Rossanda: «Nessun dialogo» La fondatrice se ne va

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Rossanda: «Nessun dialogo» La fondatrice se ne va
CON LE MONDE DIPLOMATIQUE + EURO 1,50
SPED. IN ABB. POST. - 45% ART.2 COMMA 20/
BL 662/96 - ROMA ISSN 0025-2158
ANNO XLII . N. 283 . MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012
IL TEMPO
NON È SCADUTO
Norma Rangeri
C
are compagne e cari compagni, care lettrici e cari
lettori,
molti di voi già sanno della decisione presa da Rossana Rossanda. La decisione – di non scrivere più su queste pagine – ci
colpisce e ci addolora. Per mille
e una ragione. Perciò speriamo
in un ripensamento, perché sappiamo che il suo contributo intellettuale è importante per noi,
per la sinistra italiana, per il paese. Il tempo del confronto non è
scaduto. Se abbiamo discusso
poco sul domani del giornale,
sul prodotto che facciamo, discutiamone ancora, impegniamoci
ancora di più, nei prossimi giorni e settimane che restano.
La sua scelta piomba come
un macigno sul presente di questa piccola-grande impresa collettiva, proprio in uno dei momenti più difficili della sua travagliata storia. E viene dopo mesi
di discussioni, spesso laceranti,
ampiamente raccontate. Chi ci
segue e/o ci sostiene, ha potuto
leggere interventi e opinioni
molto diversi sul ruolo del giornale, sul presente e sul futuro
del manifesto. Tutti hanno potuto esprimersi in totale libertà,
senza censure, senza limiti di
spazio, senza limiti di tempo.
La direzione e la redazione –
che solo qualche sciocco può
definire «manipolo» – hanno
mantenuto aperto il dialogo e il
confronto dentro e fuori il manifesto, con decine di assemblee
interne e anche con assemblee
esterne. E al tempo stesso si sono fatte carico di pensare, scrivere, fare uscire queste pagine
ogni giorno, nonostante le difficoltà, le avversità, l'amministrazione controllata.
Perciò non condividiamo la
critica sull'indisponibilità al dialogo: è ingenerosa e ingiusta. La
verità è un'altra, naturale come
la vita: esistono idee diverse su
cosa deve essere il manifesto.
Noi ne abbiamo preso atto. Nella convinzione che le differenze
potessero convivere, come è
sempre stato, compresi gli ultimi tre anni di direzione. Ora che
si sta per decidere il futuro del
giornale, chi dovrà gestirlo, chi
dovrà guidarlo, in una parola come dovrà essere il nuovo manifesto, ecco che le diversità di "linea" si trasformano in rottura
delle relazioni, anche umane, in
separazioni traumatiche.
Essendo queste vicende autodistruttive una costante della nostra storia, qualcuno dirà che interessano poco.
A noi invece interessano molto. E siamo convinti che interessano le lettrici, i lettori, i circoli,
la redazione, i collaboratori vecchi e nuovi. Perciò non molliamo, non ci arrendiamo. Il dibattito, la libertà delle idee e la diversità di opinione, sono un patrimonio nostro, nel quale continuiamo a credere.
Lo ripeto: il tempo del confronto non è scaduto.
Ci rendiamo conto però che
se le rotture non verranno ricomposte (non dipende solo da noi)
peseranno molto sulle sorti del
giornale e su chi da anni, da decenni, lavora al manifesto. Comunque ogni lettrice, ogni lettore che ci ha seguito in questa ultima fase, ha la possibilità di dire
ciò che pensa di questa situazione. Perché il giornale e il sito
continuano a uscire. Fino alla
scadenza prevista dall'amministrazione controllata. Poi sarà
un'altra storia.
EURO 1,50
Siamo qui
La notizia siamo noi. Tra dolorosi abbandoni e polemiche ritirate, tuttavia
qualcosa di buono c’è ancora: la volontà di ricominciare insieme. E di cambiare.
Noi con voi. Impresa naturalmente difficile, ma non impossibile PAGINE 2, 3
MANIFESTO
FUTURO
Rossanda: «Nessun dialogo»
La fondatrice se ne va
La nuova
cooperativa,
una luce in fondo
al tunnel
P
reso atto della indisponibilità al
dialogo della direzione e della redazione del manifesto, non solo
con me ma con molti redattori che se ne
sono doluti pubblicamente e con i circoli
del manifesto che ne hanno sempre sostenuto il finanziamento, ho smesso di
collaborare al giornale cui nel 1969 abbiamo dato vita. A partire da oggi (ieri per il
giornale), un mio commento settimanale sarà pubblicato, generalmente il venerdì, in collaborazione con Sbilanciamoci
e sul suo sito www.sbilanciamoci.info.
Rossana Rossanda
SENZA FINE
Il valzer degli addii
e il quotidiano
sogno di una
sinistra diversa
MATTEO BARTOCCI |PAGINA 2
COMMENTO
Dopo tre giorni di votazioni, il collettivo del manifesto ha scelto il
gruppo di lavoro per la costituzione di una nuova cooperativa. Dovrà definirne lo statuto e stilarne
una carta di intenti. Allo stesso
tempo individuerà la pianta organica. È questo il punto più doloroso.
Una parte degli attuali soci dipendenti, infatti, non farà parte del
nuovo «manifesto». È l’alto prezzo
da pagare per la continuazione di
una esperienza sempre dalla parte
del torto
|PAGINA 3
TARANTO l VELENI
Un’alleanza
per ricominciare
Alberto Asor Rosa
I
nsomma, qualche conferma al nostro discorso dalle primarie del centro-sinistra
è venuta.
La prima, la più importante, è sotto gli occhi di tutti. Più di tre milioni di persone, in
una situazione critica di estrema gravità, in
controtendenza rispetto ai parametri più negativi della nostra condizione (astensionismo, sfiducia, antipolitica), sono andate a votare. Questa è la massa critica su cui agire
per iniziare un nuovo percorso. Nessuno
può dire che essa stia lì pronta a farsi guidare
verso «le magnifiche sorti e progressive» cui i
più illuminati aspirano. Ma almeno ce ne offre le condizioni.
CONTINUA |PAGINA 15
PRIMARIE/VERSO IL BALLOTTAGGIO
Riva annuncia: «L’Ilva chiude». Cinquemila operai a rischio
L’INCHIESTA - La decisione del gruppo, dopo le nuove ordinanze di arresto nei confronti del patron dell’azienda e di altri dirigenti. Nelle carte spunta
anche il nome di Vendola. I sindacati Fim, Fiom e Uilm tarantini proclamano per oggi lo sciopero dei lavoratori dello stabilimento (FOTO ANDREA SABBADINI)
Nichi a Bersani: ti voto
se c’è profumo di sinistra
«Mi impegno a non far vincere Renzi», ma se
Bersani al ballottaggio vuole i voti di Nichi Vendola «dovrà far sentire il profumo della sinistra: tagli agli F35 e impegni contro i trattati europei». Intanto De Magistris agita gli arancioni: «Liste autonome, ma impegnate a far vincere il centrosinistra»
PREZIOSI |PAGINA 4
SCUOLA
«Corporativi a chi?»
La scuola si ribella
Dopo le accuse di corporativismo rivolte dal
Monti e Napolitano sindacati, insegnanti e studenti si ribellano: «I veri conservatori sono il
presidente del consiglio e il ministro Profumo,
che non hanno nessun progetto di innovazione».
CICCARELLI |A PAGINA 16
SIRIA | PAGINA 7
Gli insorti: cluster bomb
uccidono 10 bambini
EGITTO| PAGINA 7
Morsi contro tutti.
Oggi due cortei al Cairo
REPORTAGE INDIA/BANGLADESH
FOTOGRAFIA
Le stragi annunciate
del tessile asiatico
Lo scatto al femminile
della saudita Manal
MARINA FORTI l PAGINE 8, 9
MANUELA DE LEONARDIS l PAGINA 12
pagina 2
il manifesto
MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012
SIAMO QUI
Fine •
il manifesto è nato il 28 aprile 1971 ed è morto il 3 febbraio 2012. La liquidazione
non è un pranzo di gala, ma il fuoco amico è una pagina troppo brutta per essere vera
Matteo Bartocci
P
er la cronaca, il manifesto è nato il 28
aprile 1971 ed è morto il 3 febbraio
2012, quando è iniziata la liquidazione coatta amministrativa. Chi ci sostiene e
ci legge sa dei nostri sforzi titanici per tenerlo aperto, della sottoscrizione disperata dello scorso inverno, dei tagli che abbiamo fatto e faremo ancora alla nostra carne viva. A
noi stessi. Tutte e tutti.
È la miopia di chi osserva soltanto gli ultimi fotogrammi di una storia a far dimenticare i tanti, i troppi, che non se la sono più
sentita di continuare in queste condizioni
politiche, editoriali e umane impossibili. Fare nomi è sgarbato. Ma per noi non sono nomi. Rossanda, D’Eramo, Halevi, Vauro, sono solo gli ultimi (ultimi non certo per importanza) ad aver lasciato il giornale. Molti
altri se ne sono andati senza dirvelo, con un
pudore e un lutto che non sempre si scioglie in torti o ragioni. Sono nostre compagne e compagni. Siamo da quarant’anni
«dalla parte del torto». Siamo tutte e tutti
del manifesto, ciascuno con una sua storia,
piccola o grande che sia.
I comunisti che litigano e si scindono
in frammenti impalpabili è una soap che
appassiona politica e stampa da decenni.
Se lottiamo per salvare un giornale fallito,
allora va bene una breve di rito in cronaca. Se ci pigliamo a pesci in faccia allora
vai con le tifoserie a tutta pagina e miopi
su categorie tutte inadeguate a racchiudere la vera dimensione del manifesto: vecchi/giovani, carta/Web, comunisti/non
comunisti, notizie/analisi, formare/informare, politica/giornalismo. Più che un
«manipolo», come ci definisce in una lettera indirizzata ad altri il caro Joseph Hale-
Il sogno quotidiano d
vi, il problema sono i «manipolatori».
Ieri mattina abbiamo fatto l’ennesima
lunga assemblea sul nostro futuro. Sugli addii e i limiti - gli errori, anche - di queste ultime settimane. C’è stato un voto importante, durato ben tre giorni, di cui vi diamo conto nella pagina a fianco. Ci sono persone
che faticano, dietro le pagine che ogni giorno mandiamo in edicola. Lavorando gratis,
anche in cig, come nell’ultima domenica
delle primarie. C’è una scommessa sul manifesto e su chi lo legge, dietro l’ostinazione
con cui lo pensiamo ogni giorno.
Gli addii clamorosi non sono una caratteristica esclusiva del collettivo che stampa
queste pagine per gentile concessione del
ministero dello Sviluppo economico. Per
dirne uno soltanto, Aldo Natoli fondò questo giornale e se ne andò dopo pochi anni.
Editorialisti fondamentali non scrivono più.
Di «penne gentili» forse ne abbiamo e ne
avevamo diverse, a cominciare da quella di
Marco. Gli stessi fondatori e direttori si sono allontanati più volte - molti anche definitivamente - per dissidi profondi e incomponibili con una redazione molto politica e
tanto «ingovernabile» da essere definita, da
subito, «corsara».
Ma il fuoco amico no. Questo è un inedito di cui volentieri avremmo fatto a meno.
Da febbraio a oggi, in molti abbiamo credu-
to sinceramente di essere immuni dal virus
mortale di tanta sinistra. Che contro tutti i
pronostici e grazie a tutte e tutti ce l’avremmo fatta anche stavolta a salvare il manifesto dall’abisso in cui è precipitato dopo quarant’anni di storia e di debiti insolvibili. Gettare il peso violento di questo fallimento solo sulle spalle di chi lavora oggi - e vota con
tanto di firma per il suo licenziamento, come leggete a fianco - è una pagina troppo
brutta per essere scritta davvero.
Perché più che il dolorosissimo (per voi
e soprattutto per noi) «valzer degli addii»
dal manifesto, in questi mesi ci è piaciuto
incontrarvi in decine di assemblee, immaginare copertine irriverenti, raccogliere reportage inediti e articoli scomodi. Non siamo perfetti, tutt’altro. Non andiamo sempre d’accordo, tutt’altro. Ma restiamo onesti (umani) anche se la liquidazione non è
un pranzo di gala.
La soap
dei comunisti
che litigano è un
classico. Ma non
è questo il caso.
In una redazione
«corsara» gli
addii clamorosi
avvengono
fin dalle origini
Chi ci segue da tempo sa che il manifesto
non dipende da chi lo fa ma da chi lo legge
e lo usa per sé moltiplicandone il valore. Dipende da chi si infuria per una copertina,
un editoriale o una trovata fuori posto.
Se questa storia sopravvivrà «senza fine»,
come dicevamo a febbraio, dipende da voi.
Dal riconoscimento che il manifesto può
non essere sufficiente ma è (ancora) necessario. Una rottura quotidiana del possibile.
L’incontro tra diversi. Comunisti e non. Giovani e vecchi. Intellettuali e edili (questa è
difficile per i non addetti). Star mondiali e
semplici manovali dell’editoria.
Un «manipolo», semmai, di sognatori. In
cui anche oggi, mentre scriviamo queste righe nere, titoliamo e impaginiamo articoli e
articolesse delle stesse persone che altrove
ci chiedono di vergognarci per quello che
abbiamo fatto.
Nessuna vergogna invece. Noi siamo qui.
FOTO E ELABORAZIONE GRAFICA DI ATTILIO CRISTINI
D’ERAMO · Cronistoria di una dimissione
Il caso che non c’è
agita redazione e lettori
ROMA
M
a esiste davvero un «caso
Marco D'Eramo»? Per capire il reale spessore di una
polemica che ci impegna ormai da
settimane, bisogna risalire all'8 novembre scorso quando Marco ci invia una mail a dir poco infuriata che
riportiamo qui accanto.
Cosa era successo? Una cosa che
avviene normalmente in qualsiasi redazione. Era stato chiesto a Marco un
commento sulla vittoria di Obama alle presidenziali Usa e Norma Rangeri
nel passare l'articolo ha ritenuto giusto tagliare un «Uff!» iniziale per evitare un fraintendimento: «uff» non come espressione di sollievo, ma di indifferenza. Ecco la causa scatenante,
quella parolina di tre lettere seguite
da un punto esclamativo senza le
quali naturalmente il contenuto dell'articolo non cambia. Eppure per
Marco è stata la goccia che ha fatto
traboccare il vaso. Senza quell'«Uff!»,
spiega, «cambia tutto il tono dell'articolo (se non ve ne accorgete dovete
urgentemente andare a scuola di
scrittura)». Da qui l'annuncio di dimissioni «con effetto immediato».
Dire che il tono, ma soprattutto il
contenuto della mail lascia stupiti
quanti la leggono è dir poco. Al punto
che alcuni tra noi decidono di chiamare Marco per ascoltare le sue ragioni, ma soprattutto per chiedergli di fare marcia indietro sulle dimissioni.
Spiegandogli, tra l'altro, che pubblicare una mail come quella che aveva
spedito sarebbe stato imbarazzante
per tutti, anche per lui. Tra i primi a
scrivergli c'è la direttrice Norma Rangeri, ma mail e telefonate si susseguono. Tutto inutile, al punto che quattro giorni dopo, il 12 novembre, arriva una seconda mail: «Uff compagne/i, forse non mi sono spiegato»,
scrive Marco: «Le mie dimissioni sono irrevocabili. E non per un uff, ma
per tutto quello che lo ha preceduto e
lo ha accompagnato: il vaso era già
cominciato a straboccare. Per dirla
con chiarezza, la mia capacità di sopportazione era esaurita».
Questa volta Marco entra un po'
più nei particolari, spiega che all’origine delle dimissioni ci sarebbero altre ragioni. E comincia un altro giro
di telefonate in cui Marco torna indietro nel tempo, parla delle incomprensioni avute nel corso degli anni trascorsi al manifesto, lavorando come
inviato in giro per l'America ma non
solo, ricoprendo ruoli di responsabilità all'interno del giornale. Anni in cui
incomprensioni ci saranno sicuramente state ma che - gli viene fatto
notare - è inutile rivangare in un momento in cui quasi tutti stanno cercando di tenere in vita il giornale. Un
momento in cui anche il suo contributo è prezioso. Come del resto è
sempre stato. Per citare solo l’ultimo
anno: sono stati 76 gli articoli scritti
da Marco, la maggior parte dei quali
commenti in prima pagina. Se c’è
una colpa imputabile al collettivo è
allora di non aver potuto inviare, come in passato, Marco negli Stati uniti
per seguire le elezioni, ma questo solo ed esclusivamente perché, come
ormai sanno tutti, non ci sono soldi e
l’amministrazione del giornale è nelle mani dei liquidatori.
Ancora una volta, però niente da
fare. Ogni tentativo di convincere
Marco a ritirare le dimissioni naufraga contro la sua volontà di mantenere la decisione presa: «Poiché vedo
che questa storia (la storia del manifesto, ndr) sta finendo molto male, a
pesci in faccia - scrive Marco -, preferisco presentare le mie dimissioni in
modo sommesso, senza rotture roboanti, ma ripeto, irrevocabili». E soprattutto, come ripete più volte,
«pubbliche».
Su una cosa non ci sono dubbi:
questo collettivo ha fatto di tutto per
convincere Marco a non andare via,
senza però riuscirci. Da qui il tono
rassegnato della risposta data alla
sua lettera di dimissioni pubblicata
dal giornale. Forse quanti, in buona
fede, hanno sottoscritto un appello a
favore di Marco dal quale sembra
quasi che lui sia stato messo brutalmente alla porta, si sono sentiti raccontare una storia diversa.
STORIE DI REDAZIONE
Un «Uff» di troppo,
o molto di più. Dimissioni
in diretta di Marco d’Eramo
Con questa mail inviata l’8 novembre scorso abbiamo
appreso delle dimissioni di Marco D’Eramo. Di seguito,
la risposta inoltrata poco dopo dalla direzione.
C
are/i compagne/i,
io ho 65 anni, ho pubblicato vari libri tradotti
in varie lingue e faccio questo mestiere da quarant'anni, e sono in questo giornale da 32 anni. Se mi si
chiede un editoriale, chiedo che sia pubblicato come
l'ho scritto. Se lo comincio con «Uff! L'abbiamo scampata bella» PRETENDO che non venga cambiato senza
essere avvertito, e soprattutto pretendo che non venga
cambiato affatto, se esplicitamente ho chiesto al telefono al caporedattore che quella parola (Uff!) non venga
soppressa, perché cambia tutto il tono dell'articolo (se
non ve ne accorgete dovete urgentemente andare a
scuola di scrittura): o allora me lo si dica e io ritiro l'editoriale. Per cui mi dimetto con effetto immediato dal
giornale. Non chiederò , come altri hanno fatto, che mi
vengano corrisposti gli arretrati non pagati per la funzione di inviato speciale. Rivendico solo il normale Tfr
e le ferie non godute. Non vi saluterò né col pugno
chiuso né col medio sollevato. Vi chiedo solo di darne
notizia sul giornale.
Buon lavoro, Marco d'Eramo
C
aro Marco,
il tuo articolo l'ho passato io, nulla sapendo
della tua richiesta di «o uff o morte», altrimenti,
pur essendo tarda l'ora, ti avrei fatto chiamare per consigliarti di toglierlo perché non suonava come un sospiro di sollievo (penso che questo fosse il tuo intento).
Ma, detto questo, la tua reazione mi sembra, come dire?, un filo sopra le righe, non ti pare?
Norma
L’APPELLO PER MARCO
Amici e collaboratori
«È una vergogna»
U
na persona fine, una scrittura
elegante, uno sguardo sempre lucidamente aperto e
sempre internazionalista: questo è
Marco d’Eramo per noi, e il modo in
cui il manifesto ha commentato la
sua uscita dalla redazione ci lascia
esterrefatti.
È una vergogna per un giornale
che è stato ed è un esempio di riflessione critica per tanti sostenitori –
che da noi era letto con ancor più curiosità, specie in questi tempi di crisi,
quando c’era un articolo di Marco –
replicare in quel modo alla sua lettera di commiato del 21 novembre: sen-
za grazia, senza stima, senza affetto,
con tre righe secche e fredde in calce
alle lettere al giornale, in quattordicesima pagina, dopo due necrologi e
con un titolo che si discosta poco da
un necrologio. Una replica in cui non
manca – è quello che mette più tristezza – un augurio di «buona fortuna» che con studiata apparenza nasconde sarcasmo, come quando ci si
sbarazza in realtà d’un fardello. Il manifesto diventa d’un sol colpo più povero, senza Marco. Entra nella logica,
che non dovrebbe esser sua, secondo
cui tutto si può buttare via.
Un giornalista colto e competente,
un'intelligenza originale che per 32
anni ha contribuito in prima fila a fare del «manifesto» un punto di riferimento, è un patrimonio comune, e
voi avete liquidato il suo commiato
come se niente fosse, senza lasciar capire ai lettori le ragioni di questo allontanamento. Un epilogo penoso
che priva il giornale e i suoi affeziona-
il manifesto
MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012
SIAMO QUI
Senza fine •
Un voto durato tre giorni di tutti i soci della vecchia coop
apre la strada a un progetto da presentare a lettori e sostenitori
di una sinistra diversa
FUTURO · Costruire una nuova cooperativa per far rinascere il giornale. Si può fare?
Una luce in fondo al tunnel
Benedetto Vecchi
U
na nuova cooperativa
per i prossimi quaranta
anni di vita de il manifesto. È questo l’obiettivo del gruppo di lavoro eletto dal collettivo
tra venerdì e domenica. Un
obiettivo e una scommessa che
vogliamo giocare, consapevoli
delle difficoltà che incontreremo, ma anche delle potenzialità
politico-giornalistiche che il manifesto può ancora esprimere. Il
gruppo avrà un compito difficile. Nella pagina presentiamo il dispositivo votato e i risultati emersi dal voto.
I nove mesi di liquidazione coatta amministrativa hanno cambiato il modo di lavorare. Abbiamo discusso a lungo su come
uscire dal tunnel in cui eravamo
e siamo. Ci sono stati momenti
di lavoro collettivo, ma anche discussioni aspre tra di noi. È però
arrivato il momento di voltare
pagina e di ricominciare a discutere non su come sopravvivere,
ma di come vivere, riaffermando
il valore politico-giornalistico
dell’anomalia chiamata il manifesto.
Le discussioni di questi mesi
hanno visto intrecciarsi aspetti
politico-giornalistici e aspetti organizzativi. Abbiamo provato,
talvolta riuscendoci, altre volte
no, a mantenere separati i due
corni del dilemma. La priorità
che ci siamo dati lo scorso febbraio era di continuare le pubblicazioni perché era il solo modo
per poter elaborare un progetto
politico-editoriale che consentisse l’uscita dalla liquidazione coatta amministrativa. Obiettivo
prioritario senza il quale qualsiasi discussione su cosa debba essere il manifesto del futuro era
priva di fondamenta. Sono stati
mesi difficili, durante i quali la discussione non si è arrestata. Inutile rimuovere il fatto che alcuni
compagni e compagne non erano convinti delle scelte che venivano fatte. Con loro la discussione va ripresa. E potrà essere facilitata dall’esito del voto, che ha
individuato nella costituzione
della nuova cooperativa il terreno su cui misurare la capacità di
fare il «nuovo» manifesto. Chi farà parte del gruppo di lavoro ha
avuto un mandato preciso, raccogliendo un ampio consenso.
Il conflitto tra punti di vista differenti è stato da sempre la linfa
vitale de il manifesto. Ma da questa situazione di crisi non si esce
cancellando l’eterogeneità delle
culture politiche presenti nel
giornale. Semmai va valorizzata,
messa al lavoro per fare un giornale adeguato a una realtà che
ha mandato in frantumi la bussola che ha fornito, in passato, al
collettivo la direzione da seguire.
Serviva e serve costruirne una
nuova, per non smarrirsi. Per fare questo c’è bisogno dell’apporto di tutti, anche se sappiamo
che molti dei soci dipendenti
non potranno far parte della nuova cooperativa. L’uscita dalla liquidazione coatta ammnistrativa pone infatti un vincolo inaggirabile. Il futuro manifesto dovrà
infatti rispettare una condizione
preliminare: il bilancio esige di
essere in pareggio. È il passaggio
più doloroso che il collettivo è
tuttavia disposto a compiere per
garantire il futuro a un giornale
nel quale il lavoro coincide con
una scelta di vita. Nei giorni scorsi abbiamo cominciato a discutere con i circoli de il manifesto –
la componente organizzata di
quell’irrinunciabile patrimonio
che sono i nostri lettori e collaboratori – su come impostare una
agenda di lavoro con loro, consapevoli del valore politico della loro proposta di proprietà collettiva, ma altrettando consapevoli
che è un obiettivo anch’esso diffi-
cile da raggiungere in tempi brevi.
Il gruppo eletto lo scorso fine
settimana elaborerà lo statuto
della nuova cooperativa, un piano industriale adeguato e la pianta organica. Nei mesi scorsi sono
state studiate ipotesi e proposte
per far sì che il numero dei soci
dipendenti della futura cooperativa sia il più ampio possibile,
prospettando anche un numero
di soci non dipendenti per garantire che il nucleo «storico» – compagni e compagne che in passato hanno fatto la scelta del prepensionamento per ridurre il costo del lavoro, continuando tuttavia scrivere e a collaborare - ne
possa fare parte. I tempi di lavoro saranno necessariamente brevi – l’esercizio provvisorio ha termine il 31 dicembre – ma il gruppo di lavoro parlerà con i soci
della cooperativa in via di liquidazione per illustrare le funzioni
e la pianta organica del nuovo
manifesto, nel rispetto dei diritti
individuali e collettivi dei soci dipendenti.
La nuova cooperativa è la condizione necessaria, ma non sufficiente per continuare l’esperienza del manifesto. Serve infatti un
piano editoriale per il suo rilancio. Nel corso delle ultime assemblee del collettivo è però emersa
la necessità della stesura di una
carta degli intenti che sintetizzi
gli obiettivi politico-editoriali del
nuovo manifesto. Come è costume al manifesto, il gruppo di lavoro si presenterà in assemblea
sottoponendo al collettivo le proposte del piano industriale, dello
statuto della nuova cooperativa
e la carta degli intenti.
L’agenda / IL COLLETTIVO DEL «MANIFESTO» ALLE URNE
I risultati delle votazioni sul gruppo di lavoro
ti lettori italiani e stranieri di un pensiero sul mondo, sull'economia e la
storia economica, sulla politica, capace di aprire punti di vista nuovi, e per
questo apprezzato e cercato. È una
giornata buia che somiglia molto a
una disfatta.
Pietro Alessandrini, Enrico Alleva,
Daniella Ambrosino, Guido Ambrosino, Daniele Barbieri, Giuliana Beltrame, Paola Bellusci, Bepi Bertoncin, Curzio Bettio, Giorgio Boatti,
Mariarosa Bricchi, Bruno Cartosio,
Gian Paolo Calchi Novati, Giustina
Orientale Caputo, Alessandra Caraffa, Cristina Cecchi, Arnaldo Cecchini, Mauro Chiodarelli, Alessandra
Cicchetti, Gabriele Ciucci, Franco
Coppoli, Anna Maria Crispino,
Astrit Dakli, Victoria de Grazia, Pietro Del Soldà, Marcella De Negri, Andrea Dernbach, Marco Dotti, Alessandro Fallavollita, Lorenza Favaro,
Gianni Ferrara, Miriam Ferrari, Maria Ferretti, Bruno Fini, Adelin Fiora-
to, Marina Forti, Mario Gamba, Ferruccio Gambino, Maria Grazia Giannichedda, Giulio Giorello, Mariella
Gramaglia, Joseph Halevi, Gianfranco Laccone, Francesca Lancillotti,
Roberto Leone, Marcello Lorrai, Corinne Lucas, Marcello Madau, Claudio Magliulo, Donatella Mardollo,
Giorgio Mariani, Leonarda Martino,
Danielle Mazzonis, Simona Morini,
Francesca Mortelli, Antonino Morvillo, Anna Nadotti, Pasqualina Napoletano, Emilio Orlando, Gabriella
Paolucci, Giorgio Parisi, Lorenza Parisi, Giorgio Pecorini, Gabriele Pillon, Sandro Portelli, Rosa Puca, Paola Raffo, Doriana Ricci, Jaime Riera
Rehren, Annamaria Rivera, Giovanni Ruffa, Renata Saiani, Livio Sansone, Bia Sarasini, Cinzia Sciuto, Martina Simeti, Barbara Spinelli, Junko
Terao, Omero Timoncini, Gianni Tognoni, Fabrizio Tonello, Roberto Toscano, Lucia Tozzi, Nadia Urbinati,
Paolo Vineis, Ambros Waibel
Ecco il testo del dispositivo messo
ai voti tra tutti i soci della cooperativa.
