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RISALIRE
LA FILIERA
QUADERNI
La filiera dell’innovazione
Organizzazione e gestione dei processi innovativi
nelle imprese e nelle filiere di imprese
A cura del Gruppo Giovani Imprenditori di Padova
Con la collaborazione scientifica della Facoltà di Economia
dell’Università di Padova
Coordinatori del progetto:
Stefano Bagagiolo, Antonio Sanguin
Primo Workshop Etica del Business o Business dell’Etica?
24 marzo 2004
Moderatore della tavola rotonda:
Giorgio Stoppato
Referente scientifico:
Paolo Gubitta
Curatori della pubblicazione:
Paolo Gubitta, Antonio Sanguin e Giorgio Stoppato
Secondo Workshop Dallo scambio alla condivisione
9 marzo 2005
Moderatore della tavola rotonda:
Antonio Sanguin
Referente scientifico:
Paolo Gubitta
Curatori della pubblicazione:
Paolo Gubitta e Antonio Sanguin
Terzo Workshop Imprese in movimento
13 luglio 2005
Moderatore della tavola rotonda:
Davide Bresquar
Referente scientifico:
Paolo Gubitta
Curatori della pubblicazione:
Paolo Gubitta, Antonio Sanguin e Giorgio Stoppato
Quarto Workshop La Filiera dell’Innovazione
5 luglio 2006
Moderatore della tavola rotonda:
Marco Favaro
Referente scientifico:
Paolo Gubitta
Curatori della pubblicazione:
Paolo Gubitta, Antonio Sanguin e Giorgio Stoppato
La filiera dell’innovazione
Organizzazione e gestione dell’innovazione
nelle imprese e nelle filiere di imprese
A cura del Gruppo Giovani Imprenditori di Padova
Con la collaborazione scientifica della
Facoltà di Economia dell’Università di Padova
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RISALIRE
LA FILIERA
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La filiera
dell’innovazione
Indice
PRESENTAZIONE
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LA FILIERA DELL’INNOVAZIONE:
ORGANIZZARE LE (BUONE) IDEE PROPRIE E ALTRUI
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DISCUTIAMO DI INNOVAZIONE
ORGANIZZARE E GESTIRE L’INNOVAZIONE:
IDEE, MODELLI, SVILUPPI FUTURI
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1. Introduzione
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1.1 Era della conoscenza, capitale intellettuale e innovazione
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1.2 Italiani: popolo di santi, poeti, navigatori, ma poco innovatori…
13
1.3 Dal talento individuale all’innovazione di squadra
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2. Tavola Rotonda
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2.1 Come si fa a innovare?
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2.2 Innovatori o inventori?
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2.3 Il ruolo delle istituzioni per la ricerca scientifica
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2.4 Il ruolo del territorio
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2.5 Una politica pubblica per la ricerca e l’innovazione?
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3. Una sintesi
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RISORSE SULL’INNOVAZIONE
PER SAPERNE DI PIÙ SULL’INNOVAZIONE
Bibliografia
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RISALIRE
LA FILIERA
Presentazione
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L’innovazione è un tema ricorrente. Una sorta di “tormentone” che
ha turbato e continua a turbare il sonno di intere generazioni di imprenditori.
È un processo presente in natura: le specie animali si sono evolute lungo
le ere geologiche grazie a delle trasformazioni, frutto di mutazioni genetiche.
Darwin scriveva che “non sono i più forti che sopravvivono, né necessariamente i più intelligenti, quanto piuttosto i più reattivi al cambiamento”.
La miglior reazione al cambiamento è l’innovazione.
Questo è tanto più vero negli attuali contesti economici dove la globalizzazione
non ha lasciato spazio alle posizioni di rendita. In mercati fortemente dinamici,
caratterizzati da una vorticosa evoluzione tecnologica, sopravvive chi ha nel
proprio patrimonio genetico una sorta di vocazione all’innovazione.
Pensare costantemente a nuovi prodotti, ma anche a nuovi processi o a nuove
organizzazioni, è una delle sfide irrinunciabili per tutte le imprese, sia di grandi
che di piccole e medie dimensioni.
Nel quarto workshop del ciclo Risalire la filiera intendiamo parlare di innovazione, dopo aver discusso su altri tre temi di grande importanza per ripensare lo
sviluppo futuro delle nostre imprese: la responsabilità sociale, il capitale
umano e l’internazionalizzazione.
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Temi affrontati concentrandoci sugli aspetti del business a maggior valore
aggiunto, per ricollocare il vantaggio competitivo là dove i concorrenti faticano
ad arrivare.
Bisogna percorrere sentieri poco battuti, esplorare strategie multiple in varie
direzioni, mettere in dubbio ogni processo e tecnologia in un’ottica di discontinuità. La sfida deve essere invece continua.
È opinione comune che per le imprese di minori dimensioni l’innovazione comporti dei costi spesso insostenibili di ricerca e sviluppo e che la semplice innovazione incrementale non sempre garantisca la possibilità di difendere un vantaggio acquisito.
Ma in una logica di filiera questo è un mito da sfatare. Le piccole e medie
imprese detengono un elevato patrimonio di conoscenze e potenzialità che
1 - Giampaolo Chiarotto, Amministratore Delegato Impresa di Costruzioni Ing. E. Mantovani SpA,
Presidente Gruppo Giovani Imprenditori Unindustria Padova
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La filiera
dell’innovazione
possono essere messe in rete allo scopo di creare e diffondere l’humus
creativo.
Portare a fattor comune tutte le competenze, le conoscenze e le esperienze
all’interno del nostro sistema industriale è un concetto sul quale stiamo insistendo sin dal primo workshop.
Battere la cultura dell’individualismo per entrare nella mentalità del “mettersi
assieme”. Il personalismo dell’imprenditore deve sapersi coniugare con strategie di condivisione, attraverso la circolazione delle idee e delle persone.
A maggior ragione quando si parla di rinnovamento, che è sempre meno un fatto
individuale e sempre più un fatto collaborativo: non è più il frutto di geni solitari,
ma il risultato della convergenza tra tecnologie, competenze ed organizzazione.
Per dispiegare appieno le potenzialità innovative della logica di filiera c’è bisogno, però, di un mutamento in tutti i soggetti economici ed istituzionali.
Il Veneto delle filiere ha bisogno di politiche economiche e formative all’avanguardia. Che promuovano infrastrutture tecnologiche: reti efficienti di diffusione delle informazioni e del sapere. Che attirino anche dall’estero le competenze migliori.
Finora non siamo risultati molto seducenti ed allettanti nei confronti degli investitori stranieri e dei cervelli ma, fortunatamente, nel nostro territorio ci sono
dei segnali che fanno intravedere un’inversione di tendenza. Nanofab, il distretto delle nano e delle biotecnologie è un’eccellenza che ha aperto al Veneto le
porte dell’Europa che fa ricerca avanzata. Il Veneto infatti, è stato, infatti, recentemente ammesso all’interno della “rete Erik”, costituita da un ristretto numero di regioni europee che sviluppano azioni innovative ad alto livello.
Carlo Fratta Pasini, presidente della Banca Popolare di Verona e Novara, che ringrazio per aver sostenuto questo nostro progetto, ha di recente affermato: “Alla
voglia di fare, che non abbiamo perduto, dovremmo però aggiungere, questa
volta, il coraggio di cambiare, che abbiamo forse smarrito”.
Sono felice che l’abbia detto un banchiere. Significa che la cultura del cambiamento, dell’innovazione, della discontinuità come processo creativo sta crescendo nel territorio.
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RISALIRE
LA FILIERA
Dobbiamo trasformare le economie di scala in economie di velocità. I nuovi
concorrenti corrono e non possiamo essere semplici spettatori al traino degli
eventi, dobbiamo anticipare il cambiamento. Ai nostri punti di forza tradizionali, dobbiamo aggiungere velocità e creatività. Una risposta importante può
darla una logica di alleanze, una condivisione del rischio e della conoscenza
lungo la filiera.
