Vivere è divenire. Sesso, genere e identità

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Vivere è divenire. Sesso, genere e identità
Vivere è divenire. Sesso, genere e identità
di Alice Gombault
in “Les Réseaux du Parvis” hors série n° 29 del maggio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Approccio costruttivista
Tutti concordano, anche coloro che maggiormente si oppongono alle analisi di genere, nel
riconoscere a questo tipo di approccio una pertinenza certa nella evidenziazione delle ingiustizie e
delle discriminazioni tra gli uomini e le donne. Tony Anatrella (1) dichiara che l'affermazione
dell'uguaglianza tra gli uomini e le donne rappresenta un progresso considerevole nel mondo, in
particolare là dove le culture inferiorizzano e disprezzano le donne, a cominciare dalle bambine. Ma
il sospetto si fa avanti molto presto: “Se gli studi di genere hanno avuto il merito di mettere in luce
delle diseguaglianze e delle ingiustizie sociali verso le donne, molto presto questi studi sociologici
si sono trasformati in movimento ideologico e di lotta tra gli uomini e le donne”.
Le analisi di genere (gender studies) sono accusate di irrigidirsi in “teoria del genere” che
sosterrebbe il libero accesso ad un'identità costruita e rifiuterebbe qualsiasi dato di ordine biologico,
definito naturale (2). Cosicché si potrebbe scegliere il proprio sesso! Tale eventuale fluidità del
sesso getta nel panico la gerarchia cattolica e gli ambienti conservatori. Esiste un disagio certo
rispetto ad una cosiddetta teoria del genere sospettata di sopprimere la differenza sessuale. La nostra
ipotesi è che, essendo la chiesa composta di uomini maschi, sia la mascolinità a sentirsi minacciata.
Il dovere del celibato che obbliga a guardarsi dalle donne e una certa morale sessuale che ha a lungo
assimilato il piacere al peccato non favoriscono la costruzione di un'identità sessuale serena (3). La
nozione di genere ha il vantaggio di rendere visibili gli uomini come individui sessuati. Il che ha
permesso l'emergere di una storia degli uomini, dello studio della costruzione della virilità, della
sofferenza degli uomini (4). Genere e costruttivismo appaiono legati nel timore e nel rifiuto che
provocano. Ma che cos'è il costruttivismo?
Che cos'è il costruttivismo?
Questa filosofia già antica (5) non nega la realtà (in questo caso i dati chiamati naturali), ma dice
che noi la conosciamo solo attraverso la conoscenza che ne facciamo e che tale conoscenza è quindi
sempre relativa alla nostra cultura, alla nostra situazione in un mondo preciso, al nostro ambiente, è
dipendente dal nostro sguardo, dalle nostre esperienze passate... Non ci si può quindi mai basare su
una realtà che sia totalmente oggettiva. Essa non è però neppure totalmente soggettiva, poiché noi
facciamo tutti la stessa esperienza e incontriamo la stessa realtà. Ma non possiamo provare
l'obiettività delle nostre percezioni. C'è quindi sicuramente un reale che resiste, ma a cui noi
abbiamo accesso solo attraverso la percezione e l'organizzazione che ne facciamo. Einstein dice che
è la teoria che determina ciò che si può osservare. Senza teoria, senza ipotesi, non vediamo niente.
Inoltre, quando osserviamo la realtà, la modifichiamo. È un rovesciamento del modo abituale di
pensare, secondo cui la realtà esisterebbe indipendentemente da noi. Spesso è così che percepiamo
la creazione dell'universo da parte di Dio: una realtà data di cui l'uomo scopre le leggi naturali,
mentre si potrebbe parlare di co-creazione. Aggiungiamo che i nostri sforzi di conoscenza creano
una realtà, che si può essere tentati di considerare unica e definitiva, naturale si potrebbe dire. È
contro questa assolutizzazione della nostra verità che il costruttivismo mette in guardia. Noi
costruiamo quindi un'immagine della realtà, una visione del mondo. Si tratta di un'immagine
globale che si integra in un insieme e possiede la sua coerenza. Tale costruzione è anche una
costruzione di senso. L'essere umano non può vivere nel non-senso, nell'assurdità, senza cadere
nella follia. Da qui deriva l'importanza di passare dal caos al cosmo (Piaget).
