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ISTITUTO DI RICERCHE SULLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE RAPPORTO 1/2013 LA PARITÁ DI GENERE NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE 1 Maggio 2013 Rapporto IRPA 1/2013 LA PARITÁ DI GENERE NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Mariangela Benedetti, Giulia Bertezzolo, Hilde Caroli Casavola, Maurizia De Bellis, Elisabetta Morlino, Silvia Pellizzari1 INDICE 1. Introduzione 2. Normativa e politiche europee 2.1. Norme primarie e principali atti politici 2.2. Le politiche comunitarie introdotte da norme secondarie 2.2.1. L’accesso al lavoro 2.2.2. Le condizioni di lavoro e la retribuzione 2.2.3. Le azioni positive 2.2.4. La tutela della maternità 2.2.5. Il congedo parentale 2.2.6. Il part-time 2.3. Gli interventi di soft law in materia di parità di genere 3. L’Italia 3.1. I dati 3.1.1. La parità di genere nel mercato del lavoro 3.1.2. La parità di genere nelle pubbliche amministrazioni 3.1.3. La formazione 3.1.4. Il differenziale retributivo 3.1.5. Il part-time 3.2. Il contesto normativo 3.2.1. Le norme a tutela delle lavoratrici 3.2.2. Le norme “di promozione” della parità di genere 3.3. Gli strumenti organizzativi 1 I parr. 2. e 4. sono stati scritti da Giulia Bertezzolo. Il par. 3.1. da Maurizia De Bellis. I parr. 3.2. e 3.3. da Mariangela Benedetti. I parr. 5. e 9. da Silvia Pellizzari. Il par. 6. da Elisabetta Morlino. I parr. 7. e 8. da Hilde Caroli Casavola. Il lavoro è stato coordinato da Elisabetta Morlino, che ha elaborato anche i parr. 1. e 10. sulla base di una riflessione comune. 2 4. Le istituzioni europee 4.1. La presenza femminile e le condizioni lavorative delle donne 4.1.1. La Commissione 4.1.2. Il Consiglio e il Parlamento 4.2. Gli strumenti per favorire l'impiego femminile 4.2.1. La Commissione 4.2.2. Il Consiglio e il Parlamento 5. Il Regno Unito 5.1. I dati 5.2. I soggetti istituzionali, la legislazione, le azioni positive 6. La Francia 6.1. Lo status quo alla base e ai vertici 6.2. L’evoluzione della ‘specie’ normativa: dalle quote (per gli uomini) alle quote (per tutti) 6.2.1. Gli obblighi di accountability inter-istituzionale 6.2.2. Le quote 6.2.3. Il congedo parentale 7. La Danimarca 7.1. I dati 7.2. Le politiche 8. La Germania 8.1. I dati 8.2. Le politiche 9. La Svezia 9.1. I dati 9.2. I soggetti istituzionali, la legislazione, le azioni positive 10. I problemi, i motivi, le proposte 10.1. I problemi comuni 10.2. Le cause comuni 10.3. Le proposte per l’Italia 3 1. Introduzione Il tema della parità di genere nelle pubbliche amministrazioni non compare spesso nel dibattito pubblico ed è diffusa l’idea che nelle pubbliche amministrazioni, a differenza che nel settore privato, il divario tra donne e uomini sia pienamente colmato. Ma è proprio così? Quante sono le donne nella pubblica amministrazione italiana? Che ruoli ricoprono? In quali settori sono impiegate? Guadagnano come i loro colleghi uomini? In generale, nel settore pubblico può dirsi raggiunta la parità di genere? Il presente Rapporto si propone di valutare in concreto quale sia la posizione delle donne nel settore pubblico in Italia; di individuare i principali problemi e le eventuali disparità basate sul genere; e di proporre soluzioni, tenendo conto anche dell’impatto finanziario delle stesse sulle amministrazioni. A questo fine si analizzano, anzitutto, i dati, la normativa e le prassi relativi alla presenza e alle condizioni di lavoro delle donne nelle pubbliche amministrazioni italiane nel contesto delle direttive europee. In particolare, le percentuali complessive di presenza femminile nell’impiego pubblico, la distribuzione tra posizioni di base e di vertice, la ripartizione per settori, il differenziale retributivo, l’uso di strumenti di conciliazione, l’adozione di provvedimenti legislativi e azioni amministrative sulla parità nella pubblica amministrazione sono assunti come misure quantitative e qualitative per l’analisi e la valutazione. Il confronto –sulla base di queste stesse misure- con le istituzioni comunitarie e con le amministrazioni di altri Paesi europei viene, poi, utilizzato per individuare, ove presenti, tendenze comuni ai vari ordinamenti, sia in termini di problemi che di soluzioni adottate. Si formulano, infine, alcune proposte di riforma per l’Italia, anche sulla base delle esperienze straniere che si siano rivelate efficaci. 2. Normativa e politiche europee 2.1. Norme primarie e principali atti politici Il tema della parità di trattamento tra donne e uomini ha fatto parte delle politiche comunitarie fin dalle origini dell’Unione europea. L’obbligo di pari retribuzione tra donne e uomini compariva già nel Trattato di Roma (1957). Le principali disposizioni che si occupano della parità di genere sono ora contenute negli articoli 153 (ex art. 118) e 157 (ex art. 119) del TFUE. Essi dispongono che, salvo eventuali diversità dovute a oggettive differenze nella natura del lavoro, a parità di lavoro gli Stati membri devono assicurare la parità di retribuzione tra donna e uomo e 4 che, a tal fine, gli Stati membri possano intraprendere azioni positive a favore del sesso sottorappresentato. L’Unione europea deve sostenere e completare l’azione degli Stati membri nella promozione delle pari opportunità e delle condizioni di lavoro. La Carta dei diritti fondamentali (2001) chiude il quadro delle norme primarie dedicate alla tutela della parità di genere in materia di lavoro, vietando qualsiasi discriminazione fondata sul sesso e disponendo che «la parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, lavoro e retribuzione» (art. 23). Le norme primarie individuano, così, le tre macro aree d’intervento del diritto comunitario: non discriminazione, azioni positive e inclusione delle problematiche di genere in tutte le politiche comunitarie (gender mainstreaming). I principi posti dal Trattato sono stati attuati con le direttive in materia di parità di retribuzione (1975/117/CEE), parità di trattamento (1976/207/CEE) e sicurezza sociale (1979/7/CE), emanate negli anni '70 e con quelle relative a maternità (1992/85/CE), congedo parentale (1996/34/CE) e part-time (1997/81/CE), adottate negli anni '90. Un ruolo importante nella materia hanno avuto e hanno, però, anche diversi atti di impulso politico e un vasto numero di documenti non vincolanti. Essi coprono tutte le aree di legislazione primaria ma vanno anche oltre2. Tra tali atti un ruolo rilevante hanno avuto, di recente, i Consigli europei di Lisbona (2000) (Strategia di Lisbona) e Barcellona (2002), i quali hanno per la prima volta stabilito degli obiettivi d’impiego (60% per le donne e 70% per gli uomini entro il 2010)3. La Strategia Europa 20204 ha sostituito tali obiettivi con quello di dare occupazione al 75% di donne e di uomini5. Nel Consiglio europeo di Bruxelles del marzo 2011, poi, è stato adottato il New European Pact for equality between women and men for the period 2011 – 2020, il quale esorta gli Stati membri e l’Unione europea ad adottare misure per il superamento degli stereotipi e le disuguaglianze retributive, nonché per la promozione della partecipazione delle donne al processo decisionale 6. Il Patto invita, inoltre, a migliorare la fornitura di servizi per l’infanzia e a promuovere la creazione di soluzioni di lavoro flessibili. A partire dal 1995 l’Unione europea è, infine, impegnata nel sovraintendere all’applicazione da parte degli Stati membri della Dichiarazione e Piattaforma di Pechino per l’uguaglianza, lo sviluppo e la pace7. A tal fine, dal 1999 sono stati elaborati a livello europeo degli indicatori sulla base dei quali gli organi dell’Unione 2 Tra i più importanti vi sono Commissione europea, Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni. Combattere il divario di retribuzione tra donne e uomini, COM(2007)424def., 18 luglio 2007; Id., Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni. Un miglior equilibrio tra lavoro e vita privata: sostenere maggiormente gli sforzi tesi a conciliare la vita professionale, privata e familiare, COM(2008)635 def, 3 ottobre 2008. 3 Conclusioni del Consiglio europeo di Lisbona, 23-24 marzo 2000. 4 Commissione europea, Comunicazione della Commissione. Europa 2010. Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, COM(2010)2020, 3 marzo 2010. 5 Consiglio europeo, Conclusioni, Bruxelles, 17 giugno 2010. 6 Id., Council Conclusions on the European Pact for gender equality for the period 2011 – 2020, 17 marzo 2011. 7 European Institute for Gender Equality, Reconciliation of work and family life as a condition of equal participation in the labour market, 2001. 5 europea valutano il progresso compiuto dagli Stati membri in temi come l’equo utilizzo del congedo parentale da parte di donne e uomini, il tipo di servizi all’infanzia offerti oppure le politiche adottate per promuovere la riconciliazione tra famiglia e lavoro. 2.2. Le politiche comunitarie introdotte da norme secondarie 2.2.1. L’accesso al lavoro Le principali norme che disciplinano l’accesso al lavoro sono ora contenute nella direttiva n. 2006/54/CE. Essa stabilisce, innanzitutto, che le opportunità di accesso al lavoro per donne e uomini devono essere le stesse, a qualsiasi livello della gerarchia. Sia la fase di selezione che le condizioni di assunzione devono essere quindi immuni da qualsiasi forma di discriminazione. 2.2.2. Le condizioni di lavoro e la retribuzione Ai sensi della direttiva n. 2006/54/CE anche le condizioni di lavoro per donne e uomini devono essere le stesse, inclusi il sistema di promozione, l’accesso alla formazione professionale, la partecipazione ad associazioni di lavoratori e i presupposti di licenziamento. Tra le condizioni lavorative una posizione particolare riveste la retribuzione, ovvero qualsiasi aspetto della stessa, corrisposto in modo diretto o indiretto dal datore di lavoro in ragione del rapporto d’impiego. Vi rientrano, pertanto, non solo lo stipendio ma anche tutti i vantaggi connessi, come gli assegni familiari e le indennità di malattia8. La parità di retribuzione deve essere garantita, peraltro, non nella sua globalità ma per ciascuna voce che la compone9. Qualsiasi aspetto della stessa deve quindi essere uguale sia per lo svolgimento dello stesso lavoro, sia per lavori aventi valore equivalente. Questo presuppone ovviamente che i lavori posti a confronto possiedano elementi comparabili in concreto: dalla natura dell’attività svolta, alla formazione per accedere a quel tipo di lavoro, alle condizioni in cui lo stesso si svolge. Il divieto previsto dall’articolo 153 del TFUE si estende a tutte le forme di disparità remunerativa, palesi o dissimulate che, pur in apparenza neutre, svantaggiano in realtà un unico sesso10. È questo il caso delle pratiche salariali che penalizzano i lavoratori part-time, categoria composta prevalentemente da donne. Tali pratiche sono quindi vietate, salvo siano giustificabili in base a fattori obiettivi11. 2.2.3. Le azioni positive La direttiva n. 2006/54/CE dispone che gli Stati membri possano adottare azioni positive per garantire nella pratica la piena parità di trattamento sul lavoro. 8 Si vedano, ad esempio, Corte di giustizia dell’Unione europea, Rinner, 13 luglio 1989, C-171/88, Racc. 2743; Id., Kowalska, C-33/89, 27 giugno 1990, Racc. I-2591. 9 Id., Brunnhofer, C-381/99, 26 giugno 2001, Racc. I-4961. 10 Si veda, ad esempio, Id., Deutsche Telekom, C-50/96, 10 febbraio 2000, Racc. I-743. 11 Si veda, ad esempio, Id., Voβ, C-300/06, 6 dicembre 2007, Racc. I-10573. 6 La giurisprudenza è intervenuta tuttavia a più riprese per circoscrivere il potere lasciato agli Stati membri di emanare norme volte a riequilibrare la posizione del sesso discriminato nel mondo lavorativo. La Corte ha, infatti, stabilito che il solo fatto che le donne siano sottorappresentate non giustifica la presenza di disposizioni che diano loro automatica precedenza nell’accesso a un lavoro oppure a una promozione12. Un’eventuale precedenza può essere accordata unicamente a condizione che un esame obiettivo delle candidature venga effettuato sulla base di tutti i criteri fissati. Quindi non può essere data preferenza alle donne qualora l’esame di uno o più criteri facciano propendere per il candidato maschile13. Più in generale, la Corte ha precisato che i vantaggi attribuiti ad un unico sesso sono contrari alle norme comunitarie se non prevedono che l’uomo che si trovi nella stessa situazione non possa usufruirne14. 2.2.4. La tutela della maternità Disposizioni particolari a tutela delle donne sono previste per il periodo di maternità e per il rientro al lavoro. Obiettivo della direttiva n. 1992/85/CE è garantire la buona salute della madre e del figlio sia prima della nascita, sia dopo il parto. Secondo quanto previsto dalla direttiva, infatti, le gestanti devono, innanzitutto, essere dispensate dallo svolgimento di lavori notturni o che le espongano a pericoli che potrebbero danneggiare il nascituro, pur conservando il diritto al mantenimento della retribuzione e/o al versamento di un’indennità adeguata. Al fine di evitare che il rischio di essere licenziate per ragioni legate al loro stato possa avere effetti dannosi sullo stato fisico e psicologico delle gestanti, queste ultime non possono inoltre essere licenziate se non per giustificati motivi. Le donne incinte hanno poi diritto ad assentarsi dal lavoro per esami prenatali, nonché a un congedo di maternità di almeno quattordici settimane ininterrotte prima e dopo il parto, di cui almeno due obbligatorie. Al termine della maternità, la donna deve poter riprendere il proprio lavoro o un lavoro equivalente e beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che le sarebbero spettati durante la sua assenza (direttiva n. 2006/54/CE). Il diritto comunitario non dispone alcunché in materia di congedo di paternità. La direttiva n. 2006/54/CE prevede, tuttavia, che qualora all’interno di un sistema tale congedo sia previsto, lo Stato debba garantire al padre che rientra al lavoro gli stessi diritti garantiti per il rientro dal congedo di maternità. La giurisprudenza comunitaria ha poi esteso anche al padre che allatta il figlio artificialmente il permesso accordato alle madri durante i primi nove mesi di vita15. 2.2.5. Il congedo parentale Per agevolare i genitori a conciliare vita professionale e responsabilità familiare, la direttiva n. 2010/18/UE ha previsto alcune norme in materia di congedo parentale. Tale direttiva si propone, tra l’altro, di contribuire a un’equa ripartizione delle 12 Id., Kalanke, C-450/93, 17 ottobre 1995, Racc. I-3051. Id., Badek, C-158/97, 28 marzo 2000, Racc. I-1875. 14 SI veda, ad esempio, Id., Griesmar, C-366/99, 29 novembre 2001, Racc. I-9383. 15 Id., Roca Alvarez, C-104/09, 30 settembre 2010, Racc. I-8661. 13 7 responsabilità familiari tra donne e uomini e, in particolare, di incentivare i padri ad esercitare tale diritto. A questo fine, la direttiva prevede per ciascuno dei genitori un congedo parentale di quattro mesi per la nascita o l’adozione di un figlio. Per far sì che tale periodo venga usufruito anche dagli uomini, almeno uno dei quattro mesi non può essere trasferito all’altro genitore e se non usufruito viene perso. Come per il congedo di maternità il diritto comunitario prevede, inoltre, che colui che fa richiesta di congedo venga tutelato contro il licenziamento, che gli sia garantito il livello retributivo maturato, che possa ritornare nel proprio posto di lavoro o in uno analogo una volta terminato il congedo e che qualsiasi violazione di tali diritti sia sanzionata. La stessa direttiva prevede, infine, la possibilità per entrambi i genitori di assentarsi dal lavoro per ragioni familiari urgenti connesse a malattie o infortuni (congedo familiare). 2.2.6. Il part-time Chiude il quadro delle disposizioni vincolanti adottate dall’Unione europea la direttiva n. 97/81/CE sul part-time, la quale si propone di promuovere le pari opportunità attraverso un’organizzazione del lavoro, che favorisca la conciliazione degli impegni lavorativi con le responsabilità familiari. Essa dispone che gli Stati membri debbano rimuovere gli eventuali ostacoli all’utilizzo del part-time. Pur lasciando un ampio margine di discrezionalità ai datori di lavoro quanto al numero di posti a tempo parziale da mettere in organico, la direttiva impone che debba essere data adeguata pubblicità ai posti di lavoro part-time che si rendono disponibili, che il datore debba prendere in considerazione le richieste di trasferimento dal tempo pieno al tempo parziale e viceversa e, altresì, che coloro che optano per tale forma di lavoro non possano essere discriminati o licenziati. 2.3. Gli interventi di soft law in materia di parità di genere L’utilizzo di strumenti di soft law ha permesso all’Unione di occuparsi di temi che vanno oltre le proprie competenze specifiche e che non toccano direttamente il lavoro ma aspetti sociali che incidono sulla presenza e la realizzazione delle donne nel mondo lavorativo. E' il caso dei servizi per l’infanzia e del principio dell'integrazione delle pari opportunità in tutte le politiche comunitarie (gender mainstreaming). Con la Raccomandazione del Consiglio sulla custodia dei bambini del 1992, il Consiglio ha, per la prima volta, affrontato il problema dei servizi (come gli asili e le scuole) resi dallo Stato o dai privati per sollevare la famiglia, e allo stato attuale principalmente le donne, dalla cura dei bambini16. Si è stabilito, in particolare, che gli Stati membri devono adottare misure per l’organizzazione di servizi di qualità ed economicamente accessibili per la custodia dei bambini, devono prevedere congedi speciali per permettere ai genitori di conciliare lavoro e impegni familiari e devono, altresì, adoperarsi per creare un contesto che favorisca il lavoro di persone con figli e una più equa ridistribuzione dei carichi familiari tra donne e uomini. Il settore pubblico, 16 Consiglio europeo, Raccomandazione del Consiglio, del 31 marzo 1992, sulla custodia dei bambini, Racc. n. 92/241/CEE, GUCE L 123, 8 maggio 1992, p. 16. 8 sempre secondo la raccomandazione, dovrebbe proporre soluzioni che siano di esempio per altre realtà. L’impegno comunitario in tale settore è proseguito principalmente attraverso il metodo aperto di coordinamento (Open Method of Coordination-OMC) e, in particolare, a partire dal 1997, attraverso la Strategia europea per l’occupazione (European Employment Strategy-EES). Quest’ultima contiene, infatti, tra i propri obiettivi l’offerta di servizi all’infanzia, indicandola come strumento per facilitare la riconciliazione tra vita privata e professionale. La fornitura di servizi all’infanzia ha, tuttavia, perso in parte la propria dimensione sociale con la revisione della strategia avvenuta nel contesto del Summit di Barcellona del 2002, dove tali servizi sono divenuti un meccanismo volto a raggiungere gli obiettivi di competitività stabiliti a Lisbona attraverso una maggiore partecipazione delle donne al mondo del lavoro17. Il Consiglio europeo di Barcellona ha stabilito per la prima volta degli obiettivi concreti da raggiungere in questo settore disponendo, in particolare, che entro il 2010 gli Stati membri dovessero provvedere all’offerta di servizi all’infanzia per almeno il 90% dei bambini compresi tra i 3 anni e l’età scolare e al 33% dei bambini al di sotto dei 3 anni18. Nell'ambito della strategia Europa 2020, che ha rivisto quelle di Lisbona e Barcellona, le Linee guida integrate Europa 2020 hanno ribadito la necessità per gli Stati membri di creare le condizioni per l’offerta di servizi all’infanzia accessibili e di buona qualità per i bambini al di sotto dell’età scolare19. Non essendo stati raggiunti dalla maggior parte degli Stati membri, il documento conferma gli obiettivi specifici fissati al summit di Barcellona, che rappresentano tutt’ora l’obiettivo da realizzare20. Il concetto di gender mainstreaming compare in diverse raccomandazioni, comunicazioni e programmi non vincolanti, così come in diversi atti secondari di natura vincolante21. Si riferisce alla necessità di inserire la prospettiva di genere in tutte le politiche e i processi decisionali. Pur avendo una storia che risale agli anni ’80 in alcuni Stati (es. Finlandia), esso compare a livello europeo nel 1995, quando l’Unione europea ha chiesto venisse integrato nella Piattaforma di azione di Pechino delle Nazioni Unite. Con una Comunicazione del 1996, l’Unione europea ha invitato gli attori istituzionali a valutare, già in fase di programmazione di qualsiasi politica, le conseguenze che la stessa può avere sulla condizione delle donne e degli uomini22. Ciò ha comportato, a livello europeo, sia l’inserimento della dimensione di genere 17 J. Kantola, Gender and the European Union, Londra, Palgrave Macmillan, 2010, p. 123; E. Radulova, The construction of EU’s childcare policy through the Open Method of Coordination, in S. Kröger (a cura di), What we have learnt: advances, pitfalls and remaining questions in OMC research, European Integration online Papers, 2009, Special Issue 1, Vol. 13, p. 12, disponibile all’indirizzo http://eiop.or.at/eiop/texte/EIoP_2009_SpecIssue_1.pdf 18 Consiglio europeo, Conclusioni, Barcellona, 15-16 marzo 2002. 19 Id., Council Recommendation of 13 July 2010 on broad guidelines for the economic policies of the Member States and of the Union, GUCE L 191 , 23 luglio 2010, p. 28; Id., Council Decision n. 2010/707/EU of 21 October 2010 on guidelines for the employment policies of the Member States, GUCE L 308, 24 novembre 2010, p. 46. 20 Id., European Pact for gender equality for the period 2011 – 2020, 17 marzo 2011. 21 Si veda, ad esempio, l’art. 29 della direttiva n. 2006/54/CE. 22 Commissione europea, Comunicazione della Commissione, del 21 febbraio 1996. Integrare la parità di opportunità tra le donne e gli uomini nel complesso delle politiche e azioni comunitarie, COM(96)67 def., 21 febbraio 1996. 