lavoro usa e getta_contini

Transcript

lavoro usa e getta_contini
lAVORO “USA E GETTA”, DISOCCUPAZIONE E INOCCUPAZIONE.
NOVITA’ IMPORTANTI DAI DATI WHIP 1
Bruno Contini, Università di Torino e Collegio Carlo Alberto
con Elisa Grand, Collegio Carlo Alberto
Luglio 2012
Abstract
Il lavoro “usa e getta” - di cui oggi abbiamo una nozione molto più chiara di qualche anno fa spiega almeno tre fenomeni che hanno grosse implicazioni per la politica economica e per il
progetto di riforma del mercato del lavoro recentemente approvato dal Parlamento.
Il primo è il più drammatico: molti giovani che entrano nel mercato del lavoro in modo ufficiale, ne
escono dopo breve tempo per non rientrarvi mai più.
Il secondo riguarda la crescita nell’ultimo decennio del numero di inoccupati che non sono alla
ricerca attiva di lavoro, ma che si dichiarano disposti a lavorare qualora fosse loro offerto. Agli
effetti di un realistico confronto con altri paesi europei, la maggiore parte di questi dovrebbe essere
conteggiato come disoccupato, portando così il tasso di disoccupazione effettivo oltre il 15%.
Il terzo ha un effetto dirompente su un luogo comune della stampa giornalistica, ma anche della
pubblicistica accademica. I contratti a tempo indeterminato, declamati per essere iper-protetti
specialmente sotto il profilo del licenziamento, sembrano esserlo assai meno di quanto si sostiene.
1 Introduzione
Con questo articolo intendo presentare alcuni dati, per ora largamente sconosciuti, che fanno luce su
alcuni fenomeni che sarebbe stato opportuno non trascurare nella messa a punto della riforma del
mercato del lavoro. Il lavoro “usa e getta” - di cui oggi abbiamo una nozione molto più chiara di
qualche anno fa - spiega almeno tre di questi fenomeni.
Il primo è il più drammatico: al di là della frammentazione delle carriere lavorative, molti giovani
che entrano nel mercato del lavoro in modo ufficiale, ne escono dopo breve tempo per non
rientrarvi mai più. Lavoro “usa e getta” (bisognerebbe forse parlare di “lavoro usa e getta
definitivamente”) riflette bene questa caratteristica.
Il secondo riguarda la crescita nell’ultimo decennio del numero di inoccupati che non sono alla
ricerca attiva di lavoro, ma che si dichiarano disposti a lavorare qualora fosse loro offerto. Secondo
l’ISTAT se ne contavano 2.8 milioni nel 2010; oggi sono sicuramente intorno a 3 milioni. Numeri
che sono oltre tre volte la media europea. E che nascondono, per motivi sui quali tornerò tra breve,
un tasso di disoccupazione reale, più confrontabile di quello ufficiale con i tassi europei, che
sicuramente supera il 15%.
Il terzo ha un effetto dirompente su un luogo comune della stampa giornalistica, ma anche della
pubblicistica accademica. I contratti a tempo indeterminato, declamati per essere iper-protetti
specialmente sotto il profilo del licenziamento, non sembrano esserlo affatto. Quasi due terzi delle
assunzioni a tempo indeterminato danno luogo a distacchi involontari dal posto di lavoro entro due
anni dall’inizio del rapporto.
1
Questo lavoro è stato sviluppato nel quadro del progetto “Problems of youth employment” finanziato dal Collegio
Carlo Alberto. Siamo grati a un referee per le numerose osservazioni che hanno permesso di migliorare il testo e di
emendarlo da alcuni errori. La responsabilità dello scritto è solo degli autori.
1
Le informazioni contenute in questo articolo susciteranno inevitabilmente perplessità. Invitiamo
caldamente tutti coloro che le condividono a approfondire le esplorazioni che ci hanno portato fino
a qui. I dati sono a disposizione degli interessati per qualsiasi replica.
2 Lavoro “usa e getta”: l’utilizzo dei giovani (ma anche dei meno giovani) nel mercato del
lavoro italiano
Lavoro “usa e getta”? Se ne parlava già più di venti anni fa in alcune sedi sindacali, ma molti
pensavano che fosse uno slogan di lotta politica, e comunque non c’erano gli strumenti per
analizzarne cause e dimensioni. Oggi ne riparliamo con gli strumenti adatti. Il lavoro “usa e getta”
ci sembra la chiave per studiare dimensioni, cause e conseguenze del dilagante precariato, ma anche
per capire come ha origine la drammatica crescita dell’esercito degli inattivi.
I dati che forniscono la maggior parte delle indicazioni di questo studio sono quelli WHIP, un
grande campione longitudinale di carriere lavorative di tutti coloro i cui contributi previdenziali
sono versati all’INPS dagli anni Ottanta in avanti (il rapporto campione-universo è di 1:90), frutto
della collaborazione tra INPS, l’Università di Torino e il Collegio Carlo Alberto.
Poiché il lavoro “usa e getta” è particolarmente rilevante per i giovani, conviene osservare (fig. 1)
che le assunzioni dei dipendenti - indipendentemente dalla modalità contrattuale - sono state assai
più numerose tra i giovanissimi (19-22) rispetto alle classi di età 22-25 e i più maturi (25-30). Il
calo osservabile tra il 1987 e il 1993-94 è drammatico, oltre il 50% per tutte le classi di età, ma
ancora più forte tra i giovanissimi. Poi le assunzioni riprendono con fasi alterne, senza mai, però,
avvicinare i livelli di fine anni Ottanta. Questi sviluppi appaiono sostanzialmente indipendenti dalla
dinamica demografica. I dati WHIP non consentono di arrivare agli anni più recenti, né il Rapporto
ISTAT-INPS sulla Coesione Sociale 2012 fornisce dati sui nuovi assunti. Indica però che la
numerosità dello stock di lavoratori dipendenti sotto i 40 anni continua a ridursi, mentre aumenta
quella degli ultra-quarantenni, una chiara conseguenza della flessione delle assunzioni dei giovani.
140000
120000
100000
80000
60000
40000
20000
0
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
età 19-22
1994
1995
età 22-25
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
età 25-30
Figura 1. Entrate di uomini nel lavoro dipendente per classe di età: la crescita del 2002 è attribuibile quasi
interamente al provvedimento di regolarizzazione degli extra-comunitari di quell’anno.
