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Pornografia e Chiesa D I B AT T I TO p iù audaci criteri N el mese di marzo il Parlamento europeo ha preso in esame una mozione non vincolante, cioè una presa di posizione di indirizzo politico che non avrebbe avuto vincolo legislativo, «per eliminare gli stereotipi di genere in UE» e che chiedeva agli stati membri di fare ogni sforzo per contrastare la discriminazione delle donne nei media. Tra le pieghe del documento veniva avanzata anche la seguente proposta: «Si propone un divieto alla pornografia su tutti i media». Si tratta di una questione a lungo dibattuta, sulla quale si è lungi dal poter trovare un accordo, sia sul piano della comprensione che su quello conseguente della legislazione. I tentativi fatti negli ultimi quarant’anni di affidare il problema a commissioni di esperti non hanno portato alcun risultato: nel 1970 il senato degli USA, a larga maggioranza, respinse i risultati, resi pubblici tre settimane prima, della commissione nominata dal Congresso su oscenità e pornografia, ritenendo la commissione espressione dello spirito permissivo delle università in tempi di contestazione. Sotto la presidenza Reagan si arrivò a nominare un’altra commissione, avendo cura di scegliere gli esperti in modo che questa volta ne sortissero i risultati sperati, nei confronti della quale tuttavia fecero muro i sostenitori della libertà d’espressione. Del resto, quanto sia difficile trovare un accordo su un argomento che implica così profon- 431-434_art_subini.indd 431 Dal cinema d’autore alla pornografizzazione: una storia da rileggere, un fenomeno da affrontare damente le soggettività dei singoli lo suggerisce la spaccatura creatasi nell’ambito degli women’s studies, tra le femministe che considerano tutte le forme di pornografia come atti di violenza sulle donne e le femministe che, al contrario, lodano le potenzialità liberatorie dell’erotismo. La verità è che, come ha spiegato Peppino Ortoleva, «le potenzialità liberatorie della pornografia non escludono quelle oppressive, e viceversa».1 Il fatto stesso che il dibattito potesse riaprirsi in sede europea ha su- scitato (stando a quanto riportato dai giornali) 600.000 e-mail di protesta in tre giorni. Risultato: la mozione è stata respinta. Pare trovare conferma l’opinione di coloro che ritengono irreversibile la rottura dei tabù relativi all’osceno, avvenuta nel corso della seconda metà del XX secolo, e giudicano ogni misura di tipo restaurativo, che abbia come scopo la repressione della pornografia, impraticabile sul piano sociale e pericolosa sul piano della legalità: come negli Stati Uniti degli anni Venti del secolo scorso la Anita Ekberg ne La dolce vita. 26/07/13 13.17 proibizione delle bevande alcooliche non ha avuto alcun effetto sulla moralità ma molti sulla legalità, ugualmente proibire la pornografia oggi, scontrandosi con abitudini troppo radicate per essere negate, andrebbe incontro a un annunciato fallimento. Dunque, archiviata l’opzione proibizionista e preso atto della complessità del problema, parrebbe giunto il tempo dell’interrogazione, dello studio, dell’analisi. La portata che ha assunto il fenomeno, in particolare dopo il salto che ha fatto nel web, impone uno sforzo di comprensione che da un lato sappia tenere a bada radicate paure, e dall’altro stigmatizzi un mercato pericoloso. Parlare non significa legittimare I film porno sono anzitutto dei film, ovvero dei «prodotti culturali» sotto forma di testi audiovisivi. Per comprenderne il funzionamento occorre accostarli in quanto tali. Sta anche nel non aver inteso ciò uno dei motivi del fallimento della lotta della Chiesa contro il porno: per i tanti ecclesiastici che si sono occupati di rappresentazione della sessualità nella seconda metà del Novecento (è una battaglia, ora, data per persa e dunque sempre meno combattuta) i film porno, e prima di essi i film più o meno espliciti nel rappresentare il sesso, erano anzitutto occasioni di peccato. È insomma prevalsa la paura sulla volontà di critica. Ciò è accaduto non senza una