9 nell’analisi d’impatto che precede l’adozione di tutte le misure legislative23, sia il coordinamento degli attori che operano in settori diversi attraverso la creazione di gruppi interservizi, riunioni di coordinamento e formazione24. Come per i servizi all’infanzia, l’integrazione della dimensione di genere è entrata poi a far parte della Strategia europea per l’occupazione (EES) a partire dal 1997 ma anche in questo caso la modifica apportata dalla Strategia di Barcellona (2002) ha comportato un mutamento di prospettiva: da politica sociale, l’integrazione della dimensione di genere è divenuta più uno strumento di crescita economica che di giustizia sociale25. Negli stessi termini il gender mainstreaming compare anche nella strategia Europa 2020. Al fine di promuovere la cooperazione tra istituzioni europee e governi nazionali per favorire l’inserimento della parità di genere nelle politiche nazionali e comunitarie, a partire dal 2001 è stato costituito un Gruppo di alto livello sull’integrazione della dimensione di genere in tutte le politiche. Il Gruppo ha il duplice ruolo favorire lo scambio di best practices tra Stati membri e servire alle istituzioni comunitarie quale piattaforma per la definizione delle politiche europee sotto il profilo della parità di genere. 3. L’Italia 3.1. I dati 3.1.1. La parità di genere nel mercato del lavoro In base all’Indice globale (Global gender gap index), elaborato dal World Economic Forum, nel 2012 l’Italia si è collocata all’80° posto su 135 Paesi in riferimento alla disparità di genere. Il punteggio ottenuto dall’Italia è stato di 0,673 (laddove 1 equivale alla parità di genere). Il Global gender gap index costituisce un indicatore complesso, costruito sulla base di quattro parametri differenti: la partecipazione e le opportunità in ambito economico; la rappresentanza politica (in termini di cariche politiche ricoperte); l’istruzione; la salute (intesa come probabilità di sopravvivenza). Se si escludono questi ultimi due parametri – che, nei Paesi ad economia ad avanzata, costituiscono degli obiettivi già raggiunti – e si esaminano esclusivamente i primi due, la situazione dell’Italia, dal punto di vista della parità di genere, appare ancora peggiore: in relazione alla partecipazione economica, il nostro Paese si colloca al 101° posto (con un punteggio di 0,591); quanto alla rappresentanza politica, l’Italia è 71° (con un punteggio di 0,135). 23 Si veda, ad esempio, Id., Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni. Il futuro della strategia europea per l’occupazione (SEO). Una strategia per il pieno impiego e posti di lavoro migliori per tutti, COM(2003)6 def., 14 gennaio 2003. 24 J. Kantola, Gender and the European Union, cit., pp. 129 e 136. 25 Ibid., pp. 141-142. 10 Grafico 1, Global gender gap index 2012 (Dettaglio dei sottoindici) (Fonte: World Economic Forum, The Global Gender Gap Report, 2012) Nell’UE, per la fascia di età tra i 20 e i 64 anni, nel 2011 lavorava il 62,3% delle donne e il 75% degli uomini. In Italia, per la medesima fascia d’età il tasso di occupazione femminile è del 49,9% e quello maschile del 72,6%. La percentuale italiana, quindi, è più bassa di quella europea di più di 12 punti (Tabella 1). Nel corso dell’ultimo decennio, in Italia il tasso di occupazione femminile è aumentato in modo costante fino al 2008; dopo tale anno, invece, si osserva una flessione. Il tasso di occupazione femminile del 2011, pari al 49,9%, è stato pari a quello del 2007 (Tabella 2). Paese UE Italia Totale 68,6 61,2 Uomini 75,0 72,6 Donne 62.3 49.9 Tabella 1, Tasso di occupazione per genere (Età 20-64), 2011. (Fonte: Eurostat, Employment Rates by Sex, 2012) 11 Paese UE Italia 2002 58.1 44.9 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 58.7 59.4 60.0 61.1 62.1 62.8 62.3 45.6 48.3 48.4 49.6 49.9 50.6 49.7 2010 62.1 49.5 2011 62.3 49.9 Tabella 2, Tasso di occupazione femminile (Età 20-64), andamento decennale. (Fonte: Eurostat, Employment Rates by Sex, 2012) 3.1.2. La parità di genere nelle pubbliche amministrazioni Nel pubblico impiego vi è, in generale, una prevalenza di personale femminile: 55% del totale26. La tendenza è quella a un costante crescita della presenza femminile nel corso del tempo, anche se in modo differenziato nei diversi settori. In alcuni settori (Scuola e Servizio sanitario nazionale), l’occupazione femminile è tradizionalmente predominate. Tale assetto tende, anzi, a consolidarsi: nel primo settore, la percentuale di personale femminile è passata dal 77,3% al 78,8% negli ultimi anni, e, continuando ad aumentare a tale ritmo, dovrebbe presto superare l’80% del totale; nella Sanità, la percentuale di personale femminile è cresciuta, nel medesimo periodo, dal 62,2% al 64,7%. In un secondo gruppo di comparti (ministeri, Presidenza del Consiglio dei Ministri, carriera prefettizia), il personale femminile ha superato da alcuni anni la metà degli occupati e anche in questo caso, si tratta di un trend che tende a consolidarsi. In un terzo gruppo (agenzie fiscali, enti di ricerca, università, magistratura) vi è stato un incremento della presenza femminile, che si attesta su valori sempre più vicini alla parità di genere (nel 2011, rispettivamente 49,6%, 43,8%, 46,5% e 43,3%). Infine, tra i settori nei quali l’occupazione femminile è tradizionalmente molto bassa, la presenza femminile rimane tuttora fortemente limitata (valori compresi tra il 5 e il 7%) per Vigili del fuoco, Corpi di polizia e Forze armate. Per quanto attiene la carriera diplomatica, la percentuale di donne rimane limitata, ma si registra un aumento in termini percentuali (di tre punti negli ultimi cinque anni, dal 15,3% al 18,3%). TOTALE PERSONALE Presenza femminile: valori assoluti 2007 2008 2009 2010 2011 2007 2008 2009 2010 2011 SCUOLA IST. FORM.NE ART.CO MUS.LE MINISTERI PRESIDENZA CONSIGLIO MINISTRI AGENZIE FISCALI AZIENDE AUTONOME VIGILI DEL FUOCO CORPI DI POLIZIA FORZE ARMATE MAGISTRATURA CARRIERA DIPLOMATICA CARRIERA PREFETTIZIA CARRIERA 879.268 3.316 876.439 3.633 836.313 3.537 817.730 3.709 799.828 3.683 77,3% 40,3% 77,6% 40,3% 77,8% 40,2% 78,4% 40,3% 78,8% 40,6% 93.764 1.371 94.367 1.243 92.777 1.198 90.748 1.296 87.859 1.254 50,9% 50,6% 51,5% 51,3% 51,7% 51,1% 52,0% 51,4% 52,4% 51,4% 26.703 26.520 26.456 26.411 27.014 48,0% 48,0% 48,6% 49,2% 49,6% 513 - - - - 38,6% - - - - 1.898 1.906 1. 879 1.861 1.897 6,0% 6,0% 5,9% 5,9% 5,8% 21.027 21.543 22.186 22.498 23.267 6,3% 6,5% 6,7% 6,9% 7,2% 7.189 3.977 148 7.838 4.133 147 9.326 4.312 154 9.711 4.399 165 9.863 4.390 168 3,7% 38,7% 15,3% 4,1% 39,7% 15,7% 4,7% 41,1% 16,8% 5,0% 43,1% 18,2% 5,1% 43,3% 18,3% 750 741 737 740 739 49,7% 50,1% 52,1% 52,7% 54,5% 291 283 276 264 250 58,9% 59,8% 60,5% 61,1% 63,0% 26 Presenza femminile: valori percentuali Dati della Ragioneria Generale dello Stato, Conto Annuale 2011. 12 PENITENZIARIA ENTI PUBBLICI NON ECONOMICI ENTI DI RICERCA UNIVERSITA' SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE REGIONI ED AUTONOMIE LOCALI REGIONI A STATUTO SPECIALE AUTORITA' INDIPENDENTI ENTI ART.70COMMA 4 D.165/01 ENTI ART.60 COMMA 3D.165/01 Totale Pubblico Impiego 31.821 30.880 30.093 29.464 28.683 54,3% 54,9% 55,8% 56,5% 57,0% 6.485 51.334 7.403 53.854 7.935 52.543 8.061 51.287 9.142 50.500 40,9% 44,0% 42,5% 44,9% 43,6% 45,3% 44,5% 46,2% 43,8% 46,5% 424.105 433.165 439.856 441.796 441.604 62,2% 62,8% 63,4% 64,2% 64,7% 250.887 258.751 260.469 261.479 256.731 48,6% 49,5% 50,1% 50,7% 51,1% 42.448 44.198 44.767 44.960 54.961 60,5% 60,9% 61,0% 61,5% 58,5% 714 756 787 821 853 51,9% 52,9% 52,8% 53,9% 53,4% 1.317 1.355 1.420 1.448 495 31,6% 32,3% 33,3% 35,2% 37,6% 3.226 51,9% 52,7% 52,9% 53,2% 33,4% 1.806.407 54,0% 54,5% 54,5% 54,9% 55,0% 2.358 2.585 2.670 2.670 1.851.684 1.871.740 1.839.691 1.821.518 Tabella 3, Presenza femminile nel personale della pubblica amministrazione. (Fonte: Elaborazione su dati della Ragioneria dello Stato, Conto Annuale 2011) Va poi segnalato che, sotto il profilo della distribuzione territoriale, la percentuale femminile all’interno del personale è maggiore al Nord: 62,5% del totale, più elevata di 14,5 punti percentuali rispetto a quella del Sud. Nord Centro Sud Italia 62,5% 53,5% 48,0% 55,6% Tabella 4, Presenza femminile (valori percentuali) nella pubblica amministrazione per area geografica – anno 2010 (Fonte: elaborazione della Confederazione Italiana di Unione delle Professioni Intellettuali (CIU) su dati della Ragioneria dello Stato (Conto Annuale 2010), Libro Rosa ‘Donne Quadro, Professionals: la contrattazione di genere e per fasce di età’) a) I vertici Mentre la percentuale femminile in relazione all’insieme del personale della pubblica amministrazione è preponderante, ben diversa è la situazione nel caso dei vertici della pubblica amministrazione. Di seguito, si esaminano i dati relativi alla composizione della dirigenza all’interno della Presidenza del Consiglio, dei ministeri, delle autorità indipendenti e delle agenzie, della carriera diplomatica a prefettizia, nonché degli enti pubblici non economici, degli enti di ricerca e dell’università. Infine, si dà conto della formazione dei dirigenti di sesso femminile e delle differenze di retribuzione. 13 i. La Presidenza del Consiglio Per quanto riguarda la Presidenza del Consiglio dei ministri, il 51,2% degli incarichi di dirigenza generale sono ricoperti da donne; nel caso degli incarichi apicali, la percentuale scende al 37%. Dirigenti di II fascia Dirigenti di I fascia Uomini Donne Totale 96 80 101 47 197 127 Tabella 5, Dirigenza della Presidenza del Consiglio (Fonte: Elaborazione su dati della Ragioneria dello Stato, Conto Annuale 2011) ii. I ministeri All’interno dei ministeri, la percentuale di occupazione femminile è inferiore rispetto a quella che caratterizza la Presidenza del Consiglio: rispettivamente, del 42% e del 30% per la dirigenza generale e apicale. Dirigenti di II fascia Dirigenti di I fascia Uomini Donne Totale 1406 203 1048 87 2454 290 Tabella 6, Dirigenza nei ministeri (Fonte: Elaborazione su dati della Ragioneria dello Stato, Conto Annuale 2011) La percentuale più bassa, come si è detto, riguarda la dirigenza apicale. Va, però, segnalato che vi è una forte differenziazione tra i singoli ministeri: nel caso del Ministero della Giustizia, si registra la maggiore presenza femminile (per alcuni dipartimenti, prossima al 50%); è di circa il 40% per gli affari esteri e lo sviluppo economico; in alcuni ministeri (Beni e attività culturali, Miur, Salute) si attesta intorno al 30%; è compresa tra il 10 e il 15% nel Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e in quello delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. Infine, non vi è nessuna donna tra i dirigenti del Ministero della Difesa e dell’Ambiente. 14 Grafico 2, Dirigenza nei ministeri (Fonte: Dipartimento della funzione pubblica, Rapporto per l’anno 2012 sull’attuazione della Direttiva per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche emanata in data 23 maggio 2007. Dati riferiti al 2011) La differenziazione della presenza femminile a seconda della tipologia di ministeri è un dato costante, che si rileva nella maggioranza dei Paesi europei: in media, si registra una maggiore percentuale di dirigenti femminili nei ministeri di ambito socioculturale, e inferiore in quelli di tipo economico. La percentuale femminile superiore, in Italia, al 40% nel Ministero della Giustizia e in quello dello Sviluppo economico costituisce, soprattutto se si tiene conto di tale raffronto, un dato positivo. 15 Paesi Slovenia Bulgaria Lituania Lettonia Slovacchia Svezia Polonia Romania Estonia Portogallo Islanda Lituania Grecia Croazia Spagna Repubblica ceca Francia Serbia Austria Italia Ungheria Finlandia Regno Unito Malta Paesi Bassi Danimarca Cipro Belgio Irlanda Germania Lussemburgo Turchia Totale 53 51 45 44 44 44 40 40 38 38 38 36 34 34 33 B 43 25 38 63 42 41 22 40 28 34 47 29 31 29 32 E 57 56 43 37 33 39 43 35 43 33 26 54 28 38 26 I 45 50 50 25 33 64 60 37 38 44 44 12 37 27 37 S 68 67 60 40 60 51 51 50 46 43 45 48 40 39 37 31 37 28 14 38 30 30 28 27 27 25 25 22 22 21 19 15 14 13 6 3 22 26 23 31 17 27 28 25 22 21 20 28 11 11 0 5 28 30 29 25 16 13 20 22 15 15 14 5 8 8 0 0 29 21 28 15 0 43 36 16 20 25 0 50 16 0 33 0 40 41 34 30 46 26 19 20 30 24 33 0 22 29 9 5 B = Funzioni di base E = Funzioni in ambito economico I = Funzioni relative alle infrastrutture S = Funzioni socio-culturali > 50% 30-49% 10-29% 0-9% Grafico 3, Percentuale di donne tra gli alti funzionari (i due più alti gradi) nei Paesi europei (Fonte: Commissione Europea, Direzione generale occupazione, affari sociali e inclusione, Plus de femmes aux postes à responsabilité, 2010 16 iii. Le autorità indipendenti e le agenzie All’interno delle autorità indipendenti, la percentuale di dirigenti di sesso femminile è di circa il 35%. Nel caso delle autorità indipendenti, nel conto annuale non vi è una distinzione tra dirigenza generale e apicale: ciò rende difficile operare una comparazione rispetto alla presenza femminile nei ministeri. Tra i dirigenti generali delle agenzie fiscali, le donne sono il 30%, mentre nel caso dei dirigenti apicali la percentuale scende al 17%. In tali organismi tecnici, quindi, vi è una presenza femminile significativamente inferiore rispetto a quella che caratterizza le amministrazioni pubbliche precedentemente esaminate. Dirigenti Uomini Donne Totale 119 64 183 Tabella 7, Dirigenza delle autorità indipendenti (Fonte: Elaborazione su dati della Ragioneria dello Stato, Conto Annuale 2011) Dirigenti di II fascia Dirigenti di I fascia Uomini Donne Totale 1105 58 485 12 1590 70 Tabella 8, Dirigenza delle agenzie fiscali (Fonte: Elaborazione su dati della Ragioneria dello Stato, Conto Annuale 2011) iv. La carriera diplomatica e prefettizia Nell’ambito della carriera diplomatica, la presenza femminile è piuttosto limitata, in particolare con riguardo alle cariche di ambasciatore, con un’unica donna (pari al 3,2%), e di ministro plenipotenziario (la percentuale femminile è dell’8%). Ben più significativa è l’occupazione femminile nell’ambito della carriera prefettizia: essa supera la parità nel caso dei gradi di viceprefetto e viceprefetto aggiunto (rispettivamente, 57% e 61%). La presenza femminile, invece, è dimezzata per il grado di prefetto (31%). Ambasciatore Ministro plenipotenziario Consigliere d’ambasciata Consigliere di legazione Segretario di legazione Uomini Donne Totale 30 193 1 17 31 210 189 31 220 123 32 155 216 87 303 Tabella 9, Occupazione femminile nella carriera diplomatica (Fonte: Elaborazione su dati della Ragioneria dello Stato, Conto Annuale 2011) 17 Prefetto Vice prefetto Vice prefetto aggiunto Consigliere di prefettura Uomini Donne Totale 137 295 164 21 62 394 266 17 199 689 430 38 Tabella 10, Occupazione femminile nella carriera prefettizia (Fonte: Elaborazione su dati della Ragioneria dello Stato, Conto Annuale 2011) v. Gli enti pubblici non economici, gli enti di ricerca e l’università All’interno degli enti pubblici non economici, la percentuale femminile è prossima al 40% nel caso della dirigenza di II fascia, ma diminuisce sensibilmente in quella di I fascia (27%). Nel caso degli enti di ricerca e dell’università, è necessario operare una distinzione tra l’attività di ricerca e di docenza e gli incarichi amministrativi. All’interno degli enti di ricerca, il numero dei ricercatori donne è prossimo alla parità di genere (48,1%). La situazione muta, invece, se si prendono in considerazione gli incarichi di maggiore responsabilità: le donne ricoprono il 36,7% degli incarichi di primo ricercatore e il 23,6% degli incarichi quali dirigenti di ricerca. Tra i dirigenti, la percentuale femminile è del 42,3% degli incarichi di II fascia e del 39% di quelli di I fascia. Un assetto in parte simile si riscontra all’interno dell’università, dove quasi la metà dei ricercatori sono donne (45,3%), mentre la percentuale femminile diminuisce in modo netto nel caso dei professori associati (34,7%) e ordinari (20,5%). Per quanto riguarda la dirigenza amministrativa, la percentuale femminile è più elevata (42,7%)27. Dirigenti di II fascia Dirigenti di I fascia Uomini Donne Totale 547 72 352 27 900 99 Tabella 11, Dirigenza degli enti pubblici non economici (Fonte: Elaborazione su dati della Ragioneria dello Stato, Conto Annuale 2011) Ricercatori Dirigente di ricerca Primo ricercatore Ricercatore Dirigenti di II fascia Dirigenti di I fascia Uomini Donne Totale 4650 766 1478 2405 49 14 3328 237 857 2234 36 9 7978 1003 2335 4639 85 23 Tabella 12, Enti di ricerca (Fonte: Elaborazione su dati della Ragioneria dello Stato, Conto Annuale 2011) 27 Per quanto riguarda l’università, il Conto annuale della Ragioneria riporta solo i dati riferiti ai dirigenti di II fascia. 18 Professori e ricercatori Professori ordinari e straordinari Professori associati Ricercatori Dirigenti di II fascia Uomini Donne Totale 34.911 19.287 54.198 11.552 2.993 14.545 10.406 12.953 146 5.531 10.763 109 15.937 23.716 255 Tabella 13, Università (Fonte: Elaborazione su dati della Ragioneria dello Stato, Conto Annuale 2011) 3.1.3. La formazione In generale, la crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro italiano è inferiore al miglioramento della formazione e dell’istruzione femminile. Quest’ultima, infatti, è aumentata di quasi dodici punti percentuali (Tabella 14), laddove il tasso di occupazione, come si è prima visto (Tabella 2), è aumentato di appena cinque punti. Paese UE Italia 2002 2003 2004 2005 65.8 67.2 68.4 69.4 44.1 46.4 49.3 50.4 2006 69.9 51.3 2007 70.7 52.3 2008 2009 71.3 72.0 53.3 54.3 2010 72.7 55.2 2011 73.4 56.0 Tabella 14, Persone con formazione superiore, secondaria o terziaria (Fonte: Eurostat, Persons aged 25-64 and 20-24 with upper secondary or tertiary education attainment) Nell’ambito della dirigenza pubblica, vi è una sostanziale parità tra uomini e donne nella partecipazione alla formazione, ad eccezione delle agenzie (in cui la partecipazione femminile è inferiore al 30%). 19 Grafico 4, Dirigenti partecipanti alla formazione (Fonte: Dipartimento della funzione pubblica, Rapporto per l’anno 2012 sull’attuazione della Direttiva per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche emanata in data 23 maggio 2007 (dati riferiti al 2011)) 3.1.4. Il differenziale retributivo Secondo i dati Eurostat, il divario retributivo tra donne e uomini nel mercato del lavoro italiano è significativamente inferiore rispetto a quella europea: 4,9%, rispetto ad una media europea del 17,5%. 1) Provvisorio. (2) Dati 2007. (3) Dati 2008. Grafico 5, Differenziale retributivo. Media nei Paesi europei (Fonte: Elaborazione su dati Eurostat, Gender Pay Gap Statistics, 2010) 20 Nell’ambito della dirigenza pubblica, tale differenza retributiva è in linea con la media nazionale nel caso degli incarichi di dirigenza generale (salvo che nel caso del Ministero delle Politiche Agricole, alimentari e forestali, con una media di differenziale retributivo del 15,4%). Nel caso della dirigenza apicale, le differenze maggiori riguardano i Ministeri per lo Sviluppo economico, dell’Economia e delle Finanze e dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, nonché, nuovamente, il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. Tabella 15, Differenziale retributivo. Incarichi di direzione generale e non generale (Fonte: Dipartimento della funzione pubblica, Rapporto per l’anno 2012 sull’attuazione della Direttiva per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche emanata in data 23 maggio 2007 (dati riferiti al 2011)) 21 3.1.5. Il part-time Le pubbliche amministrazioni fanno poco uso delle forme flessibili di lavoro: su un campione di 391.563 funzionari – che rappresenta il personale totale delle amministrazioni che hanno risposto al censimento – solo 21.848 usufruiscono del parttime (di cui 21.515 ha un contratto a tempo indeterminato e solo 333 a tempo determinato)28. Inoltre, la contrattualizzazione flessibile è nettamente privilegiata dalle donne (che rappresentano circa l’80% degli utilizzanti) in ragione dell’indisponibilità di servizi di supporto adeguati alle proprie esigenze in termini di costi, orari, vicinanza alla zona di residenza e presenza di personale specializzato29. Grafico 6, Percentuale di forme di lavoro flessibile (Fonte: Dipartimento della funzione pubblica, Rapporto per l’anno 2012 sull’attuazione della Direttiva per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche emanata in data 23 maggio 2007 (dati riferiti al 2011)) 3.2. Il contesto normativo Numerosi sono stati gli interventi legislativi in materia di pari opportunità rilevanti anche per il settore pubblico e finalizzati a garantire l’attuazione dei principi di uguaglianza e di non discriminazione fissati dalla Costituzione (articoli 3, 37 e 51) e, più tardi, di quelli stabiliti dalle direttive europee. Tali interventi sono stati tuttavia adottati lentamente e con gravi ritardi rispetto alle raccomandazioni dell’Unione europea e alle esperienze di altri paesi. Le politiche di pari opportunità sono state realizzate con norme a tutela della lavoratrici e per favorire la valorizzazione delle differenze; con disposizioni di eliminazione o riduzione degli effetti discriminatori prodotti, direttamente o indirettamente, sulle condizioni lavorative; con misure positive di parificazione. Tali norme sono il frutto di un percorso che segna lo sviluppo di un diverso concetto di 28 Il dato è stato raccolto su un campione di 95 amministrazioni “destinatarie dirette” del format utilizzato dal Dipartimento della Funzione Pubblica per il censimento sull’attuazione delle misure di pari opportunità tra donne e uomini nelle amministrazioni pubbliche. 29 ISTAT, La Conciliazione tra Lavoro e Famiglia. Anno 2010, 28 dicembre 2011, pp. 8 ss. (disponibile alla pag. web http://www.istat.it/it/) 22 parità: dalla tutela differenziata della donna alla promozione degli strumenti per garantire la parità di trattamento tra donne e uomini. 