Questa immagine del mondo non è il mondo, ma noi non abbiamo alcun mezzo per conoscere il
mondo se non attraverso le immagini che ce ne facciamo e che sottoponiamo ad un processo di
verifica confrontandole con le immagini degli altri, con i fatti e gli avvenimenti. Tale processo può
confermarle perché si avverano pertinenti o respingerle come inadeguate o ancora lasciarci
nell'indecisione. In logica, si tratta del vero, del falso o dell'indecidibile.
Allora, la persona umana è un essere solo costruito culturalmente, in particolare per quanto riguarda
il corpo sessuato, l'identità sessuale e le relazioni sociali? Lo stesso processo descritto
precedentemente avviene nella definizione di noi stessi e degli altri. Anche qui, non accediamo al
nostro io, alla nostra identità se non con un processo di comunicazione con gli altri. Ci siamo mai
chiesti perché passiamo tanto tempo in conversazioni e scambi dal contenuto informativo
praticamente nullo, come le conversazioni sulla pioggia o sul bel tempo? È perché abbiamo bisogno
di sapere chi siamo e passiamo quindi il tempo a proporre a coloro che ci circondano un'immagine
di noi stessi e ci aspettiamo che sia confermata. Al limite, poco importa il contenuto degli scambi, è
la relazione che si instaura tra gli interlocutori che conta. Tuttavia, quando uno scambio ha come
oggetto degli argomenti gravi che ci stanno a cuore, la nostra immagine può riceverne una conferma
valorizzante o un rifiuto sferzante.
Nel secondo caso, dobbiamo allora proporre una variante. Capita anche che la nostra affermazione
non sia percepita, che sia come se non esistessimo. Se tale situazione si verifica abitualmente,
soprattutto per un essere in crescita, in formazione, essa provoca gravi turbe della personalità. Nella
maggior parte dei casi, per fortuna, ci costruiamo grazie alla conferma o al rifiuto della nostra
immagine. E allo stesso modo agiamo noi nei confronti degli altri. Non solo ogni parola
pronunciata, ma ogni atteggiamento, ogni comportamento assume un significato di conferma, di
rifiuto o di negazione. È grazie a tale processo incessante di comunicazione che noi siamo ciò che
siamo. Privato di scambi, privato di ambiente umano, un essere non può costruirsi e diventare
veramente umano. Non si esiste da soli, non si ha una realtà al di fuori dello sguardo dell'altro,
senza il suo riconoscimento.
In questo Simone de Beauvoir aveva ragione: “Non si nasce donna, lo si diventa”. E aggiungeva
“sotto lo sguardo di un uomo”. Il suo ragionamento ometteva l'aspetto reciproco: “Non si diventa
uomo se non sotto lo sguardo di una donna”. Non ci si identifica se non in un gioco sottile tra il
Se Stesso e l'Altro, insieme simile all'altro e diverso da lui. Non si prende coscienza del proprio
sesso che davanti al sesso dell'altro. Le identità si elaborano all'interno di sistemi relazionali i cui
elementi sono interdipendenti, come possono esserlo il maschile e il femminile. Se, effettivamente,
l'identità è costruita, essa non è però creata ex-nihilo. Il sesso come il genere, come l'orientamento
sessuale e come molte altre cose ancora che costituiscono l'essere umano sono dei materiali di base
della nostra identità. Non si sceglie tutto. Si classifica, si organizza, si dà senso. Non è una libertà
sfrenata. Ciascuno, ciascuna ha le proprie costrizioni. Lui, lei, non ha scelto il proprio sesso né il
proprio orientamento sessuale, né i suoi genitori, né il suo ambiente, né il suo ceto sociale, né la sua
cultura, né la sua razza. Ed è con tutto questo che si ha a che fare. La persona umana è più del suo
sesso. Bisogna “fare attenzione a non assimilare l'individuo al suo sesso biologico” (6). Inoltre,
l'ambiente non cessa di cambiare con l'età e le circostanze della vita, obbligando ad indossare nuove
identità. Tale processo di costruzione dura tutta la vita. Si pensa che sia nell'infanzia e
nell'adolescenza che questo processo sia particolarmente attivo e che nell'età adulta si fermi.
