Qui - Sconfinare

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Qui - Sconfinare
n°38 - INVERNO 2013/14
direttore: Giovanni Collot
www.sconfinare.net
[email protected]
È un giornale creato dagli studenti di Scienze Internazionali e Diplomatiche di Gorizia
che attraverso il giornalismo vogliono confrontarsi con la realtà di confine (e non solo).
L’EDITORIALE
di Lorenzo Alberini
I
n Italia il centenario della Grande Guerra è alle porte e a Gorizia non si parla
d’altro. Si indicono bandi pubblici per
realizzare commemorazioni, in università la
Prima Guerra Mondiale è l’argomento da approfondire in report e progetti di ogni tipo e
non è difficile immaginare quale sarà il tema
della prossima edizione del festival èStoria, in
programma a maggio. Una città in fermento e
una domanda comune: e se fossimo vissuti noi
cent’anni fa?
Ce lo siamo chiesto anche noi, giornalisti in
erba. Parlando del primo conflitto mondiale –
e dei conflitti in generale – sono pochi quelli
che riflettono sul ruolo di coloro che per primi
ce lo hanno raccontato: i giornalisti. È grazie
ai dispacci inviati per telegrafo dai primi cronisti che giungevano le informazioni dal campo di battaglia; è dalle colonne del Corriere
della Sera, del Resto del Carlino, della Stampa
e del Gazzettino che gli italiani si informavano sull’andamento della guerra. O meglio, si
disinformavano: sulla libertà di stampa degli anni della guerra pesava notevolmente la
censura governativa, quando non addirittura
una certa complicità tra politica e giornali. Gli
articoli erano imbevuti di fedeltà patriottica
e raramente gettavano luce sugli errori logistici, sulle disfatte in battaglia, sugli orrori
della trincea. La censura, in alcuni stati più
che in altri unita alla propaganda, mascherava
la guerra in un’avventura eroica da compiere
per il bene della Patria. Nel 1918 perfino i liberali Stati Uniti d’America, da poco entrati
in guerra, non persero tempo, con il Sediction
Act, a imbavagliare la stampa tendenzialmente contraria al conflitto. Non era certamente la
prima volta che la politica allungava le mani
verso il quarto potere e non sarebbe stata l’ultima. Ne sapeva qualcosa Robert Capa, uno
dei più noti fotoreporter di guerra (ma non
solo) del secolo scorso. In questo numero di
Sconfinare vi raccontiamo anche la sua storia
(Elena Tuan a pagina 5).
Censura, propaganda, controllo dell’informazione: sono ferite ancora aperte e sanguinanti, questioni di stretta attualità. Due esempi: le informazioni caotiche e incomplete che
ci arrivano dalla Siria, spesso filtrate dal regime o storpiate dai ribelli, e l’azione repressiva
del governo russo nei confronti della stampa
indipendente. In vista dei giochi olimpici invernali che si svolgeranno a Sochi, nel Causaso russo, l’organizzazione Reporters Sans
Frontières (RSF) riporta quotidianamente la
censura, le minacce e le violenze subite dai
giornalisti russi. Sono 28 i reporter che dal
2000 sono stati uccisi nel Paese a causa del
loro lavoro. Non per niente nella classifica di
RSF sulla libertà di stampa nel mondo, la Russia è al 148esimo posto su 179 Stati considerati. E l’Italia?
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C’È POCO DA RIDERE
Mentre negli Usa lo scandalo del “datagate” imbarazza Obama, in
Francia la popolarità di Hollande precipita e cresce il Front National
PRIVACY O SICUREZZA?
di Patricia Ventimiglia
L’
ironia della sorte ha voluto che, mentre Barack
Obama accusava la Cina di Xi Jinping di condurre attacchi di spionaggio informatico nei confronti
degli Stati Uniti, il giornale britannico The Guardian e l’americano Washington Post rendessero pubblica l’attività di
spionaggio condotta dalle stesse agenzie federali statunitensi,
nella fattispecie la National Security Agency, nei confronti dei
propri cittadini. La “talpa” dei due quotidiani, il ventinovenne
Edward Snowden (ex analista della NSA), ha giustificato la
propria azione con la necessità di rimettere «nelle mani dei
cittadini» il destino del suo Paese, altrimenti «rischiamo di
diventare una tirannia».
L’inizio delle intercettazioni risalirebbe al 2002, quando alla
Casa Bianca si era da poco insediato George W. Bush. Il Presidente fu l’uomo che tramite Condoleezza Rice e Dick Cheney,
rispettivamente segretario di Stato e vicepresidente, diede il
massimo impulso al programma di intercettazioni globali tramite la Nsa, che da agenzia di secondo piano è stata trasformata nella più potente intelligence del mondo, superando per
potere e finanziamenti (e di molto) la stessa Cia. Sì, perché
mentre per la storica agenzia di Langley esistono consolidati
sistemi di controllo da parte del Congresso per impedirne soprusi, la Nsa dipende direttamente e senza mediazioni dalla
Casa Bianca.
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IL SUCCESSO DEL FN
di Stefano Luppino
P
er la prima volta nella storia della Quinta Repubblica
francese, i sondaggi collocano in testa il Front National
rispetto al partito gaullista (Union pour un Mouvement
Populaire) e a quello socialista (Parti Socialiste), importante sintomo della fine della ghettizzazione dei lepenisti dalla scena politica francese. Con una politica nazionalista imperniata sul populismo e sulla sovranità statale, Marine Le Pen sfrutta le lacune
programmatiche di UMP e PS in tempo di crisi con un’esposizione decisa e chiara delle proprie idee che viene apprezzata anche
in settori di società tendenzialmente di sinistra.
La vittoria nelle elezioni cantonali di Brignoles (nella regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra) contro il candidato dell’UMP
- sostenuto anche dal PS - non fa che aumentare la tensione nei
partiti “tradizionali” che vedono il loro ruolo guida vacillare pericolosamente. Alcuni analisti sostengono che la normalizzazione intrapresa dalla leader del Front National si basi innanzitutto
sull’esclusione di temi quali l’antisemitismo e le vicende della
seconda guerra mondiale, ormai ininfluenti sull’elettorato. Nel
breve termine, i lepenisti sono impegnati a ottenere risultati di rilievo nelle elezioni comunali di marzo e in particolar modo nelle
europee di maggio, così da aumentare la propria rappresentanza
nel Parlamento Europeo in modo significativo partendo dai tre
eletti nel 2009.
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I rifiuti di Trieste - L’effetto Francesco - Intervista all’alumno - Il traffico delle opere d’arte
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Sconfinare - Internazionale
Inverno 2013/14
ecco l’ «effetto francesco»
di Filippo Malinverno
S
ono passati ormai nove mesi dall’elezione di Jorge Mario Bergoglio al
Soglio pontificio, ma la sua nomina
a Vescovo di Roma e vertice di tutta la cristianità resta ancora uno degli argomenti più
discussi dalla comunità internazionale. In quei
giorni di marzo, dopo la rinuncia di Ratzinger, tutti i giornali si scatenavano in sondaggi
e scommesse per cercare di indovinare chi sarebbe stato il suo successore. I “papabili” erano tanti, provenienti da ogni parte del mondo,
ma nessuno (o quasi) aveva inserito nella lista
colui che di lì a poco sarebbe diventato papa
Francesco, il primo della storia a portare questo nome.
Francesco: un nome che, almeno religiosamente parlando, trasuda povertà e carità. Un
nome semplice, inedito nella storia dei vescovi
dell’Urbe e decisamente universale. La scelta
fatta da Bergoglio ha un significato ben preciso, confermato dall’andamento del suo papato in questi mesi: l’ex arcivescovo di Buenos
Aires ha voluto in qualche modo sganciarsi
dalla linea dei suoi 265 predecessori, scartando tradizionali e venerandi nomi come Benedetto, Giovanni, Pio, Gregorio, Innocenzo e
avviando all’interno della Chiesa un processo
di riforma tale da renderla più umana e vicina
alle esigenze dei popoli.
Degli effetti sulla società italiana, e non
Il nuovo Papa e l’impatto benefico sui fedeli e sulla Chiesa
solo, ci sono stati eccome: prima di tutto, dopo
la sua elezione il nome Francesco è divenuto il
più popolare per i neonati italiani. Secondo, da
quando Bergoglio ha fatto il suo primo discorso pubblico da Papa, piazza San Pietro è ogni
domenica più gremita. Terzo, la sua nomina ha
fruttato alla città di Roma un boom di turisti
stranieri, per la maggior parte provenienti dal
Sud America. Quarta (e più rilevante) conseguenza, l’ascesa di papa Francesco sul trono di
Pietro ha invertito la tendenza religiosa delle
famiglie italiane degli ultimi anni, riuscendo
ad aumentare la partecipazione dei fedeli in
chiesa.