3.2.1. Le norme a tutela delle lavoratrici La necessità di prevedere interventi protettivi a favore delle lavoratrici discende dall’articolo 37 della Costituzione, che è applicazione, nel settore del lavoro, del principio di uguaglianza fissato dall’articolo 3. La Costituzione, da un lato, stabilisce il principio della parità tra donne e uomini; dall’altro, riconosce la necessità di protezione delle donne affinché le condizioni di lavoro consentano loro di continuare a svolgere la funzione familiare, parimenti tutelata dalla Costituzione30. La formulazione è in chiave alternativa poiché la scelta di accentuare gli interventi protettivi, rendendo più rigido per le imprese l’utilizzo del lavoro femminile, allontana gli obiettivi paritari. Del resto il disposto costituzionale recepisce un orientamento ancora diffuso tra i padri costituenti che evidenziava la necessità di tutelare la donna in quanto soggetto debole e non pienamente idoneo a svolgere tutte le tipologie lavorative. Per questo motivo, gli interventi attuativi dell’articolo 37 Cost., sono caratterizzati da un fisiologico “strabismo” in cui convivono insieme esigenze di tipo protettivo e di tipo antidiscriminatorio. Tuttavia, mentre in alcuni casi la parità viene perseguita principalmente tramite la rimozione delle limitazioni poste dal “vecchio modo” di proteggere il lavoro femminile; in altri casi, invece, essa viene assicurata grazie alla previsione di interventi normativi ad hoc che mirano a colmare la disparità di trattamento proprio grazie alla valorizzazione della differenza. a) La parità tramite la rimozione delle limitazioni all’accesso al lavoro In applicazione dell’art. 51 della Costituzione, il principio di parità di trattamento nell’accesso agli impieghi pubblici è ora riconosciuto dal d.lgs. n. 165/2001 sia con riferimento alle procedure concorsuali, sia rispetto alla formazione del personale. L’effettiva partecipazione delle donne ai processi decisionali pubblici è stata riconosciuta anche dal DPCM n. 439/1994 che, con riferimento alle procedure di selezione della qualifica dirigenziale, ha previsto la riserva alle donne di almeno un terzo dei posti nelle commissioni esaminatrici. b) La tutela tramite un regime normativo differenziato: maternità e paternità La disciplina a sostegno della maternità si inserisce tra gli interventi volti a garantire la tutela della donna tramite l’emanazione di un regime differenziato, con l’obiettivo di colmare la disuguaglianza tra donne e uomini (cd. discriminazione positiva) nel mercato del lavoro. Essa introduce alcuni strumenti, quali il divieto di adibire la donna al lavoro negli ultimi mesi della gravidanza e nei primi successivi al parto, il diritto a un trattamento economico durante il periodo di astensione dal lavoro, il 30 Cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 123 del 1969 e sentenza n. 137 del 1986. 23 divieto del licenziamento e la computabilità a tutti gli effetti dei periodi di congedo nell’anzianità di servizio, il diritto al riposo giornaliero. Tali strumenti, seppur in parte adottati già durante gli anni ‘30, sono stati modificati e completati solo in seguito all’entrata in vigore della Costituzione. La tutela della maternità ha, tuttavia, trovato una compiuta organicità solamente a seguito dell’emanazione del d.lgs. n. 151/2001, che riordina diverse norme emanate in precedenza. Ancora in tale normativa prevale l’impostazione protezionistica il cui obiettivo è assicurare che le donne non rinuncino al ruolo di madre per dedicarsi esclusivamente all’attività lavorativa. In tale prospettiva vengono vietati alle lavoratrici madri alcuni lavori (in quanto pericolosi, faticosi e insalubri) durante il periodo di gravidanza e sino a sette mesi di età del bambino. Durante tale periodo la lavoratrice è addetta ad altre mansioni, anche inferiori a quelle abituali, purché conservi il diritto alla retribuzione corrispondente alle mansioni precedentemente svolte, nonché la qualifica originale. Quando la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni, il servizio ispettivo del Ministero del Lavoro, competente per territorio, può disporre l'interdizione dal lavoro per il periodo di gravidanza e fino a sette mesi di età del figlio. In linea con le disposizioni europee è, poi, previsto il divieto del lavoro notturno per le lavoratrici madri dal momento dell’accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino. Sul piano dei diritti a sostegno della maternità, vengono riconosciuti alle lavoratrici il diritto a permessi retribuiti per l’effettuazione di esami prenatali, accertamenti clinici ovvero visite mediche specialistiche durante tutto il periodo della gestazione, nel caso in cui questi debbano essere eseguiti durante l'orario di lavoro. Ulteriori disposizioni sono state previste a garanzia preventiva della salute della madre e del figlio. Fra questi, il principio fondamentale è la valutazione del rischio nel contesto lavorativo. Se con la valutazione si riscontra la presenza di rischi per la sicurezza e salute della lavoratrice, il datore di lavoro deve adottare tutte le misure necessarie affinché l'esposizione al rischio delle lavoratrici sia evitata, modificandone temporaneamente le condizioni o l'orario di lavoro. La legge n. 92/2012 (legge Fornero) ha introdotto, seppur in via sperimentale per gli anni 2013-2015, il congedo di paternità obbligatorio. Il padre lavoratore dipendente, infatti, è tenuto ad astenersi dal lavoro, per un giorno, entro i cinque mesi dalla nascita del figlio. Entro lo stesso periodo, inoltre, ha la facoltà di astenersi per ulteriori due giorni, anche continuativi, previo accordo con la madre e in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria a lei spettante. Per questi giorni di astensione viene riconosciuta dall’Inps un'indennità giornaliera pari al 100% della retribuzione. È possibile, peraltro, fruire dei congedi su base oraria (e non più giornaliera) (d.l. n. 216/2012). Spetta alla contrattazione collettiva di settore la regolamentazione e i criteri di calcolo della base oraria. c) La parità tramite l’eliminazione, il divieto e la prevenzione delle discriminazioni Diversi interventi regolatori si sono preoccupati di eliminare le pratiche discriminatorie, come la “clausola di nubilato” che garantiva al datore di lavoro di procedere al licenziamento immediato della lavoratrice in caso di matrimonio. La legge n. 903/1077 sancisce per la prima volta, seppur ancora sul piano formale, il principio generale di non discriminazione comprendendo tutti gli aspetti 24 della disciplina dei rapporti di lavoro, dalla fase preliminare sino alla costituzione dei medesimi. Si tratta della parità di retribuzione (che opera quando le prestazioni richieste sono uguali o di pari valore); nelle mansioni assegnate, a prescindere da qualsiasi considerazione legata al rendimento individuale; nel sistema di inquadramento professionale e nella progressione di carriera. La stessa introduce la nullità di qualsiasi atto o patto discriminatorio31. Durante gli anni ‘90 il concetto di discriminazione si amplia. La legge n. 125/1991 introduce, per la prima volta nel nostro ordinamento, il concetto di “discriminazione indiretta” (direttiva n. 76/207/CE e n. 2002/73/CE) che vieta norme o comportamenti che, pur apparentemente neutri, mettono (o possono mettere) i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso. In attuazione di tale divieto, il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (d.lgs. n. 198/2006), prevede l’individuazione di strumenti di prevenzione e rimozione di ogni forma di discriminazione al fine di realizzare gli obiettivi di pari opportunità. Il 29 giugno 2012, con un’interrogazione parlamentare, è stato posto alla Commissione europea il tema della disparità di genere e dell’esistenza di discriminazioni indirette nella procedura di reclutamento della Banca d’Italia. Secondo l’europarlamentare che ha presentato l’interrogazione, i dati riferiti ai dipendenti dell’autorità indipendente italiana a tutela del credito presentano una scarsa presenza delle donne nelle posizioni dirigenziali (le donne sono meno della metà dei neoassunti laureati). Eppure, tra il 1998 e il 2009 si sono svolte 7 selezioni destinate al profilo «economico» e 6 destinate a «giuristi»; in totale si sono presentati 13 397 candidati, di cui 423 sono stati dichiarati idonei. Le donne erano il 61,5 % dei partecipanti e solo il 35,5 % degli idonei. Il risultato, seppur riflette l'asimmetria nel lavoro domestico e di cura della famiglia che nel nostro paese è particolarmente pronunciata, potrebbe segnalare l’esistenza di discriminazioni indirette che, secondo la CGUE, ricorrono quando un datore di lavoro accorda involontariamente una preferenza a candidati appartenenti a un certo gruppo, in assenza di elementi che ne dimostrino la migliore qualità rispetto agli altri. Alla luce di tali considerazioni, l’europarlamentare chiede alla Commissione di indicare dati e statistiche di raffronto con la BCE, valutando una media delle altre banche centrali europee e di chiarire se intende procedere a una verifica del corretto recepimento degli obblighi nella normativa italiana, alla luce dell'interpretazione consolidata della CGUE — dal «caso Defrenne II» ad oggi — sulla nozione di «discriminazione indiretta o implicita» Risposta: la Commissione invita alla lettura dei dati sulle posizioni di alto livello occupate da donne e uomini nelle banche centrali nazionali e nelle istituzioni finanziarie europee che evidenziano un trend generale a favore degli uomini. Banche Centrali Dirigenti Donne (N) Funzionari Uomini (N) Donne (N) Uomini (N) Donne (%) Uomini (%) EU-27 0 27 50 238 17 83 Belgio 0 1 4 14 22 78 Bulgaria 0 1 1 6 14 86 Repubblica Ceca 0 1 1 6 14 86 Danimarca 0 1 6 22 21 79 Germania 0 1 1 5 17 83 Estonia 0 1 2 9 18 82 Irlanda 0 1 2 10 17 83 Grecia 0 1 1 10 9 91 31 Più di recente è stato riconosciuto il divieto di patti e atti finalizzati alla cessazione del rapporto di lavoro per discriminazioni basate sul matrimonio e sulla maternità, anche in caso di adozione o affidamento (art. 35 del d.lgs. n. 198/2006), ovvero a causa della domanda o fruizione del periodo di congedo parentale o per malattia del bambino (art. 54 del d.lgs. n. 151/2001). 25 Spagna 0 1 2 7 22 78 Francia 0 1 2 9 18 82 Italia 0 1 1 17 6 94 Cipro 0 1 0 6 0 100 Lettonia 0 1 3 11 21 79 Lituania 0 1 0 5 0 100 Lussemburgo 0 1 0 9 0 100 Ungheria 0 1 2 5 29 71 Malta 0 1 3 10 23 77 Olanda 0 1 1 4 20 80 Austria 0 1 0 4 0 100 Polonia 0 1 4 13 24 76 Portogallo 0 1 0 5 0 100 Romania 0 1 1 8 11 89 Slovenia 0 1 2 3 40 60 Slovacchia 0 1 0 4 0 100 Finlandia 0 1 5 7 42 58 Svezia 0 1 5 12 29 71 Regno Unito 0 1 1 17 6 94 Croazia 0 1 1 13 7 93 Repubblica di Macedonia 0 1 3 6 33 67 Turchia 0 1 0 12 0 100 Repubblica Serba 0 1 4 6 40 60 Islanda 0 1 4 3 57 43 Liechtenstein - - - - - - Norvegia 0 1 9 13 41 59 Tutti i Paesi 0 33 71 291 20 80 Dati raccolti nel periodo11/06/2012-13/06/2012 Box 1, Disparità di genere e “discriminazioni indirette”: nella Banca d'Italia, non c'è posto per le donne? 3.2.2. Le norme “di promozione” della parità di genere Gli anni ‘90 segnano una svolta nelle politiche di genere, grazie al concorso di diversi fattori, tra cui la valorizzazione del ruolo delle Regioni e degli enti locali nel contributo alle politiche di genere; la necessità di riorganizzare in modo sistematico e organico le istituzioni operanti a tutela della parità di genere istituite durante gli anni ‘80; il recepimento degli obblighi internazionali ed europei; la necessità di introdurre azioni a sostegno dell’accesso delle donne anche alla vita istituzionale e politica del Paese. È così che il principio della parità formale lascia spazio all’introduzione di strumenti che garantiscono in concreto alle donne di poter svolgere l’impegno lavorativo insieme a quello familiare. a) Le azioni positive Il Codice delle pari opportunità (art. 48) ha previsto l’obbligo per le pubbliche amministrazioni (amministrazioni dello Stato, province, comuni, enti pubblici non economici) di redigere Piani di Azioni Positive (PAP) triennali al fine di assicurare «la 26 rimozione degli ostacoli che, di fatto, impediscono la piena realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel lavoro tra uomini e donne». In base a questa indicazione, le amministrazioni devono orientare le politiche di gestione delle risorse umane e l'organizzazione del lavoro - sia a livello centrale che a livello decentrato - secondo linee di azione a favore della parità di genere. Il PAP è, dunque, un documento programmatico dell’ente che introduce azioni positive all’interno del contesto organizzativo al fine di riequilibrare le situazioni di diseguaglianza di condizioni fra donne e uomini che lavorano all’interno dello stesso ente. Sono, in altre parole, piani strategici che aiutano l’amministrazione ad auto-valutarsi – tramite la lettura dell’organizzazione in prospettiva di genere, e a diffondere la cultura delle pari opportunità grazie alla realizzazione di iniziative specifiche al contesto di riferimento. Il Piano è, infatti, destinato principalmente ai vertici delle amministrazioni e, in particolare, alle/ai responsabili del personale, che devono orientare le politiche di gestione delle risorse umane e l’organizzazione del lavoro, secondo le linee di azione fissate. In caso di mancata attuazione del piano, la sanzione prevista è l’impossibilità di assumere nuovo personale, compreso quello appartenente alle categorie protette. Sul piano formale il grado di ottemperanza da parte delle amministrazione dell’obbligo di redazione dei PAP è assai elevato. Nel 2011 più della metà (65,6%) degli enti analizzati (in totale 494) ha redatto almeno un piano. Enti Aziende sanitarie locali Province Comuni > 100.000 ab. Comuni tra 20.000 – 1000.000 ab. Comuni tra 5.000 e 20,000 ab. Comuni < 5.000 ab. Altri enti Enti che hanno redatto i piani triennali di azioni positive (% sul totale dei rispondenti per comparto) 37 % 78 % 80 % 74 % 66 % 66 % 8 Tabella 16, Enti che hanno predisposto un piano triennale di azione positiva (Fonte: Dipartimento della funzione pubblica, Rapporto per l’anno 2012 sull’attuazione della Direttiva per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche emanata in data 23 maggio 2007. Dati riferiti al 2011). Sul piano della effettiva realizzazione dei piani, la situazione si presenta più complessa. Per il controllo dell’attuazione degli indirizzi strategici indicati nei PAP la direttiva del Dipartimento della funzione pubblica e del Dipartimento diritti e pari opportunità del 2007 prevede esclusivamente l’obbligo di predisporre una relazione di sintesi sulle azioni effettuate nell’anno precedente e quelle previste per l’anno successivo. Ulteriori indicazioni sono, tuttavia, fornite direttamente dai PAP. Alcune amministrazioni si sono preoccupate di curare il controllo ex post. Si tratta, tuttavia, di interventi eterogenei lasciati alla diversa sensibilità e al diverso grado di sviluppo dell’amministrazione ai temi della politica di genere. La Regione Piemonte, ad esempio, ha costituito, a cura del Comitato Pari Opportunità dell’Ente, un nucleo di monitoraggio delle azioni indicate nel PAP. Il comune di Bologna, invece, nel piano triennale 20122014, prevede di avviare un percorso di valutazione sotto la responsabilità del Capo 27 Area Personale e Organizzazione sulla base delle risorse disponibili e di affidare al Comitato Unico di Garanzia delle pari opportunità (CUG) i compiti di verifica sui risultati delle azioni positive individuate. b) Le strategie di conciliazione Uno studio effettuato dall’ISTAT nel 2010 ha rilevato che sono ancora principalmente le donne ad occuparsi dell’attività di cura dei figli, degli anziani o dei disabili (vedi Tabella 17). Per tale ragione, la politica di parità si occupa della questione della conciliazione tra il lavoro e la cura familiare tramite il ricorso a diversi strumenti, tra cui l’accesso e la qualità dei servizi per l’infanzia e per l’assistenza di altre persone a carico; l’equa condivisione della responsabilità di cura e del lavoro domestico; l’uso del congedo parentale; la flessibilità delle forme del lavoro. Popolazione Persone che si prendono cura di qualcuno SESSO Maschi 19.711 Femmine 19.809 CLASSE DI ETÀ 15-24 6.070 25-34 7.689 35-44 9.740 45-54 8.668 55-64 7.353 CONDIZIONE OCCUPAZIONALE Occupati 22.614 In cerca di 2.089 occupazione Inattivi Totale 14.817 39.520 di figli coabitanti di altri bambini di adulti (anziani, malati, disabili) 6.804 8.378 5.246 5.698 978 1.688 1.218 2.111 613 2.794 6.255 3.612 1.908 127 2.437 5.786 2.418 176 379 322 482 514 969 169 271 678 1.200 1.011 9.738 745 7.849 518 1.109 153 1.796 179 4.699 15.182 2.577 10.944 1.403 2.665 1.354 3.329 Tabella 17, Popolazione e persone di 15-64 anni che si prendono regolarmente cura di figli coabitanti con meno di 15 anni, di altri bambini della stessa fascia di età e/o di adulti (anziani malati, disabili) per sesso, classe di età e condizione occupazionale. (Fonte: ISTAT, Rapporto sulla conciliazione tra lavoro e famiglia emanato in data 28 dicembre 2011 (dati riferiti al II trimestre 2010)). i. La flessibilità family-friendly Al fine di favorire la conciliazione tra tempi lavorativi e quelli familiari, hanno iniziato ad essere utilizzate anche nell’ordinamento giuridico italiano –seppure meno che in altri paesi europei- forme contrattuali che mirano a incidere sulla distribuzione degli orari. L’istituto del part-time, in particolare, è stato introdotto nel settore pubblico dalla legge n. 554/199832 e confermato dal d.lgs. n. 165/2001, il quale rinvia però alla contrattazione del settore pubblico l'adattamento delle normative generali sulle tipologie flessibili di lavoro alle peculiarità del settore pubblico. Particolarmente controversa è stata l’applicazione dell’istituto del part-time alla dirigenza. La posizione strategica assunta dal dirigente a seguito dall’attuazione del 32 Successivamente il part-time è stato disciplinato dal D.P.C.M. 17.03.1989, n.117 e dal d.lgs. 3.febbraio, n.29, come modificato ed integrato, in particolare, dal d.lgs. 31.03.1998, n. 80. 28 principio di separazione tra politica e amministrazione e il rischio di incidere negativamente sul funzionamento della PA, in caso di riduzione del normale orario di lavoro, hanno contribuito ad applicare in modo restrittivo l’istituto del part-time. Per tenere conto delle esigenze di funzionalità della pubblica amministrazione, i contratti collettivi dell’area dirigenziale sono stati abilitati a introdurre una disciplina più restrittiva per l’accesso al part-time dalla legge n. 448/1998 (finanziaria 1999). Una deroga è, tuttavia, prevista nell’ambito sanitario. La legge n. 488/1999 (finanziaria 2000) ha espressamente consentito l’accesso a un regime di impegno ridotto al personale non sanitario con qualifica dirigenziale purché sia preposto alla titolarità di uffici, con conseguenti effetti sul trattamento economico secondo criteri definiti dai contratti collettivi nazionali di lavoro. ii. I congedi parentali La legge n. 53/2000 attribuisce a entrambi i genitori (e quindi anche al padre, a prescindere dal fatto che la madre lavori o meno e che utilizzi o meno i congedi parentali), il diritto all’astensione dal lavoro per prendersi cura dei figli. Terminato il periodo di congedo obbligatorio di maternità, ciascun genitore ha diritto di astenersi dal lavoro nei primi otto anni di vita del bambino, anche contemporaneamente, per un periodo non superiore a 11 mesi complessivi per entrambi i genitori 33. Questi congedi facoltativi che prevedono un diverso riconoscimento retributivo a seconda che l’età del figlio sia maggiore o inferiore ai tre anni sono riconosciuti anche nei casi di affidamento e di adozione (nazionale o internazionale) entro otto anni dall’ingresso del minore nel nucleo familiare. Un rapporto del 2010 ha evidenziato che tra i genitori di bambini di età inferiore a otto anni, che nel secondo trimestre del 2010 risultavano avere un’occupazione, ne ha goduto tuttavia circa una donna ogni due (45,3%), e solamente il 6,9% degli uomini. Nonostante la normativa punti a favorire la fruizione dell’astensione facoltativa da parte dei padri, questa risulta confinata soprattutto ai dipendenti della pubblica amministrazione, tra i quali circa uno ogni due dichiara di averne fruito”34. iii. La riorganizzazione del tempo sociale Ulteriore strumento finalizzato a conciliare tempi lavorativi e familiari è l’adozione di piani di riorganizzazione del tempo sociale. Si tratta di piani adottati, con più frequenza e con maggior successo, su scala locale poiché su questi livelli di governo è più facile sperimentare nuove forme di tempi e spazi grazie sia alla riorganizzazione dei servizi pubblici, quali scuole, enti locali, ASL, trasporti, e dei servizi commerciali e del tempo libero, sia al maggiore coinvolgimento delle parti interessate. Si tratta, dunque, di interventi di governance di pianificazione e programmazione del territorio previsti, per la prima volta, dalla legge n. 53/2000 che assegna alle Regioni la funzione di definire, con proprie leggi, le norme e i criteri attraverso cui comuni possono coordinare gli orari di uffici, servizi pubblici e servizi commerciali e promuovere l’uso del tempo per fini di solidarietà sociale. Ai comuni, invece, la legge richiede di coordinare e riorganizzare gli orari cittadini attraverso la predisposizione e l’attuazione di un “piano territoriale degli orari” ovvero tramite la 33 Nel dettaglio, mentre la madre può astenersi per un periodo, continuativo o frazionato, non superiore a 6 mesi, il padre può astenersi per un periodo, continuativo o frazionato, non superiore a 7 mesi. 34 ISTAT, La Conciliazione tra Lavoro e Famiglia, cit. 29 promozione o l’adesione alle “banche del tempo”. La finalità di questi interventi comprende anche la valorizzazione delle pari opportunità. Del resto, garantire la conciliazione dei tempi del lavoro non solo permette un maggior accesso delle donne al mercato del lavoro, ma influenza positivamente la soddisfazione di tutti i lavoratori, del clima organizzativo e, nel complesso, assicura un maggior benessere sociale. 