Rossanda: «Nessun dialogo» La fondatrice se ne va
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Rossanda: «Nessun dialogo» La fondatrice se ne va
CON LE MONDE DIPLOMATIQUE + EURO 1,50 SPED. IN ABB. POST. - 45% ART.2 COMMA 20/ BL 662/96 - ROMA ISSN 0025-2158 ANNO XLII . N. 283 . MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012 IL TEMPO NON È SCADUTO Norma Rangeri C are compagne e cari compagni, care lettrici e cari lettori, molti di voi già sanno della decisione presa da Rossana Rossanda. La decisione – di non scrivere più su queste pagine – ci colpisce e ci addolora. Per mille e una ragione. Perciò speriamo in un ripensamento, perché sappiamo che il suo contributo intellettuale è importante per noi, per la sinistra italiana, per il paese. Il tempo del confronto non è scaduto. Se abbiamo discusso poco sul domani del giornale, sul prodotto che facciamo, discutiamone ancora, impegniamoci ancora di più, nei prossimi giorni e settimane che restano. La sua scelta piomba come un macigno sul presente di questa piccola-grande impresa collettiva, proprio in uno dei momenti più difficili della sua travagliata storia. E viene dopo mesi di discussioni, spesso laceranti, ampiamente raccontate. Chi ci segue e/o ci sostiene, ha potuto leggere interventi e opinioni molto diversi sul ruolo del giornale, sul presente e sul futuro del manifesto. Tutti hanno potuto esprimersi in totale libertà, senza censure, senza limiti di spazio, senza limiti di tempo. La direzione e la redazione – che solo qualche sciocco può definire «manipolo» – hanno mantenuto aperto il dialogo e il confronto dentro e fuori il manifesto, con decine di assemblee interne e anche con assemblee esterne. E al tempo stesso si sono fatte carico di pensare, scrivere, fare uscire queste pagine ogni giorno, nonostante le difficoltà, le avversità, l'amministrazione controllata. Perciò non condividiamo la critica sull'indisponibilità al dialogo: è ingenerosa e ingiusta. La verità è un'altra, naturale come la vita: esistono idee diverse su cosa deve essere il manifesto. Noi ne abbiamo preso atto. Nella convinzione che le differenze potessero convivere, come è sempre stato, compresi gli ultimi tre anni di direzione. Ora che si sta per decidere il futuro del giornale, chi dovrà gestirlo, chi dovrà guidarlo, in una parola come dovrà essere il nuovo manifesto, ecco che le diversità di "linea" si trasformano in rottura delle relazioni, anche umane, in separazioni traumatiche. Essendo queste vicende autodistruttive una costante della nostra storia, qualcuno dirà che interessano poco. A noi invece interessano molto. E siamo convinti che interessano le lettrici, i lettori, i circoli, la redazione, i collaboratori vecchi e nuovi. Perciò non molliamo, non ci arrendiamo. Il dibattito, la libertà delle idee e la diversità di opinione, sono un patrimonio nostro, nel quale continuiamo a credere. Lo ripeto: il tempo del confronto non è scaduto. Ci rendiamo conto però che se le rotture non verranno ricomposte (non dipende solo da noi) peseranno molto sulle sorti del giornale e su chi da anni, da decenni, lavora al manifesto. Comunque ogni lettrice, ogni lettore che ci ha seguito in questa ultima fase, ha la possibilità di dire ciò che pensa di questa situazione. Perché il giornale e il sito continuano a uscire. Fino alla scadenza prevista dall'amministrazione controllata. Poi sarà un'altra storia. EURO 1,50 Siamo qui La notizia siamo noi. Tra dolorosi abbandoni e polemiche ritirate, tuttavia qualcosa di buono c’è ancora: la volontà di ricominciare insieme. E di cambiare. Noi con voi. Impresa naturalmente difficile, ma non impossibile PAGINE 2, 3 MANIFESTO FUTURO Rossanda: «Nessun dialogo» La fondatrice se ne va La nuova cooperativa, una luce in fondo al tunnel P reso atto della indisponibilità al dialogo della direzione e della redazione del manifesto, non solo con me ma con molti redattori che se ne sono doluti pubblicamente e con i circoli del manifesto che ne hanno sempre sostenuto il finanziamento, ho smesso di collaborare al giornale cui nel 1969 abbiamo dato vita. A partire da oggi (ieri per il giornale), un mio commento settimanale sarà pubblicato, generalmente il venerdì, in collaborazione con Sbilanciamoci e sul suo sito www.sbilanciamoci.info. Rossana Rossanda SENZA FINE Il valzer degli addii e il quotidiano sogno di una sinistra diversa MATTEO BARTOCCI |PAGINA 2 COMMENTO Dopo tre giorni di votazioni, il collettivo del manifesto ha scelto il gruppo di lavoro per la costituzione di una nuova cooperativa. Dovrà definirne lo statuto e stilarne una carta di intenti. Allo stesso tempo individuerà la pianta organica. È questo il punto più doloroso. Una parte degli attuali soci dipendenti, infatti, non farà parte del nuovo «manifesto». È l’alto prezzo da pagare per la continuazione di una esperienza sempre dalla parte del torto |PAGINA 3 TARANTO l VELENI Un’alleanza per ricominciare Alberto Asor Rosa I nsomma, qualche conferma al nostro discorso dalle primarie del centro-sinistra è venuta. La prima, la più importante, è sotto gli occhi di tutti. Più di tre milioni di persone, in una situazione critica di estrema gravità, in controtendenza rispetto ai parametri più negativi della nostra condizione (astensionismo, sfiducia, antipolitica), sono andate a votare. Questa è la massa critica su cui agire per iniziare un nuovo percorso. Nessuno può dire che essa stia lì pronta a farsi guidare verso «le magnifiche sorti e progressive» cui i più illuminati aspirano. Ma almeno ce ne offre le condizioni. CONTINUA |PAGINA 15 PRIMARIE/VERSO IL BALLOTTAGGIO Riva annuncia: «L’Ilva chiude». Cinquemila operai a rischio L’INCHIESTA - La decisione del gruppo, dopo le nuove ordinanze di arresto nei confronti del patron dell’azienda e di altri dirigenti. Nelle carte spunta anche il nome di Vendola. I sindacati Fim, Fiom e Uilm tarantini proclamano per oggi lo sciopero dei lavoratori dello stabilimento (FOTO ANDREA SABBADINI) Nichi a Bersani: ti voto se c’è profumo di sinistra «Mi impegno a non far vincere Renzi», ma se Bersani al ballottaggio vuole i voti di Nichi Vendola «dovrà far sentire il profumo della sinistra: tagli agli F35 e impegni contro i trattati europei». Intanto De Magistris agita gli arancioni: «Liste autonome, ma impegnate a far vincere il centrosinistra» PREZIOSI |PAGINA 4 SCUOLA «Corporativi a chi?» La scuola si ribella Dopo le accuse di corporativismo rivolte dal Monti e Napolitano sindacati, insegnanti e studenti si ribellano: «I veri conservatori sono il presidente del consiglio e il ministro Profumo, che non hanno nessun progetto di innovazione». CICCARELLI |A PAGINA 16 SIRIA | PAGINA 7 Gli insorti: cluster bomb uccidono 10 bambini EGITTO| PAGINA 7 Morsi contro tutti. Oggi due cortei al Cairo REPORTAGE INDIA/BANGLADESH FOTOGRAFIA Le stragi annunciate del tessile asiatico Lo scatto al femminile della saudita Manal MARINA FORTI l PAGINE 8, 9 MANUELA DE LEONARDIS l PAGINA 12 pagina 2 il manifesto MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012 SIAMO QUI Fine • il manifesto è nato il 28 aprile 1971 ed è morto il 3 febbraio 2012. La liquidazione non è un pranzo di gala, ma il fuoco amico è una pagina troppo brutta per essere vera Matteo Bartocci P er la cronaca, il manifesto è nato il 28 aprile 1971 ed è morto il 3 febbraio 2012, quando è iniziata la liquidazione coatta amministrativa. Chi ci sostiene e ci legge sa dei nostri sforzi titanici per tenerlo aperto, della sottoscrizione disperata dello scorso inverno, dei tagli che abbiamo fatto e faremo ancora alla nostra carne viva. A noi stessi. Tutte e tutti. È la miopia di chi osserva soltanto gli ultimi fotogrammi di una storia a far dimenticare i tanti, i troppi, che non se la sono più sentita di continuare in queste condizioni politiche, editoriali e umane impossibili. Fare nomi è sgarbato. Ma per noi non sono nomi. Rossanda, D’Eramo, Halevi, Vauro, sono solo gli ultimi (ultimi non certo per importanza) ad aver lasciato il giornale. Molti altri se ne sono andati senza dirvelo, con un pudore e un lutto che non sempre si scioglie in torti o ragioni. Sono nostre compagne e compagni. Siamo da quarant’anni «dalla parte del torto». Siamo tutte e tutti del manifesto, ciascuno con una sua storia, piccola o grande che sia. I comunisti che litigano e si scindono in frammenti impalpabili è una soap che appassiona politica e stampa da decenni. Se lottiamo per salvare un giornale fallito, allora va bene una breve di rito in cronaca. Se ci pigliamo a pesci in faccia allora vai con le tifoserie a tutta pagina e miopi su categorie tutte inadeguate a racchiudere la vera dimensione del manifesto: vecchi/giovani, carta/Web, comunisti/non comunisti, notizie/analisi, formare/informare, politica/giornalismo. Più che un «manipolo», come ci definisce in una lettera indirizzata ad altri il caro Joseph Hale- Il sogno quotidiano d vi, il problema sono i «manipolatori». Ieri mattina abbiamo fatto l’ennesima lunga assemblea sul nostro futuro. Sugli addii e i limiti - gli errori, anche - di queste ultime settimane. C’è stato un voto importante, durato ben tre giorni, di cui vi diamo conto nella pagina a fianco. Ci sono persone che faticano, dietro le pagine che ogni giorno mandiamo in edicola. Lavorando gratis, anche in cig, come nell’ultima domenica delle primarie. C’è una scommessa sul manifesto e su chi lo legge, dietro l’ostinazione con cui lo pensiamo ogni giorno. Gli addii clamorosi non sono una caratteristica esclusiva del collettivo che stampa queste pagine per gentile concessione del ministero dello Sviluppo economico. Per dirne uno soltanto, Aldo Natoli fondò questo giornale e se ne andò dopo pochi anni. Editorialisti fondamentali non scrivono più. Di «penne gentili» forse ne abbiamo e ne avevamo diverse, a cominciare da quella di Marco. Gli stessi fondatori e direttori si sono allontanati più volte - molti anche definitivamente - per dissidi profondi e incomponibili con una redazione molto politica e tanto «ingovernabile» da essere definita, da subito, «corsara». Ma il fuoco amico no. Questo è un inedito di cui volentieri avremmo fatto a meno. Da febbraio a oggi, in molti abbiamo credu- to sinceramente di essere immuni dal virus mortale di tanta sinistra. Che contro tutti i pronostici e grazie a tutte e tutti ce l’avremmo fatta anche stavolta a salvare il manifesto dall’abisso in cui è precipitato dopo quarant’anni di storia e di debiti insolvibili. Gettare il peso violento di questo fallimento solo sulle spalle di chi lavora oggi - e vota con tanto di firma per il suo licenziamento, come leggete a fianco - è una pagina troppo brutta per essere scritta davvero. Perché più che il dolorosissimo (per voi e soprattutto per noi) «valzer degli addii» dal manifesto, in questi mesi ci è piaciuto incontrarvi in decine di assemblee, immaginare copertine irriverenti, raccogliere reportage inediti e articoli scomodi. Non siamo perfetti, tutt’altro. Non andiamo sempre d’accordo, tutt’altro. Ma restiamo onesti (umani) anche se la liquidazione non è un pranzo di gala. La soap dei comunisti che litigano è un classico. Ma non è questo il caso. In una redazione «corsara» gli addii clamorosi avvengono fin dalle origini Chi ci segue da tempo sa che il manifesto non dipende da chi lo fa ma da chi lo legge e lo usa per sé moltiplicandone il valore. Dipende da chi si infuria per una copertina, un editoriale o una trovata fuori posto. Se questa storia sopravvivrà «senza fine», come dicevamo a febbraio, dipende da voi. Dal riconoscimento che il manifesto può non essere sufficiente ma è (ancora) necessario. Una rottura quotidiana del possibile. L’incontro tra diversi. Comunisti e non. Giovani e vecchi. Intellettuali e edili (questa è difficile per i non addetti). Star mondiali e semplici manovali dell’editoria. Un «manipolo», semmai, di sognatori. In cui anche oggi, mentre scriviamo queste righe nere, titoliamo e impaginiamo articoli e articolesse delle stesse persone che altrove ci chiedono di vergognarci per quello che abbiamo fatto. Nessuna vergogna invece. Noi siamo qui. FOTO E ELABORAZIONE GRAFICA DI ATTILIO CRISTINI D’ERAMO · Cronistoria di una dimissione Il caso che non c’è agita redazione e lettori ROMA M a esiste davvero un «caso Marco D'Eramo»? Per capire il reale spessore di una polemica che ci impegna ormai da settimane, bisogna risalire all'8 novembre scorso quando Marco ci invia una mail a dir poco infuriata che riportiamo qui accanto. Cosa era successo? Una cosa che avviene normalmente in qualsiasi redazione. Era stato chiesto a Marco un commento sulla vittoria di Obama alle presidenziali Usa e Norma Rangeri nel passare l'articolo ha ritenuto giusto tagliare un «Uff!» iniziale per evitare un fraintendimento: «uff» non come espressione di sollievo, ma di indifferenza. Ecco la causa scatenante, quella parolina di tre lettere seguite da un punto esclamativo senza le quali naturalmente il contenuto dell'articolo non cambia. Eppure per Marco è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Senza quell'«Uff!», spiega, «cambia tutto il tono dell'articolo (se non ve ne accorgete dovete urgentemente andare a scuola di scrittura)». Da qui l'annuncio di dimissioni «con effetto immediato». Dire che il tono, ma soprattutto il contenuto della mail lascia stupiti quanti la leggono è dir poco. Al punto che alcuni tra noi decidono di chiamare Marco per ascoltare le sue ragioni, ma soprattutto per chiedergli di fare marcia indietro sulle dimissioni. Spiegandogli, tra l'altro, che pubblicare una mail come quella che aveva spedito sarebbe stato imbarazzante per tutti, anche per lui. Tra i primi a scrivergli c'è la direttrice Norma Rangeri, ma mail e telefonate si susseguono. Tutto inutile, al punto che quattro giorni dopo, il 12 novembre, arriva una seconda mail: «Uff compagne/i, forse non mi sono spiegato», scrive Marco: «Le mie dimissioni sono irrevocabili. E non per un uff, ma per tutto quello che lo ha preceduto e lo ha accompagnato: il vaso era già cominciato a straboccare. Per dirla con chiarezza, la mia capacità di sopportazione era esaurita». Questa volta Marco entra un po' più nei particolari, spiega che all’origine delle dimissioni ci sarebbero altre ragioni. E comincia un altro giro di telefonate in cui Marco torna indietro nel tempo, parla delle incomprensioni avute nel corso degli anni trascorsi al manifesto, lavorando come inviato in giro per l'America ma non solo, ricoprendo ruoli di responsabilità all'interno del giornale. Anni in cui incomprensioni ci saranno sicuramente state ma che - gli viene fatto notare - è inutile rivangare in un momento in cui quasi tutti stanno cercando di tenere in vita il giornale. Un momento in cui anche il suo contributo è prezioso. Come del resto è sempre stato. Per citare solo l’ultimo anno: sono stati 76 gli articoli scritti da Marco, la maggior parte dei quali commenti in prima pagina. Se c’è una colpa imputabile al collettivo è allora di non aver potuto inviare, come in passato, Marco negli Stati uniti per seguire le elezioni, ma questo solo ed esclusivamente perché, come ormai sanno tutti, non ci sono soldi e l’amministrazione del giornale è nelle mani dei liquidatori. Ancora una volta, però niente da fare. Ogni tentativo di convincere Marco a ritirare le dimissioni naufraga contro la sua volontà di mantenere la decisione presa: «Poiché vedo che questa storia (la storia del manifesto, ndr) sta finendo molto male, a pesci in faccia - scrive Marco -, preferisco presentare le mie dimissioni in modo sommesso, senza rotture roboanti, ma ripeto, irrevocabili». E soprattutto, come ripete più volte, «pubbliche». Su una cosa non ci sono dubbi: questo collettivo ha fatto di tutto per convincere Marco a non andare via, senza però riuscirci. Da qui il tono rassegnato della risposta data alla sua lettera di dimissioni pubblicata dal giornale. Forse quanti, in buona fede, hanno sottoscritto un appello a favore di Marco dal quale sembra quasi che lui sia stato messo brutalmente alla porta, si sono sentiti raccontare una storia diversa. STORIE DI REDAZIONE Un «Uff» di troppo, o molto di più. Dimissioni in diretta di Marco d’Eramo Con questa mail inviata l’8 novembre scorso abbiamo appreso delle dimissioni di Marco D’Eramo. Di seguito, la risposta inoltrata poco dopo dalla direzione. C are/i compagne/i, io ho 65 anni, ho pubblicato vari libri tradotti in varie lingue e faccio questo mestiere da quarant'anni, e sono in questo giornale da 32 anni. Se mi si chiede un editoriale, chiedo che sia pubblicato come l'ho scritto. Se lo comincio con «Uff! L'abbiamo scampata bella» PRETENDO che non venga cambiato senza essere avvertito, e soprattutto pretendo che non venga cambiato affatto, se esplicitamente ho chiesto al telefono al caporedattore che quella parola (Uff!) non venga soppressa, perché cambia tutto il tono dell'articolo (se non ve ne accorgete dovete urgentemente andare a scuola di scrittura): o allora me lo si dica e io ritiro l'editoriale. Per cui mi dimetto con effetto immediato dal giornale. Non chiederò , come altri hanno fatto, che mi vengano corrisposti gli arretrati non pagati per la funzione di inviato speciale. Rivendico solo il normale Tfr e le ferie non godute. Non vi saluterò né col pugno chiuso né col medio sollevato. Vi chiedo solo di darne notizia sul giornale. Buon lavoro, Marco d'Eramo C aro Marco, il tuo articolo l'ho passato io, nulla sapendo della tua richiesta di «o uff o morte», altrimenti, pur essendo tarda l'ora, ti avrei fatto chiamare per consigliarti di toglierlo perché non suonava come un sospiro di sollievo (penso che questo fosse il tuo intento). Ma, detto questo, la tua reazione mi sembra, come dire?, un filo sopra le righe, non ti pare? Norma L’APPELLO PER MARCO Amici e collaboratori «È una vergogna» U na persona fine, una scrittura elegante, uno sguardo sempre lucidamente aperto e sempre internazionalista: questo è Marco d’Eramo per noi, e il modo in cui il manifesto ha commentato la sua uscita dalla redazione ci lascia esterrefatti. È una vergogna per un giornale che è stato ed è un esempio di riflessione critica per tanti sostenitori – che da noi era letto con ancor più curiosità, specie in questi tempi di crisi, quando c’era un articolo di Marco – replicare in quel modo alla sua lettera di commiato del 21 novembre: sen- za grazia, senza stima, senza affetto, con tre righe secche e fredde in calce alle lettere al giornale, in quattordicesima pagina, dopo due necrologi e con un titolo che si discosta poco da un necrologio. Una replica in cui non manca – è quello che mette più tristezza – un augurio di «buona fortuna» che con studiata apparenza nasconde sarcasmo, come quando ci si sbarazza in realtà d’un fardello. Il manifesto diventa d’un sol colpo più povero, senza Marco. Entra nella logica, che non dovrebbe esser sua, secondo cui tutto si può buttare via. Un giornalista colto e competente, un'intelligenza originale che per 32 anni ha contribuito in prima fila a fare del «manifesto» un punto di riferimento, è un patrimonio comune, e voi avete liquidato il suo commiato come se niente fosse, senza lasciar capire ai lettori le ragioni di questo allontanamento. Un epilogo penoso che priva il giornale e i suoi affeziona- il manifesto MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012 SIAMO QUI Senza fine • Un voto durato tre giorni di tutti i soci della vecchia coop apre la strada a un progetto da presentare a lettori e sostenitori di una sinistra diversa FUTURO · Costruire una nuova cooperativa per far rinascere il giornale. Si può fare? Una luce in fondo al tunnel Benedetto Vecchi U na nuova cooperativa per i prossimi quaranta anni di vita de il manifesto. È questo l’obiettivo del gruppo di lavoro eletto dal collettivo tra venerdì e domenica. Un obiettivo e una scommessa che vogliamo giocare, consapevoli delle difficoltà che incontreremo, ma anche delle potenzialità politico-giornalistiche che il manifesto può ancora esprimere. Il gruppo avrà un compito difficile. Nella pagina presentiamo il dispositivo votato e i risultati emersi dal voto. I nove mesi di liquidazione coatta amministrativa hanno cambiato il modo di lavorare. Abbiamo discusso a lungo su come uscire dal tunnel in cui eravamo e siamo. Ci sono stati momenti di lavoro collettivo, ma anche discussioni aspre tra di noi. È però arrivato il momento di voltare pagina e di ricominciare a discutere non su come sopravvivere, ma di come vivere, riaffermando il valore politico-giornalistico dell’anomalia chiamata il manifesto. Le discussioni di questi mesi hanno visto intrecciarsi aspetti politico-giornalistici e aspetti organizzativi. Abbiamo provato, talvolta riuscendoci, altre volte no, a mantenere separati i due corni del dilemma. La priorità che ci siamo dati lo scorso febbraio era di continuare le pubblicazioni perché era il solo modo per poter elaborare un progetto politico-editoriale che consentisse l’uscita dalla liquidazione coatta amministrativa. Obiettivo prioritario senza il quale qualsiasi discussione su cosa debba essere il manifesto del futuro era priva di fondamenta. Sono stati mesi difficili, durante i quali la discussione non si è arrestata. Inutile rimuovere il fatto che alcuni compagni e compagne non erano convinti delle scelte che venivano fatte. Con loro la discussione va ripresa. E potrà essere facilitata dall’esito del voto, che ha individuato nella costituzione della nuova cooperativa il terreno su cui misurare la capacità di fare il «nuovo» manifesto. Chi farà parte del gruppo di lavoro ha avuto un mandato preciso, raccogliendo un ampio consenso. Il conflitto tra punti di vista differenti è stato da sempre la linfa vitale de il manifesto. Ma da questa situazione di crisi non si esce cancellando l’eterogeneità delle culture politiche presenti nel giornale. Semmai va valorizzata, messa al lavoro per fare un giornale adeguato a una realtà che ha mandato in frantumi la bussola che ha fornito, in passato, al collettivo la direzione da seguire. Serviva e serve costruirne una nuova, per non smarrirsi. Per fare questo c’è bisogno dell’apporto di tutti, anche se sappiamo che molti dei soci dipendenti non potranno far parte della nuova cooperativa. L’uscita dalla liquidazione coatta ammnistrativa pone infatti un vincolo inaggirabile. Il futuro manifesto dovrà infatti rispettare una condizione preliminare: il bilancio esige di essere in pareggio. È il passaggio più doloroso che il collettivo è tuttavia disposto a compiere per garantire il futuro a un giornale nel quale il lavoro coincide con una scelta di vita. Nei giorni scorsi abbiamo cominciato a discutere con i circoli de il manifesto – la componente organizzata di quell’irrinunciabile patrimonio che sono i nostri lettori e collaboratori – su come impostare una agenda di lavoro con loro, consapevoli del valore politico della loro proposta di proprietà collettiva, ma altrettando consapevoli che è un obiettivo anch’esso diffi- cile da raggiungere in tempi brevi. Il gruppo eletto lo scorso fine settimana elaborerà lo statuto della nuova cooperativa, un piano industriale adeguato e la pianta organica. Nei mesi scorsi sono state studiate ipotesi e proposte per far sì che il numero dei soci dipendenti della futura cooperativa sia il più ampio possibile, prospettando anche un numero di soci non dipendenti per garantire che il nucleo «storico» – compagni e compagne che in passato hanno fatto la scelta del prepensionamento per ridurre il costo del lavoro, continuando tuttavia scrivere e a collaborare - ne possa fare parte. I tempi di lavoro saranno necessariamente brevi – l’esercizio provvisorio ha termine il 31 dicembre – ma il gruppo di lavoro parlerà con i soci della cooperativa in via di liquidazione per illustrare le funzioni e la pianta organica del nuovo manifesto, nel rispetto dei diritti individuali e collettivi dei soci dipendenti. La nuova cooperativa è la condizione necessaria, ma non sufficiente per continuare l’esperienza del manifesto. Serve infatti un piano editoriale per il suo rilancio. Nel corso delle ultime assemblee del collettivo è però emersa la necessità della stesura di una carta degli intenti che sintetizzi gli obiettivi politico-editoriali del nuovo manifesto. Come è costume al manifesto, il gruppo di lavoro si presenterà in assemblea sottoponendo al collettivo le proposte del piano industriale, dello statuto della nuova cooperativa e la carta degli intenti. L’agenda / IL COLLETTIVO DEL «MANIFESTO» ALLE URNE I risultati delle votazioni sul gruppo di lavoro ti lettori italiani e stranieri di un pensiero sul mondo, sull'economia e la storia economica, sulla politica, capace di aprire punti di vista nuovi, e per questo apprezzato e cercato. È una giornata buia che somiglia molto a una disfatta. Pietro Alessandrini, Enrico Alleva, Daniella Ambrosino, Guido Ambrosino, Daniele Barbieri, Giuliana Beltrame, Paola Bellusci, Bepi Bertoncin, Curzio Bettio, Giorgio Boatti, Mariarosa Bricchi, Bruno Cartosio, Gian Paolo Calchi Novati, Giustina Orientale Caputo, Alessandra Caraffa, Cristina Cecchi, Arnaldo Cecchini, Mauro Chiodarelli, Alessandra Cicchetti, Gabriele Ciucci, Franco Coppoli, Anna Maria Crispino, Astrit Dakli, Victoria de Grazia, Pietro Del Soldà, Marcella De Negri, Andrea Dernbach, Marco Dotti, Alessandro Fallavollita, Lorenza Favaro, Gianni Ferrara, Miriam Ferrari, Maria Ferretti, Bruno Fini, Adelin Fiora- to, Marina Forti, Mario Gamba, Ferruccio Gambino, Maria Grazia Giannichedda, Giulio Giorello, Mariella Gramaglia, Joseph Halevi, Gianfranco Laccone, Francesca Lancillotti, Roberto Leone, Marcello Lorrai, Corinne Lucas, Marcello Madau, Claudio Magliulo, Donatella Mardollo, Giorgio Mariani, Leonarda Martino, Danielle Mazzonis, Simona Morini, Francesca Mortelli, Antonino Morvillo, Anna Nadotti, Pasqualina Napoletano, Emilio Orlando, Gabriella Paolucci, Giorgio Parisi, Lorenza Parisi, Giorgio Pecorini, Gabriele Pillon, Sandro Portelli, Rosa Puca, Paola Raffo, Doriana Ricci, Jaime Riera Rehren, Annamaria Rivera, Giovanni Ruffa, Renata Saiani, Livio Sansone, Bia Sarasini, Cinzia Sciuto, Martina Simeti, Barbara Spinelli, Junko Terao, Omero Timoncini, Gianni Tognoni, Fabrizio Tonello, Roberto Toscano, Lucia Tozzi, Nadia Urbinati, Paolo Vineis, Ambros Waibel Ecco il testo del dispositivo messo ai voti tra tutti i soci della cooperativa. «Il collettivo del manifesto affida a un gruppo di lavoro il compito di presentare nel più breve tempo possibile un piano per la costituzione della