Aspiranti Buddha La vicenda del presunto super
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Aspiranti Buddha La vicenda del presunto super
1 Aspiranti Buddha MA SIDDHARTA NON ABITA PIÙ QUI La vicenda del presunto super-asceta nepalese sedicenne Ram Bahadur Bomjon ha scatenato un circo mediatico globale che, inseguendo l’exploit del guru, oscura completamente il senso di responsabilità universale, la leggerezza ironica, la pulsione di empatia che caratterizzano la pratica del buddismo. Ben diversamente ammirevole il cammino della birmana Aung San Suu Kyi, leader e prigioniera politica, capace di innervare il suo impegno con la ricerca di una vera rivoluzione dello spirito. ****** di Tiziana Colusso La buddhità non è star sopra un albero… Non sembri irriverente approcciare il buddismo attraverso una canzone di Giorgio Gaber. Il sense of humour è una dote essenziale dei buddisti, e il primo burlone è proprio il Dalai Lama: una volta ad un intervistatore che gli chiedeva cosa lo distinguesse dal Mahatma Gandhi rispose sornione “Portiamo occhiali di tipo diverso”. È importante distinguere gli autentici ricercatori dello spirito, etici, sottilmente politici, e anche capaci di un’ispirata leggerezza, dagli spiritualisti, romantici, velleitari e di animo rigido. Tanto per intenderci, Aung San Suu Kyi, leader birmana e buddista, prigioniera da trent’anni di un regime militare, è un’autentica ricercatrice dello spirito, che nel suo esilio domiciliare vive in una ardua armonia, alternando meditazione, stesura di discorsi politici ed esercizio al pianoforte. E sorride serenamente in ogni foto, con il sorriso enigmatico del Buddha. La canzone di Gaber mi è tornata in mente leggendo sui giornali la vicenda recente di Ram Bahadur Bomjon, il giovane nepalese di 16 anni – subito ribattezzato con scontato automatismo mediatico “il piccolo Buddha” – che dal maggio del 2005 è restato per quasi un anno accoccolato e apparentemente digiuno nell’incavo di un grande albero di “ficus religiosa”, un longevo pinnacolo vegetale così ribattezzato dopo che Siddharta, il Buddha storico, ebbe raggiunto l’illuminazione sotto le sue chiome; il ragazzo è poi sparito in modo misterioso, ed è ricomparso, dopo molti mesi passati sembra a vagare nella foresta, il 24 dicembre scorso. Leggendo i resoconti dei cronisti, la prima impressione è che ormai sia davvero impossibile il ripetersi della vicenda del principe Siddharta: la solennità della sua lunga meditazione sotto l’albero sacro, che lo aveva condotto all’illuminazione, non è nemmeno pensabile in questi tempi di globalizzata e capillare mediaticità, che tutto riduce ad un Circo Barnum. Appena si è diffusa la notizia del ragazzo assorto nella meditazione, file di pellegrini si sono messi in cammino per recarsi a rendergli omaggio; gli abitanti del paese dove si svolge la vicenda, Ratanapuri, nel distretto di Bara, hanno costituito un comitato (sic!) per la gestione del loro santo locale, con filo spinato per tenere a distanza pellegrini e curiosi; sono stati allestiti in gran fretta 2 banchetti per offrire ai visitatori cibo, rosari da preghiera, santini, foto scattate con i telefonini e persino un DVD (anche i circhi devozionali si aggiornano). In queste circostanze, qualsiasi persona sensata e seriamente intenzionata a meditare in santa pace, avrebbe scelto di sparire dalla circolazione. Ma la storia non è finita: a dicembre il ragazzo ricompare, in una località non distante, nel villaggio di Piluwa. I maligni sostengono che era sparito per evitare i controlli medici di una delegazione dell’Accademia Reale delle Scienze, che doveva venire a verificare i suoi lunghi digiuni e ai suoi poteri di meditazione ed emanazione di fiamme dal corpo. È dunque una truffa? Ma a che pro? Il quarto d’ora di celebrità di cui parlava Andy Warhol? La risposta non si sa, almeno per ora, ma forse non è questa la questione essenziale. Di certo, ai fini dell’illuminazione oggi possibile, non è essenziale andar per alberi come baroni