Fonte: Elaborazioni su WHIP
Ecco quello che rivelano i dati sui processi “usa e getta”. In primo luogo ci mostrano l’enorme e
crescente frequenza di carriere intermittenti, con lunghi periodi in disoccupazione tra un impiego e
l’altro, quasi indipendentemente dal tipo di contratto con cui si viene assunti. In secondo luogo
2
evidenziano che molti, troppi giovani che entrano nel mercato del lavoro alle dipendenze in modo
ufficiale (e cioè a libro paga con regolare contratto di lavoro e versamento contributivi) ne escono,
spesso dopo breve tempo, per non rientrarvi mai più. Non sorprendono (ma preoccupano) le carriere
intermittenti. Né sorprende che questa modalità di turnover elevato perduri per lunghissimi anni
prima di approdare a una occupazione relativamente più (ma quanto?) stabile. Dopotutto così ormai
vanno le cose da venti anni nella maggior parte dei paesi occidentali: nel 2008, secondo l’OECD,
solo metà dei giovani europei fino a 29 anni aveva un contratto di lavoro stabile: tutti gli altri
lavoravano sulla base di contratti variamente atipici che notoriamente compromettono seriamente le
condizioni di vita, e hanno spesso effetti molto negativi sulla progettualità individuale, nonché
sull’accumulazione di capitale umano. La patologia italiana consiste nel fatto che un numero
drammaticamente alto di giovani che hanno avuto un periodo di lavoro alle dipendenze
perfettamente in regola, dopo la prima dismissione spariscono dal mercato del lavoro, non solo
come lavoratori dipendenti, ma anche come autonomi, professionisti, impiegati nel settore pubblico,
né risultano disoccupati (i lavoratori in Cassa Integrazione restano sul libro-paga del datore di
lavoro, e quindi vengono conteggiati come attivi) o pensionati. 2 Per alcuni di questi è plausibile che
la destinazione finale sia l’economia sommersa, per sua natura non osservabile; per molti altri uno
stato di disoccupazione permanente senza indennità che si trasforma presto in inattività da
scoraggiamento tout court. Per pochi ha senso pensare a scelte di inattività volontaria. Le fonti
statistiche ufficiali, basate sulle Indagini Trimestrali sulle Forze di Lavoro, non consentono,
peraltro, questi approfondimenti che richiedono l’osservabilità delle carriere individuali su periodi
molto lunghi e non interrotti. E’ comunque opportuno notare che i dati sugli stock di inattivi forniti
dall’ISTAT sono quasi in linea con quanto emerge da WHIP, come vedremo di seguito.
La maggiore parte dei nostri approfondimenti si ferma al 2003, e riguarda i lavoratori maschi,
proprio per eliminare i problemi che si frappongono nelle analisi dei percorsi lavorativi delle donne
(maternità, cure domestiche, ecc.). Per le donne, che saranno oggetto di approfondimenti nel
prossimo futuro, ci limitiamo a evidenziare qualche risultato generale (fig. 5). Il limite dell’analisi
al 2003 è grave, ma non drammatico agli effetti delle considerazioni di politica economica che se ne
possono trarre. La maggior parte delle tendenze osservabili a quella data hanno storie lunghe, che
sicuramente non si sono rovesciate negli ultimi anni, e che invece, molto probabilmente, si sono
accentuate.
2
L’assenza del settore pubblico e delle professioni con proprie casse previdenziali dagli archivi gestionali INPS non
costituisce più un grave problema da quando esiste il Casellario degli Attivi (un altro prodotto INPS). Per WHIP è stata
fornita un’esplorazione ad hoc che consente di osservare le carriere dei lavoratori anche dopo eventuali uscite dagli
archivi gestionali dell’istituto, qualsiasi sia la loro destinazione, ivi incluso il pensionamento.
3
1.00
0.95
0.90
0.85
0.81
0.80
0.73
0.75
0.70
0.65
0.60
0.55
0.50
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
Sopra vvi venza WHIP (da ta ba s e ori gi na l e )
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
Sopra vvi venza WHIP (corre tta da Ca s el l a ri o Atti vi )
Figura 2. Sopravvivenza degli uomini entrati nel lavoro dipendente in età 19-30 nei settori dell’industria o dei
servizi, al Nord oppure al Sud
Fonte: E. Grand, R. Quaranta. Completamento delle carriere lavorative WHIP con i dati del Casellario degli Attivi
INPS, WHIP Technical Report no. 3/2011.
1.00
0.95
0.90
0.85
0.80
0.77
0.75
0.69
0.70
0.65
0.60
0.55
0.50
t
t+1
t+2
t+3
t+4
t+5
t+6
t+7
t+8
Entra ti ne l 1987
t+9
t+10
t+11
t+12
t+13
t+14
t+15
t+16
Entra ti nel 1992
Figura 3. Sopravvivenza WHIP degli uomini entrati nel lavoro dipendente in età 19-30 in tutti i settori e in tutta
Italia
Fonte: Elaborazioni su WHIP
4
1.00
0.95
0.90
0.85
0.82
0.80
0.75
0.70
0.67
0.65
0.60
0.55
0.50
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
i mpres e con 0-19 di pendenti
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
i mpres e con 200+ di pendenti
Figura 4. Sopravvivenza WHIP degli uomini entrati nel lavoro dipendente nel 1987 in età 19-30 in tutti settori e
in tutta Italia, per dimensione di impresa
Fonte: Elaborazioni su WHIP
I numeri sono drammatici (fig. 2). Su 100 maschi entrati per la prima volta nel lavoro regolare alla
fine degli anni Ottanta in età 19-30, solo 81 sono ancora al lavoro nel 2002 (qualsiasi lavoro, alle
dipendenze o autonomo, esclusa naturalmente l’attività nell’economia sommersa). I restanti 19 sono
scomparsi nel corso del tempo.3 Per le donne, non sorprendentemente, la sopravvivenza nel mercato
del lavoro è decisamente più bassa, restando al di sotto del 65% anche tra le coorti più giovani (fig.
5).
1
0.9
0.8
0.7
0.6
0.5
0.4
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
età 19-22
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
e tà 25-30
Figura 5. Sopravvivenza WHIP delle donne entrate nel lavoro dipendente nel 1987 per età.
Fonte: Elaborazioni su WHIP
La fig. 3 esemplifica la sopravvivenza al 2002 dei maschi entrati nel 1987 e nel 1992. Il 1987 era un
anno di espansione produttiva; il 1992 l’inizio di una grave recessione. Non sorprendentemente, chi
inizia la carriera nella fase espansiva del ciclo economico (t = 1987) sopravvive più a lungo di chi
entra durante una fase recessiva (t = 1992): 10 anni dopo l’inizio della carriera sono ancora al
lavoro 77 individui tra i primi (nel 1997) e solo 69 tra i secondi (nel 2003). L’analisi rivela altre
importanti differenze a seconda di una ampia tipologia di caratteristiche. Ecco quelle più importanti,
3
Si fa riferimento alla sopravvivenza corretta WHIP-Casellario, che è, naturalmente, più elevata di quella riscontrabile
nei dati WHIP originali perché tiene conto dei rientri nel settore pubblico, nelle altre casse previdenziali e delle uscite
per pensionamento. Le entrate nel settore pubblico a seguito di uscite definitive dagli archivi gestionali INPS sono il
14% del totale.