3.3. Gli strumenti organizzativi In estrema sintesi, le istituzioni della parità di genere possono intervenire su tre diversi livelli: quello centrale, quello periferico ovvero all’interno di un sistema “a rete”. Questi strumenti contribuiscono allo svolgimento delle funzioni di tutela e promozione della parità di genere essendo attratte, in alcuni casi, nell’orbita del Ministero del Lavoro; in altri, in quella del Ministero delle Pari Opportunità istituito solo a partire dal 1996. A partire dagli anni ‘90 il legislatore ha accompagnato l’adozione delle norme in materia di parità con la previsione di istituzioni ad hoc (a iniziare dalle Commissioni per le pari opportunità) per la loro attuazione e a cui sono state successivamente attribuite diverse funzioni e ulteriori compiti. Si tratta, dunque, di un sistema creato senza un’organica progettazione che ha determinato incoerenze, ridondanze e sovrapposizioni segnalate dalle diverse occasioni in cui il legislatore ha modificato la materia. Ulteriori complicazioni sono state fornite anche dal legislatore regionale che, nell’ambito del proprio ordinamento, ha previsto ulteriori istituzioni per coadiuvare – a seconda dei casi – la giunta, il consiglio o, laddove previsto, l’assessorato per le pari opportunità35. A livello centrale i principali organi sono: Il Comitato nazionale per la Parità che opera ai sensi della legge n. 125/1991 presso il Ministero del Lavoro, con il compito di promuovere le azioni positive, misure finalizzate all’eliminazione delle disparità che colpiscono le donne nella ricerca e nell’accesso al lavoro, nei percorsi formativi, nella crescita professionale e di carriera. La Commissione nazionale per le pari opportunità tra uomo e donna, che opera dal 1984 presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri con il compito di fornire al Ministro per le pari opportunità consulenza e supporto tecnicoscientifico nell'elaborazione e nell'attuazione delle politiche di pari opportunità fra donna e uomo. Il regolamento del 2004 incardina la Commissione presso il Dipartimento per le pari opportunità. La Consigliera di parità nazionale che promuove e controlla l’attuazione dei principi di uguaglianza di opportunità e non discriminazione nel mondo del lavoro. Nell’esercizio delle sue funzioni, la Consigliera riveste la qualifica di pubblico ufficiale e ha l’obbligo di segnalazione all’autorità giudiziaria per i reati di cui viene a conoscenza. L’Ufficio della Consigliera nazionale di parità è funzionalmente autonomo, dotato del personale e delle strutture necessarie per lo svolgimento dei suoi compiti. Gli obiettivi e le attività da svolgere vengono 35 Solo per fare un esempio, gli Organismi di Parità Regionali del Piemonte sono: il Comitato di Pari Opportunità; la Commissione regionale per la realizzazione delle Pari Opportunità uomo-donna; la Consigliera di Parità regionale; la Consulta delle elette; la Consulta femminile regionale. 30 individuati dalla Consigliera nazionale in carica, nel rispetto degli indirizzi di legge. A livello decentrato le principali istituzioni sono: Il Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni (CUG) istituito con decreto del 24 marzo 2011. Il CUG unifica le competenze attribuite ai Comitati per le pari opportunità e ai Comitati paritetici sul fenomeno del mobbing (istituiti nel 2002) e devono essere composti in modo da assicurare la presenza paritaria di entrambi i generi. Essi devono, altresì, essere formati da un determinato numero di componenti designati da ciascuna delle organizzazioni sindacali rappresentative e da un pari numero di rappresentanti dell’amministrazione (dirigenti e non). Per perseguire la parità di genere nella pubblica amministrazione, i CUG hanno poteri propositivi, consultivi e di verifica. I CUG redigono e trasmettono entro il 30 marzo di ogni anno, una relazione dettagliata riferita all’anno precedente ai vertici politici e amministrativi all’ente di appartenenza. Grafico 7, Percentuale di istituzione dei CUG (Fonte: Dipartimento della funzione pubblica, Rapporto per l’anno 2012 sull’attuazione della Direttiva per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche emanata in data 23 maggio 2007 (dati riferiti al 2011)). I Comitati di ente per le pari opportunità che operano dal 1986 presso le diverse amministrazioni pubbliche (ministeri, regioni, enti locali, Arpa, prefettura, ordini degli avvocati, enti pubblici, etc.), le università e gli enti di ricerca per creare condizioni di parità sostanziale delle lavoratrici e dei lavoratori, nell'ambito dei singoli luoghi di lavoro. Previsti dai contratti di lavoro dei comparti del pubblico impiego, questi comitati rappresentano la “struttura sindacale” della pari opportunità essendo composti, in misura paritetica, da rappresentanti delle amministrazioni e dei sindacati firmatari dei relativi contratti. La loro funzione è quella di garantire e promuovere le azioni atte a creare condizioni di parità sostanziale di chi lavora all’interno dell’amministrazione in cui sono collocate. Ai sensi della legge n. 183/2010 questi Comitati devono essere sostituiti dai CUG. 31 Grafico 8, Percentuale di comitati di pari opportunità presenti per enti (Fonte: Dipartimento della funzione pubblica, Rapporto per l’anno 2012 sull’attuazione della Direttiva per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche emanata in data 23 maggio 2007 (dati riferiti al 2011)). Operano inoltre ulteriori figure istituzionali con funzioni principalmente di raccordo. Si tratta di figure che valorizzano il sistema a rete per valorizzare lo scambio di esperienze e la promozione di politiche comuni. Tra esse: la Rete di Consigliere e di Consiglieri di parità con funzione di promozione e controllo dell’attuazione dei principi di pari opportunità e non discriminazione fra donne e uomini nel lavoro. Essa riunisce le consigliere, nazionali, regionali e provinciali, effettive e supplenti. Istituita nel 2000, la rete nazionale ha lo scopo di rafforzare le funzioni delle Consigliere e dei Consiglieri di Parità, accrescere l'efficacia della loro azione, consentire lo scambio di informazioni, esperienze e buone prassi. Alla rete nazionale si affianca quella regionale delle Consigliere di Parità di cui fanno parte tutte le consigliere provinciali. la Rete dei Comitati per le pari opportunità. Anche i Comitati per le pari opportunità valorizzano la loro azione grazie all’attivazione di un sistema a rete che collega tutti i comitati istituiti nell’ambito del medesimo settore (ad esempio la rete dei comitati per le pari opportunità delle professioni legali oppure la rete dei comitati presso le ARPA regionali). 4. Le istituzioni europee Poiché la parità di genere figura quale obiettivo prioritario da raggiungere attraverso tutte le politiche comunitarie, le istituzioni dell’Unione europea sono tenute a far sì che la partecipazione delle donne avvenga in modo sempre maggiore in ogni fase di elaborazione delle politiche lanciate dall’Unione europea, dall’ideazione alla loro emanazione. Per tale ragione, da diversi anni la politica delle pari opportunità rientra in tutti gli ambiti della gestione del personale delle istituzioni. Lo Statuto dei funzionari dell’Unione europea vieta, innanzitutto, qualsiasi discriminazione fondata sul sesso e consente l’adozione o il mantenimento di misure volte a favorire il raggiungimento della parità del sesso sottorappresentato (art. 1, lett. d). Lo Statuto regola, inoltre, in modo eguale per uomini e donne i livelli stipendiali, l’utilizzo del part-time, nonché le 32 condizioni per la promozione e la fruizione dei diritti pensionabili. Secondo quanto previsto sempre dallo Statuto, i lavoratori con figli (sia donne che uomini) hanno diritto ad avere da uno a sei mesi di congedo parentale, senza il pagamento del salario di base ma con l’attribuzione di un assegno mensile, entro i primi dodici mesi dalla nascita o adozione di un figlio (art. 42, lett. a). Alcune norme specifiche regolano, infine, il congedo obbligatorio di maternità (di un massimo di venti settimane, estensibili a ventiquattro in casi speciali) e di paternità (10 giorni usufruibili anche su base oraria). All’interno di ciascuna istituzione è stata istituita un’unità che si occupa di garantire la tutela delle pari opportunità e di sensibilizzare l’insieme del personale rispetto al tema della parità di genere. All’interno della Commissione europea (che è la più grande tra le istituzioni comunitarie) non vi sono solo le unità istituite all’interno di ciascuna Direzione generale ma è stata istituita anche un’unità centrale nella Direzione generale Risorse Umane, che coordina le attività svolte da quelle presenti nelle altre Direzioni generali. Dalla metà degli anni ‘90 è poi stato istituito all'interno del Collegio dei Commissari, un gruppo di Commissari con il compito di stimolare la riflessione e vigilare affinché pari opportunità siano previste in tutte le azioni comunitarie. Ogni istituzione emana annualmente un programma di azione che illustra le iniziative da promuovere per equilibrare la presenza delle donne nelle categorie in cui esse sono sotto rappresentate e per promuovere il loro sviluppo professionale assicurando uguali opportunità di carriera e di formazione. Sulla base di tali programmi durante l’anno vengono lanciate attività per favorire la realizzazione delle pari opportunità. Pur avendo un obiettivo comune, le politiche adottate dalle tre maggiori istituzioni comunitarie (Commissione, Parlamento e Consiglio) differiscono sotto alcuni profili, principalmente per la diversità di competenze e dimensioni di ciascuna istituzione. 4.1. La presenza femminile e le condizioni lavorative delle donne 4.1.1. La Commissione Se si contano i funzionari assunti a tempo indeterminato e su base temporanea (ad eccezione del personale assunto in via interinale), la Commissione annovera in totale 33.100 dipendenti tra persone che si occupano di attività segretariali e di supporto (categoria AST), amministratori (categoria AD5-AD8), middle (categoria AD9-AD13) e senior manager (categoria AD14-AD16)36. Di questi, al termine del 2011, il 55% erano donne. È per la verità già a partire dal 2005 che, nel complesso, il numero di donne impiegate nella Commissione supera quello degli uomini. Il divario cresce ulteriormente a favore delle donne tra i dipendenti assunti a tempo determinato (60.9%). Se si guardano le mansioni svolte, il quadro risulta, tuttavia, molto meno egualitario. Le donne tendono, infatti, a prevalere nelle funzioni inferiori (AST), dove nel primo semestre 2012 hanno raggiunto circa il 65%37. Nonostante il divario si sia ridotto negli anni grazie alle politiche di genere, le donne continuano invece a essere 36 37 Commissione europea, Human Resources Report 2012. Commissione europea (Human resources), Statistic Bulletin, 3 luglio 2012. 33 Rappresentanza femminile in % sotto-rappresentate nelle categorie degli amministratori non manager (42.3%), middle manager (27.1%) e senior manager (25%). Grafico 9, Evoluzione della rappresentanza delle donne per le posizioni di senior manager, middlemanager e amministratore (1995-2011) (Fonte: Commissione europea, Human Resources Report 2012) Nella categoria degli amministratori non manager la differenza numerica non è molto alta ma cresce nelle categorie più alte (middle e senior managers), dove le donne sono ampiamente sotto rappresentate. Secondo uno studio richiesto dalla Commissione, questo è dovuto principalmente al fatto che il numero di domande presentate dalle donne per accedere a posizioni apicali è molto inferiore a quello degli uomini38. Dal sondaggio effettuato tra i dipendenti della Commissione risulta che le ragioni che impediscono alle donne di presentare domanda risiedono nel fatto che esse sono scoraggiate dall’inconciliabilità con la vita privata delle condizioni lavorative associate alle posizioni manageriali (più ore lavorative e meno flessibilità), non sono incentivate dai loro superiori a presentare domanda, sono meno inclini a sfruttare le proprie conoscenze personali per fare carriera, hanno poca fiducia nella possibilità di riuscire ad ottenere una posizione dirigenziale e, in genere, tendono ad evitare di fare richiesta per accedere a posizioni per le quali non sono sicure di essere sufficientemente competenti. Le lavoratrici donne sono, inoltre, meno orientate alla carriera degli uomini e richiedono quindi maggiore incoraggiamento per mettersi in gioco. Nonostante il sistema di promozione sia lo stesso per uomini e donne, nella pratica sono, quindi, ancora gli uomini a fare carriera più in fretta. Anche sotto il profilo salariale l’uguaglianza di base data dall’applicazione delle stesse regole tra donne e uomini e si trasforma in realtà in uno sbilanciamento a favore degli uomini se si tiene conto del fatto che più dell’80% dei lavoratori part-time all’interno della Commissione sono donne39 e percepiscono dunque mediamente un salario inferiore. 38 Commissione europea, DG for personnel and administration, Evaluation of the fourth action programme for equal opportunities for women and men at the European Commission, luglio 2009. 39 Commissione europea, Human Resources Report 2012, cit. 34 Sempre per quanto riguarda l’effettiva condizione lavorativa delle donne, occorre, infine, tener conto del fatto che circa il 60-70% dei casi di molestie rilevate all’interno della Commissione ha per destinatarie le lavoratrici. 4.1.2. Il Consiglio e il Parlamento Considerazioni simili valgono anche per il Consiglio e per il Parlamento europeo, anche se in misura minore. Le due istituzioni sono, infatti, più piccole della Commissione e gli interventi a favore delle donne hanno portata più limitata. Il Consiglio occupa 4077 funzionari (quindi circa otto volte meno della Commissione), il 58,56% dei quali sono donne40. Le percentuali di donne a seconda delle diverse categorie rispecchiano grosso modo i dati della Commissione. Anche nel Consiglio, le posizioni inferiori sono occupate da donne che svolgono funzioni segretariali e di assistenza (AST) (nelle posizioni AST il 63,4% sono donne). A differenza della Commissione, il numero di donne è, tuttavia, elevato anche tra gli amministratori non manager (AD5-AD8), che sono il 65%. Le donne rimangono invece ancora sotto rappresentate tra i middle managers (AD9-AD13) dove raggiungono solo il 27,1%, e i senior managers (AD14-AD16) dove rappresentano solo il 17,8%. Il Parlamento europeo costituisce l’istituzione più piccola tra quelle considerate e conta circa 2900 funzionari41. Anche qui, in assoluto, il numero delle donne supera quello degli uomini, rappresentando il 58,6% degli impiegati. La percentuale di donne in funzioni segretariali (AST) è simile a quella delle altre due istituzioni (64,4%), mentre come per il Consiglio, tra gli amministratori non managers (AD5-AD8) le donne superano gli uomini rappresentando il 51,3%. La percentuale di middle managers (AD9-AD13) è, invece, piuttosto bassa rispetto alle altre due istituzioni (23,6%). Rispetto queste ultime, tuttavia, la rappresentanza femminile è maggiore nelle posizioni senior, dove le donne raggiungono circa il 32%. Anche al Consiglio e al Parlamento europeo, l’80% dei funzionari che utilizzano il part-time ed i congedi parentali sono donne. Anche in queste istituzioni, poi, la grande maggioranza dei casi di molestie vedono come vittime lavoratrici di sesso femminile. 40 Dati aggiornati al gennaio 2012. Parlamento europeo, Les femmes du Parlement Européen, 8 marzo 2012, disponibile all’indirizzo http://www.europarl.europa.eu/RegData/publications/2012/0001/P7_PUB(2012)0001_FR.pdf. 41 35 Commissione europea Consiglio dell’Unione europea Parlamento Numero funzionari (Uomini e donne) Percentuale AST AD non managers AD middle managers AD senior managers 33.100 55% 65% 43,3% 27,1% 25% 4077 58,56% 63,4% 65% 27,1% 17,8% 2943 58,6% 64,4% 51,3% 23,6% circa 32%* donne europeo * I direttori generali rappresentano il 33,3% mentre i direttori il 32,8%. Tabella 18, Rappresentanza femminile all’interno delle istituzioni comunitarie 4.2. Gli strumenti per favorire l'impiego femminile 4.2.1. La Commissione Ogni quattro anni la Commissione adotta un programma di azione con il quale individua le linee lungo le quali si svilupperanno le principali attività che intende intraprendere nei quattro anni successivi per favorire la parità di genere all’interno dell’istituzione. Nella Strategia per le pari opportunità tra donne e uomini all’interno della Commissione europea (2010-2014) sono state individuate tre principali aree d’intervento: gestire al meglio tutti i talenti a disposizione, attirando e mantenendo i talenti di cui la Commissione ha bisogno; creare un ambiente di lavoro flessibile, rispettoso e orientato ai risultati; fare in modo che gli obiettivi per il raggiungimento della parità di genere siano promossi a livello manageriale e che siano predisposti strumenti per misurare i progressi ottenuti42. La strategia conferma, per il raggiungimento degli obiettivi, l’utilizzo di alcuni degli strumenti da anni adottati all’interno dell’istituzione. Per favorire l’accesso delle donne al lavoro nell’istituzione è previsto, in particolare, che la pubblicazione dei posti vacanti venga effettuata in modo non discriminatorio (inserendo, ad esempio, la dicitura secondo la quale si incentiva la presentazione delle domande da parte di candidate donne), che i membri delle commissioni di concorso abbiano ricevuto un’adeguata formazione i materia di pari opportunità e che sia garantita la presenza di donne nelle commissioni di concorso, per l'accesso a tutti i gradi nell'istituzione43. Dal 1995 la Commissione fissa, inoltre, degli obiettivi di impiego che devono essere raggiunti negli anni di durata del programma di azione. Essi si differenziano dalle quote poiché non impongono l’assunzione delle donne in modo assoluto. La precedenza alle donne dev’essere data solo a parità di meriti rispetto ai concorrenti uomini ma, al 42 Commissione europea, Communication to the Commission on the strategy on equal opportunities for women and men within the European Commission, SEC(2010)1554/3, 17 dicembre 2010. 43 Tale presenza dovrebbe essere pari al 50% dei membri della commissione ma non viene sempre rispettata. Poiché i commissari vengono scelti tra il personale della Commissione e visto che tutt’ora la presenza femminile è in molte categorie minoritaria non è sempre facile reperire commissarie donne. 36 fine di poter verificare l'utilizzo dei criteri di selezione, alcune DG impongono ai commissari di esame di giustificare per iscritto le ragioni per le quali, in presenza di donne tra i candidati, esse non sono state inserite nell’elenco di coloro selezionati. Gli obiettivi di assunzione vengono individuati sulla base di calcoli che tengono conto, tra l’altro, delle esigenze e delle caratteristiche di ciascuna Direzione generale, nonché del numero di pensionamenti previsti negli anni coperti da ciascun programma. Secondo quanto previsto dalla Strategia 2010-2014, entro il 2014 le donne dovranno essere il 26,7% dei senior manager, il 30,7% dei middle manager e il 43,6% degli altri amministratori. Tali percentuali globali per la Commissione, sono differenziati per le varie Direzioni generali, ciascuna delle quali è tenuta a elaborare un piano multi annuale che preveda le azioni necessarie per il raggiungimento degli obiettivi e a misurare con scadenza annuale il raggiungimento o meno degli stessi. In caso di mancato raggiungimento non è prevista alcuna forma di sanzione. I dati vengono, tuttavia, pubblicati (secondo il principio del naming and shaming) e le Direzioni più virtuose vengono premiate con un’etichetta che possono utilizzare nelle comunicazioni con i funzionari della Commissione. Al fine di poter offrire al proprio staff un ambiente di lavoro che permetta di conciliare vita privata e vita lavorativa e con l’idea di modernizzare l’organizzazione del lavoro dando priorità ai risultati, a partire dal 2007, la Commissione ha introdotto l’utilizzo del telelavoro e del tempo flessibile44. Il primo permette, a chi ne faccia richiesta, di poter lavorare fuori dall’ufficio sia su base permanente (massimo due giorni e mezzo a settimana), sia in modo saltuario (per un massimo di trenta giorni all’anno)45. Lo strumento non ha, tuttavia, trovato grande utilizzo. Meno del’1% dei funzionari della Commissione lo utilizzano. Di questi, il 67% sono donne e occupano principalmente posizioni segretariali46. Il tempo flessibile consente, invece, di gestire, entro certi limiti, l’orario di entrata e uscita dal lavoro e la pausa pranzo secondo le esigenze del lavoratore. Il funzionario deve garantire giornalmente la propria presenza sul luogo di lavoro in determinate ore del giorno, mentre può lavorare di più un giorno e meno un altro in modo da raggiungere un totale prestabilito di ore settimanali. Dei circa 80% dei funzionari che utilizzano il tempo flessibile, più del 50% sono donne. Sia per il telelavoro che per il tempo flessibile, però, non vi sono dati che permettano di individuare quanto vengano utilizzati tali strumenti nelle posizioni manageriali. Lo stesso vale per il part-time, altro strumento di lavoro flessibile utilizzato all’interno della Commissione e previsto dallo Statuto per i funzionari di tutte le istituzioni comunitarie. Nella Commissione solo circa il 12% dei funzionari ne fa utilizzo e di questi, pur con una lieve diminuzione della percentuale nel tempo, più dell’80%, come si è detto, sono donne47. Anche il congedo parentale è più utilizzato dalle donne (circa quattro volte il numero degli uomini che lo utilizzano)48. 44 La Guida al flexitime (Administrative notice n. 62 del 21 dicembre 2006) e il memorandum della Commissione sull’uso del telelavoro (C(2006)2831) sono stati formalmente approvati nel dicembre 2006 e applicati a tutte le Direzioni generali dal 1 aprile 2007. 45 Commissione europea, Commission Decision of 18 December 2009 concerning the implementation of teleworking in Commission departments from 2010 to 2015, C(2009)10224, 18 dicembre 2009. 46 Id., Human Resources Report 2012, cit. 47 Ibid. Dal 2008 in cui la percentuale delle donne era circa l’86% si è passati, nel 2011 all’84%. 