rampanti/meditanti, e non è neanche essenziale seppellirsi per tre giorni in una buca, come ha fatto recentemente una donna giapponese arrivata fino in India, ad Allahbad per l’esattezza, per sprofondarsi a meditare in una buca, senza cibo né acqua, secondo le istruzioni del suo guru. Se come imperfettissima praticante buddista non mi emoziono per questi exploit di sopravvivenza estrema, una ragione c’è. Forse sono terrorizzata all’idea che qualcuno possa trasformare in format televisivo tali vicende, inventando un’ “Isola degli Asceti” o qualcosa di simile e altrettanto nefando. Speaking seriously, la verità è che sono sicura che i veri buddha, o forse per meglio dire i veri bodhisattva – (illuminati) di questa epoca sono le persone che sanno portare all’estremo non una ginnastica ascetica, per quanto strabiliante, ma una responsabilità globale nei confronti di sé stessi e – come amano dire i buddisti – di tutte le creature senzienti. Ho già parlato altrove di Aung San Suu Kyi, personaggio affascinante come donna, buddista, leader politico (cfr. “Buddismo e società” n.102/2004). Aung San Suu Ky è in qualche modo una “lezione vivente”, un leader politico adorato dal suo popolo, ma che in nessun modo somiglia ad un comandante in capo della rivoluzione: è minuta, pacata, sorridente, attenta a non cadere nella trappola dell’odio per i persecutori suoi e del suo popolo, convinta com’è che “la vera rivoluzione è quella dello spirito”, come si legge nel suo libro Libera dalla paura, tradotto in Italia da Sperling & Kupfer nel 1998. Questa attitudine della leader birmana somiglia straordinariamente a quella del Dalai Lama, che mai si lascia andare a parole di odio contro i cinesi che pure hanno esiliato e perseguitato lui e la gran parte del popolo tibetano. Anzi, in un libro di interviste tradotto recentemente, Salvare il domani (Mondatori 2006) l’“Oceano di Saggezza” – questo è il significato del suo nome in tibetano – parla del passaggio dalla quiete del Potala, l’antica e splendida residenza dei lama a Lhasa, alla frenesia e alle incertezze dell’esilio dopo l’invasione cinese, come di una tragedia che però gli ha dato l’occasione di “scendere” nel mondo, far conoscere il buddismo e approfondire la nozione di responsabilità universale. È la responsabilità la vera sfida dei tempi a venire, e dunque il buddismo, religione “senza Dio” e senza velleità di crociate e guerre sante, preoccupata solo di illuminare l’umanità e salvaguardarne l’habitat, è senza dubbio la religione più consona a questi tempi. Jorge Luis Borges, che nella sua lunga esplorazione della conoscenza ebbe modo anche di tenere una serie di lezioni sul Buddismo, mette l’accento sull’attitudine di questa religione ad essere più cammino che dottrina: “Il buddismo, che è una religione, una teologia, una mitologia, una tradizione pittorica e letteraria, una metafisica o meglio un insieme di sistemi metafisici, è in principio una disciplina volta alla salvezza” (in Cos’è il buddismo, trad.it, Newton Compton 1995). Mirare alla salvezza significa per l’uomo essere responsabile del destino suo e anche di tutto ciò che esiste, dall’infinitamente piccolo ai più lontani universi. 3 Questa nozione di responsabilità universale ha molti punti di contatto con la scienza più avanzata: basti pensare al cosiddetto “effetto farfalla”, che nella teoria del caos descrive le conseguenze enormi e incalcolabili di gesti anche minuscoli. L’“effetto farfalla” ha da sempre affascinato anche gli scrittori: da Ray Bradbury – che ha coniato l’espressione – al nostro Carlo Emilio Gadda, il quale sia ne La Cognizione del dolore che nel Pasticciaccio brutto di Via Merulana ritorna più volte sulla nozione della responsabilità universale, sulla “simbiosi con l’universo”, sulla consapevolezza che “se una libellula vola a Tokio, innesca una catena di reazioni che raggiungono me”, e sulle infinite concatenazioni delle cause e degli effetti. Del resto Gadda era un appassionato studioso di Leibniz, e ne cita anche un