Sarà un caso? Potrebbe anche darsi, ma i
dati parlano chiaro: secondo un’indagine condotta dal sociologo Massimo Introvigne, più
del 50% dei sacerdoti intervistati (250) ha dichiarato di aver registrato un ingente aumento
dell’afflusso di credenti alle liturgie domenicali e settimanali. Si tratterebbe, secondo il
sociologo italiano, di migliaia di persone che
avrebbero ripreso ad andare in chiesa: un dato
importante per la comunità ecclesiastica, che
da tempo assisteva a un inarrestabile calo delle
presenze a messa. Tralasciando l’aumento delle vendite nei negozi di souvenir a Roma, dato
non di vitale importanza, l’“effetto Francesco”
continua a stupire credenti, atei e agnostici.
La volontà di Bergoglio di comunicare con
la folla da vicino, la sua grande capacità di
coinvolgere anche coloro che non credono e
il calore con il quale si rivolge a poveri, invalidi e vittime di difficoltà di ogni sorta hanno
contribuito a fare di lui un’icona della bontà
non tanto della Chiesa in sé come istituzione
(sulla quale la storia lascia ancora molti dubbi
a riguardo), ma quanto della fede cristiana a
livello mondiale. Papa Francesco cerca il contatto con il suo popolo e arde dal desiderio di
diffondere il messaggio di carità, fratellanza
e amore che è insito nel cristianesimo, ma il
cui vero significato è stato spesso offuscato
dall’operato di ecclesiastici poco pii.
Realisticamente parlando, è improbabile
che cambi ogni dottrina di base della Chiesa.
Tuttavia, come dimostrano un sondaggio sulla
convivenza prematrimoniale e sui matrimoni gay lanciato recentemente dal Vaticano e
l’attivismo dell’account ufficiale su Twitter, il
Papa cerca di coinvolgere tutti, fedeli e non,
nell’opera di miglioramento di un’istituzione
millenaria che pare proprio necessitare di un
restyling per il XXI secolo.
L’EDITORIALE
La crisi della république
di Lorenzo Alberini
di Stefano Luppino
(SEGUE DALLA PRIMA PAGINA)
I
l nostro Paese si prende
la 57esima posizione, ma
c’è poco di cui vantarsi. Quest’anno siamo riusciti a
fare peggio in un’altra speciale
graduatoria: quella del World
Economic Forum in merito alle
differenze di genere. Parlando di
diritti delle donne, infatti, l’Italia è 101esima su 136 Stati analizzati. Sfogliando Sconfinare
n.38 scoprirete anche chi si trova
in cima – e chi in fondo – alla
graduatoria (Elisa Dalle Sasse
a pagina 6). Ci addentreremo
poi nella politica francese e in
quella americana, viaggeremo in
treno fra le capitali dell’Europa
Orientale e torneremo infine a
Gorizia per un’intervista davvero particolare. C’è dell’altro, naturalmente, ma voglio lasciarvi
ancora un po’ di curiosità. Che
poi è quello che porta un buon
giornalista nei luoghi più assurdi
e pericolosi spingendolo a non
rinunciare alle sue domande.
Nonostante la censura, nonostante tutto.
(SEGUE DALLA PRIMA PAGINA)
L
’UMP, guidato da Jean-François
Copé, è in grave difficoltà per la
mancanza di una linea condivisa e
una leadership forte dopo il ritiro di Nicolas
Sarkozy, tanto che il suo consenso è in rapida erosione a favore del FN. Lo sconfitto
delle presidenziali 2012, nel frattempo, ha
intrapreso una brillante carriera da analista
e conferenziere con un successo che l’attuale Presidente della Repubblica, François
Hollande, non può di certo vantare. I sondaggi d’opinione testimoniano come solo
un francese su quattro approvi l’operato del
capo di Stato, ritenuto dai cittadini incapace
di realizzare i progetti vantati in campagna
elettorale e mantenere un livello adeguato
alla nomea della Francia in politica estera,
così come testimoniano i casi del datagate e
dell’intervento militare in Siria.
Gli scandali interni al governo Ayrault
sono numerosi e la difficile coabitazione tra
due personalità forti come la guardasigilli
Christine Taubira e il ministro degli interni
Valls ne è l’esempio più evidente. L’espulsione di una quindicenne kosovara di etnia
rom, Léonarda Dibrani, mentre era in gita
scolastica, perché residente nel Paese con
la famiglia in maniera irregolare ha esposto
Manuel Valls a forti critiche, tra cui l’accusa di agire à la Sarkozy, con una fermezza
inaspettata da parte di un ministro di un governo Socialista.
Le difficoltà di un sistema-paese non più
competitivo a livello mondiale e i propo-
Una presidenza debole, gli scandali, il Front
National: la politica francese nel 2014
siti di semplificazione si scontrano con gli
atteggiamenti del ministro allo sviluppo
economico Arnaud Montebourg, che non
intende prescindere dal sistema delle 35
ore e da una rigida protezione dei lavoratori e ha opposto ragioni di interesse nazionale all’acquisto della piattaforma video
Dailymotion da parte di Yahoo. Il modello
social-democratico e protezionista adottato
dal ministro mal si adatta a un Paese già
poco attraente agli occhi degli investitori
sotto molti aspetti.
Il Parti Socialiste si trova stretto tra l’assenza di una linea politica condivisa serena-
mente dai suoi membri e la lotta feroce per
la leadership del partito tra Martine Aubry
e Ségolène Royal, senza citare la presenza
ingombrante del sindaco di Parigi Bertrand
Delanoë. Tutto ciò danneggia il PS e lo
espone ad una emorragia di voti in favore
del Parti Communiste di Luc Mélenchon
e del Front National di Marine Le Pen. La
difficoltà delle proposte tradizionali è evidente ed è necessario un loro importante ripensamento perché queste possano cogliere
appieno le sfide della globalizzazione economica, dell’integrazione europea, tenendo
conto dei bisogni della popolazione.
Inverno 2013/14
Sconfinare - Internazionale/Glocale
DATAGATE: PRIVACY O SICUREZZA?
di Patricia Ventimiglia
(SEGUE DALLA PRIMA PAGINA)
T
uttavia, sul Datagate che ha
minato, almeno apparentemente, i rapporti tra gli Usa
e l’Europa bisogna fare almeno una
distinzione. La National Security Agency avrebbe avuto
il controllo di milioni e
forse miliardi di comunicazioni telefoniche
dei cittadini europei
e non, captando e
immagazzinando i
numeri chiamanti
e i numeri chiamati
(le meta-informazioni, ma non i contenuti delle conversazioni) per effettuare
se necessario indagini più
specifiche: se un soggetto, per
esempio, chiama frequentemente un
numero di telefono dello Yemen o del
Pakistan riconducibile a un presunto
terrorista arabo, la Nsa può saperlo e
può passare l’informazione agli inquirenti che a quel punto possono mettete
il telefono sotto controllo per effettuare intercettazioni complete. È chiaro
che questa raccolta di informazioni
telefoniche “preventive” può infran-
3
L’imbarazzo USA e lo scandalo dello spionaggio internazionale
gere le norme della privacy dei diversi
Paesi, ma può anche essere giustificata in nome della lotta al terrorismo. E
qui sarebbe utile sapere dalle autorità
americane (e non solo), pur nel rispetto della riservatezza, quanti attentati
siano stati sventati utilizzando
questo tipo di indagini. Forse l’opinione pubblica
sarebbe più disposta
ad accettare un sacrificio della privacy,
se fosse acclarato
che queste indagini
servono davvero a
sventare attentati e
salvare vite umane.
Diverso è il caso
dei controlli (dati telefonici e/o vere e proprie
intercettazioni) effettuati
su 35 leader mondiali, tra cui i
più fedeli alleati, a partire dalla Merkel. Qui è davvero difficile sostenere
che queste attività d’intelligence abbiano a che fare con la lotta al terrorismo. Anche se non bisogna essere
ipocriti ed è ovvio che nel mondo tutti
cerchino di sapere tutto per questioni
di potere e controllo, qui l’imbarazzo
di Obama è evidente.