ragione. Come spiega Michel Foucault,2 il discorso sulla sessualità non può essere ridotto a una sua più o meno neutra descrizione, perché di fatto concorre a produrne la realtà: parlare del cinema immorale e della pornografia ha significato in un qualche modo legittimarne l’esistenza, contribuendo alla loro diffusione. Oggi tali preoccupazioni non sono più giustificate, per il semplice fatto che la diga è aperta e la preoccupazione (un tempo sensata) di contribuire alla produzione di una realtà indesiderata non ha più ragione d’essere: quella realtà si è ormai consolidata. Se è vero che, come afferma Linda Williams, «i dibattiti femministi sulla legittimità o meno dell’esistenza della 432 Il Regno - 431-434_art_subini.indd 432 attualità pornografia sono impalliditi di fronte al fatto che le immagini porno (fisse o in movimento) sono divenute caratteri preminenti della cultura popolare»,3 non di meno lo sono i dibattiti interni al mondo religioso. Occorre prendere atto del fatto che il porno è ormai entrato in università costituendo una vera e propria branca di studi collocatasi in un ambito confinante, da un lato, con i film and media studies e, dall’altro, con le più recenti declinazioni dei cultural studies (che hanno ridefinito in senso più ampio di quanto non si faceva in passato – includendovi il porno – il concetto di cultura popolare) e con il variegato mondo degli studi di gender (women’s studies e lesbian, gay, bisexual, and transgender studies). Un volume del 2004 consacra la nascita di questo filone di studi assegnandogli altresì il nome con cui da allora ci si riferisce a esso: porn studies. Nell’introduzione del libro, Williams ne giustifica l’esistenza con la recente «innegabile esplosione di prodotti sessualmente espliciti che urlano per essere meglio compresi».4 Come ha spiegato Pietro Adamo, quando si affronta il tema dei film pornografici «bisogna tener conto della loro strutturazione culturale, ovvero del fatto che si rivolgono a un target preciso, e che hanno quindi più la funzione di alleviare ansie e confermare pregiudizi che quella di sollevare problemi o imporre direttive».5 Si tratta infatti di testi della cultura bassa, caratterizzati da un’elaborazione formale elementare e dalla marginalizzazione dell’intenzionalità autoriale. E tuttavia, forse proprio in quanto espressione della cultura bassa, quella delle viscere, «i luoghi dell’immaginario cui fanno riferimento (…) si rivelano (…) costituenti essenziali di una sessualità condivisa e di una dimensione dell’esistente presenti e decisivi, che non solo non si possono spazzar via come semplici refusi ideologici, ma che sembrano affondare in zone determinanti della psiche e della cultura occidentale: in altre parole, la condanna della violenza [del porno] non può risolversi in una presa di posizione puramente moralistica, ma necessita di un confronto sul terreno concreto della fenomenologia e della genealogia delle forze e degli atti in gioco».6 Progetto impegnativo, ma non rinviabile. Impegnativo anzitutto per una cultura religiosa come quella cattolica, la cui politica sessuale poggia sostanzialmente su due pilastri – da un lato la sessualità matrimoniale finalizzata prevalentemente (se non proprio esclusivamente) alla procreazione, dall’altro la continenza come via di perfezione – da tempo scricchiolanti.7 Non rinviabile per la portata che il fenomeno ha assunto, in particolare da quando ha incrociato sulla sua strada Internet. I dati forniti dai sociologi sono concordi: più della metà del traffico Internet, nonché un quarto delle ricerche effettuate tramite Google, hanno come oggetto materiali di natura pornografica che, grazie alle possibilità fornite dal web, possono essere fruiti gratuitamente e nel completo anonimato.8 La Chiesa e il caso italiano Il caso italiano è particolare. Lo ha raccontato con acume Ortoleva, secondo il quale la caduta dei tabù in materia di oscenità è stato «uno dei processi sociali più traumatici dell’intero secolo» scorso.9 Ripercorriamone brevemente le tappe, chiedendoci quale sia stato il ruolo giocato