5
relative agli entrati nel 1987 (negli anni successivi le differenze relative si mantengono quasi
inalterate):
(i)
età: coloro che entrano in carriera giovanissimi (19-22) sono quelli che sopravvivono
più a lungo: 81% presenti nel 2002, contro 74% per quelli della fascia 25-30;
(ii)
geografia: la sopravvivenza nel Nord Italia raggiunge l’83%; al Sud il 73%;
(iii)
settore di attività: nell’industria manifatturiera la sopravvivenza è di poco più elevata
che nei servizi, esclusi gli esercizi commerciali. Qui la sopravvivenza è inferiore di
circa 4 p.p. Nelle costruzioni, non sorprendentemente, di quasi 10 p.p.
(iv)
dimensione dell’impresa in cui ha inizio il rapporto di lavoro (fig. 3): la
sopravvivenza per chi inizia il lavoro in imprese piccole (0-19 dip.) è del 73% ; di
poco più bassa rispetto a quelli provenienti da imprese medie (20-199) del 75%, ma
notevolmente al di sotto a quelli in uscita dalle grandi (200 +) che raggiunge l’ 86%;
(v)
lunghezza del primo rapporto di lavoro: se è relativamente lungo (12 mesi +) dopo
16 anni ne sopravvivono il 89%; se è molto breve (fino a 3 mesi) solo il 72%. Si noti
che tra i più giovani (19-22) la percentuale di rapporti di lavoro iniziali < 3 mesi e
12+ mesi mediamente si equivalgono (circa 37%), mentre tra i 25-30-enni i rapporti
brevi sono la metà di quelli relativamente lunghi (27% contro 51%);
(vi)
paga iniziale: le persone che percepiscono uno stipendio di entrata particolarmente
basso (primo quartile della distribuzione salariale) hanno una probabilità di trovarsi
esclusi dal mercato del lavoro tre volte più alta di coloro che hanno uno stipendio
iniziale relativamente alto (quarto quartile della distribuzione);
(vii)
anni trascorsi dall’inizio dell’osservazione: nei primi due anni dal momento
dell’assunzione si distaccano dal proprio posto di lavoro quasi il 70% degli individui,
quasi indipendentemente da quando tale periodo ha inizio (negli anni Ottanta tale
percentuale era più bassa, ma pur sempre superiore al 50%). L’80% di queste
persone dismesse quasi subito dopo la prima assunzione rientra nel lavoro in tempi
più o meno lunghi, ma un drammatico 20% ne esce definitivamente. Negli anni
successivi al secondo l’emorragia si fa più lenta, ma continua ininterrotta. Le fig. 2,
3, 4 mostrano la netta caduta della sopravvivenza negli anni (t) e (t+1) dopo l’inizio
dell’attività lavorativa, e poi il successivo rallentamento. A prima vista, non sembra
che questa caduta si riscontri anche tra le donne (fig. 5): approfondimenti futuri
dovranno chiarire anche questo punto.
Queste osservazioni riguardano le sopravvivenze medie rispetto a una serie di attributi dei lavoratori
(età, caratteristiche del primo episodio lavorativo, settore e posizione geografica, retribuzione, etc.)
che, presumibilmente, interagiscono tra loro. Vengono, tuttavia, confermate anche al di là delle
nostre aspettative dalle analisi di sopravvivenza sulle carriere lavorative basate su micro-dati
(Contini e Grand, 2010), alle quali rimandiamo per approfondimenti.
Si evince - punti (v) e (vi) - che una carriera che comincia male - con contratto di brevissima durata
e pessima paga - si porta dietro un persistente effetto negativo di stigma su tutta la carriera futura, le
cui conseguenze sono evidenti anche a distanza di quasi 20 anni.
Il calcolo delle sopravvivenze di tutti gli entrati nel mercato del lavoro regolare in giovane età (1930) dalla metà degli anni Settanta al 20114 indica che vi sono oggi quasi due milioni di uomini
4
La stima al 2011 è stata fatta nell’ipotesi che i processi di sopravvivenza mantengano le stesse caratteristiche non solo
dopo il 2003, ultimo anno del database WHIP, ma anche sulla base delle integrazioni con il Casellario degli Attivi che,
6
“gettati via” dal mercato del lavoro dopo un primo periodo di occupazione regolare (tab. 1): la
durata media di questa inattività, certamente involontaria per quasi tutti, è di oltre 9 anni. Il che
implica che all’incirca mezzo milione di persone siano in questa condizione da più di 15 anni, quasi
una vita.
Tabella 1. Lavoratori che risultano “gettati via” nel 2011 dopo un primo periodo di occupazione regolare.
Gruppi di età
Lavoratori “gettati via” osservabili nel 2011 a
partire dall’ultima separazione (000)
57-60
52-57
48-52
43-51
41-47
38-43
35-40
31-37
28-34
25-31
24-28
22-26
19-23
ALL
46
91
325
237
361
220
127
153
187
73
50
34
27
1931
Durata media del periodo fuori dal mercato
del lavoro (in anni)
18
17
15
13
10
8
7
6
4
3
2
1
0,5
9.6
Ns. elaborazioni su WHIP
La tab. 2 illustra un altro aspetto dello spezzettamento delle carriere lavorative: la durata media
calcolata al 2004 (in mesi) dei periodi trascorsi in disoccupazione (non-occupazione) per ogni
individuo entrato nel lavoro dipendente dal 1987 in poi, calcolata su tutti gli individui, compresi
coloro che non hanno mai conosciuto episodi di disoccupazione. Tale durata può considerarsi una
proxy della capacità lavorativa inutilizzata del paese, riferita, peraltro, solo alle persone che sono o
sono state attive nel settore privato dell’economia (tab.2).
Età al
momento
della prima
entrata nel
MdL
19-22
22-25
25-30
1987
11,3
12,4
12,0
1988
12,5
12,7
12,5
1989
12,3
14,0
13,4
1990
12,4
11,7
10,8
1991
13,8
12,8
11,2
1992
13,0
12,7
13,3
1993
11,5
12,2
11,1
1994
8,9
10,4
9,4
1995
10,0
9,5
9,4
1996
8,9
8,4
7,6
1997
8,6
8,2
6,3
1998
8,5
7,9
6,4
1999
7,7
7,4
5,8
2000
7,5
6,7
5,8
2001
7,0
6,1
6,3
2002
5,7
4,7
4,3
in larga misura le conferma fino al 2009. L’estrapolazione al 2011 è frutto di nostre supposizioni, sicuramente poco
scientifiche, ma, a nostro avviso, non infondate poiché si basano su ipotesi fin troppo ottimistiche sull’andamento
economico nel biennio 2010-2011.
7
Tab. 2 - Durata media (mesi) degli episodi di disoccupazione (non-occupazione) nelle carriere lavorative di tutti i lavoratori,
compresi coloro che non hanno mai avuto episodi di non-occupazione. Ns. elaborazioni su WHIP.