Lo scandalo sta però spingendo il pre-
sidente ad accelerare i tempi di una riforma della National Security Agency
e delle procedure d’intelligence. Entro
il 15 dicembre, il capo dell’antiterrorismo Richard Clarke presenterà a Obama una bozza di correzioni operative e
revisioni legislative che si propongono di garantire ai cittadini americani,
come ai leader alleati, che l’Nsa non li
spierà più o, almeno, opererà sotto una
più stretta sorveglianza del governo. Il
vero nodo
che oggi è
chiamato
a sciogliere è portare
avanti la riforma voluta da Obama
sia del Patriot Act che
dell’intera
governance
dei Servizi
di
intelligence americani, senza
che questa
appaia come
un’ammissione di responsabilità
diretta del Presidente nelle intercettazioni illegali, né, sul fronte interno, un
atto di debolezza, in cui la Casa Bianca cede alle pressioni politiche internazionali.
Nonostante tutto, la posizione del
governo statunitense si fonda su un’idea di sicurezza in cui interviene la
scelta tra la rinuncia alla privacy e la
garanzia di una presunta tranquillità.
TRIESTE NON CREDE NEL RICICLO
Come funziona la raccolta differenziata? Finisce tutto nell’inceneritore? Abbiamo indagato...
di Flavia Rolli
A
Trieste i cittadini sembrano vivere con gli occhi bendati. Secondo Legambiente i triestini
non capiscono che il futuro è riusare e
riciclare, tanto che nel capoluogo la differenziata rimane sotto il 20%. Come è
possibile?
È sufficiente un breve sondaggio per
scoprire che c’è un generale senso di sfiducia nel sistema del riciclaggio sul nostro territorio. «Tanto tutti i rifiuti finiscono nell’inceneritore» e «fanno dividere le
immondizie solo per abituare le persone,
perché a Trieste un sistema di riciclaggio
efficiente ancora non c’è».
Grazie a una telefonata all’Acegas, il
privato che si occupa dello smaltimento
a Trieste, sono emersi i dati di bilancio
del 2012 dai quali risulta che le tonnellate
di rifiuti raccolti in totale sono 101.204,
di cui solo il 28,2% proviene dalla differenziata. È una percentuale irrisoria se si
considera che a Bologna, per esempio, la
differenziata arriva quasi al doppio.
Attuare delle campagne informative che
illustrino come svolgere correttamente la
raccolta differenziata non basta. L’unico
modo per spingere la popolazione a impegnarsi nell’iniziativa è la raccolta porta
a porta che, però, non è realizzabile. Non
tanto per i costi notevoli che comporta,
come rivela un tecnico, ma per la confor-
mazione del territorio che presenta spesso
vie molto strette o salite estremamente
erte dove i camion non riuscirebbero a
passare.
A molti cittadini, però, rimane un dubbio: i rifiuti della differenziata finiscono
comunque nel termovalorizzatore?
Chiaramente no. Innanzitutto ci sono
vincoli di legge che obbligano i privati a
raggiungere certe quote di differenziata e
sono previsti dei premi in denaro per gli
standard di qualità dei materiali accumulati.
A Trieste non viene fatto materialmente
il riciclaggio, ossia non viene svolta attività di recupero, perchè Acegas ha deciso
di appoggiarsi ad alcuni consorzi naziona-
li (CONAI, COMIECO, COREPLA, COBAT, ecc.) che gestiscono il riciclaggio.
Gli esercenti che si servono di lattine, scatole e altri imballaggi pagano ai consorzi
una cauzione per ogni contenitore; con
questo denaro viene pagata una parte del
servizio di riciclaggio svolto da Acegas.
In pratica, come viene finanziato il servizio di riciclaggio?
Un camion più il personale costano circa 100 euro all’ora. Si possono trasportare 6 o 8 tonnellate di carta per ogni camion, ricompensate da COMIECO con
92 euro per tonnellata, perciò il servizio
di riciclaggio della carta viene ampiamente retribuito. Diverso, però, è per plastica
e vetro. Infatti, la plastica occupa molto
spazio e, anche se
viene
retribuita
molto, non si riesce a portare più di
una tonnellata su
un camion, mentre
il vetro è un materiale con un valore
molto basso e la
retribuzione copre
a malapena i costi.
In seguito al collezionamento dei
materiali differenziati viene fatta già
una prima selezione e una pre-pulitura in provincia di
Trieste. Successivamente, in base al tipo
di materiale e al colore i rifiuti differenziati vengono inviati a delle società che
si occupano di pressaggio, fase dopo la
quale i materiali vengono mandati fuori
provincia.
Poniamo ora, ipoteticamente, che Acegas ogni tanto arrotondi un po’ prendendo qualche bottiglietta di plastica, fogli
di carta di giornale, vetro, lattine di coca
cola e butti tutto questo materiale nel
termovalorizzatore. Bruciando i rifiuti è
possibile ottenere energia elettrica (non
vapore utilizzabile per il riscaldamento,
come credono alcuni), ma da un punto
di vista della convenienza non ha senso
incenerire rifiuti che possono essere destinati al riciclaggio. Innanzitutto perché
i rifiuti riciclabili vengono ricompensati
dai consorzi; secondariamente perché dal
momento in cui tutto ciò che contengono
i cassonetti dell’indifferenziata finisce
nell’inceneritore i residui metallici, plastici e vetrosi vanno ad aumentare le ceneri pesanti, cioè materiale incombusto.
Questo deve essere nuovamente smaltito
consegnandolo a enti che, con alti costi,
si occupano di recuperare questi materiali.
Veniamo da un’epoca di grandi sprechi,
pertanto si può capire che i rifiuti siano
difficili da concepire come una risorsa.
A Trieste c’è ancora tanto lavoro da fare
per diffondere una nuova consapevolezza
nell’impatto ambientale che ognuno di
noi ha sul mondo.
4
a cura di Eleonora Cecco
O
Sconfinare - Università
Inverno 2013/14
«MAI TROPPO LONTANI DA
UN ALTRO GORIZIANO»
riginario di Trieste, Matteo ha
deciso di iscriversi a Scienze
Internazionali e Diplomatiche sull’onda dei grandi eventi internazionali dei primi anni ’90, compresa
la guerra nell’ex Yugoslavia quasi alle
porte di casa.
L’esperienza di Gorizia è stata per
Matteo ampiamente positiva. In particolare, tutti i corsi di diritto e di storia
gli sono poi stati utili nella professione.
Tuttavia, in quegli anni non sono mancate le difficoltà organizzative per il
corso di laurea.
Dopo la laurea a indirizzo diplomatico, Matteo ha lavorato per tre anni con
UNDP in Romania, per poi rientrare in
Italia dove è rimasto per otto anni nel
settore privato, in aziende di information technology. Nel 2008 ha deciso di
tornare all’estero, nelle missioni civili
lanciate nell’ambito della politica estera
e di sicurezza comune dell’Unione Europea, in Guinea-Bissau, Iraq e ora in
Sud Sudan. A fine anno prenderà in carico un’unità dell’agenzia che gestisce
l’infrastruttura informatica di alcuni sistemi chiave per la gestione degli affari
interni europei, che ha sede a Tallinn e
a Strasburgo.
nestra era di 30 centimetri di lato.
Come sono strutturate le tue giornate?
Il mio lavoro attuale consiste soprattutto nella supervisione e coordinamento
di unità funzionali specializzate, quindi
più project management che lavoro diretto e concreto sui dossier, a meno che
non si tratti di questioni particolarmente delicate o complesse. Molto tempo
ed energia vanno nel coordinamento
all’interno del senior management della
Missione, che di solito richiede grande
pazienza e capacità negoziali.
Aggiungendo la grande mole di rapporti per Bruxelles che devo scrivere
o revisionare, si fa presto ad arrivare a
sera. Di solito finisco verso le sette, ma
quando posso verso le sei vado a fare un
po’ di jogging al compound delle Nazioni Unite a Juba – con 35 gradi e 90% di
umidità anche mezz’ora basta e avanza.
Matteo, quali sono gli aspetti che
ami di piu del tuo lavoro?
Una cosa bella del mio lavoro è che
ci si annoia raramente. Mi è capitato di
fare una presentazione in una serissima
riunione dei 27 stati membri un pomeriggio a Bruxelles, volare tutta la notte, e la mattina dopo trovarmi sul molo
fatiscente di un porto dell’Africa occidentale scambiando opinioni con esausti funzionari doganali a proposito di un
container che ciondolava da una gru –
una scena alla Graham Greene.
Un’altra delle cose positive del mio
lavoro è che negli ultimi sei anni ho
vissuto a non più di due minuti a piedi
dall’ufficio: difficile – ma a quanto pare
non impossibile – fare tardi! A Baghdad vivevo e lavoravo all’interno del
compound dell’ambasciata britannica al
centro della Green Zone, disponendo di
un alloggio non brutto ma costruito per
ovvi motivi come un bunker: l’unica fi-
La sere in cui esco, la comunità expat
è sempre attiva, anche in zone di crisi.
