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GLI ULTIMI GIORNI
Uno straordinario film-documentario che racconta senza retorica e con la distanza del tempo e della vita che ha sconfitto
la morte, “gli ultimi giorni” del nazismo.
“La nostra principale priorità é stata l’integrità storica. Anche se nella realizzazione di documentari é prassi comune
sfruttare delle immagini rappresentative al posto di quelle autentiche ma irreperibili, noi eravamo decisi ad utilizzare
solo immagini di repertorio e fotografie autentiche”. A parlare é James Moll, regista de “Gli ultimi giorni”,
“La storia doveva essere raccontata dalla viva voce dei testimoni oculari che descrivono gli eventi avvenuti, prima,
durante e dopo la guerra”. Con Steven Spielberg come produttore esecutivo, il film ha assunto fin dal principio una sua
fisionomia ben precisa; girato su una pellicola da 35mm, in cinque paesi diversi (Ungheria, Germania, Polonia, Ucraina,
Stati Uniti) e con un budget limitato. Per tutti si é trattato di una sfida importante, di un tributo dovuto alla storia e alla
memoria.
OSCAR 1999 - MIGLIOR FILM DOCUMENTARIO
Titolo originale: THE LAST DAYS
Regia: James Moll
Musiche: Hans Zimmer
Fotografia: Harris Done
Produzione: June Beallor, Ken Lipper
Produttore esecutivo: Steven Spielberg
Distribuzione: Mikado
Durata: 1h 22'
Testimonianze di:
Bill Basch (sopravvissuto all'Olocausto)
Martin Basch (figlio)
Randolph Braham (storico, sopravvissuto)
Alice Lok Cahana (sopravvissuta)
Michael Cahana (figlio)
Warren Dunn (esercito americano a Dachau)
Bernard Firestone (marito)
Renee Firestone (sopravvissuta all'Olocausto)
Dario Gabbai (sonderkommando a Birkenau)
Tom Lantos (sopravvissuto all'Olocausto)
Katsugo Miho (esercito americano a Dachau)
Hans Münch (medico nazista ad Auschwitz)
Paul Parks (esercito americano a Dachau)
Irene Zisblatt (sopravvissuta all'Olocausto)
Robin Zisblatt (figlia)
Questo film documentario sulla Shoah è stato presentato e supervisionato da Steven Spielberg, fondatore della
Survivors of the Shoah Visual History Foundation, associazione di sopravvissuti ai campi di concentramento che si
prefiggono di far conoscere, in particolare ai giovani, quella parte della storia umana che molti vorrebbero rinnegare.
Nelle varie interviste abbiamo sentito spesso il regista americano ripetere la frase "per non dime nticare": è anche su
queste basi che abbiamo costruito il nostro presente, su un passato che a molti ha precluso un futuro.
L'opera, diretta da James Moll, è basata sulla testimonianza di cinque sopravvissuti ungheresi al campo di
concentramento di Auschwitz
I racconti di queste persone sono supportati da immagini in bianco e nero che li rendono ancor più toccanti e reali agli
occhi dello spettatore.
La voce spezzata dalla commozione e dal dolore dei testimoni dell'olocausto, induce a interrogarsi sul motivo che ha
spinto i tedeschi, all'inizio del 1944, quando stavano per perdere la guerra contro gli Alleati, a dedicare così tante risorse
per loro essenziali alla "guerra contro gli ebrei".
Il film, dopo aver indagato sulla vita (se così la si può chiamare) all'interno del campo di sterminio, si preoccupa di
documentare il ritorno in Europa dei sopravvissuti, il rientro nei luoghi legati a ciascuna delle loro storie e le difficoltà
del tornare a far parte del mondo.
Vengono toccate questioni di moralità, religione e identità : "la grande maggioranza degli ebrei di Budapest era
composta da persone del tutto integrate nella società ungherese, profondamente legate alla patria ed enormemente
orgogliose delle proprie radici ungheresi" dice Tom, uno dei protagonisti.
Queste persone sono state profondamente cambiate, per tutto il tempo della loro prigionia, si sono sentite abbandonate
da Dio, hanno provato odio, desiderato giustizia e vendetta.
I pochi che hanno potuto assistere alla liberazione, quando le guardie persero il loro potere, esercitarono una vendetta
violenta contro i loro oppressori, era una reazione emotiva al contesto estremo in cui fu compiuta.
Alcuni rifiutarono la violenza e pensarono che ricostruire le proprie vite fosse una forma accettabile di vendetta.
I sopravvissuti alla Shoah uscirono dai campi con sensazioni di confusione, rabbia, depressione e senso di colpa ; per
molti ci sono voluti anni prima di essere reintegrati nella società, altri non sono mai riusciti a risentirsi a casa propria.