«Il collettivo del manifesto affida a un gruppo di lavoro il compito di presentare nel più breve
tempo possibile un piano per la
costituzione della nuova cooperativa e un progetto per la pianta organica dei dipendenti.
Il gruppo di lavoro proposto
in assemblea è composto da direzione (Norma Rangeri), amministrazione (Luana Sanguigni),
cdr (Benedetto Vecchi), un
membro della rsu, del desk (Matteo Bartocci), collaboratori (Francesca
Borrelli). Sul dispositivo l’assemblea chiede il voto nominale e palese di tutti i soci
della cooperativa in liquidazione.
Si può votare per email alla segreteria
di redazione dalle 17 di venerdì 23 novembre alle 17 di domenica 25 novembre.
Votazioni e risposte:
Sì: Francesco Adinolfi, Roberto Andreotti, Alessandra Barletta, Matteo Bartocci,
Emanuele Bevilacqua, Marco Boccitto, Micaela Bongi, Francesca Borrelli, Pupa Brunori, Alessandro Cannelli, Paola Capitani,
No: Michelangelo Cocco, Sara Farolfi, Francesco Piccioni, Doriana
Ricci.
Astenuti: Gianni Beretta, Bruna Di
Pietrantonio, Giuliana Palombi.
Non intendo partecipare al voto: Loris Campetti, Alessandra Cicchetti,
Mariuccia Ciotta, Marcello Cornacchia, Astrit Dakli, Erasmo D'Angelis,
Massimo De Feo, Ida Dominijanni,
Tiziana Ferri, Marina Forti, Maurizio
Matteuzzi, Angela Pascucci, Orsola
Casagrande, Vauro Senesi, Roberto
Silvestri, Giorgio Zibellini.
Gianfranco Capitta, Riccardo Chiari, Marco Cinque, Geraldina Colotti, Patrizia Cortellessa, Stefano Crippa, Lia Dadduzio, Federico De Melis, Tommaso Di Francesco,
Arianna Di Genova, Andrea Fabozzi, Luca
Fazio, Massimo Giannetti, Michele Giorgio, Carlo Lania, Eleonora Martini, Giovanna Massini, Angelo Mastrandrea, Nora Parcu, Fabio Patacchiola, Roberto Peciola, Cristina Piccino, Giuliana Poletto,
Daniela Preziosi, Anna Salvati, Giorgio Salvetti, Massimiliano Salvoni, Luana Sanguigni, Giulia Sbarigia, Giuliana Sgrena, Silvana Silvestri, Benedetto Vecchi, Eurosia Visaggi, Gianna Zanali, Marina Zenobio.
Non hanno risposto: Manuela Barbieri,
Marco Bascetta, Delfina Bonada, Simona
Bonsignori, Teresa Calpicchi, Maria Teresa Carbone, Antonello Catacchio, Katia
Centioni, Flaviano De Luca, Marco D'Eramo, Cinzia Gubbini, Francesco Mandarini, Filippo Maone, Filomena Marcelli,
Sandro Medici, Anna Maria Merlo, Mauro Paissan, Valentino Parlato, Francesco
Paternò, Matteo Patrono, Bruno Perini,
Francesca Pilla, Tania Polizzi, Gabriele
Polo, Guglielmo Ragozzino, Norma Rangeri, Rossana Rossanda, Antonio Sciotto,
Roberto Tesi, Iaia Vantaggiato, Stefania
Zaccheo, Roberto Zanini.
pagina 3
pagina 4
il manifesto
MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012
PRIMARIE
PRIMARIE · Vendola: «No a Renzi». Fra gli arancioni scoppia il caso De Magistris: «Vuole l’accordo con il Pd? Noi no»
Nichi a Bersani: patti chiari per il voto
LEGGE ELETTORALE
Partiti distratti,
verso un rinvio
IL SEGRETARIO DEL PD BERSANI E IL PRESIDENTE DI SEL VENDOLA/FOTO EMBLEMA
Daniela Preziosi
A
caldo, nella notte di domenica
mentre incassava un risultato
non esaltante - il 15,6 - ma che
comunque gli consegna la golden share del ballottaggio, aveva detto che il
suo appoggio a Bersani non era scontato. Ieri pomeriggio, dopo la riunione
del coordinamento nazionale, l’esecu-
«Ai nostri elettori il
leader democratico
faccia sentire un
profumo di sinistra:
tagli agli F35»
tivo di Sel, Nichi Vendola chiarisce.
«Escludo che Sel possa dare il suo sostegno a Renzi nel ballottaggio»; anche
perché «la carta d’intenti l’abbiamo
tutti sottoscritta, tra le cose da non fare c’è la reiterazione dell’agenda Monti. Io manterrò fede agli impegni, ma
qualora quel documento diventi carta
straccia, liberi tutti». Quanto a Bersani,
che con il suo 44,9 per cento dei voti
della sinistra ha bisogno - e parecchio
- per ottenere una piena affermazione
al ballottaggio di domenica, «convinca
i miei elettori», faccia sentire «un profumo di sinistra». Nessuna trattativa con
il Pd in cambio «di un futuro risarcimento politico» - Vendola smentisce
seccamente indiscrezioni di stampa
che lo danno futuro «Cialtronerie» ma impegni «per aprire un negoziato
con l’Unione Europea per impedire
che le politiche neoliberiste strangolino l’economie di interi popoli»; per «dire basta alla precarietà eterna», «ridurre drasticamente l’acquisto dei caccia
bombardieri F35, mettere in sicurezza
il territorio creando posti di lavoro, introdurre lo ius soli per gli immigrati».
Vendola confida «nella saggezza e capacità di interlocuzione di Bersani».
Ma forse anche nel fatto che se Bersani vuole scongiurare la concorrenza di
Monti, non ha altra strada che stringere i bulloni dell’alleanza con la sinistra
della coalizione. Renzi, esaltato dall’affermazione alle primarie (35,5 per cento) in particolare nei feudi partitisti di
Toscana (52,2) Emilia Romagna (38,8,
sopra la media nazionale), e Piemonte
(38,5 contro il 41,7 di Bersani), ormai
non si tiene più e scommette anche
sui voti di Vendola, «Sono liberi. E mobili. Sono convinto che possiamo prendere noi quei voti».
Bersani, saggio come Vendola lo descrive, risponde all’alleato a stretto giro: il risultato di Vendola «era i condizioni difficili ma è degno di nota». E visto che «alcuni valori sono comuni,
credo che con i suoi elettori sia possibile un dialogo, senza accordicchi, con
serietà. Perché io e Vendola siamo fatti
così. L’idea di una comunicazione basata sul carisma ce l’abbiamo alle spalle». Di «profumo di sinistra» ancora
non se ne sente, ma è un inizio e c’è
tutta la settimana per lavorarci su.
Comunque vada, Vendola è ben ancorato alla coalizione di centrosinistra,
al netto di cataclismi politici (come sarebbe l’improbabile vittoria di Renzi).
Ma nella sinistra ’arancione’, fuori dalla coalizione, c’è chi guarda a lui con
interesse. È Luigi De Magistris, il sindaco di Napoli che lancerà una lista autonoma il 12 dicembre. E che ieri sul manifesto , nonostante il risultato «ottimo
a Napoli ma complessivamente non
buono» del presidente della Puglia, ha
spiegato che potrebbe «dialogare da
subito con il centrosinistra per avvicinarsi anche in campagna elettorale».
«Siamo impegnati a contribuire alla vittoria del centrosinistra», «a meno di
non volersi condannare all’irrilevanza,
alla testimonianza pura».
Non l’hanno presa bene i suoi compagni arancioni coté Alba (alleanza lavoro benicomuni ambiente), contrari
a un rapporto con il centrosinistra. «Se
le cose stanno come ha detto de Magistris, noi non ci stiamo. L’operazione
va fatta in alternativa al centrosinistra», spiega Alfonso Gianni, già brac-
DIFFAMAZIONE
Affossata al Senato la legge «salva
Sallusti». Il direttore ai domiciliari
Affossata definitivamente ieri al Senato la legge salva-Sallusti. Un provvedimento ormai inutile, visto che l’ordine di
arresto domiciliare era ormai giunto al direttore de Il Giornale appena qualche ora prima del voto segreto in Aula che
ha bocciato il cuore del provvedimento, quell’articolo 1 con
il quale si confermava il carcere e si inasprivano le pene pecuniarie per i giornalisti condannati
per diffamazione a mezzo stampa, mentre si graziavano direttori responsabili e vicedirettori.
Hanno votato no 123 senatori - tra cui molti della destra –, mentre i sì sono stati 29 e 9 gli
astenuti. Il presidente del Senato, Renato Schifani, preso atto dell'esito del voto ha sospeso i
lavori dell'Aula, passando successivamente ad un altro provvedimento. «Morte non accidentale
di una porcata», è l’epitaffio pronunciato dal senatore Pd Vincenzo Vita per un provvedimento
ad personam ormai fuori tempo massimo. «Una vittoria» che premia anche la ferma opposizione del sindacato dei giornalisti e della Federazione degli editori che ieri, fuori Palazzo Madama
hanno manifestato, insieme con le giornaliste della rete «Giulia», contro «l’inaccettabile bavaglio all'informazione». Alessandro Sallusti, se il magistrato di sorveglianza accetterà la richiesta
dei domiciliari avanzata dal procuratore Bruti Liberati, trascorrerà i domiciliari presso l’abitazione della sua compagna Daniela Santanché. Ha chiesto di poter continuare a lavorare.
cio destro di Fausto Bertinotti. «Alle
primarie la competizione tutta interna
alle compatibilità dell’agenda Monti
ha sconfitto Vendola e lo ha rinchiuso
nel recinto Pd», spiega Massimo Torelli, fiorentino di Alba. «La sfida è
proporre un’alternativa nei contenuti
e nei metodi, che tiri una riga netta
con il recente passato di tutte le varie
sinistre. Lo faremo nell’appuntamen-
to di sabato a Roma. Dove discuteremo su come costruire una presenza
alternativa, ma non certo il suo possibile posizionamento nell’alleanza
Pd-Sel». Anche Vendola in realtà era
rimasto stupito dal sindaco: «Perché
de Magistris non si è espresso prima
dicendo cosa ha intenzione di con il
suo laboratorio politico? Mi è sembrato troppo politicista».
Il Pd è preso dal ballottaggio delle primarie. Il Pdl è
sull’orlo del tracollo, in attesa delle imminenti dimissioni del suo fondatore, Silvio
Berlusconi. E così la discussione della nuova legge
elettorale può attendere
ancora. Il testo della riforma dovrebbe arrivare nell’aula del senato domani,
ma la seduta notturna della commissione affari costituzionali ieri è stata sconvocata. Se ne riparlerà questa sera, ma la conferenza
dei capigruppo, fissata
sempre per oggi, potrebbe
decidere un rinvio dell’approdo in aula del provvedimento. La presidente dei
senatori Pd, Anna Finocchiaro, ne ha parlato con il
presidente di palazzo madama Schifani. E se dal Pdl il
capogruppo Gasparri sostiene che «rinviare sarebbe un
errore», il suo vice Gaetano
Quagliariello si dice «contrario al fatto di non definire un accordo, arrivare in
aula senza un testo di riferimento forte è un azzardo».
Ma l’accordo non c’è è secondo il presidente della
commissione, Carlo Vizzini,
il problema «è che i partiti
sono diventati troppi, più di
quelli ufficiali».
Ferrero, Prc/ «IMPOSSIBILE FARE LA SINISTRA DEI MODERATI»
«Sel e Idv ora rompano con il Pd
E Luigi non faccia ammunina»
ROMA
«N
onostante il gran battage pubblicitario,
le primarie hanno raccolto un milione
di votanti in meno di quelle del 2005.
Un crollo che parla del distacco tra il paese e l’alleanza che sostiene il governo Monti. In questo contesto Vendola non sfonda e il suo risultato conferma
il carattere moderato di quell’aggregazione».
Segretario Ferrero, lei parla delle primarie del
2005. Ma era un’altra era politica fa: Rifondazione era unita, non c’era stato il disastro del 2008,
né Grillo, né la marea del non voto.
Ciò non toglie che si possa parlare di riduzione
della partecipazione. Il dato politico oggi è che la proposta di una sinistra all’interno della coalizione Italia
Bene Comune non ha prodotto il ribaltamento sperato. Anzi, l’affermazione di Renzi
dice esattamente il contrario.
Le primarie non sono comunque
un momento di democrazia, come
il Prc affermava in quegli anni?
Non dissento sulle primarie, sono uno strumento che va utilizzato. Ma non in astratto. A Napoli vi
abbiamo partecipato, e anche a
Milano. Invece a queste ultime
no: la base politica era chiara, era
la piena accettazione dei trattati
europei, a partire dal fiscal compact. E la non messa in discussione delle scelte del governo Monti:
spending review, cancellazione dell’art.18, pareggio
di bilancio in Costituzione. La carta d’intenti è del
tutto in continuità con Monti.
Lei tifa per le liste arancioni. Alle quali si è interessato il pm Ingroia.
Da più parti c’è il comune intendimento di costruire il quarto polo, un polo a sinistra che proponga un’alternativa secca alle politiche liberiste. Che
rompa unilateralmente i trattati europei, e che dica
parole chiare sulla non distruzione del territorio,
sulla giustizia sociale, sulla moralità nella politica. Il
Prc si è costituito parte civile nel processo sulla trattativa stato-mafia, di cui il pm Ingroia è stato protagonista. L’assemblea del primo dicembre, convocata dall’appello dei 70 di «Cambiare si può», ha già diversi interlocutori, che si incontreranno e ragioneranno insieme.
Ingroia potrebbe essere un candidato premier?
Sarei felicissimo, è una grande risorsa. Spero sia
della partita, ma un nome non è mai risolutivo. La
cosa importante è che il quarto polo sia non una discussione di quattro in una stanza ma un processo
plurale di aggregazione di tutti quelli che fanno battaglie da sinistra, dall’acqua ai lavoratori, agli stu-
denti, ai comitati di Val di Susa, a quelli del No Monti day del 27 ottobre. Una casa in cui tutti si sentano
a casa. Per me sono interlocutori anche le forze organizzate, dal movimento di De Magistris, all’Idv, a
Sel. A Vendola chiedo di prendere atto che non si
può costruire una sinistra nel campo moderato.
L’Idv ha partecipato alle primarie e già Bersani
l’ha riammessa nel centrosinistra.
Lo vedo, ma insisto: la sinistra in quella coalizione
non c’è. Lo dimostrano i risultati delle primarie e la
carta d’intenti che si attesta su un montismo senza
Monti. La carta è chiara e forse chi l’ha firmata se l’è
bevuta come acqua fresca: Idv e Sel non potranno sostenere nulla delle battaglie che abbiamo fin qui fatto insieme. Non inseguano Bersani sulla strada moderata. Nel resto d’Europa le sinistre non fanno così.
Non rompere il fiscal compact significa tagliare altri
45 miliardi l’anno. I comuni già oggi hanno tagliato tutto, in pochi anni si dovranno vendere tutto.
Vendola al manifesto si è detto
contrario a ulteriori tagli allo stato sociale.
C’è contraddizione fra poesia e
prosa. I trattati si modificano all’unanimità o si rompono unilateralmente, come aveva detto in Grecia Syriza. In caso contrario, se non
li rispetti l’Europa ti commissaria.
Da alcune parti del movimento avanzano perplessità su un’alleanza con i partiti, anche quelli, come voi, che non stanno con il Pd.
È una discussione in corso. Per me due cose debbono stare assieme: il riconoscimento reciproco di
chi ha fatto opposizione fin qui; e la modalità democratica del percorso costituente: no a un’intergruppo, né a una riedizione della sinistra arcobaleno.
Chiedono ai partiti due passi indietro.
Ci sono posizioni diverse, è normale. Né ho mai
pensato di fare una lista del Prc allargata. Ma come
si scioglie? O si prende atto delle distanze e ci si saluta, o troviamo un modo che ci faccia andare oltre.
Confido che si possa trovare una pratica unitaria.
Vogliamo che ci sia solo un centrosinista liberista e
un Grillo che le spara? O vogliamo costruire una sinistra autonoma dai poteri forti?
Sul manifesto di ieri De Magistris non chiude la
strada a una collaborazione con il centrosinistra,
anche prima del voto, per scongiurare il Monti
bis. Sarebbe d’accordo?
È una contraddizione, lo invito a chiarirla. Confido che il De Magistris nazionale, come quello napoletano, non si è infili nei tatticismi. A Napoli usava il
motto «Amm’a scassà». Appunto, «Amm’a scassà»,
non «amm’a fa ammuina».
d.p.
BALLOTTAGGIO
Renzi punta a allargare
la platea e chiede
nuove regole per votare
Riccardo Chiari
FIRENZE
V
enite a me, io sono il cambiamento. Matteo Renzi chiama al voto di
domenica prossima chiunque possa aiutarlo a vincere. Chiede che si mettano online i verbali di ogni seggio («e non
gli aggregati delle segretarie provinciali»)
dicendo che per lui la trasparenza non è
solo una parola. Ribadisce a Pierluigi Bersani che fino a domenica «esiste un noi e
un loro». Infine, con la metafora calcistica del «si riparte da zero a zero», sollecita
una volta di più a voltare pagina in quello che definisce «un derby fra l’usato sicuro e l’innovazione». L’obiettivo è dichiarato: «Puntiamo a spostare parte dei voti
di Bersani, c’è chi lo ha votato pensando
che fosse una formalità. Poi vogliamo andare a prendere i voti di Puppato, Tabacci e Vendola. Sembra che il distacco sia
di 250 mila voti, un margine assolutamente colmabile». Anche i delusi del centrodestra sono i benvenuti, puntualizza
l’aspirante leader. Per questo il messaggio principale della giornata, lanciato fin
dal mattino, è dare la possibilità a tutti di
poter votare al ballottaggio, potendosi registrare fino all’ultimo momento.
«Il modello è quello francese - spiega
Renzi nel corso di una affollata conferenza stampa negli uffici del suo comitato
elettorale - dove al secondo turno hanno
votato più persone che al primo. Quindi
chiediamo che ci si possa registrare non
solo giovedì e venerdì ma fino a domenica, e che ci si possa registrare online. Se
le regole non lo prevedono, spero che si
possano rivedere». A sera, e a polemica
già apertissima fra renziani e bersaniani,
deve intervenire il presidente del collegio
dei garanti Luigi Berlinguer, per ribadire
che le regole restano quelle di partenza:
«Le registrazioni per il secondo turno delle primarie saranno riaperte solo giovedì
29 e venerdì 30 novembre, e saranno i comitati provinciali a valutare e decidere
sulle richieste. Ci sarà un ufficio elettorale in ogni comune capoluogo di provincia, perché la grande massa delle registrazioni è già avvenuta. L’aspirante elettore
andrà lì, e il collegio della commissione
elettorale si pronuncerà sulla base dell’attendibilità della sua motivazione per la
mancata registrazione».
Dunque pollice verso, per ora. Ma secondo lo staff renziano la mossa darà in
ogni caso i suoi frutti, facendo apparire il
sindaco di Firenze come l’unico vero interprete dello spirito delle primarie. Spiegate così: «L’attaccamento alla ditta non
è in dubbio ma un ’noi’ e un ’loro’ c’è.
Non possiamo immaginare che le primarie siano fatte per finta. Io e Bersani siamo come due allenatori diversi. La squadra è la stessa ma per farla vincere noi
pensiamo si debba cambiate schema di
gioco, qualche giocatore, avere più coraggio in alcune partite e naturalmente cambiare anche allenatore. Ma non la squadra». Perché nel Pd l’aspirante candidato
premier Renzi ci sta come un topo nel
formaggio, alla luce dei risultati del primo turno di primarie che lo hanno visto
vittorioso in Toscana, Umbria e Marche,
dove il partito tricolore è principale forza
di governo. Un dato, quest’ultimo, che lo
porta a dire: «Questo successo è la dimostrazione che non sono di destra». Anche
se poi, quando gli chiedono un giudizio
sull’operato del governo Monti, l’innovatore Renzi risponde: «La mia posizione è
molto diversa da quella di Vendola».
Infine non può certo mancare un passaggio sui duelli televisivi, che l’affabulatore Renzi vorrebbe naturalmente moltiplicati: «Mercoledì c’è il confronto in Rai,
credo che sarebbe naturale fare anche
La7 e Mediaset. Stiamo aspettando la disponibilità di Bersani, di fronte all’invito
di Mentana per andare sabato da lui. Io
spero che si possa fare».
il manifesto
MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012
pagina 5
ITALIA
MAURO BIANI
FRANCIA
Mittal si scontra
con il governo
Acciaierie in bilico
Anna Maria Merlo
PARIGI
I
I LAVORATORI DAVANTI ALLA SEDE DELL’ILVA DI TARANTO: IN 5 MILA
RISCHIANO IL POSTO /FOTO ANDREA SABBADINI
TARANTO · L’annuncio dell’azienda dopo gli arresti dei Riva e di altri dirigenti. Nelle carte spunta anche il nome di Vendola
L’Ilva chiude, 5 mila operai a rischio
Gianmario Leone
E
ra solo questione di tempo. Perché il nuovo terremoto giudiziario che ieri ha colpito l’Ilva e
la città di Taranto, era stato ampiamente anticipato dalla magistratura
tarantina nello scorso mese di agosto. Con il gruppo Riva che nella tarda serata di ieri ha annunciato la
chiusura del sito di Taranto e di tutti
gli stabilimenti da esso riforniti: Genova, Novi Ligure, Racconigi, Marghera e Patrica. L’azienda ha anche
disposto la sospensione di tutte le attività lavorative negli impianti che
non sono sottoposti a sequestro giudiziario, a partire dal turno serale di
ieri, con i sindacati che invece hanno
invitato gli operai a recarsi sul posto
di lavoro, anche per quanto concerne il turno di questa mattina.
La decisione colpirebbe oltre 5000
operai, mentre oggi pomeriggio è previsto un nuovo incontro tra direzione
e sindacati per fare il punto su una situazione che rischia di precipitare definitivamente da un momento all’altro. La dura presa di posizione dell’azienda è scaturita dopo l’operazione scattata ieri denominata «Envinronment sold out», che ha visto impegnati i militari del comando provinciale della Guardia di finanza di Taranto che hanno eseguito a Taranto,
Milano, Roma, Pisa, Bari e Varese, sette ordinanze di arresto firmate dai
gip Vilma Gilli e Patrizia Todisco.
Gli arrestati sono il patron Emilio Riva, agli arresti domiciliari dal 26 luglio scorso. La detenzione in carcere
è stata disposta per il vicepresidente
di Riva Group Fabio Riva, l’ex direttore dell’Ilva di Taranto Luigi Capogrosso e l’ex dirigente Ilva Girolamo Archinà. Domiciliari per l’ex rettore del
Politecnico di Taranto, Lorenzo Liberti.
Per la parte Ilva, respinta la richiesta
formulata dalla Procura di ulteriore
arresto per l’ex presidente di Ilva Nicola Riva, già ai domiciliari. Mentre
al presidente Bruno Ferrante, e al
nuovo direttore dello stabilimento di
I sindacati chiedono ai lavoratori di recarsi
comunque negli stabilimenti. L’accusa
a proprietà e management: associazione
a delinquere per perpetrare l’inquinamento
Taranto, Adolfo Buffo, è stato notificata una informazione di garanzia. Dal
gip Vilma Gilli ai domiciliari è stato
posto l’ex assessore all’Ambiente della Provincia di Taranto Michele Conserva, dimessosi circa due mesi fa dall’incarico. Ai domiciliari anche l’ing.
Carmelo Delli Santi, rappresentante
della Promed Engineering. Conserva
e Delli Santi sono entrambi accusati
di concussione.
Nei confronti della società è stato
eseguito anche il sequestro preventivo dei prodotti finiti e/o semilavorati
destinati alla vendita e al trasferimento in altri stabilimenti del gruppo. La
procura ha posto sotto sequestro tutta la produzione degli ultimi quattro
mesi, stoccata nell’ex yard Belleli e
nei parchi della zona portuale. Migliaia di lastre di acciaio e coils, grossi cilindri di materiale finito pronti per essere spediti alle industrie: la merce sequestrata non potrà però essere commercializzata perché si tratta di prodotti realizzati in violazione della legge.
Secondo la Procura infatti, costituiscono profitto di reati perché realizzati durante i quattro mesi in cui l’area
a caldo dello stabilimento era sotto
sequestro senza alcuna facoltà d’uso.
Il provvedimento firmato dal gip Todisco sulla base del secondo comma
della legge 321 (responsabilità amministrativa delle società) collegato al
240 del codice penale, riguardante la
confisca di beni, riguarda anche le
eventuali produzioni del futuro e pone uno stop definitivo alla produzione che dal 26 luglio è ugualmente andata avanti ignorando l’ordine della
magistratura. In una nota l’azienda
sottolinea che quest’ultimo provvedimento «si pone in radicale e insanabile contrasto rispetto al provvedimen-
GRUPPO FIAT
Ok alla fusione Industrial-Cnh
Rientrano i 19 di Pomigliano
Fiat Industrial emigra in Olanda: la decisione di spostare
la sede dall’Italia, già annunciata da tempo, è arrivata
ufficialmente ieri, quando gli amministratori della Cnh
hanno accettato la fusione proposta dall’ad del gruppo
Fiat Sergio Marchionne. Il nuovo colosso dei veicoli industriali in questo modo pagherà meno tasse e meno interessi sul debito (gli analisti calcolano 150 milioni di euro in meno) ed, essendo più internazionale, avrà anche più accesso ai
mercati finanziari. Gli Agnelli hanno dato l’ok all’operazione: la loro quota in Fiat Industrial
si diluisce così dal 30% al 27% (al di sotto della soglia d’Opa), ma il doppio diritto di voto
ottenuto con il nuovo statuto blinda di fatto il controllo della società. Con la fusione Fiat
Industrial/Cnh, si trasferisce fuori dai confini dell’Italia la testa della società, mentre la produzione e gli stabilimenti sono già in via di ridimensionamento o di chiusura: dunque per i
lavoratori e i fornitori del nostro Paese non è certo una bella notizia. Intanto a Pomigliano
sono stati chiamati al lavoro i 19 operai della Fiom reintegrati grazie alla sentenza della
magistratura: i lavoratori hanno ricevuto un telegramma dall’azienda con due giorni di anticipo rispetto alla scadenza fissata dai giudici (il 28 novembre) e saranno assunti già oggi.
Il sito sarà fermo per 4 settimane di cig fino al 31 dicembre, lavorando solo dal 10 al 16.
to autorizzativo del ministero dell’Ambiente: lo stabilimento è autorizzato all’esercizio dell’attività produttiva dal decreto del ministero del 26 ottobre 2012 di revisione dell’Aia».
Non è un caso se il ministro Clini
ieri ha dichiarato: «Mi auguro che
questa iniziativa non sia conflittuale
con l’Aia, l’unico strumento per risanare l’attività dello stabilimento. Non
sono disponibile a subire una situazione che avrebbe effetti terribili: sono preoccupato dai futuri effetti ambientali gravissimi e sociali devastanti». Il che lascia presagire un possibile
futuro intervento del governo.
L’attività di polizia giudiziaria avvenuta ieri, è la conclusione di un’indagine protrattasi dal gennaio del
2010 a oggi, nel corso della quale è
stata ipotizzata la costituzione di
un’associazione a delinquere finalizzata alla perpetrazione dei reati di disastro ambientale aggravato, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, avvelenamento di acque e sostanze alimentari, concussione e corruzione in atti giudiziari.
Nelle carte spunta anche il nome
del governatore Nichi Vendola e delle pressioni per eliminare il direttore
generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, autore della relazione sulle
emissioni inquinanti dello stabilimento. L’accusa parla di «una regia
di Vendola» nell’operazione per «frantumare» Assennato, colpevole di diffondere dati negativi sulle emissioni
dell’Ilva, oltre che una certa «disponibilità» nei confronti dell’azienda.