Juba non fa eccezione, con molti amici
che lavorano per altre OO II o INGOs;
non mancano i ‘goriziani’: Irene Panozzo, una delle principali esperte italiane
di Sudan, ed Elena Rovaris che non ho
ancora incontrato.
La tua è una professione o una vocazione?
Conosco e rispetto molte persone che
credono intensamente nella missione
della propria organizzazione, spesso assottigliando la distanza psicologica tra
vita e professione – cosa peraltro inevitabile quando si vive e lavora in contesti
di crisi. Personalmente, sono piuttosto
orientato ad adottare un sano distacco
tra le due sfere: mi aiuta a mantenere
l’equilibrio.
Cosa significa per te avere coraggio?
Se parliamo di coraggio fisico, in con-
Matteo Bonfanti, laureato nel 1997, è oggi capo della Mission
Support Unit della EU Aviation Security Mission in Sud Sudan
testi di pericolo immediato, l’unica cosa
che ho imparato è che le reazioni individuali sono imprevedibili. Ci sono alpha
males che si paralizzano, e persone a
cui non daresti due lire che si scoprono
leader.
Forse però il coraggio che rispetto di
più è quello morale, ovvero la determinazione di fare la cosa eticamente giusta
invece di quella più comoda.
Quanto è importante avere un mentore?
Ho letto di recente alcune riflessioni sul ‘soluzionismo tecnologico’ di E.
Morozov, il quale critica la nascente
ideologia secondo la quale fenomeni
sociali complessi possono essere ridotti a problemi nettamente definibili con
soluzioni computabili, o definiti come
processi trasparenti, facilmente suddivisibili in transazioni ottimizzabili tramite algoritmi. Il corollario è che tutta
l’attenzione si sposta sulla definizione
dell’algoritmo, mentre il problema da
risolvere diventa quasi accessorio.
Ecco, credo che avere un mentore
sia importante – se non indispensabile
– nella propria evoluzione professionale, proprio per analizzare e capire i fenomeni complessi, più che a trovare le
soluzioni. Ma è anche vero che il progressivo accorciamento dell’orizzonte
temporale dei processi organizzativi e
di business fa sì che sia sempre più raro
incontrare un mentore che abbia tempo,
voglia, ed energia per prenderti sotto la
propria ala per un periodo di tempo sufficiente a sortire degli effetti.
Se ci fosse una cosa che potessi cambiare del tuo lavoro, quale sarebbe?
Probabilmente la possibilità di pianificare più a lungo periodo, intendo dire
oltre l’anno. Faccio un esempio concreto: ho spesso il dilemma, di fronte a colleghi la cui performance non è al livello
richiesto, se impegnarmi in un lungo
lavoro di sviluppo, oppure se cercare di
farla avvicendare al più presto per di-
sporre di maggiore efficienza; spesso la
necessità di garantire risultati nel breve
periodo costringe a ricorrere al turnover,
che però presenta diversi svantaggi.
Parlaci di una volta che avresti voluto
mollare tutto, ma non l’hai fatto.
Non sono conosciuto per essere particolarmente accomodante, quindi mi capita almeno una paio di volte all’anno di
dire ‘mollo tutto’… Però alla fine bisogna dominare il proprio orgoglio, spero
che con gli anni diventerò più bravo!
Di quale risultato sei maggiormente
orgoglioso?
Tutte le volte che un collega – specialmente qualcuno all’inizio della carriera
– mi dice di aver imparato qualcosa da
me.
Se potessi viaggiare nel tempo e nello spazio, con chi vorresti trascorrere
un’ora ?
Questa è una domanda alla quale potrei pensare per ore! Rispondendo d’impulso, direi che mi piacerebbe sedermi
con Alessandro Magno subito dopo la
sua visita all’oracolo dell’Oasi di Siwa:
con quale visione del mondo ne uscì?
Pensava veramente di essere diventato
un dio?
Quale consiglio daresti agli studenti
del SID?
Per quelli destinati alle carriere internazionali, di non avere complessi nei
confronti dei colleghi che provengano
da più blasonate università, a partire da
quelle anglo-sassoni. Tuttavia, la formazione italiana ancora trascura alcune capacità ormai indispensabili, quali
project management e analisi quantitativa.
Soprattutto, a chi se la sente consiglio
di andare per il mondo: ne vale la pena e
molto probabilmente non si è mai troppo lontani da un altro ‘goriziano’.
Sconfinare non identifica alcuna posizione politica, in quanto libera espressione dei singoli membri
che ne costiuiscono il Comitato di Redazione.
Sconfinare è un periodico regolarmente registrato
presso il Tribunale di Gorizia in data 20 maggio
2006, n° di registrazione 4/06.
Editore e Propietario: Assid «Associazione studenti di scienze internazionali e diplomatiche».
Direttore: Giovanni Collot
Impaginazione e grafica: Lorenzo Alberini, Giovanni Collot, Nicolas Lozito, Amalia Sacchi, Stefano Luppino, Veronica Sauchelli, Stefania Ellero,
Carol Pigat, Andrea Giordani, Giulia Daga.
Stampato da: Tipografia Budin, via Gregorcic 23,
Gorizia (GO).
Redazione: Lorenzo Alberini, Alessia Anniballo,
Elisabetta Blarasin, Martina Calleri, Valeria Carlot, Francesco Caslini, Elisa Dalle Sasse, Dario
Cavalieri, Eleonora Cecco, Chiara Ceccon, Margherita Cogoi, Giovanni Collot, Giacomo Cuscunà,
Giulia Daga, Stefania Ellero, Stefano Facchinetti,
Andrea Ferrara, Andrea Giordani, Lorenzo Gobbo, Davide Lessi, Nicolas Lozito, Stefano Luppino,
Irene Manganini, Francesco Marchesano, Filippo
Malinverno, Luca Marinaro, Carol Pigat, Federico
Petroni, Francesco Plazzotta, Emiliano Quercioli,
Rossella Recupero, Flavia Rolli, Amalia Sacchi,
Veronica Sauchelli, Stefano Suardi, Nicolò Spadari,
Francesco Tirelli, Rodolfo Toè, Valentina Tonutti,
Elena Tuan, Patricia Ventimiglia.
Autori e fonti di immagini e foto sotto licenza Creative Commons presenti su Sconfinare n.38: p.2
Papa Francesco di Semilla Luz (Flickr), Hollande di Jean-Marc Ayrault (Flickr), p.3 Nsa logo di
DonkeyHotey (Flickr), p.8 Johann Jaritz (Wikimedia Commons).
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5
Sconfinare - Arte
Inverno 2013/14
LA CULTURA PER FARE SOLDI
I milioni che stanno dietro al traffico delle opere d’arte
di Elisabetta Blarasin
ontinuano i tagli. In tanti paesi i governi sono più attivi di una sarta e
con le loro forbici feriscono più di
un settore. Quello più colpito? La cultura,
sia nel Bel Paese sia all’estero. Forse perché
non fa abbastanza profitto? Eppure il commercio illecito di opere d’arte frutta circa 6
miliardi di dollari l’anno.
Tra i paesi più colpiti dal saccheggio della
propria eredità artistica c’è l’Italia,il nostro
museo a cielo aperto. Ma non siamo gli unici. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sono
anche loro tra le vittime principali. Scavando un po’ più a fondo però si scopre che
molti tra i Paesi colpiti sono solo gli ultimi
anelli della catena del traffico d’arte. mercato che si dirama in una rete di collegamenti
che segue i principali traffici internazionali
di droga, armi e denaro.
Per capire meglio come si sviluppa la catena
di montaggio bisogna iniziare dal basso. I
tombaroli stanno alla base, fornendo il materiale che poi verrà venduto ed acquistato
per cifre astronomiche. A scendere negli
scavi archeologici mentre sono incustoditi
o a intrufolarsi nelle chiese e rapinarle non
sono i grandi esperti d’arte ma persone comuni che spesso non sono sanno neanche di
fare una stima approssimativa di quello che
si portano via. Poi il tombarolo contatta un
esperto o un antiquario e gli affida il tesoro
trovato in cambio di una cifra che spesso è
mero degli attori coinvolti cresce in maniera
esponenziale. Il problema è sociale, lo deve
essere anche la risposta. La sensibilizzazione della popolazione è già iniziata in alcuni
paesi. Con essa si mira a rendere tutti consapevoli che la perdita del patrimonio artistico è anche la perdita della propria realtà
storica. L’arte è di tutti, è la memoria di un
paese e del suo percorso. Bisogna quindi
battersi per poter continuare ad emozionarsi
davanti alla sua bellezza, prima di trovarsi a
girare in musei vuoti, mentre caveau segreti
nascondono tesori nazionali.