nuova cooperativa e un progetto per la pianta organica dei dipendenti. Il gruppo di lavoro proposto in assemblea è composto da direzione (Norma Rangeri), amministrazione (Luana Sanguigni), cdr (Benedetto Vecchi), un membro della rsu, del desk (Matteo Bartocci), collaboratori (Francesca Borrelli). Sul dispositivo l’assemblea chiede il voto nominale e palese di tutti i soci della cooperativa in liquidazione. Si può votare per email alla segreteria di redazione dalle 17 di venerdì 23 novembre alle 17 di domenica 25 novembre. Votazioni e risposte: Sì: Francesco Adinolfi, Roberto Andreotti, Alessandra Barletta, Matteo Bartocci, Emanuele Bevilacqua, Marco Boccitto, Micaela Bongi, Francesca Borrelli, Pupa Brunori, Alessandro Cannelli, Paola Capitani, No: Michelangelo Cocco, Sara Farolfi, Francesco Piccioni, Doriana Ricci. Astenuti: Gianni Beretta, Bruna Di Pietrantonio, Giuliana Palombi. Non intendo partecipare al voto: Loris Campetti, Alessandra Cicchetti, Mariuccia Ciotta, Marcello Cornacchia, Astrit Dakli, Erasmo D'Angelis, Massimo De Feo, Ida Dominijanni, Tiziana Ferri, Marina Forti, Maurizio Matteuzzi, Angela Pascucci, Orsola Casagrande, Vauro Senesi, Roberto Silvestri, Giorgio Zibellini. Gianfranco Capitta, Riccardo Chiari, Marco Cinque, Geraldina Colotti, Patrizia Cortellessa, Stefano Crippa, Lia Dadduzio, Federico De Melis, Tommaso Di Francesco, Arianna Di Genova, Andrea Fabozzi, Luca Fazio, Massimo Giannetti, Michele Giorgio, Carlo Lania, Eleonora Martini, Giovanna Massini, Angelo Mastrandrea, Nora Parcu, Fabio Patacchiola, Roberto Peciola, Cristina Piccino, Giuliana Poletto, Daniela Preziosi, Anna Salvati, Giorgio Salvetti, Massimiliano Salvoni, Luana Sanguigni, Giulia Sbarigia, Giuliana Sgrena, Silvana Silvestri, Benedetto Vecchi, Eurosia Visaggi, Gianna Zanali, Marina Zenobio. Non hanno risposto: Manuela Barbieri, Marco Bascetta, Delfina Bonada, Simona Bonsignori, Teresa Calpicchi, Maria Teresa Carbone, Antonello Catacchio, Katia Centioni, Flaviano De Luca, Marco D'Eramo, Cinzia Gubbini, Francesco Mandarini, Filippo Maone, Filomena Marcelli, Sandro Medici, Anna Maria Merlo, Mauro Paissan, Valentino Parlato, Francesco Paternò, Matteo Patrono, Bruno Perini, Francesca Pilla, Tania Polizzi, Gabriele Polo, Guglielmo Ragozzino, Norma Rangeri, Rossana Rossanda, Antonio Sciotto, Roberto Tesi, Iaia Vantaggiato, Stefania Zaccheo, Roberto Zanini. pagina 3 pagina 4 il manifesto MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012 PRIMARIE PRIMARIE · Vendola: «No a Renzi». Fra gli arancioni scoppia il caso De Magistris: «Vuole l’accordo con il Pd? Noi no» Nichi a Bersani: patti chiari per il voto LEGGE ELETTORALE Partiti distratti, verso un rinvio IL SEGRETARIO DEL PD BERSANI E IL PRESIDENTE DI SEL VENDOLA/FOTO EMBLEMA Daniela Preziosi A caldo, nella notte di domenica mentre incassava un risultato non esaltante - il 15,6 - ma che comunque gli consegna la golden share del ballottaggio, aveva detto che il suo appoggio a Bersani non era scontato. Ieri pomeriggio, dopo la riunione del coordinamento nazionale, l’esecu- «Ai nostri elettori il leader democratico faccia sentire un profumo di sinistra: tagli agli F35» tivo di Sel, Nichi Vendola chiarisce. «Escludo che Sel possa dare il suo sostegno a Renzi nel ballottaggio»; anche perché «la carta d’intenti l’abbiamo tutti sottoscritta, tra le cose da non fare c’è la reiterazione dell’agenda Monti. Io manterrò fede agli impegni, ma qualora quel documento diventi carta straccia, liberi tutti». Quanto a Bersani, che con il suo 44,9 per cento dei voti della sinistra ha bisogno - e parecchio - per ottenere una piena affermazione al ballottaggio di domenica, «convinca i miei elettori», faccia sentire «un profumo di sinistra». Nessuna trattativa con il Pd in cambio «di un futuro risarcimento politico» - Vendola smentisce seccamente indiscrezioni di stampa che lo danno futuro «Cialtronerie» ma impegni «per aprire un negoziato con l’Unione Europea per impedire che le politiche neoliberiste strangolino l’economie di interi popoli»; per «dire basta alla precarietà eterna», «ridurre drasticamente l’acquisto dei caccia bombardieri F35, mettere in sicurezza il territorio creando posti di lavoro, introdurre lo ius soli per gli immigrati». Vendola confida «nella saggezza e capacità di interlocuzione di Bersani». Ma forse anche nel fatto che se Bersani vuole scongiurare la concorrenza di Monti, non ha altra strada che stringere i bulloni dell’alleanza con la sinistra della coalizione. Renzi, esaltato dall’affermazione alle primarie (35,5 per cento) in particolare nei feudi partitisti di Toscana (52,2) Emilia Romagna (38,8, sopra la media nazionale), e Piemonte (38,5 contro il 41,7 di Bersani), ormai non si tiene più e scommette anche sui voti di Vendola, «Sono liberi. E mobili. Sono convinto che possiamo prendere noi quei voti». Bersani, saggio come Vendola lo descrive, risponde all’alleato a stretto giro: il risultato di Vendola «era i condizioni difficili ma è degno di nota». E visto che «alcuni valori sono comuni, credo che con i suoi elettori sia possibile un dialogo, senza accordicchi, con serietà. Perché io e Vendola siamo fatti così. L’idea di una comunicazione basata sul carisma ce l’abbiamo alle spalle». Di «profumo di sinistra» ancora non se ne sente, ma è un inizio e c’è tutta la settimana per lavorarci su. Comunque vada, Vendola è ben ancorato alla coalizione di centrosinistra, al netto di cataclismi politici (come sarebbe l’improbabile vittoria di Renzi). Ma nella sinistra ’arancione’, fuori dalla coalizione, c’è chi guarda a lui con interesse. È Luigi De Magistris, il sindaco di Napoli che lancerà una lista autonoma il 12 dicembre. E che ieri sul manifesto , nonostante il risultato «ottimo a Napoli ma complessivamente non buono» del presidente della Puglia, ha spiegato che potrebbe «dialogare da subito con il centrosinistra per avvicinarsi anche in campagna elettorale». «Siamo impegnati a contribuire alla vittoria del centrosinistra», «a meno di non volersi condannare all’irrilevanza, alla testimonianza pura». Non l’hanno presa bene i suoi compagni arancioni coté Alba (alleanza lavoro benicomuni ambiente), contrari a un rapporto con il centrosinistra. «Se le cose stanno come ha detto de Magistris, noi non ci stiamo. L’operazione va fatta in alternativa al centrosinistra», spiega Alfonso Gianni, già brac- DIFFAMAZIONE Affossata al Senato la legge «salva Sallusti». Il direttore ai domiciliari Affossata definitivamente ieri al Senato la legge salva-Sallusti. Un provvedimento ormai inutile, visto che l’ordine di arresto domiciliare era ormai giunto al direttore de Il Giornale appena qualche ora prima del voto segreto in Aula che ha bocciato il cuore del provvedimento, quell’articolo 1 con il quale si confermava il carcere e si inasprivano le pene pecuniarie per i giornalisti condannati per diffamazione a mezzo stampa, mentre si graziavano direttori responsabili e vicedirettori. Hanno votato no 123 senatori - tra cui molti della destra –, mentre i sì sono stati 29 e 9 gli astenuti. Il presidente del Senato, Renato Schifani, preso atto dell'esito del voto ha sospeso i lavori dell'Aula, passando successivamente ad un altro provvedimento. «Morte non accidentale di una porcata», è l’epitaffio pronunciato dal senatore Pd Vincenzo Vita per un provvedimento ad personam ormai fuori tempo massimo. «Una vittoria» che premia anche la ferma opposizione del sindacato dei giornalisti e della Federazione degli editori che ieri, fuori Palazzo Madama hanno manifestato, insieme con le giornaliste della rete «Giulia», contro «l’inaccettabile bavaglio all'informazione». Alessandro Sallusti, se il magistrato di sorveglianza accetterà la richiesta dei domiciliari avanzata dal procuratore Bruti Liberati, trascorrerà i domiciliari presso l’abitazione della sua compagna Daniela Santanché. Ha chiesto di poter continuare a lavorare. cio destro di Fausto Bertinotti. «Alle primarie la competizione tutta interna alle compatibilità dell’agenda Monti ha sconfitto Vendola e lo ha rinchiuso nel recinto Pd», spiega Massimo Torelli, fiorentino di Alba. «La sfida è proporre un’alternativa nei contenuti e nei metodi, che tiri una riga netta con il recente passato di tutte le varie sinistre. Lo faremo nell’appuntamen- to di sabato a Roma. Dove discuteremo su come costruire una presenza alternativa, ma non certo il suo possibile posizionamento nell’alleanza Pd-Sel». Anche Vendola in realtà era rimasto stupito dal sindaco: «Perché de Magistris non si è espresso prima dicendo cosa ha intenzione di con il suo laboratorio politico? Mi è sembrato troppo politicista». Il Pd è preso dal ballottaggio delle primarie. Il Pdl è sull’orlo del tracollo, in attesa delle imminenti dimissioni del suo fondatore, Silvio Berlusconi. E così la discussione della nuova legge elettorale può attendere ancora. Il testo della riforma dovrebbe arrivare nell’aula del senato domani, ma la seduta notturna della commissione affari costituzionali ieri è stata sconvocata. Se ne riparlerà questa sera, ma la conferenza dei capigruppo, fissata sempre per oggi, potrebbe decidere un rinvio dell’approdo in aula del provvedimento. La presidente dei senatori Pd, Anna Finocchiaro, ne ha parlato con il presidente di palazzo madama Schifani. E se dal Pdl il capogruppo Gasparri sostiene che «rinviare sarebbe un errore», il suo vice Gaetano Quagliariello si dice «contrario al fatto di non definire un accordo, arrivare in aula senza un testo di riferimento forte è un azzardo». Ma l’accordo non c’è è secondo il presidente della commissione, Carlo Vizzini, il problema «è che i partiti sono diventati troppi, più di quelli ufficiali». Ferrero, Prc/ «IMPOSSIBILE FARE LA SINISTRA DEI MODERATI» «Sel e Idv ora rompano con il Pd E Luigi non faccia ammunina» ROMA «N onostante il gran battage pubblicitario, le primarie hanno raccolto un milione di votanti in meno di quelle del 2005. Un crollo che parla del distacco tra il paese e l’alleanza che sostiene il governo Monti. In questo contesto Vendola non sfonda e il suo risultato conferma il carattere moderato di quell’aggregazione». Segretario Ferrero, lei parla delle primarie del 2005. Ma era un’altra era politica fa: Rifondazione era unita, non c’era stato il disastro del 2008, né Grillo, né la marea del non voto. Ciò non toglie che si possa parlare di riduzione della partecipazione. Il dato politico oggi è che la proposta di una sinistra all’interno della coalizione Italia Bene Comune non ha prodotto il ribaltamento sperato. Anzi, l’affermazione di Renzi dice esattamente il contrario. Le primarie non sono comunque un momento di democrazia, come il Prc affermava in quegli anni? Non dissento sulle primarie, sono uno strumento che va utilizzato. Ma non in astratto. A Napoli vi abbiamo partecipato, e anche a Milano. Invece a queste ultime no: la base politica era chiara, era la piena accettazione dei trattati europei, a partire dal fiscal compact. E la non messa in discussione delle scelte del governo Monti: spending review, cancellazione dell’art.18, pareggio di bilancio in Costituzione. La carta d’intenti è del tutto in continuità con Monti. Lei tifa per le liste arancioni. Alle quali si è interessato il pm Ingroia. Da più parti c’è il comune intendimento di costruire il quarto polo, un polo a sinistra che proponga un’alternativa secca alle politiche liberiste. Che rompa unilateralmente i trattati europei, e che dica parole chiare sulla non distruzione del territorio, sulla giustizia sociale, sulla moralità nella politica. Il Prc si è costituito parte civile nel processo sulla trattativa stato-mafia, di cui il pm Ingroia è stato protagonista. L’assemblea del primo dicembre, convocata dall’appello dei 70 di «Cambiare si può», ha già diversi interlocutori, che si incontreranno e ragioneranno insieme. Ingroia potrebbe essere un candidato premier? Sarei felicissimo, è una grande risorsa. Spero sia della partita, ma un nome non è mai risolutivo. La cosa importante è che il quarto polo sia non una discussione di quattro in una stanza ma un processo plurale di aggregazione di tutti quelli che fanno battaglie da sinistra, dall’acqua ai lavoratori, agli stu- denti, ai comitati di Val di Susa, a quelli del No Monti day del 27 ottobre. Una casa in cui tutti si sentano a casa. Per me sono interlocutori anche le forze organizzate, dal movimento di De Magistris, all’Idv, a Sel. A Vendola chiedo di prendere atto che non si può costruire una sinistra nel campo moderato. L’Idv ha partecipato alle primarie e già Bersani l’ha riammessa nel centrosinistra. Lo vedo, ma insisto: la sinistra in quella coalizione non c’è. Lo dimostrano i risultati delle primarie e la carta d’intenti che si attesta su un montismo senza Monti. La carta è chiara e forse chi l’ha firmata se l’è bevuta come acqua fresca: Idv e Sel non potranno sostenere nulla delle battaglie che abbiamo fin qui fatto insieme. Non inseguano Bersani sulla strada moderata. Nel resto d’Europa le sinistre non fanno così. Non rompere il fiscal compact significa tagliare altri 45 miliardi l’anno. I comuni già oggi hanno tagliato tutto, in pochi anni si dovranno vendere tutto. Vendola al manifesto si è detto contrario a ulteriori tagli allo stato sociale. C’è contraddizione fra poesia e prosa. I trattati si modificano all’unanimità o si rompono unilateralmente, come aveva detto in Grecia Syriza. In caso contrario, se non li rispetti l’Europa ti commissaria. Da alcune parti del movimento avanzano perplessità su un’alleanza con i partiti, anche quelli, come voi, che non stanno con il Pd. È una discussione in corso. Per me due cose debbono stare assieme: il riconoscimento reciproco di chi ha fatto opposizione fin qui; e la modalità democratica del percorso costituente: no a un’intergruppo, né a una riedizione della sinistra arcobaleno. Chiedono ai partiti due passi indietro. Ci sono posizioni diverse, è normale. Né ho mai pensato di fare una lista del Prc allargata. Ma come si scioglie? O si prende atto delle distanze e ci si saluta, o troviamo un modo che ci faccia andare oltre. Confido che si possa trovare una pratica unitaria. Vogliamo che ci sia solo un centrosinista liberista e un Grillo che le spara? O vogliamo costruire una sinistra autonoma dai poteri forti? Sul manifesto di ieri De Magistris non chiude la strada a una collaborazione con il centrosinistra, anche prima del voto, per scongiurare il Monti bis. Sarebbe d’accordo? È una contraddizione, lo invito a chiarirla. Confido che il De Magistris nazionale, come quello napoletano, non si è infili nei tatticismi. A Napoli usava il motto «Amm’a scassà». Appunto, «Amm’a scassà», non «amm’a fa ammuina». d.p. BALLOTTAGGIO Renzi punta a allargare la platea e chiede nuove regole per votare Riccardo Chiari FIRENZE V enite a me, io sono il cambiamento. Matteo Renzi chiama al voto di domenica prossima chiunque possa aiutarlo a vincere. Chiede che si mettano online i verbali di ogni seggio («e non gli aggregati delle segretarie provinciali») dicendo che per lui la trasparenza non è solo una parola. Ribadisce a Pierluigi Bersani che fino a domenica «esiste un noi e un loro». Infine, con la metafora calcistica del «si riparte da zero a zero», sollecita una volta di più a voltare pagina in quello che definisce «un derby fra l’usato sicuro e l’innovazione». L’obiettivo è dichiarato: «Puntiamo a spostare parte dei voti di Bersani, c’è chi lo ha votato pensando che fosse una formalità. Poi vogliamo andare a prendere i voti di Puppato, Tabacci e Vendola. Sembra che il distacco sia di 250 mila voti, un margine assolutamente colmabile». Anche i delusi del centrodestra sono i benvenuti, puntualizza l’aspirante leader. Per questo il messaggio principale della giornata, lanciato fin dal mattino, è dare la possibilità a tutti di poter votare al ballottaggio, potendosi registrare fino all’ultimo momento. «Il modello è quello francese - spiega Renzi nel corso di una affollata conferenza stampa negli uffici del suo comitato elettorale - dove al secondo turno hanno votato più persone che al primo. Quindi chiediamo che ci si possa registrare non solo giovedì e venerdì ma fino a domenica, e che ci si possa registrare online. Se le regole non lo prevedono, spero che si possano rivedere». A sera, e a polemica già apertissima fra renziani e bersaniani, deve intervenire il presidente del collegio dei garanti Luigi Berlinguer, per ribadire che le regole restano quelle di partenza: «Le registrazioni per il secondo turno delle primarie saranno riaperte solo giovedì 29 e venerdì 30 novembre, e saranno i comitati provinciali a valutare e decidere sulle richieste. Ci sarà un ufficio elettorale in ogni comune capoluogo di provincia, perché la grande massa delle registrazioni è già avvenuta. L’aspirante elettore andrà lì, e il collegio della commissione elettorale si pronuncerà sulla base dell’attendibilità della sua motivazione per la mancata registrazione». Dunque pollice verso, per ora. Ma secondo lo staff renziano la mossa darà in ogni caso i suoi frutti, facendo apparire il sindaco di Firenze come l’unico vero interprete dello spirito delle primarie. Spiegate così: «L’attaccamento alla ditta non è in dubbio ma un ’noi’ e un ’loro’ c’è. Non possiamo immaginare che le primarie siano fatte per finta. Io e Bersani siamo come due allenatori diversi. La squadra è la stessa ma per farla vincere noi pensiamo si debba cambiate schema di gioco, qualche giocatore, avere più coraggio in alcune partite e naturalmente cambiare anche allenatore. Ma non la squadra». Perché nel Pd l’aspirante candidato premier Renzi ci sta come un topo nel formaggio, alla luce dei risultati del primo turno di primarie che lo hanno visto vittorioso in Toscana, Umbria e Marche, dove il partito tricolore è principale forza di governo. Un dato, quest’ultimo, che lo porta a dire: «Questo successo è la dimostrazione che non sono di destra». Anche se poi, quando gli chiedono un giudizio sull’operato del governo Monti, l’innovatore Renzi risponde: «La mia posizione è molto diversa da quella di Vendola». Infine non può certo mancare un passaggio sui duelli televisivi, che l’affabulatore Renzi vorrebbe naturalmente moltiplicati: «Mercoledì c’è il confronto in Rai, credo che sarebbe naturale fare anche La7 e Mediaset. Stiamo aspettando la disponibilità di Bersani, di fronte all’invito di Mentana per andare sabato da lui. Io spero che si possa fare». il manifesto MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012 pagina 5 ITALIA MAURO BIANI FRANCIA Mittal si scontra con il governo Acciaierie in bilico Anna Maria Merlo PARIGI I I LAVORATORI DAVANTI ALLA SEDE DELL’ILVA DI TARANTO: IN 5 MILA RISCHIANO IL POSTO /FOTO ANDREA SABBADINI TARANTO · L’annuncio dell’azienda dopo gli arresti dei Riva e di altri dirigenti. Nelle carte spunta anche il nome di Vendola L’Ilva chiude, 5 mila operai a rischio Gianmario Leone E ra solo questione di tempo. Perché il nuovo terremoto giudiziario che ieri ha colpito l’Ilva e la città di Taranto, era stato ampiamente anticipato dalla magistratura tarantina nello scorso mese di agosto. Con il gruppo Riva che nella tarda serata di ieri ha annunciato la chiusura del sito di Taranto e di tutti gli stabilimenti da esso riforniti: Genova, Novi Ligure, Racconigi, Marghera e Patrica. L’azienda ha anche disposto la sospensione di tutte le attività lavorative negli impianti che non sono sottoposti a sequestro giudiziario, a partire dal turno serale di ieri, con i sindacati che invece hanno invitato gli operai a recarsi sul posto di lavoro, anche per quanto concerne il turno di questa mattina. La decisione colpirebbe oltre 5000 operai, mentre oggi pomeriggio è previsto un nuovo incontro tra direzione e sindacati per fare il punto su una situazione che rischia di precipitare definitivamente da un momento all’altro. La dura presa di posizione dell’azienda è scaturita dopo l’operazione scattata ieri denominata «Envinronment sold out», che ha visto impegnati i militari del comando provinciale della Guardia di finanza di Taranto che hanno eseguito a Taranto, Milano, Roma, Pisa, Bari e Varese, sette ordinanze di arresto firmate dai gip Vilma Gilli e Patrizia Todisco. Gli arrestati sono il patron Emilio Riva, agli arresti domiciliari dal 26 luglio scorso. La detenzione in carcere è stata disposta per il vicepresidente di Riva Group Fabio Riva, l’ex direttore dell’Ilva di Taranto Luigi Capogrosso e l’ex dirigente Ilva Girolamo Archinà. Domiciliari per l’ex rettore del Politecnico di Taranto, Lorenzo Liberti. Per la parte Ilva, respinta la richiesta formulata dalla Procura di ulteriore arresto per l’ex presidente di Ilva Nicola Riva, già ai domiciliari. Mentre al presidente Bruno Ferrante, e al nuovo direttore dello stabilimento di I sindacati chiedono ai lavoratori di recarsi comunque negli stabilimenti. L’accusa a proprietà e management: associazione a delinquere per perpetrare l’inquinamento Taranto, Adolfo Buffo, è stato notificata una informazione di garanzia. Dal gip Vilma Gilli ai domiciliari è stato posto l’ex assessore all’Ambiente della Provincia di Taranto Michele Conserva, dimessosi circa due mesi fa dall’incarico. Ai domiciliari anche l’ing. Carmelo Delli Santi, rappresentante della Promed Engineering. Conserva e Delli Santi sono entrambi accusati di concussione. Nei confronti della società è stato eseguito anche il sequestro preventivo dei prodotti finiti e/o semilavorati destinati alla vendita e al trasferimento in altri stabilimenti del gruppo. La procura ha posto sotto sequestro tutta la produzione degli ultimi quattro mesi, stoccata nell’ex yard Belleli e nei parchi della zona portuale. Migliaia di lastre di acciaio e coils, grossi cilindri di materiale finito pronti per essere spediti alle industrie: la merce sequestrata non potrà però essere commercializzata perché si tratta di prodotti realizzati in violazione della legge. Secondo la Procura infatti, costituiscono profitto di reati perché realizzati durante i quattro mesi in cui l’area a caldo dello stabilimento era sotto sequestro senza alcuna facoltà d’uso. Il provvedimento firmato dal gip Todisco sulla base del secondo comma della legge 321 (responsabilità amministrativa delle società) collegato al 240 del codice penale, riguardante la confisca di beni, riguarda anche le eventuali produzioni del futuro e pone uno stop definitivo alla produzione che dal 26 luglio è ugualmente andata avanti ignorando l’ordine della magistratura. In una nota l’azienda sottolinea che quest’ultimo provvedimento «si pone in radicale e insanabile contrasto rispetto al provvedimen- GRUPPO FIAT Ok alla fusione Industrial-Cnh Rientrano i 19 di Pomigliano Fiat Industrial emigra in Olanda: la decisione di spostare la sede dall’Italia, già annunciata da tempo, è arrivata ufficialmente ieri, quando gli amministratori della Cnh hanno accettato la fusione proposta dall’ad del gruppo Fiat Sergio Marchionne. Il nuovo colosso dei veicoli industriali in questo modo pagherà meno tasse e meno interessi sul debito (gli analisti calcolano 150 milioni di euro in meno) ed, essendo più internazionale, avrà anche più accesso ai mercati finanziari. Gli Agnelli hanno dato l’ok all’operazione: la loro quota in Fiat Industrial si diluisce così dal 30% al 27% (al di sotto della soglia d’Opa), ma il doppio diritto di voto ottenuto con il nuovo statuto blinda di fatto il controllo della società. Con la fusione Fiat Industrial/Cnh, si trasferisce fuori dai confini dell’Italia la testa della società, mentre la produzione e gli stabilimenti sono già in via di ridimensionamento o di chiusura: dunque per i lavoratori e i fornitori del nostro Paese non è certo una bella notizia. Intanto a Pomigliano sono stati chiamati al lavoro i 19 operai della Fiom reintegrati grazie alla sentenza della magistratura: i lavoratori hanno ricevuto un telegramma dall’azienda con due giorni di anticipo rispetto alla scadenza fissata dai giudici (il 28 novembre) e saranno assunti già oggi. Il sito sarà fermo per 4 settimane di cig fino al 31 dicembre, lavorando solo dal 10 al 16. to autorizzativo del ministero dell’Ambiente: lo stabilimento è autorizzato all’esercizio dell’attività produttiva dal decreto del ministero del 26 ottobre 2012 di revisione dell’Aia». Non è un caso se il ministro Clini ieri ha dichiarato: «Mi auguro che questa iniziativa non sia conflittuale con l’Aia, l’unico strumento per risanare l’attività dello stabilimento. Non sono disponibile a subire una situazione che avrebbe effetti terribili: sono preoccupato dai futuri effetti ambientali gravissimi e sociali devastanti». Il che lascia presagire un possibile futuro intervento del governo. L’attività di polizia giudiziaria avvenuta ieri, è la conclusione di un’indagine protrattasi dal gennaio del 2010 a oggi, nel corso della quale è stata ipotizzata la costituzione di un’associazione a delinquere finalizzata alla perpetrazione dei reati di disastro ambientale aggravato, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, avvelenamento di acque e sostanze alimentari, concussione e corruzione in atti giudiziari. Nelle carte spunta anche il nome del governatore Nichi Vendola e delle pressioni per eliminare il direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, autore della relazione sulle emissioni inquinanti dello stabilimento. L’accusa parla di «una regia di Vendola» nell’operazione per «frantumare» Assennato, colpevole di diffondere dati negativi sulle emissioni dell’Ilva, oltre che una certa «disponibilità» nei confronti dell’azienda. MENSE AZIENDALI Sciopero Compass contro gli 800 tagli Sciopero del gruppo Compass, colosso delle mense aziendali, il prossimo 30 novembre. Lo hanno indetto Filcams Cgil, Fisascat Cisl, Uiltucs e Uiltrasporti Uil per contestare la decisione aziendale di licenziare più di 800 dipendenti per attuare il proprio piano organizzativo. «La Compass Group ha 360 mila dipendenti nel mondo – spiega la Filcams Cgil - In Italia ha annunciato una procedura di mobilità che riguarda più di 800 dipendenti su quasi 8 mila. Gli ultimi incontri, nonostante le nostre proteste, non sono serviti al ritiro della procedura». La lettera / LE DIPENDENTI ALLA TESTIMONIAL LITTIZZETTO «Luciana, Coop non è il paradiso Fai uno spot con le lavoratrici» «P iù che tu, la Coop siamo noi, cara Luciana». A scrivere sono le lavoratrici della Coop: la lettera, indirizzata a Luciana Littizzetto, attrice comica e testimonial della Coop, intende denunciare le cattive condizioni