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Sguardi sulla Shoah
LE VISIONI PROBLEMATICHE DEI CAMPI DI STERMINIO
Nel volume di Maurizio G. De Bonis “L’immagine della memoria” (Onyx Edizioni)
viene affrontato il tema di come si è costituita al cinema e nella fotografia la
rappresentazione di un evento di per sé ‘irrappresentabile’ come l’Olocausto.
L’autore muove precise critiche al film di Benigni “La vita è bella”, mentre sembra
meno condivisibile l’analisi della pellicola “Train de vie” di Radu Mihaileanu. Del
pari, non sembra scandalosa l’opera del fotoartista Michael Kenna che tende a
trasfigurare il paesaggio dei lager in un mondo quasi fantastico, lunare, metafisico per
intensificare l’emozione visiva.
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di Stefano Petrelli
Come si fa a raccontare un avvenimento terribile e inspiegabile come lo sterminio di sei milioni di
persone? Maurizio G. De Bonis, nel suo libro L’immagine della memoria edito da Onyx, affronta il
tema della rappresentazione che cinema e fotografia hanno dato della Shoah cercando di
evidenziare i rischi e i problemi che hanno dovuto affrontare cineasti e fotografi che si sono
confrontati con un evento così terribile. De Bonis sottolinea come il cinema, sostenuto da un
processo di carattere industriale, è incentrato su un concetto semplice: un film “esiste” se effettua il
suo percorso nell’ambito delle regole di mercato e ha senso produttivo solo se riesce a generare un
profitto. Ciò che emerge dall’attuazione di questo meccanismo è che, nella grande maggioranza dei
casi, tutti i documenti audiovisivi, concepiti per la distribuzione nelle sale, anche quelli sulla Shoah
dunque, devono generare un guadagno per avere “una loro vita”.
Alla luce di ciò i lavori sulla Shoah possono presentare delle componenti che entrano in conflitto
morale con lo spessore degli avvenimenti raccontati. Il conflitto generalmente scaturisce dalla
presenza nel corpo espressivo dell’opera di fattori connessi alla spettacolarizzazione del dolore e
della morte. Rendere spettacolare la Shoah significa, in primo luogo, trasportare questo argomento
nell’universo del puro intrattenimento di massa, cosa che sembra francamente inaccettabile. Inoltre
la visione ripetuta e senza filtri da parte del pubblico della violenza, della sopraffazione dell’uomo
sull’uomo, del dolore fisico e psicologico è ormai prassi consolidata. Il risultato di questa overdose
di sangue è che lo spettatore medio finisce per cadere in uno stato di assuefazione a cui segue
l’indifferenza. Dunque, un film sulla Shoah basato sui procedimenti linguistici\espressivi tipici del
cinema industriale, proposto ad un pubblico abituato all’orrore, alla violenza, rischia di collocarsi in
uno spazio mentale inquinato dal conformismo e dagli stereotipi nel quale si sovrappongono
materiali differenti e contraddittori. Così, secondo De Bonis, il pericolo che corrono molti
lungometraggi girati fino ad oggi sull’argomento riguarda proprio il potenziale annullamento della
loro funzione culturale\sociale e di salvaguardia della memoria, a favore del sostegno allo
spettacolo cinematografico.
Se da un lato però bisogna stare attenti a non incorrere nella spettacolarizzazione dell’orrore,
dall’altro appare sbagliato eccedere nell’altra direzione, cioè operare una totale censura della morte
e della violenza. L’immagine della memoria sottolinea la necessità per i cineasti che si misurano
con la Shoah di mantenersi equidistanti, tra la favolizzazione consolatorie e la truce
spettacolarizzazione della sofferenza.
Fra i film criticati per il loro modo della Shoah, De Bonis inserisce anche La vita è bella di Roberto
Benigni del 1997. Questo film ha avuto l’indubbio merito di aver avvicinato un vasto pubblico al
tema della Shoah, purtroppo però quest’opera filmica rientra nella categoria di quei film che
censurano totalmente la morte e che fa poca attenzione alla ricostruzione storica, mettendo dunque
in atto un processo di favolizzazione consolatoria. Non è solo De Bonis a pensarla in questo modo,
critiche simili a questo film sono state mosse anche da due studiosi israeliani: Moshe Zimmerman e
Kobi Niv.
