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ISTITUTO DI RICERCHE SULLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
RAPPORTO 1/2013
LA PARITÁ DI GENERE
NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
1
Maggio 2013
Rapporto IRPA 1/2013
LA PARITÁ DI GENERE
NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Mariangela Benedetti, Giulia Bertezzolo, Hilde Caroli Casavola, Maurizia De Bellis,
Elisabetta Morlino, Silvia Pellizzari1
INDICE
1. Introduzione
2. Normativa e politiche europee
2.1. Norme primarie e principali atti politici
2.2. Le politiche comunitarie introdotte da norme secondarie
2.2.1. L’accesso al lavoro
2.2.2. Le condizioni di lavoro e la retribuzione
2.2.3. Le azioni positive
2.2.4. La tutela della maternità
2.2.5. Il congedo parentale
2.2.6. Il part-time
2.3. Gli interventi di soft law in materia di parità di genere
3. L’Italia
3.1. I dati
3.1.1. La parità di genere nel mercato del lavoro
3.1.2. La parità di genere nelle pubbliche amministrazioni
3.1.3. La formazione
3.1.4. Il differenziale retributivo
3.1.5. Il part-time
3.2. Il contesto normativo
3.2.1. Le norme a tutela delle lavoratrici
3.2.2. Le norme “di promozione” della parità di genere
3.3. Gli strumenti organizzativi
1
I parr. 2. e 4. sono stati scritti da Giulia Bertezzolo. Il par. 3.1. da Maurizia De Bellis. I parr. 3.2. e 3.3.
da Mariangela Benedetti. I parr. 5. e 9. da Silvia Pellizzari. Il par. 6. da Elisabetta Morlino. I parr. 7. e 8.
da Hilde Caroli Casavola. Il lavoro è stato coordinato da Elisabetta Morlino, che ha elaborato anche i
parr. 1. e 10. sulla base di una riflessione comune.
2
4. Le istituzioni europee
4.1. La presenza femminile e le condizioni lavorative delle donne
4.1.1. La Commissione
4.1.2. Il Consiglio e il Parlamento
4.2. Gli strumenti per favorire l'impiego femminile
4.2.1. La Commissione
4.2.2. Il Consiglio e il Parlamento
5. Il Regno Unito
5.1. I dati
5.2. I soggetti istituzionali, la legislazione, le azioni positive
6. La Francia
6.1. Lo status quo alla base e ai vertici
6.2. L’evoluzione della ‘specie’ normativa: dalle quote (per gli uomini) alle quote (per
tutti)
6.2.1. Gli obblighi di accountability inter-istituzionale
6.2.2. Le quote
6.2.3. Il congedo parentale
7. La Danimarca
7.1. I dati
7.2. Le politiche
8. La Germania
8.1. I dati
8.2. Le politiche
9. La Svezia
9.1. I dati
9.2. I soggetti istituzionali, la legislazione, le azioni positive
10. I problemi, i motivi, le proposte
10.1. I problemi comuni
10.2. Le cause comuni
10.3. Le proposte per l’Italia
3
1. Introduzione
Il tema della parità di genere nelle pubbliche amministrazioni non compare
spesso nel dibattito pubblico ed è diffusa l’idea che nelle pubbliche amministrazioni, a
differenza che nel settore privato, il divario tra donne e uomini sia pienamente colmato.
Ma è proprio così? Quante sono le donne nella pubblica amministrazione italiana? Che
ruoli ricoprono? In quali settori sono impiegate? Guadagnano come i loro colleghi
uomini? In generale, nel settore pubblico può dirsi raggiunta la parità di genere?
Il presente Rapporto si propone di valutare in concreto quale sia la posizione
delle donne nel settore pubblico in Italia; di individuare i principali problemi e le
eventuali disparità basate sul genere; e di proporre soluzioni, tenendo conto anche
dell’impatto finanziario delle stesse sulle amministrazioni.
A questo fine si analizzano, anzitutto, i dati, la normativa e le prassi relativi alla
presenza e alle condizioni di lavoro delle donne nelle pubbliche amministrazioni italiane
nel contesto delle direttive europee. In particolare, le percentuali complessive di
presenza femminile nell’impiego pubblico, la distribuzione tra posizioni di base e di
vertice, la ripartizione per settori, il differenziale retributivo, l’uso di strumenti di
conciliazione, l’adozione di provvedimenti legislativi e azioni amministrative sulla
parità nella pubblica amministrazione sono assunti come misure quantitative e
qualitative per l’analisi e la valutazione.
Il confronto –sulla base di queste stesse misure- con le istituzioni comunitarie e
con le amministrazioni di altri Paesi europei viene, poi, utilizzato per individuare, ove
presenti, tendenze comuni ai vari ordinamenti, sia in termini di problemi che di
soluzioni adottate.
Si formulano, infine, alcune proposte di riforma per l’Italia, anche sulla base
delle esperienze straniere che si siano rivelate efficaci.
2. Normativa e politiche europee
2.1. Norme primarie e principali atti politici
Il tema della parità di trattamento tra donne e uomini ha fatto parte delle
politiche comunitarie fin dalle origini dell’Unione europea. L’obbligo di pari
retribuzione tra donne e uomini compariva già nel Trattato di Roma (1957). Le
principali disposizioni che si occupano della parità di genere sono ora contenute negli
articoli 153 (ex art. 118) e 157 (ex art. 119) del TFUE. Essi dispongono che, salvo
eventuali diversità dovute a oggettive differenze nella natura del lavoro, a parità di
lavoro gli Stati membri devono assicurare la parità di retribuzione tra donna e uomo e
4
che, a tal fine, gli Stati membri possano intraprendere azioni positive a favore del sesso
sottorappresentato. L’Unione europea deve sostenere e completare l’azione degli Stati
membri nella promozione delle pari opportunità e delle condizioni di lavoro. La Carta
dei diritti fondamentali (2001) chiude il quadro delle norme primarie dedicate alla tutela
della parità di genere in materia di lavoro, vietando qualsiasi discriminazione fondata
sul sesso e disponendo che «la parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i
campi, compreso in materia di occupazione, lavoro e retribuzione» (art. 23).
Le norme primarie individuano, così, le tre macro aree d’intervento del diritto
comunitario: non discriminazione, azioni positive e inclusione delle problematiche di
genere in tutte le politiche comunitarie (gender mainstreaming).
I principi posti dal Trattato sono stati attuati con le direttive in materia di parità
di retribuzione (1975/117/CEE), parità di trattamento (1976/207/CEE) e sicurezza
sociale (1979/7/CE), emanate negli anni '70 e con quelle relative a maternità
(1992/85/CE), congedo parentale (1996/34/CE) e part-time (1997/81/CE), adottate negli
anni '90.
Un ruolo importante nella materia hanno avuto e hanno, però, anche diversi atti
di impulso politico e un vasto numero di documenti non vincolanti. Essi coprono tutte le
aree di legislazione primaria ma vanno anche oltre2.
Tra tali atti un ruolo rilevante hanno avuto, di recente, i Consigli europei di
Lisbona (2000) (Strategia di Lisbona) e Barcellona (2002), i quali hanno per la prima
volta stabilito degli obiettivi d’impiego (60% per le donne e 70% per gli uomini entro il
2010)3.
La Strategia Europa 20204 ha sostituito tali obiettivi con quello di dare
occupazione al 75% di donne e di uomini5. Nel Consiglio europeo di Bruxelles del
marzo 2011, poi, è stato adottato il New European Pact for equality between women
and men for the period 2011 – 2020, il quale esorta gli Stati membri e l’Unione europea
ad adottare misure per il superamento degli stereotipi e le disuguaglianze retributive,
nonché per la promozione della partecipazione delle donne al processo decisionale 6. Il
Patto invita, inoltre, a migliorare la fornitura di servizi per l’infanzia e a promuovere la
creazione di soluzioni di lavoro flessibili.
A partire dal 1995 l’Unione europea è, infine, impegnata nel sovraintendere
all’applicazione da parte degli Stati membri della Dichiarazione e Piattaforma di
Pechino per l’uguaglianza, lo sviluppo e la pace7. A tal fine, dal 1999 sono stati
elaborati a livello europeo degli indicatori sulla base dei quali gli organi dell’Unione
2
Tra i più importanti vi sono Commissione europea, Comunicazione della Commissione al Parlamento
europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni. Combattere
il divario di retribuzione tra donne e uomini, COM(2007)424def., 18 luglio 2007; Id., Comunicazione
della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al
Comitato delle regioni. Un miglior equilibrio tra lavoro e vita privata: sostenere maggiormente gli sforzi
tesi a conciliare la vita professionale, privata e familiare, COM(2008)635 def, 3 ottobre 2008.
3
Conclusioni del Consiglio europeo di Lisbona, 23-24 marzo 2000.
4
Commissione europea, Comunicazione della Commissione. Europa 2010. Una strategia per una
crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, COM(2010)2020, 3 marzo 2010.
5
Consiglio europeo, Conclusioni, Bruxelles, 17 giugno 2010.
6
Id., Council Conclusions on the European Pact for gender equality for the period 2011 – 2020, 17
marzo 2011.
7
European Institute for Gender Equality, Reconciliation of work and family life as a condition of equal
participation in the labour market, 2001.
5
europea valutano il progresso compiuto dagli Stati membri in temi come l’equo utilizzo
del congedo parentale da parte di donne e uomini, il tipo di servizi all’infanzia offerti
oppure le politiche adottate per promuovere la riconciliazione tra famiglia e lavoro.
2.2. Le politiche comunitarie introdotte da norme secondarie
2.2.1. L’accesso al lavoro
Le principali norme che disciplinano l’accesso al lavoro sono ora contenute nella
direttiva n. 2006/54/CE. Essa stabilisce, innanzitutto, che le opportunità di accesso al
lavoro per donne e uomini devono essere le stesse, a qualsiasi livello della gerarchia.
Sia la fase di selezione che le condizioni di assunzione devono essere quindi immuni da
qualsiasi forma di discriminazione.
2.2.2. Le condizioni di lavoro e la retribuzione
Ai sensi della direttiva n. 2006/54/CE anche le condizioni di lavoro per donne e
uomini devono essere le stesse, inclusi il sistema di promozione, l’accesso alla
formazione professionale, la partecipazione ad associazioni di lavoratori e i presupposti
di licenziamento.
Tra le condizioni lavorative una posizione particolare riveste la retribuzione,
ovvero qualsiasi aspetto della stessa, corrisposto in modo diretto o indiretto dal datore di
lavoro in ragione del rapporto d’impiego. Vi rientrano, pertanto, non solo lo stipendio
ma anche tutti i vantaggi connessi, come gli assegni familiari e le indennità di malattia8.
La parità di retribuzione deve essere garantita, peraltro, non nella sua globalità
ma per ciascuna voce che la compone9. Qualsiasi aspetto della stessa deve quindi essere
uguale sia per lo svolgimento dello stesso lavoro, sia per lavori aventi valore
equivalente. Questo presuppone ovviamente che i lavori posti a confronto possiedano
elementi comparabili in concreto: dalla natura dell’attività svolta, alla formazione per
accedere a quel tipo di lavoro, alle condizioni in cui lo stesso si svolge.
Il divieto previsto dall’articolo 153 del TFUE si estende a tutte le forme di
disparità remunerativa, palesi o dissimulate che, pur in apparenza neutre, svantaggiano
in realtà un unico sesso10. È questo il caso delle pratiche salariali che penalizzano i
lavoratori part-time, categoria composta prevalentemente da donne. Tali pratiche sono
quindi vietate, salvo siano giustificabili in base a fattori obiettivi11.
2.2.3. Le azioni positive
La direttiva n. 2006/54/CE dispone che gli Stati membri possano adottare azioni
positive per garantire nella pratica la piena parità di trattamento sul lavoro.
8
Si vedano, ad esempio, Corte di giustizia dell’Unione europea, Rinner, 13 luglio 1989, C-171/88, Racc.
2743; Id., Kowalska, C-33/89, 27 giugno 1990, Racc. I-2591.
9
Id., Brunnhofer, C-381/99, 26 giugno 2001, Racc. I-4961.
10
Si veda, ad esempio, Id., Deutsche Telekom, C-50/96, 10 febbraio 2000, Racc. I-743.
11
Si veda, ad esempio, Id., Voβ, C-300/06, 6 dicembre 2007, Racc. I-10573.
6
La giurisprudenza è intervenuta tuttavia a più riprese per circoscrivere il potere
lasciato agli Stati membri di emanare norme volte a riequilibrare la posizione del sesso
discriminato nel mondo lavorativo.
La Corte ha, infatti, stabilito che il solo fatto che le donne siano
sottorappresentate non giustifica la presenza di disposizioni che diano loro automatica
precedenza nell’accesso a un lavoro oppure a una promozione12. Un’eventuale
precedenza può essere accordata unicamente a condizione che un esame obiettivo delle
candidature venga effettuato sulla base di tutti i criteri fissati. Quindi non può essere
data preferenza alle donne qualora l’esame di uno o più criteri facciano propendere per
il candidato maschile13.
Più in generale, la Corte ha precisato che i vantaggi attribuiti ad un unico sesso
sono contrari alle norme comunitarie se non prevedono che l’uomo che si trovi nella
stessa situazione non possa usufruirne14.
2.2.4. La tutela della maternità
Disposizioni particolari a tutela delle donne sono previste per il periodo di
maternità e per il rientro al lavoro. Obiettivo della direttiva n. 1992/85/CE è garantire la
buona salute della madre e del figlio sia prima della nascita, sia dopo il parto. Secondo
quanto previsto dalla direttiva, infatti, le gestanti devono, innanzitutto, essere dispensate
dallo svolgimento di lavori notturni o che le espongano a pericoli che potrebbero
danneggiare il nascituro, pur conservando il diritto al mantenimento della retribuzione
e/o al versamento di un’indennità adeguata. Al fine di evitare che il rischio di essere
licenziate per ragioni legate al loro stato possa avere effetti dannosi sullo stato fisico e
psicologico delle gestanti, queste ultime non possono inoltre essere licenziate se non per
giustificati motivi. Le donne incinte hanno poi diritto ad assentarsi dal lavoro per esami
prenatali, nonché a un congedo di maternità di almeno quattordici settimane ininterrotte
prima e dopo il parto, di cui almeno due obbligatorie. Al termine della maternità, la
donna deve poter riprendere il proprio lavoro o un lavoro equivalente e beneficiare di
eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che le sarebbero spettati durante la
sua assenza (direttiva n. 2006/54/CE).
Il diritto comunitario non dispone alcunché in materia di congedo di paternità.
La direttiva n. 2006/54/CE prevede, tuttavia, che qualora all’interno di un sistema tale
congedo sia previsto, lo Stato debba garantire al padre che rientra al lavoro gli stessi
diritti garantiti per il rientro dal congedo di maternità. La giurisprudenza comunitaria ha
poi esteso anche al padre che allatta il figlio artificialmente il permesso accordato alle
madri durante i primi nove mesi di vita15.
2.2.5. Il congedo parentale
Per agevolare i genitori a conciliare vita professionale e responsabilità familiare,
la direttiva n. 2010/18/UE ha previsto alcune norme in materia di congedo parentale.
Tale direttiva si propone, tra l’altro, di contribuire a un’equa ripartizione delle
12
Id., Kalanke, C-450/93, 17 ottobre 1995, Racc. I-3051.
Id., Badek, C-158/97, 28 marzo 2000, Racc. I-1875.
14
SI veda, ad esempio, Id., Griesmar, C-366/99, 29 novembre 2001, Racc. I-9383.
15
Id., Roca Alvarez, C-104/09, 30 settembre 2010, Racc. I-8661.
13
7
responsabilità familiari tra donne e uomini e, in particolare, di incentivare i padri ad
esercitare tale diritto. A questo fine, la direttiva prevede per ciascuno dei genitori un
congedo parentale di quattro mesi per la nascita o l’adozione di un figlio. Per far sì che
tale periodo venga usufruito anche dagli uomini, almeno uno dei quattro mesi non può
essere trasferito all’altro genitore e se non usufruito viene perso. Come per il congedo di
maternità il diritto comunitario prevede, inoltre, che colui che fa richiesta di congedo
venga tutelato contro il licenziamento, che gli sia garantito il livello retributivo
maturato, che possa ritornare nel proprio posto di lavoro o in uno analogo una volta
terminato il congedo e che qualsiasi violazione di tali diritti sia sanzionata. La stessa
direttiva prevede, infine, la possibilità per entrambi i genitori di assentarsi dal lavoro per
ragioni familiari urgenti connesse a malattie o infortuni (congedo familiare).
2.2.6. Il part-time
Chiude il quadro delle disposizioni vincolanti adottate dall’Unione europea la
direttiva n. 97/81/CE sul part-time, la quale si propone di promuovere le pari
opportunità attraverso un’organizzazione del lavoro, che favorisca la conciliazione degli
impegni lavorativi con le responsabilità familiari. Essa dispone che gli Stati membri
debbano rimuovere gli eventuali ostacoli all’utilizzo del part-time. Pur lasciando un
ampio margine di discrezionalità ai datori di lavoro quanto al numero di posti a tempo
parziale da mettere in organico, la direttiva impone che debba essere data adeguata
pubblicità ai posti di lavoro part-time che si rendono disponibili, che il datore debba
prendere in considerazione le richieste di trasferimento dal tempo pieno al tempo
parziale e viceversa e, altresì, che coloro che optano per tale forma di lavoro non
possano essere discriminati o licenziati.
2.3. Gli interventi di soft law in materia di parità di genere
L’utilizzo di strumenti di soft law ha permesso all’Unione di occuparsi di temi
che vanno oltre le proprie competenze specifiche e che non toccano direttamente il
lavoro ma aspetti sociali che incidono sulla presenza e la realizzazione delle donne nel
mondo lavorativo.
E' il caso dei servizi per l’infanzia e del principio dell'integrazione delle pari
opportunità in tutte le politiche comunitarie (gender mainstreaming).
Con la Raccomandazione del Consiglio sulla custodia dei bambini del 1992, il
Consiglio ha, per la prima volta, affrontato il problema dei servizi (come gli asili e le
scuole) resi dallo Stato o dai privati per sollevare la famiglia, e allo stato attuale
principalmente le donne, dalla cura dei bambini16. Si è stabilito, in particolare, che gli
Stati membri devono adottare misure per l’organizzazione di servizi di qualità ed
economicamente accessibili per la custodia dei bambini, devono prevedere congedi
speciali per permettere ai genitori di conciliare lavoro e impegni familiari e devono,
altresì, adoperarsi per creare un contesto che favorisca il lavoro di persone con figli e
una più equa ridistribuzione dei carichi familiari tra donne e uomini. Il settore pubblico,
16
Consiglio europeo, Raccomandazione del Consiglio, del 31 marzo 1992, sulla custodia dei bambini,
Racc. n. 92/241/CEE, GUCE L 123, 8 maggio 1992, p. 16.
8
sempre secondo la raccomandazione, dovrebbe proporre soluzioni che siano di esempio
per altre realtà.
L’impegno comunitario in tale settore è proseguito principalmente attraverso il
metodo aperto di coordinamento (Open Method of Coordination-OMC) e, in
particolare, a partire dal 1997, attraverso la Strategia europea per l’occupazione
(European Employment Strategy-EES). Quest’ultima contiene, infatti, tra i propri
obiettivi l’offerta di servizi all’infanzia, indicandola come strumento per facilitare la
riconciliazione tra vita privata e professionale.
La fornitura di servizi all’infanzia ha, tuttavia, perso in parte la propria
dimensione sociale con la revisione della strategia avvenuta nel contesto del Summit di
Barcellona del 2002, dove tali servizi sono divenuti un meccanismo volto a raggiungere
gli obiettivi di competitività stabiliti a Lisbona attraverso una maggiore partecipazione
delle donne al mondo del lavoro17. Il Consiglio europeo di Barcellona ha stabilito per la
prima volta degli obiettivi concreti da raggiungere in questo settore disponendo, in
particolare, che entro il 2010 gli Stati membri dovessero provvedere all’offerta di
servizi all’infanzia per almeno il 90% dei bambini compresi tra i 3 anni e l’età scolare e
al 33% dei bambini al di sotto dei 3 anni18.
Nell'ambito della strategia Europa 2020, che ha rivisto quelle di Lisbona e
Barcellona, le Linee guida integrate Europa 2020 hanno ribadito la necessità per gli
Stati membri di creare le condizioni per l’offerta di servizi all’infanzia accessibili e di
buona qualità per i bambini al di sotto dell’età scolare19. Non essendo stati raggiunti
dalla maggior parte degli Stati membri, il documento conferma gli obiettivi specifici
fissati al summit di Barcellona, che rappresentano tutt’ora l’obiettivo da realizzare20.
Il concetto di gender mainstreaming compare in diverse raccomandazioni,
comunicazioni e programmi non vincolanti, così come in diversi atti secondari di natura
vincolante21. Si riferisce alla necessità di inserire la prospettiva di genere in tutte le
politiche e i processi decisionali. Pur avendo una storia che risale agli anni ’80 in alcuni
Stati (es. Finlandia), esso compare a livello europeo nel 1995, quando l’Unione europea
ha chiesto venisse integrato nella Piattaforma di azione di Pechino delle Nazioni Unite.
Con una Comunicazione del 1996, l’Unione europea ha invitato gli attori
istituzionali a valutare, già in fase di programmazione di qualsiasi politica, le
conseguenze che la stessa può avere sulla condizione delle donne e degli uomini22. Ciò
ha comportato, a livello europeo, sia l’inserimento della dimensione di genere
17
J. Kantola, Gender and the European Union, Londra, Palgrave Macmillan, 2010, p. 123; E. Radulova,
The construction of EU’s childcare policy through the Open Method of Coordination, in S. Kröger (a
cura di), What we have learnt: advances, pitfalls and remaining questions in OMC research, European
Integration online Papers, 2009, Special Issue 1, Vol. 13, p. 12, disponibile all’indirizzo
http://eiop.or.at/eiop/texte/EIoP_2009_SpecIssue_1.pdf
18
Consiglio europeo, Conclusioni, Barcellona, 15-16 marzo 2002.
19
Id., Council Recommendation of 13 July 2010 on broad guidelines for the economic policies of the
Member States and of the Union, GUCE L 191 , 23 luglio 2010, p. 28; Id., Council Decision n.
2010/707/EU of 21 October 2010 on guidelines for the employment policies of the Member States, GUCE
L 308, 24 novembre 2010, p. 46.
20
Id., European Pact for gender equality for the period 2011 – 2020, 17 marzo 2011.
21
Si veda, ad esempio, l’art. 29 della direttiva n. 2006/54/CE.
22
Commissione europea, Comunicazione della Commissione, del 21 febbraio 1996. Integrare la parità di
opportunità tra le donne e gli uomini nel complesso delle politiche e azioni comunitarie, COM(96)67
def., 21 febbraio 1996.
9
nell’analisi d’impatto che precede l’adozione di tutte le misure legislative23, sia il
coordinamento degli attori che operano in settori diversi attraverso la creazione di
gruppi interservizi, riunioni di coordinamento e formazione24.