MENSE AZIENDALI
Sciopero Compass
contro gli 800 tagli
Sciopero del gruppo Compass,
colosso delle mense aziendali,
il prossimo 30 novembre. Lo
hanno indetto Filcams Cgil, Fisascat Cisl, Uiltucs e Uiltrasporti
Uil per contestare la decisione
aziendale di licenziare più di
800 dipendenti per attuare il
proprio piano organizzativo. «La
Compass Group ha 360 mila
dipendenti nel mondo – spiega
la Filcams Cgil - In Italia ha annunciato una procedura di mobilità che riguarda più di 800 dipendenti su quasi 8 mila. Gli
ultimi incontri, nonostante le
nostre proteste, non sono serviti
al ritiro della procedura».
La lettera / LE DIPENDENTI ALLA TESTIMONIAL LITTIZZETTO
«Luciana, Coop non è il paradiso
Fai uno spot con le lavoratrici»
«P
iù che tu, la Coop siamo noi, cara Luciana».
A scrivere sono le lavoratrici della Coop: la
lettera, indirizzata a Luciana Littizzetto, attrice comica e testimonial della Coop, intende denunciare le cattive condizioni di lavoro presso il gruppo
della grande distribuzione, il cui personale è composto all’80% da donne. L’iniziativa è venuta da un gruppo di iscritte della Usb.
«Cara Luciana – scrivono le lavoratrici – lo sai cosa
si nasconde dietro il sorriso di una cassiera che ti chiede di quante buste hai bisogno? Una busta paga che non
arriva a 700 euro mensili dopo aver lavorato sei giorni su
sette comprese tutte le domeniche del mese. Le nostre famiglie fanno una grande fatica a tirare avanti e in questi
tempi di crisi noi ci siamo abituate ad accontentarci anche
di questi pochi soldi che portiamo a casa. Abbiamo un’alternativa secondo te?».
E no, in effetti in tempi di crisi o ti accontenti o resti
in mezzo a una strada. Ma la lettera continua: «Nei
tuoi spot spiritosi – dicono le iscritte Usb all’attrice –
descrivi la Coop come un mondo accattivante e un
ambiente simpatico dove noi, quelle che la mandano
avanti, non ci siamo mai. Sembra tutto così attrattivo
e sereno che parlarti della nostra sofferenza quotidiana rischia di sporcare quella bella fotografia che tu racconti tutti i giorni».
«Ma in questa storia noi ci siamo, eccome se ci siamo, e non siamo contente – protestano le dipendenti
Coop – Si guadagna poco e si lavora tanto. Ma non finisce qui. Noi donne siamo la grande maggioranza di
chi lavora in Coop. Prova a chiedere quante sono le dirigenti donna dell’azienda e capirai qual è la nostra
condizione. A comandare sono tutti uomini e non vige certo lo spirito cooperativo. Ti facciamo un esempio: per andare in bagno bisogna chiedere il permesso e siccome il personale è sempre poco possiamo anche aspettare ore prima di poter andare».
E non basta, c’è anche la precarietà: «Il lavoro precario è una condizione molto diffusa alla Coop e può
capitare di essere mandate a casa anche dopo 10 anni
di attività più o meno ininterrotta. Viviamo in condizioni di quotidiana ricattabilità: prendi il caso dei turni, te li possono cambiare anche all’ultimo momento
con una semplice telefonata e tu devi inghiottire. E
chi se ne frega se la famiglia va a rotoli, gli affetti passano all’ultimo posto e i figli non riesci più a gestirli».
Denunciare e protestare non è affatto facile: «Ci è
capitato di essere costrette a subire in silenzio fi«Molte di noi
nanche le molestie da parprendono 700
te dei capi dell’altro sesso
euro al mese ed
per salvare il posto o non
è difficile perfino
veder peggiorare la noandare in bagno».
stra situazione», denunLa richiesta della
ciano le lavoratrici.
Usb: un incontro
«Tutte queste cose tu
con l’attrice
probabilmente non le sai,
come non le sanno le migliaia di clienti dei negozi
Coop in tutta Italia – continuano le dipendenti Coop
– Non te le hanno fatte vedere né te le hanno raccontate. E anche a noi ci impediscono di parlarne con il
ricatto che se colpiamo l’immagine della Coop rompiamo il rapporto di fiducia che ci lega per contratto e
possiamo essere licenziate. Ma noi non vogliamo colpire il marchio e l’immagine della Coop, vogliamo solo uscire dall’invisibilità e ricordare a te e a tutti che ci
siamo anche noi. Noi siamo la Coop, e questo non è
uno spot. Siamo donne lavoratrici e madri che facciamo la Coop tutti i giorni. Siamo sorridenti alla cassa
ma anche terribilmente incazzate».
«Abbiamo paura ma sappiamo che mettendoci insieme possiamo essere più forti e per questo ci siamo
organizzate. La Coop è il nostro posto di lavoro, non
può essere la nostra prigione. Crediamo nella libertà
e nella dignità delle persone. Cara Luciana, ci auguriamo che queste parole ti raggiungano e ti facciano pensare». Dunque, in conclusione, un invito a Littizzetto:
«Ci piacerebbe incontrarti e proporti un altro spot in
difesa delle donne e per la dignità del lavoro».
l ministro del rilancio produttivo,
Arnaud Montebourg, ha ingaggiato un braccio di ferro molto pericoloso con il numero uno dell’acciaio mondiale, l’indiano Mittal. Ieri, in
un’intervista al quotidiano economico Les Echos ha affermato, secco:
«Non vogliamo più Mittal in Francia
perché non ha rispettato la Francia».
Oggi Lakshimi Mittal sarà ricevuto da
François Hollande, che cercherà molto probabilmente di gettare acqua
sul fuoco di uno scontro aperto con
Montebourg, inziato a causa della minaccia di chiusura degli altiforni di
Florange, ma che ormai potrebbe
coinvolgere tutto l’acciaio prodotto
in Francia nelle mani di Mittal cioè
150 siti e 22 mila lavoratori.
All’origine del conflitto, c’è la triste
storia di Florange. Mittal ha deciso di
chiudere gli altiforni, il governo ha
chiesto tempo – fino al 1˚ dicembre –
per trovare un acquirente. Sembra
che ci siano due candidati, che chiedono pero’ che Mittal metta in vendita tutto il sito di Florange, non solo
gli altiforni e la cokerie. Ma Mittal
non vuole, perché non intende favorire un concorrente. Di qui la crisi di
nervi di Montebourg, che giovedì
scorso aveva proposto una nazionalizzazione temporanea di Florange,
in alleanza con un socio privato di minoranza, in attesa di trovare un compratore.
Con l’affermazione di ieri, sembra
che Montebourg abbia in testa addirittura la nazionalizzazione di tutta la
filiera dell’acciaio in Francia. Una
mossa azzardata e pericolosa, che ha
fatto paura ai sindacati, che temono
eventuali rappresaglie da parte del re
mondiale dell’acciaio. Montebourg
ha accusato ieri Mittal di fare «ricatti
e minacce». Solo la Cfdt capisce la crisi di nervi del ministro: «Da 18 mesi –
afferma il sindacalista Edouard Martin – diciamo che Mittal è un predatore. Se qualcuno pensa che si limiterà
a Florange, sta sognando». Ma per la
Cgt Montebourg è stato imprudente:
«Non vivremo certo con queste frasi
choccanti, una volta detto questo, cosa si fa?», si chiede il sindacalista Yves
Fabbri.
Mittal è sbarcata in Francia nel ’99,
con l’acquisizione di Unimétal. Nel
2006, in seguito a una feroce battaglia in Borsa, ha preso il controllo di
Arcelor, la società europea (con sede
in Lussemburgo) nata nel 2002 dalla
fusione di Arcelaria (Spagna, Arbed
(Lussemburgo) e Usinor, l’acciaio
francese che era stato nazionalizzato
da Mitterrand e poi riprivatizzato nel
’95 con il ritorno della destra al governo. Arcelor era nata debole, perché
costretta dalla Commissione europea a vendere dei siti in nome del sacrosanto principio della concorrenza. Dopo la conquista di Mittal, il sito
di Gandrange è stato chiuso (era
l’epoca di Sarkozy, l’allora presidente
aveva persino promesso agli operai
che sarebbe venuto in viaggio di nozze, con Carla Bruni, in questo luogo
triste della Mosella, e i lavoratori si
erano a giusto titolo sentiti presi in giro, al punto che hanno messo una lapide di marmo, come tomba delle
«promesse di Sarkozy»). L’altoforno
di Dunkerque, che avrebbe dovuto
riaprire dopo una fase di lavori, è ancora fermo. E Florange chiuderà a dicembre. Le relazioni tra Lakshimi Mittal e i governi francesi sono tese da
sempre. Anche con la destra al potere c’erano stati scontri. La popolazione della Lorena, regione di deindustrializzazione, alle presidenziali ha
creduto a Hollande, che ha fatto delle
promesse ed è arrivato in testa al primo turno con più del 30% dei voti.
Ma subito dietro, è Marine Le Pen ha
sfiorato il 26%, a riprova che una fetta della popolazione ha già ceduto alla disperazione.
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il manifesto
MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012
EURO CRACK
IL VOLTO DEL PRESIDENTE MAS ACCIGLIATO DOPO I RISULTATI/REUTERS
VOTO IN CATALOGNA · No all’indipendentismo di Mas
CiU ferma a 50 seggi,
12 in meno che nel 2010
BRUXELLES · Il debito greco contrappone i paesi ricchi all’Fmi che vuole «rinegoziare»
Luca Tancredi Barone
L’impossibile solidarietà
N
Incertezza fino a tarda
sera, ieri, sul destino
del debito di Atene.
I ministri delle finanze
della zona euro in
disaccordo con
Christine Lagarde
Anna Maria Merlo
PARIGI
I
ncertezza fino a tarda sera, ieri, sul
destino del debito greco. I ministri
delle finanze della zona euro si sono riuniti con la direttrice generale dell’Fmi, Christine Lagarde, per la terza
volta in due settimane, per cercare di
trovare una soluzione. Il tempo stringe:
il versamento dell’ultima tranche di
aiuti ad Atene – tra i 31 e i 44 miliardi di
euro – è congelato da mesi e a dicembre la Grecia sarà asfissiata se non arriva il finanziamento.
Sul tavolo sempre le stesse divisioni:
l’Fmi chiede un hair cut del debito contratto con gli stati, come è avvenuto nella primavera scorsa con i creditori privati, che hanno accettato un taglio del
53% e una perdita di più di 100 miliardi. L’Fmi è pronto a ritirarsi dal programma greco, perché non intende cedere sui tempi, che impongono ad Atene di riportare la percentuale del debito al 120% del pil entro il 2020 (nel 2015
rischia di salire al 200% se non si fa nulla). Ma i paesi creditori, in particolare
le nazioni che conservano il rating
AAA, non ne vogliono sapere: tedeschi,
olandesi, finlandesi, ma anche lussemburghesi e austriaci, non hanno nessuna intenzione di fare dei regali. Allo studio ci sono altre misure, considerate
meno efficaci dall’Fmi, ma ritenute meno dolorose di un hair cut dai paesi creditori.
Un deputato della Cdu, il partito di
Angela Merkel, ha cosi’ riassunto le riserve tedesche: 1) costa soldi; 2) significherebbe mandare un segnale disastroso agli altri paesi sotto tutela, Irlanda,
Portogallo e, in futuro, Spagna (va ag-
giunta anche Cipro, che ha ormai chiesto aiuto per salvare le proprie banche); 3)una ristrutturazione del debito
greco avrebbe effetti negative sulle regole di bilancio. Berlino ha fatto sapere, prima della riunione dei ministri,
che non è possibile accettare un hair
cut “per ragioni giuridiche”, che riguardano sia il diritto tedesco che l’articolo
125 del trattato che regge la Ue e che
esclude esplicitamente che uno stato si
assuma il carico del debito di altri paesi. Anche negli statuti della Bce c’è un
chiaro freno, ma Francoforte potrebbe
accettare di retrocedere ai governi i
guadagni realizzati sui titoli greci e propone un roll over, cioè che vengano sottoscritti nuovi prestiti a misura che arrivano a scadenza i vecchi.
Altre ipotesi allo studio: un ribasso
dei tassi di interesse che paga la Grecia
(ma qui non c’è accordo, l’Italia e la
Francia sono più generose, la Germania più severa) e dare la possibilità ad
Atene di ricomprarsi parte del suo debito a prezzi stracciati.
Inoltre, un’altra proposta è rimandare di dieci anni il pagamento dei tassi
di interesse dovuti al Fesf (il fondo salva-stati), che significherebbe un risparmio per la Grecia di 40 miliardi, un ribasso di circa il 17% del peso del debito, a cui si aggiungerebbe un meno
SOPRA, PROTESTE A
BRUXELLES.
SOTTO, IL VERTICE
EUROGRUPPO DI IERI
/FOTO REUTERS
4,6% per l’intervento della Bce. Fmi e
Ue non sono d’accordo sulla data-limite del rientro del debito greco al 120%
del pil: per l’istituzione internazionale
deve restare il 2020, mentre l’Europa
pensa di dare due anni di più ad Atene,
fino al 2022. Nel fine settimana, ci sono
stati molti scambi tra ministri. Pierre
Moscovici, il responsabile delle finanze
francese, era moderatamente ottimista
e ha affermato che una soluzione era vicina. Ma la Germania tiene duro. Il governatore della Bundesbank ha affermato che la Grecia “potrà guadagnarsi” una ristrutturazione del debito, a termine, solo se darà prova di aver messo
in atto l’austerità richiesta. Per Olli
Rehn, commissario agli affari monetari, pero’ “la Grecia ha fatto quello che
doveva, adesso tocca all’Eurogruppo e
all’Fmi”.
Intanto, ieri è stato approvato un piano di aiuti per le banche spagnole di 37
miliardi di euro. E alla testa della Bank
of England, nel giugno 2013, a sostituire Mervyn King il governo Cameron ha
nominato un outsider, l’ex governatore
della banca centrale del Canada, Mark
Carney, 47 anni, che ha la caratteristica
di essere un ex di Goldman Sachs.
GERMANIA · 14 morti in centro Caritas
Anche in un'istituzione CHE AIUTA i disabili a integrarsi, promossa dal
welfare più ricco del mondo, una sciagura sul lavoro può fare strage.
Quattordici persone sono morte, e molte altre, ferite o intossicate dal
fumo, sono ricoverate in condizioni serie, dopo l'incendio che ieri ha devastato la fabbrica della Caritas a Titisee-Neustadt, non lontano dalla
ricca ed ecologica Friburgo, dove 120 disabili da decenni lavorano solo
su base volontaria producendo manufatti in legno o apparati elettrici in
cambio di retribuzioni contrattuali. Tra i 14 morti alcuni sono lavoratori
volontari disabili, altri assistenti sociali o infermieri di solito presenti nella
struttura in permanenza per assisterli. E il numero delle vittime potrebbe
salire. "Purtroppo in una situazione del genere è comprensibile e insieme
tragico che le vittime siano persone più portate di altre a reagire col panico a un simile incidente", ha detto agli inviati delle televisioni il responsabile dei pompieri accorsi in forza sul posto, Alexander Widmaier. Al momento in cui l'incendio è scoppiato, ha aggiunto, almeno centoventi persone erano presenti nell'edificio, tra disabili lavoratori volontari e assistenti. Winfried Kretschmann, il neoeletto governatore verde del BadenWuerttemberg (lo Stato del sudovest, uno dei due più ricchi del paese) è
accorso immediatamente sul luogo della sciagura. Le indagini sulle possibili cause vanno avanti a ritmo serrato.
BARCELLONA
iente Itaca per Artur Mas. Il
president della Generalitat catalana uscente campeggiava
nei cartelli elettorali di Convergència i
Unió (CiU) che tappezzavano tutte le
città grandi e piccole della Catalogna
in posa messianica: «La voluntat d’un
poble». E il popolo ha parlato, forte e
chiaro. Mai così forte e mai così chiaro: la partecipazione ha sfiorato 70%
degli aventi diritto, un record nella storia della Catalogna post franchista,
ben dieci punti percentuali in più delle ultime elezioni autonomiche del
2010. I cinquecentomila elettori in più
hanno fatto la differenza. Contro tutti
i pronostici, CiU è rimasta inchiodata
a 50 seggi, ben 12 meno che nel 2010,
perdendo quasi centomila voti. I sondaggi si sono dimostrati completamente sballati anche per quanto riguarda il partito socialista catalano,
che con 14.4% e 20 seggi (ne aveva 28)
ha raccolto il peggior risultato della
sua storia ma miracolosamente rimane al secondo posto. Il partito storicamente più importante dell’autonomismo di sinistra, Esquerra Republicana
de Catalunya (Erc), che veniva da 10
miseri seggi, ha raccolto 21 seggi
(13.7%), un risultato ben più roseo di
quanto atteso dallo storico Oriol Junqueras che guida la formazione da poco più di un anno. Se l’aspettativa era
quella di fornire una gamba d’appoggio a CiU nel cammino autonomista,
ieri Junqueras ha messo in chiaro che
non entrerà nel governo e che per dare l’appoggio esterno a Mas esige contropartite molto pesanti: e il referendum per l’autodeterminazione che ha
occupato la campagna elettorale di
quasi tutti i partiti è solo il boccone
meno amaro per Mas. Per il resto,
inorgoglita, Erc chiede una fiscalità
più giusta. “CiU è più debole, ma il
processo per l’indipendenza oggi è
più forte e più plurale”, ha dichiarato.
Chi pensa che gli elettori catalani
abbiano punito i tagli sociali però si
sbaglia: il Pp ha ottenuto il suo miglior
risultato: con 19 seggi (+1 rispetto al
2010) e il 13% di voti (+85mila voti),
Alicia Sánchez Camacho può finalmente permettersi di dire che sono i
socialisti ormai a essere “residuali”
(storicamente, lo sono sempre stati i
popolari in questa regione dalla tradizione antifranchista), anche se sembra chiaro che stavolta CiU non scenderà a patti con loro come nella prece-
dente breve legislatura. Il partito di sinistra e verde Icv, come nelle attese, è
cresciuto fino a 13 seggi (+ 3 seggi),
sfiorando il 10% dei voti. Ma le due
sorprese più grandi arrivano da due
partiti presenti solo nel parlament di
Barcellona: la formazione Ciutadans
(Cittadini) il cui punto centrale del
programma è il centralismo antiautonomista (con qualche punta razzista)
ha triplicato la sua rappresentazione
arrivando a ben 9 seggi (7.6% dei voti)
e gli indipendentisti-movimentisti della Cup (Candidatura d’Unitat Popular) entrano alla grande con 3 seggi e
126mila voti. Unico partito a celebrare in un centro occupato i risultati invece che in un lussuoso hotel, nel collegamento televisivo con la principale
televisione catalana Tv3, il suo portavoce e capolista David Fernández, ha
salutato in diretta, nell’imbarazzo dell’intervistatore, i lavoratori in sciopero
della catena televisiva e ha annunciato che la Cup sarà il “cavallo di Troia
che arriva per disobbedire alla paura,
alzare i tappeti e portare il paese reale
nei palazzi del potere”. I razzisti della
L’autonomismo
di sinistra di Esquerra
Republicana
de Catalunya, conquista
21 seggi (13.7%)
Piattaforma per Catalunya (PxC) rimangono fuori con l’1.65%.
Il parlamento catalano si conferma
così il più plurale di tutta la Spagna:
135 seggi per ben sette partiti. Di questi, 28 seggi (gli “spagnolisti” Pp + Ciudadans) sono contrati all’indipendenza, a cui si aggiungono i 20 seggi socialisti, che almeno sulla carta si battono
per il federalismo (ma contro l’indipendenza). I tre partiti insieme non sono sufficienti per bloccare le future iniziative autonomiste del Parlament,
ma rappresentano insieme quasi il
40% dei catalani. Troppi per poter essere ignorati se si dovesse celebrare
l’agognato referendum. Per un Mas
molto ridimensionato si prospetta
una legislatura ancora più difficile della precedente. La scommessa delle elezioni anticipate non ha funzionato e
forse si accorgerà che è più difficile
scendere a patti coi “partiti catalani”
che con un partito “spagnolo” come il
Pp. O forse no. I prossimi anni in Catalogna saranno interessanti.
il manifesto
MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012
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INTERNAZIONALE
EGITTO · Oggi due cortei al Cairo. 2 morti e 500 feriti in cinque giorni di scontri
I «Fratelli» contro tutti
IL CAIRO, LA PROTESTA DI PIAZZA TAHRIR IERI/FOTO REUTERS
Giuseppe Acconcia
D
ue funerali a distanza sono il
segno di un Egitto spaccato.
Da una parte, è sfilata in piazza Tahrir la bara di Salah Gaber, attivista di 6 aprile, 17 anni, ucciso a freddo nei pressi del ministero dell’interno. La scena ricordava i funerali di alcuni attivisti uccisi in via Mohammed Mahmoud e divenuti il simbolo
degli attacchi dei cecchini di un anno
fa. Dall’altra parte, a Damanhour nel
Delta del Nilo, centinaia di persone
hanno sfilato con la bara di Islam
Sayed Fathi, attivista dei Fratelli musulmani, appena 15 anni, ucciso domenica notte nell’assalto alla sede
del partito Libertà e giustizia. La scorsa domenica, 1500 esponenti dei Fratelli musulmani avevano organizzato
una manifestazione a sostegno della
Fratellanza nella città, roccaforte dei
Fratelli musulmani, di Damanhour,
intorno alla sede del partito Libertà e
giustizia. E lo scontro tra sostenitori e
oppositori di Morsi è scoppiato il giorno seguente, provocando la morte
del giovane Fathi. «È un nostro martire», si leggeva ieri sulle pagine del sito
I contadini del Delta
contestano Morsi.
Oggi due cortei al
Cairo. Ma l’accordo
non è impossibile
della Fratellanza, Ikhwanonline. Particolarmente duri sono stati gli incidenti nella città delle fabbriche tessili di
Tanta. Attivisti hanno accusato i Fratelli musulmani di aver ferito otto giovani e di aver lanciato lacrimogeni.
Ma gli islamisti moderati denunciano lo stesso tipo di attacchi contro
propri sostenitori. Molti degli attivisti
che manifestano nel Delta del Nilo accusano Morsi di fare solo propaganda. Il presidente egiziano aveva infatti annunciato la cancellazione dei debiti di contadini e proprietari terrieri,
inferiori a 10 mila lire egiziane (1200
euro). Secondo molti contadini, sono
stati invece cancellati solo gli interessi sui prestiti e le agevolazioni hanno
interessato pochissime persone in
ogni villaggio.
Sono invece oltre 500 i feriti dopo
cinque giorni di manifestazioni nel
centro del Cairo. E per questo pomeriggio sono previsti due cortei opposti: uno di magistrati, giornalisti e movimenti di opposizione, che si dirigeranno verso piazza Tahrir, l’altro di
Fratelli musulmani e salafiti, che saranno diretti verso piazza Abdin, dove sorge il palazzo del re Farouk e ora
un museo militare. Se le prime manifestazioni della scorsa settimana ricordavano i morti e la costruzione
delle mura intorno ai palazzi delle istituzioni pubbliche di un anno fa, la dichiarazione costituzionale temporanea emessa giovedì scorso dal presidente egiziano Mohammed Morsi,
che ha esteso senza possibilità di appello i suoi poteri, ha esacerbato lo
scontro con movimenti secolari.
Ieri il ministro della giustizia, Ahmed Mekky, incaricato di risolvere la
crisi politica tra giudici e presidenza
della repubblica, ha lanciato messaggi positivi per la conclusione del contenzioso. Sebbene non abbia mai accusato direttamente il presidente
Morsi, Mekky ha appoggiato la dichiarazione del Consiglio supremo della
magistratura in cui il decreto presidenziale viene aspramente criticato.
Tuttavia, l’Associazione nazionale
dei magistrati ha espresso «riserve»
sull’incontro di ieri e sui suoi possibili esiti. Mentre, il tribunale del Cairo
ha annunciato che esaminerà a partire dal 4 dicembre prossimo circa 60 ricorsi presentati contro il decreto Morsi. Contro la dichiarazione, che accresce i poteri del presidente, ha presentato ricorso anche il presidente dell’associazione dei giudici, Ahmed elZend. Non solo, oltre 180 diplomatici
egiziani hanno scritto una lettera al
ministro degli esteri, Kamel Amr, per
esprimere la loro contrarietà alle decisioni del presidente. «La rivoluzione
mirava a instaurare il diritto civile, rafforzare i valori della democrazia e delle istituzioni, liberandosi della corruzione. Andare contro questi obiettivi
significa tradire la rivoluzione», scrivono i diplomatici nella lettera di protesta.
In questo clima, proseguono gli incontri dell’intelligence militare egiziana con esponenti di Hamas e del governo israeliano per definire i termine della riapertura dei quattro valichi
commerciali di Rafah dopo la tregua
siglata al Cairo lo scorso giovedì. Infine, alcuni esponenti salafiti hanno denunciato che questo clima di spaccatura e esasperazione nel paese potrebbe riportare il terrorismo di matrice islamica, che negli anni ottanta e
novanta ha insanguinato l’Egitto.
MEDIO ORIENTE · E dopo i raid su Gaza, Hamas si spacca sulla Palestina all’Onu
Oggi riesumata la salma di Arafat,
dopo il polonio trovato nei suoi vestiti
sta, fu protagonista 12 anni fa del drammatico fallimento a Camp David (era
presidente americano Bill Clinton) delle
trattative per quella che a quel tempo
era nota come la «soluzione definitiva»
del conflitto israelo-palestinese, sulla base degli Accordi di pace di Oslo, firmati
mina a ministro della difesa dell’attuale
ministro degli esteri Lieberman. Dopo
le legislative israeliane del prossimo 22
a strana morte di Yasser Arafat,
gennaio Netanyahu sarà ancora primo
uno dei più grandi misteri del Meministro (lo dicono tutti i sondaggi) di
dio Oriente, potrebbe cominciare
un governo «di guerra» (all’Iran). Lieberad avere una soluzione a partire da oggi
man, un ultranazionalista di destra, da
con l’esumazione della salma del
parte sua non nasconde di volere
presidente palestinese, deceduto
la difesa in vista dell’attacco israein un ospedale francese nel noliano alle centrali atomiche iraniavembre 2004, che sarà esaminata
ne di cui si parla da mesi se non
da team di specialisti provenienti
da anni. Netanyahu quindi potrebda Francia, Svizzera e Russia. Un
be optare per un ministro degli
mistero in effetti non lo è mai staesteri con una immagine più moto per i palestinesi che, un po’ tutderata da spendere all’estero.
ti, pensano che «Abu Ammar» (il
Intanto, a pochi giorni dalla finome di battaglia di Arafat) sia stane dell’offensiva militare israeliato avvelenato da collaborazionisti
na “Colonna di Difesa” contro Gadi Israele. Gli esperti - quelli franza, il movimento islamico Hamas
cesi sono stati nominati dopo una
sembra spaccarsi sulla richiesta di
denuncia alla Procura di Parigi deladesione dello Stato di Palestina
la vedova di Arafat, Suha Tawill (come non membro-osservatore)
RAMALLAH, YASSER ARAFAT ANCORA VIVO ALLA MUQATA/REUTERS
andranno a caccia di tracce di poche il 29 novembre il presidente di
lonio, sostanza altamente pericolosa trosette anni prima alla Casa Bianca. L’ex
Olp e Anp Abu Mazen presenterà alvata lo scorso agosto su indumenti e ogpremier israeliano ordinò una dura rel’Onu. Se da un lato il leader uscente,
getti appartenuti al leader palestinese.
pressione della seconda Intifada palestiKhaled Meshaal, si dice favorevole alLa riesumazione della salma di Arafat
nese nei pochi mesi nei quali rimase anl’iniziativa, dall’altro molti dirigenti di
giunge mentre un alto esponente delcora al potere fino alla pesante confitta
Hamas a Gaza, tra cui il premier Ismail
l’establishment israeliano, il ministro
elettorale che, all’inizio del 2001, vide
Haniyeh, si dicono contrari. La frattura
della difesa Ehud Barak, che nel 2000 lel’ascesa della destra di Ariel Sharon.
sullo «Stato» segue i passi dei giorni scorgò il suo nome a quello del presidente
L’improvvisa uscita dalla scena politica
si di Abu Mazen, Fatah, e di Hamas stespalestinese scomparso, annuncia il suo
di Barak – frutto anche di contrasti perso verso una possibile riconciliazione
inatteso abbandono della politica. Basonali con il premier Netanyahu – apre
nazionale, con l’annuncio della scarcerak, in qualità di primo ministro laburila strada, con ogni probabilità, alla norazione reciproca di prigionieri politici.