48 Ibid. 37 L'utilizzo del part-time e del congedo parentale presuppone che il lavoratore assente venga sostituito. Il fatto che siano le donne a farne maggior uso può quindi divenire un meccanismo di discriminazione di genere. Le sostituzioni brevi sono, infatti, più problematiche sia perché sono meno i lavoratori disposti ad assumere un lavoro per brevi periodi, sia perché dal punto di vista burocratico tali assunzioni sono difficili da gestire (il procedimento di assunzione è, di solito, abbastanza lungo e si rischia di assumere un lavoratore quando il congedo parentale è terminato o lo è quasi). Questo può indurre a preferire l’assunzione di uomini. Accanto ai descritti strumenti di lavoro flessibile, i manager sono incoraggiati, attraverso comunicazioni interne e corsi di formazione, a organizzare il lavoro in modo da permettere di conciliare vita lavorativa e professionale (ad esempio, fissando riunioni in orari che non ostacolino i funzionari con famiglia) e a promuovere la flessibilità lavorativa con il proprio esempio. Tutti i corsi di formazione all’interno della Commissione devono tener conto e promuovere la politica della parità di genere. Specifici training sulle pari opportunità vengono, tuttavia, impartiti ai funzionari donne e uomini e corsi di formazione e incontri informativi sulle molestie sulle donne vengono organizzate periodicamente sia per i manager che per il resto del personale. Vi sono, poi, meccanismi di comunicazione interna sulle pari opportunità, gestite generalmente dagli uffici delle risorse umane di ciascuna Direzione generale, il cui principale obiettivo è portare a conoscenza dei funzionari le problematiche legate alla parità di genere. Alcune Direzioni Generali hanno, infine, introdotto ulteriori strumenti, come ad esempio la costituzione di reti di donne volte a promuovere la parità di genere attraverso iniziative mirate oppure la possibilità di assumere personale a contratto per la sostituzione di maternità o per congedi parentali non solo per brevi periodi. In pratica, il sostituto non viene assunto dalla singola unità che ne ha bisogno ma dalla Direzione generale, cosicché, finita la sostituzione di maternità, il sostituto può occupare ulteriori posti che si dovessero liberare sia su base temporanea (per maternità o malattia), sia in modo permanente. La segregazione delle donne in posizioni inferiori (AST) e l'accesso di donne a posizioni dirigenziali rimangono i problemi più gravi all’interno delle istituzioni europee, il secondo soprattutto in un periodo in cui i tagli di personale stanno riducendo il numero delle posizioni disponibili in termini assoluti. Per favorire l’aumento degli uomini in posizioni AST la Commissione ha avviato una campagna di comunicazione il cui obiettivo consiste nel presentare tali posizioni come attrattive anche per gli uomini, senza tuttavia stabilire dei targets di assunzione. Per incentivare l’aumento del numero di donne in posizioni dirigenziali sono invece disponibili corsi di formazione dedicati alle donne, volti a prepararle, adottando un punto di vista specificamente femminile, a occupare posizioni manageriali. All’interno di alcune direzioni della Commissione, sono stati inoltre attivati diversi progetti innovativi per incentivare la presentazione di domande per posizioni manageriali da parte di donne, come coaching, mentoring e networking. Nei programmi di mentoring, per esempio, alcune funzionarie che si trovano nella posizione per poter essere promosse vengono associate a dei dirigenti con lo scopo di far loro apprendere quali siano i compiti di un dirigente, rafforzare in loro la convinzione di possedere le 38 caratteristiche necessarie per riuscire in tale posizione e mostrare loro come sia possibile conciliare il lavoro manageriale con la vita familiare. In generale, il complesso degli strumenti introdotti per favorire le pari opportunità ha contribuito ad aumentare la presenza femminile nella Commissione. Non per tutti, però, è stato possibile misurare l'effettivo contributo portato al raggiungimento di tale risultato. Tra le misure ritenute positive, la presenza di donne nelle commissioni di concorso ha dato prova di essere efficace, aiutando ad aumentare il numero delle donne assunte. Secondo un sondaggio effettuato all'interno della Commissione le donne si sentono infatti più a proprio agio se il proprio sesso è rappresentato nella commissione di concorso49. I sondaggi fatti tra il personale che utilizza i meccanismi di lavoro flessibile rivelano, inoltre, come essi non solo aumentino il grado di motivazione e di produttività, ma abbiano migliorato ampiamente anche la possibilità di conciliare famiglia e lavoro. Dalle verifiche a posteriori effettuate sembra, infine, che gli strumenti per incentivare le donne ad accedere a posizioni dirigenziali abbiano portato buoni risultati, facendo crescere nelle donne la consapevolezza delle proprie qualità e incoraggiandole a presentare domanda per posizioni superiori50. Un dato interessante che emerge dagli studi effettuati all'interno dell'istituzione è che, nonostante le disparità ancora riscontrabili a sfavore delle donne, queste ultime sembrano essere maggiormente soddisfatte rispetto agli uomini del lavoro svolto e dell'ambiente lavorativo all'interno dell'istituzione, mentre un rilevante numero di lavoratori di sesso maschile lamentano di sentirsi discriminati a favore delle donne e sostengono che le politiche per aumentare la presenza e la posizione occupata dalle ultime dovrebbero essere eliminate51. 4.2.2. Il Consiglio e il Parlamento Consiglio e Parlamento europeo utilizzano per i propri funzionari strumenti simili a quelli descritti per la Commissione, anche se in misura meno ampia, considerate le ridotte dimensioni delle due istituzioni rispetto alla Commissione. Non sono previsti per il reclutamento al Consiglio specifici obiettivi di assunzione per le donne. Tuttavia, come si è visto, la presenza femminile nelle diverse categorie rispecchia grosso modo quella della Commissione. Lo stesso vale per il Parlamento, dove solo per le posizioni più elevate sono previsti dei target di assunzione. Per ovviare al problema della scarsa presenza di donne nelle posizioni dirigenziali, inoltre, nel 2007 è stato avviato un progetto pilota di formazione specifica per donne che intendono diventare manager e circa il 29% delle partecipanti ha potuto effettivamente accedere a posizioni superiori. Al Consiglio, per incentivare le donne ad accedere a posizioni dirigenziali, oltre ad organizzare corsi di formazione, sono state avviate attività di coaching per donne che aspirino a diventare dirigenti. Il Parlamento è da diverso tempo impegnato nel creare un ambiente lavorativo che favorisca la diversità e le pari opportunità52. Attività di sensibilizzazione e 49 Commissione europea, DG for personnel and administration, Evaluation of the fourth action programme for equal opportunities for women and men at the European Commission, luglio 2009. 50 Ibid. 51 2010 Staff opinion Survey of Commission staff e 2008 Staff opinion Survey of Commission staff. 52 Parlamento europeo, Les femmes du Parlement Européen, cit. 39 d'informazione, così come l’organizzazione di tavole rotonde e la proiezione di film aventi tra i principali temi la parità tra uomini e donne, sono periodicamente organizzati. Sono state inoltre emanate delle linee guida per l’utilizzo di una terminologia neutra dal punto di vista del genere sia per la comunicazione interna che esterna. Dal 1986 è stato creato all’interno del Parlamento europeo un Comitato per le pari opportunità e la diversità (COPEC) con il compito di controllare l’applicazione delle misure per il raggiungimento della parità di genere all’interno dell’istituzione. Come meccanismi di flessibilità lavorativa, il Parlamento non ha introdotto, salvo per alcune mansioni53, strumenti diversi da quelli previsti dallo Statuto (part-time e congedi parentali) e forse per tale ragione il part-time è maggiormente utilizzato che nelle altre istituzioni (circa il 38% del personale ne fa utilizzo). 5. Il Regno Unito 5.1. I dati Nel Regno Unito il processo di affermazione del principio di pari opportunità nel pubblico impiego è scandito da alcune importanti riforme che, soprattutto negli anni più recenti, hanno portato le lavoratrici ad acquisire una maggiore visibilità e una più solida rappresentanza. Alcuni documenti e rapporti ufficiali dimostrano, infatti, che ancora nel 2005 le lavoratrici nel settore pubblico versavano in una persistente situazione di disuguaglianza, soprattutto con riferimento ai salari, e di segregazione in molti settori e comparti professionali. Attualmente le donne rappresentano ora il 65% della forza lavoro pubblica54. Vi è, tuttavia, una settorializzazione nella distribuzione della presenza femminile. A titolo di esempio, ancora nel 2006 le donne nell’amministrazione di polizia e in quella della giustizia erano sotto-rappresentate. Il 10% dei Capi della polizia distrettuale erano donne. E lo erano solo il 10,2% dei giudici della High Court e il 22,2% dei giudici di distretto. Al contrario le donne erano altamente rappresentate nell’ambito del servizio sanitario nazionale (78%), anche se solo il 28% occupava posizioni di vertice55. Inoltre, sebbene al 2012 la rappresentanza nel senior civil service risulta quasi duplicata rispetto al 1996, essa è ancora minoritaria: 37,1%. L’obiettivo è quello di arrivare al 39% alla fine del 2013. La percentuale dei top manager nel settore pubblico è del 31% (aprile 2012) e anche qui il target fissato è il 34% nel 2013. Il 50% delle funzioni di segreteria nel civil service sono svolte da lavoratrici56. Questi obiettivi si legano, inoltre, all’attuazione del progetto Leaders Unlimited avviato dal governo nel 2007 e che ha lo scopo di arrivare nel 2013 a una rappresentanza femminile pari al 35% negli inquadramenti superiori e dirigenziali del lavoro pubblico. Il programma non si rivolge solamente alla diseguaglianza di genere, 53 Il telelavoro è disponibile solo per i servizi di traduzione. ONS, Economic and Social Data Service, Quarterly Labour Force Survey Household Dataset, aprile – giugno, 2010. 55 I dati sono tratti da K. Miller, Leadership and Gender – Dilemmas in Uk Public Administration, paper presentato al 3rd Transatlantic Dialogue dal titolo “Leading the Future of the Public Sector” tenutosi a Newark, Delaware nel Maggio – Giugno del 2007 56 Dati tratti da http://www.civilservice.gov.uk/about/resources/monitoring-diversity 54 40 ma alle condizioni di sottorappresentazione dovute alla disabilità o alla appartenenza ad una minoranza etnica57. Posizione lavorativa 2007 2012 Senior Civil servants (alti funzionari pubblici) Top Managers (dirigenti) 32% 37,1% 26,6% 31% 2013 (previsioni) 39% 34% Tabella 19, Rappresentanza femminile nelle posizioni di leadership nel settore pubblico in percentuale Nel governo locale le donne occupano il 21,3% delle posizioni dirigenziali (chief executives) e rappresentano il 14,3% dei senior policy officers. In particolare, per quanto riguarda il local government i dati più recenti dimostrano che in Inghilterra e Galles gli impiegati presso le 375 autorità locali sono 2,244,400 (giugno 2010), i tre quarti dei quali sono di sesso femminile (75,1%) di cui un po’ più della metà lavora part-time (53,5%)58. In relazione al livello salariale, occorre sottolineare che oggi il gender pay gap è tendenzialmente meno rilevante nel settore pubblico rispetto a quello privato. I dati dimostrano che il gender pay gap è pari al 18% nel settore pubblico rispetto al 26,8% nel settore privato. Per quanto riguarda gli impiegati full time la percentuale scende al 9,8% nel settore pubblico rispetto al 18,4% nel settore privato. I dati degli impiegati part-time dimostrano delle percentuali molto maggiori: 36,3% nel settore pubblico rispetto al 42,8% nel settore privato59. Le lavoratrici part-time soffrono, infatti, una significativa penalità salariale ma comunque in misura minore rispetto a quelle del settore privato. Infatti il salario più basso per il lavoro part-time è in misura significativa più alto che nel lavoro privato (9,98 sterline l’ora contro 7,00 sterline nel settore pubblico). Inoltre, rispetto al settore privato oggi la lavoratrice full time del settore pubblico è meglio distribuita lungo l’asse dei livelli salariali, considerato che nel pubblico impiego è garantita la possibilità di lavorare in maniera flessibile anche in posizioni professionali più elevate. In generale, mentre il 56% delle lavoratrici nel settore privato guadagna meno di 300 sterline a settimana, nel settore pubblico la percentuale scende al 35%. Il 28% delle lavoratrici full time nel settore privato guadagna meno di 300 sterline alla settimana contro l’8% del settore pubblico. Ancora, il 77% delle lavoratrici part-time nel settore privato guadagna meno di 200 sterline, mentre nel settore pubblico la percentuale scende al 47%. Per quanto riguarda le qualifiche dirigenziali, non c’è molta divergenza nell’ammontare dei salari dei dirigenti full time di sesso femminile nell’impiego pubblico rispetto all’impiego privato; tuttavia, i dati sono significativamente diversi con 57 Sul punto cfr. F. Guéot, L’égalité professionnelle homme-femmes dans la fonction publique. Rapport au président de la République, La Documentation française, 2011, p. 34. 58 Local Government Group, Local Government Demographics, October, 2010. 59 Trade Union Congress (TUC), Women’s Pay and Employment Update: a public/private Sector Comparison. Report for Women’s Conference 2012, 2012. 41 riferimento al lavoro part-time. Se, infatti, il 10% delle manager donne nel pubblico impiego guadagnano il 15% in meno rispetto alle lavoratrici full time per la stessa posizione, le colleghe impiegate nel settore privato guadagnano il 50% in meno60. 5.2. I soggetti istituzionali, la legislazione, le azioni positive In linea generale fin dagli anni ‘70 del secolo scorso, tanto per l’impiego privato quanto per l’impiego pubblico, vale il divieto per il datore di lavoro di porre in essere comportamenti discriminatori in base al sesso (Sex Discrimination Act del 1975, c. 65). Inoltre, l’Equal Pay Act del 1970 riconosceva il diritto di ogni lavoratore, indipendentemente dal sesso, a vedersi riconosciuto il medesimo livello salariale e i medesimi benefici per il lavoro prestato. Tuttavia, i lenti progressi nel livello di rappresentanza femminile all’interno del pubblico impiego hanno spinto il governo a promuovere, in anni più recenti, significative politiche di riforma. A partire del 2005 sono state, quindi, avviate una serie di iniziative per promuovere nell’ambito in particolare del civil service e del local government i principi dell’uguaglianza e della diversità nell’impiego pubblico61. Le Employment Equality (Sex Discrimination) Regulations del 2005 hanno introdotto una definizione più puntuale dei comportamenti discriminatori e delle molestie sul luogo di lavoro a danno delle lavoratrici e proibito esplicitamente le discriminazioni che trovano la loro ragion d’essere nello stato di gravidanza della donna o nella sua condizione di madre. Gli Equal Opportunity Acts del 2006 e del 2010 hanno portato a compimento un approccio maggiormente sistematico al problema delle pari opportunità, riconoscendo alle pubbliche amministrazioni un ruolo centrale sia come soggetti regolatori che come datori di lavoro. Con l’Equal Opportunity Act del 2006 si è dato vita, in particolare, a un organismo pubblico specifico cui sono assegnate funzioni di garanzia, tutela e promozione delle pari opportunità. A capo di tale organismo è posta la Commission for Equality and Human Rights cui sono state assegnate le competenze già esercitate dall’Equal Opportunities Commission, dalla Commission for Racial Equality e dalla Disability Rights Commission. In generale, alla Commissione è affidato un potere di vigilanza nell’ambito del quale essa può procedere alla pubblicazione di guide e relazioni per sostenere l’operato delle pubbliche amministrazioni, richiedere a quest’ultime la pubblicazione dei dati e delle informazioni rilevanti, svolgere inchieste e, infine, ricorrere ad ogni rimedio giurisdizionale assicurato dall’ordinamento, tra cui, in particolare, la procedura di judicial review, che può essere avviata dalla Commissione per garantire la soddisfazione degli interessi da essa perseguiti. Ogni pubblica amministrazione e ogni soggetto esercente una pubblica funzione deve rispettare il c.d. gender equality public duty, che è parte di un più generale dovere 60 61 Ibid. UK Civil Service, Delivering a Diverse Civil Service: A 10-point Plan, 2005. 42 di non discriminazione contenuto e disciplinato dalla Part 11 dell’Equality Act del 201062. Quest’ultimo è un'espressione di sintesi che rinvia a una serie di obblighi specifici tra cui, in particolare, quello di eliminare le discriminazioni e le molestie in base al sesso e di promuovere l’uguaglianza e la parità nelle opportunità per donne e uomini. Da un punto di vista teorico generale, il gender equality public duty rappresenta uno specifico public statutory duty che impone ai soggetti pubblici che ne sono destinatari un obbligo di garantire l’attuazione delle misure e delle azioni positive più adeguate per garantire la condizione di uguaglianza rispetto al genere e la cui corretta osservanza può essere sindacata, come anticipato, nella procedura di judicial review. Il gender equality public duty deve essere osservato dalle amministrazioni nell’esercizio delle proprie funzioni, nell’individuazione e nell’emanazione delle politiche pubbliche (attraverso in particolare un gender impact assessment), nell’organizzazione dei servizi e nella disciplina e gestione dei rapporti di lavoro. Le previsioni contenute nell’Equality Act del 2006 sono state attuate attraverso atti amministrativi interni, ossia la fonte di disciplina principale per i rapporti di pubblico impiego63. In un primo momento, il recepimento degli specifici contenuti del gender equality duty è avvenuto, infatti, attraverso il Gender Equality Duty Code of Practice emanato dall’Equal Opportunities Commission nel novembre del 2006 e amministrato poi dalla Commission for Equality and Human Rights. Con riferimento al rispetto del dovere di parità nei rapporti di lavoro il Code of Conduct chiarisce che la pubblica amministrazione è tenuta a vigilare ed eliminare tutte le condotte discriminatorie nei suoi rapporti di impiego e a promuovere positivamente la parità di genere all’interno della propria forza lavoro. Ciò comporta il rispetto di una puntuale attività di pianificazione, raccolta e analisi dei dati, di fissazione di obiettivi a breve e lungo termine e di monitoraggio sullo stato di attuazione delle politiche garantendo, quanto più possibile, il coinvolgimento delle lavoratrici e dei lavoratori. Nella definizione dei piani e delle azioni occorre assicurare procedure di reclutamento imparziali, evitando il fenomeno della c.d. occupational segregation, vale a dire della eccesiva concentrazione di donne o uomini in una medesima funzione e servizio. Allo stesso tempo, si sottolinea l’esigenza di promuovere posizioni di lavoro flessibile assicurando la possibilità per le lavoratrici e i lavoratori di accedere al lavoro part-time anche nelle posizioni lavorative dirigenziali, oltre che di gestire in maniera adeguata i congedi parentali e la sospensione dal lavoro per le lavoratrici in stato di gravidanza. Infine, si auspica una revisione delle procedure disciplinari e dei livelli salariali e pensionistici al fine di garantire il principio della equal pay for equal work. 62 Section 76A Sex Discrimination Act del 1975 così come modificato dall’Equal Opportunity Act del 2006. 63 Al riguardo si vedano il Civil service code of conduct e il Civil service commissioners’ recruiment code che regola le procedure di assunzione. Analoghe disposizioni operano a livello locale e nei settori specifici. 43 L’attuazione in via amministrativa degli obiettivi legislativi ha rappresentato un limite alla riforma del 2006, nonostante sia stato riconosciuto alla Commission for Equality and Human Rights un potere di controllo molto penetrante. In questo contesto, l’emanazione dell’Equality Act del 2010 ha inteso rafforzare e ulteriormente declinare i doveri e le azioni positive in capo alle pubbliche amministrazioni, disciplinandoli direttamente in via legislativa. La normativa del 201064 intende garantire una attuazione maggiormente efficace del principio di pari opportunità nel settore pubblico attraverso una più precisa definizione dei public sector equality duty (section 149) e delle azioni positive da attuare attraverso il reclutamento e la gestione dei rapporti di lavoro. Tutte le pubbliche amministrazioni elencate nella Schedule 19 allegata alla legge sono, quindi, tenute a considerare nell’esercizio delle loro funzioni tre specifici obiettivi: i) l’eliminazione di ogni condotta contraria alla previsioni legislative65; ii) la promozione dell’uguaglianza e delle pari opportunità a favore di soggetti che condividono una protected characteristic data dalla razza, dalla disabilità, dal credo religioso, dall’orientamento sessuale, dalla condizione matrimoniale o di unione civile, dall’età, dal sesso, dalla condizione di gravidanza o maternità; iii) l’instaurazione di rapporti corretti tra soggetti protetti e il resto della collettività. La Part 5 dell’Act richiama il principio dell’equal pay tra donne e uomini e chiarisce alcuni profili relativi al salario della donna in stato di gravidanza e durante la maternità. In quest’ottica si chiariscono altresì alcune delle condizioni di legittimità dei c.d. pay protection schemes (section 69(3)). Questi ultimi sono dei piani che consentono di mantenere temporaneamente la condizione di disuguaglianza al fine di garantire un riavvicinamento delle condizioni salariali nel lungo periodo. Con riferimento alle azioni positive la legge prevede che nelle procedure di selezione e promozione del personale il datore di lavoro pubblico possa prendere in considerazione la condizione protetta di un lavoratore per la sua assunzione o promozione (section 159 (3)). Tale facoltà opera, però, a due condizioni: l’azione positiva vale a parità di merito tra i candidati e la categoria svantaggiata deve essere sotto rappresentata in quel particolare settore. Dai primi dati pubblicati sull’attuazione delle riforme risulta come tra i principali strumenti che hanno contribuito all’aumento della presenza delle lavoratrici nel settore del pubblico impiego vi sia il ricorso a strumenti di lavoro flessibile o al part-time (53% nel 2008 contro il 48% del 1997) 66. 