Adolescens è un participio presente che designa qualche cosa che si sta facendo, mentre adultus è
un participio passato, è fatto, è terminato. Ma non è così. Se è vero che questo processo è al suo
apogeo negli anni della giovinezza, il suo arresto significa la morte. L'essere umano non cessa di
diventare umano, è l' anthropolescenza, vera natura dell'umanità. Da un lato, abbiamo dei materiali
che contribuiscono a costituirci, ma dall'altro, a partire da quei dati grezzi, c'è la costruzione
personale di cui siamo responsabili.
L'immagine di Dio (7)
Il primo comandamento (Es 203-5 e Dt 5,6-8) proibisce le immagini di Dio: “Non ti farai alcuna
immagine scolpita... Non ti prosternerai davanti a quelle immagini e non le servirai”. Ma come
accedere a Dio senza passare attraverso le immagini? Il modo in cui l'uomo si costruisce e
costruisce il suo mondo, è lo stesso in cui costruisce anche il suo Dio. La storia di Dio riflette la
storia dell'uomo. Jean Onimus (8) mostra come, secondo la sua evoluzione, l'umanità sia passata dal
dio della tribù agli dei cosmici, poi al dio assoluto, astratto, evanescente, alienante, liberatore, da
quello dei mistici a quello del male passando dal Dio orologiaio e dal Dio del bene. Tale
costruzione, d'immagine in immagine, non è terminata. Di quale Dio abbiamo bisogno oggi? Quale
sarà il Dio di domani? Come questa successione di avatar divini è conciliabile con la proibizione di
far delle immagini di Dio?
Anche qui, il costruttivismo può intervenire. Infatti, un aggettivo attira l'attenzione nel primo
comandamento, è la parola “scolpita”. Quando è scolpita, l'immagine accede ad un livello di fissità
e di rigidità. L'immagine è diventata più reale del reale. È diventata un idolo. L'idolo non è solo la
scultura di legno o di metallo (il Vitello d'oro), ma è la nostra idea di Dio, assolutizzata al punto da
prenderla per Dio stesso e di prosternarci davanti ad essa. La mia realtà, quella dell'altro, quella del
mondo sfuggono alle immagini nelle quali vorremmo rinchiuderla e circoscriverla. Il reale è sempre
altro rispetto a ciò che io ne afferro. A fortiori, Dio è il “totalmente altro” su cui io non posso
mettere le mani.
Il Vitello d'oro ci fa sorridere nella sua inadeguatezza a rappresentare Yahvè, eppure le nostre
immagini di Dio sono anch'esse delle ben misere rappresentazioni. Non possono diventare strade
verso Dio se non nella misura in cui accettano di essere colpite da indicibilità. Più facciamo fatica a
farci un'immagine di Dio coerente, che dia senso alle nostre esistenze, più è difficile abbandonarla.
Quando delle circostanze in cui nuove conoscenze teologiche o scientifiche vengono a rimettere in
discussione la nostra immagine di Dio, ci sentiamo invasi dal dubbio, dall'assurdità dell'esistenza,
scossi nelle nostre convinzioni più profonde. È comprensibile che ci aggrappiamo allora alle nostre
immagini obsolete e rassicuranti e che le legittimiamo con la fedeltà o l'obbedienza. Ma siamo
entrati in un atteggiamento di idolatria. La verità, anche quella di Dio, non è da trovare perché
esisterebbe da qualche parte, è da farsi nel corso di un processo mai terminato. Forse è nel cuore
della prova, quando ci sentiamo abbandonati da Dio (dalla nostra immagine di Dio?), quando ci
lasciamo andare, trascinati nell'indecidibile, che il Dio vivo e inafferrabile è più vicino a noi.