Ed è solo con l’apertura a questo modo di pensare che si riuscirà ad avviare
quel circolo virtuoso che permette di orientare imprese, banche ed università
verso un obiettivo comune: lo sviluppo.
Trattandosi del Quaderno conclusivo del progetto Risalire la filiera, permettetemi di ringraziare tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione dell’iniziativa: il prof. Francesco Favotto, il prof. Paolo Gubitta e tutti i docenti, studenti e
colleghi imprenditori che, intervenendo ai nostri incontri, hanno arricchito con
le loro esperienze questo lavoro.
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La filiera
dell’innovazione
La filiera dell’innovazione:
organizzare le (buone) idee proprie e altrui
In un recente lavoro sui processi di valorizzazione della ricerca scientifica, e in
particolare sugli spin-off accademici, Cristiana Compagno e Daniel Pittino
dell’Università di Udine2, scrivono che:
«[…] L’innovazione tecnologica rappresenta l’incontro tra le regole della
scienza e le istituzioni del sistema economico-sociale e la valorizzazione
economica della ricerca rappresenta uno strumento fondamentale per
promuovere la diffusione delle innovazioni e accelerare la diffusione delle
conoscenze. Ma l’attivazione dei processi innovativi richiede innanzitutto
la capacità di instaurare un dialogo costruttivo tra gli attori del sistema
della ricerca e il mondo imprenditoriale ed è il risultato di una scelta deliberata, in quanto richiede ad entrambi i soggetti lo sforzo di un cambiamento culturale accompagnato dalla progettazione di un sistema organizzativo a supporto delle relazioni di trasferimento tecnologico […] Tale
cambiamento organizzativo si rende necessario per creare una infrastruttura destinata a presidiare il processo di valorizzazione dei risultati della
ricerca, a partire dal riconoscimento delle opportunità imprenditoriali insite nelle scoperte scientifiche , passando per la formalizzazione di un piano
di valorizzazione, fino alla scelta dei più adatti strumenti e dei meccanismi
di trasferimento tecnologico» (p. XX)
I casi che Cristiana Compagno e Daniel Pittino analizzano, dimostrano che oltre
al contesto istituzionale e normativo di riferimento, anche adeguate pratiche
manageriali aiutano la valorizzazione delle scoperte scientifiche. Ciò è tanto più
vero quando si diffonde il paradigma dell’innovazione aperta (Open Innovation):
l’innovazione non dipende solo dalle soluzioni sviluppate internamente, ma
anche dalla capacità di riunire in filiera conoscenze e tecnologie innovative
mutuate da un grande numero di soggetti esterni, che vanno dai centri di ricerca (università e istituti specializzati), agli attori della filiera a cui l’impresa appartiene (fornitori, consulenti, laboratori di prove e misure, enti di certificazione,
clienti), e più in generale a tutti gli stakeholder (aziende di settori diversi, comunità di pratica, comunità di interesse).
L’Open Innovation è un concetto affascinante, ma non così semplice da implementare. Si può senz’altro dire che il suo opposto, la Closed Innovation, è un
modello dell’altro secolo, che è superato e che, per di più, non si è mai adattato alla realtà delle imprese piccole e medie. Però, il modello tradizionale
2 - Compagno C., Pittino D., (a cura di), 2006, Ricerca scientifica e nuove imprese, Isedi, Torino
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RISALIRE
LA FILIERA
aveva il vantaggio di attribuire a uno e un solo attore la responsabilità di decidere la direzione che il sentiero dell’innovazione doveva prendere.
Se il processo innovativo è diffuso e sostanzialmente acefalo spetta ai policy
makers lanciare al sistema delle imprese piccole e medie segnali sufficientemente chiari per orientare i loro investimenti in ricerca e sviluppo. Nel far questo, è necessario tenere in considerazione che, quanto più elevato è il tasso di
cambiamento tecnologico, tanto maggiori saranno gli effetti di eventuali ritardi
o vantaggi tecnologici sulle dinamiche di sviluppo di lungo periodo di un territorio (regionale o nazionale, distrettuale o di filiera) e sulla sua stessa capacità
innovativa. Concretamente, al policy maker spettano due compiti: supportare
l’allocazione efficiente delle risorse tra settori e prodotti, orientando e “stimolando” (anche con la leva degli incentivi, fiscali e non) gli investimenti delle
imprese verso quelli che offrono maggiori prospettive di crescita e di redditività; segnalare per tempo le determinanti del cambiamento tecnologico (legato
sia a traiettorie definite, sia ai nuovi paradigmi emergenti), garantendo nel
tempo che gli investimenti si spostino nelle giuste direzioni. All’interno delle
filiere (locali o globali) questo compito deve essere assunto dalle cosiddette
imprese focali. Nell’ambito dei distretti, delle aree vaste o delle tante altre etichette con le quali si delimitano i territori, la responsabilità ricade sui centri di
ricerca e di innovazione.
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Anche ammesso che i processi innovativi seguano le traiettorie giuste, per
organizzarli e gestirli (come suggeriscono Compagno e Pittino) servono adeguati strumenti gestionali. Una buona politica per l’innovazione deve mettere il
sistema industriale nelle condizioni di accedere all’innovazione, permettendo
alle imprese di avvicinarsi all’innovazione in modo maturo: con la dimensione
adeguata, con profili di rischio coerenti, con le risorse manageriali necessarie.
Quando i processi innovativi si sviluppano dentro e lungo le filiere, inoltre, bisogna tenere in considerazione due ulteriori aspetti.
L’Open Innovation rimane solo virtuale se le imprese non imparano a condividere le comuni conoscenze, e quindi se le persone coinvolte attivamente nei
processi operativi non imparano a fare knowledge sharing. L’Open Innovation
non sta in piedi se la condivisione viene lasciata su base volontaristica. Si devono creare luoghi fisici o virtuali a tale scopo, come potrebbero essere gli istituti di ricerca che operano su base territoriale o di filiera. E in più, si deve intervenire sui modelli di organizzazione del lavoro, sui sistemi di valutazione delle
prestazioni e sugli schemi retributivi per indurre comportamenti coerenti.
Questi fattori diventano ancora più critici quando l’obiettivo è sviluppare conoscenza comune, e si deve spostare il focus dalla definizione di regole per
dividere i vantaggi derivanti dalla generazione di nuova conoscenza comune
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La filiera
dell’innovazione
(knowledge development), alla rimozione dei fattori che ostacolano la creatività e la ricerca di nuove soluzioni.
Infine, non si può dimenticare che i processi innovativi hanno bisogno anche di
tempo. Per queste ragioni, la politica per l’innovazione deve essere sostenibile. In questo caso, è evidente il riferimento alle azioni complementari per lo sviluppo del capitale umano. Abbiamo già affrontato questo argomento nel secondo workshop.
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RISALIRE
LA FILIERA
DISCUTIAMO DI INNOVAZIONE
Organizzare e gestire l’innovazione:
idee, modelli, sviluppi futuri
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1. Introduzione
Durante gli anni ’80 Marketing era la parola d’ordine. Negli anni ’90 l’imperativo categorico era Qualità. Oggi è l’Innovazione ad avere gli onori della ribalta:
economisti, manager, giornalisti, imprenditori, opinionisti, politici, sindacalisti,
consumatori, tutti affermano che bisogna innovare. Si tratta solo di una moda
o stiamo vivendo una nuova era in cui l’innovazione e soprattutto chi fa innovazione hanno un ruolo da protagonista della nuova economia?
1.1 Era della conoscenza, capitale intellettuale e innovazione
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Con la diffusione delle tecnologie informatiche da vent’anni a questa parte, il
sapere è diventato il vero valore di questa epoca post-industriale. ñ in atto una
rivoluzione dell’informazione e della tecnologia, caratterizzata dall’egemonia
del capitale intellettuale e dal ruolo di motore della crescita della produzione di
conoscenze per mezzo di conoscenze, legata al carattere sempre più immateriale e intellettuale del lavoro.