dalla Chiesa, in particolare nei confronti dell’osceno cinematografico. Se il processo attraversa tutto il Novecento procedendo per tappe diversificate nei tempi da paese a paese, gli studiosi hanno identificato un momento di decisa accelerazione tra gli anni Cinquanta, quando si concretizzano i processi di liberalizzazione nei paesi del Nord Europa, e gli anni Settanta, quando si diffondono in quasi tutti i paesi europei i cinema «a luci rosse». Il caso italiano può essere spiegato ricordando due momenti chiave, legati a due film dalla qualità somma, entrambi incompresi dalla cultura cattolica che cercò in quel giro d’anni di porre un freno all’irrefrenabile: il 1960 de La dolce vita e il 1976 di Ultimo tango a Parigi. Nel 1960 ancora si pensava che bastasse fare appello al «senso del pudore», che qualche richiamo paterno potesse rimettere sulla giusta carreg- 14/2013 26/07/13 13.17 Anita Ekberg ne La dolce vita. giata il buon cattolico, quando il caso de La dolce vita scoppiò con fragore dimostrando d’un botto (ovvero con un buon decennio di ritardo sui paesi del Nord) quanto inascoltata fosse la voce della Chiesa in materia. È a quel punto che scesero in campo i magistrati in alcuni celebri procedimenti, contro i film di Visconti, di Pasolini, di Ferreri… fino a Ultimo tango a Parigi. In quel caso la condanna del film, su cui (come in tutti i precedenti casi) la critica si era pronunciata in termini più che favorevoli, apparve come una sentenza fuori stagione, di fatto superata dal cosiddetto comune senso del pudore. Paura di affrontare l’argomento Almeno due sottovalutazioni ha fatto la Chiesa in quel frangente. Il primo è essersi lasciata sopraffare dalla paura di compromettersi con testi che, rivisti oggi, non porrebbero problemi di sorta nemmeno a un pubblico di giovani seminaristi. Si prenda per l’appunto il caso de La dolce vita e ci si interroghi sul modo con cui l’allora arcivescovo di Milano, il card. Giovanni Battista Montini, si rapportò a un film senz’altro problematico perché, nella sua modernità, sembrava aprire su un mondo inedito, ma assolutamente pudico nella rappresentazione della sessualità. Il 31 gennaio 1960 si svolge, presso il Centro culturale San Fedele di Milano, un’anteprima del film aperta a un gruppo ristretto e qualificato di spettatori. La serata suscita il disappunto di parte del pubblico presente, come è testimoniato da alcune lettere prontamente inviate a Montini. Pochi giorni dopo, il film esce nelle sale. Parallelamente al subitaneo e inarrestabile successo di pubblico, cresce una polemica dalle proporzioni inaudite che assume immediatamente colori politici e che, all’interno della Chiesa, darà seguito a un provvedimento disciplinare del Sant’Uffizio nei confronti del San Fedele, di cui ci siamo già a lungo occupati in altra sede.10 Qui ci interessa unicamente soffermarci sul timore che Montini dimostrò di avere di un film di cui non prese visione. Lo ripete più volte in una serie di lettere indirizzate a in- terlocutori ai quali non può mentire. E non è pensabile che non lo abbia visto per pigrizia o mancanza di tempo: dalla montagna di documenti conservati sul caso presso l’archivio storico della diocesi di Milano, pare che Montini non abbia fatto altro che occuparsi de La dolce vita per settimane. In ciò ci pare di vedere una contraddizione della sua azione: un arcivescovo non dovrebbe delegare ad altri la responsabilità di un suo intervento, e quindi intervenire in merito a un oggetto che conosce solo per sentito dire, o che quantomeno non conosce appieno. Siccome Montini non vide il film, occorre chiedersi che tipo di percezione ne avesse. Tra le sue carte vi sono molti articoli che cavalcano lo scandalo in termini allarmistici. Accanto a questi vi è una serie di lettere provenienti da sacerdoti e fedeli che si dicono preoccupati e chiedono un suo intervento. Tra gli altri, tale «don B.B.» fornisce a Montini un elenco delle diavolerie presenti nel film: «Concubinaggio, amore libero a piene mani, omosessualità maschile e femminile, scene di morbosità, una