Come per i servizi all’infanzia, l’integrazione della dimensione di genere è
entrata poi a far parte della Strategia europea per l’occupazione (EES) a partire dal
1997 ma anche in questo caso la modifica apportata dalla Strategia di Barcellona (2002)
ha comportato un mutamento di prospettiva: da politica sociale, l’integrazione della
dimensione di genere è divenuta più uno strumento di crescita economica che di
giustizia sociale25. Negli stessi termini il gender mainstreaming compare anche nella
strategia Europa 2020.
Al fine di promuovere la cooperazione tra istituzioni europee e governi nazionali
per favorire l’inserimento della parità di genere nelle politiche nazionali e comunitarie,
a partire dal 2001 è stato costituito un Gruppo di alto livello sull’integrazione della
dimensione di genere in tutte le politiche. Il Gruppo ha il duplice ruolo favorire lo
scambio di best practices tra Stati membri e servire alle istituzioni comunitarie quale
piattaforma per la definizione delle politiche europee sotto il profilo della parità di
genere.
3. L’Italia
3.1. I dati
3.1.1. La parità di genere nel mercato del lavoro
In base all’Indice globale (Global gender gap index), elaborato dal World
Economic Forum, nel 2012 l’Italia si è collocata all’80° posto su 135 Paesi in
riferimento alla disparità di genere. Il punteggio ottenuto dall’Italia è stato di 0,673
(laddove 1 equivale alla parità di genere). Il Global gender gap index costituisce un
indicatore complesso, costruito sulla base di quattro parametri differenti: la
partecipazione e le opportunità in ambito economico; la rappresentanza politica (in
termini di cariche politiche ricoperte); l’istruzione; la salute (intesa come probabilità di
sopravvivenza). Se si escludono questi ultimi due parametri – che, nei Paesi ad
economia ad avanzata, costituiscono degli obiettivi già raggiunti – e si esaminano
esclusivamente i primi due, la situazione dell’Italia, dal punto di vista della parità di
genere, appare ancora peggiore: in relazione alla partecipazione economica, il nostro
Paese si colloca al 101° posto (con un punteggio di 0,591); quanto alla rappresentanza
politica, l’Italia è 71° (con un punteggio di 0,135).
23
Si veda, ad esempio, Id., Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al
Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni. Il futuro della strategia europea per
l’occupazione (SEO). Una strategia per il pieno impiego e posti di lavoro migliori per tutti, COM(2003)6
def., 14 gennaio 2003.
24
J. Kantola, Gender and the European Union, cit., pp. 129 e 136.
25
Ibid., pp. 141-142.
10
Grafico 1, Global gender gap index 2012 (Dettaglio dei sottoindici) (Fonte: World Economic Forum,
The Global Gender Gap Report, 2012)
Nell’UE, per la fascia di età tra i 20 e i 64 anni, nel 2011 lavorava il 62,3% delle
donne e il 75% degli uomini. In Italia, per la medesima fascia d’età il tasso di
occupazione femminile è del 49,9% e quello maschile del 72,6%. La percentuale
italiana, quindi, è più bassa di quella europea di più di 12 punti (Tabella 1). Nel corso
dell’ultimo decennio, in Italia il tasso di occupazione femminile è aumentato in modo
costante fino al 2008; dopo tale anno, invece, si osserva una flessione. Il tasso di
occupazione femminile del 2011, pari al 49,9%, è stato pari a quello del 2007 (Tabella
2).
Paese
UE
Italia
Totale
68,6
61,2
Uomini
75,0
72,6
Donne
62.3
49.9
Tabella 1, Tasso di occupazione per genere (Età 20-64), 2011. (Fonte: Eurostat, Employment Rates by
Sex, 2012)
11
Paese
UE
Italia
2002
58.1
44.9
2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009
58.7 59.4 60.0 61.1 62.1 62.8 62.3
45.6 48.3 48.4 49.6 49.9 50.6 49.7
2010
62.1
49.5
2011
62.3
49.9
Tabella 2, Tasso di occupazione femminile (Età 20-64), andamento decennale. (Fonte: Eurostat,
Employment Rates by Sex, 2012)
3.1.2. La parità di genere nelle pubbliche amministrazioni
Nel pubblico impiego vi è, in generale, una prevalenza di personale femminile:
55% del totale26. La tendenza è quella a un costante crescita della presenza femminile
nel corso del tempo, anche se in modo differenziato nei diversi settori.
In alcuni settori (Scuola e Servizio sanitario nazionale), l’occupazione femminile
è tradizionalmente predominate. Tale assetto tende, anzi, a consolidarsi: nel primo
settore, la percentuale di personale femminile è passata dal 77,3% al 78,8% negli ultimi
anni, e, continuando ad aumentare a tale ritmo, dovrebbe presto superare l’80% del
totale; nella Sanità, la percentuale di personale femminile è cresciuta, nel medesimo
periodo, dal 62,2% al 64,7%.
In un secondo gruppo di comparti (ministeri, Presidenza del Consiglio dei
Ministri, carriera prefettizia), il personale femminile ha superato da alcuni anni la metà
degli occupati e anche in questo caso, si tratta di un trend che tende a consolidarsi. In un
terzo gruppo (agenzie fiscali, enti di ricerca, università, magistratura) vi è stato un
incremento della presenza femminile, che si attesta su valori sempre più vicini alla
parità di genere (nel 2011, rispettivamente 49,6%, 43,8%, 46,5% e 43,3%).
Infine, tra i settori nei quali l’occupazione femminile è tradizionalmente molto
bassa, la presenza femminile rimane tuttora fortemente limitata (valori compresi tra il 5
e il 7%) per Vigili del fuoco, Corpi di polizia e Forze armate. Per quanto attiene la
carriera diplomatica, la percentuale di donne rimane limitata, ma si registra un aumento
in termini percentuali (di tre punti negli ultimi cinque anni, dal 15,3% al 18,3%).
TOTALE
PERSONALE
Presenza femminile: valori assoluti
2007
2008
2009
2010
2011
2007
2008
2009
2010
2011
SCUOLA
IST. FORM.NE
ART.CO MUS.LE
MINISTERI
PRESIDENZA
CONSIGLIO
MINISTRI
AGENZIE
FISCALI
AZIENDE
AUTONOME
VIGILI DEL
FUOCO
CORPI DI
POLIZIA
FORZE ARMATE
MAGISTRATURA
CARRIERA
DIPLOMATICA
CARRIERA
PREFETTIZIA
CARRIERA
879.268
3.316
876.439
3.633
836.313
3.537
817.730
3.709
799.828
3.683
77,3%
40,3%
77,6%
40,3%
77,8%
40,2%
78,4%
40,3%
78,8%
40,6%
93.764
1.371
94.367
1.243
92.777
1.198
90.748
1.296
87.859
1.254
50,9%
50,6%
51,5%
51,3%
51,7%
51,1%
52,0%
51,4%
52,4%
51,4%
26.703
26.520
26.456
26.411
27.014
48,0%
48,0%
48,6%
49,2%
49,6%
513
-
-
-
-
38,6%
-
-
-
-
1.898
1.906
1. 879
1.861
1.897
6,0%
6,0%
5,9%
5,9%
5,8%
21.027
21.543
22.186
22.498
23.267
6,3%
6,5%
6,7%
6,9%
7,2%
7.189
3.977
148
7.838
4.133
147
9.326
4.312
154
9.711
4.399
165
9.863
4.390
168
3,7%
38,7%
15,3%
4,1%
39,7%
15,7%
4,7%
41,1%
16,8%
5,0%
43,1%
18,2%
5,1%
43,3%
18,3%
750
741
737
740
739
49,7%
50,1%
52,1%
52,7%
54,5%
291
283
276
264
250
58,9%
59,8%
60,5%
61,1%
63,0%
26
Presenza femminile: valori percentuali
Dati della Ragioneria Generale dello Stato, Conto Annuale 2011.
12
PENITENZIARIA
ENTI PUBBLICI
NON ECONOMICI
ENTI DI RICERCA
UNIVERSITA'
SERVIZIO
SANITARIO
NAZIONALE
REGIONI ED
AUTONOMIE
LOCALI
REGIONI A
STATUTO
SPECIALE
AUTORITA'
INDIPENDENTI
ENTI ART.70COMMA 4 D.165/01
ENTI ART.60 COMMA 3D.165/01
Totale
Pubblico Impiego
31.821
30.880
30.093
29.464
28.683
54,3%
54,9%
55,8%
56,5%
57,0%
6.485
51.334
7.403
53.854
7.935
52.543
8.061
51.287
9.142
50.500
40,9%
44,0%
42,5%
44,9%
43,6%
45,3%
44,5%
46,2%
43,8%
46,5%
424.105
433.165
439.856
441.796
441.604
62,2%
62,8%
63,4%
64,2%
64,7%
250.887
258.751
260.469
261.479
256.731
48,6%
49,5%
50,1%
50,7%
51,1%
42.448
44.198
44.767
44.960
54.961
60,5%
60,9%
61,0%
61,5%
58,5%
714
756
787
821
853
51,9%
52,9%
52,8%
53,9%
53,4%
1.317
1.355
1.420
1.448
495
31,6%
32,3%
33,3%
35,2%
37,6%
3.226
51,9%
52,7%
52,9%
53,2%
33,4%
1.806.407
54,0%
54,5%
54,5%
54,9%
55,0%
2.358
2.585
2.670
2.670
1.851.684
1.871.740
1.839.691
1.821.518
Tabella 3, Presenza femminile nel personale della pubblica amministrazione. (Fonte: Elaborazione su
dati della Ragioneria dello Stato, Conto Annuale 2011)
Va poi segnalato che, sotto il profilo della distribuzione territoriale, la
percentuale femminile all’interno del personale è maggiore al Nord: 62,5% del totale,
più elevata di 14,5 punti percentuali rispetto a quella del Sud.
Nord
Centro
Sud
Italia
62,5%
53,5%
48,0%
55,6%
Tabella 4, Presenza femminile (valori percentuali) nella pubblica amministrazione per area geografica
– anno 2010 (Fonte: elaborazione della Confederazione Italiana di Unione delle Professioni Intellettuali
(CIU) su dati della Ragioneria dello Stato (Conto Annuale 2010), Libro Rosa ‘Donne Quadro,
Professionals: la contrattazione di genere e per fasce di età’)
a) I vertici
Mentre la percentuale femminile in relazione all’insieme del personale della
pubblica amministrazione è preponderante, ben diversa è la situazione nel caso dei
vertici della pubblica amministrazione. Di seguito, si esaminano i dati relativi alla
composizione della dirigenza all’interno della Presidenza del Consiglio, dei ministeri,
delle autorità indipendenti e delle agenzie, della carriera diplomatica a prefettizia,
nonché degli enti pubblici non economici, degli enti di ricerca e dell’università. Infine,
si dà conto della formazione dei dirigenti di sesso femminile e delle differenze di
retribuzione.
13
i. La Presidenza del Consiglio
Per quanto riguarda la Presidenza del Consiglio dei ministri, il 51,2% degli
incarichi di dirigenza generale sono ricoperti da donne; nel caso degli incarichi apicali,
la percentuale scende al 37%.
Dirigenti di II fascia
Dirigenti di I fascia
Uomini
Donne
Totale
96
80
101
47
197
127
Tabella 5, Dirigenza della Presidenza del Consiglio (Fonte: Elaborazione su dati della Ragioneria dello
Stato, Conto Annuale 2011)
ii. I ministeri
All’interno dei ministeri, la percentuale di occupazione femminile è inferiore
rispetto a quella che caratterizza la Presidenza del Consiglio: rispettivamente, del 42% e
del 30% per la dirigenza generale e apicale.
Dirigenti di II fascia
Dirigenti di I fascia
Uomini
Donne
Totale
1406
203
1048
87
2454
290
Tabella 6, Dirigenza nei ministeri (Fonte: Elaborazione su dati della Ragioneria dello Stato, Conto
Annuale 2011)
La percentuale più bassa, come si è detto, riguarda la dirigenza apicale. Va, però,
segnalato che vi è una forte differenziazione tra i singoli ministeri: nel caso del
Ministero della Giustizia, si registra la maggiore presenza femminile (per alcuni
dipartimenti, prossima al 50%); è di circa il 40% per gli affari esteri e lo sviluppo
economico; in alcuni ministeri (Beni e attività culturali, Miur, Salute) si attesta intorno
al 30%; è compresa tra il 10 e il 15% nel Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e
in quello delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. Infine, non vi è nessuna donna
tra i dirigenti del Ministero della Difesa e dell’Ambiente.
14
Grafico 2, Dirigenza nei ministeri (Fonte: Dipartimento della funzione pubblica, Rapporto per l’anno
2012 sull’attuazione della Direttiva per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle
amministrazioni pubbliche emanata in data 23 maggio 2007. Dati riferiti al 2011)
La differenziazione della presenza femminile a seconda della tipologia di
ministeri è un dato costante, che si rileva nella maggioranza dei Paesi europei: in media,
si registra una maggiore percentuale di dirigenti femminili nei ministeri di ambito socioculturale, e inferiore in quelli di tipo economico. La percentuale femminile superiore, in
Italia, al 40% nel Ministero della Giustizia e in quello dello Sviluppo economico
costituisce, soprattutto se si tiene conto di tale raffronto, un dato positivo.
15
Paesi
Slovenia
Bulgaria
Lituania
Lettonia
Slovacchia
Svezia
Polonia
Romania
Estonia
Portogallo
Islanda
Lituania
Grecia
Croazia
Spagna
Repubblica
ceca
Francia
Serbia
Austria
Italia
Ungheria
Finlandia
Regno Unito
Malta
Paesi Bassi
Danimarca
Cipro
Belgio
Irlanda
Germania
Lussemburgo
Turchia
Totale
53
51
45
44
44
44
40
40
38
38
38
36
34
34
33
B
43
25
38
63
42
41
22
40
28
34
47
29
31
29
32
E
57
56
43
37
33
39
43
35
43
33
26
54
28
38
26
I
45
50
50
25
33
64
60
37
38
44
44
12
37
27
37
S
68
67
60
40
60
51
51
50
46
43
45
48
40
39
37
31
37
28
14
38
30
30
28
27
27
25
25
22
22
21
19
15
14
13
6
3
22
26
23
31
17
27
28
25
22
21
20
28
11
11
0
5
28
30
29
25
16
13
20
22
15
15
14
5
8
8
0
0
29
21
28
15
0
43
36
16
20
25
0
50
16
0
33
0
40
41
34
30
46
26
19
20
30
24
33
0
22
29
9
5
B = Funzioni di base
E = Funzioni in ambito economico
I = Funzioni relative alle infrastrutture
S = Funzioni socio-culturali
> 50%
30-49%
10-29%
0-9%
Grafico 3, Percentuale di donne tra gli alti funzionari (i due più alti gradi) nei Paesi europei (Fonte:
Commissione Europea, Direzione generale occupazione, affari sociali e inclusione, Plus de femmes aux
postes à responsabilité, 2010
16
iii. Le autorità indipendenti e le agenzie
All’interno delle autorità indipendenti, la percentuale di dirigenti di sesso
femminile è di circa il 35%. Nel caso delle autorità indipendenti, nel conto annuale non
vi è una distinzione tra dirigenza generale e apicale: ciò rende difficile operare una
comparazione rispetto alla presenza femminile nei ministeri.
Tra i dirigenti generali delle agenzie fiscali, le donne sono il 30%, mentre nel
caso dei dirigenti apicali la percentuale scende al 17%. In tali organismi tecnici, quindi,
vi è una presenza femminile significativamente inferiore rispetto a quella che
caratterizza le amministrazioni pubbliche precedentemente esaminate.
Dirigenti
Uomini
Donne
Totale
119
64
183
Tabella 7, Dirigenza delle autorità indipendenti (Fonte: Elaborazione su dati della Ragioneria dello
Stato, Conto Annuale 2011)
Dirigenti di II fascia
Dirigenti di I fascia
Uomini
Donne
Totale
1105
58
485
12
1590
70
Tabella 8, Dirigenza delle agenzie fiscali (Fonte: Elaborazione su dati della Ragioneria dello Stato,
Conto Annuale 2011)
iv. La carriera diplomatica e prefettizia
Nell’ambito della carriera diplomatica, la presenza femminile è piuttosto
limitata, in particolare con riguardo alle cariche di ambasciatore, con un’unica donna
(pari al 3,2%), e di ministro plenipotenziario (la percentuale femminile è dell’8%).
Ben più significativa è l’occupazione femminile nell’ambito della carriera
prefettizia: essa supera la parità nel caso dei gradi di viceprefetto e viceprefetto aggiunto
(rispettivamente, 57% e 61%). La presenza femminile, invece, è dimezzata per il grado
di prefetto (31%).
Ambasciatore
Ministro
plenipotenziario
Consigliere
d’ambasciata
Consigliere di
legazione
Segretario di
legazione
Uomini
Donne
Totale
30
193
1
17
31
210
189
31
220
123
32
155
216
87
303
Tabella 9, Occupazione femminile nella carriera diplomatica (Fonte: Elaborazione su dati della
Ragioneria dello Stato, Conto Annuale 2011)
17
Prefetto
Vice prefetto
Vice prefetto aggiunto
Consigliere di
prefettura
Uomini
Donne
Totale
137
295
164
21
62
394
266
17
199
689
430
38
Tabella 10, Occupazione femminile nella carriera prefettizia (Fonte: Elaborazione su dati della
Ragioneria dello Stato, Conto Annuale 2011)
v. Gli enti pubblici non economici, gli enti di ricerca e l’università
All’interno degli enti pubblici non economici, la percentuale femminile è
prossima al 40% nel caso della dirigenza di II fascia, ma diminuisce sensibilmente in
quella di I fascia (27%).
Nel caso degli enti di ricerca e dell’università, è necessario operare una
distinzione tra l’attività di ricerca e di docenza e gli incarichi amministrativi.
All’interno degli enti di ricerca, il numero dei ricercatori donne è prossimo alla
parità di genere (48,1%). La situazione muta, invece, se si prendono in considerazione
gli incarichi di maggiore responsabilità: le donne ricoprono il 36,7% degli incarichi di
primo ricercatore e il 23,6% degli incarichi quali dirigenti di ricerca. Tra i dirigenti, la
percentuale femminile è del 42,3% degli incarichi di II fascia e del 39% di quelli di I
fascia.
Un assetto in parte simile si riscontra all’interno dell’università, dove quasi la
metà dei ricercatori sono donne (45,3%), mentre la percentuale femminile diminuisce in
modo netto nel caso dei professori associati (34,7%) e ordinari (20,5%). Per quanto
riguarda la dirigenza amministrativa, la percentuale femminile è più elevata (42,7%)27.
Dirigenti di II fascia
Dirigenti di I fascia
Uomini
Donne
Totale
547
72
352
27
900
99
Tabella 11, Dirigenza degli enti pubblici non economici (Fonte: Elaborazione su dati della Ragioneria
dello Stato, Conto Annuale 2011)
Ricercatori
Dirigente di ricerca
Primo ricercatore
Ricercatore
Dirigenti di II fascia
Dirigenti di I fascia
Uomini
Donne
Totale
4650
766
1478
2405
49
14
3328
237
857
2234
36
9
7978
1003
2335
4639
85
23
Tabella 12, Enti di ricerca (Fonte: Elaborazione su dati della Ragioneria dello Stato, Conto Annuale
2011)
27
Per quanto riguarda l’università, il Conto annuale della Ragioneria riporta solo i dati riferiti ai dirigenti
di II fascia.
18
Professori e
ricercatori
Professori ordinari e
straordinari
Professori associati
Ricercatori
Dirigenti di II fascia
Uomini
Donne
Totale
34.911
19.287
54.198
11.552
2.993
14.545
10.406
12.953
146
5.531
10.763
109
15.937
23.716
255
Tabella 13, Università (Fonte: Elaborazione su dati della Ragioneria dello Stato, Conto Annuale 2011)
3.1.3. La formazione
In generale, la crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro
italiano è inferiore al miglioramento della formazione e dell’istruzione femminile.
Quest’ultima, infatti, è aumentata di quasi dodici punti percentuali (Tabella 14), laddove
il tasso di occupazione, come si è prima visto (Tabella 2), è aumentato di appena cinque
punti.
Paese
UE
Italia
2002 2003 2004 2005
65.8
67.2 68.4 69.4
44.1 46.4 49.3 50.4
2006
69.9
51.3
2007
70.7
52.3
2008 2009
71.3 72.0
53.3 54.3
2010
72.7
55.2
2011
73.4
56.0
Tabella 14, Persone con formazione superiore, secondaria o terziaria (Fonte: Eurostat, Persons aged
25-64 and 20-24 with upper secondary or tertiary education attainment)
Nell’ambito della dirigenza pubblica, vi è una sostanziale parità tra uomini e
donne nella partecipazione alla formazione, ad eccezione delle agenzie (in cui la
partecipazione femminile è inferiore al 30%).
19
Grafico 4, Dirigenti partecipanti alla formazione (Fonte: Dipartimento della funzione pubblica,
Rapporto per l’anno 2012 sull’attuazione della Direttiva per attuare parità e pari opportunità tra uomini
e donne nelle amministrazioni pubbliche emanata in data 23 maggio 2007 (dati riferiti al 2011))
3.1.4. Il differenziale retributivo
Secondo i dati Eurostat, il divario retributivo tra donne e uomini nel mercato del
lavoro italiano è significativamente inferiore rispetto a quella europea: 4,9%, rispetto ad
una media europea del 17,5%.
1) Provvisorio. (2) Dati 2007. (3) Dati 2008.
Grafico 5, Differenziale retributivo. Media nei Paesi europei (Fonte: Elaborazione su dati Eurostat,
Gender Pay Gap Statistics, 2010)
20
Nell’ambito della dirigenza pubblica, tale differenza retributiva è in linea con la
media nazionale nel caso degli incarichi di dirigenza generale (salvo che nel caso del
Ministero delle Politiche Agricole, alimentari e forestali, con una media di differenziale
retributivo del 15,4%). Nel caso della dirigenza apicale, le differenze maggiori
riguardano i Ministeri per lo Sviluppo economico, dell’Economia e delle Finanze e
dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, nonché, nuovamente, il Ministero delle
Politiche Agricole, Alimentari e Forestali.
Tabella 15, Differenziale retributivo. Incarichi di direzione generale e non generale (Fonte:
Dipartimento della funzione pubblica, Rapporto per l’anno 2012 sull’attuazione della Direttiva per
attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche emanata in data 23
maggio 2007 (dati riferiti al 2011))
21
3.1.5. Il part-time
Le pubbliche amministrazioni fanno poco uso delle forme flessibili di lavoro: su
un campione di 391.563 funzionari – che rappresenta il personale totale delle
amministrazioni che hanno risposto al censimento – solo 21.848 usufruiscono del parttime (di cui 21.515 ha un contratto a tempo indeterminato e solo 333 a tempo
determinato)28. Inoltre, la contrattualizzazione flessibile è nettamente privilegiata dalle
donne (che rappresentano circa l’80% degli utilizzanti) in ragione dell’indisponibilità di
servizi di supporto adeguati alle proprie esigenze in termini di costi, orari, vicinanza alla
zona di residenza e presenza di personale specializzato29.