È nata la cosiddetta Knowledge Era, che riflette una sempre maggiore attenzione sugli intangibile assets e, dunque, sul capitale intellettuale. Il capitale
intellettuale è giunto a svolgere un ruolo dominante nell’economia, nelle imprese e nei lavori; la conoscenza è diventata la risorsa predominante, più importante delle materie prime e spesso più importante del denaro.
Ogni Paese, azienda e individuo dipendono sempre più dal sapere: brevetti,
procedimenti, competenze, tecnologie, informazioni su clienti e fornitori, esperienze. Il capitale intellettuale è diventato l’ingrediente primario di ciò che si
produce, che si compra e si vende. Di conseguenza gestire la conoscenza e
crearne di nuova sono diventati il compito economico più importante di individui, imprese e nazioni e la nuova economia mette in evidenza come spesso
sono le idee ad avere più valore dei tradizionali fattori produttivi.
Nell’era della conoscenza quindi la scoperta e la concretizzazione delle opportunità imprenditoriali non sono solo funzione delle doti individuali, ma anche
della capacità di raccogliere informazioni, di organizzare e valorizzare le esperienze antecedenti, di far fronte al rischio.
L’imprenditore deve applicare le idee ai processi produttivi e individuare in con3 - Marco Favaro, Socio Emme&Erre S.p.A., Vicepresidente Gruppo Giovani Imprenditori Confindustria
Veneto, Consigliere Gruppo Giovani Imprenditori Unindustria Padova con delega all’Innovazione
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La filiera
dell’innovazione
tinuazione nuove opportunità. In altre parole, o l’imprenditore è in grado di
innovare oppure semplicemente non è (imprenditore).
1.2 Italiani: popolo di santi, poeti, navigatori, ma poco innovatori…
Negli ultimi anni anche l’Unione Europea ha più volte espresso il suo interesse
per la conoscenza. Citando un caso per tutti, nel marzo del 2000 il Consiglio
Europeo di Lisbona ha fissato come obiettivo strategico far diventare l’Europa
entro il 2010 “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica
del mondo”.
A sei anni di distanza dalla solenne assunzione di questo obiettivo, le statistiche più recenti dimostrano che l’Italia fatica a tenere il passo nel percorso di
crescita indicato dal Consiglio Europeo. Anzi sembra perdere terreno nei confronti degli altri Paesi Europei e dei principali concorrenti mondiali.
A questo proposito, basta considerare alcuni dati estratti dalla Relazione della
Banca d’Italia per il 2004. In primo luogo, sebbene negli ultimi quattro-cinque
anni ci sia stata un’espansione della domanda mondiale di beni di circa il 20%,
la quota di mercato dell’Italia a livello mondiale è diminuita in maniera sensibile. Inoltre, confrontando i dati di crescita industriale di alcuni paesi, si nota che,
mentre quelli di Francia e Germania crescono, nello stesso periodo l’Italia registra una decrescita di circa il 4%.
Da un’altra fonte, il World Economic Forum, scopriamo che l’Italia è piombata
improvvisamente al 45° posto a livello mondiale nella scala dell’ICT Ranking,
ossia allo stesso livello di Brasile e Botswana.
Per quanto concerne la spesa in R&S in rapporto al PIL, l’Italia presenta investimenti privati inferiori a quelli pubblici e, in assoluto, registra un valore di
1,16%, che la colloca tra i fanalini di coda, sia in Europa sia nel mondo.
L’obiettivo UE di Lisbona aveva fissato un rapporto spesa in R&S/PIL entro il
2010 pari al 3%.
Infine, se osserviamo il numero di brevetti per milione di abitanti, sulla base del
2002, l’Italia segna un valore di 7,1 contro una media europea di 26. Per capire
meglio, la Finlandia è a 120, l’Italia si ritrova in compagnia di Spagna, Estonia,
Ungheria e Grecia.
Ma allora per riguadagnare la competitività perduta quale innovazione spetta ai
nostri imprenditori?
1.3 Dal talento individuale all’innovazione di squadra
L’innovazione rappresenta un rinnovamento della conoscenza e delle azioni
delle imprese: è utile se riesce a convertire le nuove “conoscenze” in benefici
economici e sociali e si genera in seguito a complesse interazioni a lungo ter-
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LA FILIERA
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mine tra molti soggetti operanti nell’ambito di un sistema aperto. Il mercato ne
sancisce il successo.
Esistono diversi tipi di innovazione (di prodotto, di servizi, di processo, di tecnologia, di mercato), ma il successo di un’impresa diventa duraturo solo nel
caso di innovazione a 360°, continua nel tempo. Innovare la propria impresa a
360° significa effettuare innovazione di business, mantenendo il giusto equilibrio tra le diverse aree senza trascurarne alcuna. L’innovazione parziale del
sistema azienda è tattica e non sempre è efficace. Occorre quindi una strategia, una visione.
L’imprenditore deve pertanto saper cogliere le opportunità e valutare le minacce dell’innovazione, analizzando i propri punti di forza e di debolezza, così da
elaborare le strategie più appropriate.
Gli economisti, dallo studio dei casi reali, hanno individuato tre principali processi di innovazione. Nel caso di Market pull il processo di sviluppo nasce
dalla conoscenza ed interpretazione dei bisogni del mercato. In quello
Technology push il processo di sviluppo nasce dalla disponibilità di nuove tecnologie ed il confronto con il mercato avviene in fase avanzata di sviluppo. Nel
caso di Innovazione Design push è necessario un approccio visionario e una
capacità particolarmente elevata di comprendere, anticipare e influenzare l’emergere di nuovi significati relativi all’offerta (beni materiali, immateriali e servizi connessi).
Bisogna chiarire comunque che creatività e innovazione non sono la stessa
cosa. La creatività è una dote individuale dei “talenti”: consiste nell’unire elementi già esistenti con connessioni nuove che siano utili, cioè è un superamento delle regole esistenti. Si tratta di una qualità umana che non si identifica solo con l’intelligenza o la capacità di inventare, ma richiede anche capacità
di sintesi, fiducia in se stessi, rottura con gli schemi tradizionali, sperimentazione di esperienze e prospettive diverse.
L’innovazione è invece un fenomeno collettivo cui partecipano diversi attori,
coinvolge tutti gli stakeholder di un’impresa. In pratica, le idee e le esperienze
individuali sono alla base del processo creativo, mentre nel caso dell’innovazione entrano in gioco le interazioni tra le idee e le esperienze di più attori.
Pertanto, è importante creare spirito di gruppo, desiderio di collaborare e consapevolezza dei propri livelli individuali di competenze.
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La filiera
dell’innovazione
2. Tavola Rotonda
2.1 Come si fa a innovare?
PROF. COSTA, RECENTEMENTE, NELLA SUA RUBRICA IMPRESE CHE IMPRESA SUL
CORRIERE DEL VENETO, LEI HA SOSTENUTO CHE “LA RICERCA DELL’EFFICIENZA,
L’ATTENZIONE AI COSTI, IL RISPETTO DEGLI STANDARD CHE SONO D’OBBLIGO NELLA
PRODUZIONE, PORTANO AD ELIMINARE OGNI RIDONDANZA, OGNI AMBIGUITÀ CHE
SONO INVECE ELEMENTI FONDANTI DELL’INNOVAZIONE. ANCHE SENZA SCOMODARE
GENIO, SREGOLATEZZA, CREATIVITÀ E COSÌ VIA, È NECESSARIO DEFINIRE LE
CONDIZIONI CHE FAVORISCONO L’INNOVAZIONE”
. QUALI SONO QUESTE CONDIZIONI?
E SOPRATTUTTO, QUESTE CONDIZIONI SONO UGUALI PER TUTTE LE INNOVAZIONI?
Giovanni Costa 4
Spesso diamo per scontato il significato di innovazione. In realtà non è così.
C’è chi pensa che innovazione sia sinonimo di alta tecnologia, per cui si fa innovazione solo se si lavora sulle frontiere della conoscenza, del sapere e della
ricerca scientifica. All’opposto, c’è chi pensa che l’innovazione sia anche il piccolo miglioramento incrementale che si ottiene ogni giorno.