C
ridicola in confronto al vero valore dell’opera. A partire da quel momento infatti inizia la corsa al rialzo del prezzo dell’opera.
Spesso l’esperto contattato è una persona
priva di scrupoli e che nell’arte non vede
l’eredità storica di un Paese ma un facile
profitto. Le opere d’arte vengono vendute a
grossi collezionisti o a capi della criminalità
organizzata. Questi non scelgono sempre di
tenerle nel loro caveau, ma le rimettono nel
mercato. A quel punto si inseriscono altri
individui dello stesso genere che acquistano
per motivi diversi. Non ci sono solo i collezionisti ossessivi come il Virgil Oldman
di Tornatore, ma anche i capi mafiosi che
devono riciclare il denaro sporco. Questi
banditi di lusso comprano in aste chiuse,
organizzate appositamente per smerciare
i manufatti che sono stati rubati, oppure in
aste che sembrano in piena regola ma che
in realtà non dispongono di tutte le autorizzazioni o sono già state aggiudicate. Così il
processo si esaurisce e il viaggio dell’opera
d’arte termina tra mani perfide e criminali.
I reperti sono quindi sottratti ai legittimi
proprietari, i cittadini dello Stato da cui le
opere provengono. Ritrovarle e restituirle
è difficile e complicato. Nonostante ci sia
la convenzione UNESCO 1970 e l’UNIDROIT 1995 riguardo le opere d’arte rubate
ed esportate illegalmente, la collaborazione
tra gli Stati e le azioni dei governi sono sem-
pre troppo lente rispetto ai trafficanti. Anche
le pene per questo tipo di reati non sono sanzionate ovunque allo stesso modo. Sorprende in maniera amara che proprio in Italia si
rischi di più per il furto di un maglione da
19€ che per quello del Cratere di Eufronio o
di qualche altro reperto.
Gli Stati da soli non forniscono abbastanza
risposte, rendendo necessaria la collaborazione con i musei. In molti paesi è stato
introdotto un codice etico che vincola direttori e curatori ad acquistare solamente pezzi
autentici ed autenticati. Tuttavia il codice
non è stato introdotto da tutti e inoltre scandali e processi hanno
dimostrato che molti
dei trafficanti d’arte
sono gli stessi curatori o grandi collezionisti.
Il mercato illegale
dell’arte è ormai arrivato ad essere la
terza fonte di guadagno dopo il traffico
di droga e denaro.
Cosa fare davanti
ad un problema così
grande e intricato?
Di certo non è possibile rimanere paralizzati mentre il nu-
CAPA E LA SUA «REALTÀ DI FRONTE»
di Elena Tuan
«Se le vostre foto
non sono
sufficientemente
buone, vuol dire
che non siete
andati
sufficientemente
vicino»
L
a realtà di fronte è la mostra dedicata
dal 20 ottobre al 19 gennaio, nei pressi di Villa Manin di Passariano di Codroipo, a uno dei padri del fotogiornalismo
moderno, Robert Capa (1913 – 1954). Organizzata dall'Azienda Speciale Villa Manin
con catalogo Silvana Editoriale, è curata da
Marco Minuz e non casualmente sembra
celebrare la ricorrenza del centenario della
nascita dell'artista. Grazie alla collaborazione dell'agenzia Magnum Photos di Parigi e
dell'International Center of Photography di
New York si trovano esposte ben 180 fotografie, a testimonianza di quanto vario sia
stato il background lavorativo di Capa, che
non è stato solo fotografo di guerra, ma anche fotografo di scena, cineasta, regista e
scrittore.
La sua carriera inizia un anno dopo l' espulsione dall'Ungheria per motivi politici.
Trasferitosi in Germania, egli lavora come
assistente alla camera oscura presso l'agenzia fotografica berlinese Dephot. Grazie
all'incarico affidatogli dal direttore Simon
Guttman, già nel 1932 realizza i preziosissimi e unici scatti della conferenza di Lev
Trotsky a Copenhagen. Questi non saranno
che il primo gradino di una lunga scalinata
di successi di fama internazionale.
Capa osserva il mondo e lo cattura attraverso la sua Leica ed egli, piuttosto che cercare,
trova. Scrive infatti, riguardo l'esperienza
trascorsa in Spagna durante la guerra civile,
che “bastava sistemare la macchina fotografica. Le foto erano lì e si doveva solo scattare. La verità era la migliore immagine”.
Proprio in Spagna nel 1936 realizza uno
scatto, Il miliziano colpito a morte, che
cambierà le pagine della storia del fotogiornalismo. Simboliche in questo senso sono le
seguenti sue parole: “se le vostre foto non
sono sufficientemente buone, vuol dire che
non siete andati abbastanza vicino”. Osservando quest'immagine si ha un po' l'impressione di stare di fronte a una Polaroid in via
di definizione: mentre cerchiamo i colori
prendere vita sulla carta bianca sentiamo
una forte tensione emozionale, un'inquietudine esistenziale che porta noi a chiederci “è
ancora vivo -o forse- è già morto?”. E forse, non casualmente, il negativo che sembra
aver colto il sottile filo che separa, o forse
unisce, vita e morte, è tuttora introvabile.
Introvabile come la risposta al nostro precedente quesito.
Capa, fedele alla propria e personale visione
circa la professione di fotografo di guerra,
va vicino e immortala molti degli avvenimenti importanti della prima metà del secolo scorso: c'è fino al '36 nella Francia dei
tumulti parigini, c'è nella Spagna della guerra civile fino al'39, c'è in Cina nel '38 quando il Giappone la invade, c'è nel '41 nella
Londra devastata dalle incursioni tedesche,
c'è nello sbarco in Normandia a portare alla
luce i Magnificent Eleven, c'è nell'estate del
'43 durante lo sbarco degli Alleati in Italia,
c'è nel '54 in Indocina quando per fotografare un gruppo di soldati francesi calpesta
una mina antiuomo rimanendo ucciso. Alle
spalle poco più di 40 anni e 70000 negativi.
Mi trovo in totale accordo con le parole di
John Steinbeck, suo amico e collaboratore,
quando afferma che “Capa sapeva, ad esempio, che non si può ritrarre la guerra, perchè
è soprattutto emozione. Ma lui è riuscito a
fotografare quell'emozione conoscendola
da vicino. Poteva mostrare l'orrore di un
intero popolo attraverso il viso di un bambino”. La mia impressione è che le foto di
Capa non siano solo una testimonianza di
guerra o una forma d'arte. Credo piuttosto
che tali foto coincidano spesso con la stessa
emozione che le anima, o che le stesse foto
siano l'emozione che, in quel preciso istante, è stata ritratta. In loro vivono -a seconda
degli scatti- paura, terrore, angoscia, tristezza, contentezza, ironia; in ogni caso contengono un profondo respiro -forse a volte sospiro- d'umanità. E se questa mostra non vi
ha ancora incuriosito nemmeno un po', non
preoccupatevi, vuol dire solo che forse non
siete (ancora) andati abbastanza vicino!
6
Sconfinare - Stile libero
DIRITTO ALL’OMOSESSUALITÀ
Inverno 2013/14
di Veronica Andrea Sauchelli
La società di oggi si sente moderna e aperta, ma forse non è poi così vero
E
mma scivolò nel letto e avvolse Claudia in un abbraccio felice
mentre il sole si tuffava a braccia
strette nella stanza, scaldando ancora l’odore dei muffin al ribes sfornati un attimo
prima.
BUM-BUM-BUM!
Un pugno percosse la porta della camera.
Sussultarono entrambe. Chi era e come
diavolo aveva fatto a entrare?! I loro
occhi si interrogarono a vicenda. Emma
fece per alzarsi ma chi era al di là dell’uscio non aveva pazienza. In uno spicchio
di secondo la maniglia si abbassò e la porta ruotò veloce.
Entrò un uomo… e una donna.