Grafico 6, Percentuale di forme di lavoro flessibile (Fonte: Dipartimento della funzione pubblica,
Rapporto per l’anno 2012 sull’attuazione della Direttiva per attuare parità e pari opportunità tra uomini
e donne nelle amministrazioni pubbliche emanata in data 23 maggio 2007 (dati riferiti al 2011))
3.2. Il contesto normativo
Numerosi sono stati gli interventi legislativi in materia di pari opportunità
rilevanti anche per il settore pubblico e finalizzati a garantire l’attuazione dei principi di
uguaglianza e di non discriminazione fissati dalla Costituzione (articoli 3, 37 e 51) e,
più tardi, di quelli stabiliti dalle direttive europee. Tali interventi sono stati tuttavia
adottati lentamente e con gravi ritardi rispetto alle raccomandazioni dell’Unione
europea e alle esperienze di altri paesi.
Le politiche di pari opportunità sono state realizzate con norme a tutela della
lavoratrici e per favorire la valorizzazione delle differenze; con disposizioni di
eliminazione o riduzione degli effetti discriminatori prodotti, direttamente o
indirettamente, sulle condizioni lavorative; con misure positive di parificazione. Tali
norme sono il frutto di un percorso che segna lo sviluppo di un diverso concetto di
28
Il dato è stato raccolto su un campione di 95 amministrazioni “destinatarie dirette” del format utilizzato
dal Dipartimento della Funzione Pubblica per il censimento sull’attuazione delle misure di pari
opportunità tra donne e uomini nelle amministrazioni pubbliche.
29
ISTAT, La Conciliazione tra Lavoro e Famiglia. Anno 2010, 28 dicembre 2011, pp. 8 ss. (disponibile
alla pag. web http://www.istat.it/it/)
22
parità: dalla tutela differenziata della donna alla promozione degli strumenti per
garantire la parità di trattamento tra donne e uomini.
3.2.1. Le norme a tutela delle lavoratrici
La necessità di prevedere interventi protettivi a favore delle lavoratrici discende
dall’articolo 37 della Costituzione, che è applicazione, nel settore del lavoro, del
principio di uguaglianza fissato dall’articolo 3.
La Costituzione, da un lato, stabilisce il principio della parità tra donne e
uomini; dall’altro, riconosce la necessità di protezione delle donne affinché le
condizioni di lavoro consentano loro di continuare a svolgere la funzione familiare,
parimenti tutelata dalla Costituzione30. La formulazione è in chiave alternativa poiché la
scelta di accentuare gli interventi protettivi, rendendo più rigido per le imprese l’utilizzo
del lavoro femminile, allontana gli obiettivi paritari. Del resto il disposto costituzionale
recepisce un orientamento ancora diffuso tra i padri costituenti che evidenziava la
necessità di tutelare la donna in quanto soggetto debole e non pienamente idoneo a
svolgere tutte le tipologie lavorative.
Per questo motivo, gli interventi attuativi dell’articolo 37 Cost., sono
caratterizzati da un fisiologico “strabismo” in cui convivono insieme esigenze di tipo
protettivo e di tipo antidiscriminatorio.
Tuttavia, mentre in alcuni casi la parità viene perseguita principalmente tramite
la rimozione delle limitazioni poste dal “vecchio modo” di proteggere il lavoro
femminile; in altri casi, invece, essa viene assicurata grazie alla previsione di interventi
normativi ad hoc che mirano a colmare la disparità di trattamento proprio grazie alla
valorizzazione della differenza.
a) La parità tramite la rimozione delle limitazioni all’accesso al lavoro
In applicazione dell’art. 51 della Costituzione, il principio di parità di
trattamento nell’accesso agli impieghi pubblici è ora riconosciuto dal d.lgs. n. 165/2001
sia con riferimento alle procedure concorsuali, sia rispetto alla formazione del
personale.
L’effettiva partecipazione delle donne ai processi decisionali pubblici è stata
riconosciuta anche dal DPCM n. 439/1994 che, con riferimento alle procedure di
selezione della qualifica dirigenziale, ha previsto la riserva alle donne di almeno un
terzo dei posti nelle commissioni esaminatrici.
b) La tutela tramite un regime normativo differenziato: maternità e paternità
La disciplina a sostegno della maternità si inserisce tra gli interventi volti a
garantire la tutela della donna tramite l’emanazione di un regime differenziato, con
l’obiettivo di colmare la disuguaglianza tra donne e uomini (cd. discriminazione
positiva) nel mercato del lavoro. Essa introduce alcuni strumenti, quali il divieto di
adibire la donna al lavoro negli ultimi mesi della gravidanza e nei primi successivi al
parto, il diritto a un trattamento economico durante il periodo di astensione dal lavoro, il
30
Cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 123 del 1969 e sentenza n. 137 del 1986.
23
divieto del licenziamento e la computabilità a tutti gli effetti dei periodi di congedo
nell’anzianità di servizio, il diritto al riposo giornaliero. Tali strumenti, seppur in parte
adottati già durante gli anni ‘30, sono stati modificati e completati solo in seguito
all’entrata in vigore della Costituzione.
La tutela della maternità ha, tuttavia, trovato una compiuta organicità solamente
a seguito dell’emanazione del d.lgs. n. 151/2001, che riordina diverse norme emanate in
precedenza. Ancora in tale normativa prevale l’impostazione protezionistica il cui
obiettivo è assicurare che le donne non rinuncino al ruolo di madre per dedicarsi
esclusivamente all’attività lavorativa. In tale prospettiva vengono vietati alle lavoratrici
madri alcuni lavori (in quanto pericolosi, faticosi e insalubri) durante il periodo di
gravidanza e sino a sette mesi di età del bambino. Durante tale periodo la lavoratrice è
addetta ad altre mansioni, anche inferiori a quelle abituali, purché conservi il diritto alla
retribuzione corrispondente alle mansioni precedentemente svolte, nonché la qualifica
originale. Quando la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni, il servizio
ispettivo del Ministero del Lavoro, competente per territorio, può disporre l'interdizione
dal lavoro per il periodo di gravidanza e fino a sette mesi di età del figlio. In linea con le
disposizioni europee è, poi, previsto il divieto del lavoro notturno per le lavoratrici
madri dal momento dell’accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di
un anno di età del bambino.
Sul piano dei diritti a sostegno della maternità, vengono riconosciuti alle
lavoratrici il diritto a permessi retribuiti per l’effettuazione di esami prenatali,
accertamenti clinici ovvero visite mediche specialistiche durante tutto il periodo della
gestazione, nel caso in cui questi debbano essere eseguiti durante l'orario di lavoro.
Ulteriori disposizioni sono state previste a garanzia preventiva della salute della
madre e del figlio. Fra questi, il principio fondamentale è la valutazione del rischio nel
contesto lavorativo. Se con la valutazione si riscontra la presenza di rischi per la
sicurezza e salute della lavoratrice, il datore di lavoro deve adottare tutte le misure
necessarie affinché l'esposizione al rischio delle lavoratrici sia evitata, modificandone
temporaneamente le condizioni o l'orario di lavoro.
La legge n. 92/2012 (legge Fornero) ha introdotto, seppur in via sperimentale per
gli anni 2013-2015, il congedo di paternità obbligatorio. Il padre lavoratore dipendente,
infatti, è tenuto ad astenersi dal lavoro, per un giorno, entro i cinque mesi dalla nascita
del figlio. Entro lo stesso periodo, inoltre, ha la facoltà di astenersi per ulteriori due
giorni, anche continuativi, previo accordo con la madre e in sua sostituzione in relazione
al periodo di astensione obbligatoria a lei spettante. Per questi giorni di astensione viene
riconosciuta dall’Inps un'indennità giornaliera pari al 100% della retribuzione.
È possibile, peraltro, fruire dei congedi su base oraria (e non più giornaliera) (d.l.
n. 216/2012). Spetta alla contrattazione collettiva di settore la regolamentazione e i
criteri di calcolo della base oraria.
c) La parità tramite l’eliminazione, il divieto e la prevenzione delle discriminazioni
Diversi interventi regolatori si sono preoccupati di eliminare le pratiche
discriminatorie, come la “clausola di nubilato” che garantiva al datore di lavoro di
procedere al licenziamento immediato della lavoratrice in caso di matrimonio.
La legge n. 903/1077 sancisce per la prima volta, seppur ancora sul piano
formale, il principio generale di non discriminazione comprendendo tutti gli aspetti
24
della disciplina dei rapporti di lavoro, dalla fase preliminare sino alla costituzione dei
medesimi. Si tratta della parità di retribuzione (che opera quando le prestazioni richieste
sono uguali o di pari valore); nelle mansioni assegnate, a prescindere da qualsiasi
considerazione legata al rendimento individuale; nel sistema di inquadramento
professionale e nella progressione di carriera. La stessa introduce la nullità di qualsiasi
atto o patto discriminatorio31.
Durante gli anni ‘90 il concetto di discriminazione si amplia. La legge n.
125/1991 introduce, per la prima volta nel nostro ordinamento, il concetto di
“discriminazione indiretta” (direttiva n. 76/207/CE e n. 2002/73/CE) che vieta norme o
comportamenti che, pur apparentemente neutri, mettono (o possono mettere) i lavoratori
di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori
dell’altro sesso. In attuazione di tale divieto, il Codice delle pari opportunità tra uomo e
donna (d.lgs. n. 198/2006), prevede l’individuazione di strumenti di prevenzione e
rimozione di ogni forma di discriminazione al fine di realizzare gli obiettivi di pari
opportunità.
Il 29 giugno 2012, con un’interrogazione parlamentare, è stato posto alla Commissione europea il tema della disparità
di genere e dell’esistenza di discriminazioni indirette nella procedura di reclutamento della Banca d’Italia.
Secondo l’europarlamentare che ha presentato l’interrogazione, i dati riferiti ai dipendenti dell’autorità indipendente
italiana a tutela del credito presentano una scarsa presenza delle donne nelle posizioni dirigenziali (le donne sono meno
della metà dei neoassunti laureati). Eppure, tra il 1998 e il 2009 si sono svolte 7 selezioni destinate al profilo
«economico» e 6 destinate a «giuristi»; in totale si sono presentati 13 397 candidati, di cui 423 sono stati dichiarati
idonei. Le donne erano il 61,5 % dei partecipanti e solo il 35,5 % degli idonei.
Il risultato, seppur riflette l'asimmetria nel lavoro domestico e di cura della famiglia che nel nostro paese è
particolarmente pronunciata, potrebbe segnalare l’esistenza di discriminazioni indirette che, secondo la CGUE,
ricorrono quando un datore di lavoro accorda involontariamente una preferenza a candidati appartenenti a un certo
gruppo, in assenza di elementi che ne dimostrino la migliore qualità rispetto agli altri.
Alla luce di tali considerazioni, l’europarlamentare chiede alla Commissione di indicare dati e statistiche di raffronto
con la BCE, valutando una media delle altre banche centrali europee e di chiarire se intende procedere a una verifica
del corretto recepimento degli obblighi nella normativa italiana, alla luce dell'interpretazione consolidata della CGUE
— dal «caso Defrenne II» ad oggi — sulla nozione di «discriminazione indiretta o implicita»
Risposta: la Commissione invita alla lettura dei dati sulle posizioni di alto livello occupate da donne e uomini nelle
banche centrali nazionali e nelle istituzioni finanziarie europee che evidenziano un trend generale a favore degli
uomini.
Banche Centrali
Dirigenti
Donne
(N)
Funzionari
Uomini
(N)
Donne
(N)
Uomini
(N)
Donne
(%)
Uomini
(%)
EU-27
0
27
50
238
17
83
Belgio
0
1
4
14
22
78
Bulgaria
0
1
1
6
14
86
Repubblica Ceca
0
1
1
6
14
86
Danimarca
0
1
6
22
21
79
Germania
0
1
1
5
17
83
Estonia
0
1
2
9
18
82
Irlanda
0
1
2
10
17
83
Grecia
0
1
1
10
9
91
31
Più di recente è stato riconosciuto il divieto di patti e atti finalizzati alla cessazione del rapporto di
lavoro per discriminazioni basate sul matrimonio e sulla maternità, anche in caso di adozione o
affidamento (art. 35 del d.lgs. n. 198/2006), ovvero a causa della domanda o fruizione del periodo di
congedo parentale o per malattia del bambino (art. 54 del d.lgs. n. 151/2001).
25
Spagna
0
1
2
7
22
78
Francia
0
1
2
9
18
82
Italia
0
1
1
17
6
94
Cipro
0
1
0
6
0
100
Lettonia
0
1
3
11
21
79
Lituania
0
1
0
5
0
100
Lussemburgo
0
1
0
9
0
100
Ungheria
0
1
2
5
29
71
Malta
0
1
3
10
23
77
Olanda
0
1
1
4
20
80
Austria
0
1
0
4
0
100
Polonia
0
1
4
13
24
76
Portogallo
0
1
0
5
0
100
Romania
0
1
1
8
11
89
Slovenia
0
1
2
3
40
60
Slovacchia
0
1
0
4
0
100
Finlandia
0
1
5
7
42
58
Svezia
0
1
5
12
29
71
Regno Unito
0
1
1
17
6
94
Croazia
0
1
1
13
7
93
Repubblica di Macedonia
0
1
3
6
33
67
Turchia
0
1
0
12
0
100
Repubblica Serba
0
1
4
6
40
60
Islanda
0
1
4
3
57
43
Liechtenstein
-
-
-
-
-
-
Norvegia
0
1
9
13
41
59
Tutti i Paesi
0
33
71
291
20
80
Dati raccolti nel periodo11/06/2012-13/06/2012
Box 1, Disparità di genere e “discriminazioni indirette”: nella Banca d'Italia, non c'è posto per le
donne?
3.2.2. Le norme “di promozione” della parità di genere
Gli anni ‘90 segnano una svolta nelle politiche di genere, grazie al concorso di
diversi fattori, tra cui la valorizzazione del ruolo delle Regioni e degli enti locali nel
contributo alle politiche di genere; la necessità di riorganizzare in modo sistematico e
organico le istituzioni operanti a tutela della parità di genere istituite durante gli anni
‘80; il recepimento degli obblighi internazionali ed europei; la necessità di introdurre
azioni a sostegno dell’accesso delle donne anche alla vita istituzionale e politica del
Paese. È così che il principio della parità formale lascia spazio all’introduzione di
strumenti che garantiscono in concreto alle donne di poter svolgere l’impegno
lavorativo insieme a quello familiare.
a) Le azioni positive
Il Codice delle pari opportunità (art. 48) ha previsto l’obbligo per le pubbliche
amministrazioni (amministrazioni dello Stato, province, comuni, enti pubblici non
economici) di redigere Piani di Azioni Positive (PAP) triennali al fine di assicurare «la
26
rimozione degli ostacoli che, di fatto, impediscono la piena realizzazione di pari
opportunità di lavoro e nel lavoro tra uomini e donne». In base a questa indicazione, le
amministrazioni devono orientare le politiche di gestione delle risorse umane e
l'organizzazione del lavoro - sia a livello centrale che a livello decentrato - secondo
linee di azione a favore della parità di genere. Il PAP è, dunque, un documento
programmatico dell’ente che introduce azioni positive all’interno del contesto
organizzativo al fine di riequilibrare le situazioni di diseguaglianza di condizioni fra
donne e uomini che lavorano all’interno dello stesso ente. Sono, in altre parole, piani
strategici che aiutano l’amministrazione ad auto-valutarsi – tramite la lettura
dell’organizzazione in prospettiva di genere, e a diffondere la cultura delle pari
opportunità grazie alla realizzazione di iniziative specifiche al contesto di riferimento.
Il Piano è, infatti, destinato principalmente ai vertici delle amministrazioni e, in
particolare, alle/ai responsabili del personale, che devono orientare le politiche di
gestione delle risorse umane e l’organizzazione del lavoro, secondo le linee di azione
fissate. In caso di mancata attuazione del piano, la sanzione prevista è l’impossibilità di
assumere nuovo personale, compreso quello appartenente alle categorie protette.
Sul piano formale il grado di ottemperanza da parte delle amministrazione
dell’obbligo di redazione dei PAP è assai elevato. Nel 2011 più della metà (65,6%)
degli enti analizzati (in totale 494) ha redatto almeno un piano.
Enti
Aziende sanitarie locali
Province
Comuni > 100.000 ab.
Comuni tra 20.000 –
1000.000 ab.
Comuni tra 5.000 e
20,000 ab.
Comuni < 5.000 ab.
Altri enti
Enti che hanno redatto i piani triennali di azioni
positive (% sul totale dei rispondenti per comparto)
37 %
78 %
80 %
74 %
66 %
66 %
8
Tabella 16, Enti che hanno predisposto un piano triennale di azione positiva (Fonte: Dipartimento della
funzione pubblica, Rapporto per l’anno 2012 sull’attuazione della Direttiva per attuare parità e pari
opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche emanata in data 23 maggio 2007. Dati
riferiti al 2011).
Sul piano della effettiva realizzazione dei piani, la situazione si presenta più
complessa. Per il controllo dell’attuazione degli indirizzi strategici indicati nei PAP la
direttiva del Dipartimento della funzione pubblica e del Dipartimento diritti e pari
opportunità del 2007 prevede esclusivamente l’obbligo di predisporre una relazione di
sintesi sulle azioni effettuate nell’anno precedente e quelle previste per l’anno
successivo. Ulteriori indicazioni sono, tuttavia, fornite direttamente dai PAP. Alcune
amministrazioni si sono preoccupate di curare il controllo ex post. Si tratta, tuttavia, di
interventi eterogenei lasciati alla diversa sensibilità e al diverso grado di sviluppo
dell’amministrazione ai temi della politica di genere. La Regione Piemonte, ad esempio,
ha costituito, a cura del Comitato Pari Opportunità dell’Ente, un nucleo di monitoraggio
delle azioni indicate nel PAP. Il comune di Bologna, invece, nel piano triennale 20122014, prevede di avviare un percorso di valutazione sotto la responsabilità del Capo
27
Area Personale e Organizzazione sulla base delle risorse disponibili e di affidare al
Comitato Unico di Garanzia delle pari opportunità (CUG) i compiti di verifica sui
risultati delle azioni positive individuate.
b) Le strategie di conciliazione
Uno studio effettuato dall’ISTAT nel 2010 ha rilevato che sono ancora
principalmente le donne ad occuparsi dell’attività di cura dei figli, degli anziani o dei
disabili (vedi Tabella 17). Per tale ragione, la politica di parità si occupa della questione
della conciliazione tra il lavoro e la cura familiare tramite il ricorso a diversi strumenti,
tra cui l’accesso e la qualità dei servizi per l’infanzia e per l’assistenza di altre persone a
carico; l’equa condivisione della responsabilità di cura e del lavoro domestico; l’uso del
congedo parentale; la flessibilità delle forme del lavoro.
Popolazione
Persone che si
prendono cura
di qualcuno
SESSO
Maschi
19.711
Femmine
19.809
CLASSE DI ETÀ
15-24
6.070
25-34
7.689
35-44
9.740
45-54
8.668
55-64
7.353
CONDIZIONE OCCUPAZIONALE
Occupati
22.614
In cerca di
2.089
occupazione
Inattivi
Totale
14.817
39.520
di figli
coabitanti
di altri
bambini
di adulti (anziani,
malati, disabili)
6.804
8.378
5.246
5.698
978
1.688
1.218
2.111
613
2.794
6.255
3.612
1.908
127
2.437
5.786
2.418
176
379
322
482
514
969
169
271
678
1.200
1.011
9.738
745
7.849
518
1.109
153
1.796
179
4.699
15.182
2.577
10.944
1.403
2.665
1.354
3.329
Tabella 17, Popolazione e persone di 15-64 anni che si prendono regolarmente cura di figli coabitanti
con meno di 15 anni, di altri bambini della stessa fascia di età e/o di adulti (anziani malati, disabili) per
sesso, classe di età e condizione occupazionale. (Fonte: ISTAT, Rapporto sulla conciliazione tra lavoro
e famiglia emanato in data 28 dicembre 2011 (dati riferiti al II trimestre 2010)).
i. La flessibilità family-friendly
Al fine di favorire la conciliazione tra tempi lavorativi e quelli familiari, hanno
iniziato ad essere utilizzate anche nell’ordinamento giuridico italiano –seppure meno
che in altri paesi europei- forme contrattuali che mirano a incidere sulla distribuzione
degli orari. L’istituto del part-time, in particolare, è stato introdotto nel settore pubblico
dalla legge n. 554/199832 e confermato dal d.lgs. n. 165/2001, il quale rinvia però alla
contrattazione del settore pubblico l'adattamento delle normative generali sulle tipologie
flessibili di lavoro alle peculiarità del settore pubblico.
Particolarmente controversa è stata l’applicazione dell’istituto del part-time alla
dirigenza. La posizione strategica assunta dal dirigente a seguito dall’attuazione del
32
Successivamente il part-time è stato disciplinato dal D.P.C.M. 17.03.1989, n.117 e dal d.lgs. 3.febbraio,
n.29, come modificato ed integrato, in particolare, dal d.lgs. 31.03.1998, n. 80.
28
principio di separazione tra politica e amministrazione e il rischio di incidere
negativamente sul funzionamento della PA, in caso di riduzione del normale orario di
lavoro, hanno contribuito ad applicare in modo restrittivo l’istituto del part-time. Per
tenere conto delle esigenze di funzionalità della pubblica amministrazione, i contratti
collettivi dell’area dirigenziale sono stati abilitati a introdurre una disciplina più
restrittiva per l’accesso al part-time dalla legge n. 448/1998 (finanziaria 1999). Una
deroga è, tuttavia, prevista nell’ambito sanitario. La legge n. 488/1999 (finanziaria
2000) ha espressamente consentito l’accesso a un regime di impegno ridotto al
personale non sanitario con qualifica dirigenziale purché sia preposto alla titolarità di
uffici, con conseguenti effetti sul trattamento economico secondo criteri definiti dai
contratti collettivi nazionali di lavoro.
ii. I congedi parentali
La legge n. 53/2000 attribuisce a entrambi i genitori (e quindi anche al padre, a
prescindere dal fatto che la madre lavori o meno e che utilizzi o meno i congedi
parentali), il diritto all’astensione dal lavoro per prendersi cura dei figli. Terminato il
periodo di congedo obbligatorio di maternità, ciascun genitore ha diritto di astenersi dal
lavoro nei primi otto anni di vita del bambino, anche contemporaneamente, per un
periodo non superiore a 11 mesi complessivi per entrambi i genitori 33. Questi congedi
facoltativi che prevedono un diverso riconoscimento retributivo a seconda che l’età del
figlio sia maggiore o inferiore ai tre anni sono riconosciuti anche nei casi di affidamento
e di adozione (nazionale o internazionale) entro otto anni dall’ingresso del minore nel
nucleo familiare.
