, padroni e liberi del proprio tempo, arbitri e artefici del proprio destino. Nulla è impossibile quando si riesce a far entrare dentro quella macchina un uomo capace e coraggioso, determinato a voler rivedere tutti i fotogrammi che compongono quella sciagurata pellicola impressa come in un film. È lì, è dall’interno della macchina, che si possono trovare tutte le chiavi di volta per iniziare a smontare, pezzo per pezzo, quella stessa macchina, e far crescere la pelle e la carne, che all’origine la componeva e la ricopriva. È stato durante la visione di questo scabroso film che incontrò chi aveva subito le conseguenze delle sue azioni. Poteva scappare, in altri tempi avrebbe dovuto scappare, 148 perché le macchine non possono ascoltare, pensare o capire, ma aveva iniziato a essere padrone delle sue emozioni, e con non poco imbarazzo volle fermarsi. Aveva bisogno, un estremo bisogno, di capire! Doveva capire come si paga, perché si paga, e a cosa serve pagare. Voleva capire se è possibile, per una vittima, avere giustizia dopo aver subito un torto. Pose mille domande e ricevette mille risposte, e mille nuove domande cui rispondere con il tempo e con azioni proporzionalmente inverse alle azioni originarie! Iniziò a capire come poter risalire da quell’abisso, in cui per tanti anni aveva vagato come un’anima persa, e scelse di trovare la via maestra nei libri, attraverso la scuola. S’iscrisse al primo anno di ragioneria, presso il più vicino I.T.C. come privatista, studiando da autodidatta. Mille lotte all’inizio per capire quei concetti, pur elementari, che rappresentavano linfa nuova per quel ragazzo che riprendeva il sentiero della vita. Era molto più semplice buttare tutto e lasciarsi andare alle onde del destino, invece volle insistere con forza, determinazione e caparbietà. Uno a uno affrontò e superò mille problemi, e ogni problema conquistato rappresentava un gradino che lo allontanava dal fondo di quell’abisso. Aveva imboccato la via giusta, e più si allontanava da quell’abisso, più sentiva crescere dentro di sé quel ragazzo che un tempo apparteneva a quel corpo. Dopo un paio di anni di studio come autodidatta venne trasferito, e conobbe un’insegnante straordinaria che, tra milioni di difficoltà, con determinazione e caparbietà, riusciva a portare avanti il suo nobile progetto: credere che ogni detenuto è, prima di tutto, un essere umano, e come tale, se lo vuole veramente, può trovare, attraverso lo studio e la scuola, gli stimoli giusti che nel tempo possono generare i frutti per cui fu scritto l’art. 27 della Costituzione. In altre parole, offrire quei mezzi e quelle opportunità affinché nel tempo, chi decide di mettersi in gioco, possa trasformare una tragedia in un’esaltante sfida di riscatto, restituendo, a tempo debito, una persona completamente cambiata, con 149 delle dinamiche parallele a quelle che sono i bisogni e le volontà di una società sana e onesta. Non poteva sbagliare, aveva avuto la fortuna di imbattersi nel treno più idoneo, era già in corsa, e doveva solo salirci su: lui, istintivamente e con naturalezza, lo fece. C’era la scuola reale da poter frequentare, e con i professori diventava tutto più facile. Con grande gioia conseguì la maturità con il massimo punteggio. Oggi è al secondo anno del corso di Laurea in Scienze Agrarie. La passione per la natura da un lato, e la concreta possibilità di uno sbocco futuro nel modo del lavoro dall’altro, lo hanno portato a questa brillante scelta. Oggi è completamente padrone della sua persona, e grazie allo studio e una famiglia sana e umile, che lo ha sempre saputo aspettare, è certo di aver risposto, nel modo migliore, a tante di quelle domande cui doveva risposte concrete. Oggi, con una grande fiducia in se stesso, e con gli ingredienti sani che compongono questa ricetta, è certo che può solo sbocciare quel semplice progetto