mostruosa montatura di un presunto miracolo della Madonna, un tentativo di suicidio di una ragazza troppo possessiva, un suicidio preceduto da un doppio parricidio (sequenza di un realismo veramente sconcertante), i baccanali di una diva in cerca di emozioni, la stessa che visita San Pietro eccentricamente vestita su moda clerico prelatizia, la supina compiacenza di un padre per la vita dissipata del figlio e del figlio per l’avventura galante del padre, una lunga orgia notturna descritta minutamente, con uno spogliarello di una signora che lo fa per un capriccio, il tutto accompagnato da gesti e da parole anche sconce, di sfida all’ultimo residuo di pudore, e di perdita completa della dignità umana».11 Montini può fare affidamento anche sul giudizio di Giovanni Colombo (suo futuro successore), il quale definisce il film «un vasto panorama della mala vita: un susseguirsi, quasi senza riposo, di baldorie notturne: un’Iliade della sessualità sfrenata».12 Sono i termini con cui solitamente ci si riferisce al mondo della pornografia, sebbene il film, oggi lo sappiamo bene, di pornografico non avesse nulla. Forse l’aver confuso gli ambiti, per timore, non è stato senza conseguenze. Delegare la censura Il secondo atteggiamento insufficiente, dalle conseguenze rilevanti anzitutto sul piano dell’opinione pubblica, compiuto nei confronti del Il Regno - 431-434_art_subini.indd 433 attualità 14/2013 433 26/07/13 13.17 434 cinema italiano negli anni che videro la caduta dei tabù in materia di rappresentazione della sessualità, fu demandare alla magistratura il compito di proibire, non rendendosi conto di quanto problematica fosse una politica di censura non sostenuta dal consenso, ovvero non giustificata dal sentire comune, che per di più si appoggiasse teocraticamente al braccio dello stato. Da questo punto di vista il procedimento contro Ultimo tango a Parigi, nel suo anacronismo, è esemplare. Non ci si dimentichi che in quella occasione si arrivò a comandare la distruzione di tutte le copie esistenti del film. Nella polemica che ne seguì, la distruzione del film fu immediatamente etichettata da coloro che difendevano il diritto alla libertà di espressione con un termine, il rogo, evocativo di epoche lontane cui quella miope politica sembrava ispirarsi. Ortoleva riconosce tra le caratteristiche più rilevanti del caso italiano: «La rapidità e intensità del processo, che (…) ha dato luogo in un arco ristrettissimo di anni (1966-1972), a un passaggio, quello dalle prime rotture del tabù del nudo all’hard core, che altrove, dalla Francia all’Europa settentrionale, agli stessi USA, aveva richiesto molti più anni; il fatto che un paese cattolico e particolarmente rigido sia divenuto in pochi anni un esportatore di pornografia non solo soft ma anche estrema. Non un semplice rilassarsi delle norme ma una sorta di inversione: come per il rompersi (con pochi e incerti segnali di preavviso) di una diga che molti avrebbero giudicato inviolabile fino a pochi anni prima; il fatto che un processo di tale portata, giuridica, politi- ca e psicosociale, si sia imposto, ancor più che altrove, in assenza di qualsiasi intervento regolativo e anche in assenza di un dibattito pubblico».13 Nella sua disamina, Ortoleva si sofferma anche sul ruolo della Chiesa chiedendosi «se la pornografia in Italia non si sia affermata con quei tempi e in quel modo non solo scavalcando le resistenze della Chiesa ma anche, e in parte, in conseguenza (certamente non voluta) delle sue scelte».14 Tra le altre cose, Ortoleva rileva come «la pornografia si impose in Italia senza un dibattito paragonabile a quello che (utile o meno) accompagnò la caduta delle barriere nel mondo anglosassone e in parte nel Nord Europa: un dibattito che la Chiesa non volle e non favorì in alcun modo anche perché era uno dei temi su cui sarebbero potute emergere le sue divisioni interne».15 Le proteste che seguirono la promulgazione nel luglio 1968 dell’Humanae vitae, con cui Paolo VI, non accogliendo le conclusioni della commissione incaricata, e frustrando speranze diffuse, condannò