di lavoro presso il gruppo della grande distribuzione, il cui personale è composto all’80% da donne. L’iniziativa è venuta da un gruppo di iscritte della Usb. «Cara Luciana – scrivono le lavoratrici – lo sai cosa si nasconde dietro il sorriso di una cassiera che ti chiede di quante buste hai bisogno? Una busta paga che non arriva a 700 euro mensili dopo aver lavorato sei giorni su sette comprese tutte le domeniche del mese. Le nostre famiglie fanno una grande fatica a tirare avanti e in questi tempi di crisi noi ci siamo abituate ad accontentarci anche di questi pochi soldi che portiamo a casa. Abbiamo un’alternativa secondo te?». E no, in effetti in tempi di crisi o ti accontenti o resti in mezzo a una strada. Ma la lettera continua: «Nei tuoi spot spiritosi – dicono le iscritte Usb all’attrice – descrivi la Coop come un mondo accattivante e un ambiente simpatico dove noi, quelle che la mandano avanti, non ci siamo mai. Sembra tutto così attrattivo e sereno che parlarti della nostra sofferenza quotidiana rischia di sporcare quella bella fotografia che tu racconti tutti i giorni». «Ma in questa storia noi ci siamo, eccome se ci siamo, e non siamo contente – protestano le dipendenti Coop – Si guadagna poco e si lavora tanto. Ma non finisce qui. Noi donne siamo la grande maggioranza di chi lavora in Coop. Prova a chiedere quante sono le dirigenti donna dell’azienda e capirai qual è la nostra condizione. A comandare sono tutti uomini e non vige certo lo spirito cooperativo. Ti facciamo un esempio: per andare in bagno bisogna chiedere il permesso e siccome il personale è sempre poco possiamo anche aspettare ore prima di poter andare». E non basta, c’è anche la precarietà: «Il lavoro precario è una condizione molto diffusa alla Coop e può capitare di essere mandate a casa anche dopo 10 anni di attività più o meno ininterrotta. Viviamo in condizioni di quotidiana ricattabilità: prendi il caso dei turni, te li possono cambiare anche all’ultimo momento con una semplice telefonata e tu devi inghiottire. E chi se ne frega se la famiglia va a rotoli, gli affetti passano all’ultimo posto e i figli non riesci più a gestirli». Denunciare e protestare non è affatto facile: «Ci è capitato di essere costrette a subire in silenzio fi«Molte di noi nanche le molestie da parprendono 700 te dei capi dell’altro sesso euro al mese ed per salvare il posto o non è difficile perfino veder peggiorare la noandare in bagno». stra situazione», denunLa richiesta della ciano le lavoratrici. Usb: un incontro «Tutte queste cose tu con l’attrice probabilmente non le sai, come non le sanno le migliaia di clienti dei negozi Coop in tutta Italia – continuano le dipendenti Coop – Non te le hanno fatte vedere né te le hanno raccontate. E anche a noi ci impediscono di parlarne con il ricatto che se colpiamo l’immagine della Coop rompiamo il rapporto di fiducia che ci lega per contratto e possiamo essere licenziate. Ma noi non vogliamo colpire il marchio e l’immagine della Coop, vogliamo solo uscire dall’invisibilità e ricordare a te e a tutti che ci siamo anche noi. Noi siamo la Coop, e questo non è uno spot. Siamo donne lavoratrici e madri che facciamo la Coop tutti i giorni. Siamo sorridenti alla cassa ma anche terribilmente incazzate». «Abbiamo paura ma sappiamo che mettendoci insieme possiamo essere più forti e per questo ci siamo organizzate. La Coop è il nostro posto di lavoro, non può essere la nostra prigione. Crediamo nella libertà e nella dignità delle persone. Cara Luciana, ci auguriamo che queste parole ti raggiungano e ti facciano pensare». Dunque, in conclusione, un invito a Littizzetto: «Ci piacerebbe incontrarti e proporti un altro spot in difesa delle donne e per la dignità del lavoro». l ministro del rilancio produttivo, Arnaud Montebourg, ha ingaggiato un braccio di ferro molto pericoloso con il numero uno dell’acciaio mondiale, l’indiano Mittal. Ieri, in un’intervista al quotidiano economico Les Echos ha affermato, secco: «Non vogliamo più Mittal in Francia perché non ha rispettato la Francia». Oggi Lakshimi Mittal sarà ricevuto da François Hollande, che cercherà molto probabilmente di gettare acqua sul fuoco di uno scontro aperto con Montebourg, inziato a causa della minaccia di chiusura degli altiforni di Florange, ma che ormai potrebbe coinvolgere tutto l’acciaio prodotto in Francia nelle mani di Mittal cioè 150 siti e 22 mila lavoratori. All’origine del conflitto, c’è la triste storia di Florange. Mittal ha deciso di chiudere gli altiforni, il governo ha chiesto tempo – fino al 1˚ dicembre – per trovare un acquirente. Sembra che ci siano due candidati, che chiedono pero’ che Mittal metta in vendita tutto il sito di Florange, non solo gli altiforni e la cokerie. Ma Mittal non vuole, perché non intende favorire un concorrente. Di qui la crisi di nervi di Montebourg, che giovedì scorso aveva proposto una nazionalizzazione temporanea di Florange, in alleanza con un socio privato di minoranza, in attesa di trovare un compratore. Con l’affermazione di ieri, sembra che Montebourg abbia in testa addirittura la nazionalizzazione di tutta la filiera dell’acciaio in Francia. Una mossa azzardata e pericolosa, che ha fatto paura ai sindacati, che temono eventuali rappresaglie da parte del re mondiale dell’acciaio. Montebourg ha accusato ieri Mittal di fare «ricatti e minacce». Solo la Cfdt capisce la crisi di nervi del ministro: «Da 18 mesi – afferma il sindacalista Edouard Martin – diciamo che Mittal è un predatore. Se qualcuno pensa che si limiterà a Florange, sta sognando». Ma per la Cgt Montebourg è stato imprudente: «Non vivremo certo con queste frasi choccanti, una volta detto questo, cosa si fa?», si chiede il sindacalista Yves Fabbri. Mittal è sbarcata in Francia nel ’99, con l’acquisizione di Unimétal. Nel 2006, in seguito a una feroce battaglia in Borsa, ha preso il controllo di Arcelor, la società europea (con sede in Lussemburgo) nata nel 2002 dalla fusione di Arcelaria (Spagna, Arbed (Lussemburgo) e Usinor, l’acciaio francese che era stato nazionalizzato da Mitterrand e poi riprivatizzato nel ’95 con il ritorno della destra al governo. Arcelor era nata debole, perché costretta dalla Commissione europea a vendere dei siti in nome del sacrosanto principio della concorrenza. Dopo la conquista di Mittal, il sito di Gandrange è stato chiuso (era l’epoca di Sarkozy, l’allora presidente aveva persino promesso agli operai che sarebbe venuto in viaggio di nozze, con Carla Bruni, in questo luogo triste della Mosella, e i lavoratori si erano a giusto titolo sentiti presi in giro, al punto che hanno messo una lapide di marmo, come tomba delle «promesse di Sarkozy»). L’altoforno di Dunkerque, che avrebbe dovuto riaprire dopo una fase di lavori, è ancora fermo. E Florange chiuderà a dicembre. Le relazioni tra Lakshimi Mittal e i governi francesi sono tese da sempre. Anche con la destra al potere c’erano stati scontri. La popolazione della Lorena, regione di deindustrializzazione, alle presidenziali ha creduto a Hollande, che ha fatto delle promesse ed è arrivato in testa al primo turno con più del 30% dei voti. Ma subito dietro, è Marine Le Pen ha sfiorato il 26%, a riprova che una fetta della popolazione ha già ceduto alla disperazione. pagina 6 il manifesto MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012 EURO CRACK IL VOLTO DEL PRESIDENTE MAS ACCIGLIATO DOPO I RISULTATI/REUTERS VOTO IN CATALOGNA · No all’indipendentismo di Mas CiU ferma a 50 seggi, 12 in meno che nel 2010 BRUXELLES · Il debito greco contrappone i paesi ricchi all’Fmi che vuole «rinegoziare» Luca Tancredi Barone L’impossibile solidarietà N Incertezza fino a tarda sera, ieri, sul destino del debito di Atene. I ministri delle finanze della zona euro in disaccordo con Christine Lagarde Anna Maria Merlo PARIGI I ncertezza fino a tarda sera, ieri, sul destino del debito greco. I ministri delle finanze della zona euro si sono riuniti con la direttrice generale dell’Fmi, Christine Lagarde, per la terza volta in due settimane, per cercare di trovare una soluzione. Il tempo stringe: il versamento dell’ultima tranche di aiuti ad Atene – tra i 31 e i 44 miliardi di euro – è congelato da mesi e a dicembre la Grecia sarà asfissiata se non arriva il finanziamento. Sul tavolo sempre le stesse divisioni: l’Fmi chiede un hair cut del debito contratto con gli stati, come è avvenuto nella primavera scorsa con i creditori privati, che hanno accettato un taglio del 53% e una perdita di più di 100 miliardi. L’Fmi è pronto a ritirarsi dal programma greco, perché non intende cedere sui tempi, che impongono ad Atene di riportare la percentuale del debito al 120% del pil entro il 2020 (nel 2015 rischia di salire al 200% se non si fa nulla). Ma i paesi creditori, in particolare le nazioni che conservano il rating AAA, non ne vogliono sapere: tedeschi, olandesi, finlandesi, ma anche lussemburghesi e austriaci, non hanno nessuna intenzione di fare dei regali. Allo studio ci sono altre misure, considerate meno efficaci dall’Fmi, ma ritenute meno dolorose di un hair cut dai paesi creditori. Un deputato della Cdu, il partito di Angela Merkel, ha cosi’ riassunto le riserve tedesche: 1) costa soldi; 2) significherebbe mandare un segnale disastroso agli altri paesi sotto tutela, Irlanda, Portogallo e, in futuro, Spagna (va ag- giunta anche Cipro, che ha ormai chiesto aiuto per salvare le proprie banche); 3)una ristrutturazione del debito greco avrebbe effetti negative sulle regole di bilancio. Berlino ha fatto sapere, prima della riunione dei ministri, che non è possibile accettare un hair cut “per ragioni giuridiche”, che riguardano sia il diritto tedesco che l’articolo 125 del trattato che regge la Ue e che esclude esplicitamente che uno stato si assuma il carico del debito di altri paesi. Anche negli statuti della Bce c’è un chiaro freno, ma Francoforte potrebbe accettare di retrocedere ai governi i guadagni realizzati sui titoli greci e propone un roll over, cioè che vengano sottoscritti nuovi prestiti a misura che arrivano a scadenza i vecchi. Altre ipotesi allo studio: un ribasso dei tassi di interesse che paga la Grecia (ma qui non c’è accordo, l’Italia e la Francia sono più generose, la Germania più severa) e dare la possibilità ad Atene di ricomprarsi parte del suo debito a prezzi stracciati. Inoltre, un’altra proposta è rimandare di dieci anni il pagamento dei tassi di interesse dovuti al Fesf (il fondo salva-stati), che significherebbe un risparmio per la Grecia di 40 miliardi, un ribasso di circa il 17% del peso del debito, a cui si aggiungerebbe un meno SOPRA, PROTESTE A BRUXELLES. SOTTO, IL VERTICE EUROGRUPPO DI IERI /FOTO REUTERS 4,6% per l’intervento della Bce. Fmi e Ue non sono d’accordo sulla data-limite del rientro del debito greco al 120% del pil: per l’istituzione internazionale deve restare il 2020, mentre l’Europa pensa di dare due anni di più ad Atene, fino al 2022. Nel fine settimana, ci sono stati molti scambi tra ministri. Pierre Moscovici, il responsabile delle finanze francese, era moderatamente ottimista e ha affermato che una soluzione era vicina. Ma la Germania tiene duro. Il governatore della Bundesbank ha affermato che la Grecia “potrà guadagnarsi” una ristrutturazione del debito, a termine, solo se darà prova di aver messo in atto l’austerità richiesta. Per Olli Rehn, commissario agli affari monetari, pero’ “la Grecia ha fatto quello che doveva, adesso tocca all’Eurogruppo e all’Fmi”. Intanto, ieri è stato approvato un piano di aiuti per le banche spagnole di 37 miliardi di euro. E alla testa della Bank of England, nel giugno 2013, a sostituire Mervyn King il governo Cameron ha nominato un outsider, l’ex governatore della banca centrale del Canada, Mark Carney, 47 anni, che ha la caratteristica di essere un ex di Goldman Sachs. GERMANIA · 14 morti in centro Caritas Anche in un'istituzione CHE AIUTA i disabili a integrarsi, promossa dal welfare più ricco del mondo, una sciagura sul lavoro può fare strage. Quattordici persone sono morte, e molte altre, ferite o intossicate dal fumo, sono ricoverate in condizioni serie, dopo l'incendio che ieri ha devastato la fabbrica della Caritas a Titisee-Neustadt, non lontano dalla ricca ed ecologica Friburgo, dove 120 disabili da decenni lavorano solo su base volontaria producendo manufatti in legno o apparati elettrici in cambio di retribuzioni contrattuali. Tra i 14 morti alcuni sono lavoratori volontari disabili, altri assistenti sociali o infermieri di solito presenti nella struttura in permanenza per assisterli. E il numero delle vittime potrebbe salire. "Purtroppo in una situazione del genere è comprensibile e insieme tragico che le vittime siano persone più portate di altre a reagire col panico a un simile incidente", ha detto agli inviati delle televisioni il responsabile dei pompieri accorsi in forza sul posto, Alexander Widmaier. Al momento in cui l'incendio è scoppiato, ha aggiunto, almeno centoventi persone erano presenti nell'edificio, tra disabili lavoratori volontari e assistenti. Winfried Kretschmann, il neoeletto governatore verde del BadenWuerttemberg (lo Stato del sudovest, uno dei due più ricchi del paese) è accorso immediatamente sul luogo della sciagura. Le indagini sulle possibili cause vanno avanti a ritmo serrato. BARCELLONA iente Itaca per Artur Mas. Il president della Generalitat catalana uscente campeggiava nei cartelli elettorali di Convergència i Unió (CiU) che tappezzavano tutte le città grandi e piccole della Catalogna in posa messianica: «La voluntat d’un poble». E il popolo ha parlato, forte e chiaro. Mai così forte e mai così chiaro: la partecipazione ha sfiorato 70% degli aventi diritto, un record nella storia della Catalogna post franchista, ben dieci punti percentuali in più delle ultime elezioni autonomiche del 2010. I cinquecentomila elettori in più hanno fatto la differenza. Contro tutti i pronostici, CiU è rimasta inchiodata a 50 seggi, ben 12 meno che nel 2010, perdendo quasi centomila voti. I sondaggi si sono dimostrati completamente sballati anche per quanto riguarda il partito socialista catalano, che con 14.4% e 20 seggi (ne aveva 28) ha raccolto il peggior risultato della sua storia ma miracolosamente rimane al secondo posto. Il partito storicamente più importante dell’autonomismo di sinistra, Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), che veniva da 10 miseri seggi, ha raccolto 21 seggi (13.7%), un risultato ben più roseo di quanto atteso dallo storico Oriol Junqueras che guida la formazione da poco più di un anno. Se l’aspettativa era quella di fornire una gamba d’appoggio a CiU nel cammino autonomista, ieri Junqueras ha messo in chiaro che non entrerà nel governo e che per dare l’appoggio esterno a Mas esige contropartite molto pesanti: e il referendum per l’autodeterminazione che ha occupato la campagna elettorale di quasi tutti i partiti è solo il boccone meno amaro per Mas. Per il resto, inorgoglita, Erc chiede una fiscalità più giusta. “CiU è più debole, ma il processo per l’indipendenza oggi è più forte e più plurale”, ha dichiarato. Chi pensa che gli elettori catalani abbiano punito i tagli sociali però si sbaglia: il Pp ha ottenuto il suo miglior risultato: con 19 seggi (+1 rispetto al 2010) e il 13% di voti (+85mila voti), Alicia Sánchez Camacho può finalmente permettersi di dire che sono i socialisti ormai a essere “residuali” (storicamente, lo sono sempre stati i popolari in questa regione dalla tradizione antifranchista), anche se sembra chiaro che stavolta CiU non scenderà a patti con loro come nella prece- dente breve legislatura. Il partito di sinistra e verde Icv, come nelle attese, è cresciuto fino a 13 seggi (+ 3 seggi), sfiorando il 10% dei voti. Ma le due sorprese più grandi arrivano da due partiti presenti solo nel parlament di Barcellona: la formazione Ciutadans (Cittadini) il cui punto centrale del programma è il centralismo antiautonomista (con qualche punta razzista) ha triplicato la sua rappresentazione arrivando a ben 9 seggi (7.6% dei voti) e gli indipendentisti-movimentisti della Cup (Candidatura d’Unitat Popular) entrano alla grande con 3 seggi e 126mila voti. Unico partito a celebrare in un centro occupato i risultati invece che in un lussuoso hotel, nel collegamento televisivo con la principale televisione catalana Tv3, il suo portavoce e capolista David Fernández, ha salutato in diretta, nell’imbarazzo dell’intervistatore, i lavoratori in sciopero della catena televisiva e ha annunciato che la Cup sarà il “cavallo di Troia che arriva per disobbedire alla paura, alzare i tappeti e portare il paese reale nei palazzi del potere”. I razzisti della L’autonomismo di sinistra di Esquerra Republicana de Catalunya, conquista 21 seggi (13.7%) Piattaforma per Catalunya (PxC) rimangono fuori con l’1.65%. Il parlamento catalano si conferma così il più plurale di tutta la Spagna: 135 seggi per ben sette partiti. Di questi, 28 seggi (gli “spagnolisti” Pp + Ciudadans) sono contrati all’indipendenza, a cui si aggiungono i 20 seggi socialisti, che almeno sulla carta si battono per il federalismo (ma contro l’indipendenza). I tre partiti insieme non sono sufficienti per bloccare le future iniziative autonomiste del Parlament, ma rappresentano insieme quasi il 40% dei catalani. Troppi per poter essere ignorati se si dovesse celebrare l’agognato referendum. Per un Mas molto ridimensionato si prospetta una legislatura ancora più difficile della precedente. La scommessa delle elezioni anticipate non ha funzionato e forse si accorgerà che è più difficile scendere a patti coi “partiti catalani” che con un partito “spagnolo” come il Pp. O forse no. I prossimi anni in Catalogna saranno interessanti. il manifesto MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012 pagina 7 INTERNAZIONALE EGITTO · Oggi due cortei al Cairo. 2 morti e 500 feriti in cinque giorni di scontri I «Fratelli» contro tutti IL CAIRO, LA PROTESTA DI PIAZZA TAHRIR IERI/FOTO REUTERS Giuseppe Acconcia D ue funerali a distanza sono il segno di un Egitto spaccato. Da una parte, è sfilata in piazza Tahrir la bara di Salah Gaber, attivista di 6 aprile, 17 anni, ucciso a freddo nei pressi del ministero dell’interno. La scena ricordava i funerali di alcuni attivisti uccisi in via Mohammed Mahmoud e divenuti il simbolo degli attacchi dei cecchini di un anno fa. Dall’altra parte, a Damanhour nel Delta del Nilo, centinaia di persone hanno sfilato con la bara di Islam Sayed Fathi, attivista dei Fratelli musulmani, appena 15 anni, ucciso domenica notte nell’assalto alla sede del partito Libertà e giustizia. La scorsa domenica, 1500 esponenti dei Fratelli musulmani avevano organizzato una manifestazione a sostegno della Fratellanza nella città, roccaforte dei Fratelli musulmani, di Damanhour, intorno alla sede del partito Libertà e giustizia. E lo scontro tra sostenitori e oppositori di Morsi è scoppiato il giorno seguente, provocando la morte del giovane Fathi. «È un nostro martire», si leggeva ieri sulle pagine del sito I contadini del Delta contestano Morsi. Oggi due cortei al Cairo. Ma l’accordo non è impossibile della Fratellanza, Ikhwanonline. Particolarmente duri sono stati gli incidenti nella città delle fabbriche tessili di Tanta. Attivisti hanno accusato i Fratelli musulmani di aver ferito otto giovani e di aver lanciato lacrimogeni. Ma gli islamisti moderati denunciano lo stesso tipo di attacchi contro propri sostenitori. Molti degli attivisti che manifestano nel Delta del Nilo accusano Morsi di fare solo propaganda. Il presidente egiziano aveva infatti annunciato la cancellazione dei debiti di contadini e proprietari terrieri, inferiori a 10 mila lire egiziane (1200 euro). Secondo molti contadini, sono stati invece cancellati solo gli interessi sui prestiti e le agevolazioni hanno interessato pochissime persone in ogni villaggio. Sono invece oltre 500 i feriti dopo cinque giorni di manifestazioni nel centro del Cairo. E per questo pomeriggio sono previsti due cortei opposti: uno di magistrati, giornalisti e movimenti di opposizione, che si dirigeranno verso piazza Tahrir, l’altro di Fratelli musulmani e salafiti, che saranno diretti verso piazza Abdin, dove sorge il palazzo del re Farouk e ora un museo militare. Se le prime manifestazioni della scorsa settimana ricordavano i morti e la costruzione delle mura intorno ai palazzi delle istituzioni pubbliche di un anno fa, la dichiarazione costituzionale temporanea emessa giovedì scorso dal presidente egiziano Mohammed Morsi, che ha esteso senza possibilità di appello i suoi poteri, ha esacerbato lo scontro con movimenti secolari. Ieri il ministro della giustizia, Ahmed Mekky, incaricato di risolvere la crisi politica tra giudici e presidenza della repubblica, ha lanciato messaggi positivi per la conclusione del contenzioso. Sebbene non abbia mai accusato direttamente il presidente Morsi, Mekky ha appoggiato la dichiarazione del Consiglio supremo della magistratura in cui il decreto presidenziale viene aspramente criticato. Tuttavia, l’Associazione nazionale dei magistrati ha espresso «riserve» sull’incontro di ieri e sui suoi possibili esiti. Mentre, il tribunale del Cairo ha annunciato che esaminerà a partire dal 4 dicembre prossimo circa 60 ricorsi presentati contro il decreto Morsi. Contro la dichiarazione, che accresce i poteri del presidente, ha presentato ricorso anche il presidente dell’associazione dei giudici, Ahmed elZend. Non solo, oltre 180 diplomatici egiziani hanno scritto una lettera al ministro degli esteri, Kamel Amr, per esprimere la loro contrarietà alle decisioni del presidente. «La rivoluzione mirava a instaurare il diritto civile, rafforzare i valori della democrazia e delle istituzioni, liberandosi della corruzione. Andare contro questi obiettivi significa tradire la rivoluzione», scrivono i diplomatici nella lettera di protesta. In questo clima, proseguono gli incontri dell’intelligence militare egiziana con esponenti di Hamas e del governo israeliano per definire i termine della riapertura dei quattro valichi commerciali di Rafah dopo la tregua siglata al Cairo lo scorso giovedì. Infine, alcuni esponenti salafiti hanno denunciato che questo clima di spaccatura e esasperazione nel paese potrebbe riportare il terrorismo di matrice islamica, che negli anni ottanta e novanta ha insanguinato l’Egitto. MEDIO ORIENTE · E dopo i raid su Gaza, Hamas si spacca sulla Palestina all’Onu Oggi riesumata la salma di Arafat, dopo il polonio trovato nei suoi vestiti sta, fu protagonista 12 anni fa del drammatico fallimento a Camp David (era presidente americano Bill Clinton) delle trattative per quella che a quel tempo era nota come la «soluzione definitiva» del conflitto israelo-palestinese, sulla base degli Accordi di pace di Oslo, firmati mina a ministro della difesa dell’attuale ministro degli esteri Lieberman. Dopo le legislative israeliane del prossimo 22 a strana morte di Yasser Arafat, gennaio Netanyahu sarà ancora primo uno dei più grandi misteri del Meministro (lo dicono tutti i sondaggi) di dio Oriente, potrebbe cominciare un governo «di guerra» (all’Iran). Lieberad avere una soluzione a partire da oggi man, un ultranazionalista di destra, da con l’esumazione della salma del parte sua non nasconde di volere presidente palestinese, deceduto la difesa in vista dell’attacco israein un ospedale francese nel noliano alle centrali atomiche iraniavembre 2004, che sarà esaminata ne di cui si parla da mesi se non da team di specialisti provenienti da anni. Netanyahu quindi potrebda Francia, Svizzera e Russia. Un be optare per un ministro degli mistero in effetti non lo è mai staesteri con una immagine più moto per i palestinesi che, un po’ tutderata da spendere all’estero. ti, pensano che «Abu Ammar» (il Intanto, a pochi giorni dalla finome di battaglia di Arafat) sia stane dell’offensiva militare israeliato avvelenato da collaborazionisti na “Colonna di Difesa” contro Gadi Israele. Gli esperti - quelli franza, il movimento islamico Hamas cesi sono stati nominati dopo una sembra spaccarsi sulla richiesta di denuncia alla Procura di Parigi deladesione dello Stato di Palestina la vedova di Arafat, Suha Tawill (come non membro-osservatore) RAMALLAH, YASSER ARAFAT ANCORA VIVO ALLA MUQATA/REUTERS andranno a caccia di tracce di poche il 29 novembre il presidente di lonio, sostanza altamente pericolosa trosette anni prima alla Casa Bianca. L’ex Olp e Anp Abu Mazen presenterà alvata lo scorso agosto su indumenti e ogpremier israeliano ordinò una dura rel’Onu. Se da un lato il leader uscente, getti appartenuti al leader palestinese. pressione della seconda Intifada palestiKhaled Meshaal, si dice favorevole alLa riesumazione della salma di Arafat nese nei pochi mesi nei quali rimase anl’iniziativa, dall’altro molti dirigenti di giunge mentre un alto esponente delcora al potere fino alla pesante confitta Hamas a Gaza, tra cui il premier Ismail l’establishment israeliano, il ministro elettorale che, all’inizio del 2001, vide Haniyeh, si dicono contrari. La frattura della difesa Ehud Barak, che nel 2000 lel’ascesa della destra di Ariel Sharon. sullo «Stato» segue i passi dei giorni scorgò il suo nome a quello del presidente L’improvvisa uscita dalla scena politica si di Abu Mazen, Fatah, e di Hamas stespalestinese scomparso, annuncia il suo di Barak – frutto anche di contrasti perso verso una possibile riconciliazione inatteso abbandono della politica. Basonali con il premier Netanyahu – apre nazionale, con l’annuncio della scarcerak, in qualità di primo ministro laburila strada, con ogni probabilità, alla norazione reciproca di prigionieri politici. Michele Giorgio GERUSALEMME L MILIZIANI AD ALEPPO/REUTERS SIRIA · «Cluster bomb su un parco giochi» Gli insorti accusano: uccisi dieci bambini S ono davvero inquietanti le immagini diffuse ieri su internet, ma di provenienza non verificabile, di dieci bambini piccoli, rimasti uccisi, in seguito ad un attacco ad un parco giochi del villaggio di Deir al-Asafir, a est di Damasco, in cui sarebbero state usate bombe a grappolo. Gli ordigni sarebbero stati lanciati da un aereo da combattimento Mig dell’esercito regolare siriano. In una delle abitazioni colpite, si vedono le salme di due bambini uccise e alcuni feriti adulti, tra cui almeno una donna. Otto delle vittime sarebbero state identificate: tra loro tre fratelli e il padre Ahmad. Nel filmato si mostrano altre bombe a grappolo inesplose nei campi agricoli vicino alle case colpite. Ma i