che ogni uomo serba nel cuore, e per cui vale veramente la pena mettere in campo tutte quelle risorse figlie del bene, affinché possa nascere altro bene. Purtroppo nessuno, neppure Dio, può far tornare indietro il tempo, per impedire a un semplice ragazzo di incarnare il male, attraverso la sua trasformazione in una macchina. Ed è questo che fa nascere nel ragazzo l’estremo bisogno e la grande volontà di cercare di mettere al servizio dei ragazzi di oggi, tutta l’esperienza negativa accumulata in questi anni, affinché i ragazzi, “ingenui e miopi” com’era lui quando si sentiva già grande, non rischino di diventare quelle macchine come lui è stato. È questa la più brillante risposta che può realmente riscattare chi nel passato si è lasciato inghiottire dal vortice del male. Scommettere, con se stessi, che anche chi è stato causa di male può oggi essere fonte di bene per il prossimo, e per il futuro della nostra sana società. 150 Nomi e pseudonimi dei partecipanti Abdoulaye Konarè Acquas Bruno Acquaviva Andrea Albano Nicola Alfredo Paolo Amato Turiddu Annoscia Francesco Attanasio Barbara Autiero Andrea Ayari Fathi Badami Pasquale Baldi Gianni Balogun Hassan Bannò Daniele Bargache Adil Barilli Massimo Guelfo Barreca Giuseppe Barrignios Jorge Belghauti Alì Benabbou Jaafar Bensi Giovanni Berti Nik Bevilacqua Pasquale Biamonte Tommaso Bianchi Mario Bisceglia Angelo Bob Oniram Bonifacio David Bontempo Sebastiano Borsello Maurizio Bortoni Luigi Bozano Lorenzo Brachini Vincenzo Brera Enrico Brunetto Giuseppe Bruzzaniti Bartolo C. Carmelo Caboni Marco Calabrese Luigi Calatabiano Caldaroni Mario Calzetta Massimo Canteruccio Manolo Captano Salvatore Cardini Girolamo Carlayn Caruso Mariano Giuseppe Cascio Giuseppe Caso Giuseppe Celotto Manuele Charlie 1 Cirella Modestino Coco Giuseppe Colabello Luca Colabello Luca Colajanni Michele Colecchia Rael Cesare Coltoti Massimo Corona Raffaele Corvino Romina Cossu Gianni Crisafulli Alessandro Cristian D. Jo 80 D’Agostino Tonio D’Alessandro Cipriano D’Apice Vincenzo D’Avino Luigi Dancer Dante Colombo De Francesco Luigi Dell’Anna Marcello Dettori Nicola Di Gregorio Alessandro Di Gregorio Girolamo Di Muro G. Di Pasquale Francesco Di Pino Germano Dumitrascu Dorinel Mihai Ebbene Antonio Eccelso di Onore Esperti Amedeo Faulisi Antonio Felici Francesco 151 Ferioli Corrado Finessi Alberto Franchi F. Franzese Mauro Fruzzetti Bruno Fucile Salvatore G. Toni Gabriel Gabriele Aral Gagica Gheorghe Mircea Galli Gianni Gentile Fabio Giastefano Grandi Anna Grignoli G. Grugnetti Flavio Guerino S. Guerrieri Augusto Hadzovic Hairo Houmine Kamal Il Casentino Il nano Imputino Carmelo Intersimone Mattia Jeak 71 Joe Elberth Jonny Jordastro Gisele Koumba Sekou Lattanzi Gerardo Le Bidot Joseph Le Grottaglie Salvatore Lentini Leoni M. Lillo Lo Nigro Cosimo Locatelli U. Lumani Agim Luna Luni M. Ezio Machì Salvatore Marano Teresa Marelli Giovanni Marlene Marosi Mustafà Marsili Luca Martino di Bari Mazzoni Leandro Merlino Antonino Milazzo Sebastiano Mille Madri Minichino Sebastiano Mirabò Antonio Alessandro Monkei Montoro Marcello Morandini Carlo Motta Filippo Moussayer Mourad Mozzarella Gennaro Musumeci Carmelo Nando Romano Natati Mohamed Neri Giacomo Nicola I° Nicolosi Giuseppe Nicosia Fabio Massimo Niosi Giovanni Novaresio Aldo Novembrini C. O maestro O’ filosofo Obiekwe Jullian Occhipinti Marino Odai Blasu Benjamin Odry Ogliari Gianfranco Olèg Molovatà-Alecsandrì Olivo Anna Palermo Lucio Paoli Paolo Paolo 25/1/55 Papalia Antonio Papi Giovanni Pappalardo Sebastiano Parrini Ciro Pasquale D.L. Peppe C. Per Aspera ad Astra Peruzzi Maurizio 152 Pezzoni Andrea Picariello Antonello Pilato Francesco Podda Ferdinando Antonio Poppy Valla Pulejo Rosario Pullarà Santi Purita Marco Quarto Francesco R. Alvaro R. V. Ranieri Nicola Rapone Bruno Rincon Tello Juan Carlos Rodà Alessandro Rollo Carmelo Rosmini