Un rapporto del 2010 ha evidenziato che tra i genitori di bambini di età inferiore
a otto anni, che nel secondo trimestre del 2010 risultavano avere un’occupazione, ne ha
goduto tuttavia circa una donna ogni due (45,3%), e solamente il 6,9% degli uomini.
Nonostante la normativa punti a favorire la fruizione dell’astensione facoltativa da parte
dei padri, questa risulta confinata soprattutto ai dipendenti della pubblica
amministrazione, tra i quali circa uno ogni due dichiara di averne fruito”34.
iii. La riorganizzazione del tempo sociale
Ulteriore strumento finalizzato a conciliare tempi lavorativi e familiari è
l’adozione di piani di riorganizzazione del tempo sociale. Si tratta di piani adottati, con
più frequenza e con maggior successo, su scala locale poiché su questi livelli di governo
è più facile sperimentare nuove forme di tempi e spazi grazie sia alla riorganizzazione
dei servizi pubblici, quali scuole, enti locali, ASL, trasporti, e dei servizi commerciali e
del tempo libero, sia al maggiore coinvolgimento delle parti interessate.
Si tratta, dunque, di interventi di governance di pianificazione e
programmazione del territorio previsti, per la prima volta, dalla legge n. 53/2000 che
assegna alle Regioni la funzione di definire, con proprie leggi, le norme e i criteri
attraverso cui comuni possono coordinare gli orari di uffici, servizi pubblici e servizi
commerciali e promuovere l’uso del tempo per fini di solidarietà sociale. Ai comuni,
invece, la legge richiede di coordinare e riorganizzare gli orari cittadini attraverso la
predisposizione e l’attuazione di un “piano territoriale degli orari” ovvero tramite la
33
Nel dettaglio, mentre la madre può astenersi per un periodo, continuativo o frazionato, non superiore a
6 mesi, il padre può astenersi per un periodo, continuativo o frazionato, non superiore a 7 mesi.
34
ISTAT, La Conciliazione tra Lavoro e Famiglia, cit.
29
promozione o l’adesione alle “banche del tempo”. La finalità di questi interventi
comprende anche la valorizzazione delle pari opportunità. Del resto, garantire la
conciliazione dei tempi del lavoro non solo permette un maggior accesso delle donne al
mercato del lavoro, ma influenza positivamente la soddisfazione di tutti i lavoratori, del
clima organizzativo e, nel complesso, assicura un maggior benessere sociale.
3.3. Gli strumenti organizzativi
In estrema sintesi, le istituzioni della parità di genere possono intervenire su tre
diversi livelli: quello centrale, quello periferico ovvero all’interno di un sistema “a
rete”. Questi strumenti contribuiscono allo svolgimento delle funzioni di tutela e
promozione della parità di genere essendo attratte, in alcuni casi, nell’orbita del
Ministero del Lavoro; in altri, in quella del Ministero delle Pari Opportunità istituito
solo a partire dal 1996.
A partire dagli anni ‘90 il legislatore ha accompagnato l’adozione delle norme in
materia di parità con la previsione di istituzioni ad hoc (a iniziare dalle Commissioni
per le pari opportunità) per la loro attuazione e a cui sono state successivamente
attribuite diverse funzioni e ulteriori compiti.
Si tratta, dunque, di un sistema creato senza un’organica progettazione che ha
determinato incoerenze, ridondanze e sovrapposizioni segnalate dalle diverse occasioni
in cui il legislatore ha modificato la materia. Ulteriori complicazioni sono state fornite
anche dal legislatore regionale che, nell’ambito del proprio ordinamento, ha previsto
ulteriori istituzioni per coadiuvare – a seconda dei casi – la giunta, il consiglio o,
laddove previsto, l’assessorato per le pari opportunità35.
A livello centrale i principali organi sono:
 Il Comitato nazionale per la Parità che opera ai sensi della legge n. 125/1991
presso il Ministero del Lavoro, con il compito di promuovere le azioni positive,
misure finalizzate all’eliminazione delle disparità che colpiscono le donne nella
ricerca e nell’accesso al lavoro, nei percorsi formativi, nella crescita
professionale e di carriera.
 La Commissione nazionale per le pari opportunità tra uomo e donna, che opera
dal 1984 presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri con il compito di
fornire al Ministro per le pari opportunità consulenza e supporto tecnicoscientifico nell'elaborazione e nell'attuazione delle politiche di pari opportunità
fra donna e uomo. Il regolamento del 2004 incardina la Commissione presso il
Dipartimento per le pari opportunità.
 La Consigliera di parità nazionale che promuove e controlla l’attuazione dei
principi di uguaglianza di opportunità e non discriminazione nel mondo del
lavoro. Nell’esercizio delle sue funzioni, la Consigliera riveste la qualifica di
pubblico ufficiale e ha l’obbligo di segnalazione all’autorità giudiziaria per i
reati di cui viene a conoscenza. L’Ufficio della Consigliera nazionale di parità è
funzionalmente autonomo, dotato del personale e delle strutture necessarie per lo
svolgimento dei suoi compiti. Gli obiettivi e le attività da svolgere vengono
35
Solo per fare un esempio, gli Organismi di Parità Regionali del Piemonte sono: il Comitato di Pari
Opportunità; la Commissione regionale per la realizzazione delle Pari Opportunità uomo-donna; la
Consigliera di Parità regionale; la Consulta delle elette; la Consulta femminile regionale.
30
individuati dalla Consigliera nazionale in carica, nel rispetto degli indirizzi di
legge.
A livello decentrato le principali istituzioni sono:
 Il Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del
benessere di chi lavora e contro le discriminazioni (CUG) istituito con
decreto del 24 marzo 2011. Il CUG unifica le competenze attribuite ai
Comitati per le pari opportunità e ai Comitati paritetici sul fenomeno del
mobbing (istituiti nel 2002) e devono essere composti in modo da assicurare
la presenza paritaria di entrambi i generi. Essi devono, altresì, essere formati
da un determinato numero di componenti designati da ciascuna delle
organizzazioni sindacali rappresentative e da un pari numero di
rappresentanti dell’amministrazione (dirigenti e non). Per perseguire la parità
di genere nella pubblica amministrazione, i CUG hanno poteri propositivi,
consultivi e di verifica. I CUG redigono e trasmettono entro il 30 marzo di
ogni anno, una relazione dettagliata riferita all’anno precedente ai vertici
politici e amministrativi all’ente di appartenenza.
Grafico 7, Percentuale di istituzione dei CUG (Fonte: Dipartimento della funzione pubblica, Rapporto
per l’anno 2012 sull’attuazione della Direttiva per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne
nelle amministrazioni pubbliche emanata in data 23 maggio 2007 (dati riferiti al 2011)).

I Comitati di ente per le pari opportunità che operano dal 1986 presso le
diverse amministrazioni pubbliche (ministeri, regioni, enti locali, Arpa,
prefettura, ordini degli avvocati, enti pubblici, etc.), le università e gli enti di
ricerca per creare condizioni di parità sostanziale delle lavoratrici e dei
lavoratori, nell'ambito dei singoli luoghi di lavoro. Previsti dai contratti di
lavoro dei comparti del pubblico impiego, questi comitati rappresentano la
“struttura sindacale” della pari opportunità essendo composti, in misura
paritetica, da rappresentanti delle amministrazioni e dei sindacati firmatari
dei relativi contratti. La loro funzione è quella di garantire e promuovere le
azioni atte a creare condizioni di parità sostanziale di chi lavora all’interno
dell’amministrazione in cui sono collocate. Ai sensi della legge n. 183/2010
questi Comitati devono essere sostituiti dai CUG.
31
Grafico 8, Percentuale di comitati di pari opportunità presenti per enti (Fonte: Dipartimento della
funzione pubblica, Rapporto per l’anno 2012 sull’attuazione della Direttiva per attuare parità e pari
opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche emanata in data 23 maggio 2007 (dati
riferiti al 2011)).
Operano inoltre ulteriori figure istituzionali con funzioni principalmente di raccordo. Si
tratta di figure che valorizzano il sistema a rete per valorizzare lo scambio di esperienze
e la promozione di politiche comuni. Tra esse:
 la Rete di Consigliere e di Consiglieri di parità con funzione di promozione e
controllo dell’attuazione dei principi di pari opportunità e non discriminazione
fra donne e uomini nel lavoro. Essa riunisce le consigliere, nazionali, regionali e
provinciali, effettive e supplenti. Istituita nel 2000, la rete nazionale ha lo scopo
di rafforzare le funzioni delle Consigliere e dei Consiglieri di Parità, accrescere
l'efficacia della loro azione, consentire lo scambio di informazioni, esperienze e
buone prassi. Alla rete nazionale si affianca quella regionale delle Consigliere di
Parità di cui fanno parte tutte le consigliere provinciali.
 la Rete dei Comitati per le pari opportunità. Anche i Comitati per le pari
opportunità valorizzano la loro azione grazie all’attivazione di un sistema a rete
che collega tutti i comitati istituiti nell’ambito del medesimo settore (ad esempio
la rete dei comitati per le pari opportunità delle professioni legali oppure la rete
dei comitati presso le ARPA regionali).
4. Le istituzioni europee
Poiché la parità di genere figura quale obiettivo prioritario da raggiungere
attraverso tutte le politiche comunitarie, le istituzioni dell’Unione europea sono tenute a
far sì che la partecipazione delle donne avvenga in modo sempre maggiore in ogni fase
di elaborazione delle politiche lanciate dall’Unione europea, dall’ideazione alla loro
emanazione. Per tale ragione, da diversi anni la politica delle pari opportunità rientra in
tutti gli ambiti della gestione del personale delle istituzioni. Lo Statuto dei funzionari
dell’Unione europea vieta, innanzitutto, qualsiasi discriminazione fondata sul sesso e
consente l’adozione o il mantenimento di misure volte a favorire il raggiungimento
della parità del sesso sottorappresentato (art. 1, lett. d). Lo Statuto regola, inoltre, in
modo eguale per uomini e donne i livelli stipendiali, l’utilizzo del part-time, nonché le
32
condizioni per la promozione e la fruizione dei diritti pensionabili. Secondo quanto
previsto sempre dallo Statuto, i lavoratori con figli (sia donne che uomini) hanno diritto
ad avere da uno a sei mesi di congedo parentale, senza il pagamento del salario di base
ma con l’attribuzione di un assegno mensile, entro i primi dodici mesi dalla nascita o
adozione di un figlio (art. 42, lett. a). Alcune norme specifiche regolano, infine, il
congedo obbligatorio di maternità (di un massimo di venti settimane, estensibili a ventiquattro in casi speciali) e di paternità (10 giorni usufruibili anche su base oraria).
All’interno di ciascuna istituzione è stata istituita un’unità che si occupa di
garantire la tutela delle pari opportunità e di sensibilizzare l’insieme del personale
rispetto al tema della parità di genere. All’interno della Commissione europea (che è la
più grande tra le istituzioni comunitarie) non vi sono solo le unità istituite all’interno di
ciascuna Direzione generale ma è stata istituita anche un’unità centrale nella Direzione
generale Risorse Umane, che coordina le attività svolte da quelle presenti nelle altre
Direzioni generali. Dalla metà degli anni ‘90 è poi stato istituito all'interno del Collegio
dei Commissari, un gruppo di Commissari con il compito di stimolare la riflessione e
vigilare affinché pari opportunità siano previste in tutte le azioni comunitarie.
Ogni istituzione emana annualmente un programma di azione che illustra le
iniziative da promuovere per equilibrare la presenza delle donne nelle categorie in cui
esse sono sotto rappresentate e per promuovere il loro sviluppo professionale
assicurando uguali opportunità di carriera e di formazione. Sulla base di tali programmi
durante l’anno vengono lanciate attività per favorire la realizzazione delle pari
opportunità.
Pur avendo un obiettivo comune, le politiche adottate dalle tre maggiori
istituzioni comunitarie (Commissione, Parlamento e Consiglio) differiscono sotto alcuni
profili, principalmente per la diversità di competenze e dimensioni di ciascuna
istituzione.
4.1. La presenza femminile e le condizioni lavorative delle donne
4.1.1. La Commissione
Se si contano i funzionari assunti a tempo indeterminato e su base temporanea
(ad eccezione del personale assunto in via interinale), la Commissione annovera in
totale 33.100 dipendenti tra persone che si occupano di attività segretariali e di supporto
(categoria AST), amministratori (categoria AD5-AD8), middle (categoria AD9-AD13) e
senior manager (categoria AD14-AD16)36. Di questi, al termine del 2011, il 55% erano
donne. È per la verità già a partire dal 2005 che, nel complesso, il numero di donne
impiegate nella Commissione supera quello degli uomini. Il divario cresce ulteriormente
a favore delle donne tra i dipendenti assunti a tempo determinato (60.9%).
Se si guardano le mansioni svolte, il quadro risulta, tuttavia, molto meno
egualitario. Le donne tendono, infatti, a prevalere nelle funzioni inferiori (AST), dove
nel primo semestre 2012 hanno raggiunto circa il 65%37. Nonostante il divario si sia
ridotto negli anni grazie alle politiche di genere, le donne continuano invece a essere
36
37
Commissione europea, Human Resources Report 2012.
Commissione europea (Human resources), Statistic Bulletin, 3 luglio 2012.
33
Rappresentanza femminile in %
sotto-rappresentate nelle categorie degli amministratori non manager (42.3%), middle
manager (27.1%) e senior manager (25%).
Grafico 9, Evoluzione della rappresentanza delle donne per le posizioni di senior manager, middlemanager e amministratore (1995-2011) (Fonte: Commissione europea, Human Resources Report 2012)
Nella categoria degli amministratori non manager la differenza numerica non è
molto alta ma cresce nelle categorie più alte (middle e senior managers), dove le donne
sono ampiamente sotto rappresentate. Secondo uno studio richiesto dalla Commissione,
questo è dovuto principalmente al fatto che il numero di domande presentate dalle
donne per accedere a posizioni apicali è molto inferiore a quello degli uomini38. Dal
sondaggio effettuato tra i dipendenti della Commissione risulta che le ragioni che
impediscono alle donne di presentare domanda risiedono nel fatto che esse sono
scoraggiate dall’inconciliabilità con la vita privata delle condizioni lavorative associate
alle posizioni manageriali (più ore lavorative e meno flessibilità), non sono incentivate
dai loro superiori a presentare domanda, sono meno inclini a sfruttare le proprie
conoscenze personali per fare carriera, hanno poca fiducia nella possibilità di riuscire ad
ottenere una posizione dirigenziale e, in genere, tendono ad evitare di fare richiesta per
accedere a posizioni per le quali non sono sicure di essere sufficientemente competenti.
Le lavoratrici donne sono, inoltre, meno orientate alla carriera degli uomini e richiedono
quindi maggiore incoraggiamento per mettersi in gioco.
Nonostante il sistema di promozione sia lo stesso per uomini e donne, nella
pratica sono, quindi, ancora gli uomini a fare carriera più in fretta.
Anche sotto il profilo salariale l’uguaglianza di base data dall’applicazione delle
stesse regole tra donne e uomini e si trasforma in realtà in uno sbilanciamento a favore
degli uomini se si tiene conto del fatto che più dell’80% dei lavoratori part-time
all’interno della Commissione sono donne39 e percepiscono dunque mediamente un
salario inferiore.
38
Commissione europea, DG for personnel and administration, Evaluation of the fourth action
programme for equal opportunities for women and men at the European Commission, luglio 2009.
39
Commissione europea, Human Resources Report 2012, cit.
34
Sempre per quanto riguarda l’effettiva condizione lavorativa delle donne,
occorre, infine, tener conto del fatto che circa il 60-70% dei casi di molestie rilevate
all’interno della Commissione ha per destinatarie le lavoratrici.
4.1.2. Il Consiglio e il Parlamento
Considerazioni simili valgono anche per il Consiglio e per il Parlamento
europeo, anche se in misura minore. Le due istituzioni sono, infatti, più piccole della
Commissione e gli interventi a favore delle donne hanno portata più limitata.
Il Consiglio occupa 4077 funzionari (quindi circa otto volte meno della
Commissione), il 58,56% dei quali sono donne40. Le percentuali di donne a seconda
delle diverse categorie rispecchiano grosso modo i dati della Commissione. Anche nel
Consiglio, le posizioni inferiori sono occupate da donne che svolgono funzioni
segretariali e di assistenza (AST) (nelle posizioni AST il 63,4% sono donne). A
differenza della Commissione, il numero di donne è, tuttavia, elevato anche tra gli
amministratori non manager (AD5-AD8), che sono il 65%. Le donne rimangono invece
ancora sotto rappresentate tra i middle managers (AD9-AD13) dove raggiungono solo il
27,1%, e i senior managers (AD14-AD16) dove rappresentano solo il 17,8%.
Il Parlamento europeo costituisce l’istituzione più piccola tra quelle considerate
e conta circa 2900 funzionari41. Anche qui, in assoluto, il numero delle donne supera
quello degli uomini, rappresentando il 58,6% degli impiegati. La percentuale di donne
in funzioni segretariali (AST) è simile a quella delle altre due istituzioni (64,4%),
mentre come per il Consiglio, tra gli amministratori non managers (AD5-AD8) le
donne superano gli uomini rappresentando il 51,3%. La percentuale di middle managers
(AD9-AD13) è, invece, piuttosto bassa rispetto alle altre due istituzioni (23,6%).
Rispetto queste ultime, tuttavia, la rappresentanza femminile è maggiore nelle posizioni
senior, dove le donne raggiungono circa il 32%.
Anche al Consiglio e al Parlamento europeo, l’80% dei funzionari che utilizzano
il part-time ed i congedi parentali sono donne. Anche in queste istituzioni, poi, la grande
maggioranza dei casi di molestie vedono come vittime lavoratrici di sesso femminile.
40
Dati aggiornati al gennaio 2012.
Parlamento europeo, Les femmes du Parlement Européen, 8 marzo 2012, disponibile all’indirizzo
http://www.europarl.europa.eu/RegData/publications/2012/0001/P7_PUB(2012)0001_FR.pdf.
41
35
Commissione
europea
Consiglio
dell’Unione
europea
Parlamento
Numero
funzionari
(Uomini e
donne)
Percentuale
AST
AD non
managers
AD middle
managers
AD senior
managers
33.100
55%
65%
43,3%
27,1%
25%
4077
58,56%
63,4%
65%
27,1%
17,8%
2943
58,6%
64,4%
51,3%
23,6%
circa 32%*
donne
europeo
* I direttori generali rappresentano il 33,3% mentre i direttori il 32,8%.
Tabella 18, Rappresentanza femminile all’interno delle istituzioni comunitarie
4.2. Gli strumenti per favorire l'impiego femminile
4.2.1. La Commissione
Ogni quattro anni la Commissione adotta un programma di azione con il quale
individua le linee lungo le quali si svilupperanno le principali attività che intende
intraprendere nei quattro anni successivi per favorire la parità di genere all’interno
dell’istituzione. Nella Strategia per le pari opportunità tra donne e uomini all’interno
della Commissione europea (2010-2014) sono state individuate tre principali aree
d’intervento: gestire al meglio tutti i talenti a disposizione, attirando e mantenendo i
talenti di cui la Commissione ha bisogno; creare un ambiente di lavoro flessibile,
rispettoso e orientato ai risultati; fare in modo che gli obiettivi per il raggiungimento
della parità di genere siano promossi a livello manageriale e che siano predisposti
strumenti per misurare i progressi ottenuti42. La strategia conferma, per il
raggiungimento degli obiettivi, l’utilizzo di alcuni degli strumenti da anni adottati
all’interno dell’istituzione.
Per favorire l’accesso delle donne al lavoro nell’istituzione è previsto, in
particolare, che la pubblicazione dei posti vacanti venga effettuata in modo non
discriminatorio (inserendo, ad esempio, la dicitura secondo la quale si incentiva la
presentazione delle domande da parte di candidate donne), che i membri delle
commissioni di concorso abbiano ricevuto un’adeguata formazione i materia di pari
opportunità e che sia garantita la presenza di donne nelle commissioni di concorso, per
l'accesso a tutti i gradi nell'istituzione43.
Dal 1995 la Commissione fissa, inoltre, degli obiettivi di impiego che devono
essere raggiunti negli anni di durata del programma di azione. Essi si differenziano dalle
quote poiché non impongono l’assunzione delle donne in modo assoluto. La precedenza
alle donne dev’essere data solo a parità di meriti rispetto ai concorrenti uomini ma, al
42
Commissione europea, Communication to the Commission on the strategy on equal opportunities for
women and men within the European Commission, SEC(2010)1554/3, 17 dicembre 2010.
43
Tale presenza dovrebbe essere pari al 50% dei membri della commissione ma non viene sempre
rispettata. Poiché i commissari vengono scelti tra il personale della Commissione e visto che tutt’ora la
presenza femminile è in molte categorie minoritaria non è sempre facile reperire commissarie donne.
36
fine di poter verificare l'utilizzo dei criteri di selezione, alcune DG impongono ai
commissari di esame di giustificare per iscritto le ragioni per le quali, in presenza di
donne tra i candidati, esse non sono state inserite nell’elenco di coloro selezionati.
Gli obiettivi di assunzione vengono individuati sulla base di calcoli che tengono
conto, tra l’altro, delle esigenze e delle caratteristiche di ciascuna Direzione generale,
nonché del numero di pensionamenti previsti negli anni coperti da ciascun programma.
Secondo quanto previsto dalla Strategia 2010-2014, entro il 2014 le donne dovranno
essere il 26,7% dei senior manager, il 30,7% dei middle manager e il 43,6% degli altri
amministratori. Tali percentuali globali per la Commissione, sono differenziati per le
varie Direzioni generali, ciascuna delle quali è tenuta a elaborare un piano multi annuale
che preveda le azioni necessarie per il raggiungimento degli obiettivi e a misurare con
scadenza annuale il raggiungimento o meno degli stessi. In caso di mancato
raggiungimento non è prevista alcuna forma di sanzione. I dati vengono, tuttavia,
pubblicati (secondo il principio del naming and shaming) e le Direzioni più virtuose
vengono premiate con un’etichetta che possono utilizzare nelle comunicazioni con i
funzionari della Commissione.
Al fine di poter offrire al proprio staff un ambiente di lavoro che permetta di
conciliare vita privata e vita lavorativa e con l’idea di modernizzare l’organizzazione
del lavoro dando priorità ai risultati, a partire dal 2007, la Commissione ha introdotto
l’utilizzo del telelavoro e del tempo flessibile44.
Il primo permette, a chi ne faccia richiesta, di poter lavorare fuori dall’ufficio sia
su base permanente (massimo due giorni e mezzo a settimana), sia in modo saltuario
(per un massimo di trenta giorni all’anno)45. Lo strumento non ha, tuttavia, trovato
grande utilizzo. Meno del’1% dei funzionari della Commissione lo utilizzano. Di questi,
il 67% sono donne e occupano principalmente posizioni segretariali46.