media siriani non dan- no nessuna notizia dell’accaduto. Secondo gli insorti, sono state 117 le vittime delle violenze ieri in Siria, tra cui 14 bambini. Human Rights Watch punta il dito contro il governo di Bashar al-Assad. Negli ultimi mesi, si sono moltiplicati i video in cui bombe a grappolo vengono lanciate in Siria, in particolare intorno alla città di Maarat al-Numan. Il governo siriano ha ribadito, tuttavia, di non avere accesso a questo tipo di armamenti e ha definito le accuse degli insorti prive di fondamento. Ma i ribelli sembrano guadagnare posizioni. Gli insorti siriani hanno dichiarato domenica scorsa di aver preso la base militare di Seir al-Asafir. Non esistono però conferme su questa rivendicazione. Tuttavia, gli insorti controllano alcuni quartieri a est e nord-est di Damasco. Non solo, avrebbero conquistato le basi militari di Mayadeen e Deir Ezzor. D’altro canto, l’esercito regolare siriano ha bombardato un quartier generale di ribelli nel nord della Siria, nella città di Atma, a poca distanza dal confine con la Turchia. Mentre, in una nota, lo stato maggiore turco ha ribadito la richiesta alla Nato di dispiegamento di Patriot nei cieli del nord della Siria. Secondo il governo turco, il dislocamento, che dovrebbe essere avviato a metà dicembre e aprirebbe la strada alla formazione di un’area cuscinetto tra i due paesi, avrà uno scopo «puramente difensivo, contro una possibile minaccia» e non servirà ad «operazioni offensive». Intanto migliaia di civili siriani sono fuggiti ieri da un campo profughi improvvisato a ridosso del confine con la Turchia dopo che la zona è stata bersaglio dei raid dell’esercito siriano. Infine, il primo ministro russo, Dimitry Medvedev, ha duramente criticato la decisione dei governi inglese e francese di riconoscere la coalizione dell’opposizione siriana, come unico rappresentante del popolo siriano. «Dal punto di vista del diritto internazionale, è assolutamente inaccettabile il desiderio di cambiare il regime politco di un altro stato riconoscendo una forza politica come la sola rappresentante della sovranità», ha detto Medvedev. Infine, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), il numero di rifugiati siriani registrati o in attesa di registrazione ha toccato le 442.000 unità mentre oltre due milioni sarebbero gli sfollati o i profughi interni. Giu. Acc. Afghanistan/ E FRANCIA E DANIMARCA SE NE VANNO L’Italia latita sul ritiro dalla guerra delle «nostre» truppe della Nato Giuliano Battiston KABUL S ull'Afghanistan, governo e parlamento italiani continuano a latitare. Lo fanno sue due questioni diverse, ma entrambe fondamentali. La prima ha a che fare con quanto avvenuto qui a Kabul pochi giorni fa, quando il governo Karzai ha ripreso le esecuzioni capitali, impiccando 14 detenuti (tra cui 4 accusati di far parte della galassia talebana). Al di là della dichiarazione opportunistica dei seguaci del mullah Omar, che hanno chiesto il rispetto dei diritti umani, rimane la questione di fondo: la contraddizione tra gli obiettivi che staremmo perseguendo nel paese centro-asiatico e la realtà sul campo. La retorica recita che il blocco politico euroatlantico e il suo braccio armato, la Nato, sono in Afghanistan per promuovere lo stato di diritto, consolidare le istituzioni democratiche, favorire la ricostruzione del paese, combattere quanti a questo progetto si oppongono. I fatti, però, raccontano un'altra storia: quella di un paese con un governo non solo corrotto, parassitario e inefficiente, ma capace di adottare pratiche simili a quelle dei «turbanti neri». Politicamente, il silenzio del governo italiano sulle impiccagioni di Kabul è un'abdicazione di responsabilità, ma è fin troppo comprensibile, perché legato alla seconda questione su cui l'Italia è latitante; il governo non fa che assecondare il fisiologico disinteresse dell'opinione pubblica per passare sotto silenzio le sue scelte (o mancate scelte) future: che tipo di sostegno intende dare all'Afghanistan dopo il ritiro dei soldati, previsto nel 2014? Come avverrà il ritiro? Secondo quale agenda? Quanto costerà? Soprattutto, qual è l'esito dell'occupazione del paese? Anche se urgenti, su tutte queste questioni ci sono ancora reticenze e ambiguità. Non basta citare l'accordo di partenariato tra Italia e Afghanistan approvato poche settimane fa da Camera e Senato, perché è talmente evasivo da promettere molto senza assicurare nulla. E 1e rassicurazioni del presidente del Consiglio Monti, che nel corso della sua ultima visita in Afghanistan ha promesso che l'Italia invertirà il rapporto tra «aiuto» militare e aiuto civile, sono altrettanto fumose. Prima che l’Afghanistan scompaia dai radar della comunità internazionale – ha chiesto una delegazione della società civile invitata a Roma dal network «Afgana» (di cui chi scrive fa parte) - è responsabilità di ogni governo far conoscere ai propri cittadini e alla popolazione afghana l'agenda del ritiro e gli impegni finanziari futuri. L’Italia, lo si è detto, latita. Altri governi meno. La Francia sta già attuando il ritiro, ben prima del 2014 dunque, e Hollande sa bene che i soldati costa man- tenerli, ma anche ritirarli: il 21 novembre ha firmato con il presidente kazako Nazarbayev un accordo che prevede facilitazioni per il passaggio di uomini e mezzi sul suolo kazako. Due giorni fa Christian Friis Bach, il ministro danese per la Cooperazione allo Sviluppo, visitando Kabul e la provincia di Balk, ha assicurato 100 milioni di euro per la cooperazione dal 2013 al 2017, dando seguito all'impegno assunto a Tokyo, alla conferenza dei donatori di luglio. Molti paesi hanno quindi capito che è tempo di tirare le somme: sui risultati ottenuti con più di dieci anni di guerra, sul modo in cui la si vuole concludere, su ciò che ci lasceremo alle spalle e su ciò per cui ci impegniamo nel futuro. Su questo, Mosca sembra essere la più decisa: pur facilitando alcune operazioni militari, l'orso russo ha sempre criticato apertamente la strategia della Nato in Afghanistan, tanto da puntare i piedi al summit di Chicago dello scorso maggio. Giovedì a entrare a gamba tesa è stato Nikolai Patrushev, il segretario del Consiglio di sicurezza russo, che in un incontro a San Pietroburgo è andato dritto al punto, chiedendo alle forze Isaf-Nato di presentare un dettagliato rapporto alle Nazioni Unite sulla situazione attuale e sui piani futuri: la Russia – ha commentato Patrushev - «non ha ancora informazioni su quali forze armate verranno ritirate, quante truppe resteranno e quanto a lungo, e quali basi militari verranno mantenute». Dietro la staffilata di Patrushev c'è il tentativo di costringere gli americani a mostrare le carte. Dal 15 novembre infatti Kabul e Washington hanno ripreso a sedersi al tavolo negoziale. In ballo ci sono questioni fondamentali (escluse dall'accordo di partenariato firmato a maggio): quanti soldati a stelle e strisce resteranno dopo il 2014; quale status giuridico avranno; se e quali basi americane verranno mantenute. Secondo un funzionario americano che ha parlato in forma anonima al Wall Street Journal, rimarranno circa 10000 soldati statunitensi (ora sono 67000), in linea con le indicazioni del generale John Allen, che proponeva un contingente tra i 6 e i 15000 uomini. Per ora le posizioni rimangono comunque distanti. Karzai chiede che i soldati americani non godano dell'immunità, mentre Obama non può permetterlo. A rendere le cose più difficili, rimane il contenzioso sui detenuti nel carcere di Bagram, la base militare americana a nord di Kabul: già a settembre la responsabilità di quei detenuti sarebbe dovuta passare in mano afghana, ma a comandare a Bagram sono ancora gli americani, a dispetto delle dichiarazioni degli ultimi giorni. Qui a Kabul molti provano a risolvere il rebus: come riprendere la sovranità di un paese che è ancora del tutto dipendente dalla comunità internazionale, e sotto occupazione militare. pagina 8 il manifesto MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012 REPORTAGE INDIA / BANGLADESH Viaggio a Bommanahalli, il distretto industriale specializzato nel tessile alla periferia di Bangalore. Le lavoratrici raccontano stipendi bassissimi, poco cibo, maltrattamenti e disagi fisici Marina Forti BANGALORE (INDIA) I cancelli della fabbrica si aprono alle 16,30 in punto, e le operaie cominciano a uscire a gruppetti. Molte sono giovanissime, sembrano adolescenti. Si avviano lungo la strada che costeggia altri capannoni e stabilimenti, verso casa o verso l’ostello aziendale. Bommanahalli è un distretto industriale alla periferia di Bangalore, India meridionale, e sembra lontano mille miglia dai suburbi hitech che danno lustro internazionale a questa città, gli istituti di ricerca, parchi tecnologici e cittadelle informatiche. Anche questo però è un pezzo di economia globalizzata, perché fabbriche e fabbrichette qui formano uno dei maggiori «hub» dell’industria tessile e dell’abbigliamento del paese: e non è un settore da poco, perché l’India risulta il terzo esportatore mondiale di tessili e sesto di abbigliamento, con i paesi europei e gli Stati uniti come primi clienti. Lasciamo la statale bordata di concessionarie di auto, officine, negozi di quasi ogni possibile bene industriale, ferramenta, drogherie, telefonini, bancarelle. Imboccare una strada bordata di capannoni e fabbriche. A volte sono piccole officine, stanzoni pieni di macchine da cucire. Altri sono grandi stabilimenti. Stradine laterali si addentrano nell’abitato, denso, case basse di cui ogni famiglia occupa una stanza aperta su un ballatoio, piccoli negozi, qua e là mucchi di spazzatura su cui rumina placida una mucca. O dormitori come quello verso cui si dirigono le donne appena uscite dalla Shahi, unità 14: più presto del solito, spiegano, perché è domenica e per gentile concessione dell’azienda oggi non hanno fatto straordinari. Sono restìe a fermarsi, ci sono sempre i sorveglianti in giro e loro hanno istruzione di non parlare con sindacalisti, ispettori e altri estranei. Ma siamo distanti dal cancelli e alla fine il desiderio di parlare prevale. Gayatri, poco meno che ventenne viene da una cittadina rurale di questo stato, il Karnataka, e prende 4.000 rupie al mese (circa 62 euro). Alloggia nel dormitorio aziendale, manda soldi a casa, ha due o tre giorni di permesso ogni due mesi; altrimenti lavora 7 giorni su sette, come tutte. Ha un bel sorriso vivace e azzarda qualche frase in inglese: prima di andare in fabbrica era andata a scuola, ma in famiglia serviva il suo reddito. Altre vengono da più lontano, dai confinanti stati di Tamil Nadu a sud, Madhya Pradesh a nord. Donne più grandi, con figli e famiglia, prendono 4.500 rupie di salario mensile, e metà vanno per l’affitto di casa. Bibi mostra il suo cartellino di riconoscimento aziendale: c’è scritto helper, aiutante, cioè operaia non qualificata; lei però è una stiratrice e le spetterebbero quasi duemila rupie di più al mese. E sarebbe ancora un salario da fame, dice: «L’affitto della stanza aumenta ogni pochi mesi, anche il cibo continua a rincarare, solo i salari sono fermi». L’incubo in un vestit METODO SUMANGALI Quelle apprendiste per la schiavitù Un sistema di avviamento al lavoro tutto speciale è quello chiamato Sumangali, diffuso nelle campagne del Tamil Nadu. Reclutatori girano a cercare adolescenti, spesso dalit (fuoricasta), o native, o comunque di famiglie di contadini senza terra. Propongono loro contratti di tre anni, vitto e alloggio, una piccola somma mensile e poi 35 mila rupie alla scadenza. Sembra una cifra pazzesca a chi fatica a sfamarsi. E le ragazze partono. «Ero molto contenta di andare in fabbrica», ha spiegato Sudha al Tribunale popolare di Bangalore: «Era il mio sogno, lasciare il villaggio e guadagnare dei soldi». Thulasi era contenta «perché toglievo un peso alla famiglia» e poi avrebbe fatto studiare il fratello. In pochi giorni entrambe hanno capito che le promesse erano false. È contrabbandato come un modo per racimolare una dote, ma è un sistema semi schiavistico mascherato sotto contratti per «apprendiste». ASIA FLOOR WAGE CAMPAIGN · L’iniziativa della «campagna per un salario decente in Asia» lanciata dai sindacati Nascono i tribunali popolari. In Sri Lanka, Cambogia e India S i chiama supply chain, catena dell’offerta globale: a un estremo le marche di abbigliamento, spesso molto note nei paesi occidentali. All’altro i produttori di quegli abiti e tessuti. I proprietari della marca non producono: commissionano la produzione ad aziende tessili sparse nel Sud del mondo. La maggiore concentrazione di produttori è in Asia: Cina, Bangladesh, India, Sri Lanka, Indonesia, Pakistan, Cambogia. Il settore occupa decine di milioni di persone: ma nell’abbigliamento abbonda l’attività informale, non dichiarata. E far parte di una catena globale non migliora certo le condizioni di lavoro, spiegano i sindacalisti che in India hanno promosso la Asia Floor Wage Campaign, «campagna per un salario decente in Asia (vi aderisce una set- tantina di organizzazioni in Asia meridionale e sud-orientale, Europa e nord America, più la Clean Clothes Campaign, rete internazionale per fare «pulizia» in questa industria). Il ragionamento è semplice: la competizione è fortissima e le aziende produttrici si fanno concorrenza offrendo ai «compratori» prezzi migliori; per questo tagliano sui salari e aumentano i ritmi di lavoro. «I diritti del lavoro sono i più minacciati nel mondo contemporaneo», dicono questi sindacalisti, la flessibilità ha vinto sulla tutela del lavoro: «La paura più grande di ogni paese in via di sviluppo è perdere la gara ad aggiudicarsi gli investimenti stranieri: così creano "zone economiche speciali" senza diritti per i lavoratori, ti dicono che non si può alzare i salari altrimenti gli investitori scappa- no». Eppure, i lavoratori di tessile e abbigliamento sono una forza: e se si unissero, in tutta l’Asia, per imporre un salario decente? Living wage, lo chiamano: non salario minimo, ma uno che permetta ai lavoratori di soddisfare il diritto umano a una vita degna. Da questa campagna è nato il «Tribunale popolare sul salario decente come diritto fondamentale dei lavoratori dell’abbigliamento in India», su petizione di una ventina di organizzazioni sindacali tra cui la Asia Floor Wage Campaign. Segue simili tribunali tenuti in Sri Lanka e in Cambogia, e porterà a un appuntamento internazionale nella tradizione del Tribunale permanente dei popoli avviato da Lelio Basso. Il tribunale tenuto a Bangalore dal 23 al 25 novembre era presieduto infatti da Gianni Tognoni, segretario generale del tribunale permanente dei popoli; nella «giuria» l’economista Utsa Patnaik, la giurista Hemlatha Mahishi, la sociologa Mary E. John, l’esperto dell’Organizzazione internazionale del lavoro Coen Kompier, e chi scrive. Il verdetto? In estrema sintesi, abbiamo gudicato che nell’industria tessile prevale una situazione di grave e sistematica violazione dei diritti umani individuali e collettivi, pur sanciti dalla Costituzione indiana e da una buona legislazione sul lavoro. Che questo rimanda alle responsabilità le autorità pubbliche. E che in barba ai loro codici di condotta volontari, le marche internazionali sono complici della violazione dei diritti dei lavoratori: a cominciare dal diritto fondamentale a un salario decente, un living wage. ma. fo. Visito Bommanahalli dopo aver partecipato a un «Tribunale popolare nazionale sul giusto salario come diritto fondamentale dei lavoratori dell’industria dell’abbigliamento», che per tre giorni ha riunito a Bangalore dirigenti e attivisti sindacali e di altre organizzazioni popolari, esperti, giuristi, accademici (vedi qui accanto). Soprattutto, ad affollare l’accogliente salone di un vecchio centro culturale nel cuore della città c’erano decine di lavoratrici e lavoratori venuti dai maggiori centri industriali indiani: da Gurgaon, una delle «new town» sorte attorno a New Delhi; da Tiruppur, cittadina del meridionale Tamil Nadu che nessuno sentirà mai citare ma è il più grande hub del tessile indiano, oltre che da qui, Bommanahalli. Un’assemblea multilingue con traduzione simultanea da e in hindi, kannada, tamil. Le loro testimonianze sono state l’elemento chiave del «tribunale popolare». «Lavoriamo trattati come bestiame» Testimonianze impressionanti, perché hanno descritto un livello di sfruttamento che ricorda i primi tempi della rivoluzione industriale. I salari da fame appena citati sono comuni: pochi arrivano a 5.000 o 5.500 rupie, l’equivalente di 80, 85 euro. Non si dica che la somma va riferita al potere d’acquisto locale: «Dopo aver pagato l’affitto, il latte per i bambini, l’elettricità, l’acqua non resta nulla. Spesso devo chiedere prestiti» ha spiegato Rehana Basu, operaia di BommanahalliBangalore. Se qualcuno si ammala è la fine. Sakamma, operaia a Bangalore, quando esce dalla fabbrica va a fare la domestica per un paio d’ore; altre sue colleghe per arrangiarsi «preparano papad (frittelle vendute per strada, ndr), fanno lavoretti di cucito, ghirlande di fiori, arrotolano bidi», le sigarette indiane. Per loro la giornata comincia alle 4,30 o alle 5: preparare colazione e pranzo, ripulire casa, poi la fabbrica, poi il lavoro extra, poi ancora rigovernare casa. «Non ci possiamo permettere cibo nutriente, né i vestiti che cuciamo. Abbiamo continui problemi di salute, dolori all’utero, male alle ossa, asma», dice Sakamma: «Quanto può sopportare una donna?». Gli straordinari sono la norma: sia per arrotondare il salario, sia perché rifiutarsi significa perdere il lavoro: «Se non ci stai ti buttano fuori. L’azienda ci tratta come schiavi», dice furente un operaio di Gurgaon, che passa spesso 12 ore in fabbrica. Tutti parlano di wage theft, furto sul salario: trattenute arbitrarie, spesso il manifesto MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012 REPORTAGE NELLE IMMAGINI GRANDI, IL DOLORE PER LA MORTE DI UN OPERAIO DEL SETTORE ABBIGLIAMENTO IN UN INCENDIO NELLA FABBRICA DI SAVAR / FOTO REUTERS; SOTTO, LA FABBRICA CHE HA PRESO FUOCO A UTTAKA IN DHAKA, FOTO REUTERS DHAKA · 124 le vittime della «fabbrica» andata a fuoco Dopo la strage, in piazza la protesta operaia e popolare M fretta abbastanza. Operaie e operai malmenati. Umiliazioni continue. E poi, ritorsioni verso coloro che accennano ad attività sindacali, fino a mandare squadre di picchiatori a malmenare e intimidire chi alza la testa. La finzione dei «codici di condotta» to cucito senza alcuna spiegazione, salari pagati in ritardo, aumenti non riconosciuti. O il trucco di non riconoscere la qualifica del lavoratore. Gli straordinari andrebbero pagati al doppio della paga oraria, ma è rarissimo che avvenga. Le testimonianze sembrano un solo racconto a più voci. Un incubo comune sono i target: «Ti dicono di cucire 80 pezzi in un’ora. Se ce la fai, l’ora successiva te ne danno cento, poi 120, 150. Il target aumenta sempre», ha detto Kammalamma, operaia a Bangalore. «Non c’è un singolo giorno in cui riesci a completare il tuo target nelle otto ore regolari». Molte sono arrivate al punto di saltare la pausa pranzo, o di non bere acqua durante il giorno così non dovranno andare alla toilette. Stessa pressione sugli operai di Gurgaon, che spesso restano in fabbrica fino alle 23 o mezzanotte. Uno di loro, Aksay Kumar, riassume: «Lavori come una macchina e ti senti una macchina». Altri abusi emergono. Le molestie sessuali sono esperienza comune di molte giovani donne. Maltrattamenti continui: i capireparto urlano insulti a chi è indietro col lavoro, a chi arriva qualche minuto in ritardo, a chi chiede un giorno di permesso. «Ci urlano: cane, animale. Ci trattano come il bestiame». Donne lasciate in piedi per ore nel gabbiotto del capo per punizione. Capetti che tirano oggetti o pezze di stoffa in faccia all’operaio che non si af- Le testimonianze descrivono un lavoro sempre più precario. Le aziende assumono e buttano fuori secondo le commesse che ricevono. I contratti a termine sono sempre più diffusi. O il lavoro senza neppure un regolare contratto, e senza il cartellino di riconoscimento: lavoratori che non compaiono in nessun registro, invisibili alle autorità. Senza contratto né tesserina, quindi residenza, i migranti non potranno accedere agli alimentari a prezzo calmierato del sistema pubblico di distribuzione, né rivendicare altri servizi. E tutti i poli industriali chiamano migranti: a Gurgaon (New Delhi) da tutta la piana del Gange, a Bangalore da tutto il centrosud. Di solito arrivano attraverso intermediari, reclutatori che prendono una percentuale dal lavoratore a cui procurano il posto e dall’azienda cui procurano manodopera. Un «tribunale», benché popolare, ascolta tutte le parti in causa. A quello di Bangalore hanno accettato di partecipare i rappresentanti di H&M, marca nota in nord Europa che fa confezionare i suoi abiti in diversi paesi asiatici. Armati di powerpoint, il magager per l’India Niklas Klingh e il responsabile per la «sostenibilità» Tobias Fisher hanno spiegato che l’azienda ha 94mila dipendenti, ha una rete di punti di vendita, ma non ha fabbriche proprie: ha solo «fornitori». Se le operaie della Sashi 14 hanno da ridire, è con il loro padrone che devono prendersela. La H&M però ha un codice di condotta ispirato ai principi dettati dall’Organizzazione internazionale del lavoro - e a suo credito va detto che è l’unica tre le numerose aziende invitate, indiane o multinazionali, che abbia accettato di partecipare al confronto. Nel 2012 l’azienda scandinava ha fatto 250 ispezioni presso i suoi «fornitori», a sorpresa, e ha constatato che il 97% si attiene alle norme sul salario minimo. Davanti ai cancelli della Sashi, «fornitore» di H&M, la dirigente sindacale che mi accompagna spiega che questa azienda si pretende il miglior datore di lavoro del settore in tutta l’Asia: infatti i suoi salari sono superiori (di un paio di rupie) a quello minimo di legge, «che però segna la soglia di povertà». Insomma, restano salari da fame. I dirigenti scandinavi si erano schermiti, quando a interrogarli sono state le operaie: noi controlliamo che le regole locali siano applicate. Rehana Begum non è convinta: «Macché, quando vengono i vostri ispettori in fabbrica ripuliscono tutto, ci danno l’acqua da bere, sono gentili». Continua: «Noi vi diamo abiti ben fatti, buona qualità, e voi li vendete bene, ma il nostro salario resta cinquemila rupie: perché non potere dire ai padroni di pagarci meglio?». igliaia di lavoratori hanno protestaLa fabbrica bruciata sabato notte, la Tazreto ieri nella zona industriale di en Fashions, ha aperto i battenti nel maggio Dakha, la capitale del Bangladesh. 