"La Shoah deve essere insegnata come un capitolo della lunga storia della disumanità dell'uomo verso l'uomo".
E' per questo motivo che, i reduci dai campi di concentramento, si impegnano nel raccontare le loro dolorose esperienze
nonostante le difficoltà psicologiche che il farlo comporta.
Il passato non muore, non deve morire, va meditato e rimeditato, vi si può riconoscere il futuro.
Registi, poeti, scrittori, dovrebbero sentirsi in dovere di aiutare i sopravvissuti a "non far dime nticare" attraverso la loro
arte .
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PROTAGONISTI: I TESTIMONI
Tom Lanton
Figlio unico di genitori ebrei benestanti, é nato in Ungheria, a Budapest, nel 1928. Tom aveva 16 anni nel marzo del
1944, quando i nazisti occuparono l’Ungheria. Insieme con altri giovani ebrei venne mandato a Szob per costruire un
ponte della linea ferroviaria Vienna-Budapest. Due volte tentò la fuga dal campo di lavoro: la prima volta fu ricatturato
e punito, la seconda volta riuscì a tornare a Budapest, grazie ai suoi colori "ariani" e ad una buona dose di astuzia. A
Budapest, travestito da cadetto, distribuiva medicinali e pagnotte di pane ai bisognosi, e contemporaneamente cercava
di avere notizie circa i suoi genitori. Scoprì che erano tutti morti. Tom riuscì però a rintracciare la sua amica d’infanzia
Annette, rifugiata in Svizzera. Nel gennaio del 1945, l’esercito russo liberò Budapest. Annette tornò dalla Svizzera e
seppe che suo padre, e tutti i suoi parenti -tranne uno- erano morti. Tom Lanton si trasferì nel 1946 negli Stati Uniti,
avendo vinto una borsa di studio. Tom é stato eletto deputato nel 1980 in California e recentemente riconfermato per la
decima volta. Lui e Annette sono genitori di due figlie e hanno diciassette nipoti.
Alice Lok Cahana
Alice Lok Cahana ha passato molti anni della sua vita a cercare la sorella Edith, persa di vista durante il periodo
convulso della Liberazione, nella primavera del 1945. Nata a Budapest nel 1929, quando i tedeschi occuparono
l’Ungheria fu condotta ad Auschwitz insieme con la famiglia e i parenti. Lei e sua sorella Edith vennero separate al
momento dell’arrivo, ma riuscirono a riunirsi più tardi. Alice scampò miracolosamente alla morte in più di
un’occasione: una volta fu condotta con decine di altre ragazze in una grossa stanza buia. Erano i forni crematori, come
lei scoprì più tardi, che in quell’unica occasione non funzionarono. Poco tempo dopo, le sorelle vennero mandate ad un
campo di lavoro a Guben, e da lì costrette ad una delle tante marce della morte, verso il campo di concentramento di
Berger-Belsen. Durante la marcia riuscirono a fuggire per pochi giorni, nascondendosi sotto cumuli di fieno, ma presto
vennero ritrovate. Arrivarono a Berger-Belsen, che Alice descrive nel modo seguente: "L’Inferno sulla Terra. La gente
implorava cibo ed acqua. C’erano cadaveri ovunque". Al momento della liberazione, Edith era talmente malata che fu
trasferita nell’ospedale della Croce Rossa. Quella fu l’ultima volta che Alice la vide. Dopo infinite ricerche, Alice ha
recentemente scoperto che la sorella é morta in quell’ospedale. In sua memoria, ha permesso ai realizzatori del
documentario di assistere alla speciale preghiera che lei, suo marito, figli e nipoti hanno recitato sulla tomba di Edith a
Berger-Belsen.
Reneé Firestone
Reneé Firestone é oggi un’insegnante che lavora per il Programma educativo a distanza del Simon Wiesenthal Center e
per la stessa Shoah Foundation. Organizza incontri con le scuole per raccontare l’agghiacciante esperienza
dell’Olocausto. Reneé é nata a Uzhorod ed é cresciuta in un confortevole ambiente borghese. Nel 1944 l’intera famiglia
Firestone fu pigiata dai gendarmi ungheresi dentro un carro bestiame che trasportava 120 persone con un’unica apertura
per l’aria e un secchio come gabinetto. Destinazione Auschwitz. Il cibo, ricorda Reneé, era piuttosto scarso: per averne
di più bisognava piazzarsi nelle prime file, ma erano anche le file tra le quali il dottor Mengele sceglieva gli ebrei
destinati ai forni crematori. Per non essere selekted Reneé ricorda che era meglio mettersi in fila la mattina per ottenere
abbastanza cibo per tutto il giorno mentre la sera conveniva tenersi nelle ultime file. Klara, la sorella di Reneé, morì di
stenti dopo poco, mentre a lei toccò una marcia forzata per andare a lavorare in una fabbrica. Fu liberata dai sovietici.