Il primo, nel suo libro Cinema and Memory, tenta di dimostrare che La vita è bella è in realtà un
prodotto costruito abilmente per il mercato americano. Secondo Zimmerman basta cogliere un
dettaglio per sostenere ciò: il campo di concentramento del film evoca chiaramente quello di
Auschwitz-Birkenau, campo liberato dalle truppe sovietiche e non da quelle americane come si fa
nelle sequenze finali.
Invece, Kobi Niv, docente di sceneggiatura presso l’Università di Tel Aviv, nel suo saggio Life is
Beautiful, But Not for Jews (Another View of the Film by Benigni), smonta minuziosamente
l’operazione del duo Benigni-Cerami , puntando tutta la sua attenzione sulla “manipolazione” che i
due autori italiani avrebbero effettuato per quel che concerne la ricostruzione della vita nei campi di
sterminio. In particolare, oltre a stigmatizzare la scelta di non descrivere le reali terribili condizioni
della vita nei lager, Niv biasima anche la scelta di non mostrare mai la morte. Certo, Niv non
sostiene la necessità di far vedere l’attuazione della soluzione finale, ma il ritratto fatto da Benigni
non rende assolutamente la gravità e l’orrore della Shoah.
Il libro di De Bonis è un lavoro molto accurato che, oltre a fornire una vasta retrospettiva critica di
moltissime delle opere prodotte sulla Shoah, individua e spiega il nesso di questo tema con altri
temi fondamentali nei film di autori ebraici e in quelli che hanno raccontato storie di perseguitati e
di sopravvissuti ai lager, come il tema dell’identità ebraica, della coscienza civile e il rapporto tra
vittima e carnefice. A tal proposito è veramente di spessore l’analisi fatta sui film di Polanski, in cui
De Bonis, facendo riferimento anche alla biografia dell’autore, che ha vissuto l’esperienza della
ghettizzazione e della deportazione, riesce a rintracciare “i segni della Shoah” anche in quei film
che non ne trattano direttamente, come nel caso di Oliver Twist, del 2005, film che rappresenta una
sorta di apparente deviazione dello sguardo dell’autore, apparente perché in verità Polanski ha
concepito una nuova articolazione narrativa utile ad alimentare la sua riflessione sulla Shoah.
Polanski, in sostanza, ha utilizzato la struttura del romanzo di Dickens per approfondire un discorso
iniziato fin dai suoi primi cortometraggi e portato avanti con diversi film che trattano direttamente
la Shoah e la persecuzione degli ebrei. Affrontando le disavventure simboliche di Oliver Twist,
bambino la cui esistenza è stata caratterizzata da solitudine, abbandono, violenza sopraffazione e
perdita di identità, l’autore de Il pianista approfondisce la condizione in cui è venuto a trovarsi lui
da bambino nella Polonia occupata dai nazisti.
L’immagine della memoria, come già detto, richiama gli autori che vogliono misurarsi con questo
tema ad un’elaborazione saggia e ad una ricostruzione attenta. Questo richiede una preparazione
culturale accuratissima e un equilibrio nella presentazione di immagini della vita dei campi di
sterminio o concernenti l’attuazione della “soluzione finale”.
Le tesi che De Bonis sostiene non possono che trovarmi d’accordo, tuttavia non condivido
pienamente la valutazione di alcuni film e qualche conclusione a cui giunge nella sezione dedicata
alla fotografia.
In particolare sono in disaccordo sull’analisi del film Train de vie di Radu Mihaileanu, qui De
Bonis critica la prima parte del film, quella che illustra la vita di uno shtetl, in cui il regista sarebbe
scaduto nella caricatura e nella macchietta. Effettivamente, le caratteristiche della quotidianità
ebraica in questa struttura sociale sono dilatate in senso paradossale e quasi visionario.