Michele Giorgio
GERUSALEMME
L
MILIZIANI AD ALEPPO/REUTERS
SIRIA · «Cluster bomb su un parco giochi»
Gli insorti accusano:
uccisi dieci bambini
S
ono davvero inquietanti le
immagini diffuse ieri su internet, ma di provenienza
non verificabile, di dieci bambini
piccoli, rimasti uccisi, in seguito
ad un attacco ad un parco giochi
del villaggio di Deir al-Asafir, a est
di Damasco, in cui sarebbero state usate bombe a grappolo. Gli ordigni sarebbero stati lanciati da
un aereo da combattimento Mig
dell’esercito regolare siriano. In
una delle abitazioni colpite, si vedono le salme di due bambini uccise e alcuni feriti adulti, tra cui almeno una donna. Otto delle vittime sarebbero state identificate:
tra loro tre fratelli e il padre Ahmad.
Nel filmato si mostrano altre
bombe a grappolo inesplose nei
campi agricoli vicino alle case colpite. Ma i media siriani non dan-
no nessuna notizia dell’accaduto.
Secondo gli insorti, sono state 117
le vittime delle violenze ieri in Siria, tra cui 14 bambini. Human Rights Watch punta il dito contro il
governo di Bashar al-Assad. Negli
ultimi mesi, si sono moltiplicati i
video in cui bombe a grappolo
vengono lanciate in Siria, in particolare intorno alla città di Maarat
al-Numan. Il governo siriano ha ribadito, tuttavia, di non avere accesso a questo tipo di armamenti
e ha definito le accuse degli insorti
prive di fondamento.
Ma i ribelli sembrano guadagnare posizioni. Gli insorti siriani hanno dichiarato domenica scorsa di
aver preso la base militare di Seir
al-Asafir. Non esistono però conferme su questa rivendicazione.
Tuttavia, gli insorti controllano alcuni quartieri a est e nord-est di
Damasco. Non solo, avrebbero
conquistato le basi militari di Mayadeen e Deir Ezzor.
D’altro canto, l’esercito regolare siriano ha bombardato un quartier generale di ribelli nel nord della Siria, nella città di Atma, a poca
distanza dal confine con la Turchia. Mentre, in una nota, lo stato
maggiore turco ha ribadito la richiesta alla Nato di dispiegamento di Patriot nei cieli del nord della
Siria. Secondo il governo turco, il
dislocamento, che dovrebbe essere avviato a metà dicembre e aprirebbe la strada alla formazione di
un’area cuscinetto tra i due paesi,
avrà uno scopo «puramente difensivo, contro una possibile minaccia» e non servirà ad «operazioni
offensive». Intanto migliaia di civili siriani sono fuggiti ieri da un
campo profughi improvvisato a ridosso del confine con la Turchia
dopo che la zona è stata bersaglio
dei raid dell’esercito siriano.
Infine, il primo ministro russo,
Dimitry Medvedev, ha duramente
criticato la decisione dei governi
inglese e francese di riconoscere
la coalizione dell’opposizione siriana, come unico rappresentante
del popolo siriano. «Dal punto di
vista del diritto internazionale, è
assolutamente inaccettabile il desiderio di cambiare il regime politco di un altro stato riconoscendo
una forza politica come la sola rappresentante della sovranità», ha
detto Medvedev. Infine, secondo
l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), il
numero di rifugiati siriani registrati o in attesa di registrazione ha
toccato le 442.000 unità mentre oltre due milioni sarebbero gli sfollati o i profughi interni.
Giu. Acc.
Afghanistan/ E FRANCIA E DANIMARCA SE NE VANNO
L’Italia latita sul ritiro dalla guerra
delle «nostre» truppe della Nato
Giuliano Battiston
KABUL
S
ull'Afghanistan, governo e parlamento italiani continuano a latitare. Lo fanno sue due
questioni diverse, ma entrambe fondamentali. La prima ha a che fare con quanto avvenuto qui a
Kabul pochi giorni fa, quando il governo Karzai ha
ripreso le esecuzioni capitali, impiccando 14 detenuti (tra cui 4 accusati di far parte della galassia talebana). Al di là della dichiarazione opportunistica
dei seguaci del mullah Omar, che hanno chiesto il
rispetto dei diritti umani, rimane la questione di
fondo: la contraddizione tra gli obiettivi che staremmo perseguendo nel paese centro-asiatico e la realtà sul campo. La retorica recita che il blocco politico euroatlantico e il suo braccio armato, la Nato, sono in Afghanistan per promuovere lo stato
di diritto, consolidare le istituzioni democratiche, favorire
la ricostruzione del paese,
combattere quanti a questo
progetto si oppongono. I fatti,
però, raccontano un'altra storia: quella di un paese con un
governo non solo corrotto, parassitario e inefficiente, ma capace di adottare pratiche simili a quelle dei «turbanti neri». Politicamente, il silenzio del governo italiano sulle impiccagioni
di Kabul è un'abdicazione di responsabilità, ma è
fin troppo comprensibile, perché legato alla seconda questione su cui l'Italia è latitante; il governo
non fa che assecondare il fisiologico disinteresse
dell'opinione pubblica per passare sotto silenzio le
sue scelte (o mancate scelte) future: che tipo di sostegno intende dare all'Afghanistan dopo il ritiro
dei soldati, previsto nel 2014? Come avverrà il ritiro?
Secondo quale agenda? Quanto costerà? Soprattutto, qual è l'esito dell'occupazione del paese?
Anche se urgenti, su tutte queste questioni ci sono ancora reticenze e ambiguità. Non basta citare
l'accordo di partenariato tra Italia e Afghanistan approvato poche settimane fa da Camera e Senato,
perché è talmente evasivo da promettere molto senza assicurare nulla. E 1e rassicurazioni del presidente del Consiglio Monti, che nel corso della sua ultima visita in Afghanistan ha promesso che l'Italia invertirà il rapporto tra «aiuto» militare e aiuto civile,
sono altrettanto fumose. Prima che l’Afghanistan
scompaia dai radar della comunità internazionale –
ha chiesto una delegazione della società civile invitata a Roma dal network «Afgana» (di cui chi scrive
fa parte) - è responsabilità di ogni governo far conoscere ai propri cittadini e alla popolazione afghana
l'agenda del ritiro e gli impegni finanziari futuri.
L’Italia, lo si è detto, latita. Altri governi meno. La
Francia sta già attuando il ritiro, ben prima del 2014
dunque, e Hollande sa bene che i soldati costa man-
tenerli, ma anche ritirarli: il 21 novembre ha firmato con il presidente kazako Nazarbayev un accordo
che prevede facilitazioni per il passaggio di uomini
e mezzi sul suolo kazako. Due giorni fa Christian Friis Bach, il ministro danese per la Cooperazione allo
Sviluppo, visitando Kabul e la provincia di Balk, ha
assicurato 100 milioni di euro per la cooperazione
dal 2013 al 2017, dando seguito all'impegno assunto a Tokyo, alla conferenza dei donatori di luglio.
Molti paesi hanno quindi capito che è tempo di
tirare le somme: sui risultati ottenuti con più di dieci anni di guerra, sul modo in cui la si vuole concludere, su ciò che ci lasceremo alle spalle e su ciò per
cui ci impegniamo nel futuro. Su questo, Mosca
sembra essere la più decisa: pur facilitando alcune
operazioni militari, l'orso russo ha sempre criticato apertamente la strategia della Nato
in Afghanistan, tanto da puntare i piedi al summit di Chicago dello scorso maggio. Giovedì a entrare a gamba tesa è stato Nikolai Patrushev, il segretario del Consiglio di sicurezza russo, che in un incontro a
San Pietroburgo è andato dritto al punto, chiedendo alle forze Isaf-Nato di presentare un
dettagliato rapporto alle Nazioni Unite sulla situazione attuale e sui piani futuri: la Russia – ha commentato Patrushev - «non ha ancora informazioni
su quali forze armate verranno ritirate, quante truppe resteranno e quanto a lungo, e quali basi militari
verranno mantenute». Dietro la staffilata di Patrushev c'è il tentativo di costringere gli americani a
mostrare le carte. Dal 15 novembre infatti Kabul e
Washington hanno ripreso a sedersi al tavolo negoziale. In ballo ci sono questioni fondamentali (escluse dall'accordo di partenariato firmato a maggio):
quanti soldati a stelle e strisce resteranno dopo il
2014; quale status giuridico avranno; se e quali basi
americane verranno mantenute. Secondo un funzionario americano che ha parlato in forma anonima al Wall Street Journal, rimarranno circa 10000
soldati statunitensi (ora sono 67000), in linea con le
indicazioni del generale John Allen, che proponeva
un contingente tra i 6 e i 15000 uomini.
Per ora le posizioni rimangono comunque distanti. Karzai chiede che i soldati americani non godano
dell'immunità, mentre Obama non può permetterlo. A rendere le cose più difficili, rimane il contenzioso sui detenuti nel carcere di Bagram, la base militare americana a nord di Kabul: già a settembre la responsabilità di quei detenuti sarebbe dovuta passare in mano afghana, ma a comandare a Bagram sono ancora gli americani, a dispetto delle dichiarazioni degli ultimi giorni. Qui a Kabul molti provano a risolvere il rebus: come riprendere la sovranità di un
paese che è ancora del tutto dipendente dalla comunità internazionale, e sotto occupazione militare.
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il manifesto
MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012
REPORTAGE
INDIA / BANGLADESH
Viaggio a Bommanahalli, il distretto industriale specializzato
nel tessile alla periferia di Bangalore. Le lavoratrici raccontano
stipendi bassissimi, poco cibo, maltrattamenti e disagi fisici
Marina Forti
BANGALORE (INDIA)
I
cancelli della fabbrica si aprono alle
16,30 in punto, e le operaie cominciano a uscire a gruppetti. Molte sono
giovanissime, sembrano adolescenti. Si
avviano lungo la strada che costeggia altri capannoni e stabilimenti, verso casa o verso l’ostello aziendale. Bommanahalli è un distretto industriale alla periferia
di Bangalore, India meridionale, e sembra lontano mille miglia dai suburbi hitech che danno lustro internazionale a
questa città, gli istituti di ricerca, parchi
tecnologici e cittadelle informatiche. Anche questo però è un pezzo di economia
globalizzata, perché fabbriche e fabbrichette qui formano uno dei maggiori
«hub» dell’industria tessile e dell’abbigliamento del paese: e non è un settore da
poco, perché l’India risulta il terzo esportatore mondiale di tessili e sesto di abbigliamento, con i paesi europei e gli Stati
uniti come primi clienti.
Lasciamo la statale bordata di concessionarie di auto, officine, negozi di quasi
ogni possibile bene industriale, ferramenta, drogherie, telefonini, bancarelle.
Imboccare una strada bordata di capannoni e fabbriche. A volte sono piccole officine, stanzoni pieni di macchine da cucire. Altri sono grandi stabilimenti. Stradine laterali si addentrano nell’abitato,
denso, case basse di cui ogni famiglia occupa una stanza aperta su un ballatoio,
piccoli negozi, qua e là mucchi di spazzatura su cui rumina placida una mucca. O
dormitori come quello verso cui si dirigono le donne appena uscite dalla Shahi,
unità 14: più presto del solito, spiegano,
perché è domenica e per gentile concessione dell’azienda oggi non hanno fatto
straordinari.
Sono restìe a fermarsi, ci sono sempre
i sorveglianti in giro e loro hanno istruzione di non parlare con sindacalisti, ispettori e altri estranei. Ma siamo distanti dal
cancelli e alla fine il desiderio di parlare
prevale. Gayatri, poco meno che ventenne viene da una cittadina rurale di questo stato, il Karnataka, e prende 4.000 rupie al mese (circa 62 euro). Alloggia nel
dormitorio aziendale, manda soldi a casa, ha due o tre giorni di permesso ogni
due mesi; altrimenti lavora 7 giorni su
sette, come tutte. Ha un bel sorriso vivace e azzarda qualche frase in inglese: prima di andare in fabbrica era andata a
scuola, ma in famiglia serviva il suo reddito. Altre vengono da più lontano, dai confinanti stati di Tamil Nadu a sud, Madhya Pradesh a nord. Donne più grandi,
con figli e famiglia, prendono 4.500 rupie
di salario mensile, e metà vanno per l’affitto di casa. Bibi mostra il suo cartellino
di riconoscimento aziendale: c’è scritto
helper, aiutante, cioè operaia non qualificata; lei però è una stiratrice e le spetterebbero quasi duemila rupie di più al mese. E sarebbe ancora un salario da fame,
dice: «L’affitto della stanza aumenta ogni
pochi mesi, anche il cibo continua a rincarare, solo i salari sono fermi».
L’incubo in un vestit
METODO SUMANGALI
Quelle apprendiste
per la schiavitù
Un sistema di avviamento al lavoro tutto speciale è quello chiamato Sumangali, diffuso nelle campagne del Tamil Nadu. Reclutatori girano a cercare adolescenti,
spesso dalit (fuoricasta), o native, o comunque di famiglie di
contadini senza terra. Propongono loro contratti di tre anni, vitto
e alloggio, una piccola somma
mensile e poi 35 mila rupie alla
scadenza. Sembra una cifra pazzesca a chi fatica a sfamarsi. E le
ragazze partono. «Ero molto contenta di andare in fabbrica», ha
spiegato Sudha al Tribunale popolare di Bangalore: «Era il mio
sogno, lasciare il villaggio e guadagnare dei soldi». Thulasi era
contenta «perché toglievo un peso alla famiglia» e poi avrebbe
fatto studiare il fratello. In pochi
giorni entrambe hanno capito
che le promesse erano false. È
contrabbandato come un modo
per racimolare una dote, ma è un
sistema semi schiavistico mascherato sotto contratti per «apprendiste».
ASIA FLOOR WAGE CAMPAIGN · L’iniziativa della «campagna per un salario decente in Asia» lanciata dai sindacati
Nascono i tribunali popolari. In Sri Lanka, Cambogia e India
S
i chiama supply chain, catena dell’offerta globale: a un estremo le marche di abbigliamento, spesso molto note nei paesi occidentali. All’altro i produttori di quegli
abiti e tessuti. I proprietari della marca non
producono: commissionano la produzione ad
aziende tessili sparse nel Sud del mondo.
La maggiore concentrazione di produttori è
in Asia: Cina, Bangladesh, India, Sri Lanka, Indonesia, Pakistan, Cambogia. Il settore occupa decine di milioni di persone: ma nell’abbigliamento abbonda l’attività informale, non dichiarata. E far parte di una catena globale non
migliora certo le condizioni di lavoro, spiegano i sindacalisti che in India hanno promosso
la Asia Floor Wage Campaign, «campagna per
un salario decente in Asia (vi aderisce una set-
tantina di organizzazioni in Asia meridionale
e sud-orientale, Europa e nord America, più la
Clean Clothes Campaign, rete internazionale
per fare «pulizia» in questa industria). Il ragionamento è semplice: la competizione è fortissima e le aziende produttrici si fanno concorrenza offrendo ai «compratori» prezzi migliori; per questo tagliano sui salari e aumentano i
ritmi di lavoro. «I diritti del lavoro sono i più
minacciati nel mondo contemporaneo», dicono questi sindacalisti, la flessibilità ha vinto
sulla tutela del lavoro: «La paura più grande di
ogni paese in via di sviluppo è perdere la gara
ad aggiudicarsi gli investimenti stranieri: così
creano "zone economiche speciali" senza diritti per i lavoratori, ti dicono che non si può alzare i salari altrimenti gli investitori scappa-
no». Eppure, i lavoratori di tessile e abbigliamento sono una forza: e se si unissero, in tutta
l’Asia, per imporre un salario decente? Living
wage, lo chiamano: non salario minimo, ma
uno che permetta ai lavoratori di soddisfare il
diritto umano a una vita degna.
Da questa campagna è nato il «Tribunale
popolare sul salario decente come diritto fondamentale dei lavoratori dell’abbigliamento
in India», su petizione di una ventina di organizzazioni sindacali tra cui la Asia Floor Wage
Campaign. Segue simili tribunali tenuti in Sri
Lanka e in Cambogia, e porterà a un appuntamento internazionale nella tradizione del Tribunale permanente dei popoli avviato da Lelio Basso. Il tribunale tenuto a Bangalore dal
23 al 25 novembre era presieduto infatti da
Gianni Tognoni, segretario generale del tribunale permanente dei popoli; nella «giuria»
l’economista Utsa Patnaik, la giurista Hemlatha Mahishi, la sociologa Mary E. John, l’esperto dell’Organizzazione internazionale del lavoro Coen Kompier, e chi scrive. Il verdetto? In
estrema sintesi, abbiamo gudicato che nell’industria tessile prevale una situazione di grave
e sistematica violazione dei diritti umani individuali e collettivi, pur sanciti dalla Costituzione indiana e da una buona legislazione sul lavoro.
Che questo rimanda alle responsabilità le autorità pubbliche. E che in barba ai loro codici di condotta volontari, le marche internazionali sono
complici della violazione dei diritti dei lavoratori:
a cominciare dal diritto fondamentale a un salario decente, un living wage.
ma. fo.
Visito Bommanahalli dopo aver partecipato a un «Tribunale popolare nazionale sul giusto salario come diritto fondamentale dei lavoratori dell’industria dell’abbigliamento», che per tre giorni ha
riunito a Bangalore dirigenti e attivisti
sindacali e di altre organizzazioni popolari, esperti, giuristi, accademici (vedi qui
accanto). Soprattutto, ad affollare l’accogliente salone di un vecchio centro culturale nel cuore della città c’erano decine
di lavoratrici e lavoratori venuti dai maggiori centri industriali indiani: da Gurgaon, una delle «new town» sorte attorno a
New Delhi; da Tiruppur, cittadina del meridionale Tamil Nadu che nessuno sentirà mai citare ma è il più grande hub del
tessile indiano, oltre che da qui, Bommanahalli. Un’assemblea multilingue con
traduzione simultanea da e in hindi, kannada, tamil. Le loro testimonianze sono
state l’elemento chiave del «tribunale popolare».
«Lavoriamo trattati come bestiame»
Testimonianze impressionanti, perché hanno descritto un livello di sfruttamento che ricorda i primi tempi della rivoluzione industriale. I salari da fame appena citati sono comuni: pochi arrivano
a 5.000 o 5.500 rupie, l’equivalente di 80,
85 euro. Non si dica che la somma va riferita al potere d’acquisto locale: «Dopo
aver pagato l’affitto, il latte per i bambini,
l’elettricità, l’acqua non resta nulla. Spesso devo chiedere prestiti» ha spiegato
Rehana Basu, operaia di BommanahalliBangalore. Se qualcuno si ammala è la fine. Sakamma, operaia a Bangalore, quando esce dalla fabbrica va a fare la domestica per un paio d’ore; altre sue colleghe
per arrangiarsi «preparano papad (frittelle vendute per strada, ndr), fanno lavoretti di cucito, ghirlande di fiori, arrotolano
bidi», le sigarette indiane. Per loro la giornata comincia alle 4,30 o alle 5: preparare colazione e pranzo, ripulire casa, poi
la fabbrica, poi il lavoro extra, poi ancora
rigovernare casa. «Non ci possiamo permettere cibo nutriente, né i vestiti che cuciamo. Abbiamo continui problemi di salute, dolori all’utero, male alle ossa,
asma», dice Sakamma: «Quanto può sopportare una donna?».
Gli straordinari sono la norma: sia per
arrotondare il salario, sia perché rifiutarsi significa perdere il lavoro: «Se non ci
stai ti buttano fuori. L’azienda ci tratta come schiavi», dice furente un operaio di
Gurgaon, che passa spesso 12 ore in fabbrica. Tutti parlano di wage theft, furto
sul salario: trattenute arbitrarie, spesso
il manifesto
MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012
REPORTAGE
NELLE IMMAGINI GRANDI, IL DOLORE
PER LA MORTE DI UN OPERAIO
DEL SETTORE ABBIGLIAMENTO IN UN INCENDIO
NELLA FABBRICA DI SAVAR / FOTO REUTERS;
SOTTO, LA FABBRICA CHE HA PRESO FUOCO
A UTTAKA IN DHAKA, FOTO REUTERS
DHAKA · 124 le vittime della «fabbrica» andata a fuoco
Dopo la strage, in piazza
la protesta operaia e popolare
M
fretta abbastanza. Operaie e operai malmenati. Umiliazioni continue. E poi, ritorsioni verso coloro che accennano ad
attività sindacali, fino a mandare squadre di picchiatori a malmenare e intimidire chi alza la testa.
La finzione dei «codici di condotta»
to cucito
senza alcuna spiegazione, salari pagati in
ritardo, aumenti non riconosciuti. O il
trucco di non riconoscere la qualifica del
lavoratore. Gli straordinari andrebbero
pagati al doppio della paga oraria, ma è
rarissimo che avvenga.
Le testimonianze sembrano un solo
racconto a più voci. Un incubo comune
sono i target: «Ti dicono di cucire 80 pezzi in un’ora. Se ce la fai, l’ora successiva
te ne danno cento, poi 120, 150. Il target
aumenta sempre», ha detto Kammalamma, operaia a Bangalore. «Non c’è un singolo giorno in cui riesci a completare il
tuo target nelle otto ore regolari». Molte
sono arrivate al punto di saltare la pausa
pranzo, o di non bere acqua durante il
giorno così non dovranno andare alla toilette. Stessa pressione sugli operai di Gurgaon, che spesso restano in fabbrica fino
alle 23 o mezzanotte. Uno di loro, Aksay
Kumar, riassume: «Lavori come una macchina e ti senti una macchina».
Altri abusi emergono. Le molestie sessuali sono esperienza comune di molte
giovani donne. Maltrattamenti continui:
i capireparto urlano insulti a chi è indietro col lavoro, a chi arriva qualche minuto in ritardo, a chi chiede un giorno di
permesso. «Ci urlano: cane, animale. Ci
trattano come il bestiame». Donne lasciate in piedi per ore nel gabbiotto del capo
per punizione.
Capetti che tirano oggetti o pezze di
stoffa in faccia all’operaio che non si af-
Le testimonianze descrivono un lavoro sempre più precario. Le aziende assumono e buttano fuori secondo le commesse che ricevono. I contratti a termine
sono sempre più diffusi. O il lavoro senza
neppure un regolare contratto, e senza il
cartellino di riconoscimento: lavoratori
che non compaiono in nessun registro,
invisibili alle autorità. Senza contratto né
tesserina, quindi residenza, i migranti
non potranno accedere agli alimentari a
prezzo calmierato del sistema pubblico
di distribuzione, né rivendicare altri servizi. E tutti i poli industriali chiamano migranti: a Gurgaon (New Delhi) da tutta la
piana del Gange, a Bangalore da tutto il
centrosud. Di solito arrivano attraverso
intermediari, reclutatori che prendono
una percentuale dal lavoratore a cui procurano il posto e dall’azienda cui procurano manodopera.
Un «tribunale», benché popolare,
ascolta tutte le parti in causa. A quello di
Bangalore hanno accettato di partecipare i rappresentanti di H&M, marca nota
in nord Europa che fa confezionare i
suoi abiti in diversi paesi asiatici. Armati
di powerpoint, il magager per l’India Niklas Klingh e il responsabile per la «sostenibilità» Tobias Fisher hanno spiegato
che l’azienda ha 94mila dipendenti, ha
una rete di punti di vendita, ma non ha
fabbriche proprie: ha solo «fornitori». Se
le operaie della Sashi 14 hanno da ridire,
è con il loro padrone che devono prendersela. La H&M però ha un codice di
condotta ispirato ai principi dettati dall’Organizzazione internazionale del lavoro - e a suo credito va detto che è l’unica
tre le numerose aziende invitate, indiane
o multinazionali, che abbia accettato di
partecipare al confronto. Nel 2012
l’azienda scandinava ha fatto 250 ispezioni presso i suoi «fornitori», a sorpresa, e
ha constatato che il 97% si attiene alle
norme sul salario minimo.
Davanti ai cancelli della Sashi, «fornitore» di H&M, la dirigente sindacale che mi
accompagna spiega che questa azienda
si pretende il miglior datore di lavoro del
settore in tutta l’Asia: infatti i suoi salari
sono superiori (di un paio di rupie) a
quello minimo di legge, «che però segna
la soglia di povertà». Insomma, restano
salari da fame. I dirigenti scandinavi si
erano schermiti, quando a interrogarli sono state le operaie: noi controlliamo che
le regole locali siano applicate. Rehana
Begum non è convinta: «Macché, quando vengono i vostri ispettori in fabbrica
ripuliscono tutto, ci danno l’acqua da bere, sono gentili». Continua: «Noi vi diamo abiti ben fatti, buona qualità, e voi li
vendete bene, ma il nostro salario resta
cinquemila rupie: perché non potere dire ai padroni di pagarci meglio?».
igliaia di lavoratori hanno protestaLa fabbrica bruciata sabato notte, la Tazreto ieri nella zona industriale di
en Fashions, ha aperto i battenti nel maggio
Dakha, la capitale del Bangladesh.
2010, dichiara 1500 dipendenti e un fatturaChiedevano giustizia per le persone morte
to di 35 milioni di dollari l’anno.
nella notte tra sabato e domenica nello spaAl momento confeziona polo, magliette,
ventoso incendio che ha distrutto una fabbrifelpe, ed è un buon esempio di questo settoca di abbigliamento, un palazzone di 8 piani
re: produce abiti su commessa di numerose
dove non è ben chiaro quante persone fossemarche occidentali, tra cui Carrefour, C&A,
ro rinchiuse a fare gli straordinari. Tanto che
Gap, Kik e Walmart. Sono catene che servoil bilancio della trageno un mercato di
dia non è neppure
massa in europa e nechiaro: i pompieri
gli Stati uniti, e tengohanno alineato cenno i prezzi bassi proto cadaveri, avvolti
prio
imponendo
nei teli bianchi, là in
prezzi bassi ai loro
quel che resta della
«fornitori»: secondo
fabbrica; altre 12 perla rete internazionale
sone sono morte in
Clean Clothes Camospedale. Ma la stampaign, «Campagna
pa locale parla di 124
abiti puliti», che si
vittime. Ed è solo un
batte contro il superbilancio provvisorio
sfruttamento del laperché tra i feriti molvoro nell’industria
ti sono in condizioni
tessile globale, questi
gravi.
marchi non hanno
Oggi, martedì, il
fatto nulla per assicuBangladesh osserverarsi che i loro «fornirà una giornata di luttori» lavorino in conto ufficiale, per decidizioni di sicurezza.
sione del governo, e
Dunque sono correla bandiera nazionasponsabili della tragele sarà a mezz’asta.
dia. «Queste marche
Ma questo non ha
sanno da anni che
placato la rabbia di
molte delle fabbritanti lavoratori di Sache che scelgono per
var, distretto indule loro commesse sostriale di Dakha, e
no trappole mortali»,
delle famiglie delle
ha
commentato
vittime. Ieri dunque
Zeldenrust, coOggi, martedì, il Bangladesh Ineke
erano per le strade, a
ordinatrice internamigliaia; hanno lanzionale della Clean
osserverà una giornata di
ciato pietre contro faClothes: lei parla di
lutto ufficiale, per decisione «negligenza criminabriche tessili, fracassato veicoli, bloccato
del governo. Ma questo non le».
una delle grandi straSiddiq Ur Rahde che escono dalla placa la rabbia dei lavoratori man, presidente delcittà attraverso il dil’Associazione degli
stretto industriale. Duecento fabriche della
industriali ed esportatori di abbigliamento,
zona sono rimaste chiuse. La rabbia è palpaha dichiarato che i familiari dei defunti ricebile, e si capisce bene: non è la prima volta
veranno 100mila taka di risarcimento, circa
che uno stabilimento tessile va a fuoco nei
900 euro. Per famiglie che hanno perso chi
sobborghi industriali di Dakha, dal 2006 alportava a casa un reddito è un insulto.
meno 500 lavoratori sono morti in simili inciD’altra parte, Ieri molti dei fagotti bianchi
denti. Ogni volta le autorità puntano il dito
allineati davanti alla fabbrica carbonizzata
sulle misure di sicurezza mancanti. Ma poi
non avevano ancora un nome. E’ la solita stonon cambia nulla. E la cronaca si ripete.
ria, ci ha detto Sudharshan Rao Sarde, segreSecondo il direttore operativo dei vigili del
tario regionale di IndustriAll, federazione infuoco di Dhaka, il maggiore Mohammad
ternazionale di sindacati dell’abbigliamenMahbub, le fiamme sono state provocate da
to: «L’azienda non tiene neppure dei registri
un corto circuito. Ma a rendere così letale
completi, perché molti dei lavoratori sono inl’incendio, ha aggiunto, è il fatto che mancaformali, a termine. Persone invisibili». Rao
vano le più elementari misure di sicurezza:
Sarde parlava così venerdì scorso e l’incenniente scale esterne, nessuna via di fuga. E i
dio di Dakha non era ancora scoppiato: lui si
cancelli sbarrati. Molti sono morti soffocati
riferiva per la verità alle vittime di un altro insu per le scale, altri saltando dalle finestre
cendio in fabbrica, quello avvenuto in setdei piani superiori per sfuggire alle fiamme.
tembre nei sobborghi di Karachi in Pakistan.
