I mariti delle altre - Guia Soncini
Transcript
I mariti delle altre - Guia Soncini
I mariti delle altre - Guia Soncini 5 Se un giorno dovessero chiedermi che cos’è il matrimonio, racconterei la storia di quel politico che, insospettabilmente, aveva una certa passione per le donne. Racconterei la storia che raccontava un’attrice un po’ fanée con la quale lui si era fissato, probabilmente solo perché non era mai riuscito a concludere, e si sa che dalle elementari alla pensione il non ottenimento del giocattolo è sempre il più potente afrodisiaco. Racconterei di quell’estate in cui la famiglia di lui è al mare e lei finalmente cede al suo ennesimo invito. Lui la invita nella casa coniugale: non è certo il caso di farsi vedere in giro per Roma. Mangiano degli affettati in cucina per poi rapidamente passare a fare ciò che sono lì per fare. Lui a un certo punto si alza dal letto, ed è un momento sfasato, non quello in cui uno dei due si alza per tagliar corto il post-coito, ancora non hanno finito, si alza senza una ragione apparente, lei è una donna con un certo uso di mondo ma quell’alzarsi è sufficientemente strano da chiedere «Dove vai?». Lui risponde: «A rimettere in frigo il prosciutto, altrimenti si rovina». Non erano solo le ricette che contrappuntavano l’Affari di cuore di Nora Ephron: tutte le storie di felicità domestica a rischio passano per la cucina. Se non è un affettato, è un elettrodomestico. La separazione del maschio è un libro del 2008. È definibile in molti modi. È il romanzo di uno scrittore al quale qualunque psicanalista direbbe che sta cercando di farsi cacciare di casa, tanto è impalpabile la dissimulazione dell’autobiografismo e tanto è agghiacciante la descrizione della catena di montaggio di tradimenti che arredano un matrimonio apparentemente sereno. È l’opera pornografica ma piena di punti e virgola di un autore stilisticamente rispettabile anche nei suoi eccessi ormonali. È, soprattutto, la versione sociologica della sindrome dell’arto fantasma. Quando uscì Paura di volare io prendevo il biberon, ma temo che le dinamiche delle discussioni che generava non fossero dissimili: perlopiù, tra quelli (quelle?) I mariti delle altre - Guia Soncini che si davano un tono definendolo piuttosto realista, e quelli (quelle?) che non dissimulavano il proprio trasecolare. Ora come allora, il ruolo «Ma è proprio così?!» dà più soddisfazione: atteggiarsi a gente di mondo non è mai raccomandabile, volendo capire qualcosa del mondo. Il protagonista descritto da Francesco Piccolo è un montatore cinematografico, è sposato, ha una figlia – ma questi sono tutti dettagli marginali. Per vocazione, egli tradisce. Devo precisare che questa è una mia interpretazione: altrettanto plausibile sarebbe sostenere che la sua vocazione non sia tradire bensì fare sesso. Il protagonista fa sesso continuamente e un po’ con tutte. Una collega, una passante, la moglie di un amico, la migliore amica della moglie, la madre della moglie (stavo per scrivere “la sorella della moglie”, poi mi sono accorta che stavo sovrapponendo la trama del romanzo alla vita di un tizio che frequentavo: tutti gli accoppiamenti in cattività si somigliano, ma su questo elemento torniamo dopo). C’è una quantità di sesso, in La separazione del maschio, da far sembrare Erica Jong una povera dilettante, lei e le sue centinaia di romanzi sulla scopata senza cerniera e le di essa emanazioni e conseguenze. Sul fatto che quel tizio lì sia un maniaco (o: uno molto dedito a un hobby), le lettrici sono tutte d’accordo, qualunque mestiere facciano e qualunque vocazione abbiano. È sui dettagli, che ci si divide. Quelli che per mestiere scrivono “io”, cioè quelli che raccontano la realtà raccontando di sé, non intendono praticamente mai “io”. È un io diluito, un io compresso, un