Tornò a Budapest dove ritrovò il padre e il fratello, ancora vivi. Nel 1948 Reneé si trasferì negli Stati Uniti con il marito
e la figlia Klara.
Bill Basch
A 15 anni Bill Basch venne destinato ad un campo di lavoro. Poteva dormire a casa e sfruttò questo privilegio per
attività clandestine a favore degli ebrei polacchi rinchiusi nei campi di sterminio. Nel 1944 venne però catturato e
spedito a Buchenwald. Di quel posto ricorda l’orrore e l’umiliazione, il lavoro duro e incessante, i continui massacri.
Mentre gli Alleati si avvicinavano a Buchenwald, i nazisti costrinsero i prigionieri ad una marcia forzata che li portò
allo stremo delle forze. Un suo amico ferito venne ucciso, mentre Bill resistette quanto poté e fu infine liberato. Dopo si
trasferì a Los Angeles, dove fece carriera nell’industria della moda.
Irene Zisblatt
Irene Zisblatt nacque nel 1930 a Polena, allora Cecoslovacchia. Quando la sua cittadina venne annessa all’Ungheria,
Irene e la sua famiglia furono rinchiusi nel ghetto di Munkacs, dove c’era scarsità di cibo. Un giorno li caricarono su un
treno per portarli, così dissero, al campo di lavoro di Tokoy. Dopo giorni di durissimo viaggio, senza acqua né cibo, si
ritrovarono ad Auschwitz. Irene, a causa della sua pelle liscia, venne scelta per esperimenti medici: la infettarono con un
virus, provando a cambiarle colore degli occhi; le iniettarono sciroppi sotto le unghie; solo l’insperato aiuto di
un’infermiera le evitò la morte. Anche Irene fu costretta, insieme ad un’ amica, Sapka, ad una marcia della morte,
destinazione Berger-Belsen. Partirono in 5000: quando giunsero nella Repubblica Ceca erano 200 persone. Irene e
Sapka capirono che per loro si avvicinava la fine, e scapparono nei boschi. Due soldati le intercettarono: ma erano
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americani, rappresentavano la salvezza. Sapka morì la notte stessa, Irene dovette attendere due anni di pratiche
burocratiche prima di raggiungere uno zio a New York.
SURVIVORS OF THE SHOA
VISUAL HISTORY FOUNDATION
Voluta da Steven Spielberg, fondata insieme con James Moll e June Beallor nel 1994, la Shoah Foundation rappresenta
un prezioso archivio storico degli eventi dell’Olocausto: la missione della “Survivors of the Shoah Visual History
Foundation” é registrare e conservare le testimonianze oculari dei sopravissuti all’Olocausto, in modo da permettere alle
generazioni future di imparare qualcosa dagli errori e dagli orrori commessi in quel devastante periodo della nostra
storia. Le pubblicazioni, i cd-rom e i filmati interattivi prodotti dalla Fondazione in anni di lavoro e con l’appoggio di
quattromila volontari sono un’iniziativa anticonvenzionale per stimolare soprattutto i giovani nel ricordo della tragedia
del popolo ebraico. I fatti sono raccontati quasi sempre in prima persona dagli stessi protagonisti. L’archivio viene
utilizzato come strumento di istruzione globale sull’Olocausto e come mezzo per diffondere la tolleranza razziale,
religiosa, etnica e culturale. Fino ad oggi, sono state raccolte più di 50.000 interviste filmate, che sono state registrate in
cinquantuno paesi diversi, in trentuno lingue differenti. Il materiale raccolto sarà messo a disposizione di almeno cinque
musei, dallo Yad Vashem di Israele a quello dell’Olocausto a Washington, con un’attenzione particolare a tutte le
istituzioni in memoria del genocidio con sede a Berlino e Bonn. “Gli Ultimi giorni” é il terzo documentario presentato
dalla Shoah Foundation. Presidente di fresca nomina della Shoah Foundation é il dottor Michael Berenbaum, che ha
suggerito di prendere in esame la storia della shoah ungherese.
GLI ULTIMI GIORNI
ECHI DALL’INNOMINABILE
(Jonny Costantin – www.olokaustos.it)
L'uomo è indistruttibile,
e ciò significa che non c'è limite
alla distruzione dell'uomo.