«Ci fosse stata almeno un’uscita d’emergenLa cronaca gli ha dato ragione, la stessa stoza, le vittime sarebbero state molte di meria si ripete in modo scoraggiante. «Nell’inno», ha dichiarato all’agenzia Ap. D’altra pardustria tessile sta scivolando sempre più nel
te gli stessi pompieri hanno faticato a ragsettore "informale", aiutata dal fatto che la
giungere l’edificio in fiamme, in quelle vie
struttura stessa è cambiata: da un lato hai le
strette mancava una via di avvicinamento.
marche, dall’altro la base produttiva, e le fabL’industria tessile è importante in Banglabriche di questa regione competono spredesh, secondo esportatore di abbigliamento
mendo sempre di più i lavoratori».
dopo la Cina - esporta per circa 18 miliardi
Ieri sera i sobborghi industriali di Dakha
di dollari l’anno. Occupa circa 3 milioni di laerano presidiati dalla polizia. La tensione
voratori, in maggioranza donne, e conta cirnon cala. La primavera scorsa oltre 300 fabca 4.000 unità produttive: per quanto siano
briche nella capitale del Bangladesh sono
affidabili i dati, in un settore dove abbondastate bloccate da un’ondata di scoperi per la
no le aziende non registrate. Quello che è
richiesta di migliori salari e migliori condiziochiaro è che sono tra i peggio pagati in Asia, i
ni di lavoro. La tragedia della Tazreen sarà
più restano bloccati sui 37 dollari di salario
dura da acettare.
minimo ufficiale.
Ma. Fo.
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pagina 10
il manifesto
MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012
CULTURA
DIABOLICO NOVECENTO
Mario Isnenghi
P
assa appena i cinquant’anni e
ha ancora 15 anni di vita, Luigi
Russo, quando nel 1946 fonda
«Belfagor» e decide che nasca sotto il
segno della sfida. Nell’Italia che sta
per avanzare delle figlie di Maria
(sempre meglio, s’intende, degli atei
devoti e dei laici genuflessi), l’autore
di Elogio della polemica sceglie per la
sua nuova rivista il nome di un demonio, machiavellico per giunta. È una
rivendicazione storico-culturale di
spessore secolare, una franca e per
molti imbarazzante e insoffribile dichiarazione di identità rispetto alle
storie d’Italia: al conflitto Stato – Chiesa che contraddistingue il paese geneticamente e in modo immanente –
nella storia collettiva e nel quotidiano
di ciascuno –, e che va affrontato,
non eluso. Non solo per assecondare
una sua tendenza di stile, fra le rubriche che inventa e strutturano la sua rivista ci sono le «Noterelle e Schermaglie»: pupilla degli occhi suoi, fattore
distintivo che caratterizza e diversifica, più dei «Saggi e studi», a scrivere i
quali sono buoni ‘tutti’.
«Belfagor» sarà sempre e per definizione in riga rispetto ai doveri della filologia, una rivista onorata e ricercata
da fior di studiosi e accademici, e nello stesso tempo aperta sul mondo e le
cronache del mondo, pronta sempre
alle battaglie difficili, non addomesticata, non prona. Un Comitato di Liberazione Nazionale di approcci e di
gradazione dei linguaggi, una programmata convivenza di stili, come
in forma di particolarissimo cln la rivista è nata e ha saputo affermarsi e durare dal punto di vista delle compresenze politico-culturali: quando inve-
PERCORSI · Rigore e militanza, i tratti distintivi
IL DEMONIO
BELFAGOR
E (A DESTRA)
LUIGI RUSSO
Una straordinaria
avventura culturale
N
NEL SOMMARIOxxxxxxxxxxxxxxxxxx
Tra i materiali dell’ultimo numero di
«Belfagor», accanto ai testi di apertura («Come eravamo» di Mario
Isnenghi, qui anticipato, e «Ermes e
la lira» di Carlo Ferdinando Russo),
un saggio di Giulio Ungarelli sull’amicizia tra Gianfranco Contini e
Gianni Miniati e «Esercizi ecdotici
sulla Clizia» di Raffaele Ruggiero.
«Belfagor», la sfida
di una generazione
ce le durezze preclusive e le reciproche forme di conventio ad excludendum spaccavano nel dopoguerra
l’Anpi dei partigiani, la Cgil dei lavoratori e tutte le altre forme di associazionismo ‘unitario’ nate dalla Resistenza. Qui, la conventio, se ce n’è una,
concerne semmai la dc: nel 1943-’45,
nei cln della Resistenza, con la dc tutti i partiti antifascisti dovevano conviverci e arrivare unanimi al voto.
«Belfagor» – piú settario, com’è proprio dei demoni – la ‘resistenza’, in
certo modo, la fa contro il partito dei
preti. Non, dunque, una rivista di
‘terza forza’, in quel dopoguerra in
cui la formula – per motivarla o deprecarla – era in auge. E infatti quei temi
anticlericali che erano prettamente loro, maestri del genere quali Salvemini ed Ernesto Rossi li coltivano assai
piú altrove, nel «Mondo» o semmai
nel «Ponte».
La formula, la composizione politica del settimanale liberal-radicale di
Pannunzio comprendono dichiaratamente una prospettiva anticomunista che essi non ritroverebbero, come
tale, all’ombra di Russo (il che non
vuol dire che non vi siano fra redattori e collaboratori diavoli di diverso
pensiero e in particolare diavoli anticomunisti). Sarà per questo che gli Indici 1946-2010, appena resi disponibili dall’editore Olschki per le cure di
Antonio Resta, registrano scarne presenze di Salvemini e Rossi: come autori in proprio, s’intende, perché il loro spirito aleggia familiare ovunque,
e anche chi scrive se ne dichiara
senz’altro ammiratore e seguace, agli
effetti di stile e non solo.
Solo un altro ircocervo consociativo viene in mente – dai liberali ai comunisti, ma senza i democristiani –
capace di attraversare il lungo dopo-
di Croce); «Minima personalia», rubrica di autoritratti intellettuali
on sarà certo facile elaborainaugurata da Cesare Segre nel
re il lutto per la chiusura di
1984; e le sapide e irriverenti note«Belfagor», una delle porelle politiche di Mario Isnenghi
chissime riviste culturali davvero
(collaboratore di lungo corso e, dal
decisive dell’Italia contempora2007, condirettore di «Belfagor»),
nea. Fondato nel 1946 da Luigi Ruspuntualmente pubblicate dal 1994
so, italianista tra i più influenti del
in poi, che saranno presto raccolte
secolo scorso, il periodico bimein volume dall’editore Donzelli. Alstrale di «varia umanità» era giuntri volumi di rubriche belfagoriane
to al suo sessantasettesimo anno
sarebbero senz’altro auspicabili:
di vita in ottima salute, senza mai
penso anzitutto ai fondamentali
smarrire quello spirito eretico e dis«Ritratti critici di contemporanei»
sacrante che aveva dettato la scel(l’ultimo, a firma di Matteo Gianta del nome «Belfagor», mutuato
cotti, è dedicato a un grande poeta
da un diavolo di machiavelliana
da riscoprire: Diego Valeri).
memoria. Merito, soprattutto, di
C’è chi ha indicato quale testiCarlo Ferdinando Russo, il raffinamonianza del prestigio di «Belfato filologo classico, figlio di Luigi,
gor» il fatto che sia stato collocato
che fu magna pars della redazione
dall’Anvur (Agenzia nazionale per
di «Belfagor» fin dal primo numero
la valutazione del sistema universiper poi assumerne
tario e della ricerca)
la direzione a partinella fascia più alta
re dal 1961 (anno
delle riviste accadedella scomparsa del
mico-scientifiche.
padre, che aveva diMa mentre le riviste
retto la rivista fino
accademiche susciad allora in tandem
tano
solitamente
con Adolfo Omol’interesse di un rideo).
stretto drappello di
Ma quali furono i
specialisti e vengotratti distintivi di
no acquistate quasi
«Belfagor»? Giovanesclusivamente dalni Giudici, in un artile biblioteche unicolo uscito sul «Corversitarie rimanenriere della Sera» nel
do perlopiù confina1976, in occasione
te su polverosi scafI
conti
in
attivo,
del trentennale della
fali, a «Belfagor» eranascita della rivista,
no abbonati anche
ma quella
ne fornì questo calmoltissimi privati
che Carlo
zante identikit: «Rivisia in Italia che alsta letteraria? Rivista
l’estero (un segnale,
Ferdinando
accademica? Rivista
questo, altrettanto,
Russo definisce se non più significapolitica? Tutto questo e, insieme, nientivo della certifica«un’esperienza
te di tutto questo nel
zione di eccellenza
senso esclusivo: si
dell’Anvur). Donde
irripetibile»
potrebbe dire una riil bilancio sempre in
giunge al termine attivo della rivista, il
vista ‘laica’, basata
appunto sull’esclucui abbonamento
sione di ogni chiesasticità, non tanannuale costava cinquantasei euto ideologica quanto piuttosto spero: una cifra assai vantaggiosa se si
cialistica, resa viva e vitale soprattiene conto che in un anno uscivatutto dalla sua continua attenzione
no 6 fascicoli per circa 800 pagine
al diverso e al molteplice, ma non
complessive; in ogni caso, niente
perciò in balia dell’improvvisazioin confronto ai prezzi esorbitanti
ne dilettantistica; diciamo: una rividegli abbonamenti a certe riviste
sta interdisciplinare, il cui rigore è
accademiche che possono arrivare
stato costantemente garantito dala costare oltre 1000 euro (proprio
la presenza di specialisti delle sinuno dei nuovi collaboratori di «Belgole discipline».
fagor», l’italianista Claudio Giunta,
In effetti «Belfagor», oltre per la
ha recentemente pubblicato sul
grande interdisciplinarità, si è semDomenicale del «Sole 24 ore» un
pre distinto per la capacità di cocondivisibile articolo in proposiniugare rigore e militanza, erudito). «Belfagor», dunque, non chiuzione filologica e pungente saggide certamente i battenti per ragiosmo. Scorrendo i nomi dei collaboni economiche (una volta tanto la
ratori si potrebbe compilare un vecrisi non c’entra...), ma perché Rusro e proprio albo d’oro: da Gianso figlio, superata la soglia dei nofranco Contini a Norberto Bobbio,
vant’anni, intende, del tutto legittida Cesare Musatti a Sebastiano
mamente, dedicarsi ad altro. DeciTimpanaro, da Walter Binni a Giusione pienamente comprensibile,
lio Ferroni (si vedano i preziosi e
che non compensa però l’amarezdettagliati Indici 1946-2010 dei faza per la fine di questa straordinascicoli belfagoriani pubblicati poria avventura culturale.
chi mesi fa per cura di Antonio ReIn una recente intervista a prosta presso Olschki, editore compliposito della fine della rivista, Rusce e congeniale della rivista fin dal
so ha dichiarato che «L’esperienza
1961). «Belfagor» era inoltre caratdi “Belfagor” non è ripetibile». Difterizzato da un notevole pluralificile dargli torto. Sarebbe pressosmo, coerentemente con quanto
ché impossibile indicare una riviscritto da Luigi Russo nel Proemio
sta attualmente in attività che posal primo fascicolo della rivista: «absa in qualche modo ereditare le
biamo invitato (...) a collaborare
istanze critiche che guidarono «Beltutti gli studiosi di buona volontà,
fagor». Il suo spirito battagliero podai liberali ai comunisti: non chietrebbe forse ritrovarsi nell’ambito
diamo a nessuno la tessera del suo
dei blog letterari, che però, salvo rapartito, chiediamo soltanto serietà
re eccezioni, non accompagnano
di lavoro e spregiudicatezza di
alla vis polemica il rigore e la comorientamento critico».
petenza necessari. Come che sia, i
Le tradizionali rubriche erano:
quattrocento fascicoli di «Belfa«Saggi e Studi», «Ritratti critici di
gor» usciti dal 1946 ad oggi rimancontemporanei», «Varietà», «Notegono una ricchissima miniera di
relle e Schermaglie», «Recensioni»,
spunti e ricognizioni utili non solo
«Libri ricevuti». A queste si aggiunper ricostruire le più importanti visero in seguito: «Documenti» (dal
cende culturali contemporanee
1977), che fece conoscere pagine
ma anche (e anzitutto) per illumiinedite di autori come Gramsci,
nare il nostro presente. Che avrebLukács, Marcuse, Moravia, De Marbe più che mai bisogno del pungotino (nell’ultimo fascicolo c’è un inlo di quell’implacabile diavolo materessantissimo carteggio inedito
chiavelliano.
Raoul Bruni
Con il numero di novembre, di imminente uscita,
chiude la rivista fondata nel 1946 da Luigi Russo.
Onorata da studiosi e accademici e al tempo stesso
aperta sul mondo e sulle cronache del mondo,
sempre pronta a difficili battaglie, ha saputo
affermarsi e durare nel segno delle compresenze
politico-culturali. Un’anticipazione dell’editoriale
guerra: l’Unione Goliardica Italiana
(Ugi), non certo cosí durevole, però,
né capace di riproporsi come lo è stata per sessantasei anni la rivista dell’Arcidiavolo.
‘Liberalcomunismo’ è una parola
grossa e eviteremo di farne una etichetta onnicomprensiva, però. Qualche cosa di Piero Gobetti e delle bizzarre fornicazioni del giovane torinese e della sua ossimorica «Rivoluzione liberale» con l’«Ordine nuovo» di
Gramsci, potrebbe forse stare in sottofondo a queste sinergie selettive. E apparendo oggi ai piú Gobetti un archeologico giovane vecchio, per non
dire di quante volte e quanti modi si
adoperano per far fuori Gramsci, non
sono da aspettarsi – non solo nelle sacrestie – sentimenti di lutto diffuso
per il venir meno di una rivista che in
molti, certo, magari solo con il silenzio, si affretteranno a consegnare al
passato: il diabolico Novecento delle
ideologie.
La sfida da cui prorompe la contestazione del primo quindicennio –
quando regna e governa Luigi, e suo
figlio Carlo Ferdinando sta già a bottega, maturando i titoli dell’assolutismo illuminato con cui regnerà e governerà per mezzo secolo, sino al termine – non si volge solo contro Gonella: segretario e prototipo della dc di
De Gasperi, e piú del presidente as-
sunto come bersaglio. È la sfida a Benedetto Croce. Il quale vede, corrucciato e con rammaricata sorpresa,
due dei suoi ‘figli’ migliori e di lungo
corso – Luigi Russo e Adolfo Omodeo, che muore subito, condividendo
per poco la direzione della rivista – derivare dal liberalismo verso l’azionismo; e peggio, addirittura verso il
Fronte Popolare, per quanto riguarda
Russo. Russo figlio ha pubblicato reiteratamente, anche in numeri recenti, i documenti epistolari di questo
schietto e consapevole scontro, che
vuol essere anche, non certo un passaggio delle consegna da parte di don
Benedetto, ma una nuova e libera assunzione di responsabilità dalla parte
di Russo, ormai pienamente autonoma rispetto all’egemonia crociana e
gentiliana, all’entrata in un nuovo
mondo.
Di nuovo, ‘uccisione dei padri’ è
un’espressione truce che non sembra
il caso di prescegliere, ma certamente
c’è un trapasso, siamo su un confine
e «Belfagor» si appresta a valicarlo entrando nel territorio del dopoguerra
con animo e intenzioni diverse. Non
esauribili nell’heri dicebamus. Non
esauribili, ma Russo è del 1892, ha fatto la Grande Guerra, sotto l’egida di
Gentile ha insegnato civismo e morale militare agli ufficiali di complemento – anche Carlo Rosselli e Palmiro To-
gliatti –, è stato professore ordinario
nelle università dell’Italia fascista, ha
letto parlato scritto prima di diventare rettore dei 45 giorni a Pisa (come
Omodeo a Napoli).
Non sboccia e non si sente, insomma – a cinquant’anni sonati – come
l’esponente di una generazione di figli che si ribellino ai padri, ma una
mente pensante di una generazione
di mezzo, che non nasce balda e innocente, come i ventenni del ’43-’45,
nuova o seminuova, ma ha già tanta
vita dietro e dentro e non pensa affatto sia tutta da buttare. Piero Calamandrei – e a maggior ragione accanto a
lui, il piú moderato Pietro Pancrazi –
nascendo quasi ad un tempo a Firenze, nella città delle riviste, faranno «Il
Ponte» e da ‘ponte’; Russo e «Belfagor» hanno piú fuoco, e sia i due uomini-guida che le loro creature intonazioni diverse; ma il fiume, il ponte
rotto, i ponti da rifare dopo questo
‘secondo Risorgimento’ dell’Italia, ci
sono per tutt’e due. E non conducono verso Lourdes.
Ho nominato Firenze, di nuovo –
come nel primo Novecento e diversamente fra le due guerre – città delle riviste. Ma «La Voce» dura cinque o sei
anni, «Lacerba» due; il «Ponte» e, sino
a questo 2012, «Belfagor» ci sono ancora, da sessanta e piú anni. Il paragone, per durata, che viene subito alla
mente è proprio «La Critica», prima
di Croce e Gentile, poi del solo Croce
e dei suoi. L’analisi dell’impronta lasciata dalle riviste di inizio secolo attrae gli studiosi almeno da quando
delle fortunate antologie le resero piú
accessibili nei primi anni Sessanta.
Spetterà ad altri addentrarsi nella ben
piú lunga vita delle riviste giunte sino
a noi, come in parte è già avvenuto
per la creatura di Calamandrei.
il manifesto
MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012
pagina 11
CULTURA
DIMISSIONI ALLE EDIZIONI BARBÈS, NASCE LA SIGLA CLICHY
Con un asciutto comunicato, redazione e direzione delle Edizioni Barbès, «visti i
problemi finanziari di Edison Group», proprietario della sigla, hanno annunciato
le loro dimissioni e la decisione di fondare una nuova casa editrice
indipendente, le Edizioni Clichy, le cui pubblicazioni partiranno a gennaio 2013.
oltre
tutto
Marco Peretti
I
l protagonista di Barocco tropicale,
romanzo dell’angolano José
Eduardo Agualusa (traduzione di
Giorgio De Marchis, La Nuova Frontiera, pp. 314, euro 17,50), vive al quarantasettesimo piano di un grattacielo
chiamato Termitaio. Quando il mastodonte fu progettato, ai tempi dell’euforia del petrolio, Luanda era in piena
espansione, e i grattacieli dovevano
soddisfare la richiesta di alloggi della
borghesia emergente. Con la fine dell’era del petrolio il mercato immobiliare è crollato, il calo dei prezzi ha permesso ai «poveri» d’insediarsi nei piani bassi del Termitaio e i sotterranei, in
origine destinati a ospitare palestre e
supermercati, sono diventati il regno
di un’umanità diseredata. A distanza
di un decennio il Termitaio è un edificio sovrappopolato e fatiscente.
Termiti, così Agualusa immagina gli
angolani del 2020, piccoli esseri, che vivono nell’ombra e nell’oscurità. Numerosissimi, assiepati nei loro nidi, costruzioni complicatissime e di dimensioni colossali. Il Termitaio è insomma
l’immagine distopica di una Luanda
che deve fare a meno del suo oro nero,
del tutto simile, per altri aspetti, alla coeva Los Angeles inventata da Ridley
Scott per il suo Blade Runner.
Barocco tropicale non è però un
noir fantascientifico e Bartolomeu Falcato, così si chiama il protagonista e
narratore, non è un cacciatore di androidi ribelli, anche se di esseri in qualche modo «artificiali», sul suo cammino ne incontra. È uno scrittore (Il domatore di camaleonti si intitola un suo
libro), e quindi, va a caccia di storie,
ma come il Rick Deckhard di Scott fa
troppe domande e in Angola «domandare è pensare … e chi pensa finisce
sempre per contestare». Non è un ca-
SI SCIOLGONO LE CONCHIGLIE DELL’ANTARTIDE
Le conchiglie dei molluschi nell’Oceano Meridionale in Antartide si stanno
dissolvendo: un fenomeno che per gli esperti della British Antarctic Survey è
la prima manifestazione degli effetti dell’acidificazione degli oceani dovuta
alla presenza di più CO2. I dati sono usciti su «Nature Geoscience».
ROMANZI · Edito dalla Nuova Frontiera «Barocco tropicale» dell’angolano José Eduardo Agualusa
Nella Luanda del 2020
l’esplosiva fioritura del caos
FOTO DA «AGORA LUANDA» DI KILUANJE LIBERDADE E INÊS GONÇALVES
so che «l’ipocrisia costituisce una virtù
apprezzata moltissimo nella terra degli uomini-camaleonti». Una virtù di
cui non sembra disporre Agualusa
che, non pago delle polemiche già suscitate nella vita reale, fa replicare al
suo alter ego quel giudizio letterario,
«inopportuno», espresso nei confronti
di Agostinho Neto, il padre della patria: «era un poeta mediocre».
Anche per questo qualche critico ha
considerato Barocco tropicale un pamphlet politico e d’altronde, se l’ignoto
può esser descritto solo attraverso il
noto, la Luanda del 2020 non è altro
che la proiezione di un passato e di un
presente già noti. Un caotico presente
che evidentemente il polemico Agualusa non intende decifrare, lo suggerisce
con una delle epigrafi: «Non mi interessa mettere ordine al caos: quello che
voglio fare è farlo fiorire». Un’azione disgregatrice che l’autore compie innanzitutto attraverso la narrazione, facendo germogliare storie e personaggi, sovrapponendo stereotipi e riferimenti
colti, opinioni personali e espedienti
letterari, il tutto assemblato grazie all’utilizzo di una «moviola» letteraria
che permette di focalizzare ogni dettaglio, fermare l’immagine anche sui per-
NARRATIVA · «Qualcosa capiterà, vedrai», una raccolta di racconti di Christos Ikonomou
Dalla Grecia in crisi, sguardi impudichi sulla povertà
Fabio Donalisio
C’
è una cosa che la letteratura
(in questo caso specchio diretto dello sguardo impaurito) occidentale ha tenuto relegata, con
poche eccezioni, in un cantuccio sotto
l’orizzonte, perchè proprio non vuole
più vederla: la povertà. L’ha omessa.
Oppure ha usato i soliti trucchi, come
l’iperrealismo, la spettacolarizzazione.
L’ha appiccicata addosso alle minoranze, ha inventato la parola «borderline»
per definire con la pancia che c’è una
linea appunto, che la miseria è fuori e
chi la porta su di sé da dentro è necessariamente uno che gioca con il limite,
il confine. Dai tempi del dopoguerra
non è quasi mai più stato «uno di noi»
a portare le stigmate della fame, del
non farcela, con l’aggravante di appartenere (verbo da riconsiderare attentamente) a un contesto che non ha mollato l’ossessione dell’aspettativa, ha conosciuto la ricchezza diffusa, si ostina
a pensare che il progresso sia cosa buona e giusta in sé, e soprattutto indefinitamente procrastinabile.
Le cose hanno però il brutto vizio di
cambiare. E di trascinare con sé, spesso con imperdonabile ritardo, anche
gli sguardi di chi pensa, vuole, avoca a
sé il privilegio e il dovere di interpretare la realtà, dirla, darne una versione
che partecipi dell’arte, del mito. Il crollo delle coppie oppositive ha mandato
in crisi gli scrittori (intesi solo come
sottoinsieme di «uomini»), recalcitranti a prendere per i talloni la loro vicina
di casa, i loro parenti, i ragazzi con cui
sono cresciuti e calarli e immergerli
nel liquido vischioso della fame che,
come si sa, ha tra i suoi primi effetti collaterali quello di diluire le scale di priorità tra sopravvivenza e morale.
Non stupisce dunque che sia un autore greco, e relativamente giovane, a
squarciare questo velo di Maya, ad affrontare il segreto di Pulcinella. La Grecia di oggi è un esempio particolarmente calzante della fragilità del capitalismo senile, simbolo della follia della finanza internazionale, specchio di
come una serie di numeri di impressionante astrattezza diventino causa con-
creta di rovina e miseria diffusa. Catalizzatore visibile e sovraesposto di uno
degli incubi più tenacemente confitti
sotto la nostra pelle, quello dell’uscita
dall’Occidente, della perdita del privilegio, della caduta degli dèi ad opera della loro stessa ybris. Materiale da tragedia, appunto.
Christos Ikonomou non è nome noto da queste parti. La letteratura greca
contemporanea affiora nel nostro orizzonte editoriale in piccoli e sparuti
atolli. È la nuova incarnazione di Editori Riuniti a permetterci di rabbrividire
davanti a questi racconti. Perché di brivido si tratta. Non tanto davanti a un libro in sé non memorabile. La prosa di
Ikonomou è asciutta e incisiva, i plot
ragionevolmente ellittici e capaci di sostenere l’attenzione, ma non si salta
sulla sedia. Non per quello, almeno.
Stupisce invece la genuina oscenità
dello sguardo. Quella capacità (e certo
quella volontà) di non risparmiare l’oc-
I bizzarri personaggi
di Agualusa sono
eccessivi, perché
la paura li porta
a varcare i labili
limiti tra realtà e follia
sonaggi secondari, ritornare all’inizio
o anticipare il finale. Voci, idee, farneticazioni, tutto viene registrato scrupolosamente, ogni frase è una «testimonianza», spesso falsamente vera o apparentemente falsa, inverosimile, e forse per questo potenzialmente reale.
Una ambiguità che è il tratto caratteristico di ogni metropoli futura, della
Los Angeles (la «città degli angeli») di
Scott, come della Luanda di Agualusa,
invasa anch’essa da angeli che appaiono e scompaiono, più uman(oid)i che
puri spiriti, e in qualche caso, per durata di vita, simili ai replicanti di Scott,
come la «donna che cadde dal cielo»,
Núbia de Matos, che dà inizio al romanzo e ne è in qualche modo la ragion sufficiente. O almeno lo è per gli
effetti che produrrà sulla vita di Bartolomeu Falcato, che per averla incontrata casualmente cinque giorni prima
della sua caduta dal cielo, è l’ultimo depositario delle sue confessioni.
Núbia de Matos è infatti un nome
(d’arte) creato dal nulla, è una ex Miss
Angola, programmata per soddisfare
le esigenze del «potere» (una escort diremmo in Occidente), un essere «artifi-
ciale» che pensava di conquistarsi una
longevità denunciando le «prestazioni» cui era stata costretta. Perché, come racconta, le si è manifestato Dio, le
parlava, la consigliava e dunque s’è redenta. I bizzarri personaggi creati da
Agualusa sono infatti esuberanti, eccessivi, barocchi appunto, ma sono tali perché la paura li porta spesso a superare il labile confine che separa la realtà dalla follia. La paura infatti è uno
strumento nelle mani del «potere» e
rende ogni atto, ogni testimonianza falsi o veri, a seconda delle necessità.
Bartolomeu Falcato è in certo senso
il nucleo che attrae tutte queste particelle impazzite, attratto a sua volta dal
mito, dalla storia, dalla presunta esistenza di un angelo nero, di cui Agualusa ci fornisce anche la documentata testimonianza di un esploratore del XIX
secolo – ed è risaputo che questi uomini si vantavano di raccontare nei loro
resoconti solo ciò che avevano visto
davvero. Di altra natura è invece l’attrazione che Bartolomeu Falcato prova
per Kianda, la star che esiste solo quando canta, sul palcoscenico, una notte
sì e l’altra no. Una donna, un angelodemoniaco, capace di amare solo a
sprazzi. È lei che canta Barocco tropicale, un testo scritto da Bartolumeu Falcato, che Agualusa, per altri versi prolisso, non svela mai. Qualcuno potrebbe pensare al Barroco tropical del brasiliano Antonio Zambujo («l’amore
non serve a nessuno, e tuttavia a lui ritorniamo, giorno dopo giorno …
l’amore è una stazione pericolosa»),
ma forse l’intenzione dell’autore è di
consegnare solo un titolo, lasciando ai
lettori il compito di estrapolare dal romanzo le frasi che vadano a comporre
il testo più appropriato.