La durata media è di 12-13 mesi per coloro che hanno iniziato a lavorare tra la fine anni Ottanta e
l’inizio degli anni Novanta. La stima si riduce fisiologicamente per chi ha iniziato in anni
successivi. Ma una media di 5 mesi “persi” a fine 2004 per chi è entrato nel lavoro nel 2002,
significa all’incirca un sesto (= 5 mesi su 2,5 anni disponibili) di capacità lavorativa inutilizzata.
Merita notare che i mesi “persi” fuori dall’occupazione pesano di più tra chi ha iniziato molto
giovane rispetto a chi ha iniziato più tardi, presumibilmente quelli che hanno titoli di studio
superiori.
3 L’esercito degli inoccupati e una stima più realistica della disoccupazione
Si può elaborare, a questo punto, sul collegamento tra la modalità “usa e getta” di utilizzo di forzalavoro giovanile - quanto meno giovanile all’inizio di carriera, poi il tempo passa per tutti e i
ventenni di fine anni Ottanta oggi sono ultra-quarantenni - e la crescita a dismisura dei tassi di
inattività, nonché l’entrata nell’economia sommersa. Ma anche la durata della disoccupazione reale
stessa, perché, come è stato argomentato prima, non vi è dubbio che il tasso di inattività maschile in
età di lavoro - da tre a cinque volte superiore a quello di qualsiasi altro paese europeo - nasconda
disoccupazione tout-court, o nella migliore delle ipotesi, sottoccupazione e/o attività marginali nel
sommerso.
Come si è già detto, secondo l’ISTAT nel 2010 c’erano in Italia 2.8 milioni di persone che, pur
dichiarandosi disponibili a lavorare, non cercavano lavoro (gli “inattivi disposti a lavorare”): 1.1
milioni maschi, 1.7 milioni femmine, oltre tre volte la media europea, dieci volte quella francese.
Nessun altro paese si avvicina a questi numeri. In Francia gli inattivi sono 309 mila, in Germania
530 mila, in Spagna 973 mila, nel Regno Unito 837, in Grecia 55 mila. Oggi - inizio 2012 - sono
sicuramente più di 3 milioni (tab.3).
L’ISTAT calcola che il numero degli inattivi disposti a lavorare è cresciuto di quasi 200 mila unità
all’anno a partire dal 2004 e che nel 2004 la percentuale di inattivi con queste caratteristiche sulla
forza lavoro potenziale fosse del 4.6% tra gli uomini e del 15.3% tra le donne. Nel 2010 tali
percentuali salgono al 7.2% e 16.6% rispettivamente. E la crescita è avvenuta soprattutto nelle
classi di età 15-34, mentre è stata più modesta tra le persone relativamente più anziane 35-64 (tab.
4). E’ presumibile che nei prossimi cinque anni - stante le condizioni dell’economia - questa
crescita non si arresti.
Tabella 3. Confronti con paesi dell’Unione Europea
Disoccupati
Italia
2102
8.4
Inattivi,
disponibili al
lavoro, ma
NON alla
ricerca attiva
2764
Francia
2653
9.4
Germania
2946
UK
Spagna
UE
Tasso di
disoccupazione
Tasso di
inattività
Tasso di
occupazione
(M+F)
Tasso di
occupazione
(F)
Tasso di
occupazione
giovanile
(15-24)
11.6
56.9
46.1
27.9
309
1.1
64
59.9
22.5
7.1
530
1.3
71.2
66.1
9.7
2440
7.8
837
2.7
70.3
65.3
19.1
4632
20.1
973
4.2
59.4
53
41.6
22906
9.6
8250
3.5
Fonte: Istat, Occupati, disoccupati, inoccupati 2010, 10.11.2011.
8
Tabella 4. Dati italiani
Classe
di età
15-24
25-34
35-54
55-74
% inattivi
che NON
cercano
lavoro (su
totale
inattivi),
2010
19.3
24.9
45.9
9.9
% inattivi
sulle
forze di
lavoro,
2004
21.6
8.5
7
8.9
%
inattivi
sulle
forze di
lavoro,
2010
30.9
12.1
8.8
8.8
Tasso di
occupazione
(M)
24.3
75.4
87.1
47.6
Tasso di
occupazione
(F)
16.5
55.4
60.1
26.2
Tasso di
disoccupazione
(M)
26.8
10.4
5.1
3.9
Tasso di
disoccupazione
(F)
29.4
14
6.3
3
Tasso di
partecipazione alla
forzalavoro (M)
33.2
84.2
91.5
59.4
Tasso di
partecipazione alla
forzalavoro (F)
23.4
64.4
64.2
38.2
Fonte: Istat, Occupati, disoccupati, inoccupati 2010, 10.11.2011.
Siamo di fronte a una vera patologia nazionale: si tratta di persone quasi tutte sane e abili al lavoro,
che rinunciano a compiere azioni di ricerca attiva. Perché sono tanto più numerosi dei coetanei
francesi, tedeschi, spagnoli, ecc.? Una risposta c’è, se pure forse non l’unica. Moltissimi italiani che
si ritrovano disoccupati da anni (senza percepire alcuna indennità di disoccupazione né di Cassa
Integrazione, ambedue, soit disant, privilegio di pochi), ma anche altrettanti giovani che, lasciata la
scuola o l’università, si trovano a lungo alla ricerca di un lavoro mai trovato, diventano lavoratori
“scoraggiati”. Nei paesi dove esistono sussidi di disoccupazione generalizzati, ancorché modesti e
temporanei (come in Spagna, dove sono differenziati anche territorialmente), tutti coloro che sono
senza lavoro ne possono fruire, proprio in quanto si dichiarano disoccupati e alla ricerca di lavoro.
Non conviene rendersi “inattivi”, perché ciò pregiudicherebbe il titolo al sussidio. In Italia le cose
stanno diversamente: il Rapporto di Coesione Sociale 2012 ci dice che nel 2010 i disoccupati che
percepivano l’assegno erano 466 mila su oltre 2 milioni di persone ufficialmente disoccupate, ma,
come si vedrà in seguito, erano solo la metà negli anni precedenti. E quindi, quell’esercito di inattivi
è privo dei buoni motivi per dichiararsi disoccupato. Ciò spiega perché - nonostante i tempi orribili
- la disoccupazione italiana sia sì cresciuta, ma si è però mantenuta a livelli relativamente modesti
(9.3% contro 10.3% nella EU nel 2012) rispetto agli stessi paesi (Spagna esclusa) che hanno un
numero di inattivi assai inferiore. Non vi dubbio che una larga parte degli inattivi disposti a lavorare
sarebbero da contare come disoccupati a tutti gli effetti: se questa parte fosse solo la metà di
quell’esercito (circa 1,5 milioni tra uomini e donne) il tasso reale di disoccupazione italiana sarebbe
più confrontabile con quello degli altri paesi europei e si collocherebbe ben oltre il 15%.