(Maurice Blanchot)
Cosa significa essere ebreo? Perché tale condizione?
Blanchot appronta una triplice risposta: "Esiste perché esiste l'idea di Esodo e l'idea di esilio come giusto movimento;
esiste perché attraverso l'esilio e per l'iniziativa rappresentata dall'esodo, l'esperienza dell'estraneità si affermi tra noi in
un rapporto irriducibile; esiste perché, grazie all'autorità di questa esperienza, impariamo a parlare". Necessità
quest'ultima che, dopo il Disastro, è divenuta imperiosa.
Imparare a parlare, con gli occhi puntati contro l'orrore. Impresa necessaria quanto più votata al fallimento: la
distruzione dell'uomo è intraducibile. Nella fabbricazione su larga scala di morti, l'orrore smette di essere una risonanza
individuale e diviene verità collettiva. I sommersi vivono nella coscienza del salvati, attraverso i quali giunge l'eco del
loro strazio.
Parlare come se si emettesse un grido compatto e afono, costringendo l'immaginazione di chi ascolta, e non ha vissuto, a
indugiare sull'orrore, perdendosi in esso, per interiorizzarne il raccapriccio e, solo dopo, capire.
La comprensione è relativa. Infinite domande e infinite risposte emergono, parziali o acutamente pretestuose come
quella di Blanchot, ma il loro contenuto di verità rimane lettera morta se, assieme alla radiografia della catastrofe, una
parola, un gesto, un'immagine, un singulto non mostri il punto fino a cui la vita può essere negata, la soglia oltre la
quale l'uomo non è più uomo.
Imparare dal brivido trasmesso da opere come Gli ultimi giorni di James Moll (1999), primo documentario della
Survivors of Shoah Visual History Foundation, con Steven Spielberg nelle vesti di produttore esecutivo.
Nel 1944, a conflitto perduto, la Germania si accanì con furia inaudita nell'annichilimento degli ebrei, iniziando lo
sterminio della più grande popolazione ebraica rimasta in Europa, quella ungherese. Il concentramento, la
ghettizzazione e la deportazione avvennero nell'arco di dodici settimane. In nessun'altra nazione come in Ungheria il
tutto si consumò con tale rapidità e ferocia.
Il documentario è incentrato sulle testimonianze di cinque ebrei ungheresi: Tom Lantos (fuggito da un campo di lavoro
sul Danubio e sopravvissuto braccato a Budapest, fino al termine della guerra), Irene Zisblatt (internata ad Auschwitz),
Renée Firestone (Auschwitz), Alice Lok Cahana (Auschwitz), Bill Basch (Dachau).
Le testimonianze sono scandite dal punto di vista di uno storico, dai racconti dei veterani dell'esercito americano e dai
resoconti del dottor Hans Münch (ex medico nazista ad Auschwitz) e di Dario Gabbai (ex componente del
Sonderkommando ad Auschwitz II, Birkenau).
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Il viaggio nel passato dei testimoni – anche fisico, nei campi di annientamento a riposo – è interpuntato da foto su cui è
impresso il fulgore della loro gioventù e dai filmati, alcuni inediti, delle marce verso i convogli ("Fu come quando gli
ebrei fuggirono dall'Egitto", commenta Alice Lok Cahana), delle cataste umane e delle fosse, dei corpi inceneriti e delle
ossa, delle esecuzioni e delle mutilazioni a Dachau, Berger-Belsen, Auschwitz, Buchenwald, Ohrdruf, Majdanek,
Nordhausen, Mauthausen.
Affiorano nella memoria le immagini di Notte e nebbia, il mediometraggio del 1956 in cui Alain Resnais alternava le
sequenze d'archivio alle riprese a colori dei luoghi del massacro al presente, al suono delle parole di Jean Cayrol, poeta
e saggista, sopravvissuto a Mauthausen.
Tra le tante degli Ultimi giorni, un'immagine in particolare scalfisce la sensibilità di chi osserva. Un adolescente, si
presume dai tratti esangui, nudo e scheletrito, rivolge smarrito lo sguardo in macchina, mentre un nazista in borghese,
sorridente e ben vestito, con aria paciosa e tronfia, afferratolo per un braccio, lo sospinge contro la cinepresa per
esibirlo. Sul primo piano del giovane, dissolvenza in nero, sigillo di una disperazione storica che sancisce l'impossibilità
di comunicazione tra la vittima subumanizzata e l'aguzzino (grottescamente, brutalmente, ciecamente) superuomo,
rendendo tangibile il baratro in cui il linguaggio, con la Storia e la Ragione, si è inabissato.