D’altronde, basta non dimenticare i
titoli dei brani di Nat King Cole che
Kianda ascoltava fin da bambina, The
Boulevard of Broken Dreams, I Don’t
Want to See Tomorrow, Impossibile,
per dare una spiegazione almeno alla
sua «caduta dal cielo». Quando la star
infatti ha deciso di spegnersi, mentre
cadeva nel vuoto, ci è sembrato proprio che sussurrasse … All those moments will be lost in time, like tears in
rain. Time to die.
chio, di rendere visibile esattamente
quello che si vorrebbe ancora nascosto. Niente a che fare con l’estremizzazione pulp, anzi. Qui la violenza, l’immoralità, l’abiezione, ma anche la forza interiore, la resistenza, la rassegnazione, il «portare il fuoco» sono assolutamente «normali», e qui sta la loro efficacia, come forse è successo nel nostro, lontanissimo, neorealismo. L’importanza di questo libro, dunque, è tutta nella sua «normalità», nel rendere visibile la povertà della porta accanto.
Gli si perdona dunque qualche eccesso di lirismo, e qualche calcolo nell’esibire. Si esce con più di una curiosità su
cosa stia accadendo nell’Egeo letterario. E ci si chiede cosa succeda qui, nel
nostro paese-tornasole, nel nostro paese-baratro. E dove sono quelli che dovrebbero raccontarcelo. Per non perdere del tutto le speranze, si può ripetere
a mo’ di mantra il titolo, azzeccato, del
libro: Qualcosa capiterà, vedrai.
GRAFFITISUI MURI DI ATENE /PASCAL ROSSIGNOL (REUTERS)
EDITORIA · Nella bandella del libro di Ikonomou un indebito accostamento a Faulkner
Paragoni azzardati a rischio di boomerang
Graziano Dell’Anna
Q
uando nel febbraio 1931 Random House manda alle stampe Santuario di William Faulkner lo zolfanello dello scandalo intorno a una storia cupa, il cui acme narrativo è lo stupro di una vergine con una pannocchia – siamo nell’America dall’austera morale protestante di inizio secolo – ci mette poco
a appiccare l’incendio del successo commerciale. Per la ristampa dell’anno seguente Faulkner
mette mano a una prefazione che attacca così:
«Questo libro fu scritto tre anni fa. Secondo me
non è un gran che, come libro, perché fu concepito unicamente allo scopo di far soldi». Quindi
si dilunga sulle difficoltà del suo esordio narrativo, i rifiuti editoriali e i problemi economici che
l’avrebbero spinto a impegnarsi in opere cinicamente commerciali. E conclude con un dimesso appello a comprare e far comprare il libro.
Chi conosce Faulkner sa quanto egli amasse
depistare critica e pubblico. Si dà infatti il caso
che Santuario, di cui André Malraux disse che
«è l’irruzione del dramma classico nel romanzo
poliziesco», non abbia nulla da invidiare a capisaldi della letteratura come Luce d’agosto o Assalonne Assalonne! Nella prefazione di Faulkner c’è dunque la malizia del baro e l’irridente
falsa modestia di chi sa di essere entrato a piè
pari nel canone letterario avendo alle spalle capolavori del calibro de L’urlo e il furore.
E a Faulkner rimanda la bandella rossa che
fascia con la pomposità di un sindaco fresco
d’elezione l’antologia di racconti Qualcosa capiterà, vedrai del greco Christos Ikonomou, tradotta in Italia da Editori Internazionali Riuniti.
La frase in fascetta, «Il Faulkner greco», è attribuita al quotidiano «la Repubblica». In realtà il
paragone con Faulkner è più che azzardato.
Nella prosa minimalista e a tratti sciatta di Ikonomou c’è poco, quasi nulla, della traccia stilistica che l’inventore della contea di Yoknapa-
tawpha ha lasciato nella scrittura di alcuni suoi
eredi come Cormac McCarthy, Joyce Carol Oates e Breece D’J Pancake. Chi fosse curioso di
sapere da dove nasca la bandella non ha che da
leggere l’articolo Il Faulkner greco e la vita oltre
la fine (dei bancomat), uscito sulla «Repubblica» (24 giugno 2012) a firma dello scrittore e editor Nicola Lagioia. È Lagioia stesso a riproporre
la sua riflessione su www.minimaetmoralia.it,
il sito-rivista dell’editore minimum fax. Ma qui
l’intestazione, La vita oltre la fine (del bancomat). Leggere noi e la Grecia attraverso la letteratura, è ben più calibrata sui contenuti dell’articolo, una disamina delle potenzialità della letteratura nella rappresentazione della crisi economica. Soprattutto, è assente l’equazione Ikonomou-Faulkner: «Si potrebbe pensare» scrive anzi nel suo testo Lagioia «che un filo leghi tematicamente queste storie alle grandi narrazioni
della Depressione, da Faulkner e Steinbeck in
giù. Ma le cose stanno in maniera diversa».
Dunque non solo secondo l’articolo il nesso potenziale tra Ikonomou e Faulkner, e non solo
Faulkner, è tematico e non stilistico, ma anche
su quel piano Lagioia marca una differenza.
È un aneddoto come tanti su quella selva di
pressappochismo che è l’attuale realtà editoriale italiana. Cionondimeno la saga della superficialità è qui così eclatante da poter assurgere a
campione di un malvezzo diffuso, se non della
decadenza di un intero sistema. La tendenza a
caricare d’enfasi quarte di copertina e recensioni rischia infatti di far avvitare la credibilità del
sistema editoriale in una spirale inflazionistica,
o di condurla alla tragica fine del ragazzo che
gridava al lupo: in un mondo in cui in cui tutti
gli scrittori sono il nuovo Hemingway o il nuovo Faulkner e ogni libro è un capolavoro, non
c’è nessun nuovo Hemingway, nessun nuovo
Faulkner e neanche l’ombra di un capolavoro.
Per questo ai giornali e alle case editrici, sospesi sul baratro, converrebbe chiedersi se non sia
una mossa commercialmente più azzeccata, oltre che più onesta, la schiettezza affettata da rivenditore porta a porta con cui ottant’anni fa il
futuro premio Nobel chiudeva la sua prefazione a Santuario: «Ho fatto un discreto lavoro e
spero che lo comprerete e lo direte ai vostri amici, e spero che lo comprino anche loro».
pagina 12
il manifesto
MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012
VISIONI
Intervista •
Un incontro londinese, al Victoria Albert Museum, con la fotografa
saudita Manal Al-Dowayan, ospite della mostra «Light from the Middle Est: New Photography»
DA SINISTRA, SHADI GHADIRIAN, DALLA SERIE «QAJAR», 1998 E NERMINE HAMMAM, «THE BREAK» DA «UPEKKHA», 2011
MANAL AL-DOWAYAN, DAL CICLO «I AM»;
Lo scatto
femminile
Manuela De Leonardis
LONDRA
G
li occhi nerissimi di Manal
Al-Dowayan (è nata a
Dhahran, Arabia Saudita nel
1973, dove vive e lavora) trasmettono calma e determinazione. Un unico gioiello – la collana d’argento illuminata da coralli, pietre di turchese
e lapislazzulo – accenna qualcosa
della sua provenienza geografica.
L’incontro avviene nella Porter
Gallery del Victoria & Albert Museum, durante la preview della mostra Light from the Middle East: New
Photography (fino al 7 aprile 2013),
curata da Marta Weiss e realizzata
grazie al sostegno dell’Art Fund che
ha permesso l’acquisizione delle fotografie per le collezioni del V&A e
del British Museum. Le sue immagini esposte sono I am an Educator e I
am a Saudi Citizen, fotografie in
bianco e nero alla gelatina ai sali
d’argento stampate in camera oscura dalla stessa autrice.
Come sempre nel lavoro di AlDowayan il tema è incentrato sulla
condizione femminile all’interno
della società contemporanea saudita. In I am (2005-2007), in particolare, l’artista ritrae ogni donna con oggetti che rimandano alla rispettiva
professione, includendo anche dettagli come il velo, i gioielli, il trucco
che le contestualizzano all’interno
una determinata area. Donne reali
che rappresentano se stesse: una minoranza in Arabia Saudita, in quanto svolgono professioni considerate
maschili. La stessa Manal Al-Dowayan, del resto, proviene da studi informatici e di grafica e, prima di dedicarsi esclusivamente all’arte, è stata una delle pochissime donne che
ha lavorato come direttore creativo
per una compagnia petrolifera nazionale.
«L’ignoranza è oscurità» è scritto
con il gesso sulla lavagna che l’insegnante di I am an Educator (è docente di letteratura inglese dell’Università King Faisal) mostra all’osservatore. Una frase ripetuta come un
mantra, omettendo la scritta a cui
di solito è associata «la conoscenza
è luce». La giovane donna dell’altra
foto (con cui si conclude la serie) incarna, invece, una cittadina saudita.
È di profilo tra la bandiera del suo
paese e il futuro, uno spazio vuoto
tutto da riempire.
Quando hai scoperto la fotografia? È stata per te, ragazza cresciuta nella provincia orientale
dell’Arabia Saudita, una via di fuga?
Gioco con la macchina fotografica
da quando ero bambina. Dopo l’università sono tornata a casa con tredici scatole di fotografie. Si trattava di
foto personali, allora non pensavo
alla fotografia come ad una forma
d’arte. In Arabia Saudita non ci sono musei, gallerie né una cultura artistica. L’idea di diventare una fotografa professionista mi è venuta
mentre ero a Londra per il Master in
Systems Analysis and Design. Nel
pomeriggio studiavo anche fotografia. La mia prima mostra è stata proprio in questa città, da allora - era il
2004 - ho cominciato ad esporre le
mie fotografie.
Il dialogo che instauri con il pubblico è mediato dalla presenza di fi-
gure femminili, che spesso sovvertono l’immagine che l’occidente
ha delle donne saudite. Intanto
guardano dritto nell’obiettivo della macchina fotografica, poi - come in «I am» - fanno dei lavori che
nel tuo paese sono di appannaggio maschile (ingegneri, medici internisti, autisti, giocatori di tennis…). Quanto è importante, in
questo contesto, il feeling che hai
con i soggetti che fotografi?
Sono donna, la mia arte è un riflesso del mio essere e sono anche saudita. Questo tema è nato senza intenzionalità, ma andando avanti
con il lavoro è diventato un obiettivo intenzionale. La serie I am, è alla
Sono partita da una domanda:
che tipo di mestiere fanno
le donne saudite, che lavorano
solo per il 3% fuori casa?
Mostre / LE DUE COLLEZIONI «MEDIORIENTALI»
Nuovi orizzonti creativi
nell’era del digitale
M.D.L.
LONDRA
N
ella frenesia della contemporaneità la fotografia è il
medium più adatto per riflettere la complessità del medioriente nei suoi molteplici aspetti.
Ne è convinto anche Stephen Deuchar, direttore dell’Art Fund (istituzione pubblica a sostegno di musei e gallerie del Regno Unito per
l’acquisizione di opere d’arte) che
dal 2009 ha comprato le 95 opere
di 30 artisti mediorientali (molti
dei quali provenienti dalla «scuderia» di Rose Issa) per le collezioni
di fotografia contemporanea dei
più importanti musei britannici:
British e Victoria & Albert.
Ideata da Marta Weiss (curatrice della collezione di fotografie del
V&A) la mostra Light from the Middle East: New Photography (fino al
7 aprile 2013) – con il supporto di
VisitBritain – ha, quindi, una valenza celebrativa in un’accezione che
non ha nulla di affettato.
Si tratta di presentare un’ampia
selezione di queste due collezioni,
espressione di linguaggi sofisticati
e creativi di autori che vivono dall’interno tematiche che vanno dalla guerra all’integralismo religioso,
dall’emancipazione della donna all’emigrazione. Una lotta per affermare diritti basilari in qualsiasi so-
cietà civile che diventa emblematica, come nel caso della palestinese
Raeda Saadeh che in Who will
make me real? (2003) - il titolo è un
omaggio alla poetessa Nadia Tueni - si autoritrae nella posa dell’Olympia di Manet avvolta nelle
pagine del quotidiano palestinese
Al Quds: un atto politico che non è
solo legato alla sua identità palestinese, ma anche al suo essere donna all’interno di una società ma-
Dalla palestinese
Raeda Saade
all’iraniana Shadi
Ghadirian, fino al
libanese Walid Raad
schilista piena di pregiudizi e condizionamenti.
È interessante come gli sconfinamenti investano lo stesso linguaggio fotografico che parte dalla formula del fotogiornalismo, di cui è
capostipite Abbas con una sequenza del noto Iran Diary (1979) – e, a
seguire, la connazionale Newsha
Tavakolian (nata a Teheran nel
1981 è la più giovane artista in mostra) che usa colori saturati per i
duplici ritratti delle madri i cui figli
sono martiri della guerra Iran-Iraq
(1980-88) – per approdare alla can-
cellazione stessa dell’immagine in
Most Wanted (2006), attraverso la
manipolazione digitale operata da
Taraneh Hemam, iraniana residente a San Francisco.
Tra questi estremi si colloca il lavoro di Shadi Ghadirian (allieva e
poi assistente del compianto Bahman Jalali anche lui nell’elenco)
che in Qajar (1998) gioca con lo
stereotipo della fotografia di studio d’altri tempi per mettere in posa le sue velate che rimandano ad
uno status reso più appetibile dagli oggetti del desiderio: occhiali
da sole, lattina di Pepsi, transistor
e anche libri.
Tra gli artisti anche il libanese
Walid Raad, la marocchina Yto Barrada, l’egiziano Youssef Nabil,
l’israeliana Tal Schochat, la turca
Sükran Moral: Hassan Hajjaj è interprete in chiave pop di un Marocco globalizzato, mentre Nemine
Hammam opera una trasposizione poetica della violenza (rappresentata dalle figure dei militari fotografati in piazza Tahrir) in un paesaggio immaginario da cartolina
anni ’50. Tra i sauditi Ahmed Mater, Jowhara AlSaud, Manal alDowayan e Amirali Ghasemi le cui
scene di feste (dalla serie Party del
2005), sono lo specchio di un’altra
faccia della società a cui appartiene che in privato appare più che
mai effervescente e cosmopolita.
Nuovi orizzonti della fotografia
nel suo passaggio dalla stampa ai
sali d’argento alla manipolazione
digitale, in cui la messinscena è comunque al servizio dell’informazione: l’importante è che ci sia
qualcosa da dire.
base del dialogo che c’è nel mio paese tra le donne e il lavoro. Io stessa
sono stata una lavoratrice per supportare la mia produzione artistica.
La domanda che mi sono posta è
che tipo di lavoro possono fare le
donne saudite, in quanto solo il 3%
della popolazione femminile ha un
lavoro. La più alta percentuale di disoccupazione riguarda proprio le
donne. L’unica occupazione adatta
alla donna è quella che è collegata
alla sua sensibilità. «Qual è la mia
personale sensibilità?», mi sono
chiesta. «Chi è che decide qual è la
mia natura?».
Ho cominciato a guardarmi intorno scoprendo alcune donne con interessanti carriere. Questo è il criterio con cui ho selezionato queste
donne. L’ingegnere petrolifero come l’insegnante universitaria e così
via… Io sono un medico, Io sono un
filmmaker, Io sono un’artista.
«Blinded by tradition» è una foto
che inquadra una donna con le mani dipinte di henné che coprono i
suoi occhi. La condizione femminile è una tematica centrale del tuo
lavoro. In «Suspended together»,
l’installazione che è stata presentata anche nell’ambito della collettiva «The Future of a Promise»,
tra gli eventi collaterali della Biennale di Venezia del 2011, avevi impresso sul corpo di una moltitudine di colombe il permesso per
viaggiare delle donne saudite...
Blinded by tradition è una delle mie
prime foto, mentre Suspended together è del 2010. Tra un lavoro e l’altro c’è un grande intervallo durante
il quale mi sono allontanata dalla foto da appendere al muro. L’immagine bidimensionale non permette
un’interazione con il pubblico nella
stessa maniera di qualcosa che entra nello spazio. Questo è il motivo
per cui ho iniziato ad esplorare la
formula dell’installazione. Ho voluto togliere il vetro del quadro che
era una barriera, ma anche senza il
vetro percepivo un limite, allora è
nata Suspended together. A Venezia
era esposta solo una piccola parte
dell’installazione, ma quella completa è realizzata con duecento colombe sospese nello spazio. Un’installazione che si può vivere dall’interno,
percependone la forte energia. Questo lavoro ha segnato la fine del mio
lavoro con la fotografia bidimensionale che, inoltre, era legata ad un
rapporto a due: io e la modella. Con
l’installazione di colombe ho coinvolto duecento donne, a cui ho chiesto il permesso per viaggiare. Non
era più la mia singola voce, ma quella di un grande gruppo.
Che importanza ha l’uso della
scrittura all’interno del tuo sguardo?
Molta. Nel mio paese, la parola è
più importante dell’immagine. Ad
esempio gli articoli di politica sono
presi molto seriamente: gli stessi
soggetti trattati visualmente non
hanno lo stesso peso. Nella lingua
araba le parole hanno molti significati. Mi piace giocare con le parole
per questo, ecco perché la scrittura
è ricorrente nel mio lavoro.
Hai affermato che le artiste Madiha el-Ajroush e Shirin Neshat sono state un punto di riferimento
per te. In che modo?
Madiha el-Ajroush è la prima fotografa contemporanea dell’Arabia
Saudita. Quando ero giovane mi ha
influenzata molto con il suo lavoro
sulle tematiche sociali. Quanto a
Shirin Neshat, fotografa molto nota,
è stato significativo per me soprattutto il suo lavoro in bianco e nero.
Il suo messaggio è semplice e diretto e non c’è il colore, causa di distrazione. In questo momento, però, i
miei punti di riferimento sono soprattutto gli scrittori sauditi.
Nel 2015, per la prima volta nella
storia del paese, le donne saudite
potranno votare alle elezioni municipali. Quali sono le altre aspirazioni più urgenti?
Delle altre donne non saprei, le mie
aspirazioni personali sono che le
donne possano diventare più potenti a livello di formazione e poi nella
professione, per poter raggiungere
l’indipendenza economica.
il manifesto
MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012
pagina 13
VISIONI
EGON SCHIELE
Arrivano in asta da Sotheby’s a Londra, il 5 febbraio, tre preziosi disegni di Egon Schiele, che
provengono dal Leopold Museum di Vienna. Le tre opere, attribuite a un periodo fondamentale
nella produzione dell’artista (1914-1918), sono considerate tra i più importanti esempi mai offerti
in asta della maestria nel disegno del pittore austriaco, stimate in tutto 9-12 milioni di sterline.
TRIESTE IMMAGINA
Si svolgerà l’1 e il 2 dicembre prossimi nel piano rialzato del Magazzino 26 del Porto Vecchio di
Trieste l’happening Trieste Immagina. Bauhaus dei giovani: giocare con l’Arte nell’era
postmunariana. L’evento prevede due giornate di meeting, tavole rotonde e laboratori con il
contributo, tra gli altri, di Pistoletto, Pieroni di RAM radioartemobile, Sossai, Zannier, Gilas, Safred
TFF · In concorso il film cubano «Una noche» di Lucy Mulloy
In fuga dalla realtà
DOCUMENTARI
La lotta all’Aids
su Cubovision
JAAN TOOMIK
L’artista estone
che pattina
nudo sul ghiaccio
Riccarda Mandrini
MILANO
J
aan Toomik è un artista estone,
nato a Tartu, nel 1961. Oggi è una
super star, i suoi lavori sono nelle
collezioni di grandi musei, nella sua
biografia la pagina delle «solo» e
«group show» è lunghissima e ha all’attivo due partecipazioni alla Biennale di Venezia (nel 1997 e nel 2003).
Ora è ospite con la mostra Run presso la galleria Artra di Milano (fino al
13 gennaio)
L’artista ha cominciato a lavorare
negli anni ’80, in Estonia in un momento in cui gli avvenimenti storici
primeggiavano su ogni altro tipo di
cronaca. «Toomik ha scelto di mettere da parte la narrazione della storia
politica, la grande narrazione socialista -, spiega Marco Scotini, curatore
di Run - e guarda a un modello fortemente individuale, che diventa collettivo, nel momento in cui si rivolge (e
Rai1
6.45 UNOMATTINA Attualità
10.00 UNOMATTINA OCCHIO
ALLA SPESA Rubrica
10.25 UNOMATTINA ROSA
Attualità
10.55 CHE TEMPO FA - TG1
Informazione
11.05 UNOMATTINA STORIE
VERE Rubrica
12.00 LA PROVA DEL CUOCO
Varietà
13.30 TG1 - TG1 ECONOMIA
Informazione
14.10 VERDETTO FINALE Att.
15.15 LA VITA IN DIRETTA
Attualità
18.50 L’EREDITÀ Gioco
20.00 TG1 Informazione
20.30 AFFARI TUOI Gioco
21.10
Prima tv MILLE E
UNA NOTTE - ALADINO
E SHERAZADE
“Seconda e ultima
puntata” Miniserie
23.20 PORTA A PORTA Att.
0.55 TG1 NOTTE - CHE
TEMPO FA Infor.
lo fa sempre) alla storia e alla vita di
tutti i giorni.
Run (che è anche il titolo di un video in rassegna) è una personale volutamente scarna, come il lavoro dell’artista, nonostante i sei filmati e
una accurata scelta di opere pittoriche che riflettono in modo eccezionale la sua maniera disincantata e introspettiva di guardare le cose.
La mostra si apre con un video del
’95 - Dancing Home - dove Toomik
balla sul ponte di un battello seguendo una strana melodia: il rumore del
motore della nave. «Questo lavoro è
nato da un’idea che mi è venuta
spontaneamente. Era un giorno d’autunno quando in traghetto passavo
da Hiiumaa (una piccola isola in
Estonia) alla terraferma. Ero molto
triste, stavo in piedi nella nave guardando il mare e il cielo. Poi ho sentito il suono del motore della nave;
sembrava un battito cardiaco. Cercai
di compensare cominciando a ballare su quel suono... Il mio lavoro parte sempre da un pensiero ottimistico. Esso cerca di raggiungere un’unità con il mondo, con il sentimento interno e lo spirito».
L’arte di Toomik è fortemente fisica, c’è sempre l’uomo, lui, l’artista al
centro di ogni azione e diventa trascendente, impalpabile nel momento in cui si lega alla narrazione. È così
nei film Father and Son (1998) e in
Dancing with Dad (2003). In Father
and Son Toomik pattina nudo sul
Mar Baltico ghiacciato e in questo
spazio monocromo, c’è solo la canzone cantata da un bambino che scandisce un tempo senza tempo.
Dancing with Dad, invece, «è una
danza simbolica con mio padre morto nel 1971 quando avevo nove anni. In realtà non ho mai avuto la possibilità di ballare insieme a lui. Quest’azione sulla sua tomba è stato un
tentativo di trovare un contatto con
lui attraverso la danza e di superare
alcuni tabù interni», come chiarisce
l’artista. Guardando i video in mostra, emerge chiaramente come l’intensità dei filmati di Jaan Toomik
faccia tornare alla mente i lavori di
un altro eccezionale artista dell’ex
blocco sovietico, Jon Grigoresco, romeno, meraviglioso artefice e narratore di quelle storie nella Storia di
cui l’autore quasi inconsapevolmente sembra avere ereditato la capacità di raccontare.
Rai2
9.40 SABRINA VITA DA
STREGA Telefilm
TG2 INSIEME Attualità
I FATTI VOSTRI Att.
TG2 GIORNO Infor.
TG2 COSTUME E
SOCIETÀ - MEDICINA
33 Rubrica
14.00 SELTZ Rubrica
14.45 SENZA TRACCIA Tf
15.30 COLD CASE Telefilm
16.15 NUMB3RS Telefilm
17.00 LAS VEGAS Telefilm
17.45 TG2 FLASH L.I.S. METEO 2 - RAI TG
SPORT - TG2 Infor.
18.45 SQUADRA SPECIALE
COBRA 11 Telefilm
19.35 IL COMMISSARIO REX
Telefilm
20.30 TG2 - 20.30 Infor.
10.00
11.00
13.00
13.30
21.10
Prima tv - Ultimi
episodi settima stagione CRIMINAL
MINDS Telefilm
22.40 COLD CASE Telefilm
23.25 TG2 Informazione
Rai3
11.00 CODICE A BARRE Att.
11.30 BUONGIORNO ELISIR
Attualità
12.00 TG3 - METEO 3 Infor.
12.25 TG3 FUORI TG Att.
12.45 LE STORIE Attualità
13.10 Prima tv JULIA Telefilm
14.00 TG REGIONE - METEO
- TG3 - METEO 3 Infor.
14.50 TGR LEONARDO Rub.
15.05 TGR PIAZZA AFFARI
Rubrica
15.10 LA CASA NELLA PRATERIA Telefilm
16.00 COSE DELL’ALTRO
GEO Documentario
17.40 GEO & GEO Doc.
19.00 TG3 - TG REGIONE METEO Informazione
20.00 BLOB Varietà
20.15 COMICHE ALL’ITALIANA Documenti
20.35 UN POSTO AL SOLE
Soap
21.05
BALLARÒ Att.
23.20 VOLO IN DIRETTA
Varietà
Il 1˚ dicembre, in occasione
della giornata mondiale della
lotta all’Aids, Cubovision, la tv
on demand di Telecom Italia,
presenta in esclusiva sul canale Reportage, due documentari
di Cdi Camera. «Aids, cronaca
di una rivoluzione», diretto da
David France (vincitore al Sundance), parla dell’impegno
contro la malattia della comunità Glbt di New York. È la storia della lotta senza quartiere
che il gruppo di attivisti della
comunità gay-lesbica di New
York, riuniti sotto il movimento Act up, ha combattuto dalla
fine degli anni ’80 per ottenere
che l’Hiv divenisse una questione di interesse pubblico. Il secondo doc, italiano, è «Sesso
Malato» di Renato Pugina
(2011), indaga sui motivi della
recrudescenza delle malattie
sessualmente trasmissibili che
autorevoli studi medici internazionali descrivono come raddoppiate in pochi anni.
ARCHEOLOGIA
L’Arianna dormiente
torna agli Uffizi
È tornata nella Galleria degli
Uffizi dopo quasi 220 anni di
«pellegrinaggio» - mancava dal
1794 -, l’Arianna addormentata, copia romana del III secolo
a.C. di una scultura ellenistica.
La statua si potrà ammirare,
dal 17 dicembre, nel nuovo allestimento della sala 35 del museo, detta di Michelangelo per
via della presenza del celebre
Tondo Doni.
DOCUMENTARI
Franca Valeri,
la pioniera
Esce in dvd con La collana Feltrinelli Real Cinema «Franca la
Prima», un omaggio alla pioniera dello spettacolo italiano
firmato da Sabina Guzzanti. Il
sottile ma tenace filo della satira teso tra due donne che gettano il proprio sguardo tagliente
su un paese condannato a essere sempre se stesso. «Bisogna fare soltanto quel che si è
capaci di fare» ha detto una
volta Franca Valeri, che più di
qualunque altra artista italiana del Novecento, ha saputo
farci ridere dei nostri inguaribili difetti con ironica eleganza. Il dvd verrà presentato il
29, ore 18.30, al teatro Ambra
di Roma (Piazza Giovanni da
Trioria 15), alla presenza dell’attrice e dell’autrice.