io distorto da lenti necessariamente narcisiste. Una volta, ai tempi di Caro Diario, chiesero a Nanni Moretti dell’autobiografismo e dell’improvvisazione, e lui disse una cosa tipo «Uno non è spontaneo a casa sua, figuriamoci se è spontaneo davanti alla macchina da presa». La separazione del maschio è scritto in prima persona. È scritto da un maschio che ha deciso d’intitolarlo enfatizzando quella cosa lì: siamo maschi, siamo fatti così. Voi sarete pure dolcemente complicate come in quella canzone da premestruo di Fiorella Mannoia, ma noi siamo traditori per natura, non abbiamo mai smesso di esserlo, anche se colti, anche se di sinistra, anche (soprattutto) se di quegli uomini che hanno il vezzo di dirsi femministi. Noi ci accoppiamo senza ragione, è nella biologia, l’istinto a perpetuare la specie e tutte quelle puttanate, siamo pieni di buone scuse ad alto tasso di scientificità. Avrete non dico letto ma almeno visto il film da Le relazioni pericolose, care I mariti delle altre - Guia Soncini signore dolcemente complicate, no? Ecco, siamo Valmont: «Trascende ogni mio controllo». Che, traslato dalla prosa del Settecento, significa: non sappiamo tenerci i pantaloni abbottonati. La moglie del protagonista di La separazione del maschio non si accorge di niente. Se se ne accorgesse, probabilmente non farebbe differenza, come non l’ha plausibilmente fatta il sospetto autobiografismo per la moglie dell’autore. Ma non perché alla biologia non si comanda e gli uomini sono fatti così e valmontismi assortiti. Perché non ci si lascia per i tradimenti: ci si lascia perché hai comprato solo tre limoni. È la principale lezione che ci lascia la carriera cinematografica di Jennifer Aniston, reginetta delle tradite hollywoodiane su cui avremo fin troppo modo di tornare, e in generale ben più nota per le copertine da cornuta che per il corpus dell’opera cinematografica, di cui nessuna di noi ricorda nulla. Tranne i tre limoni. Sarà che quel film racconta di un lui e una lei che si stanno lasciando, e lottano per il controllo territoriale nell’appartamento che nessuno dei due potrà permettersi da separato (anche sul tema della tana toccherà tornare: la casa è un collante matrimoniale ben più forte dei figli). Fatto sta che le famiglie dei due vengono a cena, lei vuole fare un centrotavola, chiede a lui di portare a casa i limoni, lui si ferma a comprarli, e ne compra tre. Non ci si lascia per i tradimenti: ci si lascia per i limoni numericamente insufficienti per un centrotavola, il prosciutto dimenticato fuori dal frigo, e – soprattutto – per le ambizioni non compatibili. Ci si lascia perché (è di nuovo Macramé) «l’amore dura quel che deve durare», ma non ci si lascia per delle innocue corna in Italia, dove il divorzio continua a essere un’eccezione alla quale ricorrere in casi quali le smanie di paternità tardiva del coetaneo di una moglie in menopausa, o il reperimento sul mercato di un articolo più vantaggiosamente matrimoniabile. Non cacciano di casa i mariti le mogli dei commercialisti, figuriamoci se lo fanno le mogli di coloro che riescono a trasformare gli ormoni in diritti d’autore. Poverette noi, che abbiamo passato anni a scervellarci sui cellulari. A dividerci in quelle che li controllavano – sempre, appena potevano, a ogni occasione, doccia, barba, narcolessia post-coito, macchina da caricare – e quelle che non volevano sapere niente (in genere c’erano rimaste sotto una volta, ed I mariti delle altre - Guia Soncini erano diventate così razionali da dirsi che, se scoprivano cose orrende, poi toccava lasciarsi e insomma trovarne un altro, la crisi del mercato, sai che fatica). Anni a scegliere se iscriverci alla mozione di quelle che, se lui abbandona il cellulare, è perché sta tentando di farsi scoprire, perché vuole che io sappia e