risolutamente i metodi contraccettivi,16 suonarono probabilmente da monito. Ortoleva giunge così alla conclusione che «la presenza incombente della Chiesa nel nostro paese ha costituito per una fase un freno alla liberalizzazione, per un’altra ne ha condizionato il percorso nella direzione – paradossalmente – di una deregolamentazione più selvaggia di quella che si è avuta altrove: un segno ulteriore di quello che in generale la storia dei processi di innovazione dovrebbe insegnarci, cioè che la resistenza non agisce necessariamente come fattore di rallentamento ma spesso determina La pornografizzazione del panorama culturale Il panorama che si è venuto delineando oggi è sconsolante: lo «squallido, degradante, banale, gigantesco, fenomeno della pornografia»18 è divenuto a tal punto invasivo che si parla di pornografizzazione, termine con cui viene descritto il processo che vede la pornografia uscire dai confini tradizionali in cui per secoli è stata segregata e occupare il centro della scena.19 L’elemento di maggior preoccupazione è dato dalla cosiddetta «banalizzazione della sessualità, liberata ormai non solo dalle residue forme censorie ma anche dagli aspetti restanti di misteriosità e congiuntamente di sacralità».20 Viene da chiedersi se la Chiesa, e la cultura religiosa in genere, non abbiano svolto un ruolo importante, venuto meno il quale si è sprofondati non nella liberalizzazione del sesso a lungo inseguita, ma nella banalizzazione del sesso da nessuno preventivata e tanto meno auspicata. Viene da chiedersi cioè se la Chiesa in Italia non abbia aiutato il Novecento (quantomeno fino agli anni Sessanta, quando il suo ruolo è venuto meno) a preservare il sesso tra le cose sacre e misteriose dell’esistenza e se quel ruolo (preso atto dei tanti errori tattici commessi dagli anni Sessanta in poi) non possa oggi essere in qualche modo rinnovato a partire da una nuova consapevolezza, maggiori competenze, più audaci saperi. Tomaso Subini 1 P. Ortoleva, Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie, Il Saggiatore, Milano 2008, 321. 2 Cf. M. Foucault, Histoire de la sexualité, 3 voll., Gallimard, Paris 1976, vol. I, La volonté de savoir; trad. it. La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978. 3 L. Williams, «Porn Studies. Proliferating Pornographies On/Scene. An Introduction», in Id. (a cura di), Porn Studies, Duke University Press, Durham-London 2004, 1. 4 Ivi. 5 P. Adamo, Il porno di massa. Percorsi dell’hard contemporaneo, Raffaello Cortina, Milano 2004, 196. 6 Ivi, 196s. 7 Per un dibattito su questi temi, cf. M. Pelaja, L. Scaraffia, Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia, Laterza, Roma/Bari 2008 e la recensione critica al volume di Giovanni Filoramo, apparsa su L’indice dei libri. 8 Cf. R. Stella, Eros, Cybersex, Neoporn. Nuovi scenari e nuovi usi in Rete, Franco Angeli, Milano 2011. 9 Ortoleva, Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie, 164. 10 Cf. T. Subini, «Il caso de La dolce vita», in R. Eugeni, D.E. Viganò (a cura di), Attraverso lo schermo. Cinema e cultura cattolica in Italia, 3 voll., EdS, Roma 2006, vol. II, 239-255; T. Subini, «L’arcivescovo di Milano e La dolce vita», in Bianco e Nero LXXI(2010) 567, 33-43. 11 Archivio Storico della Diocesi di Milano, Fondo Montini, Serie prima, cartella 257, fascicolo 17, carta 47. 12 Ivi, carta 52. 13 Ortoleva, Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie, 170s. 14 Ivi, 181. 15 Ivi. 16 D. Saresella, Dal Concilio alla contestazione. Riviste cattoliche negli anni del cambiamento (1958-1968), Morcelliana, Brescia 2005, 466. Cf. anche Regno-att. 15,1968,295ss e 22,1978,492. 17 Ortoleva, Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie, 182. 18 Ivi, 212. 19 R. Stella, Eros, Cybersex, Neoporn. Nuovi scenari e nuovi usi in Rete, Franco Angeli, Milano 2011, 21. 20 P. Ortoleva, Dal sesso al gioco. Un’ossessione per il XXI secolo?, Espress Edizioni, Torino 2012, 30. Il Regno - 431-434_art_subini.indd 434 attualità conseguenze imprevedibili per tutti i soggetti interessati».17 14/2013 26/07/13 13.17