Rete4
8.40 HUNTER Telefilm
9.50 CARABINIERI 7 Tf
10.50 RICETTE DI FAMIGLIA
Varietà
11.30 TG4 - METEO Infor.
12.00 UN DETECTIVE IN
CORSIA Telefilm
12.55 LA SIGNORA IN
GIALLO Telefilm
14.00 TG4 - METEO Infor.
14.45 LO SPORTELLO DI
FORUM Real Tv
15.30 Prima tv HAMBURG
DISTRETTO 21 Telefilm
16.35 I DANNATI E GLI EROI
FILM con Jeffrey Hunter, Constance Towers
18.55 TG4 - METEO Infor.
19.35 TEMPESTA D’AMORE
Soap
20.30 WALKER TEXAS
RANGER Telefilm
21.10
Novità LO SPETTACOLO DELLA NATURA Documentario
23.55 BLU PROFONDO FILM
con Thomas Jane
Canale5
8.00 TG5 MATTINA Infor.
8.40 LA TELEFONATA DI
BELPIETRO Rubrica
8.50 MATTINO CINQUE Att.
TG5 - ORE 10 Informazione (all’interno)
11.00 FORUM Real Tv
13.00 TG5 - METEO 5 Infor.
13.40 BEAUTIFUL Soap
14.10 CENTOVETRINE Soap
14.45 UOMINI E DONNE
Talk show
16.20 POMERIGGIO CINQUE
Attualità
TG5 MINUTI Informazione (all’interno)
18.50 AVANTI UN ALTRO
20.00 TG5 - METEO 5 Infor.
20.40 STRISCIA LA NOTIZIA
Attualità
21.10
Prima tv
Mediaset A NATALE
MI SPOSO FILM
con Massimo Boldi
23.30 DICK & JANE: OPERAZIONE FURTO FILM
con Jim Carrey
Antonello Catacchio
TORINO
I
primi giorni di Festival passano
agli archivi con un dato più che
lusinghiero in termini di presenze. Rispetto alla passata edizione gli
incassi sono aumentati del 12,6%
(nonostante il primo giorno fossero
operative solo tre sale contro le dieci dello scorso anno) e anche gli accrediti sono aumentati del 10%. Il tifo cinematografico del festival torinese non conosce antidoto. E le
contraddizioni romane, con relativo slittamento delle date del festival
torinese, potrebbero essersi rivelate
un ulteriore motivo di questa rinnovata passione.
Viene da Cuba, in concorso, un
film per certi versi imprevedibile,
Una noche, firmato Lucy Mulloy. La
storia racconta di tre adolescenti.
Raul vuole fuggire verso la Florida
perché a Miami pensa di trovare un
babbo sparito da tempo e una libertà mai conosciuta. Nel suo progetto
coinvolge Elio, segretamente infatuato dell’amico. E nel gioco entra
anche Lila, gemella di Elio che si
sente trascurata dal fratello al quale
è da sempre molto legata e complice. L’intreccio che ci porta a seguire
i tre protagonisti per l’Avana è quasi
pretestuoso, serve a giustificare uno
sguardo quasi documentario e compassionevole su una realtà dove le
cure mediche sono gratuite ma la vita ha un prezzo molto alto, e si campa di piccoli traffici, mercato nero,
baratto, battutacce antigay e prostituzione diffusa. Insomma, si vive
proprio male. Quando poi Raul si
trasforma in ricercato per avere malmenato duramente un turista puttaniere non è più tempo di indugi.
Tocca mettere in mare la zattera
con pneumatici per tentare di attraversare quelle poche decine di miglia che separano dal sogno americano che per Raul consiste in una
decapottabile rossa lanciata a tutta
Italia1
8.45 E.R. Telefilm
10.30 MIAMI MEDICAL Tf
12.10 COTTO E MANGIATO
Rubrica
12.25 STUDIO APERTO METEO - SPORT
MEDIASET Infor.
13.40 FUTURAMA Cartoni
14.10 I SIMPSON Cartoni
14.35 WHAT’S MY DESTINY
DRAGON BALL Cartoni
15.00 Prima tv Mediaset
FRINGE Telefilm
16.00 Prima tv Mediaset
SMALLVILLE Telefilm
16.50 Prima tv NATIONAL
MUSEUM Telefilm
17.45 TRASFORMAT Gioco
18.30 STUDIO APERTO METEO Informazione
19.20 C.S.I. Telefilm
21.10
DEATH RACE
FILM con Jason
Statham, Joan Allen
23.30 XXX 2 - THE NEXT
LEVEL FILM
con Ice Cube
La7
7.00 OMNIBUS Attualità
TG LA7 Informazione
(all’interno)
9.55 COFFEE BREAK
Attualità
11.00 L’ARIA CHE TIRA
Attualità
12.20 TI CI PORTO IO... IN
CUCINA CON VISSANI
Rubrica
12.30 I MENÙ DI BENEDETTA Rubrica (R)
13.30 TG LA7 Informazione
14.05 CRISTINA PARODI
LIVE Rubrica
16.30 IL COMMISSARIO
CORDIER Telefilm
18.20 I MENÙ DI BENEDETTA Rubrica
19.15 G’ DAY Varietà
20.00 TG LA7 Informazione
20.30 OTTO E MEZZO Att.
21.10
Prima tv La7
GREY’S ANATOMY
Telefilm
23.55 OMNIBUS NOTTE
Attualità
velocità con una ragazza seduta accanto. Anche i sogni sono poca cosa. Come quella zattera con il motore che non vuole saperne di partire
e allora tocca remare. Come se fosse facile. Come se non ci fossero anche pericoli che vanno ben oltre la
guardia costiera. Lucy Mulloy, che
in coda alla sua storia scrive che il
fatto raccontato è ispirato a storia
vera, non giudica e in fondo si limita a registrare le contraddizioni di
un paese dove l’ombra lunga della
guerra fredda ha oscurato il cielo e
le anime.
Una fuga verso l’ignoto perché si
L’ignoto anche in
«Anja - una nave»
di Roland Seiko.
Dalla Svezia, «Call
girls» di Marcimain
spera sia migliore del mondo in cui
uno si ritrova a vivere. Questa è anche la storia di Anija – la nave di Roland Sejko. Che per spiegare il suo
documentario parte da una barzelletta che circolava nell’Albania comunista con un personaggio che diceva che quando fossero stati aperti
i confini sarebbe salito su un albero
per non essere travolto dalla folla in
fuga. E Roland dice di essersi trovato anche lui, all’improvviso, senza
averci troppo pensato, tra quella folla che a partire dal marzo ‘91 ha usato qualsiasi mezzo per percorrere
quelle poche decine di chilometri
che separano l’Albania dalla mitica
Italia. Già perché nel febbraio cadono rovinosamente le statue di Enver Hoxha e il regime che aveva costruito dopo la seconda guerra mondiale e che aveva progressivamente
trasformato il paese in un enclave
comunista chiusa al mondo esterno. La nave dolce, il fantastico documentario di Vicari, ha raccontato
Rainews
18.30 TRANSATLANTICO
Attualità
19.00 NEWS Notiziario
19.25 SERA SPORT
Notiziario sportivo
19.30 IL CAFFÉ: IL PUNTO
Attualità
20.00 IL PUNTO
ALLE 20.00 Attualità
METEO Previsioni
del tempo
(all’interno)
20.58 METEO Previsioni del
tempo
21.00
NEWS LUNGHE
Notiziario
21.26 METEO Previsioni del
tempo
21.30 VISIONI DI FUTURO
Attualità
21.56 METEO Previsioni del
tempo
22.00 VISIONI DI FUTURO
Attualità
22.26 METEO Previsioni
del tempo
della Vlora, partita in agosto con il
suo carico di ventimila persone per
arrivare a disvelare tutte le miserie
di un paese ricco come l’Italia nei
confronti di quei poveracci trattati
come criminali. Sejko racconta anche della Vlora, ma parte prima
spiegando l’Albania, i primi sbarchi
salutati da un afflato di italica solidarietà forse anche anticomunista, e
si spinge sino al 1997 quando il liberismo economico subentrato al dirigismo comunista ha messo sul lastrico un intero paese attraverso
aziende finanziarie pirata, gettando
il paese nel caos.
Storie che intrecciano la vita della gente comune con le scelte dettate dalla politica. Che è poi quel che
ricostruisce Mikael Marcimain con
Call girl, trascinandoci nel 1976 in
Svezia. Paese socialdemocratico,
considerato avanzato sotto molti
punti di vista. Era però il momento
in cui alle elezioni si temeva che i socialdemocratici potessero essere
soppiantati dai conservatori (cosa
che effettivamente avvenne). Ma
questo è solo lo sfondo perché la vicenda ruota attorno a una donna
che gestisce un colossale giro di prostituzione rivolto a clienti importanti. Ministri, politici di ogni raggruppamento, alti funzionari e magistrati. Che non disdegnano momenti di
sesso a pagamento anche con ragazzine di quattordici anni.
Qualcuno indaga e vorrebbe scavare più a fondo, ma i potenti mettono a tacere tutto perché in certi
casi, diamine, la politica non c’entra e i maiali sono rosa o grigi ma
non si fanno la guerra a proposito
delle loro porcherie. Meglio archiviare tutto con un timbro «riservato», compreso qualche cadavere dimenticato per strada ma ormai ridotto al silenzio. Non è consolante,
ma scoprire che anche là, su al
Nord, hanno fatto cosette del genere aiuta a capire come sia imbecille
far politica con la geografia.
PRIMA DELLA PRIMA
Dietro le quinte del teatro Massimo,
con due atti unici di Maurice Ravel
Nella puntata di «Prima della Prima» la trasmissione di Rosaria
Bronzetti, in onda all’1.35 su Rai3, si andrà dietro le quinte del
Teatro Massimo di Palermo per il raffinato dittico di atti unici di
Maurice Ravel, «L'heure espagnole» e «L’enfant et les sortilèges».
L’allestimento è affidato per le scene e i costumi alla matita di un
disegnatore Altan, autore di personaggi come la cagnolina rossa a
pois bianchi Pimpa («Corriere dei piccoli»), il metalmeccanico Cipputi e numerosissime vignette satiriche per «la Repubblica» che per
la prima volta è impegnato in un ampio progetto per il teatro lirico.
La regia e la coreografia sono di Luciano Cannito. Sul podio Orchestra e Coro del Teatro Massimo, Yves Abel. Il cast, ricchissimo, comprende celebri e giovani interpreti che si avvicenderanno nei due
atti unici, fra cui Andrea Concetti, Marina Comparato, Sonia Prina,
Filippo Adami, Alessandro Luongo e Roberto Abbondanza. «L'heure
espagnole» e «L'enfant et les sortilèges» presentano due storie contrastanti. La regia televisiva di questa puntata è di Christian Angeli.
pagina 14
il manifesto
MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012
❚
terraterra
Marinella Correggia
La nuova Larzac contro l’aeroporto
U
na folla di almeno 30mila persone fra
agricoltori, residenti, ecologisti e politici si è radunata, con 400 trattori, a Notre-Dame-des-Landes per difendere i 1.700 ettari di terre agricole che sarebbe ingoiati dal
nuovo aeroporto di Nantes, costo 550 milioni
di euro. Totale assenza delle forze dell’ordine.
E dunque, tutto totalmente pacifico (http://www.airportwatch.org.uk/?page_
id=6149). Nei mesi precedenti ci sono stati invece vari scontri ed episodi di repressione degli attivisti.
La nuova Larzac francese è forse questa Zone à défendre (Zad) dalle parti di Nantes, e ha
la faccia dell’accampamento internazionale
contro i piani di costruzione di un ennesimo
aeroporto. Negli anni Settanta a Larzac, nel
sud della Francia, agricoltori e pacifisti si saldarono in un movimento di massa contro
l’espansione di una base militare. E vinsero:
nel 1981 il presidente François Mitterrand cancellò il progetto.
Nella regione di Nantes invece è in ballo un
aeroporto. Da decenni. Il primo striscione «No
all’aeroporto» fu issato da un gruppo di agricoltori 40 anni fa. Allora era in ballo la «base di lancio» del Concorde. Poi non se ne fece nulla.
Nell’attualità, Jean-Marc Ayrault, primo ministro francese (socialista) ed ex sindaco di
Nantes, è un sostenitore entusiasta del progetto di aeroporto nella sua graziosa città (i lavori
dovrebbero partire nel 2013). L’ha addirittura
spacciato per «aeroporto verde». Già, perché
dovrebbe avere: i tetti erbosi; le due piste congegnate in modo da ridurre i movimenti di aerei al suolo - il cosiddetto taxiing - con le relative emissioni di CO2; e l’immancabile orticello
biologico alla Michelle Obama per nutrire i dipendenti, pazienza per le particelle di particolato.
In realtà nessun escamotage può rendere
minimamente verde il settore dell’aviazione anche quella civile - che con le sue emissioni
di gas serra in alta quota è pesantissimo per il
clima e oltretutto, a differenza di altri comparti, è in continua e generalizzata crescita anche
per il fenomeno dei low cost.
L’aeroporto «verde e socialista» di Ayrault
ha molti oppositori a livello nazionale, per
esempio all’interno del partito Europe Ecologie Les Verts (Eelv) che potrebbe anche uscire
dal governo, su questa e altre vertenze. E la resistenza in loco è forte.
Criticatissima anche la multinazionale che
si è vista assegnare dal governo il compito di
coprire di cemento le terre nantesi: la Vinci, nota costruttrice di centrali nucleari, miniere di
uranio in Africa, autostrade e infrastrutture dell’ipercapitalismo.
La lotta va avanti da tempo. Un lungo reportage dipinge i «ribelli rurali, l’aeroporto inutile
e la maggiore occupazione postcapitalistica
d’Europa» (http:// labofii. wordpress. com/
2012/11/13/ rural - rebels- and -useless -airports-la-zad-europes-largest-postcapitalistland-occupation/).
Da mesi un gruppo di 150 attivisti, provenienti anche da Spagna e Germania, si è installato nell’area, in casali abbandonati, tende e casette di legno fra gli alberi. Non è solo protesta,
la Zad è un laboratorio post-capitalista fin dal
Campo per il clima che si svolse là nel 2009. I
«contestatori rurali» hanno un orto vero, Le sabot, nato nella primavera del 2011quando un
migliaia di persone armate di spade e semi coordinate dal movimento rurale Reclaim the
Fields occuparono, per coltivarli, alcuni appezzamenti al centro della Zad. Le Sabotmescola
resistenza e alternativa e il rifiuto di separare la
critica dalla costruzione, il sì dal no.
Il rally degli attivisti a Nantes casualmente
quasi coincide con un’altra azione di «disturbo» dell’aviazione: le manifestazioni europee
del 24 novembre per la fine dei voli notturni; la
rete European Aviation Campaigners chiede ai
cittadini danneggiati di esporre lenzuoli e striscioni sull’argomento.
il manifesto
DIR. RESPONSABILE norma rangeri
VICEDIRETTORE angelo mastrandrea
CAPOREDATTORI
marco boccitto, matteo bartocci,
massimo giannetti, giulia sbarigia,
micaela bongi, giuliana poletto (ufficio grafico)
il manifesto coop editrice a r.l. in LCA
REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE,
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CALABRIA
Martedì 27 novembre
FESTIVAL DEL FUMETTO Fino al 29 novembre «Le strade del paesaggio». Festival
del fumetto e delle arti visive. Ad ispirare la
rassegna sarà il tema de «Le Frontiere». Tra
gli ospiti Gianluca Cestaro e Pasquale Ruju,
rispettivamente disegnatore e autore di Tex,
a cui sarà dedicata un'intera mostra con
diverse opere originali dal titolo «Tex, la frontiera dell’avventura» a cura di Raffaele De
Falco. Numerosi eventi in programma fra cui
spicca Formic Wars, anteprima mondiale dei
disegni originali della nuova serie firmata
Marvel America, a cui è legato un interessante workshop a cura del suo illustratore Giancarlo Caracuzzo e Una Favola per Rino Gaetano mostra tratta dal libro «Sereno su gran
parte del Paese» di Andrea Scoppetta.
Tutti gli eventi, incontri, nel programma dettagliato al link www.lestradedelpaesaggio.com
■ Vari luoghi, Cosenza
EMILIA ROMAGNA
Martedì 4 dicembre
INIZIATIVE Fiom Emilia Romagna e Bologna, «Inchiesta» e «Il Manifesto» Bologna
organizzano la presentazione di due iniziative: «Dichiariamo illegale la povertà» e «Referendum per l'abolizione dell'articolo 8 e
ripristino articolo 18». Nella mattina del 4
dicembre saranno presentate le due iniziative politiche. Per la Fiom sarà presente Maurizio Landini. Per «Dichiariamo illegale la povertà» sarà presente Riccardo Petrella.
■ Sala Di Vittorio della Camera del
Lavoro, via Marconi 67, Bologna
LAZIO
Martedì 27 novembre, ore 17.30
LOTTO PER IL 18 Sbarca al cinema Palazzo a San Lorenzo insieme a Rino Fabiano
(consigliere del III Municipio), Roberto Giordano (Lavoro Società Cgil Roma Lazio),
Sandro Medici (Presidente X Municipio) e
Angela Ronga (Lavoro Società Cgil Roma
Est) «Lotto per il 18», per confrontarsi sui
temi della città e del lavoro partendo dai
diritti infranti dal governo Monti. Si raccoglieranno le firme per abrogare le modifiche
apportate all’articolo 18 dello Statuto dei
lavoratori e abrogare l’articolo 8 della Finanziaria del 2011 del governo Berlusconi, per
rimettere lavoro e diritti al centro dell’agenda politica. L’assemblea pubblica, farà sentire le diverse voci e i diversi punti di vista
che si esprimono e vivono nella città eterna
per riappropriarsi degli spazi di dibattito
che, spiegano in una nota: «ci vengono
negati e oscurati e per ricostruire un tessuto sociale che tenga insieme lavoro, diritti e
territorio, partendo dalla raccolta delle firme per i referendum»
■ Nuovo Cinema Palazzo, piazza dei
Sanniti, Roma
LOMBARDIA
Giovedì 29 novembre, ore 21
LA CRISI...PER TUTTI L'associazione culturale «Le Voci del Naviglio» organizza un
incontro con Paolo Ferrero, per la presentazione del suo libro «Pigs - La crisi spiegata a
tutti».
■ Centro Socio Sanitario, via Cavalieri
di Vittorio Veneto, Gaggiano (Mi)
MARCHE
Sabato 1 dicembre, ore 11
LUCIO MAGRI Presentazione del libro
«Alla ricerca di un altro comunismo».
Un occasione per ricordare Lucio Magri e
discutere delle prossime iniziative.
■ Biblioteca Comunale, corso Persiani Recanati (Mc)
Tutte le segnalazioni a: [email protected], altri appuntamenti al link: http://www.ilmanifesto.it/eventi/
–
Dopo il «cessate il fuoco» annunciato
al Cairo dalla Clinton, un ventenne di
Gaza, Anwar Qudaih, era andato a
festeggiare nella «zona cuscinetto», la
fascia larga 300 metri in territorio palestinese, dove un tempo la sua famiglia coltivava la terra. Ma quando si è
avvicinato alla barriera di filo spinato,
un soldato israeliano gli ha sparato in
bocca. La prima vittima del «cessate il
fuoco», che si aggiunge ai 170 uccisi,
un terzo donne e bambini, e agli oltre
mille feriti dai bombardamenti, che
hanno provocato danni per 300 milioni di dollari. Perché il «cessate il fuoco» possa durare «devono cessare gli
attacchi di razzi» contro Israele, sottolinea la Clinton, attribuendo ai palestinesi la responsabilità della crisi. Il
piano di Washington era chiaro fin
dall’inizio: permettere che Israele des-
le lettere
COMMUNITY
INVIATE I VOSTRI COMMENTI SU:
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Caro Portelli, un compagno
non può averlo fatto
Stavo leggendo l’articolo di Alessandro Portelli del 23 novembre «La malattia identitaria» quando arrivo alla
citazione della ballata del Pinelli dove
Valpreda risponde a chi gli dice che
l’autore della strage di Piazza Fontana
è Pino Pinelli «un compagno non può
averlo fatto».
Voglio sperare che Portelli sia solo un
giovane con un po’ di confusione, se
non è così lo invito a citare un caso in
cui i compagni si siano resi responsabili di stragi indiscriminate. forse Portelli si è fermato alle prime veline della questura e all’informazione di bruno vespa. Cordiali saluti
Renzo Perfumo, Genova
Caro Portelli,
cosa facevano i compagni?
Come molte compagne mi ostino a
comprare il vostro/nostro quotidiano.
Mi permetto quindi di chiedere una
chiarificazione in relazione all’articolo
di Alessandro Portelli del 23 novembre scorso «La malattia identitaria»
Quando Portelli scrive «Impossibile un
compagno non può averlo fatto» e
aggiunge «E invece i compagni lo facevano eccome» mi e vi chiedo a cosa
si riferisca e perché.
Fforse non ho letto bene, ma vorrei
chiedere, cosa secondo l’autore dell’articolo, hanno fatto i compagni.
E mi piacerebbe anche capire come
mai uno stralcio tratto da una ballata
per un compagno ammazzato in una
questura dello Stato italiano possa
essere usato per commentare il vile
attentato perpetrato ai danni di povera gente che beveva una birra a Campo dè Fiori a Roma. Chiedo ancora
all’articolista: «Cosa i compagni facevano?»
Isabella Tozza
Caro Fabio Fazio
Caro Fabio Fazio, non basta prevedere che le dichiarazioni di
Monti avrebbero provocato un
bel po’ di polemiche. Quando
qualcuno mente spudoratamente, in modo plateale, come Monti ha fatto, non si può sorridere
immaginando il putiferio che seguirà. Si controbatte, si chiede
un chiarimento. Questo ci saremmo aspettati, almeno da Lei.
Non le risulta che la proposta
del ministro Profumo era di aumentare le ore di lavoro frontale
dei docenti da 18 a 24? Non 2
ore come sostenuto da Monti. Fino a prova contraria i
ministri dovrebbero conoscere le percentuali.
1) 6 ore in più rappresentano il 33% di 18 ore.
2) Di fatto, le ore in più richieste non erano 6, ma
almeno il doppio perché ad ogni ora di lavoro frontale corrisponde un lavoro sommerso che è almeno pari
se non maggiore.
3) Senza essere dei tecnici della scuola, è facile capire che se con un orario di 18 ore un docente ha, in media, 4 classi, con 24 ore ne avrebbe 6, il che rappresenta non un incremento del 33% ma del 50%.
4) Si continua impunemente a misurare il lavoro
dei docenti in termini di presenza a scuola, come se si
misurasse il lavoro degli avvocati solo con la loro presenza in tribunale oppure degli ingegneri soltanto
con la loro presenza in cantiere, oppure il suo lavoro,
caro Fabio Fazio, con la sua presenza in studio.
5) Chi può credere che un incremento di ore, classi
e studenti, potrebbe migliorare la qualità della formazione? Non avendo il coraggio di risparmiare apertamente su una conquista fondamentale dello stato sociale si cerca di far passare come un miglioramento
un evidente taglio delle risorse disponibili. Tant’è vero che il problema è stato risolto facendo tagli su altri
capitoli di spesa della scuola statale (ma non di quella delle scuole paritarie).
6) Strumentale è stato Monti nel ridurre l’opposizione sociale che cresce nel mondo della scuola soltanto alla questione delle ore.
7) Monti, quello che straparla sempre di crescita,
ha avuto anche il coraggio di presentare come conser-
Caro Portelli,
sono rimasto allibito
Leggendo nell’articolo intitolato di
Alessandro Portelli, le seguenti parole:
«vi ricordate quando cantavamo "Impossibile, un compagno non può averlo fatto" e invece i compagni lo facevano eccome.» Vorrei informare il signor Portelli (che ha stranamente dimenticato che la canzone diceva «Impossibile, grida Pinelli, un compagno....» ecc.) che si tratta appunto di
un verso della «Ballata del Pinelli»
che immagina gli ultimi minuti di Pinelli prima del volo.
Quello che un compagno non può
avere fatto era appunto la strage di
Piazza Fontana. Dicendo «e invece i
compagni lo facevano eccome» Portelli sostiene di fatto (anche se probabilmente senza nemmeno rendersene
conto, almeno lo spero) che erano i
compagni a mettere le bombe in Piazza Fontana, e - perchè no? magari
anche in Piazza della loggia, sull’Italicus, ecc.
Come spiegare un’affermazione simile? I casi sono due, non mutuamente
escludentisi. Il primo è la solita inguaribile superficialità dei giornalisti, che
amano spesso fare affermazioni ad
effetto senza preoccuparsi nè della
fondatezza nè delle conseguenze delle loro affermazioni. La seconda è
l’estremo ed inguaribile senso di colpa della sinistra di origine marxista,
vatore il rifiuto dei docenti di incrementare l’orario di lavoro. Un incremento che produrrebbe un importante taglio di posti di lavoro (ai
precari). Certo che c’è stata una indisponibilità dei docenti a questa
stupidaggine economica. Non diciamo le percentuali, ma l’abc dell’economia? Ci aspettiamo diritto di replica. Cordiali saluti
Angela Trovato (docente di Latino e Greco, Liceo Classico Statale
Aristofane, Rm),Cristina Fantoni
(Docente di scuola secondaria di
primo grado), Edmondo Febbrari, Rossella Ghirlanda,
Riccardo Poglio, Gemma Patscot, Marco Cipriani, Giovanna Chiesi,Luca Pischedda, Bruna Coppelli, Franca
Ida Rossi, Paola Pietrandrea, Alessandro Santi (Docente Educazione fisica I.C. Rosmini, Rm), Irene Carducci, Andrea Sansò, Mariella Rossitto (docente scuola secondaria prima grado. Ist.Pirandelli, Patti), Eleonora Citracca (docente di lettere Liceo Machiavelli,
Rm), Paola Mastrantonio (Liceo Scientifico Talete, Roma), Maria Grazia Palombi (Liceo Ginnasio Buratti,
Vt),Fabrizia Piccolo (docente in pensione, Palestrina
Rm), Stefania de Stefani, Lucrezia Tanzi, Clauda Urzì,
Titti Laviola, Rossella Cerra, Carola Catenacci, Fabio
Tassoni (docente di Matematica e Fisica Liceo Scientifico Talete, Rm), Federico Burani, Marco Micalizzi,
Stefania Ferretti, Ida Nigro, Consolata Lapati, Francesca Frascaroli, Gabriella Assante, Marika Kassimatis,
Aurora Marini e Guido De amrco (Docenti Itc L.Radice, Rm), Francesco Fantuzzi (Liceo Laura Bassi, Bo),
Susanna Giansanti, Marcello Nobili (Liceo Primo Levi,
Rm), Edmondo Febbrari, Paola Porcelli (Insegnante di
scuola media,Rm), Flaviana Montesi, Mario Lentano,
Mariacristina Colombo, Lara Muccioli, Rina Cittadini,
Eulalia Grillo (Bo), Flavio Coppola, Norina Ciafarone,
Tilde Centracchio, Grazia Arzillo, Annalisa Bigazzi, Mirella Berardocco, Laura Casella, Patrizia Sommi, Maria Rosaria Gonzales, Micaela Fattorini, Anna di Zio,
Eleonora Serale (docente precaria IC Guido Milanesi,
Rm), Lucia De Faveri (Liceo Giuseppe Bertoò. Mogliano Veneto, Tv), Paola Tommaseo (docente Liceo Vico
Corsico, MI).... seguono tantissime altre firme.
che la porta perfino ad autoaccusarsi
delle peggiori malvagità, anche se
commesse da altri.
Entrambe le cose lasciano comunque
l’amaro in bocca ad un lettore del
manifesto, che lo legge proprio perché gli sembra un giornale immune
da questi due difetti. In quanto ex
militante anarchico mi onoro di essere stato amico di Valpreda e di aver
frequentato Pinelli nell’ultimo anno
della sua esistenza. Mi fa male dover
difendere la loro memoria anche dal
manifesto.
Aligi Taschera, Milano
L’autore risponde
Cari compagni,
grazie delle vostre lettera al giornale.
Provo a dire due cose. Io ero fermamente convinto che l'idea di uccidere
ripugnasse intrinsecamente a una
coscienza di sinistra (non lo dico in
nome di una non-violenza astratta: ho
scritto un libro su Via Rasella che è
piaciuto molto ai compagni partigiani). Poi sono arrivate le Brigate Rosse
e dintorni.
Avete certamente ragione nel dire che
i compagni non facevano le stragi.
Però le stragi fasciste e gli assassini
mirati dei gruppi clandestini armati mi
ponevano e mi pongono due ordini di
problemi diversi. Le stragi fasciste
erano fatte «contro» di me, e mi ponevano un problema di vigilanza, controinformazione e lotta antifascista di
LL’ARTE DELLA GUERRA
Grandi manovre attorno a Gaza
Manlio Dinucci
se «una lezione» ai palestinesi e si
servisse dell’operazione bellica quale
test per una guerra regionale, evitando però che l’operazione si allargasse
e prolungasse. Ciò avrebbe interferito
con la strategia Usa/Nato, che concentra le forze su due obiettivi: Siria e
Iran. In tale quadro rientra la nuova
partnership con l’Egitto, che secondo
la Clinton sta riassumendo «il ruolo di
pietra angolare di stabilità e pace regionale svolto per lungo tempo», quindi anche nei trent’anni del regime di
Mubarak. Il presidente Morsi, lodato
dalla Clinton per la sua «leaderhip
❚
«Che tempo che fa» tra gli insegnanti
personale» nel conseguimento dell’accordo, ne ha tratto vantaggio per concentrare il potere nelle proprie mani.