In misura e modalità differenti, l'impasse si ripropone nel confronto tra Renée Firestone e il dottor Münch, al quale
sottopone un documento che attesta che la sorella, morta nell'istituto da lui diretto, fu usata per esperimenti col sangue.
Renée insiste per sapere cosa voglia dire lo zero accanto al nome di Klara, ma il dottor Münch ripete evasivamente: "È
tutto a posto", ricordando all'ex prigioniera la normalità con cui morivano le persone ad Auschwitz.
È percepibile a fior di pelle quella che Agamben definisce mancata articolazione tra vivente e logos. La voce off di
Renée commenta come le sia stato impossibile non arrabbiarsi innanzi al dottore, nella clinica del quale erano morte
migliaia di persone. Münch dice di essere stato assolto per aver salvato delle donne dalla camera a gas utilizzandole per
test innocui. Quello che disturba maggiormente nelle sue parole, non è tanto il riverbero delle atrocità che sono state
commesse sotto la sua egida, quanto piuttosto il tono distaccato e glaciale con cui afferma: "Per coloro che volevano
fare esperimenti sul corpo umano, questo era il posto di lavoro ideale. Ad Auschwitz si fecero molti esperimenti…".
IL PERIODO STORICO
LA SOLUZIONE FINALE
(Marco Blasetti)
Berlino insegue sino all’ultimo un disegno folle e delirante concepito all’inizio del conflitto per volere di Hitler.
L’eliminazione fisica degli Ebrei all’inizio del conflitto per volere di Hitler. L’eliminazione fisica degli Ebrei dalla
futura Europa nazista costituiva obiettivo prioritario. Bisognava prima però isolarli, concentrandoli in un luogo
facilmente controllabile. E vengono fuori in proposito, nei primi mesi di guerra, due differenti piani. Il primo, detto
“Reserwat”, prevedeva la creazione di un grande campo di concentramento nel General Gouvernment, come venivano
chiamate quelle regioni della Polonia occupate dai Tedeschi nel ‘39 ma non ufficialmente annesse al Reich. Sulle prime
la via sembra quella giusta, poi però considerazioni di ordine pratico (territorio troppo ristretto rispetto all’alto numero
di internati, difficoltà di trasporto, ecc.) inducono a cambiare rotta. Intanto però, gli ebrei vengono concentrati nei ghetti
soprattutto polacchi. L’ipotesi successivamente studiata per perpetrare lo sterminio prende il nome di “Madagascar”,
dall’isola africana sulla quale il Fuhrer intendeva deportare la popolazione ebraica. Siamo nel ‘40, il conflitto sembra
indirizzato verso la vittoria della Germania; la diplomazia tedesca vuole far passare agli occhi dell’opinione pubblica
mondiale il piano come il mezzo più rapido per la creazione di una sorta di stato ebraico. In realtà, si trattava di un
enorme campo di concentramento nel quale spazzare via dalla faccia della terra l’odiata genìa. Il criminale disegno é
giocoforza abbandonato quando l’isola viene occupata dagli Alleati. Per “risolvere il problema ebraico” si sperimenta
anche la sterilizzazione di massa, solo parzialmente praticata, che avrebbe dovuto portare ai risultati voluti nell’arco di
una generazione. La svolta decisiva nella direzione della “soluzione finale”, cioé dello sterminio fisico di un intero
popolo, viene però con lo scoppio del conflitto tedesco-sovietico. Massacri sistematici accompagnano l’avanzata della
Wehrmacht in territorio nemico (34.000 ebrei fucilati a Kiev in due giorni), ma il genocidio vero e proprio si svolge nei
campi di concentramento e di sterminio. Dachau, il primo Lager nazista, nasce soli due mesi dopo la presa del potere di
Hitler, nel ‘33. Dal ‘40 é operativo Auschwitz. Poi, la strage continua ininterrotta, progressiva, inesorabile. Qualche
dato per avere un’idea della sistematicità dell’impegno nazista: soltanto nel campo di Treblinka, in Polonia, nel 1942
vengono eliminate 66.701 persone in luglio, 142.523 in agosto e 54.069 a settembre. Ecco come un funzionario nazista
spiega come sistemare gli undici milioni di ebrei: “Tutta l’Europa deve essere pettinata da ovest ad est”. Due gli
obiettivi per cui nascono Sobibor, Maidanek e tanti altri luoghi di morte: sfruttare gli ebrei come forza lavoro a sostegno
dello sforzo bellico e al tempo stesso sterminarli gradualmente. Il risultato finale é stato l’annientamento di sei milioni
di bambini, donne e uomini di fede e d’origine ebraica.
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