2010, dichiara 1500 dipendenti e un fatturaChiedevano giustizia per le persone morte to di 35 milioni di dollari l’anno. nella notte tra sabato e domenica nello spaAl momento confeziona polo, magliette, ventoso incendio che ha distrutto una fabbrifelpe, ed è un buon esempio di questo settoca di abbigliamento, un palazzone di 8 piani re: produce abiti su commessa di numerose dove non è ben chiaro quante persone fossemarche occidentali, tra cui Carrefour, C&A, ro rinchiuse a fare gli straordinari. Tanto che Gap, Kik e Walmart. Sono catene che servoil bilancio della trageno un mercato di dia non è neppure massa in europa e nechiaro: i pompieri gli Stati uniti, e tengohanno alineato cenno i prezzi bassi proto cadaveri, avvolti prio imponendo nei teli bianchi, là in prezzi bassi ai loro quel che resta della «fornitori»: secondo fabbrica; altre 12 perla rete internazionale sone sono morte in Clean Clothes Camospedale. Ma la stampaign, «Campagna pa locale parla di 124 abiti puliti», che si vittime. Ed è solo un batte contro il superbilancio provvisorio sfruttamento del laperché tra i feriti molvoro nell’industria ti sono in condizioni tessile globale, questi gravi. marchi non hanno Oggi, martedì, il fatto nulla per assicuBangladesh osserverarsi che i loro «fornirà una giornata di luttori» lavorino in conto ufficiale, per decidizioni di sicurezza. sione del governo, e Dunque sono correla bandiera nazionasponsabili della tragele sarà a mezz’asta. dia. «Queste marche Ma questo non ha sanno da anni che placato la rabbia di molte delle fabbritanti lavoratori di Sache che scelgono per var, distretto indule loro commesse sostriale di Dakha, e no trappole mortali», delle famiglie delle ha commentato vittime. Ieri dunque Zeldenrust, coOggi, martedì, il Bangladesh Ineke erano per le strade, a ordinatrice internamigliaia; hanno lanzionale della Clean osserverà una giornata di ciato pietre contro faClothes: lei parla di lutto ufficiale, per decisione «negligenza criminabriche tessili, fracassato veicoli, bloccato del governo. Ma questo non le». una delle grandi straSiddiq Ur Rahde che escono dalla placa la rabbia dei lavoratori man, presidente delcittà attraverso il dil’Associazione degli stretto industriale. Duecento fabriche della industriali ed esportatori di abbigliamento, zona sono rimaste chiuse. La rabbia è palpaha dichiarato che i familiari dei defunti ricebile, e si capisce bene: non è la prima volta veranno 100mila taka di risarcimento, circa che uno stabilimento tessile va a fuoco nei 900 euro. Per famiglie che hanno perso chi sobborghi industriali di Dakha, dal 2006 alportava a casa un reddito è un insulto. meno 500 lavoratori sono morti in simili inciD’altra parte, Ieri molti dei fagotti bianchi denti. Ogni volta le autorità puntano il dito allineati davanti alla fabbrica carbonizzata sulle misure di sicurezza mancanti. Ma poi non avevano ancora un nome. E’ la solita stonon cambia nulla. E la cronaca si ripete. ria, ci ha detto Sudharshan Rao Sarde, segreSecondo il direttore operativo dei vigili del tario regionale di IndustriAll, federazione infuoco di Dhaka, il maggiore Mohammad ternazionale di sindacati dell’abbigliamenMahbub, le fiamme sono state provocate da to: «L’azienda non tiene neppure dei registri un corto circuito. Ma a rendere così letale completi, perché molti dei lavoratori sono inl’incendio, ha aggiunto, è il fatto che mancaformali, a termine. Persone invisibili». Rao vano le più elementari misure di sicurezza: Sarde parlava così venerdì scorso e l’incenniente scale esterne, nessuna via di fuga. E i dio di Dakha non era ancora scoppiato: lui si cancelli sbarrati. Molti sono morti soffocati riferiva per la verità alle vittime di un altro insu per le scale, altri saltando dalle finestre cendio in fabbrica, quello avvenuto in setdei piani superiori per sfuggire alle fiamme. tembre nei sobborghi di Karachi in Pakistan. «Ci fosse stata almeno un’uscita d’emergenLa cronaca gli ha dato ragione, la stessa stoza, le vittime sarebbero state molte di meria si ripete in modo scoraggiante. «Nell’inno», ha dichiarato all’agenzia Ap. D’altra pardustria tessile sta scivolando sempre più nel te gli stessi pompieri hanno faticato a ragsettore "informale", aiutata dal fatto che la giungere l’edificio in fiamme, in quelle vie struttura stessa è cambiata: da un lato hai le strette mancava una via di avvicinamento. marche, dall’altro la base produttiva, e le fabL’industria tessile è importante in Banglabriche di questa regione competono spredesh, secondo esportatore di abbigliamento mendo sempre di più i lavoratori». dopo la Cina - esporta per circa 18 miliardi Ieri sera i sobborghi industriali di Dakha di dollari l’anno. Occupa circa 3 milioni di laerano presidiati dalla polizia. La tensione voratori, in maggioranza donne, e conta cirnon cala. La primavera scorsa oltre 300 fabca 4.000 unità produttive: per quanto siano briche nella capitale del Bangladesh sono affidabili i dati, in un settore dove abbondastate bloccate da un’ondata di scoperi per la no le aziende non registrate. Quello che è richiesta di migliori salari e migliori condiziochiaro è che sono tra i peggio pagati in Asia, i ni di lavoro. La tragedia della Tazreen sarà più restano bloccati sui 37 dollari di salario dura da acettare. minimo ufficiale. Ma. Fo. pagina 9 pagina 10 il manifesto MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012 CULTURA DIABOLICO NOVECENTO Mario Isnenghi P assa appena i cinquant’anni e ha ancora 15 anni di vita, Luigi Russo, quando nel 1946 fonda «Belfagor» e decide che nasca sotto il segno della sfida. Nell’Italia che sta per avanzare delle figlie di Maria (sempre meglio, s’intende, degli atei devoti e dei laici genuflessi), l’autore di Elogio della polemica sceglie per la sua nuova rivista il nome di un demonio, machiavellico per giunta. È una rivendicazione storico-culturale di spessore secolare, una franca e per molti imbarazzante e insoffribile dichiarazione di identità rispetto alle storie d’Italia: al conflitto Stato – Chiesa che contraddistingue il paese geneticamente e in modo immanente – nella storia collettiva e nel quotidiano di ciascuno –, e che va affrontato, non eluso. Non solo per assecondare una sua tendenza di stile, fra le rubriche che inventa e strutturano la sua rivista ci sono le «Noterelle e Schermaglie»: pupilla degli occhi suoi, fattore distintivo che caratterizza e diversifica, più dei «Saggi e studi», a scrivere i quali sono buoni ‘tutti’. «Belfagor» sarà sempre e per definizione in riga rispetto ai doveri della filologia, una rivista onorata e ricercata da fior di studiosi e accademici, e nello stesso tempo aperta sul mondo e le cronache del mondo, pronta sempre alle battaglie difficili, non addomesticata, non prona. Un Comitato di Liberazione Nazionale di approcci e di gradazione dei linguaggi, una programmata convivenza di stili, come in forma di particolarissimo cln la rivista è nata e ha saputo affermarsi e durare dal punto di vista delle compresenze politico-culturali: quando inve- PERCORSI · Rigore e militanza, i tratti distintivi IL DEMONIO BELFAGOR E (A DESTRA) LUIGI RUSSO Una straordinaria avventura culturale N NEL SOMMARIOxxxxxxxxxxxxxxxxxx Tra i materiali dell’ultimo numero di «Belfagor», accanto ai testi di apertura («Come eravamo» di Mario Isnenghi, qui anticipato, e «Ermes e la lira» di Carlo Ferdinando Russo), un saggio di Giulio Ungarelli sull’amicizia tra Gianfranco Contini e Gianni Miniati e «Esercizi ecdotici sulla Clizia» di Raffaele Ruggiero. «Belfagor», la sfida di una generazione ce le durezze preclusive e le reciproche forme di conventio ad excludendum spaccavano nel dopoguerra l’Anpi dei partigiani, la Cgil dei lavoratori e tutte le altre forme di associazionismo ‘unitario’ nate dalla Resistenza. Qui, la conventio, se ce n’è una, concerne semmai la dc: nel 1943-’45, nei cln della Resistenza, con la dc tutti i partiti antifascisti dovevano conviverci e arrivare unanimi al voto. «Belfagor» – piú settario, com’è proprio dei demoni – la ‘resistenza’, in certo modo, la fa contro il partito dei preti. Non, dunque, una rivista di ‘terza forza’, in quel dopoguerra in cui la formula – per motivarla o deprecarla – era in auge. E infatti quei temi anticlericali che erano prettamente loro, maestri del genere quali Salvemini ed Ernesto Rossi li coltivano assai piú altrove, nel «Mondo» o semmai nel «Ponte». La formula, la composizione politica del settimanale liberal-radicale di Pannunzio comprendono dichiaratamente una prospettiva anticomunista che essi non ritroverebbero, come tale, all’ombra di Russo (il che non vuol dire che non vi siano fra redattori e collaboratori diavoli di diverso pensiero e in particolare diavoli anticomunisti). Sarà per questo che gli Indici 1946-2010, appena resi disponibili dall’editore Olschki per le cure di Antonio Resta, registrano scarne presenze di Salvemini e Rossi: come autori in proprio, s’intende, perché il loro spirito aleggia familiare ovunque, e anche chi scrive se ne dichiara senz’altro ammiratore e seguace, agli effetti di stile e non solo. Solo un altro ircocervo consociativo viene in mente – dai liberali ai comunisti, ma senza i democristiani – capace di attraversare il lungo dopo- di Croce); «Minima personalia», rubrica di autoritratti intellettuali on sarà certo facile elaborainaugurata da Cesare Segre nel re il lutto per la chiusura di 1984; e le sapide e irriverenti note«Belfagor», una delle porelle politiche di Mario Isnenghi chissime riviste culturali davvero (collaboratore di lungo corso e, dal decisive dell’Italia contempora2007, condirettore di «Belfagor»), nea. Fondato nel 1946 da Luigi Ruspuntualmente pubblicate dal 1994 so, italianista tra i più influenti del in poi, che saranno presto raccolte secolo scorso, il periodico bimein volume dall’editore Donzelli. Alstrale di «varia umanità» era giuntri volumi di rubriche belfagoriane to al suo sessantasettesimo anno sarebbero senz’altro auspicabili: di vita in ottima salute, senza mai penso anzitutto ai fondamentali smarrire quello spirito eretico e dis«Ritratti critici di contemporanei» sacrante che aveva dettato la scel(l’ultimo, a firma di Matteo Gianta del nome «Belfagor», mutuato cotti, è dedicato a un grande poeta da un diavolo di machiavelliana da riscoprire: Diego Valeri). memoria. Merito, soprattutto, di C’è chi ha indicato quale testiCarlo Ferdinando Russo, il raffinamonianza del prestigio di «Belfato filologo classico, figlio di Luigi, gor» il fatto che sia stato collocato che fu magna pars della redazione dall’Anvur (Agenzia nazionale per di «Belfagor» fin dal primo numero la valutazione del sistema universiper poi assumerne tario e della ricerca) la direzione a partinella fascia più alta re dal 1961 (anno delle riviste accadedella scomparsa del mico-scientifiche. padre, che aveva diMa mentre le riviste retto la rivista fino accademiche susciad allora in tandem tano solitamente con Adolfo Omol’interesse di un rideo). stretto drappello di Ma quali furono i specialisti e vengotratti distintivi di no acquistate quasi «Belfagor»? Giovanesclusivamente dalni Giudici, in un artile biblioteche unicolo uscito sul «Corversitarie rimanenriere della Sera» nel do perlopiù confina1976, in occasione te su polverosi scafI conti in attivo, del trentennale della fali, a «Belfagor» eranascita della rivista, no abbonati anche ma quella ne fornì questo calmoltissimi privati che Carlo zante identikit: «Rivisia in Italia che alsta letteraria? Rivista l’estero (un segnale, Ferdinando accademica? Rivista questo, altrettanto, Russo definisce se non più significapolitica? Tutto questo e, insieme, nientivo della certifica«un’esperienza te di tutto questo nel zione di eccellenza senso esclusivo: si dell’Anvur). Donde irripetibile» potrebbe dire una riil bilancio sempre in giunge al termine attivo della rivista, il vista ‘laica’, basata appunto sull’esclucui abbonamento sione di ogni chiesasticità, non tanannuale costava cinquantasei euto ideologica quanto piuttosto spero: una cifra assai vantaggiosa se si cialistica, resa viva e vitale soprattiene conto che in un anno uscivatutto dalla sua continua attenzione no 6 fascicoli per circa 800 pagine al diverso e al molteplice, ma non complessive; in ogni caso, niente perciò in balia dell’improvvisazioin confronto ai prezzi esorbitanti ne dilettantistica; diciamo: una rividegli abbonamenti a certe riviste sta interdisciplinare, il cui rigore è accademiche che possono arrivare stato costantemente garantito dala costare oltre 1000 euro (proprio la presenza di specialisti delle sinuno dei nuovi collaboratori di «Belgole discipline». fagor», l’italianista Claudio Giunta, In effetti «Belfagor», oltre per la ha recentemente pubblicato sul grande interdisciplinarità, si è semDomenicale del «Sole 24 ore» un pre distinto per la capacità di cocondivisibile articolo in proposiniugare rigore e militanza, erudito). «Belfagor», dunque, non chiuzione filologica e pungente saggide certamente i battenti per ragiosmo. Scorrendo i nomi dei collaboni economiche (una volta tanto la ratori si potrebbe compilare un vecrisi non c’entra...), ma perché Rusro e proprio albo d’oro: da Gianso figlio, superata la soglia dei nofranco Contini a Norberto Bobbio, vant’anni, intende, del tutto legittida Cesare Musatti a Sebastiano mamente, dedicarsi ad altro. DeciTimpanaro, da Walter Binni a Giusione pienamente comprensibile, lio Ferroni (si vedano i preziosi e che non compensa però l’amarezdettagliati Indici 1946-2010 dei faza per la fine di questa straordinascicoli belfagoriani pubblicati poria avventura culturale. chi mesi fa per cura di Antonio ReIn una recente intervista a prosta presso Olschki, editore compliposito della fine della rivista, Rusce e congeniale della rivista fin dal so ha dichiarato che «L’esperienza 1961). «Belfagor» era inoltre caratdi “Belfagor” non è ripetibile». Difterizzato da un notevole pluralificile dargli torto. Sarebbe pressosmo, coerentemente con quanto ché impossibile indicare una riviscritto da Luigi Russo nel Proemio sta attualmente in attività che posal primo fascicolo della rivista: «absa in qualche modo ereditare le biamo invitato (...) a collaborare istanze critiche che guidarono «Beltutti gli studiosi di buona volontà, fagor». Il suo spirito battagliero podai liberali ai comunisti: non chietrebbe forse ritrovarsi nell’ambito diamo a nessuno la tessera del suo dei blog letterari, che però, salvo rapartito, chiediamo soltanto serietà re eccezioni, non accompagnano di lavoro e spregiudicatezza di alla vis polemica il rigore e la comorientamento critico». petenza necessari. Come che sia, i Le tradizionali rubriche erano: quattrocento fascicoli di «Belfa«Saggi e Studi», «Ritratti critici di gor» usciti dal 1946 ad oggi rimancontemporanei», «Varietà», «Notegono una ricchissima miniera di relle e Schermaglie», «Recensioni», spunti e ricognizioni utili non solo «Libri ricevuti». A queste si aggiunper ricostruire le più importanti visero in seguito: «Documenti» (dal cende culturali contemporanee 1977), che fece conoscere pagine ma anche (e anzitutto) per illumiinedite di autori come Gramsci, nare il nostro presente. Che avrebLukács, Marcuse, Moravia, De Marbe più che mai bisogno del pungotino (nell’ultimo fascicolo c’è un inlo di quell’implacabile diavolo materessantissimo carteggio inedito chiavelliano. Raoul Bruni Con il numero di novembre, di imminente uscita, chiude la rivista fondata nel 1946 da Luigi Russo. Onorata da studiosi e accademici e al tempo stesso aperta sul mondo e sulle cronache del mondo, sempre pronta a difficili battaglie, ha saputo affermarsi e durare nel segno delle compresenze politico-culturali. Un’anticipazione dell’editoriale guerra: l’Unione Goliardica Italiana (Ugi), non certo cosí durevole, però, né capace di riproporsi come lo è stata per sessantasei anni la rivista dell’Arcidiavolo. ‘Liberalcomunismo’ è una parola grossa e eviteremo di farne una etichetta onnicomprensiva, però. Qualche cosa di Piero Gobetti e delle bizzarre fornicazioni del giovane torinese e della sua ossimorica «Rivoluzione liberale» con l’«Ordine nuovo» di Gramsci, potrebbe forse stare in sottofondo a queste sinergie selettive. E apparendo oggi ai piú Gobetti un archeologico giovane vecchio, per non dire di quante volte e quanti modi si adoperano per far fuori Gramsci, non sono da aspettarsi – non solo nelle sacrestie – sentimenti di lutto diffuso per il venir meno di una rivista che in molti, certo, magari solo con il silenzio, si affretteranno a consegnare al passato: il diabolico Novecento delle ideologie. La sfida da cui prorompe la contestazione del primo quindicennio – quando regna e governa Luigi, e suo figlio Carlo Ferdinando sta già a bottega, maturando i titoli dell’assolutismo illuminato con cui regnerà e governerà per mezzo secolo, sino al termine – non si volge solo contro Gonella: segretario e prototipo della dc di De Gasperi, e piú del presidente as- sunto come bersaglio. È la sfida a Benedetto Croce. Il quale vede, corrucciato e con rammaricata sorpresa, due dei suoi ‘figli’ migliori e di lungo corso – Luigi Russo e Adolfo Omodeo, che muore subito, condividendo per poco la direzione della rivista – derivare dal liberalismo verso l’azionismo; e peggio, addirittura verso il Fronte Popolare, per quanto riguarda Russo. Russo figlio ha pubblicato reiteratamente, anche in numeri recenti, i documenti epistolari di questo schietto e consapevole scontro, che vuol essere anche, non certo un passaggio delle consegna da parte di don Benedetto, ma una nuova e libera assunzione di responsabilità dalla parte di Russo, ormai pienamente autonoma rispetto all’egemonia crociana e gentiliana, all’entrata in un nuovo mondo. Di nuovo, ‘uccisione dei padri’ è un’espressione truce che non sembra il caso di prescegliere, ma certamente c’è un trapasso, siamo su un confine e «Belfagor» si appresta a valicarlo entrando nel territorio del dopoguerra con animo e intenzioni diverse. Non esauribili nell’heri dicebamus. Non esauribili, ma Russo è del 1892, ha fatto la Grande Guerra, sotto l’egida di Gentile ha insegnato civismo e morale militare agli ufficiali di complemento – anche Carlo Rosselli e Palmiro To- gliatti –, è stato professore ordinario nelle università dell’Italia fascista, ha letto parlato scritto prima di diventare rettore dei 45 giorni a Pisa (come Omodeo a Napoli). Non sboccia e non si sente, insomma – a cinquant’anni sonati – come l’esponente di una generazione di figli che si ribellino ai padri, ma una mente pensante di una generazione di mezzo, che non nasce balda e innocente, come i ventenni del ’43-’45, nuova o seminuova, ma ha già tanta vita dietro e dentro e non pensa affatto sia tutta da buttare. Piero Calamandrei – e a maggior ragione accanto a lui, il piú moderato Pietro Pancrazi – nascendo quasi ad un tempo a Firenze, nella città delle riviste, faranno «Il Ponte» e da ‘ponte’; Russo e «Belfagor» hanno piú fuoco, e sia i due uomini-guida che le loro creature intonazioni diverse; ma il fiume, il ponte rotto, i ponti da rifare dopo questo ‘secondo Risorgimento’ dell’Italia, ci sono per tutt’e due. E non conducono verso Lourdes. Ho nominato Firenze, di nuovo – come nel primo Novecento e diversamente fra le due guerre – città delle riviste. Ma «La Voce» dura cinque o sei anni, «Lacerba» due; il «Ponte» e, sino a questo 2012, «Belfagor» ci sono ancora, da sessanta e piú anni. Il paragone, per durata, che viene subito alla mente è proprio «La Critica», prima di Croce e Gentile, poi del solo Croce e dei suoi. L’analisi dell’impronta lasciata dalle riviste di inizio secolo attrae gli studiosi almeno da quando delle fortunate antologie le resero piú accessibili nei primi anni Sessanta. Spetterà ad altri addentrarsi nella ben piú lunga vita delle riviste giunte sino a noi, come in parte è già avvenuto per la creatura di Calamandrei. il manifesto MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012 pagina 11 CULTURA DIMISSIONI ALLE EDIZIONI BARBÈS, NASCE LA SIGLA CLICHY Con un asciutto comunicato, redazione e direzione delle Edizioni Barbès, «visti i problemi finanziari di Edison Group», proprietario della sigla, hanno annunciato le loro dimissioni e la decisione di fondare una nuova casa editrice indipendente, le Edizioni Clichy, le cui pubblicazioni partiranno a gennaio 2013. oltre tutto Marco Peretti I l protagonista di Barocco tropicale, romanzo dell’angolano José Eduardo Agualusa (traduzione di Giorgio De Marchis, La Nuova Frontiera, pp. 314, euro 17,50), vive al quarantasettesimo piano di un grattacielo chiamato Termitaio. Quando il mastodonte fu progettato, ai tempi dell’euforia del petrolio, Luanda era in piena espansione, e i grattacieli dovevano soddisfare la richiesta di alloggi della borghesia emergente. Con la fine dell’era del petrolio il mercato immobiliare è crollato, il calo dei prezzi ha permesso ai «poveri» d’insediarsi nei piani bassi del Termitaio e i sotterranei, in origine destinati a ospitare palestre e supermercati, sono diventati il regno di un’umanità diseredata. A distanza di un decennio il Termitaio è un edificio sovrappopolato e fatiscente. Termiti, così Agualusa immagina gli angolani del 2020, piccoli esseri, che vivono nell’ombra e nell’oscurità. Numerosissimi, assiepati nei loro nidi, costruzioni complicatissime e di dimensioni colossali. Il Termitaio è insomma l’immagine distopica di una Luanda che deve fare a meno del suo oro nero, del tutto simile, per altri aspetti, alla coeva Los Angeles inventata da Ridley Scott per il suo Blade Runner. Barocco tropicale non è però un noir fantascientifico e Bartolomeu Falcato, così si chiama il protagonista e narratore, non è un cacciatore di androidi ribelli, anche se di esseri in qualche modo «artificiali», sul suo cammino ne incontra. È uno scrittore (Il domatore di camaleonti si intitola un suo libro), e quindi, va a caccia di storie, ma come il Rick Deckhard di Scott fa troppe domande e in Angola «domandare è pensare … e chi pensa finisce sempre per contestare». Non è un ca- SI SCIOLGONO LE CONCHIGLIE DELL’ANTARTIDE Le conchiglie dei molluschi nell’Oceano Meridionale in Antartide si stanno dissolvendo: un fenomeno che per gli esperti della British Antarctic Survey è la prima manifestazione degli effetti dell’acidificazione degli oceani dovuta alla presenza di più CO2. I dati sono usciti su «Nature Geoscience». ROMANZI · Edito dalla Nuova Frontiera «Barocco tropicale» dell’angolano José Eduardo Agualusa Nella Luanda del 2020 l’esplosiva fioritura del caos FOTO DA «AGORA LUANDA» DI KILUANJE LIBERDADE E INÊS GONÇALVES so che «l’ipocrisia costituisce una virtù apprezzata moltissimo nella terra degli uomini-camaleonti». Una virtù di cui non sembra disporre Agualusa che, non pago delle polemiche già suscitate nella vita reale, fa replicare al suo alter ego quel giudizio letterario, «inopportuno», espresso nei confronti di Agostinho Neto, il padre della patria: «era un poeta mediocre». Anche per questo qualche critico ha considerato Barocco tropicale un pamphlet politico e d’altronde, se l’ignoto può esser descritto solo attraverso il noto, la Luanda del 2020 non è altro che la proiezione di un passato e di un presente già noti. Un caotico presente che evidentemente il polemico Agualusa non intende decifrare, lo suggerisce con una delle epigrafi: «Non mi interessa mettere ordine al caos: quello che voglio fare è farlo fiorire». Un’azione disgregatrice che l’autore compie innanzitutto attraverso la narrazione, facendo germogliare storie e personaggi, sovrapponendo stereotipi e riferimenti colti, opinioni personali e espedienti letterari, il tutto assemblato grazie all’utilizzo di una «moviola» letteraria che permette di focalizzare ogni dettaglio, fermare l’immagine anche sui per- NARRATIVA · «Qualcosa capiterà, vedrai», una raccolta di racconti di Christos Ikonomou Dalla Grecia in crisi, sguardi impudichi sulla povertà Fabio Donalisio C’ è una cosa che la letteratura (in questo caso specchio diretto dello sguardo impaurito) occidentale ha tenuto relegata, con poche eccezioni, in un cantuccio sotto l’orizzonte, perchè proprio non vuole più vederla: la povertà. L’ha omessa. Oppure ha usato i soliti trucchi, come l’iperrealismo, la spettacolarizzazione. L’ha appiccicata addosso alle minoranze, ha inventato la parola «borderline» per definire con la pancia che c’è una linea appunto, che la miseria è fuori e chi la porta su di sé da dentro è necessariamente uno che gioca con il limite, il confine. Dai tempi del dopoguerra non è quasi mai più stato «uno di noi» a portare le stigmate della fame, del non farcela, con l’aggravante di appartenere (verbo da riconsiderare attentamente) a un contesto che non ha mollato l’ossessione dell’aspettativa, ha conosciuto la ricchezza diffusa, si ostina a pensare che il progresso sia cosa buona e giusta in sé, e soprattutto indefinitamente procrastinabile. Le cose hanno però il brutto vizio di cambiare. E di trascinare con sé, spesso con imperdonabile ritardo, anche gli sguardi di chi pensa, vuole, avoca a sé il privilegio e il dovere di interpretare la realtà, dirla, darne una versione che partecipi dell’arte, del mito. Il crollo delle coppie oppositive ha mandato in crisi gli scrittori (intesi solo come sottoinsieme di «uomini»), recalcitranti a prendere per i talloni la loro vicina di casa, i loro parenti, i ragazzi con cui sono cresciuti e calarli e immergerli nel liquido vischioso della fame che, come si sa, ha tra i suoi primi effetti collaterali quello di diluire le scale di priorità tra sopravvivenza e morale. Non stupisce dunque che sia un autore greco, e relativamente giovane, a squarciare questo velo di Maya, ad affrontare il segreto di Pulcinella. La Grecia di oggi è un esempio particolarmente calzante della fragilità del capitalismo senile, simbolo della follia della finanza internazionale, specchio di come una serie di numeri di impressionante astrattezza diventino causa con- creta di rovina e miseria diffusa. Catalizzatore visibile e sovraesposto di uno degli incubi più tenacemente confitti sotto la nostra pelle, quello dell’uscita dall’Occidente, della perdita del privilegio, della caduta degli dèi ad opera della loro stessa ybris. Materiale da tragedia, appunto. Christos Ikonomou non è nome noto da queste parti. La letteratura greca contemporanea affiora nel nostro orizzonte editoriale in piccoli e sparuti atolli. È la nuova incarnazione di Editori Riuniti a permetterci di rabbrividire davanti a questi racconti. Perché di brivido si tratta. Non tanto davanti a un libro in sé non memorabile. La prosa di Ikonomou è asciutta e incisiva, i plot ragionevolmente ellittici e capaci di sostenere l’attenzione, ma non si salta sulla sedia. Non per quello, almeno. Stupisce invece la genuina oscenità dello sguardo. Quella capacità (e certo quella volontà) di non risparmiare l’oc- I bizzarri personaggi di Agualusa sono eccessivi, perché la paura li porta a varcare i labili limiti tra realtà e follia sonaggi secondari, ritornare all’inizio o anticipare il finale. Voci, idee, farneticazioni, tutto viene registrato scrupolosamente, ogni frase è una «testimonianza», spesso falsamente vera o apparentemente falsa, inverosimile, e forse per questo potenzialmente reale. Una ambiguità che è il tratto caratteristico di ogni metropoli futura, della Los Angeles (la «città degli angeli») di Scott, come della Luanda di Agualusa, invasa anch’essa da angeli che appaiono e scompaiono, più uman(oid)i che puri spiriti, e in qualche caso, per durata di vita, simili ai replicanti di Scott, come la «donna che cadde dal cielo», Núbia de Matos, che dà inizio al romanzo e ne è in qualche modo la ragion sufficiente. O almeno lo è per gli effetti che produrrà sulla vita di Bartolomeu Falcato, che per averla incontrata casualmente cinque giorni prima della sua caduta dal cielo, è l’ultimo depositario delle sue confessioni. Núbia de Matos è infatti un nome (d’arte) creato dal nulla, è una ex Miss Angola, programmata per soddisfare le esigenze del «potere» (una escort diremmo in Occidente), un essere «artifi- ciale» che pensava di conquistarsi una longevità denunciando le «prestazioni» cui era stata costretta. Perché, come racconta, le si è manifestato Dio, le parlava, la consigliava e dunque s’è redenta. I bizzarri personaggi creati da Agualusa sono infatti esuberanti, eccessivi, barocchi appunto, ma sono tali perché la paura li porta spesso a superare il labile confine che separa la realtà dalla follia. La paura infatti è uno strumento nelle mani del «potere» e rende ogni atto, ogni testimonianza falsi o veri, a seconda delle necessità. Bartolomeu Falcato è in certo senso il nucleo che attrae tutte queste particelle impazzite, attratto a sua volta dal mito, dalla storia, dalla presunta esistenza di un angelo nero, di cui Agualusa ci fornisce anche la documentata testimonianza di un esploratore del XIX secolo – ed è risaputo che questi uomini si vantavano di raccontare nei loro resoconti solo ciò che avevano visto davvero. Di altra natura è invece l’attrazione che Bartolomeu Falcato prova per Kianda, la star che esiste solo quando canta, sul palcoscenico, una notte sì e l’altra no. Una donna, un angelodemoniaco, capace di amare solo a sprazzi. È lei che canta Barocco tropicale, un testo scritto da Bartolumeu Falcato, che Agualusa, per altri versi prolisso, non svela mai. Qualcuno potrebbe pensare al Barroco tropical del brasiliano Antonio Zambujo («l’amore non serve a nessuno, e tuttavia a lui ritorniamo, giorno dopo giorno … l’amore è una stazione pericolosa»), ma forse l’intenzione dell’autore è di consegnare solo un titolo, lasciando ai lettori il compito di estrapolare dal romanzo le frasi che vadano a comporre il testo più appropriato. D’altronde, basta non dimenticare i titoli dei brani di Nat King Cole che Kianda ascoltava fin da bambina, The Boulevard of Broken Dreams, I Don’t Want to See Tomorrow, Impossibile, per dare una spiegazione almeno alla sua «caduta dal cielo». Quando la star infatti ha deciso di spegnersi, mentre cadeva nel vuoto, ci è sembrato proprio che sussurrasse … All those moments will be lost in time, like tears in rain. Time to die. chio, di rendere visibile esattamente quello che si vorrebbe ancora nascosto. Niente