Poi un ragazzo, un vecchio, una moglie,
un cuoco, una zia, un quarantenne, un codardo, un’insegnante, un prete. Entrano in
dieci, in venti; poi in quaranta. In due rachitici minuti il loro letto si era trasformato in una noce di burro che si scioglie in
un magma di uomini. E loro due lì, seminude e immobili, paralizzate e spigolose
nella loro paura. Ma le lunghe figure non
gremivano solo la stanza, continuavano a
scorrere nel corridoio e fluivano in giardino, e allo stesso modo foderavano la
strada, alzandosi infine come una nebbia
vaga sulla linea dell’orizzonte. Le guardavano con piglio altero, puntando loro
contro i menti aguzzi e tenendo le brac-
di Elisa Dalle Sasse
cia saldamente ammainate al petto. D’un
tratto la folla cominciò ad agitarsi e sputò
una donna di mezz’età, «Vergognatevi,
schifose!», fece tirandosi dietro un carlino impacciato.
«Perché? E di cosa poi!», reagì Claudia
dopo un momento di sbigottimento. «Restiamo sereni», disse una voce maschile
mentre il suo proprietario si faceva largo
fra i presenti,«le ragazze qui peccano solo
di ignoranza, non sanno quello che fanno, è colpa dell’istruzione che non
hanno ricevuto».
«Quindi
come
potete
vedere»,
proseguì l’uomo
dopo aver fatto
emergere
dalla
folla un viso ben
noto, «nel momento dell’educazione sessuale
nelle scuole è
normale, corretto
e fisiologico dare un modello: gli organi
dell’uomo e della donna sono stati creati
per certe determinate funzioni, ragazze. E
non è altrettanto naturale il rapporto tra
due uomini o due donne».
«Le rispondo con una battuta di Woody
Allen: l’omosessualità è contro natura,
ma lo è anche camminare sull’acqua, morire e risorgere, moltiplicare il cibo e rimanere incinta da vergine», disse Emma
provocando un brusio contrariato. «Ad
ogni modo in realtà Freud e la psicoanalisi
classica ritengono che le pulsioni omosessuali siano un fenomeno normale, poiché
gli esseri umani sono intimamente bisessuali e che per ognuno di noi, attraverso
tutta la vita, la libido normalmente oscilla
tra l’oggetto maschile e quello femminile». Il brusio di
prima si fece risentire, ma questa
volta più forte. «E
mi domando come
si faccia e definire contro natura
qualcosa che la
natura stessa genera da sempre.
Basti pensare che
la prima coppia
gay documentata
risale
all’Egitto
del 2400 a.C., si tratta di due uomini sepolti nella necropoli di Saqqara, dove la
popolazione –forse meno “antica” della
nostra- non si è fatta remore a tumularli
assieme dipingendoli in modo intimo sotto un epitaffio d’amore. Nel 2013 invece
c’è chi si suicida per protestare contro i
matrimoni gay, come ha fatto a maggio
Dominique Venner, in nome della Chiesa.
E mentre le persone buttano la loro vita
per pensare a come rovinare quella degli
altri, nel mondo sono 8 i Paesi che puniscono l’omosessualità con la pena capitale, altrettanti infliggono l’ergastolo, e altri
60 lo considerano un reato da punire con
pene severe. Tutti dovrebbero aver diritto
scegliere la propria vita, non credete? A
che titolo milioni di persone entrano nelle
case di individui che nemmeno mai incontreranno, per dir loro cosa è sbagliato
fare nel limitato ed intimo spazio di un’esistenza?»
«Adesso non parlare come se l’Italia fosse la regina dei paesi intransigenti», disse
una voce giovanile dal fondo della stanza,
«a me sembra che il clima sia piuttosto
tollerante».
«Non so quanto possa considerarsi tollerante un Paese in cui uno degli insulti
preferiti è la parola “frocio”. I ragazzi, magari anche scherzando, se lo dicono di continuo, e benché sembri una
sciocchezza secondo me invece riflette
il sentimento reale che c’è nei confronti
dell’omosessualità. Con l’utilizzo di questo apparentemente innocuo sostantivo,
purtroppo l’Italia insegna una sola cosa ai
gay, insegna loro a… vergognarsi».
Ad un tratto la sveglia di Emma suonò.
I PAESI PER LE DONNE
Il gender gap 2013 fornisce nuovi dati e annuncia miglioramenti e conferme
E
sistono davvero dei Paesi in cui
nascere donna può essere più o
meno conveniente? Il Global Gender Gap Report ci conferma che è proprio
così. Dal 2006 il World Economic Forum
pubblica ogni anno questo rapporto mondiale sulla disparità di genere: attraverso
degli indici numerici, quindi oggettivi,
misura il divario tra uomo e donna in relazione alla distribuzione delle possibilità
e dei ruoli raggiunti all’interno della società. In parole semplici, ci permette di
sapere quali sono gli Stati che dividono
equamente le loro risorse tra i due sessi
e quali no.
Il Global Gender Gap Report 2013 riporta i profili di 136 Stati, cioè
analizza più del 90% della popolazione mondiale. L’Islanda
si è riconfermata per il quinto
anno consecutivo il miglior paese per le donne. Il Nord Europa in generale può essere considerato la zona modello, con
la Finlandia, la Norvegia e la
Svezia che seguono per pochi
punti lo stato islandese. Negli
ultimi posti, invece, troviamo
alcuni Paesi mediorientali noti
per i disordini politici e sociali,
per le limitazioni della libertà
o per l’arretratezza economica e istituzionale: ad esempio
l’Arabia Saudita, in cui le donne stanno protestando in vari
modi per ottenere maggiori di-
ritti (l’ultima protesta del 26 ottobre le ha
viste al volante delle automobili) si trova
al 127° posto, l’Egitto al 125°, la Siria al
133°, mentre il Pakistan e lo Yemen sono
i chiudifila (rispettivamente 135° e 136°).
Nato dalla collaborazione tra il World
Economic Forum e le università di Harvard e di California, Berkeley, Il Global
Gender Gap Report 2013 raccoglie numerosi dati statistici relativi a quattro
aree-chiave: partecipazione e opportunità
economica, educazione, salute e partecipazione politica. Questi sono i gender
gap subindex che vanno a formare il global gender gap index, il valore numerico
che misura la portata della disparità uo-
mo-donna e che permette di classificare
i Paesi esaminati. Gli indici hanno un
valore da 0 a 1, dove 1 corrisponde all’uguaglianza tra i due sessi, e sono dei dati
oggettivi che possono essere confrontati
e permettono di tracciare l’evoluzione
di ogni Stato. Tra i 110 Paesi esaminati
dal 2006 la maggior parte (l’86%) ha ridotto la differenza tra i generi: il divario
nel campo della salute è stato ridotto di
quasi il 96 %, nell’educazione del 93%,
del 60% nella partecipazione economica,
mentre il gap rimane ampio nel settore
politico, dove la diminuzione è stata solamente del 21 %.
E l’Italia come se la cava nella distribu-
zione delle proprie risorse tra donne e uomini? Quest’anno è al 71° posto (su 136!)
e le donne italiane non possono certo gioire e accontentarsi di tale risultato.
Ma è risaputo che per le italiane i ruoli “alti” in ambito economico e politico
sono di difficile accesso, anche se dal
2006 qualche progresso c’è stato. Un dato
preoccupante e che fa riflettere è il 101°
posto (soltanto trenta posizioni dopo l’Italia e una differenza di indice di pochi
centesimi, da 0,689 a 0,655) dell’India,
paese in cui l’aborto selettivo delle femmine è un fenomeno diffuso e dalle pesanti implicazioni demografiche e socioculturali.
Queste informazioni sono un assaggio dell’importanza del Global Gender Gap Report come
strumento per creare consapevolezza e oggettivare un fenomeno
che spesso viene considerato
qualcosa di personale, emotivo
e limitato. Le donne rappresentano la metà delle potenzialità
di un paese, quindi è inevitabile che il gender gap influenzi e
rispecchi la competitività e lo
sviluppo di una nazione. Molte
università, organizzazioni mediatiche, governi e individui
sono consapevoli di ciò e utilizzano questo strumento per analizzare e diffondere i modelli da
seguire e cercare di far diventare
il gap sempre più piccolo.
Inverno 2013/14
Sconfinare - Viaggi
7
A SPASSO PER L’EUROPA
Un InterRail alla scoperta di città, culture, paesaggi… e anche un po’ di se stessi!
di Rossella Recupero
10
città, 7 treni, 2 autobus, 5
ostelli, 5 campeggi, 1 tenda,
2 sacchi a pelo. Questi sono i
numeri del mio InterRail. Partenza il due
Agosto da Torino direzione Vienna, unica tappa certa e programmata per l’intero
mese.