È opportuno evitare entrambe queste posizioni estreme (quella della frontiera
tecnologica e quella minimalista). L’innovazione infatti tocca entrambi i fronti:
valorizzare l’incrementalismo, (cercare di) avere in tasca qualche grande progetto.
Qualunque sia il significato che diamo all’innovare, una cosa è certa: non c’è
innovazione senza ridondanza. Nella vita quotidiana, è più facile che ci venga in
mente qualche cosa di nuovo quando ci troviamo in una situazione rilassata e,
in generale, in situazioni diverse dallo stress (in senso lato). Anche in natura, i
processi di innovazione e sviluppo avvengono con un grande assorbimento di
risorse.
Il cambiamento nasce da ridondanza. Il termine non vuol dire (ovviamente)
spreco di risorse, ma richiama l’esistenza di presupposti organizzativi nei quali
le persone sono messe nella possibilità di provare, sperimentare ed esprimere la loro creatività.
Le condizioni per favorire i processi innovativi sono diverse.
In primo luogo, l’organizzazione che va bene per produrre la centomillesima
automobile deve necessariamente essere diversa da quella che va bene per
fare il prototipo. La prima è strettamente orientata all’efficienza. La seconda,
invece, facilita la sperimentazione.
In secondo luogo, l’impresa deve mettere a disposizione risorse (tempo,
impianti, relazioni, reputazione) per sostenere l’innovazione e, soprattutto, il
relativo rischio. L’imprenditore ha una naturale propensione al rischio, ma non
sempre ha gli strumenti e le risorse per sostenerlo interamente. È anche all’interno di questo contesto che vanno inquadrate le relazioni di filiera, che per4 - Professore Ordinario di Organizzazione Aziendale, Facoltà di Economia, Università degli Studi di
Padova
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RISALIRE
LA FILIERA
mettono di condividere il rischio tra più imprese: con i fornitori (che lavorano
per e con noi), con i clienti, con i portatori di capitale finanziario.
In terzo luogo, l’imprenditore deve saper sopportare l’ambiguità dei processi
innovativi, ovvero il fatto di non sapere dove porterà il percorso intrapreso. Per
sostenere l’ambiguità serve l’analisi, la capacità di scomporre problemi anche
complessi per studiarli, e la sintesi, la capacità di dare un senso alle cose che
si stanno facendo
Aldo Cocchiglia 5
Noi costruiamo strumenti diagnostici per la rilevazione e la misura di patologie
oculari (la fascia alta degli strumenti che si trovano in un gabinetto oculistico). Nel
nostro caso, innovazione vuol dire sempre e comunque innovazione di alta tecnologia. L’innovazione tecnologica per noi è un mezzo, ma anche un fine. Nidek
Technologies ha una forte vocazione ingegneristica, non solo nel portafoglio prodotti, ma anche nella composizione della squadra manageriale che la dirige.
Nella nostra azienda applichiamo altri due concetti chiave.
Il primo è la multi-disciplinarietà, e fa riferimento al fatto che nei nostri progetti
e nei prodotti che ne deriviamo sono “integrate” diverse discipline tecniche:
meccanica di precisione, ottica, elettronica e software. La componente software è di particolare interesse ed importanza, perché è l’unica che non è soggetta
a reverse engineering e quindi diventa più difficile per gli altri copiarci.
Il secondo è la novità. Per accordi con la casa madre e per mission della nostra
impresa all’interno del gruppo che la controlla, Nidek Technologies è specializzata nella creazione e lancio di prodotti che il mercato richiederà nel giro di 3-5
anni.
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Visto in teoria 1
Analizzare per Agire:il reverse engineering
e la strategia di filiera
Rientra nella diligenza del buon imprenditore e del buon manager analizzare in dettaglio la strategia dei concorrenti attuali o
potenziali, per agire in modo “informato”: dalla tradizionale
analisi SWOT ai più evoluti strumenti strategici. Quando l’analisi si concentra su un prodotto, un componente, un programma
software, e più in generale su una tecnologia, si parla di reverse
engineering, ovvero del processo d’analisi che ha l’esplicito obiettivo di accertare come sono stati disegnati e come funzionano il
prodotto, o il componente o il programma.
È evidente che il reverse engineering può essere utilizzato per eludere i diritti di proprietà intellettuale (brevetti o diritti d'autore).
Tuttavia, il processo di smontare e analizzare qualcosa per scoprire il modo in cui funziona è anche un modo efficace per avviare
un costruttivo processo di apprendimento. Nella logica di filiera,
5 - Amministratore Delegato, Nidek Technologies S.p.A.
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La filiera
dell’innovazione
infine, il reverse engineering assume una doppia valenza. Da un
lato, diventa (o dovrebbe diventare) una pratica manageriale diffusa, che permea le relazioni inter-organizzative e che si realizza
in modo esplicito e condiviso. Conoscere in modo approfondito i
sistemi o i prodotti che gli attori della filiera realizzano è condizione necessaria per migliorare la capacità di soddisfare le esigenze emergenti, e quindi per aumentare le prestazioni della filiera. Dall’altro, il reverse engineering aiuta a progettare interfacce
di comunicazione tra sistemi, prodotti, componenti o programmi.
In questo caso, ciò che interessa non è tanto replicare le funzioni
d’uso o le prestazioni di un oggetto, quanto progettare i meccanismi di coordinamento per combinare e ricombinare dinamicamente sistemi, prodotti, componenti o programmi. In fin dei conti,
in cosa altro può consistere la logica di filiera, se non in questo?
[Paolo Gubitta]
2.2 Innovatori o inventori?
ING. COCCHIGLIA,
SUA AZIENDA E POI L’HA VENDUTA,
SI SENTE PIÙ INNOVATORE O INVENTORE?
LEI HA FONDATO LA
MANTENENDONE PERÒ LA GESTIONE.
Aldo Cocchiglia
L’innovazione può esistere anche senza invenzione. Ma non esiste invenzione
senza innovazione. Da sempre, ma in modo formale dopo l’ingresso nel gruppo giapponese Nidek Corporation, la nostra società Nidek Technologies ha un
mandato di invenzione: è questo il nostro business target. Siamo quasi obbligati a inventare, proprio perché è questa la nostra missione strategica.
Per sostenere il ritmo di invenzione, ogni sei mesi metto attorno a un tavolo
una squadra di innovatori che proviene un po’ da tutto il mondo. Si tratta di persone (docenti universitari, medici, ricercatori) di varia estrazione, che lavorano
autonomamente e in modo decentrato su un task specifico e che periodicamente si ritrovano in Nidek per condividere le idee e gli avanzamenti.
Ruggero Frezza6
Il rapporto tra invenzione e innovazione è molto stretto e, per così dire, va reso
ancora più intimo. Mi spiego con un esempio. Nell’ultimo decennio ho contributo all’avvio di cinque spin-off da ricerca accademica. Uno non è decollato. Gli
altri quattro continuano a lavorare e a svilupparsi.
Si tratta di imprese che si muovono in posizione intermedia tra innovazione
radicale e innovazione incrementale. Probabilmente, nessuna di queste imprese realizza prodotti con un tasso di innovazione paragonabile a quello incorporato nei prodotti di Nidek.
L’innovazione radicale non è solo un problema tecnico-scientifico, ma anche
6 - Professore Associato di Controlli Automatici, Facoltà di Ingegneria, Università degli Studi di Padova
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RISALIRE
LA FILIERA
commerciale. Spesso le innovazioni radicali implicano la definizione, la vera e
propria invenzione, di un nuovo mercato. Lo spin-off che non è decollato aveva
in portafoglio una innovazione radicale, ma non siamo stati capaci di sviluppare un adeguato approccio al mercato e ai clienti: siamo usciti con un prototipo
che pensavamo vendesse da solo, ma in realtà non era così.
PROF. COSTA,
PUÒ SPIEGARE MEGLIO LA DIFFERENZA TRA INNOVAZIONE
INCREMENTALE E INNOVAZIONE RADICALE?