a che fare con l’estremizzazione pulp, anzi. Qui la violenza, l’immoralità, l’abiezione, ma anche la forza interiore, la resistenza, la rassegnazione, il «portare il fuoco» sono assolutamente «normali», e qui sta la loro efficacia, come forse è successo nel nostro, lontanissimo, neorealismo. L’importanza di questo libro, dunque, è tutta nella sua «normalità», nel rendere visibile la povertà della porta accanto. Gli si perdona dunque qualche eccesso di lirismo, e qualche calcolo nell’esibire. Si esce con più di una curiosità su cosa stia accadendo nell’Egeo letterario. E ci si chiede cosa succeda qui, nel nostro paese-tornasole, nel nostro paese-baratro. E dove sono quelli che dovrebbero raccontarcelo. Per non perdere del tutto le speranze, si può ripetere a mo’ di mantra il titolo, azzeccato, del libro: Qualcosa capiterà, vedrai. GRAFFITISUI MURI DI ATENE /PASCAL ROSSIGNOL (REUTERS) EDITORIA · Nella bandella del libro di Ikonomou un indebito accostamento a Faulkner Paragoni azzardati a rischio di boomerang Graziano Dell’Anna Q uando nel febbraio 1931 Random House manda alle stampe Santuario di William Faulkner lo zolfanello dello scandalo intorno a una storia cupa, il cui acme narrativo è lo stupro di una vergine con una pannocchia – siamo nell’America dall’austera morale protestante di inizio secolo – ci mette poco a appiccare l’incendio del successo commerciale. Per la ristampa dell’anno seguente Faulkner mette mano a una prefazione che attacca così: «Questo libro fu scritto tre anni fa. Secondo me non è un gran che, come libro, perché fu concepito unicamente allo scopo di far soldi». Quindi si dilunga sulle difficoltà del suo esordio narrativo, i rifiuti editoriali e i problemi economici che l’avrebbero spinto a impegnarsi in opere cinicamente commerciali. E conclude con un dimesso appello a comprare e far comprare il libro. Chi conosce Faulkner sa quanto egli amasse depistare critica e pubblico. Si dà infatti il caso che Santuario, di cui André Malraux disse che «è l’irruzione del dramma classico nel romanzo poliziesco», non abbia nulla da invidiare a capisaldi della letteratura come Luce d’agosto o Assalonne Assalonne! Nella prefazione di Faulkner c’è dunque la malizia del baro e l’irridente falsa modestia di chi sa di essere entrato a piè pari nel canone letterario avendo alle spalle capolavori del calibro de L’urlo e il furore. E a Faulkner rimanda la bandella rossa che fascia con la pomposità di un sindaco fresco d’elezione l’antologia di racconti Qualcosa capiterà, vedrai del greco Christos Ikonomou, tradotta in Italia da Editori Internazionali Riuniti. La frase in fascetta, «Il Faulkner greco», è attribuita al quotidiano «la Repubblica». In realtà il paragone con Faulkner è più che azzardato. Nella prosa minimalista e a tratti sciatta di Ikonomou c’è poco, quasi nulla, della traccia stilistica che l’inventore della contea di Yoknapa- tawpha ha lasciato nella scrittura di alcuni suoi eredi come Cormac McCarthy, Joyce Carol Oates e Breece D’J Pancake. Chi fosse curioso di sapere da dove nasca la bandella non ha che da leggere l’articolo Il Faulkner greco e la vita oltre la fine (dei bancomat), uscito sulla «Repubblica» (24 giugno 2012) a firma dello scrittore e editor Nicola Lagioia. È Lagioia stesso a riproporre la sua riflessione su www.minimaetmoralia.it, il sito-rivista dell’editore minimum fax. Ma qui l’intestazione, La vita oltre la fine (del bancomat). Leggere noi e la Grecia attraverso la letteratura, è ben più calibrata sui contenuti dell’articolo, una disamina delle potenzialità della letteratura nella rappresentazione della crisi economica. Soprattutto, è assente l’equazione Ikonomou-Faulkner: «Si potrebbe pensare» scrive anzi nel suo testo Lagioia «che un filo leghi tematicamente queste storie alle grandi narrazioni della Depressione, da Faulkner e Steinbeck in giù. Ma le cose stanno in maniera diversa». Dunque non solo secondo l’articolo il nesso potenziale tra Ikonomou e Faulkner, e non solo Faulkner, è tematico e non stilistico, ma anche su quel piano Lagioia marca una differenza. È un aneddoto come tanti su quella selva di pressappochismo che è l’attuale realtà editoriale italiana. Cionondimeno la saga della superficialità è qui così eclatante da poter assurgere a campione di un malvezzo diffuso, se non della decadenza di un intero sistema. La tendenza a caricare d’enfasi quarte di copertina e recensioni rischia infatti di far avvitare la credibilità del sistema editoriale in una spirale inflazionistica, o di condurla alla tragica fine del ragazzo che gridava al lupo: in un mondo in cui in cui tutti gli scrittori sono il nuovo Hemingway o il nuovo Faulkner e ogni libro è un capolavoro, non c’è nessun nuovo Hemingway, nessun nuovo Faulkner e neanche l’ombra di un capolavoro. Per questo ai giornali e alle case editrici, sospesi sul baratro, converrebbe chiedersi se non sia una mossa commercialmente più azzeccata, oltre che più onesta, la schiettezza affettata da rivenditore porta a porta con cui ottant’anni fa il futuro premio Nobel chiudeva la sua prefazione a Santuario: «Ho fatto un discreto lavoro e spero che lo comprerete e lo direte ai vostri amici, e spero che lo comprino anche loro». pagina 12 il manifesto MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012 VISIONI Intervista • Un incontro londinese, al Victoria Albert Museum, con la fotografa saudita Manal Al-Dowayan, ospite della mostra «Light from the Middle Est: New Photography» DA SINISTRA, SHADI GHADIRIAN, DALLA SERIE «QAJAR», 1998 E NERMINE HAMMAM, «THE BREAK» DA «UPEKKHA», 2011 MANAL AL-DOWAYAN, DAL CICLO «I AM»; Lo scatto femminile Manuela De Leonardis LONDRA G li occhi nerissimi di Manal Al-Dowayan (è nata a Dhahran, Arabia Saudita nel 1973, dove vive e lavora) trasmettono calma e determinazione. Un unico gioiello – la collana d’argento illuminata da coralli, pietre di turchese e lapislazzulo – accenna qualcosa della sua provenienza geografica. L’incontro avviene nella Porter Gallery del Victoria & Albert Museum, durante la preview della mostra Light from the Middle East: New Photography (fino al 7 aprile 2013), curata da Marta Weiss e realizzata grazie al sostegno dell’Art Fund che ha permesso l’acquisizione delle fotografie per le collezioni del V&A e del British Museum. Le sue immagini esposte sono I am an Educator e I am a Saudi Citizen, fotografie in bianco e nero alla gelatina ai sali d’argento stampate in camera oscura dalla stessa autrice. Come sempre nel lavoro di AlDowayan il tema è incentrato sulla condizione femminile all’interno della società contemporanea saudita. In I am (2005-2007), in particolare, l’artista ritrae ogni donna con oggetti che rimandano alla rispettiva professione, includendo anche dettagli come il velo, i gioielli, il trucco che le contestualizzano all’interno una determinata area. Donne reali che rappresentano se stesse: una minoranza in Arabia Saudita, in quanto svolgono professioni considerate maschili. La stessa Manal Al-Dowayan, del resto, proviene da studi informatici e di grafica e, prima di dedicarsi esclusivamente all’arte, è stata una delle pochissime donne che ha lavorato come direttore creativo per una compagnia petrolifera nazionale. «L’ignoranza è oscurità» è scritto con il gesso sulla lavagna che l’insegnante di I am an Educator (è docente di letteratura inglese dell’Università King Faisal) mostra all’osservatore. Una frase ripetuta come un mantra, omettendo la scritta a cui di solito è associata «la conoscenza è luce». La giovane donna dell’altra foto (con cui si conclude la serie) incarna, invece, una cittadina saudita. È di profilo tra la bandiera del suo paese e il futuro, uno spazio vuoto tutto da riempire. Quando hai scoperto la fotografia? È stata per te, ragazza cresciuta nella provincia orientale dell’Arabia Saudita, una via di fuga? Gioco con la macchina fotografica da quando ero bambina. Dopo l’università sono tornata a casa con tredici scatole di fotografie. Si trattava di foto personali, allora non pensavo alla fotografia come ad una forma d’arte. In Arabia Saudita non ci sono musei, gallerie né una cultura artistica. L’idea di diventare una fotografa professionista mi è venuta mentre ero a Londra per il Master in Systems Analysis and Design. Nel pomeriggio studiavo anche fotografia. La mia prima mostra è stata proprio in questa città, da allora - era il 2004 - ho cominciato ad esporre le mie fotografie. Il dialogo che instauri con il pubblico è mediato dalla presenza di fi- gure femminili, che spesso sovvertono l’immagine che l’occidente ha delle donne saudite. Intanto guardano dritto nell’obiettivo della macchina fotografica, poi - come in «I am» - fanno dei lavori che nel tuo paese sono di appannaggio maschile (ingegneri, medici internisti, autisti, giocatori di tennis…). Quanto è importante, in questo contesto, il feeling che hai con i soggetti che fotografi? Sono donna, la mia arte è un riflesso del mio essere e sono anche saudita. Questo tema è nato senza intenzionalità, ma andando avanti con il lavoro è diventato un obiettivo intenzionale. La serie I am, è alla Sono partita da una domanda: che tipo di mestiere fanno le donne saudite, che lavorano solo per il 3% fuori casa? Mostre / LE DUE COLLEZIONI «MEDIORIENTALI» Nuovi orizzonti creativi nell’era del digitale M.D.L. LONDRA N ella frenesia della contemporaneità la fotografia è il medium più adatto per riflettere la complessità del medioriente nei suoi molteplici aspetti. Ne è convinto anche Stephen Deuchar, direttore dell’Art Fund (istituzione pubblica a sostegno di musei e gallerie del Regno Unito per l’acquisizione di opere d’arte) che dal 2009 ha comprato le 95 opere di 30 artisti mediorientali (molti dei quali provenienti dalla «scuderia» di Rose Issa) per le collezioni di fotografia contemporanea dei più importanti musei britannici: British e Victoria & Albert. Ideata da Marta Weiss (curatrice della collezione di fotografie del V&A) la mostra Light from the Middle East: New Photography (fino al 7 aprile 2013) – con il supporto di VisitBritain – ha, quindi, una valenza celebrativa in un’accezione che non ha nulla di affettato. Si tratta di presentare un’ampia selezione di queste due collezioni, espressione di linguaggi sofisticati e creativi di autori che vivono dall’interno tematiche che vanno dalla guerra all’integralismo religioso, dall’emancipazione della donna all’emigrazione. Una lotta per affermare diritti basilari in qualsiasi so- cietà civile che diventa emblematica, come nel caso della palestinese Raeda Saadeh che in Who will make me real? (2003) - il titolo è un omaggio alla poetessa Nadia Tueni - si autoritrae nella posa dell’Olympia di Manet avvolta nelle pagine del quotidiano palestinese Al Quds: un atto politico che non è solo legato alla sua identità palestinese, ma anche al suo essere donna all’interno di una società ma- Dalla palestinese Raeda Saade all’iraniana Shadi Ghadirian, fino al libanese Walid Raad schilista piena di pregiudizi e condizionamenti. È interessante come gli sconfinamenti investano lo stesso linguaggio fotografico che parte dalla formula del fotogiornalismo, di cui è capostipite Abbas con una sequenza del noto Iran Diary (1979) – e, a seguire, la connazionale Newsha Tavakolian (nata a Teheran nel 1981 è la più giovane artista in mostra) che usa colori saturati per i duplici ritratti delle madri i cui figli sono martiri della guerra Iran-Iraq (1980-88) – per approdare alla can- cellazione stessa dell’immagine in Most Wanted (2006), attraverso la manipolazione digitale operata da Taraneh Hemam, iraniana residente a San Francisco. Tra questi estremi si colloca il lavoro di Shadi Ghadirian (allieva e poi assistente del compianto Bahman Jalali anche lui nell’elenco) che in Qajar (1998) gioca con lo stereotipo della fotografia di studio d’altri tempi per mettere in posa le sue velate che rimandano ad uno status reso più appetibile dagli oggetti del desiderio: occhiali da sole, lattina di Pepsi, transistor e anche libri. Tra gli artisti anche il libanese Walid Raad, la marocchina Yto Barrada, l’egiziano Youssef Nabil, l’israeliana Tal Schochat, la turca Sükran Moral: Hassan Hajjaj è interprete in chiave pop di un Marocco globalizzato, mentre Nemine Hammam opera una trasposizione poetica della violenza (rappresentata dalle figure dei militari fotografati in piazza Tahrir) in un paesaggio immaginario da cartolina anni ’50. Tra i sauditi Ahmed Mater, Jowhara AlSaud, Manal alDowayan e Amirali Ghasemi le cui scene di feste (dalla serie Party del 2005), sono lo specchio di un’altra faccia della società a cui appartiene che in privato appare più che mai effervescente e cosmopolita. Nuovi orizzonti della fotografia nel suo passaggio dalla stampa ai sali d’argento alla manipolazione digitale, in cui la messinscena è comunque al servizio dell’informazione: l’importante è che ci sia qualcosa da dire. base del dialogo che c’è nel mio paese tra le donne e il lavoro. Io stessa sono stata una lavoratrice per supportare la mia produzione artistica. La domanda che mi sono posta è che tipo di lavoro possono fare le donne saudite, in quanto solo il 3% della popolazione femminile ha un lavoro. La più alta percentuale di disoccupazione riguarda proprio le donne. L’unica occupazione adatta alla donna è quella che è collegata alla sua sensibilità. «Qual è la mia personale sensibilità?», mi sono chiesta. «Chi è che decide qual è la mia natura?». Ho cominciato a guardarmi intorno scoprendo alcune donne con interessanti carriere. Questo è il criterio con cui ho selezionato queste donne. L’ingegnere petrolifero come l’insegnante universitaria e così via… Io sono un medico, Io sono un filmmaker, Io sono un’artista. «Blinded by tradition» è una foto che inquadra una donna con le mani dipinte di henné che coprono i suoi occhi. La condizione femminile è una tematica centrale del tuo lavoro. In «Suspended together», l’installazione che è stata presentata anche nell’ambito della collettiva «The Future of a Promise», tra gli eventi collaterali della Biennale di Venezia del 2011, avevi impresso sul corpo di una moltitudine di colombe il permesso per viaggiare delle donne saudite... Blinded by tradition è una delle mie prime foto, mentre Suspended together è del 2010. Tra un lavoro e l’altro c’è un grande intervallo durante il quale mi sono allontanata dalla foto da appendere al muro. L’immagine bidimensionale non permette un’interazione con il pubblico nella stessa maniera di qualcosa che entra nello spazio. Questo è il motivo per cui ho iniziato ad esplorare la formula dell’installazione. Ho voluto togliere il vetro del quadro che era una barriera, ma anche senza il vetro percepivo un limite, allora è nata Suspended together. A Venezia era esposta solo una piccola parte dell’installazione, ma quella completa è realizzata con duecento colombe sospese nello spazio. Un’installazione che si può vivere dall’interno, percependone la forte energia. Questo lavoro ha segnato la fine del mio lavoro con la fotografia bidimensionale che, inoltre, era legata ad un rapporto a due: io e la modella. Con l’installazione di colombe ho coinvolto duecento donne, a cui ho chiesto il permesso per viaggiare. Non era più la mia singola voce, ma quella di un grande gruppo. Che importanza ha l’uso della scrittura all’interno del tuo sguardo? Molta. Nel mio paese, la parola è più importante dell’immagine. Ad esempio gli articoli di politica sono presi molto seriamente: gli stessi soggetti trattati visualmente non hanno lo stesso peso. Nella lingua araba le parole hanno molti significati. Mi piace giocare con le parole per questo, ecco perché la scrittura è ricorrente nel mio lavoro. Hai affermato che le artiste Madiha el-Ajroush e Shirin Neshat sono state un punto di riferimento per te. In che modo? Madiha el-Ajroush è la prima fotografa contemporanea dell’Arabia Saudita. Quando ero giovane mi ha influenzata molto con il suo lavoro sulle tematiche sociali. Quanto a Shirin Neshat, fotografa molto nota, è stato significativo per me soprattutto il suo lavoro in bianco e nero. Il suo messaggio è semplice e diretto e non c’è il colore, causa di distrazione. In questo momento, però, i miei punti di riferimento sono soprattutto gli scrittori sauditi. Nel 2015, per la prima volta nella storia del paese, le donne saudite potranno votare alle elezioni municipali. Quali sono le altre aspirazioni più urgenti? Delle altre donne non saprei, le mie aspirazioni personali sono che le donne possano diventare più potenti a livello di formazione e poi nella professione, per poter raggiungere l’indipendenza economica. il manifesto MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012 pagina 13 VISIONI EGON SCHIELE Arrivano in asta da Sotheby’s a Londra, il 5 febbraio, tre preziosi disegni di Egon Schiele, che provengono dal Leopold Museum di Vienna. Le tre opere, attribuite a un periodo fondamentale nella produzione dell’artista (1914-1918), sono considerate tra i più importanti esempi mai offerti in asta della maestria nel disegno del pittore austriaco, stimate in tutto 9-12 milioni di sterline. TRIESTE IMMAGINA Si svolgerà l’1 e il 2 dicembre prossimi nel piano rialzato del Magazzino 26 del Porto Vecchio di Trieste l’happening Trieste Immagina. Bauhaus dei giovani: giocare con l’Arte nell’era postmunariana. L’evento prevede due giornate di meeting, tavole rotonde e laboratori con il contributo, tra gli altri, di Pistoletto, Pieroni di RAM radioartemobile, Sossai, Zannier, Gilas, Safred TFF · In concorso il film cubano «Una noche» di Lucy Mulloy In fuga dalla realtà DOCUMENTARI La lotta all’Aids su Cubovision JAAN TOOMIK L’artista estone che pattina nudo sul ghiaccio Riccarda Mandrini MILANO J aan Toomik è un artista estone, nato a Tartu, nel 1961. Oggi è una super star, i suoi lavori sono nelle collezioni di grandi musei, nella sua biografia la pagina delle «solo» e «group show» è lunghissima e ha all’attivo due partecipazioni alla Biennale di Venezia (nel 1997 e nel 2003). Ora è ospite con la mostra Run presso la galleria Artra di Milano (fino al 13 gennaio) L’artista ha cominciato a lavorare negli anni ’80, in Estonia in un momento in cui gli avvenimenti storici primeggiavano su ogni altro tipo di cronaca. «Toomik ha scelto di mettere da parte la narrazione della storia politica, la grande narrazione socialista -, spiega Marco Scotini, curatore di Run - e guarda a un modello fortemente individuale, che diventa collettivo, nel momento in cui si rivolge (e Rai1 6.45 UNOMATTINA Attualità 10.00 UNOMATTINA OCCHIO ALLA SPESA Rubrica 10.25 UNOMATTINA ROSA Attualità 10.55 CHE TEMPO FA - TG1 Informazione 11.05 UNOMATTINA STORIE VERE Rubrica 12.00 LA PROVA DEL CUOCO Varietà 13.30 TG1 - TG1 ECONOMIA Informazione 14.10 VERDETTO FINALE Att. 15.15 LA VITA IN DIRETTA Attualità 18.50 L’EREDITÀ Gioco 20.00 TG1 Informazione 20.30 AFFARI TUOI Gioco 21.10 Prima tv MILLE E UNA NOTTE - ALADINO E SHERAZADE “Seconda e ultima puntata” Miniserie 23.20 PORTA A PORTA Att. 0.55 TG1 NOTTE - CHE TEMPO FA Infor. lo fa sempre) alla storia e alla vita di tutti i giorni. Run (che è anche il titolo di un video in rassegna) è una personale volutamente scarna, come il lavoro dell’artista, nonostante i sei filmati e una accurata scelta di opere pittoriche che riflettono in modo eccezionale la sua maniera disincantata e introspettiva di guardare le cose. La mostra si apre con un video del ’95 - Dancing Home - dove Toomik balla sul ponte di un battello seguendo una strana melodia: il rumore del motore della nave. «Questo lavoro è nato da un’idea che mi è venuta spontaneamente. Era un giorno d’autunno quando in traghetto passavo da Hiiumaa (una piccola isola in Estonia) alla terraferma. Ero molto triste, stavo in piedi nella nave guardando il mare e il cielo. Poi ho sentito il suono del motore della nave; sembrava un battito cardiaco. Cercai di compensare cominciando a ballare su quel suono... Il mio lavoro parte sempre da un pensiero ottimistico. Esso cerca di raggiungere un’unità con il mondo, con il sentimento interno e lo spirito». L’arte di Toomik è fortemente fisica, c’è sempre l’uomo, lui, l’artista al centro di ogni azione e diventa trascendente, impalpabile nel momento in cui si lega alla narrazione. È così nei film Father and Son (1998) e in Dancing with Dad (2003). In Father and Son Toomik pattina nudo sul Mar Baltico ghiacciato e in questo spazio monocromo, c’è solo la canzone cantata da un bambino che scandisce un tempo senza tempo. Dancing with Dad, invece, «è una danza simbolica con mio padre morto nel 1971 quando avevo nove anni. In realtà non ho mai avuto la possibilità di ballare insieme a lui. Quest’azione sulla sua tomba è stato un tentativo di trovare un contatto con lui attraverso la danza e di superare alcuni tabù interni», come chiarisce l’artista. Guardando i video in mostra, emerge chiaramente come l’intensità dei filmati di Jaan Toomik faccia tornare alla mente i lavori di un altro eccezionale artista dell’ex blocco sovietico, Jon Grigoresco, romeno, meraviglioso artefice e narratore di quelle storie nella Storia di cui l’autore quasi inconsapevolmente sembra avere ereditato la capacità di raccontare. Rai2 9.40 SABRINA VITA DA STREGA Telefilm TG2 INSIEME Attualità I FATTI VOSTRI Att. TG2 GIORNO Infor. TG2 COSTUME E SOCIETÀ - MEDICINA 33 Rubrica 14.00 SELTZ Rubrica 14.45 SENZA TRACCIA Tf 15.30 COLD CASE Telefilm 16.15 NUMB3RS Telefilm 17.00 LAS VEGAS Telefilm 17.45 TG2 FLASH L.I.S. METEO 2 - RAI TG SPORT - TG2 Infor. 18.45 SQUADRA SPECIALE COBRA 11 Telefilm 19.35 IL COMMISSARIO REX Telefilm 20.30 TG2 - 20.30 Infor. 10.00 11.00 13.00 13.30 21.10 Prima tv - Ultimi episodi settima stagione CRIMINAL MINDS Telefilm 22.40 COLD CASE Telefilm 23.25 TG2 Informazione Rai3 11.00 CODICE A BARRE Att. 11.30 BUONGIORNO ELISIR Attualità 12.00 TG3 - METEO 3 Infor. 12.25 TG3 FUORI TG Att. 12.45 LE STORIE Attualità 13.10 Prima tv JULIA Telefilm 14.00 TG REGIONE - METEO - TG3 - METEO 3 Infor. 14.50 TGR LEONARDO Rub. 15.05 TGR PIAZZA AFFARI Rubrica 15.10 LA CASA NELLA PRATERIA Telefilm 16.00 COSE DELL’ALTRO GEO Documentario 17.40 GEO & GEO Doc. 19.00 TG3 - TG REGIONE METEO Informazione 20.00 BLOB Varietà 20.15 COMICHE ALL’ITALIANA Documenti 20.35 UN POSTO AL SOLE Soap 21.05 BALLARÒ Att. 23.20 VOLO IN DIRETTA Varietà Il 1˚ dicembre, in occasione della giornata mondiale della lotta all’Aids, Cubovision, la tv on demand di Telecom Italia, presenta in esclusiva sul canale Reportage, due documentari di Cdi Camera. «Aids, cronaca di una rivoluzione», diretto da David France (vincitore al Sundance), parla dell’impegno contro la malattia della comunità Glbt di New York. È la storia della lotta senza quartiere che il gruppo di attivisti della comunità gay-lesbica di New York, riuniti sotto il movimento Act up, ha combattuto dalla fine degli anni ’80 per ottenere che l’Hiv divenisse una questione di interesse pubblico. Il secondo doc, italiano, è «Sesso Malato» di Renato Pugina (2011), indaga sui motivi della recrudescenza delle malattie sessualmente trasmissibili che autorevoli studi medici internazionali descrivono come raddoppiate in pochi anni. ARCHEOLOGIA L’Arianna dormiente torna agli Uffizi È tornata nella Galleria degli Uffizi dopo quasi 220 anni di «pellegrinaggio» - mancava dal 1794 -, l’Arianna addormentata, copia romana del III secolo a.C. di una scultura ellenistica. La statua si potrà ammirare, dal 17 dicembre, nel nuovo allestimento della sala 35 del museo, detta di Michelangelo per via della presenza del celebre Tondo Doni. DOCUMENTARI Franca Valeri, la pioniera Esce in dvd con La collana Feltrinelli Real Cinema «Franca la Prima», un omaggio alla pioniera dello spettacolo italiano firmato da Sabina Guzzanti. Il sottile ma tenace filo della satira teso tra due donne che gettano il proprio sguardo tagliente su un paese condannato a essere sempre se stesso. «Bisogna fare soltanto quel che si è capaci di fare» ha detto una volta Franca Valeri, che più di qualunque altra artista italiana del Novecento, ha saputo farci ridere dei nostri inguaribili difetti con ironica eleganza. Il dvd verrà presentato il 29, ore 18.30, al teatro Ambra di Roma (Piazza Giovanni da Trioria 15), alla presenza dell’attrice e dell’autrice. Rete4 8.40 HUNTER Telefilm 9.50 CARABINIERI 7 Tf 10.50 RICETTE DI FAMIGLIA Varietà 11.30 TG4 - METEO Infor. 12.00 UN DETECTIVE IN CORSIA Telefilm 12.55 LA SIGNORA IN GIALLO Telefilm 14.00 TG4 - METEO Infor. 14.45 LO SPORTELLO DI FORUM Real Tv 15.30 Prima tv HAMBURG DISTRETTO 21 Telefilm 16.35 I DANNATI E GLI EROI FILM con Jeffrey Hunter, Constance Towers 18.55 TG4 - METEO Infor. 19.35 TEMPESTA D’AMORE Soap 20.30 WALKER TEXAS RANGER Telefilm 21.10 Novità LO SPETTACOLO DELLA NATURA Documentario 23.55 BLU PROFONDO FILM con Thomas Jane Canale5 8.00 TG5 MATTINA Infor. 8.40 LA TELEFONATA DI BELPIETRO Rubrica 8.50 MATTINO CINQUE Att. TG5 - ORE 10 Informazione (all’interno) 11.00 FORUM Real Tv 13.00 TG5 - METEO 5 Infor. 13.40 BEAUTIFUL Soap 14.10 CENTOVETRINE Soap 14.45 UOMINI E DONNE Talk show 16.20 POMERIGGIO CINQUE Attualità TG5 MINUTI Informazione (all’interno) 18.50 AVANTI UN ALTRO 20.00 TG5 - METEO 5 Infor. 20.40 STRISCIA LA NOTIZIA Attualità 21.10 Prima tv Mediaset A NATALE MI SPOSO FILM con Massimo Boldi 23.30 DICK & JANE: OPERAZIONE FURTO FILM con Jim Carrey Antonello Catacchio TORINO I primi giorni di Festival passano agli archivi con un dato più che lusinghiero in termini di presenze. Rispetto alla passata edizione gli incassi sono aumentati del 12,6% (nonostante il primo giorno fossero operative solo tre sale contro le dieci dello scorso anno) e anche gli accrediti sono aumentati del 10%. Il tifo cinematografico del festival torinese non conosce antidoto. E le contraddizioni romane, con relativo slittamento delle date del festival torinese, potrebbero essersi rivelate un ulteriore motivo di questa rinnovata passione. Viene da Cuba, in concorso, un film per certi versi imprevedibile, Una noche, firmato Lucy Mulloy. La storia racconta di tre adolescenti. Raul vuole fuggire verso la Florida perché a Miami pensa di trovare un babbo sparito da tempo e una libertà mai conosciuta. Nel suo progetto coinvolge Elio, segretamente infatuato dell’amico. E nel gioco entra anche Lila, gemella di Elio che si sente trascurata dal fratello al quale è da sempre molto legata e complice. L’intreccio che ci porta a seguire i tre protagonisti per l’Avana è quasi pretestuoso, serve a giustificare uno sguardo quasi documentario e compassionevole su una realtà dove le cure mediche sono gratuite ma la vita ha un prezzo molto alto, e si campa di piccoli traffici, mercato nero, baratto, battutacce antigay e prostituzione diffusa. Insomma, si vive proprio male. Quando poi Raul si trasforma in ricercato per avere malmenato duramente un turista puttaniere non è più tempo di indugi. Tocca mettere in mare la zattera con pneumatici per tentare di attraversare quelle poche decine di miglia che separano dal sogno americano che per Raul consiste in una decapottabile rossa lanciata a tutta Italia1 8.45 E.R. Telefilm 10.30 MIAMI MEDICAL Tf 12.10 COTTO E MANGIATO Rubrica 12.25 STUDIO APERTO METEO - SPORT MEDIASET Infor. 