Concorre a questa spiegazione un problema di classificazione statistica. Le rilevazioni che
forniscono le stime degli occupati, disoccupati e inattivi sono basate sulle auto-dichiarazioni degli
intervistati (l'indagine sulle forze di lavoro, Labour Force Survey, è standardizzata in tutti i paesi
UE). E il confine tra occupati, disoccupati e inattivi, labile ovunque, lo è in modo particolare dove
vi è molta economia sommersa o semi-sommersa: anche qui l’Italia è in prima fila. Tra i disoccupati
e gli inattivi che si dichiarano tali nell’indagine ISTAT vi sono certamente persone che lavorano “in
nero” e che sono restii a rivelare la loro attività per timore di essere individuati, tassati, o comunque
di perdere benefici che vanno alle loro famiglie (esenzioni che vanno dalle mense e rette
scolastiche, ai sussidi di povertà nelle poche regioni che se li possono permettere, ecc.). Così come
è sicuro che vi sono anche lavoratori in nero che si dichiarano occupati, come effettivamente sono
(ma nessuno sa quali e quanti sono). E indubbiamente molti altri si dichiarano “inattivi”.5
Ne consegue che anche il tasso di occupazione rilevato dall’ISTAT (rapporto tra occupati e
popolazione) è notevolmente al di sotto di quelli di quasi tutti i paesi occidentali: in Italia si pone al
57% , in Francia al 64%, In Germania e Regno Unito supera il 70%. In tutti i paesi, specialmente in
quelli scandinavi e anglo-sassoni, dove l’economia sommersa non manca, ma è meno presente che
da noi - e in genere riguarda secondi lavori non dichiarati, più che lavori totalmente sommersi - i
5
Per esempio, la Campania è tra le regioni italiane quella in cui sono tra i più alti sia il tasso di disoccupazione che
quello di inattività. E lo stesso vale, stando alle stime fornite dall’ISTAT, per l’estensione dell’economia sommersa
(Battistin e Rettore, 2008).
9
problemi di classificazione che forniscono una immagine falsata del mercato del lavoro italiano si
presentano meno gravi. I tassi di occupazione italiani sarebbero più allineati a quelli di tali paesi se
si riuscisse a contare correttamente coloro che lavorano completamente in nero. Anche perché
quello che diventa lavoro nero in Italia, non è affatto detto che lo sia altrove. La stretta (nonché,
come vedremo, facilmente eludibile) regolamentazione del mercato del lavoro italiano favorisce
l’immersione di molte occupazioni perché si verifica un connubio di interessi tra datore di lavoro e
lavoratore al fine di eludere tasse e contribuzioni previdenziali. Si pensi - ad esempio - al settore
delle costruzioni dove molti lavori vengono affidati a piccole ditte artigiane con pochi dipendenti
saltuari: è noto che in larga maggioranza costoro lavorano in nero. In alcuni altri paesi, al di là della
maggiore fiducia che viene riposta nelle istituzioni e quindi della più elevata disponibilità a pagare
le tasse, non sono previsti contributi sociali obbligatori se la paga è al di sotto di certe soglie e
l’occupazione è saltuaria. Vi è quindi, anche tra i lavoratori più precari, che non sono una
caratteristica solo italiana, un minore incentivo a nascondere il proprio status lavorativo al momento
della intervista.
E’ qui il momento di chiedersi fino a che punto la stima di 1.9 milioni di uomini “usati e gettati” al
2011 (da WHIP) sia confrontabile con la stima ISTAT di 1.7 milioni di inattivi maschi disposti a
lavorare: tra gli 1.9 milioni di lavoratori “usati e gettati” ve ne sono sicuramente un congruo numero
che lavorano nell’economia completamente sommersa (i semi-sommersi / doppio-lavoristi
dovrebbero comparire nei dati WHIP). Quanti è molto difficile dire. Se fossero vicini alla metà numero plausibile, ma privo di affidabilità statistica - ne restano circa 1 milione; in buona parte
questi potrebbero risultare tra gli 1.7 milioni di inattivi nelle indagini ISTAT sulle forze di lavoro.
Dal lato della stima ISTAT degli inattivi, vi compaiono quasi tutti i cosiddetti NEET (giovani “notin-employment, education or training”) che lo stesso Istituto di Statistica stima intorno a 800 mila
uomini (nonché 1.2 milioni di donne) in età 15-29. Di costoro, quelli che hanno avuto episodi di
lavoro prima di diventare NEET sono compresi tra gli “usati e gettati” nella fascia di età 15-29:
dalla tab. 1 ne contiamo 150 mila circa. I restanti 650 mila (800 - 150 = 650) dovrebbero essere
ricompresi tra gli inattivi, ma non possono essere presi in considerazione per il confronto con le
stime WHIP perché non hanno mai lavorato prima. Gli inattivi ISTAT confrontabili con gli “usati e
gettati” WHIP sono quindi 1.7 milioni - 650 mila = 1.050.000 individui. La differenza tra 1.050.000
inattivi ISTAT rilevanti per il confronto e 1.000.000 ex-lavoratori “usati e gettati”
(presumibilmente) inattivi WHIP è contenuta, a condizione che l’ipotesi sul numero di inattivisommersi non sia campata in aria (ma quando c’è di mezzo il sommerso, si può parlare di numeri
senza punti interrogativi?). E la stima di una durata media del periodo in condizione di nonoccupazione che noi calcoliamo in 9,6 anni (WHIP, tab. 1) non è lontana dalla durata media dei
periodi in inoccupazione per scoraggiamento stimabile dai dati ISTAT. 6 Questa prossimità non è
casuale, e rafforza l’idea che le stime che si ricavano dalla fonte WHIP siano affidabili.
4 Quanti sono i precari al lavoro?
Il Rapporto di Coesione Sociale 2012 presenta un rapido conto dei lavoratori che a vario titolo
possono essere considerati i “precari” dell’economia italiana: tra i lavoratori dipendenti ve ne sono
2.182.000 con contratto a termine, di cui 1.850.000 nel settore privato e 332.000 nel pubblico; tra
6
Il Rapporto Coesione Sociale 2012 fornisce le seguenti stime sulle transizioni verso la disoccupazione per l’anno 2010
(in 000):
ProvenienzaTotaleMaschiEx-occupati (t-1)1077679Ex-inattivi486201In cerca di prima occupazione592284Totale21551164
Se consideriamo il flusso di 201 mila disoccupati maschi provenienti dalla condizione di inattività, possiamo
stimare la probabilità della transizione inattività/disoccupazione come rapporto tra il flusso e lo stock di maschi inattivi
ma disponibili a lavorare (circa 1.7 milioni, dalla stessa fonte). La probabilità di transizione è data da 201 mila / 1700
mila = 0,12. Sotto ipotesi statistiche affatto restrittive si può calcolare la durata media del periodo trascorso prima della
transizione nella condizione di inattività, come 1/0,12 = 8,5 anni. Questa stima si discosta poco dai 9,6 anni di durata
media di non-occupazione, che si ottiene dalle nostre elaborazioni sulle sopravvivenze da WHIP.