Il tempo flessibile consente, invece, di gestire, entro certi limiti, l’orario di
entrata e uscita dal lavoro e la pausa pranzo secondo le esigenze del lavoratore. Il
funzionario deve garantire giornalmente la propria presenza sul luogo di lavoro in
determinate ore del giorno, mentre può lavorare di più un giorno e meno un altro in
modo da raggiungere un totale prestabilito di ore settimanali. Dei circa 80% dei
funzionari che utilizzano il tempo flessibile, più del 50% sono donne.
Sia per il telelavoro che per il tempo flessibile, però, non vi sono dati che
permettano di individuare quanto vengano utilizzati tali strumenti nelle posizioni
manageriali. Lo stesso vale per il part-time, altro strumento di lavoro flessibile
utilizzato all’interno della Commissione e previsto dallo Statuto per i funzionari di tutte
le istituzioni comunitarie. Nella Commissione solo circa il 12% dei funzionari ne fa
utilizzo e di questi, pur con una lieve diminuzione della percentuale nel tempo, più
dell’80%, come si è detto, sono donne47. Anche il congedo parentale è più utilizzato
dalle donne (circa quattro volte il numero degli uomini che lo utilizzano)48.
44
La Guida al flexitime (Administrative notice n. 62 del 21 dicembre 2006) e il memorandum della
Commissione sull’uso del telelavoro (C(2006)2831) sono stati formalmente approvati nel dicembre 2006
e applicati a tutte le Direzioni generali dal 1 aprile 2007.
45
Commissione europea, Commission Decision of 18 December 2009 concerning the implementation of
teleworking in Commission departments from 2010 to 2015, C(2009)10224, 18 dicembre 2009.
46
Id., Human Resources Report 2012, cit.
47
Ibid. Dal 2008 in cui la percentuale delle donne era circa l’86% si è passati, nel 2011 all’84%.
48
Ibid.
37
L'utilizzo del part-time e del congedo parentale presuppone che il lavoratore
assente venga sostituito. Il fatto che siano le donne a farne maggior uso può quindi
divenire un meccanismo di discriminazione di genere. Le sostituzioni brevi sono, infatti,
più problematiche sia perché sono meno i lavoratori disposti ad assumere un lavoro per
brevi periodi, sia perché dal punto di vista burocratico tali assunzioni sono difficili da
gestire (il procedimento di assunzione è, di solito, abbastanza lungo e si rischia di
assumere un lavoratore quando il congedo parentale è terminato o lo è quasi). Questo
può indurre a preferire l’assunzione di uomini.
Accanto ai descritti strumenti di lavoro flessibile, i manager sono incoraggiati,
attraverso comunicazioni interne e corsi di formazione, a organizzare il lavoro in modo
da permettere di conciliare vita lavorativa e professionale (ad esempio, fissando
riunioni in orari che non ostacolino i funzionari con famiglia) e a promuovere la
flessibilità lavorativa con il proprio esempio.
Tutti i corsi di formazione all’interno della Commissione devono tener conto e
promuovere la politica della parità di genere. Specifici training sulle pari opportunità
vengono, tuttavia, impartiti ai funzionari donne e uomini e corsi di formazione e
incontri informativi sulle molestie sulle donne vengono organizzate periodicamente sia
per i manager che per il resto del personale.
Vi sono, poi, meccanismi di comunicazione interna sulle pari opportunità,
gestite generalmente dagli uffici delle risorse umane di ciascuna Direzione generale, il
cui principale obiettivo è portare a conoscenza dei funzionari le problematiche legate
alla parità di genere.
Alcune Direzioni Generali hanno, infine, introdotto ulteriori strumenti, come ad
esempio la costituzione di reti di donne volte a promuovere la parità di genere attraverso
iniziative mirate oppure la possibilità di assumere personale a contratto per la
sostituzione di maternità o per congedi parentali non solo per brevi periodi. In pratica, il
sostituto non viene assunto dalla singola unità che ne ha bisogno ma dalla Direzione
generale, cosicché, finita la sostituzione di maternità, il sostituto può occupare ulteriori
posti che si dovessero liberare sia su base temporanea (per maternità o malattia), sia in
modo permanente.
La segregazione delle donne in posizioni inferiori (AST) e l'accesso di donne a
posizioni dirigenziali rimangono i problemi più gravi all’interno delle istituzioni
europee, il secondo soprattutto in un periodo in cui i tagli di personale stanno riducendo
il numero delle posizioni disponibili in termini assoluti.
Per favorire l’aumento degli uomini in posizioni AST la Commissione ha
avviato una campagna di comunicazione il cui obiettivo consiste nel presentare tali
posizioni come attrattive anche per gli uomini, senza tuttavia stabilire dei targets di
assunzione.
Per incentivare l’aumento del numero di donne in posizioni dirigenziali sono
invece disponibili corsi di formazione dedicati alle donne, volti a prepararle, adottando
un punto di vista specificamente femminile, a occupare posizioni manageriali.
All’interno di alcune direzioni della Commissione, sono stati inoltre attivati
diversi progetti innovativi per incentivare la presentazione di domande per posizioni
manageriali da parte di donne, come coaching, mentoring e networking. Nei programmi
di mentoring, per esempio, alcune funzionarie che si trovano nella posizione per poter
essere promosse vengono associate a dei dirigenti con lo scopo di far loro apprendere
quali siano i compiti di un dirigente, rafforzare in loro la convinzione di possedere le
38
caratteristiche necessarie per riuscire in tale posizione e mostrare loro come sia
possibile conciliare il lavoro manageriale con la vita familiare.
In generale, il complesso degli strumenti introdotti per favorire le pari
opportunità ha contribuito ad aumentare la presenza femminile nella Commissione. Non
per tutti, però, è stato possibile misurare l'effettivo contributo portato al raggiungimento
di tale risultato. Tra le misure ritenute positive, la presenza di donne nelle commissioni
di concorso ha dato prova di essere efficace, aiutando ad aumentare il numero delle
donne assunte. Secondo un sondaggio effettuato all'interno della Commissione le donne
si sentono infatti più a proprio agio se il proprio sesso è rappresentato nella
commissione di concorso49. I sondaggi fatti tra il personale che utilizza i meccanismi di
lavoro flessibile rivelano, inoltre, come essi non solo aumentino il grado di motivazione
e di produttività, ma abbiano migliorato ampiamente anche la possibilità di conciliare
famiglia e lavoro. Dalle verifiche a posteriori effettuate sembra, infine, che gli strumenti
per incentivare le donne ad accedere a posizioni dirigenziali abbiano portato buoni
risultati, facendo crescere nelle donne la consapevolezza delle proprie qualità e
incoraggiandole a presentare domanda per posizioni superiori50.
Un dato interessante che emerge dagli studi effettuati all'interno dell'istituzione è
che, nonostante le disparità ancora riscontrabili a sfavore delle donne, queste ultime
sembrano essere maggiormente soddisfatte rispetto agli uomini del lavoro svolto e
dell'ambiente lavorativo all'interno dell'istituzione, mentre un rilevante numero di
lavoratori di sesso maschile lamentano di sentirsi discriminati a favore delle donne e
sostengono che le politiche per aumentare la presenza e la posizione occupata dalle
ultime dovrebbero essere eliminate51.
4.2.2. Il Consiglio e il Parlamento
Consiglio e Parlamento europeo utilizzano per i propri funzionari strumenti
simili a quelli descritti per la Commissione, anche se in misura meno ampia, considerate
le ridotte dimensioni delle due istituzioni rispetto alla Commissione.
Non sono previsti per il reclutamento al Consiglio specifici obiettivi di
assunzione per le donne. Tuttavia, come si è visto, la presenza femminile nelle diverse
categorie rispecchia grosso modo quella della Commissione. Lo stesso vale per il
Parlamento, dove solo per le posizioni più elevate sono previsti dei target di assunzione.
Per ovviare al problema della scarsa presenza di donne nelle posizioni dirigenziali,
inoltre, nel 2007 è stato avviato un progetto pilota di formazione specifica per donne
che intendono diventare manager e circa il 29% delle partecipanti ha potuto
effettivamente accedere a posizioni superiori.
Al Consiglio, per incentivare le donne ad accedere a posizioni dirigenziali, oltre
ad organizzare corsi di formazione, sono state avviate attività di coaching per donne che
aspirino a diventare dirigenti.
Il Parlamento è da diverso tempo impegnato nel creare un ambiente lavorativo
che favorisca la diversità e le pari opportunità52. Attività di sensibilizzazione e
49
Commissione europea, DG for personnel and administration, Evaluation of the fourth action
programme for equal opportunities for women and men at the European Commission, luglio 2009.
50
Ibid.
51
2010 Staff opinion Survey of Commission staff e 2008 Staff opinion Survey of Commission staff.
52
Parlamento europeo, Les femmes du Parlement Européen, cit.
39
d'informazione, così come l’organizzazione di tavole rotonde e la proiezione di film
aventi tra i principali temi la parità tra uomini e donne, sono periodicamente organizzati.
Sono state inoltre emanate delle linee guida per l’utilizzo di una terminologia neutra dal
punto di vista del genere sia per la comunicazione interna che esterna. Dal 1986 è stato
creato all’interno del Parlamento europeo un Comitato per le pari opportunità e la
diversità (COPEC) con il compito di controllare l’applicazione delle misure per il
raggiungimento della parità di genere all’interno dell’istituzione.
Come meccanismi di flessibilità lavorativa, il Parlamento non ha introdotto,
salvo per alcune mansioni53, strumenti diversi da quelli previsti dallo Statuto (part-time
e congedi parentali) e forse per tale ragione il part-time è maggiormente utilizzato che
nelle altre istituzioni (circa il 38% del personale ne fa utilizzo).
5. Il Regno Unito
5.1. I dati
Nel Regno Unito il processo di affermazione del principio di pari opportunità nel
pubblico impiego è scandito da alcune importanti riforme che, soprattutto negli anni più
recenti, hanno portato le lavoratrici ad acquisire una maggiore visibilità e una più solida
rappresentanza.
Alcuni documenti e rapporti ufficiali dimostrano, infatti, che ancora nel 2005 le
lavoratrici nel settore pubblico versavano in una persistente situazione di
disuguaglianza, soprattutto con riferimento ai salari, e di segregazione in molti settori e
comparti professionali.
Attualmente le donne rappresentano ora il 65% della forza lavoro pubblica54. Vi
è, tuttavia, una settorializzazione nella distribuzione della presenza femminile. A titolo
di esempio, ancora nel 2006 le donne nell’amministrazione di polizia e in quella della
giustizia erano sotto-rappresentate. Il 10% dei Capi della polizia distrettuale erano
donne. E lo erano solo il 10,2% dei giudici della High Court e il 22,2% dei giudici di
distretto. Al contrario le donne erano altamente rappresentate nell’ambito del servizio
sanitario nazionale (78%), anche se solo il 28% occupava posizioni di vertice55.
Inoltre, sebbene al 2012 la rappresentanza nel senior civil service risulta quasi
duplicata rispetto al 1996, essa è ancora minoritaria: 37,1%. L’obiettivo è quello di
arrivare al 39% alla fine del 2013.
La percentuale dei top manager nel settore pubblico è del 31% (aprile 2012) e
anche qui il target fissato è il 34% nel 2013. Il 50% delle funzioni di segreteria nel civil
service sono svolte da lavoratrici56.
Questi obiettivi si legano, inoltre, all’attuazione del progetto Leaders Unlimited
avviato dal governo nel 2007 e che ha lo scopo di arrivare nel 2013 a una
rappresentanza femminile pari al 35% negli inquadramenti superiori e dirigenziali del
lavoro pubblico. Il programma non si rivolge solamente alla diseguaglianza di genere,
53
Il telelavoro è disponibile solo per i servizi di traduzione.
ONS, Economic and Social Data Service, Quarterly Labour Force Survey Household Dataset, aprile –
giugno, 2010.
55
I dati sono tratti da K. Miller, Leadership and Gender – Dilemmas in Uk Public Administration, paper
presentato al 3rd Transatlantic Dialogue dal titolo “Leading the Future of the Public Sector” tenutosi a
Newark, Delaware nel Maggio – Giugno del 2007
56
Dati tratti da http://www.civilservice.gov.uk/about/resources/monitoring-diversity
54
40
ma alle condizioni di sottorappresentazione dovute alla disabilità o alla appartenenza ad
una minoranza etnica57.
Posizione
lavorativa
2007
2012
Senior Civil servants
(alti
funzionari
pubblici)
Top
Managers
(dirigenti)
32%
37,1%
26,6%
31%
2013
(previsioni)
39%
34%
Tabella 19, Rappresentanza femminile nelle posizioni di leadership nel settore pubblico in percentuale
Nel governo locale le donne occupano il 21,3% delle posizioni dirigenziali
(chief executives) e rappresentano il 14,3% dei senior policy officers. In particolare, per
quanto riguarda il local government i dati più recenti dimostrano che in Inghilterra e
Galles gli impiegati presso le 375 autorità locali sono 2,244,400 (giugno 2010), i tre
quarti dei quali sono di sesso femminile (75,1%) di cui un po’ più della metà lavora
part-time (53,5%)58.
In relazione al livello salariale, occorre sottolineare che oggi il gender pay gap è
tendenzialmente meno rilevante nel settore pubblico rispetto a quello privato. I dati
dimostrano che il gender pay gap è pari al 18% nel settore pubblico rispetto al 26,8%
nel settore privato. Per quanto riguarda gli impiegati full time la percentuale scende al
9,8% nel settore pubblico rispetto al 18,4% nel settore privato. I dati degli impiegati
part-time dimostrano delle percentuali molto maggiori: 36,3% nel settore pubblico
rispetto al 42,8% nel settore privato59.
Le lavoratrici part-time soffrono, infatti, una significativa penalità salariale ma
comunque in misura minore rispetto a quelle del settore privato. Infatti il salario più
basso per il lavoro part-time è in misura significativa più alto che nel lavoro privato
(9,98 sterline l’ora contro 7,00 sterline nel settore pubblico).
Inoltre, rispetto al settore privato oggi la lavoratrice full time del settore pubblico
è meglio distribuita lungo l’asse dei livelli salariali, considerato che nel pubblico
impiego è garantita la possibilità di lavorare in maniera flessibile anche in posizioni
professionali più elevate.
In generale, mentre il 56% delle lavoratrici nel settore privato guadagna meno di
300 sterline a settimana, nel settore pubblico la percentuale scende al 35%. Il 28% delle
lavoratrici full time nel settore privato guadagna meno di 300 sterline alla settimana
contro l’8% del settore pubblico. Ancora, il 77% delle lavoratrici part-time nel settore
privato guadagna meno di 200 sterline, mentre nel settore pubblico la percentuale
scende al 47%.
Per quanto riguarda le qualifiche dirigenziali, non c’è molta divergenza
nell’ammontare dei salari dei dirigenti full time di sesso femminile nell’impiego
pubblico rispetto all’impiego privato; tuttavia, i dati sono significativamente diversi con
57
Sul punto cfr. F. Guéot, L’égalité professionnelle homme-femmes dans la fonction publique. Rapport
au président de la République, La Documentation française, 2011, p. 34.
58
Local Government Group, Local Government Demographics, October, 2010.
59
Trade Union Congress (TUC), Women’s Pay and Employment Update: a public/private Sector
Comparison. Report for Women’s Conference 2012, 2012.
41
riferimento al lavoro part-time. Se, infatti, il 10% delle manager donne nel pubblico
impiego guadagnano il 15% in meno rispetto alle lavoratrici full time per la stessa
posizione, le colleghe impiegate nel settore privato guadagnano il 50% in meno60.
5.2. I soggetti istituzionali, la legislazione, le azioni positive
In linea generale fin dagli anni ‘70 del secolo scorso, tanto per l’impiego privato
quanto per l’impiego pubblico, vale il divieto per il datore di lavoro di porre in essere
comportamenti discriminatori in base al sesso (Sex Discrimination Act del 1975, c. 65).
Inoltre, l’Equal Pay Act del 1970 riconosceva il diritto di ogni lavoratore,
indipendentemente dal sesso, a vedersi riconosciuto il medesimo livello salariale e i
medesimi benefici per il lavoro prestato.
Tuttavia, i lenti progressi nel livello di rappresentanza femminile all’interno del
pubblico impiego hanno spinto il governo a promuovere, in anni più recenti,
significative politiche di riforma. A partire del 2005 sono state, quindi, avviate una serie
di iniziative per promuovere nell’ambito in particolare del civil service e del local
government i principi dell’uguaglianza e della diversità nell’impiego pubblico61.
Le Employment Equality (Sex Discrimination) Regulations del 2005 hanno
introdotto una definizione più puntuale dei comportamenti discriminatori e delle
molestie sul luogo di lavoro a danno delle lavoratrici e proibito esplicitamente le
discriminazioni che trovano la loro ragion d’essere nello stato di gravidanza della donna
o nella sua condizione di madre.
Gli Equal Opportunity Acts del 2006 e del 2010 hanno portato a compimento un
approccio maggiormente sistematico al problema delle pari opportunità, riconoscendo
alle pubbliche amministrazioni un ruolo centrale sia come soggetti regolatori che come
datori di lavoro.
Con l’Equal Opportunity Act del 2006 si è dato vita, in particolare, a un
organismo pubblico specifico cui sono assegnate funzioni di garanzia, tutela e
promozione delle pari opportunità.
A capo di tale organismo è posta la Commission for Equality and Human Rights
cui sono state assegnate le competenze già esercitate dall’Equal Opportunities
Commission, dalla Commission for Racial Equality e dalla Disability Rights
Commission.
In generale, alla Commissione è affidato un potere di vigilanza nell’ambito del
quale essa può procedere alla pubblicazione di guide e relazioni per sostenere l’operato
delle pubbliche amministrazioni, richiedere a quest’ultime la pubblicazione dei dati e
delle informazioni rilevanti, svolgere inchieste e, infine, ricorrere ad ogni rimedio
giurisdizionale assicurato dall’ordinamento, tra cui, in particolare, la procedura di
judicial review, che può essere avviata dalla Commissione per garantire la
soddisfazione degli interessi da essa perseguiti.
Ogni pubblica amministrazione e ogni soggetto esercente una pubblica funzione
deve rispettare il c.d. gender equality public duty, che è parte di un più generale dovere
60
61
Ibid.
UK Civil Service, Delivering a Diverse Civil Service: A 10-point Plan, 2005.
42
di non discriminazione contenuto e disciplinato dalla Part 11 dell’Equality Act del
201062.
Quest’ultimo è un'espressione di sintesi che rinvia a una serie di obblighi
specifici tra cui, in particolare, quello di eliminare le discriminazioni e le molestie in
base al sesso e di promuovere l’uguaglianza e la parità nelle opportunità per donne e
uomini.
Da un punto di vista teorico generale, il gender equality public duty rappresenta
uno specifico public statutory duty che impone ai soggetti pubblici che ne sono
destinatari un obbligo di garantire l’attuazione delle misure e delle azioni positive più
adeguate per garantire la condizione di uguaglianza rispetto al genere e la cui corretta
osservanza può essere sindacata, come anticipato, nella procedura di judicial review.
Il gender equality public duty deve essere osservato dalle amministrazioni
nell’esercizio delle proprie funzioni, nell’individuazione e nell’emanazione delle
politiche pubbliche (attraverso in particolare un gender impact assessment),
nell’organizzazione dei servizi e nella disciplina e gestione dei rapporti di lavoro.
Le previsioni contenute nell’Equality Act del 2006 sono state attuate attraverso
atti amministrativi interni, ossia la fonte di disciplina principale per i rapporti di
pubblico impiego63.
In un primo momento, il recepimento degli specifici contenuti del gender
equality duty è avvenuto, infatti, attraverso il Gender Equality Duty Code of Practice
emanato dall’Equal Opportunities Commission nel novembre del 2006 e amministrato
poi dalla Commission for Equality and Human Rights.
Con riferimento al rispetto del dovere di parità nei rapporti di lavoro il Code of
Conduct chiarisce che la pubblica amministrazione è tenuta a vigilare ed eliminare tutte
le condotte discriminatorie nei suoi rapporti di impiego e a promuovere positivamente la
parità di genere all’interno della propria forza lavoro.
Ciò comporta il rispetto di una puntuale attività di pianificazione, raccolta e
analisi dei dati, di fissazione di obiettivi a breve e lungo termine e di monitoraggio sullo
stato di attuazione delle politiche garantendo, quanto più possibile, il coinvolgimento
delle lavoratrici e dei lavoratori.
Nella definizione dei piani e delle azioni occorre assicurare procedure di
reclutamento imparziali, evitando il fenomeno della c.d. occupational segregation, vale
a dire della eccesiva concentrazione di donne o uomini in una medesima funzione e
servizio.
Allo stesso tempo, si sottolinea l’esigenza di promuovere posizioni di lavoro
flessibile assicurando la possibilità per le lavoratrici e i lavoratori di accedere al lavoro
part-time anche nelle posizioni lavorative dirigenziali, oltre che di gestire in maniera
adeguata i congedi parentali e la sospensione dal lavoro per le lavoratrici in stato di
gravidanza.
Infine, si auspica una revisione delle procedure disciplinari e dei livelli salariali
e pensionistici al fine di garantire il principio della equal pay for equal work.
62
Section 76A Sex Discrimination Act del 1975 così come modificato dall’Equal Opportunity Act del
2006.
63
Al riguardo si vedano il Civil service code of conduct e il Civil service commissioners’ recruiment code
che regola le procedure di assunzione. Analoghe disposizioni operano a livello locale e nei settori
specifici.
43
L’attuazione in via amministrativa degli obiettivi legislativi ha rappresentato un
limite alla riforma del 2006, nonostante sia stato riconosciuto alla Commission for
Equality and Human Rights un potere di controllo molto penetrante.
In questo contesto, l’emanazione dell’Equality Act del 2010 ha inteso rafforzare
e ulteriormente declinare i doveri e le azioni positive in capo alle pubbliche
amministrazioni, disciplinandoli direttamente in via legislativa.
La normativa del 201064 intende garantire una attuazione maggiormente efficace
del principio di pari opportunità nel settore pubblico attraverso una più precisa
definizione dei public sector equality duty (section 149) e delle azioni positive da
attuare attraverso il reclutamento e la gestione dei rapporti di lavoro.
Tutte le pubbliche amministrazioni elencate nella Schedule 19 allegata alla legge
sono, quindi, tenute a considerare nell’esercizio delle loro funzioni tre specifici
obiettivi: i) l’eliminazione di ogni condotta contraria alla previsioni legislative65; ii) la
promozione dell’uguaglianza e delle pari opportunità a favore di soggetti che
condividono una protected characteristic data dalla razza, dalla disabilità, dal credo
religioso, dall’orientamento sessuale, dalla condizione matrimoniale o di unione civile,
dall’età, dal sesso, dalla condizione di gravidanza o maternità; iii) l’instaurazione di
rapporti corretti tra soggetti protetti e il resto della collettività.