L’InterRail è uno di quei viaggi in cui
si parte ancora prima di aver messo un
piede fuori di casa, un viaggio sognato,
immaginato nei minimi dettagli e che,
come tutte le cose della vita, si è rivelato decisamente diverso, ma ben superiore
anche alle migliori aspettative. Nonostante i mesi (per non dire gli anni) passati a
programmare l’intero percorso, il giorno
dell’arrivo a Vienna io e il mio compagno
di viaggio eravamo sprovvisti di qualsiasi
mappa con tracciato un qualsivoglia itinerario né avevamo la minima idea su dove
alloggiare.
È stato l’unico mese della mia vita in cui
ho davvero vissuto alla giornata. Così siamo andati letteralmente dove ci portava il
cuore: Praga, Berlino, Varsavia, Cracovia,
Katowice, Budapest, Zagabria, Pola, Rovigno… per poi far ritorno nell’”amata”
Gorizia giusto in tempo per gli esami.
Viaggiare, perdersi a guardare il lento
passare delle immagini fuori dal finestrino: cambiano i paesaggi, le scritte, le
lingue, il cibo, cambiano le persone. Ci
si abitua a dormire ovunque, nelle cuccette dei treni (svegliati ripetutamente
dai controllori che, con non-calanche, ti
chiedono per la quarta volta i documenti), in camerate con altre 23 persone, nelle
stazioni, sulla spalla del tuo compagno di
viaggio. Nonostante i nostri ritmi stacanovisti (sveglia alle sette e camminate infinite) ogni volta che raggiungevamo una
città non avevamo il tempo di godercela
appieno. Le abbiamo assaggiate; alcune
non vedo l’ora di avere tempo (e denaro)
per gustarle quanto meritano, per altre,
più piccoline, per ora mi sento soddisfatta del “morso” che sono riuscita a dare.
Ogni luogo ci ha permesso di conoscere
altri viaggiatori, dalle diciassettenni danesi forse molto più mature di noi, ai cinquantenni scozzesi, inguaribili nostalgici.
Ogni incontro portava con sé la storia di
un Paese che, se anche non abbiamo visto
con gli occhi, ci è sembrato di conoscere
ugualmente, almeno con l’immaginazione.
Col passare dei giorni abbiamo imparato che l’Europa è grande, ma poi non così
tanto e che le persone hanno culture differenti ma, che in fin dei conti sono più
simili a noi di quanto credessimo. Abbiamo trovato chi nonostante non capisse la
nostra lingua (e tanto meno l’inglese) si è
fatto ugualmente in quattro per aiutarci e
chi non era contento della propria situazione universitaria e invidiava la nostra:
una coppia di svedesi che non solo non
sapeva che in Italia lo Stato non fornisce
alcun sussidio economico per iscriverti
all’università, ma anzi bisogna “addirittura” pagarla. C’è stato chi ci ha derisi
vedendoci con due zaini più grossi di noi
e chi si è offerto di percorrere un pezzo
di strada insieme. Insomma, ogni giorno
una scoperta, che non solo ci regalava una
più ampia e viva percezione dell’Europa,
ma anche - e qui concedetemelo - sfortunatamente come appare il nostro Paese
agli occhi degli altri. È così quella tanto
decantata Unione Europea che ho sempre
visto solo sotto un profilo economico e
istituzionale mi è
finalmente
apparsa più
concreta.
Forse è proprio vedendola
che
ora la sento più mia.
Cittadina
non di un
solo Stato
ma di ventotto, con
una cultura
più ampia e
una valigia
più pesante.
Ricordo… ricor-
do l’ansia del ritorno, la discesa nell’unica
stazione conosciuta e familiare dove ancora sentivo il fischio dei treni rimbombarmi nelle orecchie, un rumore che dopo
31 giorni a spasso per l’Europa su e giù
dalle carrozze era diventato un’abitudine
che per quanto fastidiosa ora mi manca.
Ricordo lo stomaco vuoto, il portafoglio
leggero, lo sguardo nuovo. Ricordo di
aver dato ragione alla frase letta molti
anni prima su qualche post online, che
ho poi scoperto essere di John Steinbeck:
“Non sono le persone a fare i viaggi, sono
i viaggi a fare le persone”.
MAI STATI A LUCCA?
Lucca Comics: una scappata in quel marasma pullulante di costumi
esageratamente colorati, di armi di cartapesta e di ferrovieri frustrati
di Luca Marinaro
A
vevo già sentito palare del Lucca
Comics and Games, il festival
del fumetto che si svolge nella
città toscana, definito da alcuni in modo
poco rassicurante “il paradiso dei nerd”.
Mi sono sempre immaginato le strade invase da orde di persone bardate nel modo
più assurdo. Inoltre, la mia cultura sul
mondo di fumetti giapponesi e relativi cartoni animati era piuttosto ristretta agli anni
’90 e a qualche anime iper-sanguinolento
di cui è meglio non vantarsi. Chiaramente
ho dovuto rivedere la mia posizione. Accompagnando amici, mi sono tuffato in
quel marasma pullulante di costumi esageratamente colorati, di armi di cartapesta
e di ferrovieri frustrati.
L’arrivo a Lucca è relativamente tranquillo; l’unico sintomo della tempesta incombente è una ragazza che ha usato delle
ciglia finte per farsi dei baffi e che parla
per citazioni dei Gem Boy. Il vero delirio
inizia quando si mette piede nella piccola
stazione: ci si trova davanti a un’accozzaglia di parrucche viola, di mantelli impigliati, di persone che occupano i bagni
non esattamente profumati per trasformarsi in Cersei Lannister o Naruto, di anziane signore che non comprendono come
la gioventù possa abbigliarsi in tal modo
e di ragazze che si agghindano con abiti
vittoriani misti a bracci meccanici, scafandri e vecchi bulloni ramati. Si possono poi
ammirare esemplari di orchi intenti a litigare per il posto dal paninaro e altri ragazzi, armati fino ai denti, correre
spensierati per il prato
davanti alle mura di Lucca. Tuttavia la reale passerella si trova lungo le
mura. Una volta su quei
bastioni ci passavano i
cavalieri, ora ci sono sì i
cavalieri (muniti di spade
di plastica), ma tra loro
svettano anche distinti
guerrieri Predator e ninja
anacronistici. Il Viale
delle Mura Urbane si tramuta in un défilé
per Darth Vader sovrappeso, fatine con la
barba, cani vestiti da maestro Yoda, nonmorti che si ritoccano il sangue colante
dalle mascelle, Wolverine che abbraccia
bambine, Thor che cerca di nascondere di
essere una donna, infermiere zombie che
si massaggiano i piedi, elfe che hanno fatto il bagno nella tempera blu, sofisticatissimi demoni dell’Inferno, giovani contenti
di aver comprato una katana prodotta in
serie (per fortuna era a buon prezzo), l’intera parata de Il Trono di Spade (mi spiace
Harry Potter, sei passato di moda), commoventi padri vestiti come i loro figli, costumi multisessuali e un buon quantitativo
di spocchia generale.
Nel cuore del Viale si entra nella Citadel,
la cui principale attrazione è lo stand della
Umbrella Corporation, dal videogioco Resident Evil, in cui si illustra con rispettabile severità come affrontare gli zombie,
con tanto di volantino. Inoltre, la Citadel
è ricca di negozi di armature medievali, di
cuoio e metallo veri, mica patacche. Alcuni tra gli oggetti in vendita invece fanno
venire le carie: anelli a forma di tortina su
cui spiccano perline, orsetti e cuoricini. Il
tutto farcito di fiocchi e scritte amorevoli.
Dopo momenti di euforia scattano le
sette e mezzo e allora il clima cambia: comincia la corsa ai treni. La frenesia lascia
le vie antiche e si concentra nella povera
stazione ferroviaria che diventa luogo di
allucinogena inquietudine. Tutti, e ripeto
tutti, vengono deviati lungo un percorso
fatto apposta per il Lucca Comics. La polizia gestisce il flusso di avventori stanchi
e snervati con tanto di megafono. La magia dei manga svanisce quando si torna a
contatto con la realtà, e in questo caso la
realtà è il cestino della spazzatura, l’unico posto dove puoi sederti. Puoi essere
Edward Elric o la Signora in Giallo, ma il
tuo destino è quello di tutti: essere pressato come una sardina in quei vagoni spossati. Diciamocelo, forse predisporre dei treni
non è facile, ma trattandosi della 30esima
edizione del Lucca Comics, un minimo di
potenziamento dei trasporti, vista l’annuale affluenza, sarebbe doveroso.
C’è chi lo definisce “solo una fiera di infantili esibizionisti che fanno finta di essere altre persone”. C’è invece chi ci ha detto che la fiera è maturata parecchio. Molta
gente e un programma ricco: una carnevalata a tema e fuori stagione, un modo per
uscire dagli schemi ed entrare in un sogno.