Giovanni Costa
L’innovazione incrementale è quella che si fa giorno per giorno, che valorizza le
competenze delle imprese e migliora le performance dei processi.
L’innovazione radicale, invece, è quella che altera il rapporto tra l’impresa e il
mercato, vuoi perché porta a un prodotto o servizio mai visto prima, vuoi perché modifica le funzioni d’uso di un prodotto o servizio già presente.
L’innovazione radicale spesso modifica il valore delle competenze delle imprese e delle persone.
Prendiamo l’esempio del marketing. La diffusione degli orologi al quarzo stava
spazzando via la consolidata esperienza degli svizzeri nella costruzione degli
orologi: la straordinaria capacità di assemblare migliaia di minuscoli pezzi
metallici in uno spazio ridotto aveva perso praticamente tutto il suo valore.
Per rispondere alle nuove sfide, i produttori elvetici hanno fatto una straordinaria operazione di marketing, comunicando al mercato che l’orologio non serve
per misurare il tempo, ma è un accessorio di moda. Swatch è un esempio di
innovazione di marketing che ha permesso di aprire nuovi scenari di sviluppo.
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Antonio Vendraminelli 7
La differenza tra innovazione radicale e incrementale mi pare centrale per comprendere anche il rapporto tra gli imprenditori ed i centri di innovazione.
L’imprenditore conosce bene i suoi prodotti, non può non essere attento alle
innovazioni incrementali, perché da esse discende la prestazione economica e
finanziaria della sua impresa.
Rispetto alle innovazioni radicali, spesso il problema che affligge gli imprenditori è di natura “cognitiva”, nel senso che non hanno le conoscenze necessarie
oppure che non riescono a capire le innovazioni che provengono dai centri di
ricerca. Da questo punto di vista, quindi, i centri di ricerca (e segnatamente le
Università) dovrebbero sforzarsi di trovare linguaggi comuni con il mondo delle
imprese.
Giovanni Costa
Le osservazioni sono corrette. Ma mi pare sia opportuno fare una precisazione. La distinzione tra settori high-tech e settori tradizionali, o tra prodotti tecnologici e non, è importante ma dovrebbe essere in qualche modo superata.
7 - Amministratore Delegato Vecom S.r.l., Past President e attuale componente del Consiglio Direttivo
Gruppo Giovani Imprenditori Unindustria Padova, componente della Giunta Unindustria
R
La filiera
dell’innovazione
Si pensi alle nanotecnologie, di cui in Veneto abbiamo il distretto. Si tratta di tecnologie di cui si possono servire tutti i settori tradizionali. Per esempio, nelle montature metalliche di occhiali, il trattamento con nano materiali che sostituisce
l’uso della galvanica.Non possiamo immaginare che il nostro territorio si trasformi in breve tempo in un’area che pullula di imprese tecnologiche. È però auspicabile che i prodotti tradizionali incorporino nuove soluzioni. Le nanotecnologie
hanno il vantaggio di essere applicabili a un numero elevatissimo di prodotti.
Visto in teoria 2
MaTech®
I processi innovativi, soprattutto in un contesto industriale permeato da imprese di dimensione media e piccola, hanno bisogno
di essere sostenuti da istituzioni e centri di ricerca, che offrendo
servizi a più imprese raggiungono una massa critica sufficiente. È
il caso di MaTech®, un'attività del Parco Scientifico e
Tecnologico GALILEO®, la cui missione consiste nel favorire la
crescita della competitività delle imprese attraverso l'innovazione.
L’iniziativa ruota attorno ad un gruppo di professionisti dinamici,
con esperienza in settori tecnologici diversi, che si occupa di ricerca materiali e collabora con le aziende nello sviluppo di nuovi progetti e nella soluzione di problematiche tecnologiche.
Il portafoglio di servizi di MaTech® è ampio: proporre materiali
innovativi per lo sviluppo di nuovi prodotti; risolvere specifiche
problematiche di progetto (riduzione costi, miglioramento proprietà tecniche, identificazione fornitori alternativi, analisi di benchmarking,...); coordinare brainstorming creativi per la selezione di
nuovi materiali finalizzata al miglioramento funzionale ed estetico dei prodotti; tenere corsi di formazione/aggiornamento sui
materiali innovativi e sui loro possibili impieghi; organizzare visite presso l'archivio e lo showroom dei materiali innovativi, guidando i percorsi di ricerca con appropriati stimoli creativi.
[Paolo Gubitta]
2.3 Il ruolo delle istituzioni per la ricerca scientifica
L’INTERVENTO
ANTONIO VENDRAMINELLI APRE L’INTERESSANTE TEMA DEL
PROF. FREZZA, LEI È UN
PROFESSORE ANOMALO: FA RICERCA DI ECCELLENZA AL DEI E COLLABORA CON
MOLTE AZIENDE. CI DICA COME FA LEI IL TRASFERIMENTO TECNOLOGICO! E ANCORA,
QUALE RUOLO HANNO I DOTTORATI DI RICERCA IN QUESTO CONTESTO?
DI
RAPPORTO TRA LE IMPRESE E I CENTRI DI RICERCA.
Ruggero Frezza
Io provengo dal Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, valutato recentemente da un gruppo di esperti internazionali che lo ha posizionato ai vertici
19
RISALIRE
LA FILIERA
20
del ranking di eccellenza. Formiamo 3500 studenti, al Dipartimento afferiscono
più di 100 docenti e più di 100 studenti di dottorato, il budget della ricerca supera i 4 milioni di euro.
Questo asset di ricerca viene, tuttavia, raramente utilizzato dalle imprese del
territorio.
L’aspetto più critico è mettere insieme le competenze tecnologiche, che abbiamo noi, con quelle imprenditoriali e manageriali, per portare sul mercato nuovi
prodotti o formare nuovi imprenditori. Dovremmo investire moltissimo nelle
scuole di dottorato e formare giovani competenti che, impiegati nell’impresa,
realizzino il trasferimento di tecnologia o diventino imprenditori. Ma oggi come
oggi la percentuale di dottori di ricerca assunti in imprese private in Italia è
drammaticamente inferiore rispetto anche agli altri Paesi della Comunità
Europea. Io credo molto nella nascita di nuove imprese, penso che intorno ad
una Università come la nostra dovrebbe esserci un’effervescenza imprenditoriale. In assenza di capitale di ventura, si dovrebbero stabilire alleanze con
imprenditori locali che, oltre ad investire, accompagnerebbero sul mercato le
idee di business più interessanti. Dobbiamo essere creativi ed inventarci un
nuovo modello di collaborazione tra Università ed impresa per avviare questo
processo.
Tornando al tema dell’innovazione che non è necessariamente legata all’alta
tecnologia, recentemente ho avuto modo di incontrare Klaas Robers, uno degli
ingegneri della Philips che per primi hanno sviluppato i CD player per la riproduzione audio. In quell’occasione, parlava della televisione meccanica che non
molti conoscono nonostante sia una storia divertente; a questo proposito si
può dare un’occhiata a www.nbtv.org. Discutendo di innovazione trainata dallo
sviluppo della tecnologia, Klaas Robers ha portato l’esempio della carta prepagata per i telefonini, nata in Italia, che è un esempio di innovazione commerciale che fa leva su tecnologie note e consolidate. In futuro, ha suggerito Klaas
Robers, esploderà la necessità di micro-fatturare servizi.
In entrambi i casi, si tratta di innovazioni commerciali e di marketing, che si
possono trasformare in business di successo sfruttando il potenziale di tecnologie recenti, ma consolidate. Per innovazioni di questo tipo non è necessaria
un’attività di ricerca di carattere tecnologico.
Il problema, infatti, è il mancato sfruttamento economico del potenziale legato
al volume di attività di ricerca in settori ad alta tecnologia prodotto dalle
Università, che non trova sbocchi in applicazioni commerciali.
In alcuni casi, sarebbe utile (o auspicabile) trovare finanziatori pazienti che forniscano le risorse per avviare progetti di ricerca senza porre ai ricercatori l’urgenza di giungere a un risultato o senza “suggerire” le traiettorie di ricerca.