La Part 5 dell’Act richiama il principio dell’equal pay tra donne e uomini e
chiarisce alcuni profili relativi al salario della donna in stato di gravidanza e durante la
maternità. In quest’ottica si chiariscono altresì alcune delle condizioni di legittimità dei
c.d. pay protection schemes (section 69(3)). Questi ultimi sono dei piani che consentono
di mantenere temporaneamente la condizione di disuguaglianza al fine di garantire un
riavvicinamento delle condizioni salariali nel lungo periodo.
Con riferimento alle azioni positive la legge prevede che nelle procedure di
selezione e promozione del personale il datore di lavoro pubblico possa prendere in
considerazione la condizione protetta di un lavoratore per la sua assunzione o
promozione (section 159 (3)). Tale facoltà opera, però, a due condizioni: l’azione
positiva vale a parità di merito tra i candidati e la categoria svantaggiata deve essere
sotto rappresentata in quel particolare settore.
Dai primi dati pubblicati sull’attuazione delle riforme risulta come tra i
principali strumenti che hanno contribuito all’aumento della presenza delle lavoratrici
nel settore del pubblico impiego vi sia il ricorso a strumenti di lavoro flessibile o al
part-time (53% nel 2008 contro il 48% del 1997) 66.
64
L’Equality act del 2010 trova applicazione in Inghilterra e in Galles e in Scozia (tranne che per la
section 190 e per la part 15). Contiene inoltre alcune previsioni di diretta applicazione per l’Irlanda del
Nord. I doveri in esso espressi si applicano ai listed public bodies tra cui rientrano i dipartimenti del
governo centrale, il governo locale e il sistema sanitario nazionale. Alcune regole specifiche sono previste
per alcuni particolari settori come per esempio quello della polizia.
65
La legge tipizza le condotte discriminatorie che possono concretizzarsi in casi di direct discrimination,
associative discrimination; discrimination by perception; discrimination arising from disability; indirect
discrimination; harassment e victimisation.
66
UK Civil Service, Promoting Equality, Valuing Diversity. A strategy for the Civil Service, luglio 2008.
44
6. La Francia
6.1. Le donne nelle pubbliche amministrazioni: lo status quo alla base e ai vertici
Sulla presenza femminile nelle pubbliche amministrazioni, la Francia non
presenta dati dissimili dagli altri paesi europei. Il divario tra presenza femminile nelle
pubbliche amministrazioni nel loro complesso e presenza femminile nelle posizioni
apicali all’interno di queste amministrazioni; la distribuzione tra diverse tipologie di
amministrazioni che riflette un’impostazione tradizionale delle competenze; l’uso del
part-time e del congedo parentale in modo maggioritario da parte delle donne, anziché
degli uomini; le differenze salariali sono gli elementi che emergono da una prima analisi
dei dati67.
Rispetto al settore privato, le amministrazioni pubbliche sembrano virtuose: le
donne costituiscono il 59,8% del personale pubblico. Ma la diversa distribuzione per i
tre settori della funzione pubblica francese rivela, altresì, un retaggio tradizionale:
all’interno della funzione pubblica dello Stato il 51,7% sono donne, in quella territoriale
le donne sono il 61%, in quella sanitaria sono il 76,7%. Se ulteriormente spacchettato,
ciascuno di questi dati è, poi, particolarmente indicativo delle differenze indotte da una
cultura tradizionale. All’interno delle amministrazioni dello Stato la presenza femminile
è prevalente nei settori dell’istruzione, degli affari sociali e dell’economia:
nell’istruzione le donne sono il 66,1% del personale, nel Ministero degli Affari Sociali il
63,8%, nel Ministero dell’Economia e delle Finanze il 59%. Al contrario, i numeri sono
considerevolmente inferiori nel Ministero dell’Ambiente dove le donne sono il 33,8%
del personale, in quello dell’Interno dove si scende al 33,1%, in quello della Difesa, in
cui la presenza femminile si attesta su uno scarso 18,9%.
Numerose alla base della gerarchia, le donne diventano poche ai vertici delle
amministrazioni o in ruoli di maggiore responsabilità. Nella sanità, sebbene le donne
rappresentino la maggioranza, di questa l’80% è costituito da personale non medico. Di
29 rettori, 6 (il 20,7%) sono donne. Su 163 dirigenti presso l’amministrazione centrale,
vi sono 32 donne (il 19,6%). Tra i 155 ambasciatori, ve ne sono solo 17 (ossia l’11%). E
i numeri sono ancora più bassi per i prefetti: 192 in totale di cui 19 donne (il 9,9%).
Appena 7 donne su 107 (il 6,5%) sono tesorieri generali. E, in generale, si assiste a un
rallentamento nell’avanzamento di carriera per le donne a partire dai trent’anni in poi, in
coincidenza dell’arrivo del primo figlio.
Che tra le cause della mancata attribuzione di ruoli di vertice alle donne possano
esservi interruzioni e discontinuità del lavoro dovute allo svolgimento di compiti di cura
familiare è, d’altra parte, dimostrato dai dati relativi al part-time e al congedo parentale.
Nel 2008 all’interno dell’amministrazione centrale dello Stato ha fatto ricorso al tempo
parziale il 16,8% delle donne contro il 2,5% degli uomini. Interrogati sui motivi che
spingono a optare per il tempo parziale, le ragioni addotte da donne e uomini sono
differenti. Per il 45,3% delle donne sono motivi familiari che determinano la scelta. E
questa diventa più probabile al crescere del numero di figli (il 24,7% delle donne con un
figlio, il 36% delle donne con due figli, il 46% delle donne con tre figli). Per gli uomini,
67
I dati del par. 6.1. si riferiscono al 2008 e sono tratti da F. Guéot, L’égalité professionnelle hommefemmes dans la fonction publique. Rapport au président de la République, La Documentation française,
2011 e da Direction générale de la cohésion sociale, Les chiffres-clés de l’égalité entre les femmes et les
hommes, 2010.
45
invece, le giustificazioni sono più eterogenee: alcuni lo scelgono perché non trovano
lavoro (il 27,9%), altri per il contemporaneo esercizio di un’altra attività professionale
(il 25,8%), da ultimo, in una percentuale minoritaria, adducono motivi familiari
(10,2%).
Le disparità nelle posizioni coperte e l’uso del tempo parziale e dei congedi
parentali producono conseguenze significative in termini di retribuzioni. Nel 2006 le
donne francesi impiegate presso l’amministrazione statale guadagnavano in media il
15,6% in meno dei loro colleghi uomini. In realtà, posizionamento di carriera e
modalità di lavoro non sembrano essere le uniche cause del permanente del divario
salariale. Al di là della formale attribuzione di salari uguali per mansioni uguali,
permangono sacche di ‘disuguaglianza pura’, come l’attribuzione di indennità di lavoro,
ad esempio premi, bonus ecc., superiori agli uomini rispetto alle donne: il 16% del
trattamento salariale per le donne a fronte del 31% per gli uomini.
6.2. L’evoluzione della ‘specie’ normativa: dalle quote (per gli uomini) alle quote
(per tutti)
Questo quadro è il punto di arrivo di un percorso che, all’origine, si
caratterizzava per numeri ben inferiori rispetto a questi appena illustrati. A partire dal
secondo dopoguerra la presenza femminile nella pubblica amministrazione francese ha
seguito un trend di crescita costante, complice una normativa ad hoc che ha
progressivamente rimosso gli ostacoli alla partecipazione: se nel 1951 la legge ancora
riservava ai soli uomini cinquanta concorsi pubblici per l’accesso a posizioni in vari
settori dell’amministrazione, nel 1974 il divieto di partecipazione alle donne valeva per
ventitré concorsi e in una dozzina di altri si applicavano quote di genere che favorivano
gli uomini; ancora sei anni dopo, nel 1980, sei posizioni erano accessibili solo agli
uomini (all’interno della polizia di Stato e dei servizi postali) e, d’altra parte, due sole
alle donne (insegnamento e supervisione nella scuola femminile della Legion
d’Onore)68.
I primi anni ‘80 sono, però, il punto di svolta nella legislazione in materia di
parità: nel 1981 viene istituito il Ministero dei Diritti delle Donne e nel 1983 è
promulgata la loi Roudy (legge del 13 luglio 1983). Quest’ultima venne concepita in
risposta a due rapporti commissionati dal Ministero69, da cui emergeva che, in
particolare nel settore pubblico, sebbene le donne rappresentassero quasi la metà dei
lavoratori (il 48%), la presenza femminile ‘qualificata’ (ossia per posizioni in cui si
richiedeva una laurea o un titolo equivalente) era esigua e la distribuzione all’interno dei
diversi ministeri influenzata da un’impostazione tradizionale delle competenze. A titolo
di esempio, nel 1982 nell’amministrazione centrale di 184 direttori solo 6 erano donne e
di 438 vice-direttori o analoghi solo 30 erano donne. La partecipazione femminile era
68
I dati sono tratti da L.L. Clark, The Rise of Professional Women in France, Cambridge, Cambridge
University Press, 2000, p. 298.
69
A. Michel, M. Reberioux, Les femmes en France dans une société d'inégalités. Rapport au Ministre des
Droits de la Femme, Paris, La Documentation française, 1982. A. Davisse, Les femmes dans la fonction
publique. Rapport au ministre de la Fonction publique et des Réformes administratives, Paris, La
Documentation française, 1983.
46
del 45% nei Ministeri del Lavoro e della Salute, ma scendeva al di sotto del 20% nei
Ministeri degli Interni, delle Finanze, dei Lavori pubblici e dell’Industria70.
La loi Roudy interviene su diversi aspetti del problema della parità genere:
accesso e condizioni di lavoro, formazione, promozione e valorizzazione professionale.
Essa segna il passaggio da una politica guidata dall’obiettivo della tutela delle donne a
una ispirata al principio della realizzazione dell’uguaglianza tra uomini e donne71. Essa
ha, peraltro, declinato il concetto di uguaglianza in senso ampio, prevedendo misure che
promuovessero sia l’uguaglianza dei diritti, che quella delle opportunità. Sotto il primo
profilo, ha introdotto il principio di non discriminazione, dandovi particolare
applicazione in tema di retribuzione. Ha modificato e rafforzato le relative previsioni
del Codice civile e del Codice del lavoro stabilendo la parità di retribuzione a parità di
posizione. Ha portato all’abolizione delle residue quote di genere nelle pubbliche
amministrazioni e delle residuali restrizioni all’accesso di alcune posizioni. Sotto il
secondo profilo, ha previsto la possibilità che amministrazioni pubbliche e imprese in
accordo con i sindacati possano adottare azioni positive volte a promuovere una
maggiore parità su questioni quali formazione, reclutamento e promozione nella
carriera72.
Quest’intervento legislativo, pur avendo contribuito alla crescita della presenza
femminile nelle amministrazioni, non ha, tuttavia, negli anni successivi realizzato
l’obiettivo di parità sperato. A livello istituzionale, la presidenza Chirac aveva
addirittura portato all’eliminazione del Ministero per i Diritti delle Donne, sostituito con
un ufficio alle dipendenze del Ministero degli Affari sociali. Inoltre, alla fine degli anni
‘80, se da un lato, le percentuali della presenza femminile nelle pubbliche
amministrazioni si erano complessivamente alzate rispetto al passato, dall’altro
rimaneva un gap significativo nei posti di vertice: nel 1988 erano donne solo il 12% dei
direttori e 34 dei 353 ispettori generali presenti nei vari ministeri73. I motivi, secondo
alcune opinioni critiche, erano principalmente il ricorso al tempo parziale da parte delle
donne, inadeguati i servizi per l’infanzia che consentissero alle donne il rientro dal
lavoro dopo la maternità e, in generale, l’assenza di adeguati controlli sulla effettiva
attuazione della normativa74.
Bisogna, quindi, aspettare il primo decennio del XXI secolo per un rinnovato
interesse su queste tematiche e per altre iniziative legislative di riforma in materia che
abbiano un impatto sulla pubblica amministrazione. Nel 2001 viene promulgata la loi
Génisson (legge del 9 maggio 2001). L’obiettivo è creare un dialogo sociale sulla
questione dell’uguaglianza professionale tra donne e uomini. In particolare, essa impone
alle imprese di tenere annualmente dei negoziati su temi quali remunerazione,
formazione e organizzazione del lavoro in vista poi della redazione di relazioni che,
sotto questi profili, offrano una visione comparata delle situazioni di donne e uomini
all’interno dell’impresa stessa. Sulla base di queste relazioni sarà poi possibile stilare
dei piani annuali e pluriennali per l’adozione e l’attuazione di misure concrete
70
I dati sono presi da A. Davisse, Les femmes dans la fonction publique. Rapport au ministre de la
Fonction publique et des Réformes administratives, cit.
71
Così in F. Guéot, L’égalité professionnelle homme-femmes dans la fonction publique. Rapport au
président de la République, La Documentation française, 2011, p. 11.
72
Sui due punti ibid
73
Il dato è riportato in L. L. Clark, The Rise of Professional Women, cit., p. 300.
74
Ibid.
47
all’interno di ciascuna impresa per favorire l’uguaglianza professionale tra donne e
uomini. Ma la legge, concepita principalmente per il settore privato, introduce novità
rilevanti anche nel settore pubblico. Essa, infatti, richiede la presenza equilibrata di
donne e uomini all’interno di commissioni di concorso e di esami professionali. A
questa previsione segue un decreto che fissa una quota minima del 30% per la presenza
di donne e uomini solo nelle commissioni giudicatrici della funzione pubblica75.
E’ su quest’idea dell’applicazione paritaria e non discriminatoria – come era
invece avvenuto nell’immediato dopoguerra - delle quote che si è sviluppata la
disciplina più recente. La legge del 12 marzo 2012, infatti, ne amplia notevolmente la
portata, sia perché applica quest’idea a numerose altre ipotesi, sia perché alza la
percentuale di quota minima, sia perché prevede un articolato sistema di sanzioni
progressive in caso di inadempimento. Al contempo, essa interviene in modo più o
meno efficace su altri due aspetti, l’accountability inter-istituzionale relativa
all’attuazione delle politiche di genere da parte delle singole amministrazioni e il
congedo parentale.
6.2.1. Gli obblighi di accountability inter-istituzionale
La legge del 12 marzo 2012 richiede la presentazione da parte del Governo al
Parlamento di una relazione annuale in cui si illustrano le misure adottate a favore della
parità nel Consiglio comune della funzione pubblica (Conseil commun de la fonction
publique, CCFP). Tale rapporto dovrà dare conto dei dati su assunzioni, presenza
femminile nelle commissioni giudicatrici, formazione, orario di lavoro, avanzamento di
carriera, condizioni di lavoro, retribuzione, conciliazione tra vita lavorativa e personale
(art. 50 della legge).
Inoltre, l’esecutivo è tenuto a redigere un rapporto annuale relativo al
raggiungimento degli obiettivi di uguaglianza professionale tra donne e uomini nel
quadro nel dialogo sociale. Tale rapporto deve essere trasmesso ai comitati tecnici dei
ministeri, ma anche alla collettività e alle amministrazioni sanitarie. Esso deve
contenere dati relativi alle condizioni generali di impiego e formazione di donne e
uomini, in maniera analoga a quanto già previsto per le imprese private dalla loi
Génisson (art. 51 della legge).
6.2.2. Le quote
La novità di maggiore rilievo della legge riguarda, però, l’estensione di quote
minime di presenza femminile e maschile a organi nei quali la loi Génisson non li
prevedeva (artt. 52- 56 della legge). Viene richiesta una presenza femminile (e
maschile) minima del 40% all’interno dei Consigli superiori delle tre funzioni pubbliche
(Conseil supérieur de la fonction publique d'Etat –CSFPE, Conseil supérieur de la
fonction publique territoriale –CSFPT, Conseil supérieur de la fonction publique
hospitalière –CSFPH). La stessa quota, inoltre, deve essere applicata a partire dal 31
dicembre 2013 ai rappresentati dell’amministrazione e delle collettività in seno alle
Commissions Administratives Paritaires (CAP).
75
Décret n°2002-766 du 3 mai 2002 relatif aux modalités de désignation, par l'administration, dans la
fonction publique de l'Etat, des membres des jurys et des comités de sélection et de ses représentants au
sein des organismes consultatifs, 3 maggio 2002.
48
Ancora, per il 2015 deve essere raggiunta la quota del 40% nella formazione dei
membri delle commissioni e dei comitati di selezione costituiti per il reclutamento e le
promozione dei funzionari stessi, anche se eccezioni possono essere previste in virtù di
specifiche previsioni statutarie.
Ma la novità più originale e rilevante della legge riguarda gli alti funzionari. Le
nomine per posizioni di vertice e di direzione dello Stato, delle regioni, dei dipartimenti,
dei comuni, delle imprese pubbliche di cooperazione inter-comunale con più di 80.000
abitanti, della funzione pubblica sanitaria, devono essere fatte nel rispetto della quota
minima del 40% per ciascuno dei due sessi, con alcune eccezioni che però sono
tassativamente previste.
E’, inoltre, imposta una calendarizzazione di lungo periodo che individua nel
2018 la data finale per il raggiungimento della quota 40% e, a ritroso, nel 2015-2017 il
raggiungimento della quota del 30% e nel 2013-2015 della quota del 20%. Il mancato
adempimento a questi obblighi comporta l’irrogazione di sanzioni pecuniarie fissate in
modo progressivo: 90.000 euro a partire dal 2018, 60.000 euro per le nomine del
biennio 2015-2017, 30.000 euro per gli incarichi relativi al biennio 2013-2014.
La legge dispone, infine, misure specifiche volte ad assicurare l’accountability
delle amministrazioni tenute a questi obblighi: ciascun dipartimento ministeriale,
collettività territoriale (di 80.000 abitati e più) e il centro nazionale di gestione della
funzione sanitaria devono annualmente presentare al contabile assegnatario una
dichiarazione in cui sono indicati gli incarichi conferiti e i dati sulla distribuzione tra i
due sessi delle posizioni di dirigente e superiori. Contestualmente le amministrazioni
inadempienti dovranno versare l’ammontare dovuto.
6.2.3. Il congedo parentale
Assai meno innovativa è, invece, la disciplina sul congedo parentale. La legge
del 12 marzo 2012 si limita sostanzialmente a recepire la direttiva del Consiglio europeo
n. 2010/18/UE. I dati sul congedo parentale mostrano una prassi di netta prevalenza dei
casi di congedi parentali delle donne rispetto a quelli degli uomini. La legge interviene
non ostacolando questa prassi, ma cercando di ridurre l’impatto che il congedo parentale
può avere sugli avanzamenti di carriera. Prevede, infatti, che nel primo anno di congedo
i diritti all’avanzamento di carriera siano conservati nella loro interezza, mentre che nei
tre anni successivi vengano ridotti di metà. In questo modo, almeno nel primo anno, il
congedo parentale è equiparato al servizio effettivo e si irrigidiscono –ma in senso
favorevole per coloro che usufruiscono del congedo- le conseguenze che questo può
avere sulla carriera. Rispetto alla disciplina precedente che prevedeva il dimezzamento
dei diritti già a partire dal primo anno, le legge introduce un incremento marginale
positivo che, nell’ottica del legislatore, dovrebbe rispondere a due obiettivi. Da un lato
garantire un certo agio e sicurezza a coloro che intendono prendere il congedo parentale
senza che vi siano conseguenze sulla carriera. Dall’altro, in assenza di conseguenze –
almeno dal punto di vista formale- sulla carriera, indurre anche gli uomini a usufruire di
questa possibilità. Tuttavia questa soluzione non risolve un problema più profondo: al di
là delle regole formali, i dati dimostrano che i rapporti di lavoro suscettibili di essere
interrotti a causa di uno o più congedi ingenerano nei superiori gerarchici un
atteggiamento di scarsa propensione al ‘rischio’ che li porta a favorire la promozione di
soggetti che non presentano tale incognita. Di più, la soluzione proposta dalla legge
49
rischia di aggravare lo status quo e assecondare il ricorso al congedo parentale da parte
delle donne, che -a maggior ragione in assenza di conseguenze sull’avanzamento di
carriera- si sentiranno incoraggiate a farne uso di più e per periodi più lunghi.
7. La Danimarca
7.1. I dati
Con riferimento alla Danimarca, come per altri Paesi nordici, si è, in passato,
sottolineato il paradosso di minime percentuali di leadership femminile nei settori
pubblico e privato, nonostante la folta rappresentanza politica in Parlamento (rispetto ad
altri paesi di radicata cultura egualitaria, come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia
e l’Irlanda)76.
La percentuale di lavoratrici occupate nel settore pubblico è pari al 74% nel
77
2007 . Oltre la metà ha conseguito un alto livello di istruzione (universitaria e postuniversitaria; master, dottorato e altro). Il confronto con gli impiegati uomini appare
significativo: soltanto il 40% di questi può contare su un analogo grado di istruzione 78.
Nelle procedure di reclutamento dei dipendenti pubblici la parità di trattamento
rappresenta un criterio determinante, pur in assenza di una espressa previsione
normativa di target o quote rosa
Ciononostante, nel 1998, solo il 15% delle posizioni dirigenziali nelle
amministrazioni danesi erano ricoperte da donne (tre volte il valore relativo al settore
privato)79 e nel 2008 lo è circa il 20%80.
Nel quadro delle riforme indicate come New Public Management (attuate in
molti paesi anglosassoni e scandinavi) l’eguaglianza di genere ha costituito, in
Danimarca, una fra le più importanti politiche pubbliche degli ultimi anni.
76
E. Kvande, Kvinner i menns organisasjoner – 10 år efter, in «Kvinneforskning», 1999, n. 3, pp. 6-13, e
P. Norris, Conclusions: Comparing Legislative Recruitment, in J. Lovenduski, P. Norris, London (a cura
di), Gender and Party Politics, Londra, Sage, 1993.
77
OECD, World Development Report 2012. Gender Equality and Development, The Effect of Public
Sector Employment on Women’s Labour Market Outcome, Discussion Paper Series, n. 8468, 2011, p. 3.
78
Fundaciòn de Estudios de Economia Aplicada-Fedea, Rapporto 2011, Figura 8, p. 19.
79
L. Høigaard, Tracing Differentiation in Gendered Leadership: An Analysis of Differences in Gender
Composition in Top Management in Business, Politics and the Civil Service, in «Gender, Work and
Organisation», 2002, n. 1, vol. 9, 2002, pp. 15-39.
80
Si tratta, più precisamente, del 22%, così in H. Kuperus, A. Rode, Latest trends in Top Public
Management in the European Union, in «Eipascope», 2010, n. 1, p. 42.
50
Ministeri
Agenzie
Province
Comuni
6,7
15,9
6,3
10,1
20,4
31,3
26,1
21,9
Dirigenti
generali
Dirigenti
Tabella 20, Percentuale femminile dei dirigenti pubblici (Fonte: Forum for Top Executive Management
2004, E-survey 2 and E-survey 3)81
Riguardo alla flessibilità nel lavoro, il 37,6% delle danesi ha optato, nel 2011,
per contratti di lavoro part-time. Si tratta di una percentuale superiore alla media
europea (32,1% delle donne)82.