passaggio sull’argomento: “niente succede qui che non abbia qualche connessione sottile con le cose che sono a cento mila leghe da qui”. Responsabilità significa quindi mettersi in ascolto e in contatto con l’universo, anzi con l’intelligenza che permea l’universo, che non è Dio né qualche sorta di Intelligent design superiore, ma un respiro vitale che permea tutto ciò che vive, dal cosmo al più infimo dei muschi. Accanto alla nozione di responsabilità, è quella di empatia a caratterizzare l’essenza del buddismo (e di altre discipline alla frontiera del futuro): l’empatia come nuovo indicatore del progresso umano, invece dei “risultati scientifici, competenza tecnologica, conquiste materiali”. A dirlo non è un lama buddista né un missionario, bensì Jeremy Rifkin, presidente della Foundation on Economic Trends a Washington, noto in Italia come autore de Il secolo Biotech, L’era dell’accesso e Il sogno europeo. Empatia, ribadisce Rifkin, “non solo verso i propri ‘cuccioli’ o verso coloro che appartengono alla stessa famiglia, tribù o religione, ma un’empatia estesa a tutte le creature, umane e non”. Sul tema dell’empatia si sta confrontando anche una parte della ricerca filosofica attuale, alla convergenza tra teorie, principi etici e pratiche sociali e politiche. In questa direzione si pone anche un bel libro collettivo curato dalla filosofa Francesca Brezzi, Amore ed empatia. Ricerche in corso, Edizioni Franco Angeli, 2003. Il tema filosofico dell’empatia, nell’impostazione scelta dalle autrici, non si limita ad essere un’occasione di messa a punto terminologica e speculativa, ma apre con forza un solco di pensiero e di azione che prevede una pratica, ossia un’azione significativa. Il punto di partenza è il riconoscimento di una situazione diffusa di “vita anestetizzata”, caratterizzata “dall’indifferenza verso il mondo dell’altro”. “L’urgenza oggi di evitare la cancellazione dell’altro” diventa quindi l’urgenza stessa di eliminare la radice di ogni forma di violenza, di sopraffazione, di conflitto. La nozione di “empatia” da cui partono le autrici è quella proposta dalla filosofa Edith Stein, per la quale l’empatia si pone al di là della semplice “immedesimazione” per diventare “il fondamento di tutti gli atti con cui viene colta la vita psichica altrui, ciò che consente al soggetto di comprendere la gioia e il dolore dell’altro come esperienza vissuta che a quello lo lega”. Vale la pena di ricordare che Edith Stein, ebrea di nascita e cattolica per scelta, è morta nel lager nazista di Auschwitz nel 1942: la sua è dunque non solo una filosofia ma una testimonianza. Nell’elaborare l’impostazione di Edith Stein, le autrici sottolineano come l’empatia è insieme un sapere e un comportamento, ossia una pratica. Abbiamo trovato in queste ricerche alcuni punti di assonanza con l’approccio definito dal maestro giapponese Daisaku Ikeda come “umanesimo buddista”: l’idea della pratica come “esperienza trasformatrice” è uno dei fondamenti anche dell’approccio buddista proposto da Ikeda, che nel volume Il mondo del Gosho ma anche in altri testi parla appunto di “umanesimo pratico” e di “pratica della rivoluzione umana”. Tale pratica 4 parte dal punto fondamentale dell’accoglienza dell’altro, che in termini buddisti significa il riconoscimento della buddhità di tutti gli esseri viventi attraverso la compassione , nozione che ha molti punti di contatto con l’empatia. Ikeda sottolinea che “la profonda empatia di Daishonin con il dolore delle persone non è mero sentimentalismo o semplice solidarietà, (…) è la missione stessa del Budda”. Ci si potrebbe spingere ancora più in là, e dire che i veri buddha dell’oggi sono i “bodhisattva della terra”, gli uomini e le donne qualsiasi che cercano di compiere un arduo cammino dall’“oscurità fondamentale” alla “pura terra del Buddha”, per il beneficio proprio ed altrui. Forse, per riprendere una bella frase di Montale, oggi “non si nasconde fuori dal mondo chi lo salva e non lo sa: è uno come noi, non dei migliori”.