Massimo Strazzabosco8
Questa idea è suggestiva, ma non mi pare facilmente praticabile, soprattutto
8 - Socio e Direttore Amministrativo Cigas S.p.A., Vicepresidente Gruppo Giovani Imprenditori Unindustria
Padova
R
La filiera
dell’innovazione
se la linea di finanziamento viene ottenuta da un’impresa e non da un’istituzione finanziaria. Secondo me, la vocazione imprenditoriale veneta rimane quella
dell’imprenditore che si innamora della propria idea, oppure che si innamora di
un’idea data da altri.
Pertanto non è facilmente praticabile l’ipotesi di finanziare la ricerca senza un
diretto coinvolgimento dell’imprenditore o dei suoi diretti collaboratori nel processo di innovazione.
Visto in teoria 3
Dottori di ricerca al servizio dell’impresa
È proprio vero che la creazione di un legame forte e stabile tra il
mondo della ricerca e il mondo delle imprese è così difficile? Ed
è proprio vero che il rapporto è farraginoso?
No, non è proprio così.
Le buone regole dell’Università permettono a istituzioni e imprese
di finanziare borse di studio per giovani talenti che decidono di
frequentare un dottorato di ricerca. Non si tratta di un investimento generico. Il finanziatore, sia esso un centro di ricerca o
un’impresa (da sola o in filiera) può indicare un tema vincolato,
ovvero un argomento di ricerca rilevante dal punto di vista sia
scientifico sia applicativo (nell’azienda che finanzia la borsa).
In caso di tema vincolato, le buone regole dell’Università coinvolgono il finanziatore negli organi di governance del progetto di ricerca:
partecipazione, pur senza diritto di voto, «alle riunioni del Collegio
della Scuola che avranno ad oggetto la didattica del corso, al fine
di poter dare, ove richiesto, un contributo sia in ordine alla definizione dei programmi didattici, sia all’ottimale individuazione delle
attività svolte nell’ambito dei corsi» (così recita la documentazione
pubblica scaricabile dal sito dell’Università di Padova).
Sviluppare e dare continuità a questa forma di collaborazione
genera due distinti effetti, entrambi positivi.
Da una parte, si va oltre la separazione tra i luoghi della ricerca
e i luoghi dell’applicazione industriale dei frutti della ricerca. La
guida dei processi innovativi torna nelle mani delle imprese o di
filiere di imprese. È un buon risultato, perché è nelle imprese, in
base agli obiettivi strategici, che si individuano gli ambiti applicativi. Ed è un buon segno anche perché le imprese si avvalgono
delle conoscenze presenti nell’Università per dare solide basi di
ricerca al progetto.
Dall’altra parte, le convenzioni per le borse di dottorato finanziate dalle imprese possono essere considerate come moderne forme di
gestione del personale alla portata delle imprese piccole e medie.
Per tre anni, pari alla durata della borsa, il giovane talento che
sta facendo ricerca su un progetto di interesse per l’impresa finanziatrice è nelle buone mani dell’Università, che ha tutte le compe-
21
RISALIRE
LA FILIERA
tenze per formare e sviluppare le competenze del dottorando e che,
grazie ai sempre più diffusi servizi a supporto del trasferimento
della tecnologia, facilitano anche l’inserimento in azienda. Se
non fosse così, non si capirebbe perché si finanzia la borsa.
Quindi, è proprio così. [Paolo Gubitta]
Ruggero Frezza
Non sono molto d’accordo con l’idea del dott. Strazzabosco. Penso che
l’Università debba seguire percorsi di ricerca indipendenti, non legati alle esigenze di breve periodo delle imprese. Come logica conseguenza, la carriera di
un accademico deve essere messa in relazione alle sue pubblicazioni scientifiche e non al numero di spin-off che realizza.
L’Università deve pensare a fare invenzioni e non innovazioni, deve occuparsi
della ricerca di base, che può essere utilmente applicata in differenti contesti
settoriali.
Quando ho parlato di capitali pazienti, avevo in mente un esempio concreto.
C’è un esempio in Italia, avviato qualche anno fa dal Prof. Bruno Riccò (professore di elettronica all’Università di Bologna) sulla falsariga del Medialab del MIT
di Boston. Le aziende partecipano con fondi discrezionali, ovvero mettono a
disposizione risorse finanziarie per sostenere il processo di innovazione. In
quattro anni ha quadruplicato il numero di sostenitori: queste soluzioni sono
pertanto praticabili.
22
Giovanni Costa
La disponibilità di operatori finanziari capaci di rispondere alle esigenze del territorio e alle attese di imprenditori e inventori è un elemento importante e significativo. In alcuni casi, però, non sono sempre chiari i ruoli. I fondi di private
equity e i venture capitalist sono operatori diversi, che assolvono a funzioni
diverse. I primi aiutano le imprese a crescere, a managerializzarsi e, più in
generale, a consolidare il business. I secondi, invece, sono più adatti per supportare lo start-up di nuove attività, in quanto l’assunzione del rischio imprenditoriale è parte integrante della loro attività.
Visto in teoria 4
Private equity e venture capitalist
Seguendo la consolidata definizione anglosassone, nel concetto di
private equity rientrano tutte le operazioni con le quali un operatore finanziario specializzato fornisce capitale di rischio ad imprese non quotate sul mercato dei capitali, al fine di sostenere i loro
piani di sviluppo (tramite l’apporto di capitale finanziario e knowhow manageriale e tecnico) e con l’obiettivo di realizzare un elevato capital gain in fase di dismissione. All’interno di questo quadro generale, la prassi europea distingue tra venture capital, per
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La filiera
dell’innovazione
l’investimento nelle fasi iniziali, e private equity, focalizzato sulle
fasi avanzate del ciclo di vita di un’impresa. Il confine formale tra
l’uno e l’altro è di non facile identificazione. E forse non è nemmeno interessante approfondire questo punto.
È più utile andare alla sostanza. Gli operatori di venture capitale
e di private equity a cosa servono?
Nel corso del 2005 il mercato italiano del private equity e venture capital si è attestato su 281 operazioni (erano 248 nel 2004),
portando il portafoglio complessivo degli investitori operanti in
Italia al 31 dicembre 2005 a circa 1.060 aziende (per un controvalore delle partecipazioni detenute, valutato al costo di acquisto,
pari a più di 10,5 miliardi di Euro). In termini di numero di investimenti, si conferma la netta prevalenza di operazioni di expansion (135 operazioni, pari al 48% del totale), seguite dai buy out
(75 operazioni, pari al 27% del totale e in crescita del 56% rispetto al 2004), che per la prima volta hanno superato gli early stage,
attestatisi a quota 56 interventi (comunque in crescita del 12%
rispetto all’anno precedente). A livello di tipologia, la maggior
parte delle risorse investite è confluita nelle operazioni di acquisizione di quote di maggioranza o totalitarie (buy out), che hanno
attratto il 78% delle risorse complessive (in crescita del 162%
rispetto al 2004), seguite da quelle finalizzate a sostenere progetti di sviluppo (expansion), pari al 14% del totale, nelle quali il
precedente socio di riferimento mantiene la maggioranza azionaria. Il dato più interessante che emerge dall’analisi del mercato
italiano del private equity e venture capital nel 2005, però,
riguarda i settori di appartenenza delle imprese target. Il mercato
ha evidenziato un particolare interesse nei confronti del comparto
dei prodotti e servizi per l’industria, quello dei beni di consumo e
quello alimentare (complessivamente pari al 56% del totale in
ammontare e al 32% in numero), con una presenza non marginale di aziende con marchi forti e famosi. Nel contempo, il peso
delle operazioni effettuate in aziende definite dagli stessi operatori “high tech” si è ulteriormente contratto a livello di numero di
investimenti (passando dal 27% del 2004 al 22% attuale), a
fronte però di un leggero aumento in termini di risorse investite.
Dall’analisi di questi numeri, quindi, sembra che il ricorso al private equity o al venture capital sia in grado di supportare i processi di riallocazione proprietaria delle PMI (progressiva apertura
degli assetti proprietari), ma svolga un ruolo marginale in quelli
di riallocazione settoriale (progressiva migrazione verso settori ad
alto rischio e rendimento).