Sussiste, inoltre, una differenza di retribuzione salariale: nel 2008 essa
ammontava al 15% per l’intero settore pubblico danese83.
Nelle amministrazioni ministeriali, la maggiore rappresentanza femminile si
registra in quelle preposte a compiti connessi alle infrastrutture (25%), rispetto a quelle
socioculturali (24%), tradizionali o di base (21%) ed economiche (15%)84.
7.2. Le politiche
L’ordinamento danese non prevede un sistema di quote. Il principio di pari
trattamento riveste particolare importanza nel processo di reclutamento e ha sinora
impedito l’introduzione di specifiche quote a tale stadio, fra gli obiettivi delle politiche
di genere nazionali. La materia è disciplinata da una legge generale del 2000 (Act on
Gender Equality), che ha costituito la base per l’adozione di specifiche iniziative
normative antidiscriminatorie relative al trattamento retributivo, agli schemi di
sicurezza sul lavoro e alle condizioni e benefici di allontanamento per la cura dei figli e
per congedo di maternità, paternità e parentale85. Le amministrazioni sono tenute a
rispettare e applicare tali normative per non incorrere nell’annullamento dei
provvedimenti. Per il profilo organizzativo e istituzionale, opera un Consiglio per il pari
trattamento (Equality Board), dotato di specifiche competenze relative ai rapporti di
genere. Al Consiglio compete, in particolare, l’esame dei ricorsi contro le
discriminazioni non soltanto di genere, ma anche razziali, religiose, politiche, sociali,
etniche, di orientamento sessuale e altre.
81
Si veda D.F. Kettl, C. Pollitt, J.H. Svara, Towards a Danish Concept of Public Governance: An
International Perspective. Report to the Danish Forum for Top Executive Management , agosto 2004, t.
5, p. 41, anche diponibile all’indirizzo http://www.publicgovernance.dk/docs/0408260903.pdf
82
Si veda al sito europa.eu/epic/countries/denmark/index_en.htm
83
Fundaciòn de Estudios de Economia Aplicada-Fedea, Rapporto 2011, cit., figura 8, p. 16 (come
confermato dal più recente Rapporto Mercer 2012).
84
Commissione europea, Plus de femme aux postes à responsabilité, cit., p. 64, Tabella 4.
85
Si vedano, fra gli altri, l’Act on Equal Pay to Men and Women, del 27 agosto 2006, n, 906, e la legge
del 27 maggio 2008, n. 387, oltre all’Act on Gender Equality, del 30 maggio 2000, n. 388 (modificato
dalla legge 2 luglio 2002, n. 553), richiamato nel testo (ulteriori riferimenti legislativi disponibili al sito
www.miliki.dk).
51
La disciplina del congedo parentale prevede cinquantadue settimane retribuite,
di cui diciotto e due di astensione obbligatoria rispettivamente per maternità e paternità,
mentre le restanti trentadue settimane disponibili secondo le preferenze della coppia. In
tal modo il sistema risulta fra i più flessibili dei Paesi dell’Unione europea e la larga
maggioranza delle lavoratrici madri, al termine del congedo, ritorna al lavoro alle stesse
condizioni precedenti (per tipo di contratto, numero di ore, posizione e mansioni86).
8. La Germania
8.1. I dati
La presenza femminile nel settore pubblico, in Germania, è cresciuta nell’ultimo
decennio, passando dal 51,4% del 2002 al 54,2% del 201187.
La partecipazione femminile nelle posizioni di vertice dell’amministrazione
tedesca ha subito una lieve flessione negli ultimi anni; per specifici settori, l’incremento
è stato, comunque, di portata contenuta.
Ai vertici delle amministrazioni pubbliche dei Länder e del Bund si contavano,
nel 2007, il 15% di dirigenti donne, un dato ben al di sotto della media europea (pari al
33%). Nel 2009 più di quattro alti funzionari su cinque erano di sesso maschile88 (13%
donne). Con riferimento alle funzioni ministeriali, la rappresentanza femminile è
maggiore nelle amministrazioni incaricate di funzioni socioculturali (29%) rispetto a
quelle economiche (8%) e tradizionali o di base (11%), mentre è addirittura nulla per le
funzioni connesse alle infrastrutture89.
Nelle alte magistrature tedesche, invece, essa è pari al 20%, con poco scarto
rispetto a quelle danesi, che superano appena tale valore90.
Con riferimento al settore dell’università, nel 2010 a concludere gli studi erano
soprattutto donne (51,8%), mentre esse costituivano soltanto il 19,2% del corpo docente
e il 14,6% dei professori di fascia più alta.
86
Si tratta precisamente del 79% delle lavoratrici danesi, dati 2004-2005 (European Foundation for the
Improvement of Living and Working Conditions, Survey 2006, p. 46).
87
G. Bosch, L. Mesaros, G. Schilling, C. Weinkopf, The Public Sector Pay System and public
procurement in Germany. National Report, European Commission Project, University of Duisburg,
November 2012, p. 15.
88
Ibid., p. 62.
89
Ibid., p. 64, Tabella 4.
90
Ibid., p. 68, Grafico 17.
52
Grafico 10, Presenza femminile nei settori della ricerca scientifica 1992-2010 (Fonte: GWK Hrsg.,
Chancengleichheit in Wissenschaft und Forschung. Fünfzehnte Fortschreibung des Datenmaterials
(2010/2011) zu Frauen in Hochschulen und außerhochschulischen Forschungseinrichtungen, Bonn,
2012, tab. 1.1.1 - 1.1.4).
Sul piano nazionale, il ricorso al tempo parziale è, in genere, molto più comune
fra le donne rispetto agli uomini (l’81% dei lavoratori part-time del settore pubblico nel
2011 sono donne) e si registra soprattutto nella fascia d’età fra i 35 e i 49 anni. La
rilevanza delle esigenze di cura familiare nelle soluzioni di organizzazione del lavoro
trova conferma nella percentuale delle donne senza figli in posizioni apicali, pari al
77%91.
Infine, il wage gap è ancora significativo: secondo dati del 2008, esso ammonta
al 15%92 (23% è, invece, il wage gap medio complessivo per tutti i settori) 93. La
maggiore differenza salariale si registra nella fascia d’età più alta
91
I dati sono riferiti rispettivamente al 2009 e al 2008 (Bundesministerium für Familie, Senioren, Frauen
un Jugend, Gleichstellungsbericht im Fokus, ottobre 2011, Factsheets IV e VI, disponibile all’indirizzo
http://www.fraunhofer.de/content/dam/zv/de/ueberfraunhofer/Gesch%C3%A4ftsstelle%20Gleichstellung/Gleichstellungsbericht_Factsheets_2011-1102.pdf ).
92
Fundaciòn de Estudios de Economia Aplicada-Fedea, Rapporto 2011, cit., figura 8, p. 16.
93
Bündesministerium für Familie, Senioren, Frauen und Jugend, Entgeltungleichheit zwischen Frauen
und Männern in Deutschland, 9 luglio 2009, p. 4.
53
(ultracinquantacinquenni e ultrasessantenni)94 ed è in larga misura indipendente dalla
dimensione temporale d’impiego (piena o parziale)95.
8.2. Le politiche
In Germania il dibattito pubblico sulle politiche di genere verte sulle due opzioni
disponibili: l’autoregolamentazione dei datori di lavoro e dei soggetti dotati di
autonomia (Selbstverpflichtung) e l’introduzione di quote vincolanti ex lege per favorire
l’aumento del numero di donne ai vertici delle imprese pubbliche. Tale seconda opzione
è stata, da ultimo, esclusa dal Parlamento federale con riferimento alla composizione dei
consigli di amministrazione e degli organi societari di controllo interno (decisione del
18 aprile 2013).
Nell’ottobre 2011, il governo federale ha lanciato un piano graduale
(Stufenplan), incentrato su quote flessibili (Flexi-Quote) rivolto principalmente alle
imprese del settore pubblico. Tale piano si articola in quattro fasi attuative. Nella prima
(in corso) sono previste misure a favore di un contesto lavorativo compatibile con
impegni familiari, cura e gestione dei figli. Nella seconda fase (pure in attuazione) sono
incluse la volontaria regolazione delle imprese, la realizzazione del Codice tedesco di
Corporate Governance e la promozione di progetti di qualificazione e reclutamento
femminile. La terza fase comporta il vincolo di autoregolazione, valido per tutte le
società quotate in borsa e compartecipate. Esse sono tenute a stabilire e pubblicare una
quota di presenza femminile (Frauenquota) autodeterminata e specifica per l’azienda,
che dovrà essere assicurata entro un termine prestabilito. Tale quota si applicherà sia al
Consiglio di amministrazione, sia all’organo di controllo (Comitato di vigilanza,
collegio dei sindaci e altro). Nella quarta fase, alle imprese che mancano di stabilire la
quota o non conseguono l’obiettivo autodeterminato saranno applicate sanzioni di
diritto societario. Mentre, le imprese che raggiungono una quota almeno pari al 30% di
presenza femminile negli organi interni (Consiglio di amministrazione e Comitato di
controllo), saranno libere da vincoli di quota (clausola liberatoria).
I progressi nell’attuazione del piano sono verificati a scadenza annuale, a partire
dall’estate 201296.
La specifica legislazione sulla parità di uomini e donne nelle amministrazioni e
nei Tribunali federali (Bundesgleichstellungsgesetz - BGleiG), in vigore dal dicembre
2001 e modificata nel 2009, si applica anche alle amministrazioni indirette, alle
autonomie locali e funzionali di natura pubblica, e alle agenzie federali del lavoro e
della sicurezza sociale97. A fronte della concessione di prestazioni (continuative,
somministrazioni) di competenza statale, attraverso i commissariati dei Bundes, a
beneficiari istituzionali, deve essere assicurato – mediante accordi contrattuali – che
questi ultimi adottino i contenuti fondamentali della legislazione federale sulla parità di
genere.
Nel caso di discriminazione salariale di genere nelle imprese pubbliche,
l’ordinamento tedesco prevede, inoltre, il diritto del lavoratore di presentare reclamo ad
94
Commissione europea, The Gender Pay Gap in Europe from a Legal Perspective, maggio 2010, p. 9.
Ibid., p. 10.
96
Al 10 febbraio 2013, i risultati non sono ancora pubblici.
97
Ed, inoltre, alle amministrazioni pubbliche in forma privata e alle imprese pubbliche federali in via di
privatizzazione.
95
54
un organo interno della società, appositamente costituito. Tale procedimento non
preclude il ricorso agli ordinari strumenti di tutela giurisdizionale e comporta alcune
fondamentali garanzie, incluso il diritto a essere ascoltati e informati sull’esito della
considerazione dei motivi fatti valere nel procedimento98.
Con riferimento al sistema della ricerca universitaria, nel quadro delle politiche
di gender equality promosse dal Bund e dai Länder, si segnala l’introduzione da parte
del Consiglio nazionale delle ricerche (Deutsche Forschungsgemeinschaft) di un
modello di quote a cascata. Tale modello prevede l’assunzione del rapporto numerico di
genere fra i laureati come base per la determinazione, da parte delle amministrazioni
universitarie e delle Facoltà, della quota-obiettivo da perseguire e rispettare anche nelle
altre componenti del sistema di ricerca e docenza, a garanzia delle pari opportunità 99. Si
tratta, in questo caso, di raccomandazioni formalmente non vincolanti, tuttavia di fatto
efficaci: il rispetto della quota è, infatti, condizione per l’erogazione dei finanziamenti
federali alla ricerca scientifica universitaria.
Da ultimo, il governo federale ha introdotto il Kinderbetreuungsgeld, un
beneficio economico per i genitori di bambini fino a tre anni di età che preferiscano
prendersene cura personalmente anziché affidarli ad asili nido100. La misura è volta a
rimediare all’insufficienza dei posti disponibili in tali strutture sul territorio nazionale.
Tuttavia, la nuova norma rischia di determinare – oltre ad esorbitanti costi di attuazione
– una consistente decrescita della presenza femminile nel mercato del lavoro ed effetti
negativi sullo sviluppo delle abilità, cognitive e non, delle bambine e sui relativi
rapporti con fratelli e sorelle più grandi101.
Di largo consenso godono, invece, i programmi di conciliazione del lavoro e
della vita familiare promossi a livello federale in cooperazione con le associazioni
industriali e la rete delle imprese tedesche102.
Quanto al congedo parentale, la riforma del 2007 è valsa ad introdurre incentivi
economici a favore dell’astensione della coppia di neo-genitori lavoratori. Rispetto alla
regola dei dodici mesi di congedo per maternità retribuito103, tale riforma prevede uno
schema “12+2”, in cui due mesi sono disponibili per il congedo di paternità104. Ad
98
Commissione europea, The Gender Pay Gap in Europe from a Legal Perspective, cit., p. 16.
Vale a dire, con riferimento alla selezione di dottorandi, assistenti scientifici, Junior Professor,
abilitanti e professori di prima e seconda fascia: si veda Dfg, Forschungsorientierte
Gleichstellungsstandards,
2
febbraio
2008
(disponibile
all’indirizzo
http://www.dfg.de/download/pdf/foerderung/grundlagen_dfg_foerderung/chancengleichheit/forschungsor
ientierte_gleichstellungsstandards_en.pdf); per il sistema delle scienze giuridiche, il recente documento
del Wissenschaftrat, Perspectiven des Rechtswissenschaft in Deutschland. Situation, Analysen,
Empfehlungen, Hamburg, 9 Novembre, 2011, sp. p. 41 ss.
100
La norma sarà applicata a partire dal primo agosto 2013 (si veda il sito
www.bmfsfj.de/BMFSFJ/Kinder-und-Jugend/kinderbetreuung.html).
101
Per un’analisi delle problematiche rilevanti nella discussione pubblica sul tema, si vedano i documenti
disponibili
ai
seguenti
indirizzi
http://ftp.iza.org/dp6440.pdf
e
http://www.fes.de/forumpug/documents/BroschuereVerfassungsrechtlicherRahmeneinesBetreuungsgelde
s09_000.pdf .
102
Si tratta di programmi sviluppati soprattutto con riferimento al settore dell’impiego privato
(http://www.erfolgsfaktor-familie.de/default.asp?id=70).
103
Di tale periodo, quattordici settimane sono retribuite al 100%, il resto al 65% dello stipendio della
lavoratrice prima della maternità (vi fa ricorso la maggioranza delle lavoratrici). L’astensione facoltativa
non retribuita è possibile, per la lavoratrice, fino al compimento del terzo anno di età del bambino.
104
Quattordici mesi è anche la durata del congedo disponibile per madri e padri single.
99
55
avvantaggiarsi di tale opportunità sono soprattutto padri con un più alto livello di
istruzione e con contratto di lavoro a tempo determinato105.
Fra le misure di gender equality si iscrive, inoltre, l’istituzione di un centro di
coordinamento che favorisca l’incremento della presenza maschile fra gli insegnanti
delle scuole materne106.
In materia di parità dei generi, il Governo federale presenta periodicamente al
Parlamento una relazione sulle politiche di genere nella prospettiva dell’andamento
della vita, sui ruoli e il diritto, sulla formazione, sulle tipologie di contratti di lavoro, di
retribuzione, sulla conciliazione tra vita lavorativa e personale, sulle misure di sicurezza
sociale relative ai genitori, sul bisogno di cure e sui soggetti che vi provvedono107.
9. La Svezia
9.1. I dati
In Svezia il settore dell’impiego pubblico (Offentliganställda) risulta piuttosto
ampio, rappresentando circa il 31% del PIL nazionale e impiegando
approssimativamente il 33% dei lavoratori dipendenti.
I dati più recenti, che si riferiscono al periodo 2009-2010, dimostrano che la
maggior parte dei dipendenti nel settore pubblico è di sesso femminile (74% di
impiegati di sesso femminile contro il 26% di sesso maschile) e si concentrano
soprattutto a livello locale nelle Municipalities o nei Conuty councils dove vengono
gestiti i servizi educativi (primari e secondari), i servizi sociali, assistenziali e sanitari
(questi ultimi, in particolare, di competenza dei county councils).
A livello sub-statale si registra, infatti, una percentuale di lavoratrici pari al 79%
mentre a livello centrale i dati dimostrano che le donne impiegate rappresentano circa il
51% del totale.
In generale, la percentuale di lavoratori a tempo determinato è relativamente
bassa anche se negli ultimi anni è in aumento in virtù del perseguimento di logiche di
flessibilità e contenimento dei costi. I contratti a tempo determinato riguardano
principalmente le donne anche se in percentuale minore nel settore pubblico rispetto al
settore privato (circa il 17% delle lavoratrici ha contratti di lavoro a tempo determinato
nel settore pubblico rispetto al 21% nel settore privato).
105
E. Geisler, M. Kreyenfeld, How Policy Matters: Germany’s Parental Leave Benefit Reform and
Fathers’ Behavior 1999-2009, MPIDR Working Paper, WPI 2012-021, luglio 2012 (disponibile al sito
www.demogr.mpg.de/papers/working/wp-2012-021.pdf).
106
Si veda al sito www.koordination-maennerinkitas.de.
107
Si veda Gleichstellungsbericht im Fokus, Thematische Factsheets zum Ersten Gleichstellungsbericht
der Bundesregierung, ottobre 2011.
56
Livello di Governo
Livello locale: Municipalities
Livello intemedio: County
councils
Livello centrale (Ministers +
Central Agencies)
Settore pubblico
Settore privato
Dati mancanti
Totale
Donne
(numero e
%)
626.000
(33%)
190.000
(10%)
117.000
(6%)
933.000
(49%)
959.000
(50%)
17.000 (1%)
1.910.000
(100%)
Uomini
(numero e %)
Distribuzione Donne
e Uomini
170.000 (9%)
79% (D) 21% (U)
52.000 (3%)
79% (D) 21% (U)
114.000 (6%)
51% (D) 49% (U)
336.000
(18%)
1.558.000
(81%)
33.000 (2%)
1.927.000
(100%)
74% (D) 26% (U)
38% (D) 62% (U)
34% (D) 66% (U)
50% (D) 50 (U)
Tabella 21, Dati generali sull’impiego pubblico e confronto con il settore privato (Fonte: Women and
Men in Sweden, Centro Statistico Nazionale, 2010)
Per quanto riguarda il livello salariale, i dati riportati nella Tabella 22
dimostrano che in Svezia il pay (o wage) gap tra lavoratrici e lavoratori è piuttosto
significativo nel settore pubblico.
Tuttavia, questa differenza nei livelli salariali è presente soprattutto a livello
centrale e sovra – comunale e si attenua se i dati vengono ponderati sulla base di alcuni
indici quali l’età, le funzioni esercitate, la formazione scolastica e professione, il tipo di
lavoro a tempo pieno o parziale etc. Si tratta di condizioni che pregiudicano comunque
il sesso femminile rispetto a quello maschile.
Inoltre il pay gap ha in generale un valore più alto nel settore pubblico rispetto al
settore privato.
Nel settore privato il salario medio delle donne impiegate è, infatti, pari
all’87,2% (97,1% nel valore ponderato) del salario medio degli uomini, mentre nel
settore pubblico è pari all’85,4% (92,7% nel valore ponderato).
Sul punto studi recenti108, hanno messo in evidenza che nel 1961 una donna
assunta nel settore pubblico guadagnava il 12% in più di una donna assunta nel settore
privato; nel 2000 il rapporto era pressoché invertito e una impiegata nel settore privato
guadagnava ormai il 10% in più della lavoratrice nel settore pubblico.
108
D. Anxo, The Effect of Pay Reform and Procurement Strategies on Wage and Employment
Inequalities in the Public Sector: the Case of Sweden. European Commission project, novembre 2012,
disponibile
all’indirizzo
https://research.mbs.ac.uk/european-employment/Portals/0/docs/Swedennational%20report.pdf .
57
Anno
2002
2004
2006
2008
Livello locale:
Municipalities
98% (P) – 90%
98% (P) – 91%
98% (P) – 92%
99% (P) – 92%
Livello intemedio:
County councils
92% (P) – 71%
93% (P) – 71%
93% (P) – 72%
93% (P) – 73%
Livello centrale
92% (P) – 84%
92% (P) – 85%
93% (P) – 87%
93% (P) – 88%
Tabella 22, Pay Gap dal 2002 al 2008 con percentuali ponderate (P) e non ponderate (Fonte: Women
and Men in Sweden, Centro Statistico Nazionale, 2010)
Se si passa ad analizzare la presenza e distribuzione delle donne all’interno nelle
le società statali in mano pubblica, gli amministratori sono per il 35% donne e per il
75% uomini.
Un dato piuttosto significativo e apparentemente in controtendenza rispetto a
quanto finora emerso si ricava dal numero di dirigenti. Mentre nel settore privato le
donne manager sono il 25% del totale, nel settore pubblico la percentuale raggiunge il
62%. Anche in questo caso tale valore è dovuto ai dati relativi al livello locale. Se nelle
amministrazioni centrali le donne sono il 39% dei dirigenti, a livello comunale e
regionale esse raggiungono rispettivamente il 64% e 72%.
Tuttavia, incrociando i dati della Tabella n. 21 con quelli della Tabella n. 23 si
deduce che nelle municipalities solo il 3% delle donne impiegate svolge funzioni
dirigenziali (18.800 manager su 626.000 dipendenti di sesso femminile) mentre per gli
uomini la percentuale è pari al doppio (6%, ovvero 10.400 manager su 170.000
dipendenti di sesso maschile). Nei county councils le dirigenti donne sono il 3,3%
mentre per gli uomini la percentuale sale al 5%. .
Settore
Donne
Uomini
Settore privato
Settore pubblico
Government
Municipalities
Counties
Totale
42.300
27.600
2.400
18.800
6.300
69.800
125.500
16.700
3.800
10.400
2.500
142.200
Distribuzione in % tra Donne
e Uomini
25% (D) 75% (U)
62% (D) 38% (U)
39% (D) 61% (U)
64 % (D) 36% (U)
72% (D) 28% (U)
33% (D) 67% (U)
Tabella 23, Manager per settore – dati del 2008 (Fonte: Women and Men in Sweden, Centro Statistico
Nazionale, 2010)
9.2. I soggetti istituzionali, la legislazione, le azioni positive
La tutela e promozione della parità di genere nel mondo del lavoro è garantita a
livello centrale dal Minister of Gender Equality il quale ha un potere di coordinamento
dei singoli Ministri per la promozione e il monitoraggio del livello di tutela garantito
alla parità di genere nei propri dicasteri.
All’interno del Minister of Gender Equality opera la Division of Gender
Equality con compiti di coordinamento tra le politiche generali e le specifiche iniziative
58
assunte a livello centrale. Essa persegue l’obiettivo di individuare i mezzi più opportuni
per l’attuazione delle misure adottate.
Esperti delle politiche di genere siedono, poi, in ogni Administrative Executive
Board a livello locale (Länsstyrelse).