64 L’Equality act del 2010 trova applicazione in Inghilterra e in Galles e in Scozia (tranne che per la section 190 e per la part 15). Contiene inoltre alcune previsioni di diretta applicazione per l’Irlanda del Nord. I doveri in esso espressi si applicano ai listed public bodies tra cui rientrano i dipartimenti del governo centrale, il governo locale e il sistema sanitario nazionale. Alcune regole specifiche sono previste per alcuni particolari settori come per esempio quello della polizia. 65 La legge tipizza le condotte discriminatorie che possono concretizzarsi in casi di direct discrimination, associative discrimination; discrimination by perception; discrimination arising from disability; indirect discrimination; harassment e victimisation. 66 UK Civil Service, Promoting Equality, Valuing Diversity. A strategy for the Civil Service, luglio 2008. 44 6. La Francia 6.1. Le donne nelle pubbliche amministrazioni: lo status quo alla base e ai vertici Sulla presenza femminile nelle pubbliche amministrazioni, la Francia non presenta dati dissimili dagli altri paesi europei. Il divario tra presenza femminile nelle pubbliche amministrazioni nel loro complesso e presenza femminile nelle posizioni apicali all’interno di queste amministrazioni; la distribuzione tra diverse tipologie di amministrazioni che riflette un’impostazione tradizionale delle competenze; l’uso del part-time e del congedo parentale in modo maggioritario da parte delle donne, anziché degli uomini; le differenze salariali sono gli elementi che emergono da una prima analisi dei dati67. Rispetto al settore privato, le amministrazioni pubbliche sembrano virtuose: le donne costituiscono il 59,8% del personale pubblico. Ma la diversa distribuzione per i tre settori della funzione pubblica francese rivela, altresì, un retaggio tradizionale: all’interno della funzione pubblica dello Stato il 51,7% sono donne, in quella territoriale le donne sono il 61%, in quella sanitaria sono il 76,7%. Se ulteriormente spacchettato, ciascuno di questi dati è, poi, particolarmente indicativo delle differenze indotte da una cultura tradizionale. All’interno delle amministrazioni dello Stato la presenza femminile è prevalente nei settori dell’istruzione, degli affari sociali e dell’economia: nell’istruzione le donne sono il 66,1% del personale, nel Ministero degli Affari Sociali il 63,8%, nel Ministero dell’Economia e delle Finanze il 59%. Al contrario, i numeri sono considerevolmente inferiori nel Ministero dell’Ambiente dove le donne sono il 33,8% del personale, in quello dell’Interno dove si scende al 33,1%, in quello della Difesa, in cui la presenza femminile si attesta su uno scarso 18,9%. Numerose alla base della gerarchia, le donne diventano poche ai vertici delle amministrazioni o in ruoli di maggiore responsabilità. Nella sanità, sebbene le donne rappresentino la maggioranza, di questa l’80% è costituito da personale non medico. Di 29 rettori, 6 (il 20,7%) sono donne. Su 163 dirigenti presso l’amministrazione centrale, vi sono 32 donne (il 19,6%). Tra i 155 ambasciatori, ve ne sono solo 17 (ossia l’11%). E i numeri sono ancora più bassi per i prefetti: 192 in totale di cui 19 donne (il 9,9%). Appena 7 donne su 107 (il 6,5%) sono tesorieri generali. E, in generale, si assiste a un rallentamento nell’avanzamento di carriera per le donne a partire dai trent’anni in poi, in coincidenza dell’arrivo del primo figlio. Che tra le cause della mancata attribuzione di ruoli di vertice alle donne possano esservi interruzioni e discontinuità del lavoro dovute allo svolgimento di compiti di cura familiare è, d’altra parte, dimostrato dai dati relativi al part-time e al congedo parentale. Nel 2008 all’interno dell’amministrazione centrale dello Stato ha fatto ricorso al tempo parziale il 16,8% delle donne contro il 2,5% degli uomini. Interrogati sui motivi che spingono a optare per il tempo parziale, le ragioni addotte da donne e uomini sono differenti. Per il 45,3% delle donne sono motivi familiari che determinano la scelta. E questa diventa più probabile al crescere del numero di figli (il 24,7% delle donne con un figlio, il 36% delle donne con due figli, il 46% delle donne con tre figli). Per gli uomini, 67 I dati del par. 6.1. si riferiscono al 2008 e sono tratti da F. Guéot, L’égalité professionnelle hommefemmes dans la fonction publique. Rapport au président de la République, La Documentation française, 2011 e da Direction générale de la cohésion sociale, Les chiffres-clés de l’égalité entre les femmes et les hommes, 2010. 45 invece, le giustificazioni sono più eterogenee: alcuni lo scelgono perché non trovano lavoro (il 27,9%), altri per il contemporaneo esercizio di un’altra attività professionale (il 25,8%), da ultimo, in una percentuale minoritaria, adducono motivi familiari (10,2%). Le disparità nelle posizioni coperte e l’uso del tempo parziale e dei congedi parentali producono conseguenze significative in termini di retribuzioni. Nel 2006 le donne francesi impiegate presso l’amministrazione statale guadagnavano in media il 15,6% in meno dei loro colleghi uomini. In realtà, posizionamento di carriera e modalità di lavoro non sembrano essere le uniche cause del permanente del divario salariale. Al di là della formale attribuzione di salari uguali per mansioni uguali, permangono sacche di ‘disuguaglianza pura’, come l’attribuzione di indennità di lavoro, ad esempio premi, bonus ecc., superiori agli uomini rispetto alle donne: il 16% del trattamento salariale per le donne a fronte del 31% per gli uomini. 6.2. L’evoluzione della ‘specie’ normativa: dalle quote (per gli uomini) alle quote (per tutti) Questo quadro è il punto di arrivo di un percorso che, all’origine, si caratterizzava per numeri ben inferiori rispetto a questi appena illustrati. A partire dal secondo dopoguerra la presenza femminile nella pubblica amministrazione francese ha seguito un trend di crescita costante, complice una normativa ad hoc che ha progressivamente rimosso gli ostacoli alla partecipazione: se nel 1951 la legge ancora riservava ai soli uomini cinquanta concorsi pubblici per l’accesso a posizioni in vari settori dell’amministrazione, nel 1974 il divieto di partecipazione alle donne valeva per ventitré concorsi e in una dozzina di altri si applicavano quote di genere che favorivano gli uomini; ancora sei anni dopo, nel 1980, sei posizioni erano accessibili solo agli uomini (all’interno della polizia di Stato e dei servizi postali) e, d’altra parte, due sole alle donne (insegnamento e supervisione nella scuola femminile della Legion d’Onore)68. I primi anni ‘80 sono, però, il punto di svolta nella legislazione in materia di parità: nel 1981 viene istituito il Ministero dei Diritti delle Donne e nel 1983 è promulgata la loi Roudy (legge del 13 luglio 1983). Quest’ultima venne concepita in risposta a due rapporti commissionati dal Ministero69, da cui emergeva che, in particolare nel settore pubblico, sebbene le donne rappresentassero quasi la metà dei lavoratori (il 48%), la presenza femminile ‘qualificata’ (ossia per posizioni in cui si richiedeva una laurea o un titolo equivalente) era esigua e la distribuzione all’interno dei diversi ministeri influenzata da un’impostazione tradizionale delle competenze. A titolo di esempio, nel 1982 nell’amministrazione centrale di 184 direttori solo 6 erano donne e di 438 vice-direttori o analoghi solo 30 erano donne. La partecipazione femminile era 68 I dati sono tratti da L.L. Clark, The Rise of Professional Women in France, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, p. 298. 69 A. Michel, M. Reberioux, Les femmes en France dans une société d'inégalités. Rapport au Ministre des Droits de la Femme, Paris, La Documentation française, 1982. A. Davisse, Les femmes dans la fonction publique. Rapport au ministre de la Fonction publique et des Réformes administratives, Paris, La Documentation française, 1983. 46 del 45% nei Ministeri del Lavoro e della Salute, ma scendeva al di sotto del 20% nei Ministeri degli Interni, delle Finanze, dei Lavori pubblici e dell’Industria70. La loi Roudy interviene su diversi aspetti del problema della parità genere: accesso e condizioni di lavoro, formazione, promozione e valorizzazione professionale. Essa segna il passaggio da una politica guidata dall’obiettivo della tutela delle donne a una ispirata al principio della realizzazione dell’uguaglianza tra uomini e donne71. Essa ha, peraltro, declinato il concetto di uguaglianza in senso ampio, prevedendo misure che promuovessero sia l’uguaglianza dei diritti, che quella delle opportunità. Sotto il primo profilo, ha introdotto il principio di non discriminazione, dandovi particolare applicazione in tema di retribuzione. Ha modificato e rafforzato le relative previsioni del Codice civile e del Codice del lavoro stabilendo la parità di retribuzione a parità di posizione. Ha portato all’abolizione delle residue quote di genere nelle pubbliche amministrazioni e delle residuali restrizioni all’accesso di alcune posizioni. Sotto il secondo profilo, ha previsto la possibilità che amministrazioni pubbliche e imprese in accordo con i sindacati possano adottare azioni positive volte a promuovere una maggiore parità su questioni quali formazione, reclutamento e promozione nella carriera72. Quest’intervento legislativo, pur avendo contribuito alla crescita della presenza femminile nelle amministrazioni, non ha, tuttavia, negli anni successivi realizzato l’obiettivo di parità sperato. A livello istituzionale, la presidenza Chirac aveva addirittura portato all’eliminazione del Ministero per i Diritti delle Donne, sostituito con un ufficio alle dipendenze del Ministero degli Affari sociali. Inoltre, alla fine degli anni ‘80, se da un lato, le percentuali della presenza femminile nelle pubbliche amministrazioni si erano complessivamente alzate rispetto al passato, dall’altro rimaneva un gap significativo nei posti di vertice: nel 1988 erano donne solo il 12% dei direttori e 34 dei 353 ispettori generali presenti nei vari ministeri73. I motivi, secondo alcune opinioni critiche, erano principalmente il ricorso al tempo parziale da parte delle donne, inadeguati i servizi per l’infanzia che consentissero alle donne il rientro dal lavoro dopo la maternità e, in generale, l’assenza di adeguati controlli sulla effettiva attuazione della normativa74. Bisogna, quindi, aspettare il primo decennio del XXI secolo per un rinnovato interesse su queste tematiche e per altre iniziative legislative di riforma in materia che abbiano un impatto sulla pubblica amministrazione. Nel 2001 viene promulgata la loi Génisson (legge del 9 maggio 2001). L’obiettivo è creare un dialogo sociale sulla questione dell’uguaglianza professionale tra donne e uomini. In particolare, essa impone alle imprese di tenere annualmente dei negoziati su temi quali remunerazione, formazione e organizzazione del lavoro in vista poi della redazione di relazioni che, sotto questi profili, offrano una visione comparata delle situazioni di donne e uomini all’interno dell’impresa stessa. Sulla base di queste relazioni sarà poi possibile stilare dei piani annuali e pluriennali per l’adozione e l’attuazione di misure concrete 70 I dati sono presi da A. Davisse, Les femmes dans la fonction publique. Rapport au ministre de la Fonction publique et des Réformes administratives, cit. 71 Così in F. Guéot, L’égalité professionnelle homme-femmes dans la fonction publique. Rapport au président de la République, La Documentation française, 2011, p. 11. 72 Sui due punti ibid 73 Il dato è riportato in L. L. Clark, The Rise of Professional Women, cit., p. 300. 74 Ibid. 47 all’interno di ciascuna impresa per favorire l’uguaglianza professionale tra donne e uomini. Ma la legge, concepita principalmente per il settore privato, introduce novità rilevanti anche nel settore pubblico. Essa, infatti, richiede la presenza equilibrata di donne e uomini all’interno di commissioni di concorso e di esami professionali. A questa previsione segue un decreto che fissa una quota minima del 30% per la presenza di donne e uomini solo nelle commissioni giudicatrici della funzione pubblica75. E’ su quest’idea dell’applicazione paritaria e non discriminatoria – come era invece avvenuto nell’immediato dopoguerra - delle quote che si è sviluppata la disciplina più recente. La legge del 12 marzo 2012, infatti, ne amplia notevolmente la portata, sia perché applica quest’idea a numerose altre ipotesi, sia perché alza la percentuale di quota minima, sia perché prevede un articolato sistema di sanzioni progressive in caso di inadempimento. Al contempo, essa interviene in modo più o meno efficace su altri due aspetti, l’accountability inter-istituzionale relativa all’attuazione delle politiche di genere da parte delle singole amministrazioni e il congedo parentale. 6.2.1. Gli obblighi di accountability inter-istituzionale La legge del 12 marzo 2012 richiede la presentazione da parte del Governo al Parlamento di una relazione annuale in cui si illustrano le misure adottate a favore della parità nel Consiglio comune della funzione pubblica (Conseil commun de la fonction publique, CCFP). Tale rapporto dovrà dare conto dei dati su assunzioni, presenza femminile nelle commissioni giudicatrici, formazione, orario di lavoro, avanzamento di carriera, condizioni di lavoro, retribuzione, conciliazione tra vita lavorativa e personale (art. 50 della legge). Inoltre, l’esecutivo è tenuto a redigere un rapporto annuale relativo al raggiungimento degli obiettivi di uguaglianza professionale tra donne e uomini nel quadro nel dialogo sociale. Tale rapporto deve essere trasmesso ai comitati tecnici dei ministeri, ma anche alla collettività e alle amministrazioni sanitarie. Esso deve contenere dati relativi alle condizioni generali di impiego e formazione di donne e uomini, in maniera analoga a quanto già previsto per le imprese private dalla loi Génisson (art. 51 della legge). 6.2.2. Le quote La novità di maggiore rilievo della legge riguarda, però, l’estensione di quote minime di presenza femminile e maschile a organi nei quali la loi Génisson non li prevedeva (artt. 52- 56 della legge). Viene richiesta una presenza femminile (e maschile) minima del 40% all’interno dei Consigli superiori delle tre funzioni pubbliche (Conseil supérieur de la fonction publique d'Etat –CSFPE, Conseil supérieur de la fonction publique territoriale –CSFPT, Conseil supérieur de la fonction publique hospitalière –CSFPH). La stessa quota, inoltre, deve essere applicata a partire dal 31 dicembre 2013 ai rappresentati dell’amministrazione e delle collettività in seno alle Commissions Administratives Paritaires (CAP). 75 Décret n°2002-766 du 3 mai 2002 relatif aux modalités de désignation, par l'administration, dans la fonction publique de l'Etat, des membres des jurys et des comités de sélection et de ses représentants au sein des organismes consultatifs, 3 maggio 2002. 48 Ancora, per il 2015 deve essere raggiunta la quota del 40% nella formazione dei membri delle commissioni e dei comitati di selezione costituiti per il reclutamento e le promozione dei funzionari stessi, anche se eccezioni possono essere previste in virtù di specifiche previsioni statutarie. Ma la novità più originale e rilevante della legge riguarda gli alti funzionari. Le nomine per posizioni di vertice e di direzione dello Stato, delle regioni, dei dipartimenti, dei comuni, delle imprese pubbliche di cooperazione inter-comunale con più di 80.000 abitanti, della funzione pubblica sanitaria, devono essere fatte nel rispetto della quota minima del 40% per ciascuno dei due sessi, con alcune eccezioni che però sono tassativamente previste. E’, inoltre, imposta una calendarizzazione di lungo periodo che individua nel 2018 la data finale per il raggiungimento della quota 40% e, a ritroso, nel 2015-2017 il raggiungimento della quota del 30% e nel 2013-2015 della quota del 20%. Il mancato adempimento a questi obblighi comporta l’irrogazione di sanzioni pecuniarie fissate in modo progressivo: 90.000 euro a partire dal 2018, 60.000 euro per le nomine del biennio 2015-2017, 30.000 euro per gli incarichi relativi al biennio 2013-2014. La legge dispone, infine, misure specifiche volte ad assicurare l’accountability delle amministrazioni tenute a questi obblighi: ciascun dipartimento ministeriale, collettività territoriale (di 80.000 abitati e più) e il centro nazionale di gestione della funzione sanitaria devono annualmente presentare al contabile assegnatario una dichiarazione in cui sono indicati gli incarichi conferiti e i dati sulla distribuzione tra i due sessi delle posizioni di dirigente e superiori. Contestualmente le amministrazioni inadempienti dovranno versare l’ammontare dovuto. 6.2.3. Il congedo parentale Assai meno innovativa è, invece, la disciplina sul congedo parentale. La legge del 12 marzo 2012 si limita sostanzialmente a recepire la direttiva del Consiglio europeo n. 2010/18/UE. I dati sul congedo parentale mostrano una prassi di netta prevalenza dei casi di congedi parentali delle donne rispetto a quelli degli uomini. La legge interviene non ostacolando questa prassi, ma cercando di ridurre l’impatto che il congedo parentale può avere sugli avanzamenti di carriera. Prevede, infatti, che nel primo anno di congedo i diritti all’avanzamento di carriera siano conservati nella loro interezza, mentre che nei tre anni successivi vengano ridotti di metà. In questo modo, almeno nel primo anno, il congedo parentale è equiparato al servizio effettivo e si irrigidiscono –ma in senso favorevole per coloro che usufruiscono del congedo- le conseguenze che questo può avere sulla carriera. Rispetto alla disciplina precedente che prevedeva il dimezzamento dei diritti già a partire dal primo anno, le legge introduce un incremento marginale positivo che, nell’ottica del legislatore, dovrebbe rispondere a due obiettivi. Da un lato garantire un certo agio e sicurezza a coloro che intendono prendere il congedo parentale senza che vi siano conseguenze sulla carriera. Dall’altro, in assenza di conseguenze – almeno dal punto di vista formale- sulla carriera, indurre anche gli uomini a usufruire di questa possibilità. Tuttavia questa soluzione non risolve un problema più profondo: al di là delle regole formali, i dati dimostrano che i rapporti di lavoro suscettibili di essere interrotti a causa di uno o più congedi ingenerano nei superiori gerarchici un atteggiamento di scarsa propensione al ‘rischio’ che li porta a favorire la promozione di soggetti che non presentano tale incognita. Di più, la soluzione proposta dalla legge 49 rischia di aggravare lo status quo e assecondare il ricorso al congedo parentale da parte delle donne, che -a maggior ragione in assenza di conseguenze sull’avanzamento di carriera- si sentiranno incoraggiate a farne uso di più e per periodi più lunghi. 7. La Danimarca 7.1. I dati Con riferimento alla Danimarca, come per altri Paesi nordici, si è, in passato, sottolineato il paradosso di minime percentuali di leadership femminile nei settori pubblico e privato, nonostante la folta rappresentanza politica in Parlamento (rispetto ad altri paesi di radicata cultura egualitaria, come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia e l’Irlanda)76. La percentuale di lavoratrici occupate nel settore pubblico è pari al 74% nel 77 2007 . Oltre la metà ha conseguito un alto livello di istruzione (universitaria e postuniversitaria; master, dottorato e altro). Il confronto con gli impiegati uomini appare significativo: soltanto il 40% di questi può contare su un analogo grado di istruzione 78. Nelle procedure di reclutamento dei dipendenti pubblici la parità di trattamento rappresenta un criterio determinante, pur in assenza di una espressa previsione normativa di target o quote rosa Ciononostante, nel 1998, solo il 15% delle posizioni dirigenziali nelle amministrazioni danesi erano ricoperte da donne (tre volte il valore relativo al settore privato)79 e nel 2008 lo è circa il 20%80. Nel quadro delle riforme indicate come New Public Management (attuate in molti paesi anglosassoni e scandinavi) l’eguaglianza di genere ha costituito, in Danimarca, una fra le più importanti politiche pubbliche degli ultimi anni. 76 E. Kvande, Kvinner i menns organisasjoner – 10 år efter, in «Kvinneforskning», 1999, n. 3, pp. 6-13, e P. Norris, Conclusions: Comparing Legislative Recruitment, in J. Lovenduski, P. Norris, London (a cura di), Gender and Party Politics, Londra, Sage, 1993. 77 OECD, World Development Report 2012. Gender Equality and Development, The Effect of Public Sector Employment on Women’s Labour Market Outcome, Discussion Paper Series, n. 8468, 2011, p. 3. 78 Fundaciòn de Estudios de Economia Aplicada-Fedea, Rapporto 2011, Figura 8, p. 19. 79 L. Høigaard, Tracing Differentiation in Gendered Leadership: An Analysis of Differences in Gender Composition in Top Management in Business, Politics and the Civil Service, in «Gender, Work and Organisation», 2002, n. 1, vol. 9, 2002, pp. 15-39. 80 Si tratta, più precisamente, del 22%, così in H. Kuperus, A. Rode, Latest trends in Top Public Management in the European Union, in «Eipascope», 2010, n. 1, p. 42. 50 Ministeri Agenzie Province Comuni 6,7 15,9 6,3 10,1 20,4 31,3 26,1 21,9 Dirigenti generali Dirigenti Tabella 20, Percentuale femminile dei dirigenti pubblici (Fonte: Forum for Top Executive Management 2004, E-survey 2 and E-survey 3)81 Riguardo alla flessibilità nel lavoro, il 37,6% delle danesi ha optato, nel 2011, per contratti di lavoro part-time. Si tratta di una percentuale superiore alla media europea (32,1% delle donne)82. Sussiste, inoltre, una differenza di retribuzione salariale: nel 2008 essa ammontava al 15% per l’intero settore pubblico danese83. Nelle amministrazioni ministeriali, la maggiore rappresentanza femminile si registra in quelle preposte a compiti connessi alle infrastrutture (25%), rispetto a quelle socioculturali (24%), tradizionali o di base (21%) ed economiche (15%)84. 