lo costringa a piantare l’altra, o di quelle che se lui lo lascia lì incustodito si merita di essere mollato, ché va bene tradirmi ma almeno devi fare lo sforzo di occultare benissimo le prove. E poveretti loro, che in questa fase evolutiva che prevede l’emulazione credono di dover capire cosa fare dei nostri cellulari, e non sanno che la serenità coniugale passa per un altro elettrodomestico. Il cui acquisto è già dichiarazione d’appartenenza a un sottinsieme ben preciso. Ogni volta che si parla di quel libro con qualcuno che l’abbia letto, viene fuori quell’attrezzo. Ogni volta, contrapponendosi all’inevitabile interlocutore che affetta uso di mondo e non si lascia impressionare, qualcuno sgrana gli occhi a proposito della crudezza di quel romanzo, e ogni volta, immancabilmente, quel qualcuno cita l’aspirabriciole. Immagino ci siano facili interpretazioni psicanalitiche per il fatto che, nell’immaginazione di chi ha letto La separazione del maschio, l’uso dell’aspirabriciole per togliere qualunque pelo, capello, brandello di Dna altrui dal talamo coniugale abbia lasciato un segno maggiore dello scoparsi la suocera (chissà se anche a casa di Elaine – la ragazza del Laureato, la figlia di Mrs Robinson – c’è un attrezzo per aspirare le briciole). Io poi mi chiedo se davvero faccia tutta quella differenza. In un certo senso, mi pare l’unico dettaglio narrativamente debole. Una moglie così distratta da non accorgersi che le lenzuola in cui dorme hanno l’odore di un’altra noterebbe un capello non esattamente della sua tinta? Ma è ovvio che posso permettermi di cavillare solo perché ho sempre abitato in case prive di aspirabriciole. Anche dopo il 2008. Quando gli uomini hanno iniziato a guardare con sospetto le mogli che compravano aspirabriciole. Persino se il libro lei non l’aveva neanche sentito nominare; pure se da ben prima che venisse scritto si lamentava che il marito scrollasse la tovaglia in balcone. Mentre scrivo queste pagine Francesco Piccolo tiene da circa un anno una rubrica sul mensile GQ. Ne è protagonista una figura consolatoria per i lettori di quella rivista a target maschile. I mariti delle altre - Guia Soncini C’è questa caratteristica che raccontano gli amputati: si continua a sentire l’arto mancante. Pare che sembri di avercelo ancora. Che si sia convinti di poterlo usare, di esser forti delle sue funzioni. Piccolo chiama il protagonista della sua rubrica Il Maschio, e gli fa fare le cose che, in una civiltà ormai estinta, faceva l’arto fantasma, dal tradire al non ricordarsi il nome di una con cui ha fatto sesso al non voler fermarsi a dormire. Le cose che in questo secolo fanno i nuovi scapoli, cioè le donne. Lucio Dalla l’aveva capito venticinque anni fa, ma d’altra parte essere un genio vuol dire anche fotografare una realtà che non esisterà per decenni ancora. Noi mortali ci abbiamo messo un passaggio di secolo, a capire quanto fosse esatto quel maschio del 1977 che dolente rinfacciava «Ti hanno visto bere a una fontana che non ero io». E non ce ne siamo mica ancora fatti tutti una ragione, di quell’amputazione di ruolo. Ogni volta che leggo quella rubrica, ogni volta che vedo quella maiuscola su Maschio, penso con immensa tenerezza e ammirazione alla bravura di certe mogli, che sono riuscite a convincere i mariti che nulla sia cambiato. Vedere l’uomo moderno che tenta d’illudersi d’essere ancora Il Maschio – quello che è lui che tradisce, è lui che aspira le briciole, è lui che conduce doppie vite, quello che gli anni Cinquanta non sono mai finiti e l’Italia di Ugo Tognazzi lo esige a tavola a Natale – vedere quello spettacolo struggente è come guardare la fragile psiche del padre di Rossella O’Hara che non si capacita del crollo di una civiltà, che preferisce illudersi d’essere ancora proprietario di una