Imparare a “surfare”
In ogni tempo, si è cercato di rafforzare la propria identità: costumi regionali, abiti femminili o
maschili molto differenziati, segni caratteristici secondo la classe sociale o l'appartenenza, distintivi,
insegne, ecc. L'evoluzione del mondo ha messo a soqquadro le nostre identità, di razza, di ambiente
sociale, di genere, di sesso. C'è un rimescolamento nuovo delle popolazioni, delle religioni, delle
classi sociali o dei sessi, una suddivisione nuova dei compiti e dei ruoli. Gli antichi punti di
riferimento non sono più adeguati. Allora, bisogna rafforzare delle identità minacciate o entrare
coraggiosamente in un processo di costruzione e di ricostruzione dell'immagine di sé? Le identità
che si elaborano così sono più ricche e più flessibili. Non siamo più rinchiusi in una identità
univoca. Nella logica esclusiva del “o – o”, che rende incompatibili diverse appartenenze, non
dobbiamo forse introdurre la logica del “e – e” dove restano in tensione dei ruoli o dei valori
diversi, o addirittura divergenti? Passando da una logica all'altra, si raggiunge la logica
multidimensionale e complessa che si enuncia così: “o così, o cosà, o entrambi” (9). Non è forse a
questo cambiamento logico che siamo chiamati? Sapendo utilizzare le nostre diverse appartenenze,
conservando in tensione il femminile nel maschile e il maschile nel femminile, pronti a svolgere più
ruoli e cambiarne a seconda delle circostanze, aperti a valori nuovi.
Tale movimento perpetuo, tale fluidità, tale inconsistenza, tale assenza di punti fissi può dare il
capogiro e spingere a ripiegarsi su una proposta identitaria che ha il merito dell' “anzianità”. Una
volta stabilita e considerata soddisfacente una rappresentazione globale, possiamo avere la tendenza
a renderla intoccabile; abbiamo finalmente stabilito il vero e, così facendo, prendiamo la
rappresentazione per la realtà.
Se degli elementi vengono a contraddire questa verità, possiamo preferire non vederli o deformarli
per farli stare nella nostra visione del mondo. Le contraddizioni tra la realtà come è e come
dovrebbe essere in funzione delle nostre premesse sono allora usate per rafforzare la nostra
rappresentazione.
L'opinione si irrigidisce e si trasforma in dogma: doxa diventa dogma. Ci si accanisce tanto più a
difendere la propria immagine quanto più essa corrisponde alla realtà comunemente ammessa nel
proprio gruppo di riferimento. Trovarsi in armonia con il proprio gruppo o con la propria cultura è
altrettanto importante della testimonianza dei propri sensi. Allora si fa orecchio da mercante, ci si
nasconde il volto, si fa la politica dello struzzo. Condannati a non poter far a meno di immagini per
comprendere la realtà, dobbiamo anche conservare l'immagine, il suo statuto di immagine, cioè la
sua rappresentazione significante, ma non comprendente tutto il significato, immagine pertinente
per oggi, per una certa persona, per una certa cultura scientifica o altro, ma senza pertinenza per
domani o per altre culture. Allora, dobbiamo cambiare le nostre premesse. È a questo punto che
bisogna ridare all'indecidibile la sua funzione. Infatti, è scomodo vivere nell'indecidibilità, una sorta
di oscillazione tra il vero e il falso, che comporta la suspens dell'azione. Chi sono? Che cosa devo
fare? Ma è anche l'apertura della ricerca, la sorgente della creatività e di una libertà possibile (10).
L'accesso alla libertà apre ad una enorme responsabilità di fronte a noi stessi e agli altri. La
costruzione di sé è permessa dallo sguardo degli altri e quella degli altri dipende dal nostro sguardo.
Non siamo lontano dalla regola d'oro: comportati verso gli altri come vorresti che essi si
comportassero verso di te.