In compenso Washington gli chiede
un più stretto controllo del confine
con Gaza, così da rafforzare l’embargo. Ma lo scopo della partnership va
ben oltre: essa mira a integrare l’Egitto, dipendente dagli aiuti militari Usa
e dai prestiti del Fmi e delle monarchie del Golfo, nell’arco di alleanze
costruito da Washington in funzione
della sua strategia in Medioriente e
Nordafrica. Significativo, in tale quadro, è il ruolo del Qatar: dopo una
visita segreta in Israele (documentata
però da un video), l’emiro Sheikh Hamad bin Khalifa Al-Thani è andato a
Gaza a promettere aiuto e dopo ha
incontrato il presidente Morsi al Cairo,
consegnandogli 10 milioni di dollari
per curare i palestinesi feriti dalle
bombe israeliane. Si presenta così
come sostenitore della causa palestinese e araba, mentre ciò che sostiene
è in realtà la strategia Usa/Nato, come ha fatto inviando forze speciali e
armi in Libia nel 2011 e oggi in Siria.
Altra politica a due facce è quella del
premier turco Erdogan che, mentre
massa.
Gli assassini mirati dei «compagni»
erano perpetrati in mio nome, e mi
ponevano la domanda: come è possibile che dal mio mondo scaturiscano
azioni di questo genere? che cosa
c'entro io con loro?
Fra le stragi fasciste e gli assassini
mirati brigatisti io riconossco una differenza quantitativa e tattica, non una
differenza morale.
Sul piano tattico, rispondevano a disegni politici diversi: i fascisti volevano
seminare il terrore fra la gente per
renderla disponibile a una svolta autoritaria; i brigatisti uccidevano figure
riformatrici nella visionaria convinzione che questo avrebbe accelerato
l'insurrezione popolare.
Sul piano quantitativo, se sapere che
i «compagni» hanno ammazzato meno gente dei fascisti è sufficiente a
tranquillizzarci al punto che non li nominiamo nemmeno, credo che la fase
dell'incredulità posttraumatica non sia
ancora finita.
Con il rispetto che si deve fra compagni, un saluto
Sandro Portelli
Per dare spazio a più voci possibile,
chiediamo a lettrici e lettori di
inviarci commenti e lettere che non
superino le duemila battute, spazi
compresi.
Grazie
–
condanna Israele e annuncia una prossima visita di solidarietà a Gaza, collabora di fatto con Israele nell’accerchiare e disgregare la Siria e, chiedendo
l’installazione di missili Patriot nella
zona di confine, permette alla Nato di
imporre una no-fly zone sulla Siria.
Dello stesso tenore la politica del governo italiano che, mentre rafforza i
legami militari con Israele permettendo ai suoi cacciabombardieri di esercitarsi in Sardegna, promette aiuti alle
imprese palestinesi di artigianato. Così, mentre le navi da guerra israeliane,
appoggiate da quelle Nato (italiane
comprese), bloccano i ricchi giacimenti palestinesi di gas naturale nelle acque territoriali di Gaza, i palestinesi
potranno vivere intagliando oggetti di
legno. Come, negli Usa, gli abitanti
delle «riserve indiane».
il manifesto
MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012
pagina 15
COMMUNITY
Euro, da sogno a incubo
L’
euro sta portando a fondo l’Unione Europea e
con essa il sogno federalista dei suoi ispiratori e il progetto
politico dei suoi fondatori. Come
mezzo di pagamento, moneta in
tasca o sui conti correnti di ciascuno di noi, l’euro è stata una grande novità positiva per centinaia di
milioni di cittadini europei, a cui
ha dato finalmente la percezione
materiale di una abolizione dei
confini nel continente; la possibilità di pagare i propri acquisti all’estero – anche al di fuori dei confini dell’eurozona, e in diversi continenti – senza dover fare complicati calcoli mentali per capire
quanto gli stessero costando effettivamente; e, per noi italiani, anche la prova evidente che con i salari e le pensioni tra le più basse
d’Europa molti prezzi – bar, ristoranti, alberghi, farmaci, teatri,
ecc. – sono i più alti del continente. Ma come mezzo di accumulo
di valore, che è la radice e la ragion d’essere della finanza, l’euro
ha enormemente favorito il meccanismo di universale indebitamento – di famiglie, di imprese, di
banche, di Stati - su cui da almeno due decenni (e in molti casi da
molto più tempo) si regge l’intero
sistema economico mondiale,
mettendo nelle mani di un ristretto numero di «operatori» dell’alta
finanza la vita e il lavoro di miliardi di esseri umani.
Queste due funzioni della moneta sono difficilmente scindibili,
anche se alcune ipotesi su come
allentare la stretta dell’una sull’altra sono state fatte e andrebbero
urgentemente riprese in considerazione. Ma negli scorsi decenni
tutto quello che era possibile fare
per renderle invece inestricabilmente connesse è stato fatto: a
partire dall’azzeramento della separazione tra banche commerciali, che trattano soprattutto mezzi
di scambio, e banche di investimento, il cui scopo è promuovere
l’accumulazione del capitale; e
dalla «libera circolazione dei capitali»: molto più libera di quella delle merci e soprattutto di quella
delle persone, spesso costrette a
salire su barconi fatiscenti o a traversare deserti nel cassone di un
camion per spostarsi da un paese
che non li vuole a uno che li vuole
ancor meno, invece di viaggiare
con semplici impulsi elettroni verso paesi sempre pronti ad accoglierli a braccia aperte.
Le conseguenze di quelle due
misure di «liberalizzazione» sono
davanti agli occhi di tutti: una generale situazione di insolvenza
che ha coinvolto e coinvolge famiglie, imprese, banche e Stati, e
che viene rimpallata dagli uni agli
altri nel vano tentativo di procrastinare una generale resa dei conti. Prendete il caso della Grecia,
dove i debiti di banche e governo
sono stati e continuano a venir
scaricati sulla popolazione, nel
tentativo – fallito - di farne uscire
indenni prima le banche straniere – soprattutto tedesche e francesi – che li avevano finanziati; e poi
la Bce (Banca centrale europea), e
Sanità pubblica
riposa in pace
Sciopero contro
i tagli del governo
Andalusia (Spagna)
Scioperano i lavoratori
della sanità pubblica a Siviglia,
davanti l’ospedale Virgen del
Rojo. Lo sciopero arriva dopo
settimane di proteste contro i
tagli del governo regionale, che
prevede la perdita di molti posti
di lavoro e la privatizzazione del
settore della sanità pubblica.
(Foto Reuters)
I veri europeisti sono coloro che sostengono che non si può procedere verso
un’Europa dei popoli se non si ha innanzitutto il coraggio, e poi la forza, di
imporre una revisione radicale di tutto l’assetto finanziario su cui si è retta
finora la sua costruzione. Ma bisogna che le forze sociali che lo vogliono
veramente si uniscano in un movimento comune
Guido Viale
il Fmi (Fondo monetario internazionale), che li hanno rifinanziati;
e poi gli altri Stati dell’eurozona,
che hanno finanziato o garantito i
finanziamenti della Bce e quello
dei nuovi marchingegni, come
l’Efsf (il cosiddetto Fondo salvastati), con cui si sta cercato di rimandare la resa dei conti: con una catena di rimandi che, come ha rilevato Alessandro Penati su Repubblica del 24.11, non è che un gigantesco «schema Ponzi», ovvero
una «catena di Sant’Antonio». A
questo si è ridotta infatti la politica finanziaria della Bce.
Ma è almeno due anni che qualsiasi persona di buon senso e molti commentatori di questo giornale ripetono che la situazione finanziaria della Grecia è insostenibile
e che il suo fallimento (default) è
già iscritto nei fatti. Viene da chiedersi come mai un inossidabile liberista come Penati se ne sia accorto, o ne dia riscontro, solo ora.
Ma il peggio deve ancora venire e
quello che Penati non dice è che
cosa succederà, all’euro e a tutta
l’Unione Europea, quando il default della Grecia dovrà essere
sancito. Ma forse a quel momento non si arriverà mai, perché a ritrovarsi ridotti nella condizione
della Grecia, e prima ancora del
suo fallimento ufficiale, saranno
altri Paesi dell’eurozona, e ben
più «importanti»: per esempio la
Spagna o l’Italia. Penati non spiega infatti è come sia possibile che
l’economia italiana o spagnola – e
molte altre – possano evitare di avvitarsi sempre più su se stesse,
esattamente come la Grecia,
quando, oltre al pareggio di bilancio, dovranno fare fronte anche al
cappio del fiscal compact: cioè rastrellare con le tasse e l’assalto alla spesa sociale altri 50 (Italia) o
30-40 (Spagna) miliardi all’anno
per ripagare la loro quota di debito, oltre al peso degli interesse,
che per l’Italia ammonteranno ad
oltre 100 miliardi all’anno; mentre già le banche di entrambi i paesi (ma presto anche quelle francesi e probabilmente anche tedesche) sono in affanno per fare
fronte agli impegni di ricapitalizzazione imposti dall’accordo Basilea 3. Una ristrutturazione o un
consolidamento dei debiti dei
principali paesi europei appare
sempre più inevitabile; ma nessuno ne vuol sentir parlare. Perché?
La vulgata corrente è che c’è
una road map in grado di portare
il continente fuori dalle attuali secche: prima l’entrata in vigore del
Fsef; poi l’unione bancaria con
un sistema di vigilanza unificato;
poi gli eurobond per mutualizzare i debiti sovrani, o addirittura i
project-eurobond per rilanciare
anche lo sviluppo; poi la trasformazione della Bce in prestatore di
ultima istanza, per arrivare così all’unione politica, che legittimerà
tutte queste operazioni, per ora affidate a organismi privi di legittimazione democratica.
Intanto l’Unione europea non
riesce nemmeno a trovare un accordo sul proprio bilancio. Tutti,
chi più, chi meno, sono orientati
a restringerlo, a ricondurlo a generale austerità del continente, lasciando possibilmente immutati i
fondi destinati alle politiche clientelari (Pac, Fondo sociale, sussidi
all’industria) e tagliando quelli destinati alle politiche più innovative. Il fatto è che nel corso degli ultimi anni tutte le maggioranze di
governo, chi più e chi meno, hanno giocato sulla crisi dell’euro per
fidelizzare il proprio elettorato aizzandolo contro i vincoli che dovrebbero tener unita l’Unione, e
attribuendo ad altri la responsabilità di una crisi che comincia a
mordere tutti, paesi «forti» compresi. Chi accusa giustamente i paesi più forti di aver beneficiato dell’euro per esportare a credito, per
tener basso il proprio tasso di
cambio – e ora anche quello di interesse – e per incamerare interessi da favola sul denaro prestato. E
chi accusa i paesi più deboli di
aver accumulato deficit di bilancio e delle partite correnti a sbafo,
come se tutte queste cose dipendessero da comportamenti dei la-
–
DALLA PRIMA
Alberto Asor Rosa
UNA ALLEANZA
NECESSARIA
voratori e delle popolazioni dei vari paesi, e non dalle politiche commerciali e di bilancio adottate da
banche, imprese e governi che
hanno goduto e spesso si sono tenuti in pedi solo grazie all’ombrello protettivo della Bce e della
Commissione. In testa a questa
corsa a uno sciovinismo senza ritorno c’è il governo tedesco, ma i
malumori ben lubrificati sia contro paesi sfruttatori che contro i
paesi spendaccioni, di cui si nutrono i diversi nazionalismi e fa le
spese l’Unione, allignano ormai
ovunque.
E’ possibile allora che in queste
condizioni il progetto di un’unione politica dell’Europa possa sopravvivere e andare avanti, inanellando una dietro l’altra le misure
tappabuchi di uno «schema Ponzi»? E senza metterne in discussione le fondamenta, cioè la scelta di
far pagare la crisi ai lavoratori e a
una popolazione sempre meno
protetta dal welfare per tenere in
piedi con interessi e rimborsi stratosferici una finanza che continua a speculare, e a guadagnare
miliardi, sulle disgrazie altrui? No,
non è possibile.
Per questo i veri nemici dell’unificazione politica europea sono coloro, come Monti e tutti coloro che lo sostengono e lo osannano, che presentano e considerano senza alternative i diktat finanziari che provengono dal mondo
dell’alta finanza e dalla sua intermediaria politica che è la Bce; diktat che, come mostra il caso della
Grecia e dei vari memorandum a
cui è stata sottoposta, portano allo sfacelo un’intera nazione mettendo in pericolo anche tutto il resto del continente.
Mentre i veri europeisti sono
coloro che sostengono che non si
può procedere verso un’Europa
dei popoli se non si ha innanzitutto il coraggio, e poi la forza, di imporre una revisione radicale di tutto l’assetto finanziario su cui si è
retta finora la sua costruzione:
una ristrutturazione o un consolidamento di lungo periodo dei cosiddetti debiti sovrani (che sovrani proprio non sono) in attesa di
trovare un accordo sulla loro mutualizzazione, cioè condivisione;
una rinegoziazione degli accordi
– pareggio di bilancio, fiscal compact e Fsef, per cominciare – con
cui si pretende di «rimettere in sesto» la finanza dei paesi europei a
spese delle fasce sociali meno protette; una separazione netta tra
banche commerciali e banche di
investimento e una concentrazione dei debiti di queste ultime in
una o tante bad-bank i cui costi
mettere a carico dei grandi investitori; una seria limitazione della circolazione dei capitali: innanzitutto con l’introduzione una tassa
consistente e generalizzata su tutte le transazioni finanziarie. A queste condizioni, forse, l’euro potrà
sopravvivere; e l’Europa procede
verso una unione politica veramente democratica. Ma bisogna
che le forze sociali che lo vogliono
veramente si uniscano attraverso
in un movimento comune.
Tutto il resto è, al massimo, buona sollecitazione o provocazione dall’esterno,
anch’essa per quanto si può da coltivare e migliorare. Ma per fare politica, e governare, quella massa critica è indispensabile e ineliminabile punto di partenza (tornerò in conclusione su queste definizioni).
In questa massiccia conquista democratica
s’insinua come un cuneo l’ipoteca renziana.
Ahimè, sì, l’onda lunga del grillismo - ossia parole, chiacchiere, allusioni, battute e battutacce, e
spettacolo, al posto di idee, propositi e programmi, - intacca anche il massiccio schieramento
del centro-sinistra e ne mette in forse scopi, obbiettivi ed esiti. Cioè, non siamo di fronte, come
viene gabellata, a una variante possibile del centro-sinistra, ma ad un’«altra cosa», che potrebbe andare in qualsiasi direzione. Ci si può rammaricare che un così alto numero di italiani
«progressisti» non se ne accorga. Ma, dopo
vent’anni di berlusconismo, e dopo le innumerevoli cadute e gli intollerabili silenzi della sinistra, le cose stanno così: la crisi, in questo senso, è profonda, cioè prima culturale che politica. Invece di piangerci sopra, bisogna però provvedere a contenere l’onda dell’«antipolitica» di
«sinistra» (?) e a tener ferma la barra sull’obiettivo prefisso.
E’ evidente: c’è un solo modo per farlo. Per
salvare il centro-sinistra, e per salvare con il centrosinistra l’Italia, non c’è che l’alleanza Bersani-Vendola. A malo bonum: la presenza del rischio renziano può contribuire a spostare a sinistra l’asse di tale alleanza. Tale alleanza non potrà essere di potere ma programmatica. Non
penso a un accordo stilato a tavolino. Penso invece che il candidato alla leadership debba
esternare le sue persuasioni in modo convincente e inequivocabile: quando si parla di equità e di giustizia sociale si dovrebbe uscire dal generico ed entrare di più nel merito. Qualche parola in più (e più specifica) meriterebbero le attività fondative: cultura, ricerca, scuola e Università. E l’ambiente, finora quasi totalmente assente dal dibattito. Se le cose fossero poste in
questo modo, l’alleanza da elettorale potrebbe
diventare strategica.
Non ci si può dimenticare, infatti, che, mentre ci si batte per vincere le primarie, è alle porte il ritorno in forze del montismo, il quale è destinato ad approfittare di qualsiasi passo falso si
compia nel campo progressista. Questa è la
grande calamita che tira a se qualsiasi componente moderata (anche di destra moderata, e
anche di sinistra moderata) si muova attualmente sullo scacchiere politico (e anche il renzismo, che che ne dica, va per forza di cose in questa direzione). Anche da questo punto di vista il
discorso da parte del centro-sinistra dovrebbe
farsi più chiaro. La riconquista del paese alla politica passa di qui, e cioè dalla scelta a favore di
una prospettiva democratica seria sancita dal
voto. Sempre più evidente risulta che questa è
una partita decisiva, e decisiva per molti anni a
venire. Perciò: il discorso sarebbe ancor meglio
compiuto se tutto l’«arancionismo» o l’«albismo» che girano sotto traccia o a poco a poco si
vanno rivelando entrassero in questa compagnia: anch’essi contribuirebbero a renderla più
ricca e migliore e al tempo stesso a farla vincere, due fattori che, se si verificassero insieme,
darebbero inizio con maggior chiarezza alla «ricostruzione».
Al tempo stesso Vendola non dovrebbe essere troppo tentato dall’occasione che gli si presenta d’essere risolutivo ai fini del risultato della consultazione che si terrà il prossimo 2 dicembre. Sempre più mi appare chiaro che la ridefinizione di un’autentica, seria e vincente sinistra politica di massa in Italia non è punto di
partenza ma un punto di arrivo: tra la situazione presente e quella futura c’è un percorso da
compiere, non una montagna di parole da spendere. Il voto del prossimo 2 dicembre potrebbe
rappresentarne la prima tappa.
DIVINO
–
L’«appannamento» del Concilio
Filippo Gentiloni
Un gruppo di sacerdoti delle regioni
venete, in occasione del Natale
2011, ha scritto un testo per esprimere esperienze, sofferenze e speranze riguardo alla chiesa cattolica,
nel segno dell’ «appannamento»
dello spirito del Concilio Vaticano II.
Una storia di luci e di ombre. La
chiesa - dicono - è insieme «anta e
peccatrice», sempre da convertire,
perché formata da persone con le
loro fragilità, perché istituzione storica segnata da condizionamenti,
parzialità, errori; nel corso della
storia la chiesa diventa una istituzione fra le altre, con l’aggravante
di pretendere il suggello divino.
Il testo afferma : « Crediamo la chiesa profetica, coraggiosa nell’annuncio del vangelo, fedele e coerente
nella testimonianza, con scelte chiare da tutti leggibili». E prosegue:
«Crediamo la chiesa che si apre all’incontro, al dialogo, con donne e
uomini anche di altre fedi religiose,
con tutte le donne e gli uomini di
buona volontà. Ricordiamo che la
regola d’oro - fai agli altri ciò che
vuoi che gli altri facciano a te - è
ugualmente presente in tutte le più
grandi tradizioni religiose dell’umanità. Crediamo la chiesa che vive la
liturgia con intensità e semplicità, in
modo responsabile, partecipato e
diretto, celebrando l’incontro fra noi
e Dio, fra storia e trascendenza, fra
concretezza e mistero, fra il già e il
non ancora.
Emergono spesso dal nostro profondo le parole di Bonhoeffer, grande
teologo martire del nazismo : "Viene
un tempo nel quale ci restano due
scelte: pregare e operare per la giustizia". Da qui ripartiamo e qui ritorniamo».
Il testo intero, presentato da don Pierluigi di Piazza (Udine), è pubblicato
sulla rivista fiorentina «Testimonianze», fondata da Ernesto Balducci.
pagina 16
il manifesto
MARTEDÌ 27 NOVEMBRE 2012
L’ULTIMA
storie
Roberto Ciccarelli
«M
a è possibile che uno con un contratto da senatore a tempo indeterminato debba dare lezioni di
flessibilità al Paese?» ha postato un docente ieri su facebook. Dopo le affermazioni del Presidente del Consiglio Mario Monti a «Che tempo che fa» sul corporativismo dei docenti che
hanno «rifiutato di lavorare due ore in più», in
rete qualcuno ha voluto fare i conti in tasca all'ex rettore della Bocconi che ha rinunciato,
com’è noto, al compenso da premier e da ministro dell’Economia, fino a quando ha ricoperto la carica. Nel 2010, Monti ha dichiarato
1.525.744 euro, dei quali quasi la metà versati
al fisco.
Ai più questo dettaglio sembrerà superfluo
rispetto alla dura polemica che è scoppiata ieri. Ma una parte del dibattito è stato dominato da questo particolare che non è sfuggito a
chi per mesi è stato additato come «fannullone» solo perchè si è opposto ad una norma inserita inizialmente nella legge di stabilità che
avrebbe aumentato di sei ore l’orario lavorativo dei docenti a parità di salario.
Se non fosse stata ritirata dal governo, sommerso dalla reazione veemente degli insegnanti e dei sindacati, queste persone assunte a tempo indeterminato avrebbero continuato a guadagnare 1270 euro di stipendio
mensile base lavorando, in media, fino a 50
ore alla settimana, tra lezioni frontali in classe
e preparazione a casa. Forse ciò che ha più indignato i docenti che hanno sommerso le redazioni e i siti di lettere di protesta è proprio
la macroscopica differenza tra il reddito di chi
li ha giudicati «corporativi» e quello di chi si è
rifiutato di lavorare di più e gratis.
In un documento firmato da centinaia di
docenti indirizzato a Fabio Fazio (pubblicato
a pagina 14) sono state esplicitate le «falsità»
sostenute domenica scorsa dal presidente del
Consiglio: l'aumento delle ore di lavoro frontale in classe era di sei ore, e non di due, cioè
il 33% in più. Il che avrebbe aumentato l'attività non retribuita di un docente fino al 50% a
settimana. Questa misura iniqua avrebbe inoltre comportato il taglio degli spezzoni delle
supplenze affidate ai docenti precari.
Alcune stime hanno calcolato un taglio tra
le 6400 e le 24 mila unità, anche se sono stati
fatti calcoli più catastrofici. La norma difesa
da Monti in nome di una «modernità», se approvata, avrebbe comportato l’espulsione di
questi precari da un lavoro che, in molti casi,
svolgono da molti anni. Un rischio che ha fatto imbufalire anche i sindacati che, a differenza della Cgil, hanno accettato l'accordo con il
governo sugli scatti di anzianità (dalla Cisl alla Gilda) e ieri hanno respinto l'accusa di «corporativismo».
A questo punto avanza un sospetto. Perchè
questa uscita di Monti a freddo per difendere
una posizione che il governo ha dovuto abbandonare, con la coda tra le gambe? Per il segretario della Flc-Cgil Domenico Pantaleo,
quella di Monti potrebbe essere interpretata
anche come l'avvio di una nuova offensiva
del governo sulla scuola.
«I veri conservatori sono Monti e Profumo
che non hanno alcun progetto di innovazione della scuola e continuano sulla linea del governo precedente – afferma – L'aumento dell'orario violava il contratto nazionale. Monti
confonde l'orario di funzionamento delle
scuole con quello delle lezioni frontali». Per
Francesco Scrima, Cisl scuola, il «corporativismo» è un «luogo comune» da abbandonare.
«Finché c'è il presupposto, falso, che i nostri
docenti lavorino poco e male, quando invece
sono quelli che hanno i salari più bassi d'Europa – dice – è naturale che prevalgano atteg-
FABIO FAZIO
Le dieci domande
che avrebbero inchiodato
il premier Mario Monti
a «Che tempo che fa»
DOCENTI CON I CASCHI E GLI SCUDI DEL «BOOKBLOC» IN PRIMA FILA AL CORTEO DI VENERDÌ A CINECITTÀ/FOTO SIMONA GRANATI
Scuola
VERITÀ IN GIOCO
Docenti, sindacati e studenti
replicano con veemenza
all’accusa di «corporativismo»
rivolte da Monti e da
Napolitano. Quelle del governo
sono «falsità». La sua è un’idea
di «modernità» senza diritti
giamenti di conservazioni. Monti cambi approccio. Queste battute aggiungono altra rabbia a chi chiede considerazione per il proprio
lavoro». La Uil-Scuola invita il governo al contrasto dei «veri corporativismi», vale a dire «il
numero delle auto blu, la retribuzioni dell'alta burocrazia». Gli studenti dell’Udu centrano un’altra questione: il tentativo del governo
di opporre lavoratori stabili e precari, ricercatori e studenti: «Dividere le categorie deboli
per comandare - evidenzia il portavoce Daniele Lanni - ma è una trappola in cui non cade
più nessuno».
Tra giusta indignazione, buone ragioni e
una qualche vena di populismo anti-casta, le
polemiche sono continuate fino a quando è
intervenuto il presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano, appoggiando in maniera
enigmatica, ma significativa, l’intemerata di
Monti. «Bisogna predisporsi a tutti i cambiamenti strutturali, istituzionali, comportamentali - ha detto Napolitano - necessari per garantire il più razionale, trasparente e sobrio
uso delle risorse finanziarie pubbliche. Non si
può restare prigionieri di conservatorismi e
corporativismi, come ha sottolineato il presidente Monti». Parole che confermano l’oggetto dello scontro in atto sulla scuola. Il «corporativismo» che il governo rinfaccia agli insegnanti sottintende l’idea di aumentare la «produttività» senza salario, nè diritti. Per tutti.
STUDENTI
In piazza il 6 dicembre
La notizia era stata anticipata sabato 24 novembre, il giorno delle manifestazioni a Roma
e in altre 20 città, sul portale StudAut, uno
degli snodi comunicativi più frequentati dagli
studenti medi in mobilitazione contro il pdl «ex
Aprea». Ieri è arrivata la conferma da parte della maggior parte delle sigle studentesche. Giovedì 6 dicembre, lo stesso giorno dello sciopero generale della Fiom, gli studenti medi e universitari torneranno in piazza contro le politiche
di austerità del governo Monti in tutto il paese.
«In un’Italia che fino a poche settimane fa sembrava totalmente pacificata e rassegnata ai
sacrifici - scrivono gli studenti della Rete della
Conoscenza - il movimento studentesco è stata
la vera novità. Vogliamo dimostrare come i sacrifici che ci vengono chiesti non siano l'unica
soluzione possibile».
Lo aveva profetizzato Fabio Fazio. «Le sue dichiarazioni - ha detto domenica sera al termine
dell’intervista al presidente del Consiglio Mario
Monti a «Che tempo che fa» - susciteranno un
putiferio». Cosa regolarmente avvenuta, basta
leggere le centinaia di commenti postati sul
sito della trasmissione in onda su Rai Tre, come
sulla sua pagina Facebook. La maggior parte se
la prende con il conduttore televisivo che non è
stato in grado di fare domande capaci di smontare le affermazioni «di qualcuno che mente
spudoratamente». Anche in questo caso, non è
però mancata l’ironia. Parliamo delle «dieci
domande di Fazio che hanno inchiodato Monti»
pubblicate sul sito amlo.it. Lo stile è quello di
Giuseppe D’Avanzo con le domande a Silvio
Berlusconi in occasione dello scandalo Noemi.
Esilarante è la successione di appellativi che
definiscono il Presidente del Consiglio. Si parte
da un sobrio «Signor Presidente», si passa al
«Professore» e all’«Egregio Dottore», per poi
salire in un climax irresistibile. Monti viene chiamato, nell’ordine: «Santità», «Oscuro Signore Di
Mordor», «Venerabile Jedi», «Immenso Jabba
The Hut», «Imponente Lord Darth Vader». La
sequenza vuole segnalare - per via umoristica l’eccessiva deferenza dell’intervistatore rispetto
all’intervistato. Ma passiamo ai contenuti. Quelli che riguardano l’attualità, ad esempio: «il
mercato immobiliare sta crollando, il commercio è distrutto, state licenziando tutti quelli con
contratto a termine, il paese è allo stremo, e
dunque una domanda sorge spontanea: pure a
lei la pizza la sera le se ripropone?». Oppure:
«Lei ha appena detto che gli insegnanti, settari
e corporativi, si sono rifiutati di lavorare quelle
che lei dice essere due ore in più quando invece sono sei. Pensa sinceramente che la Juve
vincerà il secondo scudetto consecutivo?». Lo
stile delle domande, forse, non rispecchia una
perfetta deontologia giornalistica, ma colgono
l’aria del tempo, con l’ispirazione di spinoza.it
che spopola in rete. «Signor Presidente - eccone un’altra - lei è venuto in trasmissione a presentare un libro come un Piperno qualunque:
una cosa che, a dispetto del suo stile british,
molti considerano un indegno marchettone. Lei
capirà dunque perché non posso esimermi dal
domandarle: bellissima quella cravatta, dove
l’ha comprata?».
Ro. Ci.