Particolarmente significative sono le funzioni dello Swedish Equality
Ombudsman (Jämställdhetsombudsmannen, JämO). Organismo indipendente
dell’amministrazione centrale, istituto nel 2009 dal Discrimination Act (2008:567), esso
è competente a verificare e sindacare i casi di discriminazione fondate sul sesso, sulla
razza, sull’età, sulle condizioni di disabilità, sull’orientamento sessuale e sul credo
religioso nell’ambito non solo del mercato del lavoro, ma anche dei sistemi educativi,
scolastici e dell’istruzione universitaria.
In virtù di quanto previsto dalla legge che lo ha istituito, l’Equality Ombudsman
ha specifici compiti di vigilanza circa il rispetto delle disposizioni contenute nel
Discrimination Act del 2008 e a tal fine può ricevere i reclami presentati da ogni
individuo che abbia subito una discriminazione.
Dopo aver svolto un’attività di indagine in merito al caso sottoposto al suo
esame, l’organismo può instaurare un giudizio risarcitorio a favore del privato leso.
Al fine di promuovere la parità di genere nei luoghi di lavoro e nei sistemi
educativi, all’ente sono assegnate funzioni consultive e di proposta al Governo per le
modifiche normative ritenute necessarie nell’ottica di un maggior rispetto del principio
di pari opportunità.
Da un punto di vista normativo, l’impiego pubblico e l’impiego privato sono, in
via di principio, regolati dalle medesime disposizioni legislative, salvo specifiche
previsioni eccezionali previste per i pubblici dipendenti e contenute, in particolare, nel
Public Employment Act del 1994 e nel Civil Service Act sempre del 1994.
Tuttavia, negli anni più recenti l’allineamento tra impiego pubblico e impiego
privato è divenuto sempre più significativo al fine di promuovere una maggiore
flessibilità nel settore pubblico attraverso l’introduzione di nuove forme di impiego a
tempo determinato o a progetto.
La legislazione in materia di lavoro è in Svezia generalmente piuttosto esigua e,
anche nel settore pubblico, è fatto ampio rinvio alla contrattazione collettiva per la
disciplina di molteplici profili tra cui, per esempio, il livello minimo salariale o le
condizioni di lavoro.
Per quanto riguarda le politiche a tutela della parità di genere, la Svezia ha
un’importante tradizione di valorizzazione e promozione dell’uguaglianza tra donne e
uomini nel mercato del lavoro.
Si tratta, infatti, del primo Paese che ha introdotto in via legislativa l’istituto del
congedo parentale anche a favore dei genitori di sesso maschile (dal 1974) e che ha
costantemente previsto e implementato misure che consentono ai lavoratori di sesso
femminile e maschile di beneficiare delle medesime tutele e facoltà per consentire un
adeguato bilanciamento tra la vita personale, familiare e lavorativa. Attualmente, una
delle questioni più sentite che le istituzioni svedesi intendono affrontare è rappresentata
dal differente livello salariale che sussiste tra lavoratrici e lavoratori. Come si è
illustrato dai dati (supra par. 9.1.) tale gap è conseguenza di diversi fattori. Per le
lavoratrici, infatti, è più difficile raggiungere incarichi dirigenziali e, ancora oggi, esse
esercitano mansioni tendenzialmente di livello inferiore. Ciò pare dovuto,
59
principalmente, al livello inferiore che ancora caratterizza le donne in termini di
formazione scolastica e professionale.
Da uno studio recente109 si evince che una delle ragioni più gravi del pay gap
risiederebbe nel fatto che a livello locale, dove si trova circa il 79% delle donne
impiegate nel settore pubblico, molte di queste sono lavoratrici part-time o a tempo
determinato impiegate nei settori della sanità o dell’assistenza sociale.
In un altro lavoro110 del 2007 si sostiene, richiamando diversa letteratura sul
punto, che la condizione - per alcuni aspetti critica - della donna lavoratrice nel settore
pubblico svedese è dovuta paradossalmente all’alto grado di tutela garantito dalle
politiche pubbliche e assicurato nella prassi con maggior facilità nell’impiego pubblico
rispetto al settore privato. In estrema sintesi, tale condizione avrebbe provocato un
fenomeno definito di Glass Ceiling, tale da ridurre le aspirazioni delle donne alle
progressioni di carriera.
Le problematiche individuate richiedono oggi lo sforzo congiunto di molti attori
istituzionali oltre agli organi politici, vale a dire le organizzazioni sindacali (dove la
presenza femminile è in forte aumento a livello di governance), gli enti universitari, gli
istituti di ricerca e gli organismi della società civile.
Tra le azioni intraprese vanno menzionati alcuni progetti condotti sia a livello
centrale che locale.
A tal proposito, nel 2002 il governo centrale ha avviato il Progetto Hela con uno
stanziamento iniziale di 32 milioni di euro per affrontare il problema del part-time
involontario nel settore pubblico. Il programma ha visto la collaborazione di cinque enti
pubblici statali (lo Swedish National Labour Market Board, la Swedish Work
Environmental Authority; l’Equal Opportunities Ombudsman; il National Institute for
Working Life e lo Swedish European Social Fund Council) e molte autorità locali (circa
70); e ha impiegato studiosi di diverse discipline. Gli obiettivi del progetto sono stati,
anzitutto, comprendere le ragioni legate al fenomeno del part-time involontario nel
settore pubblico; e, quindi, sulla base di quest’analisi, promuovere iniziative per
introdurre nuovi metodi di lavoro e nuove condizioni di orario nei diversi settori di
impiego111.
Parallelamente, nel 2006 l’Equal Opportunities Ombudsman ha lanciato la
campagna One Million Inspection Project con l’obiettivo di verificare i reali livelli
salariali delle donne e degli uomini nel settore pubblico e privato. L’iniziativa, conclusa
nel 2008, ha coinvolto circa 600 datori di lavoro e 750,000 lavoratori. Il 15% dei datori
di lavoro coinvolti erano pubbliche amministrazioni e società in mano pubblica, mentre
l’85% erano imprese private. Ai datori di lavoro è stato richiesto di fornire le
informazioni sui livelli salariali e sulle azioni programmate. Nei casi in cui i dati hanno
dimostrato delle situazioni critiche, l’Ombudsman è stato chiamato a intervenire
proponendo gli interventi necessari. Il progetto ha raggiunto risultati piuttosto
significativi in termini di aggiustamento dei salari in relazione al 60% dei datori di
lavoro coinvolti nell’iniziativa.
109
I. Jonsson, Working Hours and Gender Equality: Examples from Care Work in the Swedish Public
Sector, in «Gender, Work & Organization», 2011, vol. 18, n. 5, 2011, pp. 508 – 525.
110
A.L. Booth, The Glass Ceiling in Europe: Why are Women Doing Badly in the Labour Market, in
«Swedish Economy Policy Review», 2007, vol. 19, pp. 121 – 144.
111
Si veda www. HELA-projektet.com
60
Del 2008 è, poi, l’emanazione del già citato Discrimination Act in cui si afferma
che datori di lavoro e lavoratori devono lavorare insieme per eliminare le differenze
ingiustificate nei salari e nelle condizioni di lavoro tra donne e uomini.
Con il supporto delle organizzazioni sindacali, si poi è provveduto a creare nei
luoghi di lavoro gli incentivi necessari per consentire alle lavoratrici donne di
partecipare a corsi e programmi di formazione al fine di realizzare adeguatamente le
proprie prospettive di carriera.
Nel ultimi anni, tra le iniziative collegate alle politiche di genere che hanno visto
la collaborazione di molti soggetti istituzionali a livello centrale e locali. Vanno
ricordati il Programme for Gender Mainstreaming at Governmental Level (Jämi)
avviato nel 2008, con durata biennale, dal Secretariat for Gender Research presso
l’Università di Gothenburg e il Programme for Sustainable Gender Equality, sempre
del 2008, condotto dalla Swedish Association of Local and Regional Authorities
(SALAR). Questi ultimi hanno avuto come obiettivo quello di individuare strumenti di
supporto per agli apparati del governo centrale e per gli enti locali tali da garantire un
corretto monitoraggio delle politiche e delle azioni predisposte per assicurare la parità di
genere.
In particolare, il programma Jämi ha previsto forme di consultazione dei soggetti
interessi (enti pubblici, istituti universitari, stakeholders e organizzazioni non
governative) e la gestione di forum e strumenti di confronto stabile. L’attività è stata
condotta attraverso la raccolta e l’analisi delle diverse politiche e prassi applicate e la
predisposizione di questionari da sottoporre agli organismi e ai soggetti coinvolti.
Il ruolo principale all’interno del progetto è stato assegnato allo Swedish
Secretariat for Gender Research presso l’Università di Gothenburg con l’obiettivo di
fornire l’adeguato supporto alle agenzie governative in merito al gender mainstreaming.
Il Programme for Sustainable Gender Equality gestito da SALAR ha inteso
valorizzare la parità di genere soprattutto a livello locale nell’ambito dei processi
decisionali e della gestione del personale. Il programma ha finanziato specifiche attività
di formazione per politici e dirigenti locali.
Interessante anche il programma Women to top position avviato dal governo
svedese per assicurare nuove possibilità di carriera per le lavoratrici nel settore
pubblico, in modo tale che possano raggiungere posizioni di alto livello e manageriali. Il
budget destinato all’iniziativa è stato di 1,8 milioni di euro al fine di implementare
nuovi sistemi di organizzazione del lavoro sul piano strutturale e normativo112.
Particolarmente significativo rispetto ai temi qui considerati è, infine, quanto
contenuto nel Piano Nazionale di Riforma 2012 presentato in sede europea dal governo
svedese in cui i profili connessi alla parità di genere sono diffusamente trattati. In
particolare, si dà conto delle misure e delle iniziative recentemente promosse dalle parti
sociali che, a livello locale, hanno portato alla istituzione, nel biennio 2010 – 2012, dei
gender equality councils con il fine di verificare l’andamento dei salari e delle
condizioni di lavoro tra donne e uomini e di proporre azioni positive per raggiungere
livelli di uguaglianza più sostenibili.
112
Sul punto cfr. F. Guéot, L’égalité professionnelle homme-femmes dans la fonction publique. Rapport
au président de la République, La Documentation française, 2011, p. 34.
61
10. I problemi, i motivi, le proposte
L’analisi della normativa, della prassi e dei dati quantitativi relativi alla parità di
genere nella pubblica amministrazione italiana e di altri paesi europei mette in luce
alcuni problemi di fondo comuni alle diverse realtà considerate.
10.1. I problemi comuni
I dati mostrano, in primo luogo, un’incoerenza nella composizione di tutte le
pubbliche amministrazioni esaminate. Se, infatti, le amministrazioni complessivamente
considerate sono composte per la metà o, in alcuni casi, per la maggioranza da donne,
quando si vanno a considerare le posizioni dirigenziali e apicali le percentuali di
presenza femminile non superano il 20-30% nella maggior parte dei paesi e dei settori.
Inoltre, le posizioni che richiedono minori qualifiche e responsabilità sono per lo più
ricoperte da donne.
Vi è, in secondo luogo, una settorializzazione (o segregazione) delle
competenze femminili a tutti i livelli e, con maggiore evidenza, nelle posizioni apicali.
Le donne sono impiegate soprattutto nei settori economico-sociale, dei beni culturali,
dell’istruzione, mentre sono una minoranza nei settori della difesa, delle infrastrutture e
dei trasporti, dell’ambiente, delle politiche agricole e forestali. Questa distribuzione
sembra essere una costante nel tempo per tutti i paesi, sebbene con una progressiva
attenuazione in alcuni settori.
In terzo luogo, le differenze retributive sono ancora presenti e significative
nonostante i riconoscimenti sul piano normativo, a livello europeo e dei singoli paesi,
del principio del pari salario per pari mansioni. In tutte le realtà esaminate si è
tendenzialmente colmato il divario retributivo formale, determinato da normative che
non garantivano la stessa retribuzione a donne e uomini nonostante lo svolgimento di
compiti uguali o assimilabili. Tuttavia, è rimasta una differenza sostanziale: le donne,
nelle stesse posizioni, siano queste di base o di vertice, guadagnano meno dei loro
colleghi uomini. Le percentuali variano da paese a paese: nella dirigenza pubblica
italiana la percentuale media è allineata con quella del mercato del lavoro italiano e
inferiore alla media europea (4,9%), ma rimangono sacche di disuguaglianza sostanziali
e più profonde, come il 46% (massima) di differenziale retributivo per incarichi di
direzione generale nel Ministero dell’Economia e delle Finanze, il 37,6% (massima) per
queste stesse posizioni nel Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, il
34,7% (massima) nel Ministero dello Sviluppo Economico.
10.2. Le cause comuni
L’analisi incrociata di questi dati con quelli relativi all’uso del part-time e del
congedo parentale consente di avanzare alcune ipotesi sulle cause -anche queste
trasversali ai vari paesi- dei problemi emersi. L’elemento preponderante che spiega sia
l’incoerenza nella composizione dei vari livelli sia i differenziali retributivi è un fattore
prima di tutto endogeno: sono le donne stesse a farsi carico della cura della famiglia e
della prole. In tutti i paesi considerati, il part-time è scelto principalmente dalle donne e
in Italia dalle dipendenti pubbliche più che dalle lavoratrici private. A questo si
aggiungono i congedi di maternità, legati a ineliminabili esigenze della gravidanza; i
62
congedi parentali, che vengono tendenzialmente usufruiti dalle donne e, se richiesti
dagli uomini, lo sono per periodi nettamente più brevi; i congedi familiari. Queste prassi
contribuiscono così a frammentare il percorso lavorativo delle dipendenti pubbliche,
con i due effetti già indicati: scoraggiare le donne ad accedere a posizioni di maggiore
responsabilità, che richiedono più ore e meno flessibilità, e mantenere la retribuzione su
livelli complessivamente più bassi di quelli dei colleghi uomini.
A questo deve aggiungersi un fattore esogeno, non attribuibile alle lavoratrici,
ma connesso con le loro scelte: la carenza di incentivazione alla progressione di
carriera da parte delle istituzioni. Il contesto in cui le donne operano (es.: superiori
gerarchici, commissioni di concorso) attribuisce un disvalore alle scelte delle donne e
non incoraggia o non promuove la progressione di carriera delle donne, potenziando
l’effetto distorsivo delle scelte che queste operano a favore della famiglia. Significative
sono, per esempio, le risposte al questionario sottoposto dalla Commissione ai propri
dipendenti da cui è emerso che le donne non sono incentivate né dal contesto
circostante, né dai loro superiori gerarchici in particolare, a presentare domanda per
posizioni apicali. Ciò può estendersi anche alla fase del reclutamento, come dimostrano
i dati della Banca d’Italia e delle altre banche centrali. Questo è presumibilmente
dovuto, da un lato, alla presenza di oggettivi, anche se potenziali, fattori di discontinuità
sul lavoro che la cura familiare comporta, dall’altro a una percezione amplificata e
pregiudizievole di queste circostanze da parte di chi recluta, seleziona o anche solo
incoraggia la progressione di carriera.
10. 3. Le proposte per l’Italia
Le soluzioni che questo Rapporto intende proporre seguono un approccio misto:
in parte operano direttamente sui problemi (incoerenza nella composizione,
settorializzazione, differenze retributive), assicurando che la modifica sull’effetto
retroagisca sulla causa (approccio down-to-the-top); in parte operano sulle cause, per
consentire che gli interventi sui problemi non rischino di gravare sulle donne stesse (in
termini di difficoltà nella conciliazione) (approccio top-down). Le principali soluzioni
possono essere, quindi, raggruppate attorno ai problemi e alle cause. Alcune delle
soluzioni proposte sono mutuate dai sistemi esaminati con cui l’Italia condivide
problemi e cause. In un contesto in cui le risorse finanziarie sono limitate, le proposte
dovranno poi essere classificate a seconda dell'investimento di risorse pubbliche che
richiedono e, alla luce di questo, ordinate secondo un diverso livello di fattibilità e
priorità.
Azione sui problemi:
1) Una prima proposta interviene sul problema dell’incoerenza nella composizione
delle amministrazioni pubbliche. Sarebbe auspicabile, sull’esempio francese, delle
istituzioni comunitarie e in parte tedesco, porre degli obiettivi di risultato relativi
alla presenza femminile nelle pubbliche amministrazioni. La Corte di giustizia
europea, come ricordato, ha stabilito che i vantaggi attribuiti a un unico sesso sono
contrari alle norme comunitarie. Questo esclude l’introduzione di quote
preferenziali per un solo sesso, ma non esclude che possano prevedersi delle quote
minime di presenza per entrambi i sessi negli organi di vertice delle pubbliche
63
amministrazioni, da implementare progressivamente. A tale sistema dovrebbe
accompagnarsi un sistema di controllo e di sanzioni efficace. Sotto questo secondo
profilo, le istituzioni comunitarie e la Francia offrono due varianti utili. Nel primo
caso la sanzione si limita al naming and shaming, nel secondo prende la forma di
una vera e propria sanzione pecuniaria. Per funzionare l’approccio del naming and
shaming deve inserirsi in una cultura amministrativa ‘avanzata’ che attribuisca alla
pubblicizzazione delle cattive prassi in materia di parità un valore realmente
deteriore e quindi deterrente. In Italia parrebbe più efficace intervenire o attraverso
sanzioni, sul modello francese, o, seguendo una terza via, ossia attribuendo
incentivi a quelle amministrazioni che raggiungono gli obiettivi prefissati.
Quest’ultima soluzione, tuttavia, presuppone che la realizzazione dell’obiettivo sia
l’eccezione positiva e non la regola e rischia, inoltre, di essere particolarmente
dispendiosa.
2) Un secondo gruppo di proposte cerca di ovviare al problema della
settorializzazione. Si propone di:
a. Introdurre un sistema di orientamento e incentivi (borse di studio,
defiscalizzazione) mirato a favorire l’iscrizione dei diplomati e delle
diplomate113 ai corsi di laurea in settori in cui tradizionalmente la presenza
maschile è preponderante (ingegneria, chimica e altre materie scientifiche);
b. Organizzare specifici corsi d'informazione, indirizzo e motivazione per
laureande/i di corsi di laurea propedeutici al lavoro in settori dell’impiego
pubblico con gender gap nei livelli apicali (presenza di genere inferiore al
15%). Un modello è costituito dai corsi di assertività avviati nel 2012 presso
l’Università di Oxford per accrescere la competitività nelle selezioni per lavori
di alta responsabilità manageriale (settori economico-finanziari).
3) Un terzo gruppo di proposte mira a ovviare alle differenze retributive:
a. Si incentiva l’uso del congedo parentale da parte degli uomini, prevedendo un
sistema di non trasferibilità di una porzione del periodo di congedo (metà), sul
modello minimo proposto dalla direttiva n. 18/2012/UE. Quindi, ad esempio, si
possono prevedere sei (o gli attuali undici) mesi di congedo parentale per
ciascun genitore, ma con la clausola che metà di questo periodo non è
trasferibile all’altro genitore e deve essere usufruito da chi ne è l’originario
titolare.
b. Si limita e ridistribuisce l’uso del part-time, da un lato richiedendo alle
amministrazioni di prevedere un numero massimo di contratti part-time,
dall’altro distribuendo tali contratti in misura maggiormente paritaria tra i due
sessi, applicando a questa ipotesi il meccanismo delle quote minime (supra).
Così, ad esempio, su un totale di 50 contratti part-time, almeno il 45% dei
113
Passano dalla scuola superiore all'università il 62,3% delle ragazze, contro il 57,5% dei ragazzi; nella
fascia d'età tra 24 e 35 anni, hanno la laurea il 24,6% delle donne contro il 15,8% degli uomini; dati Miur,
su http://statistica.miur.it.
64
soggetti che ne usufruiscono devono essere uomini e un’altrettanta percentuale
donne. In questo modo superata la soglia del 55% di contratti part-time
attribuiti a donne, i restanti possono essere attribuiti solo a uomini che ne
facciano richiesta.
Azioni sulle cause:
1) Per favorire una più equa distribuzione dei carichi familiari, si propone di:
a. Introdurre forme di lavoro flessibile per donne e uomini in cui la totalità delle
ore lavorative può essere gestita in modo autonomo dai lavoratori (modello
delle istituzioni europee). Questa soluzione dovrebbe agire sia a livello intrafamiliare, incentivando una più paritaria distribuzione dei carichi familiari tra
donne e uomini, sia sul luogo di lavoro, favorendo una maggiore produttività.
Inoltre supera l’adozione di soluzioni part-time che, come visto, penalizzano
principalmente le donne sotto il profilo dell’avanzamento di carriera e delle
retribuzioni;
b. Vd. punto 3) sub Azione sui problemi.
2) Per ovviare alla carenza di incentivazione alla progressione di carriera da parte
delle istituzioni si propone di:
a. Predisporre dei sistemi di accountability inter-istituzionale (modello francese)
che prevedano: un piano biennale, comune a tutte le amministrazioni, di
obiettivi quantitativi e qualitativi circostanziati relativi alla parità di genere; un
monitoraggio esterno alle singole amministrazioni sulla effettiva realizzazione
di questi obiettivi, attraverso audits e questionari; la predisposizione di
controlli ex post e di relative sanzioni pecuniarie in caso di mancata
realizzazione degli obiettivi fissati;
b. Organizzare programmi di formazione specificatamente volti a motivare e
incentivare le donne alla partecipazione a concorsi per l’avanzamento di
carriera;
c. Ispirandosi al modello delle istituzioni europee ed estendendo la disciplina già in
vigore relativa alle procedure di selezione per le posizioni dirigenziali,
prevedere un numero minimo di donne nelle commissioni di concorso a tutti i
livelli. Questo perché la presenza di commissioni maschili anche nel passaggio
a posizioni intermedie potrebbe essere un fattore preclusivo per la
partecipazione a concorsi per posizioni dirigenziali.
Come anticipato, le proposte illustrate hanno costi diversi e comportano un diverso
impatto sulle risorse delle pubbliche amministrazioni. E’ possibile individuare un ordine
di priorità nella realizzazione delle proposte come illustrato nella Tabella 24.
65
PROPOSTE
IMPATTO
PRIORITÀ
SULLE RISORSE
PUBBLICHE
(SPESA)
Quote minime (donne e uomini)
BASSO
ALTA
Accountability inter-istituzionale
BASSO
ALTA
Congedo parentale non trasferibile (uomini)
BASSO
ALTA
Donne nelle commissioni di concorso/avanzamento
BASSO
ALTA
Orario di lavoro flessibile (donne e uomini)
BASSO
ALTA
Orientamento per diplomati (donne e uomini)
MEDIO
MEDIA
Corsi d'informazione per laureandi (donne e uomini)
MEDIO
MEDIA
MEDIO
MEDIA
MEDIO
MEDIA
Formazione per avanzamento di carriera (donne)
Uso del patrimonio immobiliare scolastico
Tabella 24, Impatto sulle risorse pubbliche e grado di priorità delle proposte
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