7.2. Le politiche L’ordinamento danese non prevede un sistema di quote. Il principio di pari trattamento riveste particolare importanza nel processo di reclutamento e ha sinora impedito l’introduzione di specifiche quote a tale stadio, fra gli obiettivi delle politiche di genere nazionali. La materia è disciplinata da una legge generale del 2000 (Act on Gender Equality), che ha costituito la base per l’adozione di specifiche iniziative normative antidiscriminatorie relative al trattamento retributivo, agli schemi di sicurezza sul lavoro e alle condizioni e benefici di allontanamento per la cura dei figli e per congedo di maternità, paternità e parentale85. Le amministrazioni sono tenute a rispettare e applicare tali normative per non incorrere nell’annullamento dei provvedimenti. Per il profilo organizzativo e istituzionale, opera un Consiglio per il pari trattamento (Equality Board), dotato di specifiche competenze relative ai rapporti di genere. Al Consiglio compete, in particolare, l’esame dei ricorsi contro le discriminazioni non soltanto di genere, ma anche razziali, religiose, politiche, sociali, etniche, di orientamento sessuale e altre. 81 Si veda D.F. Kettl, C. Pollitt, J.H. Svara, Towards a Danish Concept of Public Governance: An International Perspective. Report to the Danish Forum for Top Executive Management , agosto 2004, t. 5, p. 41, anche diponibile all’indirizzo http://www.publicgovernance.dk/docs/0408260903.pdf 82 Si veda al sito europa.eu/epic/countries/denmark/index_en.htm 83 Fundaciòn de Estudios de Economia Aplicada-Fedea, Rapporto 2011, cit., figura 8, p. 16 (come confermato dal più recente Rapporto Mercer 2012). 84 Commissione europea, Plus de femme aux postes à responsabilité, cit., p. 64, Tabella 4. 85 Si vedano, fra gli altri, l’Act on Equal Pay to Men and Women, del 27 agosto 2006, n, 906, e la legge del 27 maggio 2008, n. 387, oltre all’Act on Gender Equality, del 30 maggio 2000, n. 388 (modificato dalla legge 2 luglio 2002, n. 553), richiamato nel testo (ulteriori riferimenti legislativi disponibili al sito www.miliki.dk). 51 La disciplina del congedo parentale prevede cinquantadue settimane retribuite, di cui diciotto e due di astensione obbligatoria rispettivamente per maternità e paternità, mentre le restanti trentadue settimane disponibili secondo le preferenze della coppia. In tal modo il sistema risulta fra i più flessibili dei Paesi dell’Unione europea e la larga maggioranza delle lavoratrici madri, al termine del congedo, ritorna al lavoro alle stesse condizioni precedenti (per tipo di contratto, numero di ore, posizione e mansioni86). 8. La Germania 8.1. I dati La presenza femminile nel settore pubblico, in Germania, è cresciuta nell’ultimo decennio, passando dal 51,4% del 2002 al 54,2% del 201187. La partecipazione femminile nelle posizioni di vertice dell’amministrazione tedesca ha subito una lieve flessione negli ultimi anni; per specifici settori, l’incremento è stato, comunque, di portata contenuta. Ai vertici delle amministrazioni pubbliche dei Länder e del Bund si contavano, nel 2007, il 15% di dirigenti donne, un dato ben al di sotto della media europea (pari al 33%). Nel 2009 più di quattro alti funzionari su cinque erano di sesso maschile88 (13% donne). Con riferimento alle funzioni ministeriali, la rappresentanza femminile è maggiore nelle amministrazioni incaricate di funzioni socioculturali (29%) rispetto a quelle economiche (8%) e tradizionali o di base (11%), mentre è addirittura nulla per le funzioni connesse alle infrastrutture89. Nelle alte magistrature tedesche, invece, essa è pari al 20%, con poco scarto rispetto a quelle danesi, che superano appena tale valore90. Con riferimento al settore dell’università, nel 2010 a concludere gli studi erano soprattutto donne (51,8%), mentre esse costituivano soltanto il 19,2% del corpo docente e il 14,6% dei professori di fascia più alta. 86 Si tratta precisamente del 79% delle lavoratrici danesi, dati 2004-2005 (European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, Survey 2006, p. 46). 87 G. Bosch, L. Mesaros, G. Schilling, C. Weinkopf, The Public Sector Pay System and public procurement in Germany. National Report, European Commission Project, University of Duisburg, November 2012, p. 15. 88 Ibid., p. 62. 89 Ibid., p. 64, Tabella 4. 90 Ibid., p. 68, Grafico 17. 52 Grafico 10, Presenza femminile nei settori della ricerca scientifica 1992-2010 (Fonte: GWK Hrsg., Chancengleichheit in Wissenschaft und Forschung. Fünfzehnte Fortschreibung des Datenmaterials (2010/2011) zu Frauen in Hochschulen und außerhochschulischen Forschungseinrichtungen, Bonn, 2012, tab. 1.1.1 - 1.1.4). Sul piano nazionale, il ricorso al tempo parziale è, in genere, molto più comune fra le donne rispetto agli uomini (l’81% dei lavoratori part-time del settore pubblico nel 2011 sono donne) e si registra soprattutto nella fascia d’età fra i 35 e i 49 anni. La rilevanza delle esigenze di cura familiare nelle soluzioni di organizzazione del lavoro trova conferma nella percentuale delle donne senza figli in posizioni apicali, pari al 77%91. Infine, il wage gap è ancora significativo: secondo dati del 2008, esso ammonta al 15%92 (23% è, invece, il wage gap medio complessivo per tutti i settori) 93. La maggiore differenza salariale si registra nella fascia d’età più alta 91 I dati sono riferiti rispettivamente al 2009 e al 2008 (Bundesministerium für Familie, Senioren, Frauen un Jugend, Gleichstellungsbericht im Fokus, ottobre 2011, Factsheets IV e VI, disponibile all’indirizzo http://www.fraunhofer.de/content/dam/zv/de/ueberfraunhofer/Gesch%C3%A4ftsstelle%20Gleichstellung/Gleichstellungsbericht_Factsheets_2011-1102.pdf ). 92 Fundaciòn de Estudios de Economia Aplicada-Fedea, Rapporto 2011, cit., figura 8, p. 16. 93 Bündesministerium für Familie, Senioren, Frauen und Jugend, Entgeltungleichheit zwischen Frauen und Männern in Deutschland, 9 luglio 2009, p. 4. 53 (ultracinquantacinquenni e ultrasessantenni)94 ed è in larga misura indipendente dalla dimensione temporale d’impiego (piena o parziale)95. 8.2. Le politiche In Germania il dibattito pubblico sulle politiche di genere verte sulle due opzioni disponibili: l’autoregolamentazione dei datori di lavoro e dei soggetti dotati di autonomia (Selbstverpflichtung) e l’introduzione di quote vincolanti ex lege per favorire l’aumento del numero di donne ai vertici delle imprese pubbliche. Tale seconda opzione è stata, da ultimo, esclusa dal Parlamento federale con riferimento alla composizione dei consigli di amministrazione e degli organi societari di controllo interno (decisione del 18 aprile 2013). Nell’ottobre 2011, il governo federale ha lanciato un piano graduale (Stufenplan), incentrato su quote flessibili (Flexi-Quote) rivolto principalmente alle imprese del settore pubblico. Tale piano si articola in quattro fasi attuative. Nella prima (in corso) sono previste misure a favore di un contesto lavorativo compatibile con impegni familiari, cura e gestione dei figli. Nella seconda fase (pure in attuazione) sono incluse la volontaria regolazione delle imprese, la realizzazione del Codice tedesco di Corporate Governance e la promozione di progetti di qualificazione e reclutamento femminile. La terza fase comporta il vincolo di autoregolazione, valido per tutte le società quotate in borsa e compartecipate. Esse sono tenute a stabilire e pubblicare una quota di presenza femminile (Frauenquota) autodeterminata e specifica per l’azienda, che dovrà essere assicurata entro un termine prestabilito. Tale quota si applicherà sia al Consiglio di amministrazione, sia all’organo di controllo (Comitato di vigilanza, collegio dei sindaci e altro). Nella quarta fase, alle imprese che mancano di stabilire la quota o non conseguono l’obiettivo autodeterminato saranno applicate sanzioni di diritto societario. Mentre, le imprese che raggiungono una quota almeno pari al 30% di presenza femminile negli organi interni (Consiglio di amministrazione e Comitato di controllo), saranno libere da vincoli di quota (clausola liberatoria). I progressi nell’attuazione del piano sono verificati a scadenza annuale, a partire dall’estate 201296. La specifica legislazione sulla parità di uomini e donne nelle amministrazioni e nei Tribunali federali (Bundesgleichstellungsgesetz - BGleiG), in vigore dal dicembre 2001 e modificata nel 2009, si applica anche alle amministrazioni indirette, alle autonomie locali e funzionali di natura pubblica, e alle agenzie federali del lavoro e della sicurezza sociale97. A fronte della concessione di prestazioni (continuative, somministrazioni) di competenza statale, attraverso i commissariati dei Bundes, a beneficiari istituzionali, deve essere assicurato – mediante accordi contrattuali – che questi ultimi adottino i contenuti fondamentali della legislazione federale sulla parità di genere. Nel caso di discriminazione salariale di genere nelle imprese pubbliche, l’ordinamento tedesco prevede, inoltre, il diritto del lavoratore di presentare reclamo ad 94 Commissione europea, The Gender Pay Gap in Europe from a Legal Perspective, maggio 2010, p. 9. Ibid., p. 10. 96 Al 10 febbraio 2013, i risultati non sono ancora pubblici. 97 Ed, inoltre, alle amministrazioni pubbliche in forma privata e alle imprese pubbliche federali in via di privatizzazione. 95 54 un organo interno della società, appositamente costituito. Tale procedimento non preclude il ricorso agli ordinari strumenti di tutela giurisdizionale e comporta alcune fondamentali garanzie, incluso il diritto a essere ascoltati e informati sull’esito della considerazione dei motivi fatti valere nel procedimento98. Con riferimento al sistema della ricerca universitaria, nel quadro delle politiche di gender equality promosse dal Bund e dai Länder, si segnala l’introduzione da parte del Consiglio nazionale delle ricerche (Deutsche Forschungsgemeinschaft) di un modello di quote a cascata. Tale modello prevede l’assunzione del rapporto numerico di genere fra i laureati come base per la determinazione, da parte delle amministrazioni universitarie e delle Facoltà, della quota-obiettivo da perseguire e rispettare anche nelle altre componenti del sistema di ricerca e docenza, a garanzia delle pari opportunità 99. Si tratta, in questo caso, di raccomandazioni formalmente non vincolanti, tuttavia di fatto efficaci: il rispetto della quota è, infatti, condizione per l’erogazione dei finanziamenti federali alla ricerca scientifica universitaria. Da ultimo, il governo federale ha introdotto il Kinderbetreuungsgeld, un beneficio economico per i genitori di bambini fino a tre anni di età che preferiscano prendersene cura personalmente anziché affidarli ad asili nido100. La misura è volta a rimediare all’insufficienza dei posti disponibili in tali strutture sul territorio nazionale. Tuttavia, la nuova norma rischia di determinare – oltre ad esorbitanti costi di attuazione – una consistente decrescita della presenza femminile nel mercato del lavoro ed effetti negativi sullo sviluppo delle abilità, cognitive e non, delle bambine e sui relativi rapporti con fratelli e sorelle più grandi101. Di largo consenso godono, invece, i programmi di conciliazione del lavoro e della vita familiare promossi a livello federale in cooperazione con le associazioni industriali e la rete delle imprese tedesche102. Quanto al congedo parentale, la riforma del 2007 è valsa ad introdurre incentivi economici a favore dell’astensione della coppia di neo-genitori lavoratori. Rispetto alla regola dei dodici mesi di congedo per maternità retribuito103, tale riforma prevede uno schema “12+2”, in cui due mesi sono disponibili per il congedo di paternità104. Ad 98 Commissione europea, The Gender Pay Gap in Europe from a Legal Perspective, cit., p. 16. Vale a dire, con riferimento alla selezione di dottorandi, assistenti scientifici, Junior Professor, abilitanti e professori di prima e seconda fascia: si veda Dfg, Forschungsorientierte Gleichstellungsstandards, 2 febbraio 2008 (disponibile all’indirizzo http://www.dfg.de/download/pdf/foerderung/grundlagen_dfg_foerderung/chancengleichheit/forschungsor ientierte_gleichstellungsstandards_en.pdf); per il sistema delle scienze giuridiche, il recente documento del Wissenschaftrat, Perspectiven des Rechtswissenschaft in Deutschland. Situation, Analysen, Empfehlungen, Hamburg, 9 Novembre, 2011, sp. p. 41 ss. 100 La norma sarà applicata a partire dal primo agosto 2013 (si veda il sito www.bmfsfj.de/BMFSFJ/Kinder-und-Jugend/kinderbetreuung.html). 101 Per un’analisi delle problematiche rilevanti nella discussione pubblica sul tema, si vedano i documenti disponibili ai seguenti indirizzi http://ftp.iza.org/dp6440.pdf e http://www.fes.de/forumpug/documents/BroschuereVerfassungsrechtlicherRahmeneinesBetreuungsgelde s09_000.pdf . 102 Si tratta di programmi sviluppati soprattutto con riferimento al settore dell’impiego privato (http://www.erfolgsfaktor-familie.de/default.asp?id=70). 103 Di tale periodo, quattordici settimane sono retribuite al 100%, il resto al 65% dello stipendio della lavoratrice prima della maternità (vi fa ricorso la maggioranza delle lavoratrici). L’astensione facoltativa non retribuita è possibile, per la lavoratrice, fino al compimento del terzo anno di età del bambino. 104 Quattordici mesi è anche la durata del congedo disponibile per madri e padri single. 99 55 avvantaggiarsi di tale opportunità sono soprattutto padri con un più alto livello di istruzione e con contratto di lavoro a tempo determinato105. Fra le misure di gender equality si iscrive, inoltre, l’istituzione di un centro di coordinamento che favorisca l’incremento della presenza maschile fra gli insegnanti delle scuole materne106. In materia di parità dei generi, il Governo federale presenta periodicamente al Parlamento una relazione sulle politiche di genere nella prospettiva dell’andamento della vita, sui ruoli e il diritto, sulla formazione, sulle tipologie di contratti di lavoro, di retribuzione, sulla conciliazione tra vita lavorativa e personale, sulle misure di sicurezza sociale relative ai genitori, sul bisogno di cure e sui soggetti che vi provvedono107. 9. La Svezia 9.1. I dati In Svezia il settore dell’impiego pubblico (Offentliganställda) risulta piuttosto ampio, rappresentando circa il 31% del PIL nazionale e impiegando approssimativamente il 33% dei lavoratori dipendenti. I dati più recenti, che si riferiscono al periodo 2009-2010, dimostrano che la maggior parte dei dipendenti nel settore pubblico è di sesso femminile (74% di impiegati di sesso femminile contro il 26% di sesso maschile) e si concentrano soprattutto a livello locale nelle Municipalities o nei Conuty councils dove vengono gestiti i servizi educativi (primari e secondari), i servizi sociali, assistenziali e sanitari (questi ultimi, in particolare, di competenza dei county councils). A livello sub-statale si registra, infatti, una percentuale di lavoratrici pari al 79% mentre a livello centrale i dati dimostrano che le donne impiegate rappresentano circa il 51% del totale. In generale, la percentuale di lavoratori a tempo determinato è relativamente bassa anche se negli ultimi anni è in aumento in virtù del perseguimento di logiche di flessibilità e contenimento dei costi. I contratti a tempo determinato riguardano principalmente le donne anche se in percentuale minore nel settore pubblico rispetto al settore privato (circa il 17% delle lavoratrici ha contratti di lavoro a tempo determinato nel settore pubblico rispetto al 21% nel settore privato). 105 E. Geisler, M. Kreyenfeld, How Policy Matters: Germany’s Parental Leave Benefit Reform and Fathers’ Behavior 1999-2009, MPIDR Working Paper, WPI 2012-021, luglio 2012 (disponibile al sito www.demogr.mpg.de/papers/working/wp-2012-021.pdf). 106 Si veda al sito www.koordination-maennerinkitas.de. 107 Si veda Gleichstellungsbericht im Fokus, Thematische Factsheets zum Ersten Gleichstellungsbericht der Bundesregierung, ottobre 2011. 56 Livello di Governo Livello locale: Municipalities Livello intemedio: County councils Livello centrale (Ministers + Central Agencies) Settore pubblico Settore privato Dati mancanti Totale Donne (numero e %) 626.000 (33%) 190.000 (10%) 117.000 (6%) 933.000 (49%) 959.000 (50%) 17.000 (1%) 1.910.000 (100%) Uomini (numero e %) Distribuzione Donne e Uomini 170.000 (9%) 79% (D) 21% (U) 52.000 (3%) 79% (D) 21% (U) 114.000 (6%) 51% (D) 49% (U) 336.000 (18%) 1.558.000 (81%) 33.000 (2%) 1.927.000 (100%) 74% (D) 26% (U) 38% (D) 62% (U) 34% (D) 66% (U) 50% (D) 50 (U) Tabella 21, Dati generali sull’impiego pubblico e confronto con il settore privato (Fonte: Women and Men in Sweden, Centro Statistico Nazionale, 2010) Per quanto riguarda il livello salariale, i dati riportati nella Tabella 22 dimostrano che in Svezia il pay (o wage) gap tra lavoratrici e lavoratori è piuttosto significativo nel settore pubblico. Tuttavia, questa differenza nei livelli salariali è presente soprattutto a livello centrale e sovra – comunale e si attenua se i dati vengono ponderati sulla base di alcuni indici quali l’età, le funzioni esercitate, la formazione scolastica e professione, il tipo di lavoro a tempo pieno o parziale etc. Si tratta di condizioni che pregiudicano comunque il sesso femminile rispetto a quello maschile. Inoltre il pay gap ha in generale un valore più alto nel settore pubblico rispetto al settore privato. Nel settore privato il salario medio delle donne impiegate è, infatti, pari all’87,2% (97,1% nel valore ponderato) del salario medio degli uomini, mentre nel settore pubblico è pari all’85,4% (92,7% nel valore ponderato). Sul punto studi recenti108, hanno messo in evidenza che nel 1961 una donna assunta nel settore pubblico guadagnava il 12% in più di una donna assunta nel settore privato; nel 2000 il rapporto era pressoché invertito e una impiegata nel settore privato guadagnava ormai il 10% in più della lavoratrice nel settore pubblico. 108 D. Anxo, The Effect of Pay Reform and Procurement Strategies on Wage and Employment Inequalities in the Public Sector: the Case of Sweden. European Commission project, novembre 2012, disponibile all’indirizzo https://research.mbs.ac.uk/european-employment/Portals/0/docs/Swedennational%20report.pdf . 57 Anno 2002 2004 2006 2008 Livello locale: Municipalities 98% (P) – 90% 98% (P) – 91% 98% (P) – 92% 99% (P) – 92% Livello intemedio: County councils 92% (P) – 71% 93% (P) – 71% 93% (P) – 72% 93% (P) – 73% Livello centrale 92% (P) – 84% 92% (P) – 85% 93% (P) – 87% 93% (P) – 88% Tabella 22, Pay Gap dal 2002 al 2008 con percentuali ponderate (P) e non ponderate (Fonte: Women and Men in Sweden, Centro Statistico Nazionale, 2010) Se si passa ad analizzare la presenza e distribuzione delle donne all’interno nelle le società statali in mano pubblica, gli amministratori sono per il 35% donne e per il 75% uomini. Un dato piuttosto significativo e apparentemente in controtendenza rispetto a quanto finora emerso si ricava dal numero di dirigenti. Mentre nel settore privato le donne manager sono il 25% del totale, nel settore pubblico la percentuale raggiunge il 62%. Anche in questo caso tale valore è dovuto ai dati relativi al livello locale. Se nelle amministrazioni centrali le donne sono il 39% dei dirigenti, a livello comunale e regionale esse raggiungono rispettivamente il 64% e 72%. Tuttavia, incrociando i dati della Tabella n. 21 con quelli della Tabella n. 23 si deduce che nelle municipalities solo il 3% delle donne impiegate svolge funzioni dirigenziali (18.800 manager su 626.000 dipendenti di sesso femminile) mentre per gli uomini la percentuale è pari al doppio (6%, ovvero 10.400 manager su 170.000 dipendenti di sesso maschile). Nei county councils le dirigenti donne sono il 3,3% mentre per gli uomini la percentuale sale al 5%. . Settore Donne Uomini Settore privato Settore pubblico Government Municipalities Counties Totale 42.300 27.600 2.400 18.800 6.300 69.800 125.500 16.700 3.800 10.400 2.500 142.200 Distribuzione in % tra Donne e Uomini 25% (D) 75% (U) 62% (D) 38% (U) 39% (D) 61% (U) 64 % (D) 36% (U) 72% (D) 28% (U) 33% (D) 67% (U) Tabella 23, Manager per settore – dati del 2008 (Fonte: Women and Men in Sweden, Centro Statistico Nazionale, 2010) 9.2. I soggetti istituzionali, la legislazione, le azioni positive La tutela e promozione della parità di genere nel mondo del lavoro è garantita a livello centrale dal Minister of Gender Equality il quale ha un potere di coordinamento dei singoli Ministri per la promozione e il monitoraggio del livello di tutela garantito alla parità di genere nei propri dicasteri. All’interno del Minister of Gender Equality opera la Division of Gender Equality con compiti di coordinamento tra le politiche generali e le specifiche iniziative 58 assunte a livello centrale. Essa persegue l’obiettivo di individuare i mezzi più opportuni per l’attuazione delle misure adottate. Esperti delle politiche di genere siedono, poi, in ogni Administrative Executive Board a livello locale (Länsstyrelse). Particolarmente significative sono le funzioni dello Swedish Equality Ombudsman (Jämställdhetsombudsmannen, JämO). Organismo indipendente dell’amministrazione centrale, istituto nel 2009 dal Discrimination Act (2008:567), esso è competente a verificare e sindacare i casi di discriminazione fondate sul sesso, sulla razza, sull’età, sulle condizioni di disabilità, sull’orientamento sessuale e sul credo religioso nell’ambito non solo del mercato del lavoro, ma anche dei sistemi educativi, scolastici e dell’istruzione universitaria. In virtù di quanto previsto dalla legge che lo ha istituito, l’Equality Ombudsman ha specifici compiti di vigilanza circa il rispetto delle disposizioni contenute nel Discrimination Act del 2008 e a tal fine può ricevere i reclami presentati da ogni individuo che abbia subito una discriminazione. Dopo aver svolto un’attività di indagine