1
gli autonomi vi sono 1.400.000 parasubordinati con qualifica di collaboratori. In tutto fanno
3.582.000 lavoratori precari nel mercato del lavoro regolare7. A questi bisogna poi aggiungere tutti
quelli che non si vedono nei dati ufficiali, e in primo luogo la maggioranza di coloro che fanno
parte dell’economia sommersa: l’ordine di grandezza potrebbe essere due milioni di persone, che,
aggiunti a quelli “regolari” fanno un esercito di oltre 5.5 milioni di persone, un quinto di tutta
l’occupazione italiana.
E con ciò il calcolo potrebbe non essere completo perché, come vedremo qui di seguito, anche tra le
persone generalmente considerate iper-protette - i fortunati detentori di contratti a tempo
indeterminato - il numero di dismissioni a breve distanza dall’inizio di carriera a cui fanno seguito
periodi di disoccupazione tutt’altro che brevi, è molto più elevato di quanto si potrebbe immaginare.
5 Lavoratori a tempo indeterminato iper-protetti ? Molta cautela e qualche precisazione.
Dal 1998 sono disponibili i dati sulle tipologie contrattuali delle carriere a partire dalla prima
assunzione. E’ interessante notare che le assunzioni con contratto a tempo indeterminato sono state
molto più frequenti tra le imprese piccole che tra le grandi (tab. 5), e che la tendenza continua a
perdurare (Rapporto Coesione Sociale 2012, e Indagine ISTAT 2011 sui flussi occupazionali delle
grandi aziende). Tra le imprese minori superano i due terzi di tutte le tipologie di entrata; tra le
maggiori non raggiungono un terzo, e negli ultimi anni osservabili si riducono al 20% del totale. La
preferenza (relativa) delle piccole imprese per i contratti a tempo indeterminato è in linea con
quanto il buon senso suggerisce: i licenziamenti – anche degli assunti a tempo indeterminato - sono
di gran lunga più facili tra le piccole imprese che non tra le grandi. E quindi, a parità di altre
condizioni, non sorprende che le piccole imprese abbiano fatto relativamente più uso di contratti
standard a tempo indeterminato delle aziende maggiori. Quello che colpisce, piuttosto, - e con
buona pace dell’art.18 - è che anche tra le imprese medie (20-199 dipendenti) le quote di contratti a
tempo indeterminato non si discostino molto da quelle delle imprese minori.
Tab. 5 - Quota di contratti a tempo indeterminato su tutte le tipologie di entrata per dimensione di impresa
Anno
1998
0-19
68
20-199
60
200 +
35
1999
72
57
32
2000
75
61
23
2001
77
61
20
Fonte: ns.elaborazioni su WHIP.
Un fragile indizio della maggiore tenuta delle grandi imprese – correlato alla più lunga
sopravvivenza segnalata al punto (iv) nel par.2 di questo scrittto - è fornito dalla tab. 6 che
evidenzia la durata dei periodi di occupazione ininterrotta: il 28% delle persone assunte con
contratto a tempo indeterminato nelle imprese con 200+ addetti avevano periodi di lavoro
continuativo superiori a 4 anni, mentre tra le imprese piccole questa percentuale scendeva al 16%.
Le prospettive sembravano migliori per gli assunti con CFL (contratti aboliti dal 2004) in virtù del
fatto che la metà dei CFL veniva trasformato alla scadenza in contratto a tempo indeterminato.
D’altra parte è anche vero che per quasi la metà (44%) dei contratti a tempo indeterminato, la
continuità dell’impiego non raggiunge sei mesi.
Tab. 6 Durata degli spells di occupazione ininterrotti per tipo di contratto
Tipologia
Contrattuale
Anno di
inizio
lavoro
% durate
< 6 mesi
% durate
> 4 anni
imprese
con
% durate
> 4 anni
imprese
con < 20
7
Tra gli 1.850.000 lavoratori del settore privato con contratto a termine vi sono tutti gli interinali che sono alle
dipendenze delle Agenzie.
1
200+
addetti
addetti
Tempo
indeterminato
1998
2000
44
44
28
n.d.
16
n.d.
CFL
(inclusi quelli
trasformati
alla scadenza)
Tempo
determinato
1998
2000
19
22
55
n.d.
24
n.d.
1998
2000
61
63
18
n.d.
7
n.d.
TUTTI
(inclusi
stagionali e
interinali)
1998
2000
43
50
31
n.d.
16
n.d.
Conviene approfondire qui un aspetto cui si è accennato nel par. 2: si notava che un gran numero di
lavoratori si distaccano dal posto in cui iniziano la carriera entro due anni dalla prima assunzione. A
questo riguardo, ci sono differenze sostanziali tra gli assunti a tempo indeterminato - così come
logica imporrebbe - e gli assunti con varie tipologie atipiche? E, come corollario della domanda
precedente, - tra coloro che vengono dismessi entro due anni - la quota di individui usciti
definitivamente dal mercato del lavoro è minore tra gli assunti a tempo indeterminato rispetto alle
altre tipologie contrattuali?
Tab. 7 Distacchi nei primi due anni dall’entrata nel MdL e uscite definitive (in % sulle uscite nei primi due
anni)
Ann
o
Dimensione
impresa
Tipologia di
contratto
0-19
% distacchi
nei primi 2
anni
20-199
% uscite
definitive su
distacchi nei
primi 2 anni
% distacchi
nei primi 2
anni
200 +
% uscite
definitive su
distacchi nei
primi 2 anni
% distacchi
nei primi 2
anni
% uscite
definitive su
distacchi nei
primi 2 anni
1998
1998
Tutti
T. indeterminato
65
65
19
21
64
67
18
23
51
52
11
8
1999
1999
Tutti
T. indeterminato
67
65
25
23
67
66
22
21
66
58
19
23
2000
2000
Tutti
T. indeterminato
70
67
24
26
71
69
15
14
71
53
22
19
2001
2001
Tutti
T. indeterminato
64
62
41
45
68
65
36
38
74
57
28
28
Fonte: ns. elaborazioni su WHIP.
Le risposte le troviamo nella tab. 7, e sono ancora una volta sorprendenti. Per quanto concerne le
separazioni entro 2 anni dalla prima assunzione, la tipologia di contratto di entrata fa poca
differenza, quasi indipendentemente dalla dimensione dell’impresa in cui si è stati assunti. E’ quasi
identica tra le imprese 0-19 e le 20-199 (salvo l’anno 2000), e di poco inferiore tra le maggiori
200+. Questo è decisamente un risultato inatteso: è pur vero che i dati non permettono di sapere se i
1
distacchi avvengono per licenziamento o dimissioni volontarie.8 Ma non vi è dubbio che, almeno
per quanto riguarda gli assunti con contratti standard a tempo indeterminato, è impensabile che due
terzi dei neo-assunti decidano di lasciare un posto teoricamente al riparo dalla perdita di lavoro
verso altra destinazione in anni in cui di precariato si parlava già da tempo. E questo è vero anche se
molti di costoro erano stati assunti con salari di ingresso al di sotto di quelli medi (tab. 8). I dati
sembrano raccontare una storia assai diversa da quanto ci si aspetta, e cioè che queste separazioni
siano in larga misura dei licenziamenti belli e buoni. I dati WHIP consentono inoltre di verificare se
questi distacchi siano conseguenza della chiusura di aziende o di forti ridimensionamenti di
personale in corso: ambedue tali ipotesi sembrano potersi escludere.