In altri termini, le imprese che fanno innovazione non sono nei
sogni di questi operatori. [Paolo Gubitta]
23
RISALIRE
LA FILIERA
Giorgio Stoppato9
La dimensione finanziaria di cui si sta parlando si focalizza soprattutto sull’esterno. È evidente che si tratta di un aspetto fondamentale. Ma non esclusivo.
Quando sono andato in visita in Nidek Technologies, ho visto una straordinaria
impresa capace di fare innovazioni radicali. Ho visto un’impresa gestita da un
management italiano. Era proprio necessario affidarsi a capitali giapponesi?
Aldo Cocchiglia
In realtà quando sono entrati i giapponesi, avevamo due problemi strategici da
risolvere: le risorse per finanziare i progetti di ricerca e la rete distributiva per
raggiungere rapidamente un numero elevato di Paesi. Con la rete della nostra
capogruppo, ad esempio, noi abbiamo un mercato facilmente raggiungibile in
130 Paesi. Ora il cash flow generato dai margini di vendita copre il fabbisogno
per finanziare i progetti di ricerca.
2.4 Il ruolo del territorio
RICHARD FLORIDA È DIVENTATO FAMOSO CON IL SUO “L’ASCESA DELLA CLASSE
CREATIVA”
. IL SUO RAGIONAMENTO RUOTA ATTORNO ALLE 3T: TECNOLOGIA, TALENTO
E TOLLERANZA. COME SI SVILUPPANO QUESTE TRE COSE?
24
Aldo Cocchiglia
La nostra azienda, in teoria, potrebbe essere in diverse parti d’Italia. In realtà,
per poter operare con successo deve essere ubicata in un’area in cui il costo
per unità di alta tecnologia sia adeguato e competitivo. Il Nord Italia ha questa
caratteristica, mentre in California, ad esempio, non è più così in termini di
costi. Un’altra condizione di successo è data dalla presenza di una ottima
Università, con la quale vanno avviati rapporti continuativi e non sporadici.
Infine, la terza condizione è la presenza di una filiera di fornitori di alta qualità.
Giovanni Costa
Il territorio è importante, perché è in grado di attirare tutti gli attori della supply
chain. Il fatto che in un certo territorio si aggreghino determinati attori, facilita
lo scambio di informazioni, la condivisione di conoscenze non solo attorno a
tavoli formali, ma anche in occasioni informali di socializzazione.
Ciò vale anche per progettare un nuovo rapporto tra Università e Imprese.
Negli ultimi anni, l’Università si è molto aperta al dialogo con il mondo delle
imprese. Ma anche le imprese devono in qualche modo aprirsi all’Università
Non si tratta di dire chi dei due è più aperto dell’altro. È più interessante ragionare sulle modalità per far conversare Università e Imprese. Penso a tavole
rotonde, a incontri informali, al limite anche a riunioni senza un ordine del giorno durante le quali si sviluppano idee o progetti. È con i momenti di socializzazione che si pongono le basi dell’ibridazione delle conoscenze e si alimentano
9 - Presidente Cogeass broker di assicurazioni Srl, Vicepresidente Gruppo Giovani Imprenditori
Unindustria Padova
R
La filiera
dell’innovazione
i processi di cambiamento e di innovazione. Per realizzare queste forme di
socializzazione, però, serve una certa disponibilità alla tolleranza, intesa come
capacità di integrare le “diversità” in modo virtuoso.
Aldo Cocchiglia
In effetti, il rapporto tra Università e Impresa è un punto centrale di tutto il
nostro ragionamento.
In alcuni casi, le imprese hanno interpretato l’Università come un fornitore di
progettazione “a basso costo”. L’errore è doppio: primo, perché l’Università
deve fare innovazione e non progettazione; secondo, perché per realizzare progetti eccellenti non si può puntare sul prezzo. Un altro errore è stato compiuto considerando l’Università come un fornitore di manodopera a basso costo.
Massimo Strazzabosco
Per comprendere come si è sviluppato il rapporto tra Università e Impresa, è
necessario considerare che per alcuni decenni una parte rilevante della classe
imprenditoriale del Nord Est era costituita da ex-operai, da persone che si sono
messe in proprio spinte dalla propensione al rischio e dal possesso di competenze prevalentemente tecniche. Tra queste persone e l’Università esisteva
una sorta di barriera comunicativa dovuta al fatto che queste persone parlavano di fatto linguaggi diversi.
Oggi, con l’ingresso delle nuove generazioni il quadro sta cambiando, sia perché è aumentato il livello medio di scolarizzazione degli imprenditori, sia perché anche l’Università adotta un atteggiamento diverso.
Antonio Sanguin10
Concordo con il fatto che il rapporto Università-Impresa possa spiegare le
traiettorie dell’innovazione.
Tuttavia, vorrei portare l’attenzione sul fatto che gli attivatori dell’innovazione
possono risiedere anche all’interno dell’impresa. Nel caso Nidek, ad esempio,
a me pare che il rapporto tra casa madre e società controllata possa spiegare
le performance innovative dell’impresa.
Paolo Gubitta
Vorrei riprendere lo spunto di Antonio Sanguin per sviluppare il tema della tolleranza, che è stato affrontato prima. Dal punto di vista organizzativo, tolleranza vuol dire ridondanza, ibridazione, condivisione. Per rendere le persone “organizzativamente tolleranti” nel senso appena indicato, è necessario creare le
condizioni utili a questo scopo all’interno delle imprese.
Facile a dirsi. Ma come metterlo in pratica? Le linee di azione si muovono su
due dimensioni: tempo e spazio.
Relativamente al tempo, creare condizioni di “ridondanza” in alcune fasi del
10 - Direttore Amministrativo e Finanziario Fip Articoli Tecnici Srl, Consigliere Gruppo Giovani Imprenditori
Unindustria Padova con delega agli Incontri di Approfondimento
25
RISALIRE
LA FILIERA
ciclo di vita professionale delle persone può favorire lo sviluppo di nuove competenze e nuove abilità. Si pensi alla progettazione di mansioni “larghe” nelle
fasi iniziali della carriera, oppure alla partecipazione ad iniziative di formazione
non strettamente attinenti al proprio job nei passaggi chiave della carriera.
Relativamente allo spazio, creare le condizioni per sostenere “ibridazione” e
“condivisione” vuol dire individuare la posizione nella catena del valore o nella
filiera in cui la tolleranza può generare benefici.
2.5 Una politica pubblica per la ricerca e l’innovazione?
ALCUNE REGIONI ITALIANE, TRA CUI IL FRIULI VENEZIA GIULIA E IL VENETO, HANNO
AVVIATO INIZIATIVE AD HOC PER SOSTENERE I PROCESSI INNOVATIVI. È UNA STRADA
DA PERCORRERE? OPPURE HA DELLE CONTROINDICAZIONI? DETTO IN ALTRI TERMINI:
A CHI SPETTA AVVIARE O COORDINARE I PROCESSI DI INNOVAZIONE?
Alessandro Paolini11
In Friuli Venezia Giulia abbiamo creato una legge ad hoc per favorire i processi
di collaborazione tra Università e Impresa. Ad esempio, nelle procedure di
assegnazione dei fondi per finanziare la ricerca e sviluppo delle imprese, abbiamo attribuito un punteggio alla presenza (dimostrata o dimostrabile) di rapporti con l’istituzione universitaria. La legge sembra funzionare, tanto che una
delle imprese che avevamo finanziato è stata recentemente quotata in Borsa.
26
Ruggero Frezza
Io sono convinto che i fondi regionali per la ricerca in alcuni casi possono avere
un effetto deleterio inducendo le imprese a programmare la ricerca per rispondere al bando piuttosto che per necessità commerciali di innovazione dei propri
prodotti o processi. Spesso si genera, inoltre, un effetto attesa, per cui le imprese ritardano l’avvio delle iniziative proprio per attendere le risorse pubbliche.