Mentre il costruttivismo è accusato di sopprimere i punti di riferimento, esso non ne è però
sprovvisto: “la tolleranza, il pluralismo, la distanza che dobbiamo prendere nei confronti delle
nostre percezioni e valori per tenere in considerazione quelle degli altri” (11); la responsabilità,
perché noi siamo in gran parte responsabili della nostra immagine e di quella degli altri; se la nostra
costruzione non è pertinente, non possiamo prendercela che con noi stessi.
Un altro punto di riferimento consiste nell'agire sempre in modo da aumentare il numero delle
scelte. Tutto ciò che rinchiude in un ruolo, in un genere, in un sesso, in un'identità è contrario alla
realizzazione delle potenzialità della persona. Aprire il ventaglio dei possibili, rendersi capaci di
modificare dei significati che non hanno più pertinenza per oggi. Certo, ne consegue una instabilità,
una precarietà, una rimessa in discussione permanente che fanno parte del nostro mondo complesso
postmoderno. Si tratta di restare in equilibrio su questo oceano mobile sviluppando la nostra rete di
interazioni, il nostro potenziale relazionale, la nostra capacità di riflessione.
L'immagine del surfer si impone (12). Invece di seguire un percorso ben tracciato, il surfer si lascia
portare dall'onda. Sotto l'apparente disinvoltura del gesto, si nasconde una forza interiore molto
grande che non è preoccupata o destabilizzata da ciò che sorge, ma che usa al contrario ciò che si
presenta per una maggiore velocità e un maggior piacere. Se, per caso, il surfer è squilibrato, è
allora che mostra tutta la sua capacità di incassare, senza essere demolito. Usando ancora una volta
gli elementi, ritorna in superficie e ricomincia per una scivolata ancora più bella.
Per dei cristiani, questo modo di procedere ricorda quello della fede. La fede non comincia forse là
dove non c'è più un percorso? Chiede di avanzare ancora, di saltare chiudendo gli occhi senza
sapere se ci sarà terra ferma a riceverci, e senza dubbio non ce ne sarà. Talvolta, fuggevolmente,
abbiamo sperimentato che anche senza terra ferma non cadevamo. Come Pietro che cammina sulle
acque: è proprio la fede che lo sostiene, appena ritorna alla realtà ragionevole, affonda (13).
1-Tony Anatrella, Conférenza a Roma, 23 novembre 2011.
2- Cf. Jacques Arènes, psicanalista cristiano, comme Tony Anatrella. Sostengono entrambi con la
loro competenza il pensiero del magistero cattolico sfavorevole al genere. “La tendenza attuale va
piuttosto nel senso di un “costruttivismo” in cui i temi legati alla sessuazione sono considerati
rappresentazioni culturali che non hanno nulla a che vedere con un qualsiasi dato naturale”. In “La
question du genre”, Etudes, gennaio 2007.
3- Questa fragilità maschile (forse una paura arcaica della castrazione?) è sensibile nel documento
« Théorie du genre et SVT » proposto dalla Fondation Jérôme Lejeune, che mostra, sulla copertina,
un ragazzino chino verso il suo sesso, per assicurarsi della sua esistenza, accompagnato dalle
domande seguenti: «Non un uomo? Io? Allora? Che cosa?».
4- Françoise Thébaud, nella rivista Historiens et Géographes.
5- Vico, XVIII secolo, filosofia ripresa da Kant e, tra i contemporanei, Piaget, Edgar Morin e altri.
6- Sylviane Agacinski, riprendendo il pensiero di Aristotele. Femmes entre sexe et genre, Seuil,
2012, p. 72.
7- Articolo pubblicato su Parvis n° 25, 2005.
8- Jean Onimus, Le destin de Dieu, Éd. L’Harmattan, 2003.
9- Edgar Morin.
10- Henri Atlan, Tout, non, peut-être : éducation et vérité, Éd. Seuil, 1991.
11- L’invention de la réalité, Contributions au constructivisme, diretto da Paul Watzlawick, Seuil,
1988, p. 344.
12- Alice Gombault, «Les identités bougent», La Croix, 8 novembre 1999.
13- Alice Gombault, «Quels points de repère?», La Croix, 6 gennaio 2004.