La tab. 7 mostra anche la frazione di persone definitivamente escluse dal mercato del lavoro
(lavoratori “gettati via”), tra quelle dismesse nei primi due anni dall’entrata. Anche queste
percentuali variano assai meno del previsto tra i contratti standard a tempo indeterminato e le altre
tipologie: tra il 18 e il 25% di quelli che si separano nei primi due anni nelle imprese piccole e
medie (l’aumento di questa frazione via via che ci si avvicina al 2003 dipende dal troncamento del
periodo di osservazione)9. Sono inizialmente più basse per le imprese grandi, ma poi tornano a
livelli comparabili con le quelle di dimensioni inferiori.
La tab. 8 conferma inoltre quanto già menzionato in relazione al rischio di uscita definitiva
dall’occupazione: le persone a elevato rischio di separazione nei primi due anni dall’inizio
dell’attività lavorativa, si trovano prevalentemente nei primi decili della distribuzione salariale. A
questo non corrisponde però, a differenza di quanto ci si potrebbe attendere, una maggiore
propensione alla espulsione definitiva dal mercato del lavoro: tra i decili nella coda sinistra e decili
nella coda destra della distribuzione salariale le differenze sono piccole.
Settore e qualifica
Manifattura – operai
Terziario – impiegati
Costruzioni - operai
% distacchi nei primi due anni
dall’entrata nel mercato del
lavoro
X decili nella distribuzione delle
retribuzioni all’inizio di carriera
decili 1-3
decili 8-10
83
56
74
48
90
59
% di uscite definitive (“gettati fuori
dal lavoro”) tra i distacchi nei primi
due anni dall’entrata
X decili nella distribuzione delle
retribuzioni all’inizio di carriera
decili 1-3
decili 8-10
22
20
27
16
27
30
Tab. 8 - Distacchi nei primi due anni dall’entrata nel MdL e uscite definitive per posizione nella distribuzione delle
retribuzioni all’inizio di carriera. Elaborazioni su WHIP.
La tab. 9/A illustra le durate dei periodi in disoccupazione che si risolvono con un rientro al lavoro.
La frequenza dei passaggi diretti (rilevabili come una separazione a cui segue un’assunzione nello
stesso mese) è minima. I tempi di rientro per chi ha avuto il primo distacco nei due anni dall’inizio
di carriera sono più lunghi rispetto a coloro che lo hanno avuto nei due anni successivi, un risultato
non inatteso. Un rientro al lavoro entro 3 mesi è osservabile nel 34% dei casi per i primi e nel 57%
dei casi per i secondi (da notare, però, che i primi sono tre volte più numerosi dei secondi). Anche
per i rientri dopo 2 anni, le frequenze osservate sono il 20% e il 13% rispettivamente. Tutto
8
A fronte di dimissioni volontarie a seguito di un’offerta di lavoro più vantaggiosa, si dovrebbe osservare un passaggio
diretto job-to-job o comunque un periodo di disoccupazione molto breve tra un job e l’altro. Non è così: (tab. 9): i
passaggi diretti sono solo 1% dei casi, quelli inferiori a 3 mesi il 34% per chi si distacca dal primo lavoro entro i primi
due anni. Per quelli – molto meno numerosi - che si separano nel terzo e quarto anno dal primo lavoro la presunzione di
dimissioni volontarie è sempre modestissima, ma un po’ meno infondata: 3% di passaggi diretti e 57% di periodi di
disoccupazione di durata inferiore a 3 mesi.
9
Si consideri un entrato nel 2000: uno spell di disoccupazione sufficientemente lungo – per es. 4 anni – non è
osservabile perché i dati arrivano solo fino al 2003. Viene perciò considerato un caso di “lavoratore gettato via”
quando in realtà non lo è. Aumenta quindi la frazione di spells di disoccupazione che si concludono in tempi brevi, in
questo caso entro 6 mesi, rispetto a tutti gli spells di disoccupazione conclusi prima della fine del periodo di
osservazione.
1
considerato, i rientri entro sei mesi dall’inizio dell’episodio di disoccupazione non raggiungono il
50% per chi vi è entrato nei primi due anni dall’inizio del lavoro, ma restano al di sotto del 70%
anche per quelli che vi sono entrati nei due anni successivi. Il Rapporto sulla Coesione Sociale 2012
fornisce stime quasi identiche per gli anni più vicini al presente: vi si legge che a sei mesi
dall’entrata in disoccupazione un disoccupato su due si rioccupa, e a dodici mesi questa percentuale
sale al 68%. 10
DURATE (A)
Passaggio diretto
0-3 mesi
t e t+1
1
34
4-6 mesi
6-12 mesi
1- 2 anni
11
18
16
oltre 2 anni
Totale
20
100
DESTINAZIONI AL
t+2 e t+3 RIENTRO (B)
t e t+1 | t+2 e t+3
3
57LAV. AUTONOMO
5
9
INDENNITA’ DI
9DISOCC / MOBILITA’
1
7
10PARASUBORDINATO
4
4
8PENSIONE
0
1
LAVORO
13DIPENDENTE.
89
80
100Totale
100
100
Tab. 9 - Episodi di disoccupazione (non-occupazione) nei quattro anni successivi all’entrata nel MdL:
frequenze % delle durate e destinazioni alla fine degli episodi. Elaborazioni su WHIP.
La tab. 9/B rileva invece le destinazioni di chi rientra al lavoro: nella stragrande maggioranza dei
casi i rientri avvengono nel lavoro alle dipendenze (89 e 80% nelle due fattispecie), ma non sono
trascurabili le riprese con lavoro autonomo e/o parasubordinato. Gli episodi che danno titolo
all’indennizzo di disoccupazione vengono osservati separatamente nella stessa tab. 9/B: come è
noto, e ampiamente discusso in altre sedi (R. Leombruni e U. Trivellato, 2012; F. Berton, M.
Richiardi e S. Sacchi, 2010), gli episodi di disoccupazione che davano diritto a indennità erano assai
pochi secondo la normativa vigente fino all’inizio degli anni Duemila, e solo recentemente
modificata: WHIP indica che la percentuale di episodi indennizzati era inferiore al 3% fino al 1999;
cresce lentamente fino all’ 11% nel 2003, e sembrerebbe attestarsi al 18% nel 2004, ultimo anno
disponibile nella base-dati.