Sinceramente non trovo giusta questa critica, innanzi tutto perché il punto di vista è quello del
“matto del villaggio” (sue sono anche le voci fuoricampo) per cui è logico che la realtà vista con i
suoi occhi risulti paradossale. Inoltre questa prima parte, che per De Bonis è quella meno riuscita, è,
a mio avviso, fondamentale, poiché è funzionale a creare quel clima di sogno rocambolesco che
viene disintegrato con la scena finale, in cui si vede “il matto del villaggio” che ci parla dall’interno
di un campo di concentramento. Se la prima parte fosse stata diversa, senza le macchiette e le
caricature o più attenta alla realtà de shtetl, credo si sarebbe perso gran parte dell’impatto emotivo
che questo film dal finale spietato crea.
De Bonis, inoltre, stigmatizza quelle produzioni che operano rappresentazione estetizzanti della
Shoah. Riconosce questa caratteristica in alcune opere dei fotografi che sono entrati nei campi di
concentramento al seguito dell’esercito alleato come Margaret Burke-White e Lee Miller. A queste
due fotografe rimprovera, oltre alla crudezza delle immagini (va detto però che si trattava della
prima volta che dei fotografi vedevano quello spettacolo per cui hanno reagito semplicemente
accostandosi alla realtà davanti ai loro occhi), il contrasto, che viene a crearsi nelle loro foto, tra il
contenuto e l’impostazione formale scelta dalle autrici. Le foto infatti mostrano una preparazione
spiccatamente razionale e molta attenzione per la composizione dell’immagine. Secondo De Bonis
questo “trasforma” dei cadaveri in “semplici dettagli di morte nell’ambito di una costruzione
formalistica” (p.155), e foto di questo tipo sono da considerare irrispettose se non addirittura oscene
perché propongono una realtà oggettiva terribile nell’ambito di un apparato formale che va oltre il
contenuto dell’immagine.
De Bonis giunge a queste conclusioni perché sente la giusta necessità di una memoria condivisa,
fondamentale per non dimenticare l’orrore della Shoah, e più in generale della sopraffazione di
uomini da parte di altri uomini, e per impedire che posizioni revisionistiche della storia portino alla
mistificazione degli eventi. Al fine di raggiungere una memoria condivisa De Bonis richiama tutti
gli artisti che si misurano con la Shoah di cooperare in questo senso.
Tuttavia non credo sia giusto bollare come rappresentazione estetizzante ogni rielaborazione che si
discosta da un canone stabilito (in questo caso mi riferisco al modo di rappresentazione della Shoah
che De Bonis ritiene più adeguato). Le tesi proposte dall’autore sono giustissime: credo sia
assolutamente necessaria una grande preparazione culturale e un attentissimo lavoro di
approfondimento per misurarsi con questo tema, d’altra parte però non si può chiedere ad un artista
di cambiare la sua poetica. Ovvero, se per Michael Kenna la tendenza a raffigurare il paesaggio non
con lo scopo di riprodurre oggettivamente la natura, ma con quello di trasfigurarla in un mondo
quasi fantastico, lunare, metafisico è parte fondamentale della sua concezione dell’arte e del suo
modo di essere artista, credo non sia poi così scandaloso trovare elementi di tale poetica anche nel
suo lavoro Impossible to Forget-The Nazi Camps Fifty Years After in cui Kenna ritrae i luoghi della
Shoah. La cosa che scandalizza De Bonis è che il ritrovare in questa raccolta di fotografie stilemi di
una poetica che Kenna ha usato per ritrarre tutti i paesaggi che sono diventati soggetto delle sue
foto. Sono sicuramente d’accordo con De Bonis quando dice che Impossible to Forget (e anche le
foto di Margaret Burke-White e Lee Miller fatte nei campi di concentramento) non è un’opera utile
al raggiungimento di una memoria condivisa, ma criticare l’approccio di Kenna a questo tema,
definendo l’applicazione degli stilemi distintivi della sua arte come un modo di rappresentare la
Shoah che sminuisce la portata e la gravità dell’evento sia un attacco non del tutto giustificato alla
soggettività e alla visione dell’artista e alla sua concezione di arte. D’altra parte diceva Edward
Weston, uno dei fondatori del “Gruppo f.64” (movimento degli anni sviluppatosi nell’ambito della
fotografia che aveva alla base la ricerca della massima precisione e nitidezza dell’immagine): “se
non riesco a raggiungere la massima precisione dell’immagine anche il soggetto più stupefacente o
più importante mi appare banale e incapace di suscitarmi emozioni”.