Demetrio Sesto Rossi Luigi Rui Blaz Russo Gennaro Rusu Andrei S. Attilio S’Astoreddu Salvini F. Salvini Francesco Sardone Salvatore Sassella Davide Scardigli Alfonso Schirò Ulissegia Sciamano A.V. Sciara Giovanni Scibetta Vincenzo Scola Giacomo Serio Antonio Sestito Massimiliano Shili-Mourad-Ben-Mohamed Sorru Torre Spampanato Francesco Spanalatte Rosario Stankov Ananas Stecchino Stefano Strangio Domenico Strisciuglio Sigismondo Taborda Jesùs Gabriel Tampelli F. Tampelli Fernando Tauro Antonio Tiezzi Enzo Tisci Tommaso Toscano Giò Travisano Tripodi Giovanni Tullio T. U omo Ulde Un uomo solo Urso Emanuele Urso Gaetano Valli Gabriele Vatalaro Alfredo Velcu Daniel Venuto Giuseppe Viglianesi Luciano Villasanta Dario Stefano Virdis Raffy Virgilio Fabrizio Vittorio ergastolano Volpe Giuseppe Zavettieri Salvatore Zedda Luciano Zorba Alfred Minori Andrea B. Ciro D. Cristian D. Gaetano M. Giuliano L. Loris S. Luciano Marina S. Patrizio Pratello (1, 2, 3, 4) Salvatore D. Toni S. 153 Ringraziamenti Un grazie particolare al Presidente della Repubblica e ai Presidenti del Senato e della Camera per l'apprezzamento dimostrato con la concessione della Medaglia d'Argento. Si ringrazia per il contributo la CARITAS della Diocesi di Massa M.ma - Piombino, la Fiera Internazionale del Libro di Torino, i Presìdi del libro Piemonte, le Sedi locali e il Consiglio Nazionale dell’Università delle Tre Età. Un grazie anche a Roberto Cerati, Presidente della Casa Editrice Einaudi, per i volumi generosamente offerti. Un sentito ringraziamento a tutta la Casa Circondariale “Lo Russo e Cutugno” per aver gentilmente ospitato la cerimonia di premiazione dei vincitori di questa VII edizione del Premio e anche alle numerose Case di reclusione che hanno collaborato affinchè tanti dei loro reclusi potessero partecipare al concorso ed essere infine presenti alla premiazione. 154 Indice Il premio letterario “Emanuele Casalini” Chi era Emanuele Casalini Comitato d’onore Giuria Introduzione del Presidente della Provincia di Livorno Presentazione di Ernesto Ferrero 5 7 8 9 11 13 SEZIONE POESIA Opere Premiate Carmelo Musumeci La ballata dell’ergastolano La ballata dell’ergastolano due La ballata dell’esgastolano tre 19 20 22 Gabriele Aral Il nostro silenzio Profumo Le mie parole 25 27 27 Antonio Faulisi Speranze Ho bisogno Immagine 29 30 30 Marco Dell’Anna Clandestini su ruggini galleggianti Questo fiore è… Il mostro 32 33 34 155 Opere Segnalate Barbara Attanasio Canzone Via Canto a Morfeo 38 39 40 Ciro D. Caro papà Carcere 41 42 Alessandro Crisafulli I II III 44 45 45 Luigi D’Avino A mia figlia Una volta… Ero solo… 46 46 47 Gabriel Sospiri Il mio nome E vengo da te 48 49 50 Flavio Grugnetti Tra le righe di questa notte Pezzi di una storia Sguardo complice 51 52 53 Houmine Kamal Vola pensiero Sul viaggio 54 55 156 Abdoulaye Konarè Nel fiume isolato della città 56 Marina S. Le mie lacrime 58 Sebastiano Milazzo Graffiti La statistica La luna 59 60 61 Mille Madri Ciao stella! 62 Maurizio Peruzzi Laoràa, pregàa Lavorare, pregare 64 66 Salvatore D. Riflessione sulla guerra 68 SEZIONE PROSA Opere Premiate Marco Purita La colpa 74 Domenico Strangio Il mio paese è… 83 Sebastiano Bontempo Vita di un ergastolano 91 157 Opere Segnalate Francesco Annoscia Ricordi e speranze 98 Lorenzo Bozano Galeoni e vascelli per riscoprire un uomo 103 Girolamo Di Gregorio L’estrema unzione 106 Francesco Di Pasquale Click 109 Corrado Ferioli Ai margini della città 115 Marlene Introduzione e premessa Anime morte 121 122 Santi Pullarà Casina Corvaja 125 Bruno Rapone Storie di vita 131 Carmelo Rollo La nobildonna 139 Giovanni Tripodi Vivo… apparentemente “morto” 149 Nomi e pseudonimi dei partecipanti 151 158 Hanno contribuito: Provincia di Livorno Comune di Piombino Comune di Porto Azzurro Finito di stampare nel mese di ottobre 2008 presso Benvenuti&Cavaciocchi Livorno