Perché non si tratta altro che di questo:
staccare la spina, mettersi un po’ in mostra
e sfoggiare il frutto del proprio lavoro.
Lucca resta un luogo da visitare a priori,
magari dopo che l’onda/orda degli appassionati è passata...ma attenzione, potreste
diventare uno di loro!
Številka 38- ZIMA 2013/14
Glavni Urednik: Giovanni Collot
www.sconfinare.net
[email protected]
ALI BO UNIVERZITETNO MESTO
ALI PA SPLOH NE BO MESTA
Miha Kosovel
P
urednik Razpotja
remnogokrat se debata v zvezi z visokošolstvom v Novi
Gorici zaide v floskule. Naše
mesto naj bi bilo premajhno, preveč
kmečko ali preveč nepomembno za optimalen razvoj visokega šolstva. V naslednjih vrsticah bom na kratko orisal,
zakaj ne samo to, da zgornje sodbe ne
veljajo, temveč da, če si želimo, da bo
sploh še kaj z našim mestom, se mora
visokošolstvo v njem čimbolj razviti.
Vzpon in padec Nove Gorice
Nova Gorica je bila ustanovljena v
povojnem času, ker je vsej regiji, ki se
ji je takrat še reklo Goriška, umanjkal
center. Zakaj se je to mesto poimenovalo Nova Gorica in niso raje kar razširili
in urbanizirali Solkana ali Šempetra,
je pomembno iz simbolnega vidika, ki
ga je Gorica imela za Slovence. In ne
zgolj za Slovence iz zahodne etnične
meje, temveč vseh. Gorica je namreč,
poleg Trsta in Ljubljane in (mogoče
Novega mesta), imela močno prisotnost slovenskega visokega meščanstva,
mestnih uradnikov, trgovcev in obrtnikov. Slovenci v Trstu in Gorici nismo
bili narod hlapcev, temveč pomembnih
in ključnih akterjev mesta in regije.
Tam je bilo pomembno semenišče, ki
je ustvarilo toliko narodnobuditeljskih
duhovnikov, ki so v obdobju pred drugo
vojno igrali pomembno vlogo, ne zgolj
za ohranjanje in osnovno izobrazbo
podeželjskih Slovencev, temveč tudi
za razvoj slovenščine (najbolj znan je
pater Stanislav Škrabec) in literature.
(Da niti ne omenimo, da je v Gorici
del svojega bogatega življenja preživel
tudi Trubar). Vendar izobraženstvo ni
bilo omejeno na kler. Gorica je bila
močen intelektualni slovenski center. Ni slučajno, da je prvi učni načrt
državne gimnazije v slovenščini v zgodovini bil ravno v goriški staatsgymnasium (avstrijski državni gimanziji) in to
točno 100 let nazaj. Bil je obvezen za
vse Slovence in je žal trajal zgolj par
let, saj ga je vojna prekinila.
Ta zavest o pomembnosti Gorice in z
njo tudi Nove Gorice je bila prisotna od
samega nastanka slednje in čez celotno
nadaljnje jugoslovansko obdobje. Tako
se je še v obdobju pred uradno hladno
vojno, ko je potekala v teh krajih
neke vrste «hladna vojna», saj je bilo
obmejno območje obdano z bodečo
žico, mejo, ki je prvič v zgodovini
ločila enotno zgodovinsko pokrajino
goriške in tako ločila mnogo poznanstev in družin, ter so tenzije med slovensko (oz. jugoslovansko) in italijansko stranjo doseglo vrelišče, so se
odgovorni odločili vključiti v načrt
prvega mesta edino diagonalno ulico, Erjavčevo, ki je neposredno povezovala center Nove Gorice s centrom stare in s tem tudi na simbolni
ravni povezala obe mesti.
V obdobju socializma in predvsem
po osimskih sporazumih leta 1975
je Nova Gorica dobro izkoriščala
svoje mejno območje. Industrija in
različne obmejne dejavnosti so cvetele. Zaradi dostopnosti tujih medijev in lahkega prehoda čez mejo,
so novogoričani bili mnogo bolj v
stiku z zahodnimi trendi in okusi.
To dejstvo je tudi omogočilo popularnost Nove Gorice v osemdesetih
in začetku devetdesetih let. Ni težko
najti tistih med generacijo ‘50 in ‘70,
ki se še zelo živo spominjajo, kako so
iz Ljubljane hodili obiskovati Novo
Gorico in njeno okolico. Argonavti,
CRMK, Hum pa tudi bar Cocktail so
bili eni izmed prostorov, ki so v pomembni točki soustvarjali slovensko
glasbeno sceno.
S samostojnostjo Slovenije je
počasi počasi Nova Gorica izgublja-
la na pomembnosti, Goriška regija
pa praktično izgubila svojo zavest.
Lahki denar, ki je prihajal iz špedicije,
mejnih prehodov in seveda razcveta
igralništva je prebivalcem nudil visok
standard brez večjega truda, lokalne
politike pa zazibal v dremež, saj se jim
je zdelo, da ne potrebujejo razmišljati
o dolgoročnih načrtih in investicijah,
ki bi prinašale v skladu s potrebami
časa razvoj obrti in višje kvalificiranih delovnih mest. Poleg tega se je
še uradna Ljubljana v vseh dvajsetih letih trudila kot edino zveličavni
spodbujati zgolj koridor Maribor-Ljubljana-Koper, ki je območje goriške
potisnil v gospodarsko nepomembnost oziroma zgolj v molzno kravo
igralniškega denarja. Trenutno je
Nova Gorica ostala brez javne prometne povezave tako s Slovenijo kot
s sosednjo državo, brez katerekoli
pomembnosti v slovenskem okvirju
in brez delovnih mest. Nova Gorica,
čeprav se o tem ne govori skoraj nič,
je na vrhu lestvice v nezaposlenosti
mladih do 35. leta v Sloveniji!
Pomembnost visokega šolstva za
mesto
Ne moremo zanikati, da je trenutna
situacija na goriškem zelo slaba. Zato
je pa nujno, da premislimo realno vizijo, ki bi omogočila razvoj mesta in
z njim regije in ki bi posledično njen
doprinesel tudi nekaj razvoju Slovenije. Seveda prva in najpomembnejša
točka je razvoj visokega šolstva v me-
stu. Brez tega si danes sploh ne moremo predstavljati, da je nekaj mesto.
Pri visokem šolstvu pri nas ne bi
nujno pomenilo, da bi domačini tu
študirali, temveč, da bi pridobili pomembno demografsko skupino mladih odraslih, ki bi prišla v mesto in
ga sokreirala. Trenutno nimamo sploh
neke realne študentske scene, saj je
mnogo fakultet narejenih tako, da
študentom sploh ni potrebno živeti tu,
da bi študirali. Pa ne samo študentom,
tudi profesorjem. Pogoji bi morali
biti narejeni, da bi te dve skupini, ki
soustvarjata visoko šolstvo, živele in
imele impakt v svojem okolju. Ta skupina ljudi ustvarja pogoje, da je neko
okolje atraktivno. Z mladimi pridejo
seveda zabave. Ampak z druženjem
pride tudi do spoznavanja različnih
profilov ljudi, ki se kanalizira v kulturo, v politično participacijo in širjenje
kritične mase v mestu.
Čeprav lahko podvržemo kritiki
tako Univerzo v Novi Gorici kot tudi
druge samostojne visokošolske zavode, ki delujejo na tem področju, moramo vedeti, da je to še vedno boljše
od ničesar. Visoko šolstvo še vedno
predstavlja najvišje znanje v posebnih
strokah. Z dobrim gospodarjenjem
univerze in z večletnim razvojem, se
bo kvaliteta lahko višala, novi kader
(tudi iz drugih fakultet) bo pomembno prispeval k spremembi strukture
prebivalstva v mestu.
Seveda pa ima Nova Gorica še
eno prednost in to je ravno njena neposredna bližina meje in mesta Gorica. V tem vidiku se odpira velika
možnost ustanovitve skupne mednarodne univerze, ki bi lahko bila tudi
v angleškem jeziku, in bi privabila
študente druge in tretje stopnje. To bi
pomenilo močan korak k zbliževanju
dveh Goric, ki je v tem času nujno za
preživetje obeh in ki bi pripomogel na
prepoznavnosti, razvoju turizma, kulture in visokotehnološke industrije.
Brez visokega šolstva ne bo služb,
ne bo razvoja in seveda s tem ne bo
prebivalcev. Če nam to ni v prvi vrsti
namen lahko… zapremo luči, zaklenemo vrata in se poslovimo.
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