in merito al caso sottoposto al suo esame, l’organismo può instaurare un giudizio risarcitorio a favore del privato leso. Al fine di promuovere la parità di genere nei luoghi di lavoro e nei sistemi educativi, all’ente sono assegnate funzioni consultive e di proposta al Governo per le modifiche normative ritenute necessarie nell’ottica di un maggior rispetto del principio di pari opportunità. Da un punto di vista normativo, l’impiego pubblico e l’impiego privato sono, in via di principio, regolati dalle medesime disposizioni legislative, salvo specifiche previsioni eccezionali previste per i pubblici dipendenti e contenute, in particolare, nel Public Employment Act del 1994 e nel Civil Service Act sempre del 1994. Tuttavia, negli anni più recenti l’allineamento tra impiego pubblico e impiego privato è divenuto sempre più significativo al fine di promuovere una maggiore flessibilità nel settore pubblico attraverso l’introduzione di nuove forme di impiego a tempo determinato o a progetto. La legislazione in materia di lavoro è in Svezia generalmente piuttosto esigua e, anche nel settore pubblico, è fatto ampio rinvio alla contrattazione collettiva per la disciplina di molteplici profili tra cui, per esempio, il livello minimo salariale o le condizioni di lavoro. Per quanto riguarda le politiche a tutela della parità di genere, la Svezia ha un’importante tradizione di valorizzazione e promozione dell’uguaglianza tra donne e uomini nel mercato del lavoro. Si tratta, infatti, del primo Paese che ha introdotto in via legislativa l’istituto del congedo parentale anche a favore dei genitori di sesso maschile (dal 1974) e che ha costantemente previsto e implementato misure che consentono ai lavoratori di sesso femminile e maschile di beneficiare delle medesime tutele e facoltà per consentire un adeguato bilanciamento tra la vita personale, familiare e lavorativa. Attualmente, una delle questioni più sentite che le istituzioni svedesi intendono affrontare è rappresentata dal differente livello salariale che sussiste tra lavoratrici e lavoratori. Come si è illustrato dai dati (supra par. 9.1.) tale gap è conseguenza di diversi fattori. Per le lavoratrici, infatti, è più difficile raggiungere incarichi dirigenziali e, ancora oggi, esse esercitano mansioni tendenzialmente di livello inferiore. Ciò pare dovuto, 59 principalmente, al livello inferiore che ancora caratterizza le donne in termini di formazione scolastica e professionale. Da uno studio recente109 si evince che una delle ragioni più gravi del pay gap risiederebbe nel fatto che a livello locale, dove si trova circa il 79% delle donne impiegate nel settore pubblico, molte di queste sono lavoratrici part-time o a tempo determinato impiegate nei settori della sanità o dell’assistenza sociale. In un altro lavoro110 del 2007 si sostiene, richiamando diversa letteratura sul punto, che la condizione - per alcuni aspetti critica - della donna lavoratrice nel settore pubblico svedese è dovuta paradossalmente all’alto grado di tutela garantito dalle politiche pubbliche e assicurato nella prassi con maggior facilità nell’impiego pubblico rispetto al settore privato. In estrema sintesi, tale condizione avrebbe provocato un fenomeno definito di Glass Ceiling, tale da ridurre le aspirazioni delle donne alle progressioni di carriera. Le problematiche individuate richiedono oggi lo sforzo congiunto di molti attori istituzionali oltre agli organi politici, vale a dire le organizzazioni sindacali (dove la presenza femminile è in forte aumento a livello di governance), gli enti universitari, gli istituti di ricerca e gli organismi della società civile. Tra le azioni intraprese vanno menzionati alcuni progetti condotti sia a livello centrale che locale. A tal proposito, nel 2002 il governo centrale ha avviato il Progetto Hela con uno stanziamento iniziale di 32 milioni di euro per affrontare il problema del part-time involontario nel settore pubblico. Il programma ha visto la collaborazione di cinque enti pubblici statali (lo Swedish National Labour Market Board, la Swedish Work Environmental Authority; l’Equal Opportunities Ombudsman; il National Institute for Working Life e lo Swedish European Social Fund Council) e molte autorità locali (circa 70); e ha impiegato studiosi di diverse discipline. Gli obiettivi del progetto sono stati, anzitutto, comprendere le ragioni legate al fenomeno del part-time involontario nel settore pubblico; e, quindi, sulla base di quest’analisi, promuovere iniziative per introdurre nuovi metodi di lavoro e nuove condizioni di orario nei diversi settori di impiego111. Parallelamente, nel 2006 l’Equal Opportunities Ombudsman ha lanciato la campagna One Million Inspection Project con l’obiettivo di verificare i reali livelli salariali delle donne e degli uomini nel settore pubblico e privato. L’iniziativa, conclusa nel 2008, ha coinvolto circa 600 datori di lavoro e 750,000 lavoratori. Il 15% dei datori di lavoro coinvolti erano pubbliche amministrazioni e società in mano pubblica, mentre l’85% erano imprese private. Ai datori di lavoro è stato richiesto di fornire le informazioni sui livelli salariali e sulle azioni programmate. Nei casi in cui i dati hanno dimostrato delle situazioni critiche, l’Ombudsman è stato chiamato a intervenire proponendo gli interventi necessari. Il progetto ha raggiunto risultati piuttosto significativi in termini di aggiustamento dei salari in relazione al 60% dei datori di lavoro coinvolti nell’iniziativa. 109 I. Jonsson, Working Hours and Gender Equality: Examples from Care Work in the Swedish Public Sector, in «Gender, Work & Organization», 2011, vol. 18, n. 5, 2011, pp. 508 – 525. 110 A.L. Booth, The Glass Ceiling in Europe: Why are Women Doing Badly in the Labour Market, in «Swedish Economy Policy Review», 2007, vol. 19, pp. 121 – 144. 111 Si veda www. HELA-projektet.com 60 Del 2008 è, poi, l’emanazione del già citato Discrimination Act in cui si afferma che datori di lavoro e lavoratori devono lavorare insieme per eliminare le differenze ingiustificate nei salari e nelle condizioni di lavoro tra donne e uomini. Con il supporto delle organizzazioni sindacali, si poi è provveduto a creare nei luoghi di lavoro gli incentivi necessari per consentire alle lavoratrici donne di partecipare a corsi e programmi di formazione al fine di realizzare adeguatamente le proprie prospettive di carriera. Nel ultimi anni, tra le iniziative collegate alle politiche di genere che hanno visto la collaborazione di molti soggetti istituzionali a livello centrale e locali. Vanno ricordati il Programme for Gender Mainstreaming at Governmental Level (Jämi) avviato nel 2008, con durata biennale, dal Secretariat for Gender Research presso l’Università di Gothenburg e il Programme for Sustainable Gender Equality, sempre del 2008, condotto dalla Swedish Association of Local and Regional Authorities (SALAR). Questi ultimi hanno avuto come obiettivo quello di individuare strumenti di supporto per agli apparati del governo centrale e per gli enti locali tali da garantire un corretto monitoraggio delle politiche e delle azioni predisposte per assicurare la parità di genere. In particolare, il programma Jämi ha previsto forme di consultazione dei soggetti interessi (enti pubblici, istituti universitari, stakeholders e organizzazioni non governative) e la gestione di forum e strumenti di confronto stabile. L’attività è stata condotta attraverso la raccolta e l’analisi delle diverse politiche e prassi applicate e la predisposizione di questionari da sottoporre agli organismi e ai soggetti coinvolti. Il ruolo principale all’interno del progetto è stato assegnato allo Swedish Secretariat for Gender Research presso l’Università di Gothenburg con l’obiettivo di fornire l’adeguato supporto alle agenzie governative in merito al gender mainstreaming. Il Programme for Sustainable Gender Equality gestito da SALAR ha inteso valorizzare la parità di genere soprattutto a livello locale nell’ambito dei processi decisionali e della gestione del personale. Il programma ha finanziato specifiche attività di formazione per politici e dirigenti locali. Interessante anche il programma Women to top position avviato dal governo svedese per assicurare nuove possibilità di carriera per le lavoratrici nel settore pubblico, in modo tale che possano raggiungere posizioni di alto livello e manageriali. Il budget destinato all’iniziativa è stato di 1,8 milioni di euro al fine di implementare nuovi sistemi di organizzazione del lavoro sul piano strutturale e normativo112. Particolarmente significativo rispetto ai temi qui considerati è, infine, quanto contenuto nel Piano Nazionale di Riforma 2012 presentato in sede europea dal governo svedese in cui i profili connessi alla parità di genere sono diffusamente trattati. In particolare, si dà conto delle misure e delle iniziative recentemente promosse dalle parti sociali che, a livello locale, hanno portato alla istituzione, nel biennio 2010 – 2012, dei gender equality councils con il fine di verificare l’andamento dei salari e delle condizioni di lavoro tra donne e uomini e di proporre azioni positive per raggiungere livelli di uguaglianza più sostenibili. 112 Sul punto cfr. F. Guéot, L’égalité professionnelle homme-femmes dans la fonction publique. Rapport au président de la République, La Documentation française, 2011, p. 34. 61 10. I problemi, i motivi, le proposte L’analisi della normativa, della prassi e dei dati quantitativi relativi alla parità di genere nella pubblica amministrazione italiana e di altri paesi europei mette in luce alcuni problemi di fondo comuni alle diverse realtà considerate. 10.1. I problemi comuni I dati mostrano, in primo luogo, un’incoerenza nella composizione di tutte le pubbliche amministrazioni esaminate. Se, infatti, le amministrazioni complessivamente considerate sono composte per la metà o, in alcuni casi, per la maggioranza da donne, quando si vanno a considerare le posizioni dirigenziali e apicali le percentuali di presenza femminile non superano il 20-30% nella maggior parte dei paesi e dei settori. Inoltre, le posizioni che richiedono minori qualifiche e responsabilità sono per lo più ricoperte da donne. Vi è, in secondo luogo, una settorializzazione (o segregazione) delle competenze femminili a tutti i livelli e, con maggiore evidenza, nelle posizioni apicali. Le donne sono impiegate soprattutto nei settori economico-sociale, dei beni culturali, dell’istruzione, mentre sono una minoranza nei settori della difesa, delle infrastrutture e dei trasporti, dell’ambiente, delle politiche agricole e forestali. Questa distribuzione sembra essere una costante nel tempo per tutti i paesi, sebbene con una progressiva attenuazione in alcuni settori. In terzo luogo, le differenze retributive sono ancora presenti e significative nonostante i riconoscimenti sul piano normativo, a livello europeo e dei singoli paesi, del principio del pari salario per pari mansioni. In tutte le realtà esaminate si è tendenzialmente colmato il divario retributivo formale, determinato da normative che non garantivano la stessa retribuzione a donne e uomini nonostante lo svolgimento di compiti uguali o assimilabili. Tuttavia, è rimasta una differenza sostanziale: le donne, nelle stesse posizioni, siano queste di base o di vertice, guadagnano meno dei loro colleghi uomini. Le percentuali variano da paese a paese: nella dirigenza pubblica italiana la percentuale media è allineata con quella del mercato del lavoro italiano e inferiore alla media europea (4,9%), ma rimangono sacche di disuguaglianza sostanziali e più profonde, come il 46% (massima) di differenziale retributivo per incarichi di direzione generale nel Ministero dell’Economia e delle Finanze, il 37,6% (massima) per queste stesse posizioni nel Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, il 34,7% (massima) nel Ministero dello Sviluppo Economico. 10.2. Le cause comuni L’analisi incrociata di questi dati con quelli relativi all’uso del part-time e del congedo parentale consente di avanzare alcune ipotesi sulle cause -anche queste trasversali ai vari paesi- dei problemi emersi. L’elemento preponderante che spiega sia l’incoerenza nella composizione dei vari livelli sia i differenziali retributivi è un fattore prima di tutto endogeno: sono le donne stesse a farsi carico della cura della famiglia e della prole. In tutti i paesi considerati, il part-time è scelto principalmente dalle donne e in Italia dalle dipendenti pubbliche più che dalle lavoratrici private. A questo si aggiungono i congedi di maternità, legati a ineliminabili esigenze della gravidanza; i 62 congedi parentali, che vengono tendenzialmente usufruiti dalle donne e, se richiesti dagli uomini, lo sono per periodi nettamente più brevi; i congedi familiari. Queste prassi contribuiscono così a frammentare il percorso lavorativo delle dipendenti pubbliche, con i due effetti già indicati: scoraggiare le donne ad accedere a posizioni di maggiore responsabilità, che richiedono più ore e meno flessibilità, e mantenere la retribuzione su livelli complessivamente più bassi di quelli dei colleghi uomini. A questo deve aggiungersi un fattore esogeno, non attribuibile alle lavoratrici, ma connesso con le loro scelte: la carenza di incentivazione alla progressione di carriera da parte delle istituzioni. Il contesto in cui le donne operano (es.: superiori gerarchici, commissioni di concorso) attribuisce un disvalore alle scelte delle donne e non incoraggia o non promuove la progressione di carriera delle donne, potenziando l’effetto distorsivo delle scelte che queste operano a favore della famiglia. Significative sono, per esempio, le risposte al questionario sottoposto dalla Commissione ai propri dipendenti da cui è emerso che le donne non sono incentivate né dal contesto circostante, né dai loro superiori gerarchici in particolare, a presentare domanda per posizioni apicali. Ciò può estendersi anche alla fase del reclutamento, come dimostrano i dati della Banca d’Italia e delle altre banche centrali. Questo è presumibilmente dovuto, da un lato, alla presenza di oggettivi, anche se potenziali, fattori di discontinuità sul lavoro che la cura familiare comporta, dall’altro a una percezione amplificata e pregiudizievole di queste circostanze da parte di chi recluta, seleziona o anche solo incoraggia la progressione di carriera. 10. 3. Le proposte per l’Italia Le soluzioni che questo Rapporto intende proporre seguono un approccio misto: in parte operano direttamente sui problemi (incoerenza nella composizione, settorializzazione, differenze retributive), assicurando che la modifica sull’effetto retroagisca sulla causa (approccio down-to-the-top); in parte operano sulle cause, per consentire che gli interventi sui problemi non rischino di gravare sulle donne stesse (in termini di difficoltà nella conciliazione) (approccio top-down). Le principali soluzioni possono essere, quindi, raggruppate attorno ai problemi e alle cause. Alcune delle soluzioni proposte sono mutuate dai sistemi esaminati con cui l’Italia condivide problemi e cause. In un contesto in cui le risorse finanziarie sono limitate, le proposte dovranno poi essere classificate a seconda dell'investimento di risorse pubbliche che richiedono e, alla luce di questo, ordinate secondo un diverso livello di fattibilità e priorità. Azione sui problemi: 1) Una prima proposta interviene sul problema dell’incoerenza nella composizione delle amministrazioni pubbliche. Sarebbe auspicabile, sull’esempio francese, delle istituzioni comunitarie e in parte tedesco, porre degli obiettivi di risultato relativi alla presenza femminile nelle pubbliche amministrazioni. La Corte di giustizia europea, come ricordato, ha stabilito che i vantaggi attribuiti a un unico sesso sono contrari alle norme comunitarie. Questo esclude l’introduzione di quote preferenziali per un solo sesso, ma non esclude che possano prevedersi delle quote minime di presenza per entrambi i sessi negli organi di vertice delle pubbliche 63 amministrazioni, da implementare progressivamente. A tale sistema dovrebbe accompagnarsi un sistema di controllo e di sanzioni efficace. Sotto questo secondo profilo, le istituzioni comunitarie e la Francia offrono due varianti utili. Nel primo caso la sanzione si limita al naming and shaming, nel secondo prende la forma di una vera e propria sanzione pecuniaria. Per funzionare l’approccio del naming and shaming deve inserirsi in una cultura amministrativa ‘avanzata’ che attribuisca alla pubblicizzazione delle cattive prassi in materia di parità un valore realmente deteriore e quindi deterrente. In Italia parrebbe più efficace intervenire o attraverso sanzioni, sul modello francese, o, seguendo una terza via, ossia attribuendo incentivi a quelle amministrazioni che raggiungono gli obiettivi prefissati. Quest’ultima soluzione, tuttavia, presuppone che la realizzazione dell’obiettivo sia l’eccezione positiva e non la regola e rischia, inoltre, di essere particolarmente dispendiosa. 2) Un secondo gruppo di proposte cerca di ovviare al problema della settorializzazione. Si propone di: a. Introdurre un sistema di orientamento e incentivi (borse di studio, defiscalizzazione) mirato a favorire l’iscrizione dei diplomati e delle diplomate113 ai corsi di laurea in settori in cui tradizionalmente la presenza maschile è preponderante (ingegneria, chimica e altre materie scientifiche); b. Organizzare specifici corsi d'informazione, indirizzo e motivazione per laureande/i di corsi di laurea propedeutici al lavoro in settori dell’impiego pubblico con gender gap nei livelli apicali (presenza di genere inferiore al 15%). Un modello è costituito dai corsi di assertività avviati nel 2012 presso l’Università di Oxford per accrescere la competitività nelle selezioni per lavori di alta responsabilità manageriale (settori economico-finanziari). 3) Un terzo gruppo di proposte mira a ovviare alle differenze retributive: a. Si incentiva l’uso del congedo parentale da parte degli uomini, prevedendo un sistema di non trasferibilità di una porzione del periodo di congedo (metà), sul modello minimo proposto dalla direttiva n. 18/2012/UE. Quindi, ad esempio, si possono prevedere sei (o gli attuali undici) mesi di congedo parentale per ciascun genitore, ma con la clausola che metà di questo periodo non è trasferibile all’altro genitore e deve essere usufruito da chi ne è l’originario titolare. b. Si limita e ridistribuisce l’uso del part-time, da un lato richiedendo alle amministrazioni di prevedere un numero massimo di contratti part-time, dall’altro distribuendo tali contratti in misura maggiormente paritaria tra i due sessi, applicando a questa ipotesi il meccanismo delle quote minime (supra). Così, ad esempio, su un totale di 50 contratti part-time, almeno il 45% dei 113 Passano dalla scuola superiore all'università il 62,3% delle ragazze, contro il 57,5% dei ragazzi; nella fascia d'età tra 24 e 35 anni, hanno la laurea il 24,6% delle donne contro il 15,8% degli uomini; dati Miur, su http://statistica.miur.it. 64 soggetti che ne usufruiscono devono essere uomini e un’altrettanta percentuale donne. In questo modo superata la soglia del 55% di contratti part-time attribuiti a donne, i restanti possono essere attribuiti solo a uomini che ne facciano richiesta. Azioni sulle cause: 1) Per favorire una più equa distribuzione dei carichi familiari, si propone di: a. Introdurre forme di lavoro flessibile per donne e uomini in cui la totalità delle ore lavorative può essere gestita in modo autonomo dai lavoratori (modello delle istituzioni europee). Questa soluzione dovrebbe agire sia a livello intrafamiliare, incentivando una più paritaria distribuzione dei carichi familiari tra donne e uomini, sia sul luogo di lavoro, favorendo una maggiore produttività. Inoltre supera l’adozione di soluzioni part-time che, come visto, penalizzano principalmente le donne sotto il profilo dell’avanzamento di carriera e delle retribuzioni; b. Vd. punto 3) sub Azione sui problemi. 2) Per ovviare alla carenza di incentivazione alla progressione di carriera da parte delle istituzioni si propone di: a. Predisporre dei sistemi di accountability inter-istituzionale (modello francese) che prevedano: un piano biennale, comune a tutte le amministrazioni, di obiettivi quantitativi e qualitativi circostanziati relativi alla parità di genere; un monitoraggio esterno alle singole amministrazioni sulla effettiva realizzazione di questi obiettivi, attraverso audits e questionari; la predisposizione di controlli ex post e di relative sanzioni pecuniarie in caso di mancata realizzazione degli obiettivi fissati; b. Organizzare programmi di formazione specificatamente volti a motivare e incentivare le donne alla partecipazione a concorsi per l’avanzamento di carriera; c. Ispirandosi al modello delle istituzioni europee ed estendendo la disciplina già in vigore relativa alle procedure di selezione per le posizioni dirigenziali, prevedere un numero minimo di donne nelle commissioni di concorso a tutti i livelli. Questo perché la presenza di commissioni maschili anche nel passaggio a posizioni intermedie potrebbe essere un fattore preclusivo per la partecipazione a concorsi per posizioni dirigenziali. Come anticipato, le proposte illustrate hanno costi diversi e comportano un diverso impatto sulle risorse delle pubbliche amministrazioni. E’ possibile individuare un ordine di priorità nella realizzazione delle proposte come illustrato nella Tabella 24. 65 PROPOSTE IMPATTO PRIORITÀ SULLE RISORSE PUBBLICHE (SPESA) Quote minime (donne e uomini) BASSO ALTA Accountability inter-istituzionale BASSO ALTA Congedo parentale non trasferibile (uomini) BASSO ALTA Donne nelle commissioni di concorso/avanzamento BASSO ALTA Orario di lavoro flessibile (donne e uomini) BASSO ALTA Orientamento per diplomati (donne e uomini) MEDIO MEDIA Corsi d'informazione per laureandi (donne e uomini) MEDIO MEDIA MEDIO MEDIA MEDIO MEDIA Formazione per avanzamento di carriera (donne) Uso del patrimonio immobiliare scolastico Tabella 24, Impatto sulle risorse pubbliche e grado di priorità delle proposte 66