florida piantagione con molti schiavi felicemente devoti. Certo che ci crede, e certo che questa sua convinzione va rispettata: prendereste in giro uno con un moncherino? I mariti delle altre - Guia Soncini 7 Conosco un solo uomo che abbia lasciato la moglie per un’altra. Conosco un solo uomo che abbia lasciato la moglie per un’altra avendo con quest’altra una relazione la cui durata si misurava, al momento dell’abbandono del tetto coniugale, in quarti d’ora. Conosco un solo uomo che abbia lasciato la moglie per un’altra che era poco più di un’estranea e l’abbia fatto quando a casa, oltre alla moglie, c’era un bambino abbastanza piccolo da essere ancora allattato. Conosco una sola coppia che si sia separata per fatti di corna. O almeno: usando le corna come pretesto principale. Lei era una ragazza di paese, genere «o mi sposi o non ti seguo al nord». Lui era un professionista in trasferta temporanea che, tutto sommato, non trovava così balzana l’idea di provare pure il matrimonio. Per allegria, di tutte le ragioni sbagliate. Lei poi era rimasta incinta, e quindi al nord stava in casa. Stava sempre in casa. Stava talmente sempre in casa che, la sera in cui usciva con un’amica, il marito la chiamava quattordici volte in due ore perché il bambino piangeva, e cosa se ne fa un uomo di un bambino che piange. Non erano gli anni Cinquanta. E lei non era mia madre. Era il ventunesimo secolo, quello in cui lei aveva la regina delle scuse: la depressione post-parto. Lascerebbe mai, un uomo civile del terzo millennio, una donna che si alterna tra piangere e allattare? Può mai, uno ben più vicino ai cinquanta che ai trenta, innamorarsi con la stessa svagatezza con cui s’è sposato? Quando Sergio Cofferati s’innamorò (o almeno mise su una nuova famiglia con un esemplare di femmina più giovane del precedente), nel 2005, il più lucido pensatore che l’Italia abbia avuto negli ultimi decenni, Edmondo Berselli, diede un’intervista in cui commentava l’eventuale cotta cofferatiana, e quella – ancora più eventuale – di Gianfranco Fini, su una cui leggenda di flirt con Stefania I mariti delle altre - Guia Soncini Prestigiacomo le cronache pettegole sispendevano con lo zelo della stampa d’un Paese privo e di Grimaldi e di Windsor. Quell’intervista sta ancora attaccata sul mio frigo, ma non c’è bisogno che mi alzi e vada a prenderla per ricopiarvela, giacché ne so a memoria i passaggi più rilevanti. Quello in cui Berselli dice che è un problema di crollo delle ideologie, questo per cui un signore stagionato con un posto di responsabilità scambia una qualsiasi copula per roba per la quale andarsene di casa: «Non credendo più in niente, non crede neanche nel clima monogamico». Quello in cui ribalta la scemissima convinzione protestante che il problema sia il sesso clandestino, e non il sentimento palese: «Sono per le amanti nascoste, non per i fidanzatini di Peynet». Soprattutto, quello in cui conclude che scopare sì, ma innamorarsi, santiddio, come si fa a fidarsi di un politico che s’innamora, di un sessantenne che si prende la cotta: «Innamorarsi è segno di debolezza e di fragilità culturale». Era il ventunesimo secolo, dunque, e il tizio che conoscevo, e la sua fragilissima fragilità, e le sue pesanti catene d’oro incontrarono su Facebook (dove altro?) l’anima gemella– sia detto senza alcuna ironia. Lui e l’Altra erano proprio anime gemelle, adulti capaci di dire senza mettersi a ridere «Tu non capisci, noi siamo due spiriti liberi» a una che piangeva e allattava, allattava e piangeva. La constatazione non troppo amichevole di spiritoliberevolezza avvenne allorché la moglie – con l’appoggio di talune amiche e la riprovazione di altre, secondo uno schema di gioco imprevedibile nella sua prevedibilità, ma su questo torniamo tra un po’ – lo mise davanti