WHIP consente inoltre di osservare la dinamica salariale prima e dopo gli episodi indennizzati a
vario titolo. La tab. 10 riporta dati riferiti a coloro che avevano un contratto standard a tempo
indeterminato prima del periodo in disoccupazione, e lo hanno mantenuto dopo la conclusione. Nel
40% dei casi la variazione è negativa, sia per chi è rientrato nella stessa azienda che lo aveva
sospeso (recall), sia per chi ha trovato lavoro altrove. Si tratta, quindi, di rientri molto penalizzanti
che testimoniano della pesante congiuntura in cui avvengono. Nel 50% dei recalls si riscontrano
aumenti fino al 20% rispetto alla retribuzione di uscita, contro un più modesto 35% per chi trova
posto in altre imprese. Sono assai modeste le frequenze di aumenti retributivi consistenti tra i
recalls (oltre il 20% del salario di uscita), e invece più numerose per chi trova soluzioni alternative.
WAGE
CHANGE
BEFORE/AFTER
REENTRY
Negative
+ 0 // 20 %
RECALL
employer)
(to
same
TO
DIFFERENT
EMPLOYER
40
50
40
35
10
Le stime che noi avevamo ottenuto su dati WHIP per gli anni Novanta fornivano risultati meno confortanti. Nel
triennio 1986-88 (espansivo) e nel biennio 1993-94 (recessivo) – ma è del tutto improbabile che la situazione si sia
evoluta positivamente da allora. Un dato paragonabile a quello fornito dal Rapporto sulla Coesione Sociale si riscontra
solo per individui al di sotto dei 45 anni nel triennio espansivo 1986-88; nel biennio recessivo 1993-94 la frequenza dei
rientri entro 12 mesi scende al 62%. Le cose si presentavano assai peggio per le persone in età 45-50 e ancora più per
gli ultra 50-enni. Tra i primi la frequenza dei tempi di rientro a 12 mesi erano di circa il 60% per i licenziati nel 198688 e del 55% nel 1993-94. Tra gli ultra 50-enni la frequenza dei rientri entro 12 mesi si aggirava intorno al 35%.
1
+ 20 // 50 %
10
17
> + 50%
0
8
Total
100
100
Tab. 10 Quota di periodi di disoccupazione indennizzati (*) e dinamica salariale osservabile prima/dopo il rientro nell’occupazione.
(*) Indennizzi con IDO (ind. disoccupazione ordinaria), IRS (ind. requisiti speciali), ICE (ind. cassa edile) e MOB (mobilità). Gli indennizzi con
IDO sono circa la metà tra tutti quelli osservati.
6 Conclusione
Che il tasso di turnover dei posti di lavoro fosse sempre stato molto più alto del comune sentire è
noto da molto tempo, anche se per molti anni ha riscosso critiche da parte di moltissimi, accademici
e non, i quali sostenevano che in Italia la flessibilità in uscita era scarsissima (non credo che questa
posizione riscuoterebbe oggi altrettanti consensi).11
Quello che si sapeva poco, e che ora sembra osservarsi disponendo dei dati sulle tipologie
contrattuali, è che: (i) per lo meno fino ai primi anni Duemila la maggior parte dei nuovi entrati nel
mercato del lavoro veniva assunto con contratti standard a tempo indeterminato, anche se, a partire
dalla Legge Treu (1996), erano state introdotte modalità contrattuali molto più flessibili; (ii) che il
tasso di disoccupazione confrontabile con quelli di altri paesi dell’Unione Europea è molto più alto
di quello ufficiale e probabilmente si aggira intorno al 15%; (iii) che i contratti standard non offrono
particolari garanzie per quanto riguarda la flessibilità in uscita anche tra le imprese con oltre 20
dipendenti, con buona pace dell’art. 18. Già alcuni anni fa si suggeriva che le piccole imprese non
hanno mai avuto particolari problemi con i licenziamenti perché le scappatoie per aggirare la
normativa erano facilmente accessibili. Oggi si direbbe che ragionamenti analoghi possano
applicarsi anche alle imprese maggiori, al di là dei casi di licenziamento collettivo che pur essendo
oggetto di negoziato tra le parti sociali, in pratica non sono mai stati difficili da ottenere. 12 Qualche
anno fa, in risposta alle critiche che venivano mosse, argomentavamo sulla fondamentale differenza
tra la “law in the books” e la “law in action”. 13 I nuovi dati sembrano darci ragione su un terreno
ancora più ostico.
Bibliografia
Battistin, E. Rettore, E. “Ineligibles and eligible non-participants as a double comparison group in
regression-discontinuity designs”, Journal of Econometrics (2008), n. 142.
Bertola G. e Ichino A. (1995), “Crossing the river: a comparative perspective on the Italian
employment dynamics”, Economic Policy, n.21
11
B. Contini e R. Revelli (1987) è il primo scritto in cui si è sostenuta questa posizione. A volte fraintesa come una
dimostrazione della elevata mobilità anche in entrata - ad esempio, quella dei giovani che escono dal sistema scolastico.
Il chè non segue affatto. Si veda, ad esempio, G. Bertola e A. Ichino (1995).
12
L’indagine ISTAT 2012 sulle grandi imprese (250 + dipendenti) riporta le cause di uscita di personale riferite dalle
aziende industriali: il 26% risultano uscite spontanee e il 7% per raggiunta età pensionabile. Per le altre (67%) si tratta
quindi di licenziamenti o chiusure di contratti a termine, che – come abbiamo visto – costituiscono il grosso delle
assunzioni da dieci anni a questa parte.
13
“Law in Action vs. Law in the Books”: un colloquio tra economisti, e giuslavoristi” Workshop LABORatorio R.
Revelli, Centro Studi sul Lavoro (2006).
1
Berton F., Richiardi M., Sacchi S. (2009), Flexinsecurity: perché in Italia la flessibilità diventa
precarietà, Il Mulino.
Contini B. e Revelli R. (1987), "Job creation and job destruction in the Italian economy" Labour,
vol. 3.
Contini B. e Revelli R. (1996), “Gross and net flows in the labor market. What is there to be
learned?”, Labour Economics, vol.3
Contini B., Trivellato U. (eds. 2005), Eppur si muove. Dinamiche e persistenze nel mercato nel
mercato del lavoro italiano, Il Mulino
Contini, B. e E. Grand (2010), “Young worker disposal and long-term unemployment in Italy”,
W.P. LABORatorio R. Revelli, W.P. IZA n.
Freeman, R.W. (2006), “Internet Surveys to Determine Workplace Institutions and Practices:
Labor in Action vs. Labor in the Books”
Grand, E. e Quaranta, R. “Completamento delle carriere lavorative WHIP con i dati del Casellario
degli Attivi INPS”, WHIP Technical Report no. 3/2011
Leombruni, R., Paggiaro A. e Trivellato U. (2012), “Per un pugno di euro. Storie di ordinaria
disoccupazione”, IRVAPP W.P. (in corso di pubblicazione).
R. Leombruni e R. Quaranta (2011), “La codifica di settore in WHIP. Problemi correnti e studio di
un algoritmo di ricostruzione della codifica Ateco 2002”, WHIP Technical Report n. 2/2010.
1