13.40 FUTURAMA Cartoni 14.10 I SIMPSON Cartoni 14.35 WHAT’S MY DESTINY DRAGON BALL Cartoni 15.00 Prima tv Mediaset FRINGE Telefilm 16.00 Prima tv Mediaset SMALLVILLE Telefilm 16.50 Prima tv NATIONAL MUSEUM Telefilm 17.45 TRASFORMAT Gioco 18.30 STUDIO APERTO METEO Informazione 19.20 C.S.I. Telefilm 21.10 DEATH RACE FILM con Jason Statham, Joan Allen 23.30 XXX 2 - THE NEXT LEVEL FILM con Ice Cube La7 7.00 OMNIBUS Attualità TG LA7 Informazione (all’interno) 9.55 COFFEE BREAK Attualità 11.00 L’ARIA CHE TIRA Attualità 12.20 TI CI PORTO IO... IN CUCINA CON VISSANI Rubrica 12.30 I MENÙ DI BENEDETTA Rubrica (R) 13.30 TG LA7 Informazione 14.05 CRISTINA PARODI LIVE Rubrica 16.30 IL COMMISSARIO CORDIER Telefilm 18.20 I MENÙ DI BENEDETTA Rubrica 19.15 G’ DAY Varietà 20.00 TG LA7 Informazione 20.30 OTTO E MEZZO Att. 21.10 Prima tv La7 GREY’S ANATOMY Telefilm 23.55 OMNIBUS NOTTE Attualità velocità con una ragazza seduta accanto. Anche i sogni sono poca cosa. Come quella zattera con il motore che non vuole saperne di partire e allora tocca remare. Come se fosse facile. Come se non ci fossero anche pericoli che vanno ben oltre la guardia costiera. Lucy Mulloy, che in coda alla sua storia scrive che il fatto raccontato è ispirato a storia vera, non giudica e in fondo si limita a registrare le contraddizioni di un paese dove l’ombra lunga della guerra fredda ha oscurato il cielo e le anime. Una fuga verso l’ignoto perché si L’ignoto anche in «Anja - una nave» di Roland Seiko. Dalla Svezia, «Call girls» di Marcimain spera sia migliore del mondo in cui uno si ritrova a vivere. Questa è anche la storia di Anija – la nave di Roland Sejko. Che per spiegare il suo documentario parte da una barzelletta che circolava nell’Albania comunista con un personaggio che diceva che quando fossero stati aperti i confini sarebbe salito su un albero per non essere travolto dalla folla in fuga. E Roland dice di essersi trovato anche lui, all’improvviso, senza averci troppo pensato, tra quella folla che a partire dal marzo ‘91 ha usato qualsiasi mezzo per percorrere quelle poche decine di chilometri che separano l’Albania dalla mitica Italia. Già perché nel febbraio cadono rovinosamente le statue di Enver Hoxha e il regime che aveva costruito dopo la seconda guerra mondiale e che aveva progressivamente trasformato il paese in un enclave comunista chiusa al mondo esterno. La nave dolce, il fantastico documentario di Vicari, ha raccontato Rainews 18.30 TRANSATLANTICO Attualità 19.00 NEWS Notiziario 19.25 SERA SPORT Notiziario sportivo 19.30 IL CAFFÉ: IL PUNTO Attualità 20.00 IL PUNTO ALLE 20.00 Attualità METEO Previsioni del tempo (all’interno) 20.58 METEO Previsioni del tempo 21.00 NEWS LUNGHE Notiziario 21.26 METEO Previsioni del tempo 21.30 VISIONI DI FUTURO Attualità 21.56 METEO Previsioni del tempo 22.00 VISIONI DI FUTURO Attualità 22.26 METEO Previsioni del tempo della Vlora, partita in agosto con il suo carico di ventimila persone per arrivare a disvelare tutte le miserie di un paese ricco come l’Italia nei confronti di quei poveracci trattati come criminali. Sejko racconta anche della Vlora, ma parte prima spiegando l’Albania, i primi sbarchi salutati da un afflato di italica solidarietà forse anche anticomunista, e si spinge sino al 1997 quando il liberismo economico subentrato al dirigismo comunista ha messo sul lastrico un intero paese attraverso aziende finanziarie pirata, gettando il paese nel caos. Storie che intrecciano la vita della gente comune con le scelte dettate dalla politica. Che è poi quel che ricostruisce Mikael Marcimain con Call girl, trascinandoci nel 1976 in Svezia. Paese socialdemocratico, considerato avanzato sotto molti punti di vista. Era però il momento in cui alle elezioni si temeva che i socialdemocratici potessero essere soppiantati dai conservatori (cosa che effettivamente avvenne). Ma questo è solo lo sfondo perché la vicenda ruota attorno a una donna che gestisce un colossale giro di prostituzione rivolto a clienti importanti. Ministri, politici di ogni raggruppamento, alti funzionari e magistrati. Che non disdegnano momenti di sesso a pagamento anche con ragazzine di quattordici anni. Qualcuno indaga e vorrebbe scavare più a fondo, ma i potenti mettono a tacere tutto perché in certi casi, diamine, la politica non c’entra e i maiali sono rosa o grigi ma non si fanno la guerra a proposito delle loro porcherie. Meglio archiviare tutto con un timbro «riservato», compreso qualche cadavere dimenticato per strada ma ormai ridotto al silenzio. Non è consolante, ma scoprire che anche là, su al Nord, hanno fatto cosette del genere aiuta a capire come sia imbecille far politica con la geografia. PRIMA DELLA PRIMA Dietro le quinte del teatro Massimo, con due atti unici di Maurice Ravel Nella puntata di «Prima della Prima» la trasmissione di Rosaria Bronzetti, in onda all’1.35 su Rai3, si andrà dietro le quinte del Teatro Massimo di Palermo per il raffinato dittico di atti unici di Maurice Ravel, «L'heure espagnole» e «L’enfant et les sortilèges». L’allestimento è affidato per le scene e i costumi alla matita di un disegnatore Altan, autore di personaggi come la cagnolina rossa a pois bianchi Pimpa («Corriere dei piccoli»), il metalmeccanico Cipputi e numerosissime vignette satiriche per «la Repubblica» che per la prima volta è impegnato in un ampio progetto per il teatro lirico. La regia e la coreografia sono di Luciano Cannito. Sul podio Orchestra e Coro del Teatro Massimo, Yves Abel. Il cast, ricchissimo, comprende celebri e giovani interpreti che si avvicenderanno nei due atti unici, fra cui Andrea Concetti, Marina Comparato, Sonia Prina, Filippo Adami, Alessandro Luongo e Roberto Abbondanza. «L'heure espagnole» e «L'enfant et les sortilèges» presentano due storie contrastanti. La regia televisiva di questa puntata è di Christian Angeli. pagina 14 il manifesto MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012 ❚ terraterra Marinella Correggia La nuova Larzac contro l’aeroporto U na folla di almeno 30mila persone fra agricoltori, residenti, ecologisti e politici si è radunata, con 400 trattori, a Notre-Dame-des-Landes per difendere i 1.700 ettari di terre agricole che sarebbe ingoiati dal nuovo aeroporto di Nantes, costo 550 milioni di euro. Totale assenza delle forze dell’ordine. E dunque, tutto totalmente pacifico (http://www.airportwatch.org.uk/?page_ id=6149). Nei mesi precedenti ci sono stati invece vari scontri ed episodi di repressione degli attivisti. La nuova Larzac francese è forse questa Zone à défendre (Zad) dalle parti di Nantes, e ha la faccia dell’accampamento internazionale contro i piani di costruzione di un ennesimo aeroporto. Negli anni Settanta a Larzac, nel sud della Francia, agricoltori e pacifisti si saldarono in un movimento di massa contro l’espansione di una base militare. E vinsero: nel 1981 il presidente François Mitterrand cancellò il progetto. Nella regione di Nantes invece è in ballo un aeroporto. Da decenni. Il primo striscione «No all’aeroporto» fu issato da un gruppo di agricoltori 40 anni fa. Allora era in ballo la «base di lancio» del Concorde. Poi non se ne fece nulla. Nell’attualità, Jean-Marc Ayrault, primo ministro francese (socialista) ed ex sindaco di Nantes, è un sostenitore entusiasta del progetto di aeroporto nella sua graziosa città (i lavori dovrebbero partire nel 2013). L’ha addirittura spacciato per «aeroporto verde». Già, perché dovrebbe avere: i tetti erbosi; le due piste congegnate in modo da ridurre i movimenti di aerei al suolo - il cosiddetto taxiing - con le relative emissioni di CO2; e l’immancabile orticello biologico alla Michelle Obama per nutrire i dipendenti, pazienza per le particelle di particolato. In realtà nessun escamotage può rendere minimamente verde il settore dell’aviazione anche quella civile - che con le sue emissioni di gas serra in alta quota è pesantissimo per il clima e oltretutto, a differenza di altri comparti, è in continua e generalizzata crescita anche per il fenomeno dei low cost. L’aeroporto «verde e socialista» di Ayrault ha molti oppositori a livello nazionale, per esempio all’interno del partito Europe Ecologie Les Verts (Eelv) che potrebbe anche uscire dal governo, su questa e altre vertenze. E la resistenza in loco è forte. Criticatissima anche la multinazionale che si è vista assegnare dal governo il compito di coprire di cemento le terre nantesi: la Vinci, nota costruttrice di centrali nucleari, miniere di uranio in Africa, autostrade e infrastrutture dell’ipercapitalismo. La lotta va avanti da tempo. Un lungo reportage dipinge i «ribelli rurali, l’aeroporto inutile e la maggiore occupazione postcapitalistica d’Europa» (http:// labofii. wordpress. com/ 2012/11/13/ rural - rebels- and -useless -airports-la-zad-europes-largest-postcapitalistland-occupation/). Da mesi un gruppo di 150 attivisti, provenienti anche da Spagna e Germania, si è installato nell’area, in casali abbandonati, tende e casette di legno fra gli alberi. Non è solo protesta, la Zad è un laboratorio post-capitalista fin dal Campo per il clima che si svolse là nel 2009. I «contestatori rurali» hanno un orto vero, Le sabot, nato nella primavera del 2011quando un migliaia di persone armate di spade e semi coordinate dal movimento rurale Reclaim the Fields occuparono, per coltivarli, alcuni appezzamenti al centro della Zad. Le Sabotmescola resistenza e alternativa e il rifiuto di separare la critica dalla costruzione, il sì dal no. Il rally degli attivisti a Nantes casualmente quasi coincide con un’altra azione di «disturbo» dell’aviazione: le manifestazioni europee del 24 novembre per la fine dei voli notturni; la rete European Aviation Campaigners chiede ai cittadini danneggiati di esporre lenzuoli e striscioni sull’argomento. il manifesto DIR. RESPONSABILE norma rangeri VICEDIRETTORE angelo mastrandrea CAPOREDATTORI marco boccitto, matteo bartocci, massimo giannetti, giulia sbarigia, micaela bongi, giuliana poletto (ufficio grafico) il manifesto coop editrice a r.l. in LCA REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE, 00153 Roma via A. Bargoni 8 FAX 06 68719573, TEL. 06 687191 E-MAIL REDAZIONE [email protected] E-MAIL AMMINISTRAZIONE [email protected] SITO WEB: www.ilmanifesto.it TELEFONI INTERNI SEGRETERIA 576, 579 - ECONOMIA 580 AMMINISTRAZIONE 690 - ARCHIVIO 310 POLITICA 530 - MONDO 520 - CULTURE 540 TALPALIBRI 549 - VISIONI 550 - SOCIETÀ 590 LE MONDE DIPLOMATIQUE 545 - LETTERE 578 SEDE MILANO REDAZIONE: via ollearo, 5 20155 REDAZIONE: tutti 0245072104 Luca Fazio 024521071405 Giorgio Salvetti 0245072106 [email protected] AMMINISTRAZIONE-ABBONAMENTI: 02 45071452 iscritto al n.13812 del registro stampa del tribunale di roma autorizzazione a giornale murale registro tribunale di roma n.13812 ilmanifesto fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 07-08-1990 n.250 ABBONAMENTI POSTALI PER L’ITALIA annuo 260€ semestrale 135€ i versamenti c/c n.00708016 intestato a “il manifesto” via A. Bargoni 8, 00153 Roma copie arretrate 06/39745482 [email protected] STAMPA litosud Srl via Carlo Pesenti 130, Roma - litosud Srl via Aldo Moro 4, 20060 Pessano con Bornago (MI) CONCESSIONARIA ESCLUSIVA PUBBLICITÀ poster pubblicità srl SEDE LEGALE, DIR. GEN. 00153 Roma via A. Bargoni 8, tel. 06 68896911, fax 06 58179764 E-MAIL [email protected] TARIFFE DELLE INSERZIONI pubblicità commerciale: 368 € a modulo (mm44x20) pubblicità finanziaria/legale: 450€ a modulo finestra di prima pagina: formato mm 65 x 88, colore 4.550 €, b/n 3.780 € posizione di rigore più 15% pagina intera: mm 320 x 455 doppia pagina: mm 660 x 455 DIFFUSIONE, CONTABILITÀ. RIVENDITE, ABBONAMENTI: reds, rete europea distribuzione e servizi, viale Bastioni Michelangelo 5/a 00192 Roma tel. 06 39745482, fax 06 83906171 certificato n. 7362 del 14-12-2011 chiuso in redazione ore 21.30 tiratura prevista 51.796 CALABRIA Martedì 27 novembre FESTIVAL DEL FUMETTO Fino al 29 novembre «Le strade del paesaggio». Festival del fumetto e delle arti visive. Ad ispirare la rassegna sarà il tema de «Le Frontiere». Tra gli ospiti Gianluca Cestaro e Pasquale Ruju, rispettivamente disegnatore e autore di Tex, a cui sarà dedicata un'intera mostra con diverse opere originali dal titolo «Tex, la frontiera dell’avventura» a cura di Raffaele De Falco. Numerosi eventi in programma fra cui spicca Formic Wars, anteprima mondiale dei disegni originali della nuova serie firmata Marvel America, a cui è legato un interessante workshop a cura del suo illustratore Giancarlo Caracuzzo e Una Favola per Rino Gaetano mostra tratta dal libro «Sereno su gran parte del Paese» di Andrea Scoppetta. Tutti gli eventi, incontri, nel programma dettagliato al link www.lestradedelpaesaggio.com ■ Vari luoghi, Cosenza EMILIA ROMAGNA Martedì 4 dicembre INIZIATIVE Fiom Emilia Romagna e Bologna, «Inchiesta» e «Il Manifesto» Bologna organizzano la presentazione di due iniziative: «Dichiariamo illegale la povertà» e «Referendum per l'abolizione dell'articolo 8 e ripristino articolo 18». Nella mattina del 4 dicembre saranno presentate le due iniziative politiche. Per la Fiom sarà presente Maurizio Landini. Per «Dichiariamo illegale la povertà» sarà presente Riccardo Petrella. ■ Sala Di Vittorio della Camera del Lavoro, via Marconi 67, Bologna LAZIO Martedì 27 novembre, ore 17.30 LOTTO PER IL 18 Sbarca al cinema Palazzo a San Lorenzo insieme a Rino Fabiano (consigliere del III Municipio), Roberto Giordano (Lavoro Società Cgil Roma Lazio), Sandro Medici (Presidente X Municipio) e Angela Ronga (Lavoro Società Cgil Roma Est) «Lotto per il 18», per confrontarsi sui temi della città e del lavoro partendo dai diritti infranti dal governo Monti. Si raccoglieranno le firme per abrogare le modifiche apportate all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e abrogare l’articolo 8 della Finanziaria del 2011 del governo Berlusconi, per rimettere lavoro e diritti al centro dell’agenda politica. L’assemblea pubblica, farà sentire le diverse voci e i diversi punti di vista che si esprimono e vivono nella città eterna per riappropriarsi degli spazi di dibattito che, spiegano in una nota: «ci vengono negati e oscurati e per ricostruire un tessuto sociale che tenga insieme lavoro, diritti e territorio, partendo dalla raccolta delle firme per i referendum» ■ Nuovo Cinema Palazzo, piazza dei Sanniti, Roma LOMBARDIA Giovedì 29 novembre, ore 21 LA CRISI...PER TUTTI L'associazione culturale «Le Voci del Naviglio» organizza un incontro con Paolo Ferrero, per la presentazione del suo libro «Pigs - La crisi spiegata a tutti». ■ Centro Socio Sanitario, via Cavalieri di Vittorio Veneto, Gaggiano (Mi) MARCHE Sabato 1 dicembre, ore 11 LUCIO MAGRI Presentazione del libro «Alla ricerca di un altro comunismo». Un occasione per ricordare Lucio Magri e discutere delle prossime iniziative. ■ Biblioteca Comunale, corso Persiani Recanati (Mc) Tutte le segnalazioni a: [email protected], altri appuntamenti al link: http://www.ilmanifesto.it/eventi/ – Dopo il «cessate il fuoco» annunciato al Cairo dalla Clinton, un ventenne di Gaza, Anwar Qudaih, era andato a festeggiare nella «zona cuscinetto», la fascia larga 300 metri in territorio palestinese, dove un tempo la sua famiglia coltivava la terra. Ma quando si è avvicinato alla barriera di filo spinato, un soldato israeliano gli ha sparato in bocca. La prima vittima del «cessate il fuoco», che si aggiunge ai 170 uccisi, un terzo donne e bambini, e agli oltre mille feriti dai bombardamenti, che hanno provocato danni per 300 milioni di dollari. Perché il «cessate il fuoco» possa durare «devono cessare gli attacchi di razzi» contro Israele, sottolinea la Clinton, attribuendo ai palestinesi la responsabilità della crisi. Il piano di Washington era chiaro fin dall’inizio: permettere che Israele des- le lettere COMMUNITY INVIATE I VOSTRI COMMENTI SU: www.ilmanifesto.it [email protected] Caro Portelli, un compagno non può averlo fatto Stavo leggendo l’articolo di Alessandro Portelli del 23 novembre «La malattia identitaria» quando arrivo alla citazione della ballata del Pinelli dove Valpreda risponde a chi gli dice che l’autore della strage di Piazza Fontana è Pino Pinelli «un compagno non può averlo fatto». Voglio sperare che Portelli sia solo un giovane con un po’ di confusione, se non è così lo invito a citare un caso in cui i compagni si siano resi responsabili di stragi indiscriminate. forse Portelli si è fermato alle prime veline della questura e all’informazione di bruno vespa. Cordiali saluti Renzo Perfumo, Genova Caro Portelli, cosa facevano i compagni? Come molte compagne mi ostino a comprare il vostro/nostro quotidiano. Mi permetto quindi di chiedere una chiarificazione in relazione all’articolo di Alessandro Portelli del 23 novembre scorso «La malattia identitaria» Quando Portelli scrive «Impossibile un compagno non può averlo fatto» e aggiunge «E invece i compagni lo facevano eccome» mi e vi chiedo a cosa si riferisca e perché. Fforse non ho letto bene, ma vorrei chiedere, cosa secondo l’autore dell’articolo, hanno fatto i compagni. E mi piacerebbe anche capire come mai uno stralcio tratto da una ballata per un compagno ammazzato in una questura dello Stato italiano possa essere usato per commentare il vile attentato perpetrato ai danni di povera gente che beveva una birra a Campo dè Fiori a Roma. Chiedo ancora all’articolista: «Cosa i compagni facevano?» Isabella Tozza Caro Fabio Fazio Caro Fabio Fazio, non basta prevedere che le dichiarazioni di Monti avrebbero provocato un bel po’ di polemiche. Quando qualcuno mente spudoratamente, in modo plateale, come Monti ha fatto, non si può sorridere immaginando il putiferio che seguirà. Si controbatte, si chiede un chiarimento. Questo ci saremmo aspettati, almeno da Lei. Non le risulta che la proposta del ministro Profumo era di aumentare le ore di lavoro frontale dei docenti da 18 a 24? Non 2 ore come sostenuto da Monti. Fino a prova contraria i ministri dovrebbero conoscere le percentuali. 1) 6 ore in più rappresentano il 33% di 18 ore. 2) Di fatto, le ore in più richieste non erano 6, ma almeno il doppio perché ad ogni ora di lavoro frontale corrisponde un lavoro sommerso che è almeno pari se non maggiore. 3) Senza essere dei tecnici della scuola, è facile capire che se con un orario di 18 ore un docente ha, in media, 4 classi, con 24 ore ne avrebbe 6, il che rappresenta non un incremento del 33% ma del 50%. 4) Si continua impunemente a misurare il lavoro dei docenti in termini di presenza a scuola, come se si misurasse il lavoro degli avvocati solo con la loro presenza in tribunale oppure degli ingegneri soltanto con la loro presenza in cantiere, oppure il suo lavoro, caro Fabio Fazio, con la sua presenza in studio. 5) Chi può credere che un incremento di ore, classi e studenti, potrebbe migliorare la qualità della formazione? Non avendo il coraggio di risparmiare apertamente su una conquista fondamentale dello stato sociale si cerca di far passare come un miglioramento un evidente taglio delle risorse disponibili. Tant’è vero che il problema è stato risolto facendo tagli su altri capitoli di spesa della scuola statale (ma non di quella delle scuole paritarie). 6) Strumentale è stato Monti nel ridurre l’opposizione sociale che cresce nel mondo della scuola soltanto alla questione delle ore. 7) Monti, quello che straparla sempre di crescita, ha avuto anche il coraggio di presentare come conser- Caro Portelli, sono rimasto allibito Leggendo nell’articolo intitolato di Alessandro Portelli, le seguenti parole: «vi ricordate quando cantavamo "Impossibile, un compagno non può averlo fatto" e invece i compagni lo facevano eccome.» Vorrei informare il signor Portelli (che ha stranamente dimenticato che la canzone diceva «Impossibile, grida Pinelli, un compagno....» ecc.) che si tratta appunto di un verso della «Ballata del Pinelli» che immagina gli ultimi minuti di Pinelli prima del volo. Quello che un compagno non può avere fatto era appunto la strage di Piazza Fontana. Dicendo «e invece i compagni lo facevano eccome» Portelli sostiene di fatto (anche se probabilmente senza nemmeno rendersene conto, almeno lo spero) che erano i compagni a mettere le bombe in Piazza Fontana, e - perchè no? magari anche in Piazza della loggia, sull’Italicus, ecc. Come spiegare un’affermazione simile? I casi sono due, non mutuamente escludentisi. Il primo è la solita inguaribile superficialità dei giornalisti, che amano spesso fare affermazioni ad effetto senza preoccuparsi nè della fondatezza nè delle conseguenze delle loro affermazioni. La seconda è l’estremo ed inguaribile senso di colpa della sinistra di origine marxista, vatore il rifiuto dei docenti di incrementare l’orario di lavoro. Un incremento che produrrebbe un importante taglio di posti di lavoro (ai precari). Certo che c’è stata una indisponibilità dei docenti a questa stupidaggine economica. Non diciamo le percentuali, ma l’abc dell’economia? Ci aspettiamo diritto di replica. Cordiali saluti Angela Trovato (docente di Latino e Greco, Liceo Classico Statale Aristofane, Rm),Cristina Fantoni (Docente di scuola secondaria di primo grado), Edmondo Febbrari, Rossella Ghirlanda, Riccardo Poglio, Gemma Patscot, Marco Cipriani, Giovanna Chiesi,Luca Pischedda, Bruna Coppelli, Franca Ida Rossi, Paola Pietrandrea, Alessandro Santi (Docente Educazione fisica I.C. Rosmini, Rm), Irene Carducci, Andrea Sansò, Mariella Rossitto (docente scuola secondaria prima grado. Ist.Pirandelli, Patti), Eleonora Citracca (docente di lettere Liceo Machiavelli, Rm), Paola Mastrantonio (Liceo Scientifico Talete, Roma), Maria Grazia Palombi (Liceo Ginnasio Buratti, Vt),Fabrizia Piccolo (docente in pensione, Palestrina Rm), Stefania de Stefani, Lucrezia Tanzi, Clauda Urzì, Titti Laviola, Rossella Cerra, Carola Catenacci, Fabio Tassoni (docente di Matematica e Fisica Liceo Scientifico Talete, Rm), Federico Burani, Marco Micalizzi, Stefania Ferretti, Ida Nigro, Consolata Lapati, Francesca Frascaroli, Gabriella Assante, Marika Kassimatis, Aurora Marini e Guido De amrco (Docenti Itc L.Radice, Rm), Francesco Fantuzzi (Liceo Laura Bassi, Bo), Susanna Giansanti, Marcello Nobili (Liceo Primo Levi, Rm), Edmondo Febbrari, Paola Porcelli (Insegnante di scuola media,Rm), Flaviana Montesi, Mario Lentano, Mariacristina Colombo, Lara Muccioli, Rina Cittadini, Eulalia Grillo (Bo), Flavio Coppola, Norina Ciafarone, Tilde Centracchio, Grazia Arzillo, Annalisa Bigazzi, Mirella Berardocco, Laura Casella, Patrizia Sommi, Maria Rosaria Gonzales, Micaela Fattorini, Anna di Zio, Eleonora Serale (docente precaria IC Guido Milanesi, Rm), Lucia De Faveri (Liceo Giuseppe Bertoò. Mogliano Veneto, Tv), Paola Tommaseo (docente Liceo Vico Corsico, MI).... seguono tantissime altre firme. che la porta perfino ad autoaccusarsi delle peggiori malvagità, anche se commesse da altri. Entrambe le cose lasciano comunque l’amaro in bocca ad un lettore del manifesto, che lo legge proprio perché gli sembra un giornale immune da questi due difetti. In quanto ex militante anarchico mi onoro di essere stato amico di Valpreda e di aver frequentato Pinelli nell’ultimo anno della sua esistenza. Mi fa male dover difendere la loro memoria anche dal manifesto. Aligi Taschera, Milano L’autore risponde Cari compagni, grazie delle vostre lettera al giornale. Provo a dire due cose. Io ero fermamente convinto che l'idea di uccidere ripugnasse intrinsecamente a una coscienza di sinistra (non lo dico in nome di una non-violenza astratta: ho scritto un libro su Via Rasella che è piaciuto molto ai compagni partigiani). Poi sono arrivate le Brigate Rosse e dintorni. Avete certamente ragione nel dire che i compagni non facevano le stragi. Però le stragi fasciste e gli assassini mirati dei gruppi clandestini armati mi ponevano e mi pongono due ordini di problemi diversi. Le stragi fasciste erano fatte «contro» di me, e mi ponevano un problema di vigilanza, controinformazione e lotta antifascista di LL’ARTE DELLA GUERRA Grandi manovre attorno a Gaza Manlio Dinucci se «una lezione» ai palestinesi e si servisse dell’operazione bellica quale test per una guerra regionale, evitando però che l’operazione si allargasse e prolungasse. Ciò avrebbe interferito con la strategia Usa/Nato, che concentra le forze su due obiettivi: Siria e Iran. In tale quadro rientra la nuova partnership con l’Egitto, che secondo la Clinton sta riassumendo «il ruolo di pietra angolare di stabilità e pace regionale svolto per lungo tempo», quindi anche nei trent’anni del regime di Mubarak. Il presidente Morsi, lodato dalla Clinton per la sua «leaderhip ❚ «Che tempo che fa» tra gli insegnanti personale» nel conseguimento dell’accordo, ne ha tratto vantaggio per concentrare il potere nelle proprie mani. In compenso Washington gli chiede un più stretto controllo del confine con Gaza, così da rafforzare l’embargo. Ma lo scopo della partnership va ben oltre: essa mira a integrare l’Egitto, dipendente dagli aiuti militari Usa e dai prestiti del Fmi e delle monarchie del Golfo, nell’arco di alleanze costruito da Washington in funzione della sua strategia in Medioriente e Nordafrica. Significativo, in tale quadro, è il ruolo del Qatar: dopo una visita segreta in Israele (documentata però da un video), l’emiro Sheikh Hamad bin Khalifa Al-Thani è andato a Gaza a promettere aiuto e dopo ha incontrato il presidente Morsi al Cairo, consegnandogli 10 milioni di dollari per curare i palestinesi feriti dalle bombe israeliane. Si presenta così come sostenitore della causa palestinese e araba, mentre ciò che sostiene è in realtà la strategia Usa/Nato, come ha fatto inviando forze speciali e armi in Libia nel 2011 e oggi in Siria. Altra politica a due facce è quella del premier turco Erdogan che, mentre massa. Gli assassini mirati dei «compagni» erano perpetrati in mio nome, e mi ponevano la domanda: come è possibile che dal mio mondo scaturiscano azioni di questo genere? che cosa c'entro io con loro? Fra le stragi fasciste e gli assassini mirati brigatisti io riconossco una differenza quantitativa e tattica, non una differenza morale. Sul piano tattico, rispondevano a disegni politici diversi: i fascisti volevano seminare il terrore fra la gente per renderla disponibile a una svolta autoritaria; i brigatisti uccidevano figure riformatrici nella visionaria convinzione che questo avrebbe accelerato l'insurrezione popolare. Sul piano quantitativo, se sapere che i «compagni» hanno ammazzato meno gente dei fascisti è sufficiente a tranquillizzarci al punto che non li nominiamo nemmeno, credo che la fase dell'incredulità posttraumatica non sia ancora finita. Con il rispetto che si deve fra compagni, un saluto Sandro Portelli Per dare spazio a più voci possibile, chiediamo a lettrici e lettori di inviarci commenti e lettere che non superino le duemila battute, spazi compresi. Grazie – condanna Israele e annuncia una prossima visita di solidarietà a Gaza, collabora di fatto con Israele nell’accerchiare e disgregare la Siria e, chiedendo l’installazione di missili Patriot nella zona di confine, permette alla Nato di imporre una no-fly zone sulla Siria. Dello stesso tenore la politica del governo italiano che, mentre rafforza i legami militari con Israele permettendo ai suoi cacciabombardieri di esercitarsi in Sardegna, promette aiuti alle imprese palestinesi di artigianato. Così, mentre le navi da guerra israeliane, appoggiate da quelle Nato (italiane comprese), bloccano i ricchi giacimenti palestinesi di gas naturale nelle acque territoriali di Gaza, i palestinesi potranno vivere intagliando oggetti di legno. Come, negli Usa, gli abitanti delle «riserve indiane». il manifesto MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012 pagina 15 COMMUNITY Euro, da sogno a incubo L’ euro sta portando a fondo l’Unione Europea e con essa il sogno federalista dei suoi ispiratori e il progetto politico dei suoi fondatori. Come mezzo di pagamento, moneta in tasca o sui conti correnti di ciascuno di noi, l’euro è stata una grande novità positiva per centinaia di milioni di cittadini europei, a cui ha dato finalmente la percezione materiale di una abolizione dei confini nel continente; la possibilità di pagare i propri acquisti all’estero – anche al di fuori dei confini dell’eurozona, e in diversi continenti – senza dover fare complicati calcoli mentali per capire quanto gli stessero costando effettivamente; e, per noi italiani, anche la prova evidente che con i salari e le pensioni tra le più basse d’Europa molti prezzi – bar, ristoranti, alberghi, farmaci, teatri, ecc. – sono i più alti del continente. Ma come mezzo di accumulo di valore, che è la radice e la ragion d’essere della finanza, l’euro ha enormemente favorito il meccanismo di universale indebitamento – di famiglie, di imprese, di banche, di Stati - su cui da almeno due decenni (e in molti casi da molto più tempo) si regge l’intero sistema economico mondiale, mettendo nelle mani di un ristretto numero di «operatori» dell’alta finanza la vita e il lavoro di miliardi di esseri umani. Queste due funzioni della moneta sono difficilmente scindibili, anche se alcune ipotesi su come allentare la stretta dell’una sull’altra sono state fatte e andrebbero urgentemente riprese in considerazione. Ma negli scorsi decenni tutto quello che era possibile fare per renderle invece inestricabilmente connesse è stato fatto: a partire dall’azzeramento della separazione tra banche commerciali, che trattano soprattutto mezzi di scambio, e banche di investimento, il cui scopo è promuovere l’accumulazione del capitale; e dalla «libera circolazione dei capitali»: molto più libera di quella delle merci e soprattutto di quella delle persone, spesso costrette a salire su barconi fatiscenti o a traversare deserti nel cassone di un camion per spostarsi da un paese che non li vuole a uno che li vuole ancor meno, invece di viaggiare con semplici impulsi elettroni verso paesi sempre pronti ad accoglierli a braccia aperte. Le conseguenze di quelle due misure di «liberalizzazione» sono davanti agli occhi di tutti: una generale situazione di insolvenza che ha coinvolto e coinvolge famiglie, imprese, banche e Stati, e che viene rimpallata dagli uni agli altri nel vano tentativo di procrastinare una generale resa dei conti. Prendete il caso della Grecia, dove i debiti di banche e governo sono stati e continuano a venir scaricati sulla popolazione, nel tentativo – fallito - di farne uscire indenni prima le banche straniere – soprattutto tedesche e francesi – che li avevano finanziati; e poi la Bce (Banca centrale europea), e Sanità pubblica riposa in pace Sciopero contro i tagli del governo Andalusia (Spagna) Scioperano i lavoratori della sanità pubblica a Siviglia, davanti l’ospedale Virgen del Rojo. Lo sciopero arriva dopo settimane di proteste contro i tagli del governo regionale, che prevede la perdita di molti posti di lavoro e la privatizzazione del settore della sanità pubblica. (Foto Reuters) I veri europeisti sono coloro che sostengono che non si può procedere verso un’Europa dei popoli se non si ha innanzitutto il coraggio, e poi la forza, di imporre una revisione radicale di tutto l’assetto finanziario su cui si è retta finora la sua costruzione. Ma bisogna che le forze sociali che lo vogliono veramente si uniscano in un movimento comune Guido Viale il Fmi (Fondo monetario internazionale), che li hanno rifinanziati; e poi gli altri Stati dell’eurozona, che hanno finanziato o garantito i finanziamenti della Bce e quello dei nuovi marchingegni, come l’Efsf (il cosiddetto Fondo salvastati), con cui si sta cercato di rimandare la resa dei conti: con una catena di rimandi che, come ha rilevato Alessandro Penati su Repubblica del 24.11, non è che un gigantesco «schema Ponzi», ovvero una «catena di Sant’Antonio». A questo si è ridotta infatti la politica finanziaria della Bce. Ma è almeno due anni che qualsiasi persona di buon senso e molti commentatori di questo giornale ripetono che la situazione finanziaria della Grecia è insostenibile e che il suo fallimento (default) è già iscritto nei fatti. Viene da chiedersi come mai un inossidabile liberista come Penati se ne sia accorto, o ne dia riscontro, solo ora. Ma il peggio deve ancora venire e quello che Penati non dice è che cosa succederà, all’euro e a tutta l’Unione Europea, quando il default della Grecia dovrà essere sancito. Ma forse a quel momento non si arriverà mai, perché a ritrovarsi ridotti nella condizione della Grecia, e prima ancora del suo fallimento ufficiale, saranno altri Paesi dell’eurozona, e ben più «importanti»: per esempio la Spagna o l’Italia. Penati non spiega infatti è come sia possibile che l’economia italiana o spagnola – e molte altre – possano evitare di avvitarsi sempre più su se stesse, esattamente come la Grecia, quando, oltre al pareggio di bilancio, dovranno fare fronte anche al cappio del fiscal compact: cioè rastrellare con le tasse e l’assalto alla spesa sociale altri 50 (Italia) o 30-40 (Spagna) miliardi all’anno per ripagare la loro quota di debito, oltre al peso degli interesse, che per l’Italia ammonteranno ad oltre 100 miliardi all’anno; mentre già le banche di entrambi i paesi (ma presto anche quelle francesi e probabilmente anche tedesche) sono in affanno per fare fronte agli impegni di ricapitalizzazione imposti dall’accordo Basilea 3. Una ristrutturazione o un consolidamento dei debiti dei principali paesi europei appare sempre più inevitabile; ma nessuno ne vuol sentir parlare. Perché? La vulgata corrente è che c’è una road map in grado di portare il continente fuori dalle attuali secche: prima l’entrata in vigore del Fsef; poi l’unione bancaria con un sistema di vigilanza unificato; poi gli eurobond per mutualizzare i debiti sovrani, o addirittura i project-eurobond per rilanciare anche lo sviluppo; poi la trasformazione della Bce in prestatore di ultima istanza, per arrivare così all’unione politica, che legittimerà tutte queste operazioni, per ora affidate a organismi privi di legittimazione democratica. Intanto l’Unione europea non riesce nemmeno a trovare un accordo sul proprio bilancio. Tutti, chi più, chi meno, sono orientati a restringerlo, a ricondurlo a generale austerità del continente, lasciando possibilmente immutati i fondi destinati alle politiche clientelari (Pac, Fondo sociale, sussidi all’industria) e tagliando quelli destinati alle politiche più innovative. Il fatto è che nel corso degli ultimi anni tutte le maggioranze di governo, chi più e chi meno, hanno giocato sulla crisi dell’euro per fidelizzare il proprio elettorato aizzandolo contro i vincoli che dovrebbero tener unita l’Unione, e attribuendo ad altri la responsabilità di una crisi che comincia a mordere tutti, paesi «forti» compresi. Chi accusa giustamente i paesi più forti di aver beneficiato dell’euro per esportare a credito, per tener basso il proprio tasso di cambio – e ora anche quello di interesse – e per incamerare interessi da favola sul denaro prestato. E chi accusa i paesi più deboli di aver accumulato deficit di bilancio e delle partite correnti a sbafo, come se tutte queste cose dipendessero da comportamenti dei la- – DALLA PRIMA Alberto Asor Rosa UNA ALLEANZA NECESSARIA voratori e delle popolazioni dei vari paesi, e non dalle politiche commerciali e di bilancio adottate da banche, imprese e governi che hanno goduto e spesso si sono tenuti in pedi solo grazie all’ombrello protettivo della Bce e della Commissione. In testa a questa corsa a uno sciovinismo senza ritorno c’è il governo tedesco, ma i malumori ben lubrificati sia contro paesi sfruttatori che contro i paesi spendaccioni, di cui si nutrono i diversi nazionalismi e fa le spese l’Unione, allignano ormai ovunque. E’ possibile allora che in queste condizioni il progetto di un’unione politica dell’Europa possa sopravvivere e andare avanti, inanellando una dietro l’altra le misure tappabuchi di uno «schema Ponzi»? E senza metterne in discussione le fondamenta, cioè la scelta di far pagare la crisi ai lavoratori e a una popolazione sempre meno protetta dal welfare per tenere in piedi con interessi e rimborsi stratosferici una finanza che continua a speculare, e a guadagnare miliardi, sulle disgrazie altrui? No, non è possibile. Per questo i veri nemici dell’unificazione politica europea sono coloro, come Monti e tutti coloro che lo sostengono e lo osannano, che presentano e considerano senza alternative i diktat finanziari che provengono dal mondo dell’alta finanza e dalla sua intermediaria politica che è la Bce; diktat che, come mostra il caso della Grecia e dei vari memorandum a cui è stata sottoposta, portano allo sfacelo un’intera nazione mettendo in pericolo anche tutto il resto del continente. Mentre i veri europeisti sono coloro che sostengono che non si può procedere verso un’Europa dei popoli se non si ha innanzitutto il coraggio, e poi la forza, di imporre una revisione radicale di tutto l’assetto finanziario su cui si è retta finora la sua costruzione: una ristrutturazione o un consolidamento di lungo periodo dei cosiddetti debiti sovrani (che sovrani proprio non sono) in attesa di trovare un accordo sulla loro mutualizzazione, cioè condivisione; una rinegoziazione degli accordi – pareggio di bilancio, fiscal compact e Fsef, per cominciare – con cui si pretende di «rimettere in sesto» la finanza dei paesi europei a spese delle fasce sociali meno protette; una separazione netta tra banche commerciali e banche di investimento e una concentrazione dei debiti di queste ultime in una o tante bad-bank i cui costi mettere a carico dei grandi investitori; una seria limitazione della circolazione dei capitali: innanzitutto con l’introduzione una tassa consistente e generalizzata su tutte le transazioni finanziarie. A queste condizioni, forse, l’euro potrà sopravvivere; e l’Europa procede verso una unione politica veramente democratica. Ma bisogna che le forze sociali che lo vogliono veramente si uniscano attraverso in un movimento comune. Tutto il resto è, al massimo, buona sollecitazione o provocazione dall’esterno, anch’essa per quanto si può da coltivare e migliorare. Ma per fare politica, e governare, quella massa critica è indispensabile e ineliminabile punto di partenza (tornerò in conclusione su queste definizioni). In questa massiccia conquista democratica s’insinua come un cuneo l’ipoteca renziana. Ahimè, sì, l’onda lunga del grillismo - ossia parole, chiacchiere, allusioni, battute e battutacce, e spettacolo, al posto di idee, propositi e programmi, - intacca anche il massiccio schieramento del centro-sinistra e ne mette in forse scopi, obbiettivi ed esiti. Cioè, non siamo di fronte, come viene gabellata, a una variante possibile del centro-sinistra, ma ad un’«altra cosa», che potrebbe andare in qualsiasi direzione. Ci si può rammaricare che un così alto numero di italiani «progressisti» non se ne accorga. Ma, dopo vent’anni di berlusconismo, e dopo le innumerevoli cadute e gli intollerabili silenzi della sinistra, le cose stanno così: la crisi, in questo senso, è profonda, cioè prima culturale che politica. Invece di piangerci sopra, bisogna però provvedere a contenere l’onda dell’«antipolitica» di «sinistra» (?) e a tener ferma la barra sull’obiettivo prefisso. E’ evidente: c’è un solo modo per farlo. Per salvare il centro-sinistra, e per salvare con il centrosinistra l’Italia, non c’è che l’alleanza Bersani-Vendola. A malo bonum: la presenza del rischio renziano può contribuire a spostare a sinistra l’asse di tale alleanza. Tale alleanza non potrà essere di potere ma programmatica. Non penso a un accordo stilato a tavolino. Penso invece che il candidato alla leadership debba esternare le sue persuasioni in modo convincente e inequivocabile: quando si parla di equità e di giustizia sociale si dovrebbe uscire dal generico ed entrare di più nel merito. Qualche parola in più (e più specifica) meriterebbero le attività fondative: cultura, ricerca, scuola e Università. E l’ambiente, finora quasi totalmente assente dal dibattito. Se le cose fossero poste in questo modo, l’alleanza da elettorale potrebbe diventare strategica. Non ci si può dimenticare, infatti, che, mentre ci si batte per vincere le primarie, è alle porte il ritorno in forze del montismo, il quale è destinato ad approfittare di qualsiasi passo falso si compia nel campo progressista. Questa è la grande calamita che tira a se qualsiasi componente moderata (anche di destra moderata, e anche di sinistra moderata) si muova attualmente sullo scacchiere politico (e anche il renzismo, che che ne dica, va per forza di cose in questa direzione). Anche da questo punto di vista il discorso da parte del centro-sinistra dovrebbe farsi più chiaro. La riconquista del paese alla politica passa di qui, e cioè dalla scelta a favore di una prospettiva democratica seria sancita dal voto. Sempre più evidente risulta che questa è una partita decisiva, e decisiva per molti anni a venire. Perciò: il discorso sarebbe ancor meglio compiuto se tutto l’«arancionismo» o l’«albismo» che girano sotto traccia o a poco a poco si vanno rivelando entrassero in questa compagnia: anch’essi contribuirebbero a renderla più ricca e migliore e al tempo stesso a farla vincere, due fattori che, se si verificassero insieme, darebbero inizio con maggior chiarezza alla «ricostruzione». Al tempo stesso Vendola non dovrebbe essere troppo tentato dall’occasione che gli si presenta d’essere risolutivo ai fini del risultato della consultazione che si terrà il prossimo 2 dicembre. Sempre più mi appare chiaro che la ridefinizione di un’autentica, seria e vincente sinistra politica di massa in Italia non è punto di partenza ma un punto di arrivo: tra la situazione presente e quella futura c’è un percorso da compiere, non una montagna di parole da spendere. Il voto del prossimo 2 dicembre potrebbe rappresentarne la prima tappa. DIVINO – L’«appannamento» del Concilio Filippo Gentiloni Un gruppo di sacerdoti delle regioni venete, in occasione del Natale 2011, ha scritto un testo per esprimere esperienze, sofferenze e speranze riguardo alla chiesa cattolica, nel segno dell’ «appannamento» dello spirito del Concilio Vaticano II. Una storia di luci e di ombre. La chiesa - dicono - è insieme «anta e peccatrice», sempre da convertire, perché formata da persone con le loro fragilità, perché istituzione storica segnata da condizionamenti, parzialità, errori; nel corso della storia la chiesa diventa una istituzione fra le altre, con l’aggravante di pretendere il suggello divino. Il testo afferma : « Crediamo la chiesa profetica, coraggiosa nell’annuncio del vangelo, fedele e coerente nella testimonianza, con scelte chiare da tutti leggibili». E prosegue: «Crediamo la chiesa che si apre all’incontro, al dialogo, con donne e uomini anche di altre fedi religiose, con tutte le donne e gli uomini di buona volontà. Ricordiamo che la regola d’oro - fai agli altri ciò che vuoi che gli altri facciano a te - è ugualmente presente in tutte le più grandi tradizioni religiose dell’umanità. Crediamo la chiesa che vive la liturgia con intensità e semplicità, in modo responsabile, partecipato e diretto, celebrando l’incontro fra noi e Dio, fra storia e trascendenza, fra concretezza e mistero, fra il già e il non ancora. Emergono spesso dal nostro profondo le parole di Bonhoeffer, grande teologo martire del nazismo : "Viene un tempo nel quale ci restano due scelte: pregare e operare per la giustizia". Da qui ripartiamo e qui ritorniamo». Il testo intero, presentato da don Pierluigi di Piazza (Udine), è pubblicato sulla rivista fiorentina «Testimonianze», fondata da Ernesto Balducci. pagina 16 il manifesto MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012 L’ULTIMA storie Roberto Ciccarelli «M a è possibile che uno con un contratto da senatore a tempo indeterminato debba dare lezioni di flessibilità al Paese?» ha postato un docente ieri su facebook. Dopo le affermazioni del Presidente del Consiglio Mario Monti a «Che tempo che fa» sul corporativismo dei docenti che hanno «rifiutato di lavorare due ore in più», in rete qualcuno ha voluto fare i conti in tasca all'ex rettore della Bocconi che ha rinunciato, com’è noto, al compenso da premier e da ministro dell’Economia, fino a quando ha ricoperto la carica. Nel 2010, Monti ha dichiarato 1.525.744 euro, dei quali quasi la metà versati al fisco. Ai più questo dettaglio sembrerà superfluo rispetto alla dura polemica che è scoppiata ieri. Ma una parte del dibattito è stato dominato da questo particolare che non è sfuggito a chi per mesi è stato additato come «fannullone» solo perchè si è opposto ad una norma inserita inizialmente nella legge di stabilità che avrebbe aumentato di sei ore l’orario lavorativo dei docenti a parità di salario. Se non fosse stata ritirata dal governo, sommerso dalla reazione veemente degli insegnanti e dei sindacati, queste persone assunte a tempo indeterminato avrebbero continuato a guadagnare 1270 euro di stipendio mensile base lavorando, in media, fino a 50 ore alla settimana, tra lezioni frontali in classe e preparazione a casa. Forse ciò che ha più indignato i docenti che hanno sommerso le redazioni e i siti di lettere di protesta è proprio la macroscopica differenza tra il reddito di chi li ha giudicati «corporativi» e quello di chi si è rifiutato di lavorare di più e gratis. In un documento firmato da centinaia di docenti indirizzato a Fabio Fazio (pubblicato a pagina 14) sono state esplicitate le «falsità» sostenute domenica scorsa dal presidente del Consiglio: l'aumento delle ore di lavoro frontale in classe era di sei ore, e non di due, cioè il 33% in più. Il che avrebbe aumentato l'attività non retribuita di un docente fino al 50% a settimana. Questa misura iniqua avrebbe inoltre comportato il taglio degli spezzoni delle supplenze affidate ai docenti precari. Alcune stime hanno calcolato un taglio tra le 6400 e le 24 mila unità, anche se sono stati fatti calcoli più catastrofici. La norma difesa da Monti in nome di una «modernità», se approvata, avrebbe comportato l’espulsione di questi precari da un lavoro che, in molti casi, svolgono da molti anni. Un rischio che ha fatto imbufalire anche i sindacati che, a differenza della Cgil, hanno accettato l'accordo con il governo sugli scatti di anzianità (dalla Cisl alla Gilda) e ieri hanno respinto l'accusa di «corporativismo». A questo punto avanza un sospetto. Perchè questa uscita di Monti a freddo per difendere una posizione che il governo ha dovuto abbandonare, con la coda tra le gambe? Per il segretario della Flc-Cgil Domenico Pantaleo, quella di Monti potrebbe essere interpretata anche come l'avvio di una nuova offensiva del governo sulla scuola. «I veri conservatori sono Monti e Profumo che non hanno alcun progetto di innovazione della scuola e continuano sulla linea del governo precedente – afferma – L'aumento dell'orario violava il contratto nazionale. Monti confonde l'orario di funzionamento delle scuole con quello delle lezioni frontali». Per Francesco Scrima, Cisl scuola, il «corporativismo» è un «luogo comune» da abbandonare. «Finché c'è il presupposto, falso, che i nostri docenti lavorino poco e male, quando invece sono quelli che hanno i salari più bassi d'Europa – dice – è naturale che prevalgano atteg- FABIO FAZIO Le dieci domande che avrebbero inchiodato il premier Mario Monti a «Che tempo che fa» DOCENTI CON I CASCHI E GLI SCUDI DEL «BOOKBLOC» IN PRIMA FILA AL CORTEO DI VENERDÌ A CINECITTÀ/FOTO SIMONA GRANATI Scuola VERITÀ IN GIOCO Docenti, sindacati e studenti replicano con veemenza all’accusa di «corporativismo» rivolte da Monti e da Napolitano. Quelle del governo sono «falsità». La sua è un’idea di «modernità» senza diritti giamenti di conservazioni. Monti cambi approccio. Queste battute aggiungono altra rabbia a chi chiede considerazione per il proprio lavoro». La Uil-Scuola invita il governo al contrasto dei «veri corporativismi», vale a dire «il numero delle auto blu, la retribuzioni dell'alta burocrazia». Gli studenti dell’Udu centrano un’altra questione: il tentativo del governo di opporre lavoratori stabili e precari, ricercatori e studenti: «Dividere le categorie deboli per comandare - evidenzia il portavoce Daniele Lanni - ma è una trappola in cui non cade più nessuno». Tra giusta indignazione, buone ragioni e una qualche vena di populismo anti-casta, le polemiche sono continuate fino a quando è intervenuto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, appoggiando in maniera enigmatica, ma significativa, l’intemerata di Monti. «Bisogna predisporsi a tutti i cambiamenti strutturali, istituzionali, comportamentali - ha detto Napolitano - necessari per garantire il più razionale, trasparente e sobrio uso delle risorse finanziarie pubbliche. Non si può restare prigionieri di conservatorismi e corporativismi, come ha sottolineato il presidente Monti». Parole che confermano l’oggetto dello scontro in atto sulla scuola. Il «corporativismo» che il governo rinfaccia agli insegnanti sottintende l’idea di aumentare la «produttività» senza salario, nè diritti. Per tutti. STUDENTI In piazza il 6 dicembre La notizia era stata anticipata sabato 24 novembre, il giorno delle manifestazioni a Roma e in altre 20 città, sul portale StudAut, uno degli snodi comunicativi più frequentati dagli studenti medi in mobilitazione contro il pdl «ex Aprea». Ieri è arrivata la conferma da parte della maggior parte delle sigle studentesche. Giovedì 6 dicembre, lo stesso giorno dello sciopero generale della Fiom, gli studenti medi e universitari torneranno in piazza contro le politiche di austerità del governo Monti in tutto il paese. «In un’Italia che fino a poche settimane fa sembrava totalmente pacificata e rassegnata ai sacrifici - scrivono gli studenti della Rete della Conoscenza - il movimento studentesco è stata la vera novità. Vogliamo dimostrare come i sacrifici che ci vengono chiesti non siano l'unica soluzione possibile». Lo aveva profetizzato Fabio Fazio. «Le sue dichiarazioni - ha detto domenica sera al termine dell’intervista al presidente del Consiglio Mario Monti a «Che tempo che fa» - susciteranno un putiferio». Cosa regolarmente avvenuta, basta leggere le centinaia di commenti postati sul sito della trasmissione in onda su Rai Tre, come sulla sua pagina Facebook. La maggior parte se la prende con il conduttore televisivo che non è stato in grado di fare domande capaci di smontare le affermazioni «di qualcuno che mente spudoratamente». Anche in questo caso, non è però mancata l’ironia. Parliamo delle «dieci domande di Fazio che hanno inchiodato Monti» pubblicate sul sito amlo.it. Lo stile è quello di Giuseppe D’Avanzo con le domande a Silvio Berlusconi in occasione dello scandalo Noemi. Esilarante è la successione di appellativi che definiscono il Presidente del Consiglio. Si parte da un sobrio «Signor Presidente», si passa al «Professore» e all’«Egregio Dottore», per poi salire in un climax irresistibile. Monti viene chiamato, nell’ordine: «Santità», «Oscuro Signore Di Mordor», «Venerabile Jedi», «Immenso Jabba The Hut», «Imponente Lord Darth Vader». La sequenza vuole segnalare - per via umoristica l’eccessiva deferenza dell’intervistatore rispetto all’intervistato. Ma passiamo ai contenuti. Quelli che riguardano l’attualità, ad esempio: «il mercato immobiliare sta crollando, il commercio è distrutto, state licenziando tutti quelli con contratto a termine, il paese è allo stremo, e dunque una domanda sorge spontanea: pure a lei la pizza la sera le se ripropone?». Oppure: «Lei ha appena detto che gli insegnanti, settari e corporativi, si sono rifiutati di lavorare quelle che lei dice essere due ore in più quando invece sono sei. Pensa sinceramente che la Juve vincerà il secondo scudetto consecutivo?». Lo stile delle domande, forse, non rispecchia una perfetta deontologia giornalistica, ma colgono l’aria del tempo, con l’ispirazione di spinoza.it che spopola in rete. «Signor Presidente - eccone un’altra - lei è venuto in trasmissione a presentare un libro come un Piperno qualunque: una cosa che, a dispetto del suo stile british, molti considerano un indegno marchettone. Lei capirà dunque perché non posso esimermi dal domandarle: bellissima quella cravatta, dove l’ha comprata?». Ro. Ci.