a evidenze con cui voi e io rinfacceremmo a un tredicenne di non aver fatto i compiti. Ti ho visto che hai sempre la chat aperta. Chi è questa che hai tra le preferite di Facebook e io non l’ho mai sentita nominare. Lui non vedeva l’ora di confessare. Le amiche più spicce di lei dicevano (in sua assenza): perché lei nell’ultimo anno è stata una coperta bagnata. Le amiche meno spicce dicevano che era Melania Rea. Melania Rea era il caso di cronaca nera di quell’estate e, a ogni parente che passava in qualche contenitore televisivo a testimoniare le smanie del marito (accusato di averla uccisa) e la lagnosità di lei nella vita matrimoniale, le amiche I mariti delle altre - Guia Soncini della tizia che conoscevo sospiravano chetutto sommato, a ben pensarci, non era andata poi tanto male, alla loro amica: era viva. (Il ridimensionamento delle aspettative è un meccanismo diffuso nelle vicende di accoppiamenti adulti: per parecchio tempo, dopo che il tizio che conoscevo se ne fu andato di casa, la moglie abbandonata, di fronte a ogni racconto di altrui disastro di coppia, sospirava «Almeno non se n’è andato, non sai quanto sei fortunata», o «A me ogni uomo che non ti pianta sola con un bambino da un giorno all’altro sembra un ottimo marito», o altre variazioni sulla teoria della relatività.) Quando raccontava da quali indizi aveva intuìto, come l’aveva interrogato, quanto rapidamente s’era sentita dire che sì, effettivamente si era innamorato, e come poi l’aveva visto andar via di casa nel giro di due settimane; quando faceva la cronaca d’un paio di corna annunciate, la moglie abbandonata riscontrava nelle donne due tipi di reazioni: quelle che «dovevi far finta di niente», e quelle che «hai fatto benissimo, figuriamoci se una può tenersi uno che la tradisce». L’intero campione statistico delle seguaci del farfintadinientismo era del tutto incapace di attenersi a questa linea nella propria vita. Erano quelle di cui si diceva poco fa, donne che controllavano telefoni mentre il marito era sotto la doccia e che benedicevano la diffusione dell’iPhone, con il suo menu di sms uguali per tutti che abbrevia le ricerche: mica come prima, che una rischiava di non riuscire a controllare ogni mittente sospetta nel tempo di uno shampoo senza balsamo. Le seguaci dell’indagine a tutto campo, invece, non ne avevano mai fatta una, di indagine, neanche svogliata. Nessuna di loro. Erano, tutte, praticanti del «preferisco non sapere», del «se sai poi non puoi tornare indietro», dell’occhio che non vede, del cuore che non duole. Con la stessa tenacia con cui erano, per chiunque altra, teoriche dell’indaga-e-punisci. Credo che la morale sia che nessuna impara dai propri errori ma tutte siamo docenti in quella disciplina di base che è il «fai il contrario di me, ti troverai bene». È passato un anno, nel momento in cui scrivo questa pagina, dall’unico caso a me noto di padre di creatura ancora gattonante che abbia abbandonato la prole per una biondina di passaggio. Tutte le transitorietà sono apparentemente consolidate. Lui e la biondina sono ancora uniti da un certo gusto per la bigiotteria pacchiana I mariti delle altre - Guia Soncini e per le definizioni da Smemoranda – sì, insomma: sono ancora spiriti liberi. La ormai ex moglie non ha ancora smesso di allattare. Dall’estate 2005, invece, sono passati quasi otto anni. Cofferati sta ancora con la donna con cui faceva il fidanzatino di Peynet. Fini se n’è poi andato davvero di casa, ma non per quella Stefania: per un’Elisabetta con cui ha avuto dei bambini nuovi e delle vacanze alle Maldive e la vita che mio padre tanto avrebbe voluto. A modo suo, ha compiuto un’impresa eroica. Ha lasciato la moglie da presidente di partito, essendo cresciuto in un Paese in cui non le lasciavano neppure i cinematografari.