Giovanni Costa
Ruggero Frezza sottolinea un aspetto importante. È vero, ci sono casi in cui le
aziende si specializzano nel rispondere ai bandi e costruiscono il loro budget
attorno ai bandi. Ma è evidente che si tratta di casi non comuni.
Non si può, però, negare che non esiste strategia per l’innovazione che non sia
sostenuta dai finanziamenti pubblici.
CHIARITO
QUESTO PUNTO, RESTA DA CAPIRE SE SERVANO ISTITUZIONI INTERMEDIE
TRA LE IMPRESE E I CENTRI DI RICERCA, AL FINE DI COORDINARE E ORIENTARE LE
ATTIVITÀ DI RICERCA E DI INNOVAZIONE.
Giuliano Barbaro12
A me sorge proprio questo dubbio. Mi chiedo cioè se sia plausibile che spetti
11 - Dottore Commercialista in Udine
12 -Responsabile Ricerca e Sviluppo, Nidek Technologies S.p.A.
R
La filiera
dell’innovazione
all’Università farsi carico di creare un collegamento con il mondo delle imprese, oppure siano necessarie strutture esterne, che adottano soluzioni organizzative e logiche di azione più vicine alle esigenze delle imprese. Tali soluzioni,
secondo me potrebbero rendere più agevole e immediata la comunicazione.
Visto in teoria 5
Start Cup
Il collegamento tra Università e Impresa è stato in parte discusso
in uno degli altri box di approfondimento contenuti in questo
Quaderno.
L’osservazione di Giuliano Barbaro, però, ci permettere di spostare l’attenzione dai meccanismi operativi (le buone regole di funzionamento del dottorato di ricerca) alle strutture organizzative.
Da alcuni anni, anche in Italia sono presenti le cosiddette business plan competition, che hanno lo scopo di stimolare la ricerca
e l'innovazione tecnologica per sostenere lo sviluppo economico,
dando concretezza alle idee dei partecipanti e mettendoli in condizione di affrontare adeguatamente la fase di start up di una
nuova impresa, fornendo non solo sostegno in denaro, ma anche
formazione e consulenza sui più importanti aspetti della gestione
aziendale. Lanciata nel 2000, Start Cup Bologna è la primogenita tra le business plan competition accademiche italiane.
All’Università di Padova l’iniziativa è diventata operativa nel
2002, estendendosi poi agli altri Atenei della regione. Nel 2006,
l’iniziativa era presente oltre che in Emilia Romagna e Veneto,
anche in Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Lombardia, Umbria,
Campania, Toscana, Sicilia. Le gare sono organizzate su base
regionale e attivano risorse e competenze presenti nel territorio. La
competizione si articola in due tappe locali e un "rush" finale
nazionale, che vede un testa a testa fra i finalisti delle regioni in
cui la competizione è attiva. [Paolo Gubitta]
Ruggero Frezza
Questa idea mi sembra ragionevole. Le strutture universitarie non sono attrezzate per fare l’innovazione che serve alle imprese. Come ho detto prima, le
Università dovrebbero occuparsi della ricerca di base, delle invenzioni. Quando
io ricevo richieste da un’impresa per fare innovazione, mi trovo spesso in difficoltà, perché non so con chi farla. I laboratori universitari non hanno le risorse,
umane e finanziarie, per fare questa attività in modo adeguato.
Roberto Longo13
Si dice spesso che il rapporto tra Impresa e Università fatica a svilupparsi in
modo spontaneo. Per superare questo impasse potrebbero servire meta-organizzazioni, che assumono il ruolo di attivare, far decollare e gestire la coopera13 - Studente della Laurea Specialistica in Economia e Direzione Aziendale, Facoltà di Economia,
Università di Padova
27
RISALIRE
LA FILIERA
zione. Tali organizzazioni potrebbero diventare anche un asset del territorio, per
aumentare la capacità attrattiva dello stesso.
Guido de Nadai
Quello che dice Roberto Longo mi sembra evidenzi un aspetto essenziale.
Nella mia esperienza imprenditoriale, ad esempio, ho dovuto “emigrare” per
andare a imparare a gestire i flussi logistici, scegliendo proprio un territorio che
per storia, per standing delle imprese presenti e per istituzioni pubbliche e private di supporto rappresentava una vera e propria scuola aperta per acquisire
determinate competenze gestionali.
3. Una sintesi
Dall’incontro di oggi pomeriggio ci sembra di poter cogliere tre importanti
messaggi:
Dall’invenzione al marketing innovativo
28
L’innovazione non è solo una questione di alta tecnologia. Certamente siamo
in presenza di innovazione quando viene creato un nuovo materiale che, semplicemente, prima non esisteva. Ma siamo ugualmente di fronte a innovazione
quando c’è l’introduzione di nuovi metodi produttivi o organizzativi precedentemente adottati in altri settori. E infine siamo di fronte a innovazione quando
si adottano soluzioni commerciali di successo.
Ciò che accomuna tutti i significati che si possono dare al termine innovazione
è che alla base c’è, fondamentalmente, un atto imprenditoriale. Creare nuovi
materiali, utilizzare nuove tecnologie, implementare nuove tecniche commerciali: tutto ciò comporta la necessità di effettuare investimenti e comporta l’accettazione del rischio.
L'imprenditore convive con il rischio quotidianamente per sua stessa natura e
la sua attività sta proprio nell'accettarlo e cercare di ridurlo. Ma non è un temerario che fa continuamente salti nel buio.
Per condividere il rischio legato all’innovazione è pertanto auspicabile che nel
panorama finanziario italiano cresca la presenza e il peso del venture capital,
ma bisogna anche avere il coraggio di entrare, come ha fatto Nidek
Technologies, nella giusta filiera che garantisca l’acquisizione delle competenze, anche commerciali, necessarie al successo.
La questione culturale
Per alcuni l’innovazione è una missione. Per altri è una risposta al mercato. Per
tutti l’innovazione deve essere una questione culturale.
R
La filiera
dell’innovazione
Innovare infatti non può essere un momento isolato nella vita dell’azienda: si
devono adottare modelli organizzativi e gestionali che permettano una certa
ridondanza, che agevolino la multidisciplinarietà e che prevedano momenti di
socializzazione necessari all’ibridazione delle conoscenze. Per realizzare queste
forme di socializzazione, però, serve una certa disponibilità alla tolleranza, intesa come capacità di integrare le “diversità” in modo virtuoso.
L’imprenditore deve infine accettare l’ambiguità dei processi innovativi, ovvero
il fatto di non sapere dove porterà il percorso intrapreso. Deve aprirsi ad un
mondo, quello del sapere, che non si può controllare ma solo condividere.
Gli attivatori del processo
Fondamentali per attivare il processo innovativo risultano essere gli enti e le
istituzioni che fanno della ricerca il loro pane quotidiano, Università in primis.
Tuttavia il rapporto tra imprese e Università è troppo spesso un rapporto difficile. Le prime vorrebbero dall’Università servizi a basso costo e puntano a conseguire subito un ritorno economico dell’investimento. La seconda guarda con
diffidenza all’interesse dell’imprenditore e non riescono a comunicare efficacemente il valore delle astrazioni su cui si impegnano.
Ne deriva che il contatto tra il mondo imprenditoriale e Università è indiretto,
saltuario, determinato più dal successo di recedenti esperienze personali e
dalla disponibilità del singolo accademico, che non da un modello di reciproco
interesse codificato.
Concludendo, dall’incontro di oggi abbiamo compreso come il processo innovativo non sia ascrivibile esclusivamente alla creatività del singolo, quanto piuttosto al frutto dell’interazione tra tutti gli stakeholder aziendali. Solo così i benefici dell’innovazione potranno ricadere sull’impresa, che si avvantaggerà dei
benefici della migliorata competitività, ma anche sul territorio, che lo incorporerà quale intangible asset attrattivo di nuovi investitori e cervelli.
29
RISALIRE
LA FILIERA
RISORSE SULL’INNOVAZIONE
Per saperne di più
sull’innovazione
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