Qui - Sconfinare
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n°38 - INVERNO 2013/14 direttore: Giovanni Collot www.sconfinare.net [email protected] È un giornale creato dagli studenti di Scienze Internazionali e Diplomatiche di Gorizia che attraverso il giornalismo vogliono confrontarsi con la realtà di confine (e non solo). L’EDITORIALE di Lorenzo Alberini I n Italia il centenario della Grande Guerra è alle porte e a Gorizia non si parla d’altro. Si indicono bandi pubblici per realizzare commemorazioni, in università la Prima Guerra Mondiale è l’argomento da approfondire in report e progetti di ogni tipo e non è difficile immaginare quale sarà il tema della prossima edizione del festival èStoria, in programma a maggio. Una città in fermento e una domanda comune: e se fossimo vissuti noi cent’anni fa? Ce lo siamo chiesto anche noi, giornalisti in erba. Parlando del primo conflitto mondiale – e dei conflitti in generale – sono pochi quelli che riflettono sul ruolo di coloro che per primi ce lo hanno raccontato: i giornalisti. È grazie ai dispacci inviati per telegrafo dai primi cronisti che giungevano le informazioni dal campo di battaglia; è dalle colonne del Corriere della Sera, del Resto del Carlino, della Stampa e del Gazzettino che gli italiani si informavano sull’andamento della guerra. O meglio, si disinformavano: sulla libertà di stampa degli anni della guerra pesava notevolmente la censura governativa, quando non addirittura una certa complicità tra politica e giornali. Gli articoli erano imbevuti di fedeltà patriottica e raramente gettavano luce sugli errori logistici, sulle disfatte in battaglia, sugli orrori della trincea. La censura, in alcuni stati più che in altri unita alla propaganda, mascherava la guerra in un’avventura eroica da compiere per il bene della Patria. Nel 1918 perfino i liberali Stati Uniti d’America, da poco entrati in guerra, non persero tempo, con il Sediction Act, a imbavagliare la stampa tendenzialmente contraria al conflitto. Non era certamente la prima volta che la politica allungava le mani verso il quarto potere e non sarebbe stata l’ultima. Ne sapeva qualcosa Robert Capa, uno dei più noti fotoreporter di guerra (ma non solo) del secolo scorso. In questo numero di Sconfinare vi raccontiamo anche la sua storia (Elena Tuan a pagina 5). Censura, propaganda, controllo dell’informazione: sono ferite ancora aperte e sanguinanti, questioni di stretta attualità. Due esempi: le informazioni caotiche e incomplete che ci arrivano dalla Siria, spesso filtrate dal regime o storpiate dai ribelli, e l’azione repressiva del governo russo nei confronti della stampa indipendente. In vista dei giochi olimpici invernali che si svolgeranno a Sochi, nel Causaso russo, l’organizzazione Reporters Sans Frontières (RSF) riporta quotidianamente la censura, le minacce e le violenze subite dai giornalisti russi. Sono 28 i reporter che dal 2000 sono stati uccisi nel Paese a causa del loro lavoro. Non per niente nella classifica di RSF sulla libertà di stampa nel mondo, la Russia è al 148esimo posto su 179 Stati considerati. E l’Italia? CONTINUA A PAGINA 2 C’È POCO DA RIDERE Mentre negli Usa lo scandalo del “datagate” imbarazza Obama, in Francia la popolarità di Hollande precipita e cresce il Front National PRIVACY O SICUREZZA? di Patricia Ventimiglia L’ ironia della sorte ha voluto che, mentre Barack Obama accusava la Cina di Xi Jinping di condurre attacchi di spionaggio informatico nei confronti degli Stati Uniti, il giornale britannico The Guardian e l’americano Washington Post rendessero pubblica l’attività di spionaggio condotta dalle stesse agenzie federali statunitensi, nella fattispecie la National Security Agency, nei confronti dei propri cittadini. La “talpa” dei due quotidiani, il ventinovenne Edward Snowden (ex analista della NSA), ha giustificato la propria azione con la necessità di rimettere «nelle mani dei cittadini» il destino del suo Paese, altrimenti «rischiamo di diventare una tirannia». L’inizio delle intercettazioni risalirebbe al 2002, quando alla Casa Bianca si era da poco insediato George W. Bush. Il Presidente fu l’uomo che tramite Condoleezza Rice e Dick Cheney, rispettivamente segretario di Stato e vicepresidente, diede il massimo impulso al programma di intercettazioni globali tramite la Nsa, che da agenzia di secondo piano è stata trasformata nella più potente intelligence del mondo, superando per potere e finanziamenti (e di molto) la stessa Cia. Sì, perché mentre per la storica agenzia di Langley esistono consolidati sistemi di controllo da parte del Congresso per impedirne soprusi, la Nsa dipende direttamente e senza mediazioni dalla Casa Bianca. CONTINUA A PAGINA 3 IL SUCCESSO DEL FN di Stefano Luppino P er la prima volta nella storia della Quinta Repubblica francese, i sondaggi collocano in testa il Front National rispetto al partito gaullista (Union pour un Mouvement Populaire) e a quello socialista (Parti Socialiste), importante sintomo della fine della ghettizzazione dei lepenisti dalla scena politica francese. Con una politica nazionalista imperniata sul populismo e sulla sovranità statale, Marine Le Pen sfrutta le lacune programmatiche di UMP e PS in tempo di crisi con un’esposizione decisa e chiara delle proprie idee che viene apprezzata anche in settori di società tendenzialmente di sinistra. La vittoria nelle elezioni cantonali di Brignoles (nella regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra) contro il candidato dell’UMP - sostenuto anche dal PS - non fa che aumentare la tensione nei partiti “tradizionali” che vedono il loro ruolo guida vacillare pericolosamente. Alcuni analisti sostengono che la normalizzazione intrapresa dalla leader del Front National si basi innanzitutto sull’esclusione di temi quali l’antisemitismo e le vicende della seconda guerra mondiale, ormai ininfluenti sull’elettorato. Nel breve termine, i lepenisti sono impegnati a ottenere risultati di rilievo nelle elezioni comunali di marzo e in particolar modo nelle europee di maggio, così da aumentare la propria rappresentanza nel Parlamento Europeo in modo significativo partendo dai tre eletti nel 2009. CONTINUA A PAGINA 2 I rifiuti di Trieste - L’effetto Francesco - Intervista all’alumno - Il traffico delle opere d’arte 2 Sconfinare - Internazionale Inverno 2013/14 ecco l’ «effetto francesco» di Filippo Malinverno S ono passati ormai nove mesi dall’elezione di Jorge Mario Bergoglio al Soglio pontificio, ma la sua nomina a Vescovo di Roma e vertice di tutta la cristianità resta ancora uno degli argomenti più discussi dalla comunità internazionale. In quei giorni di marzo, dopo la rinuncia di Ratzinger, tutti i giornali si scatenavano in sondaggi e scommesse per cercare di indovinare chi sarebbe stato il suo successore. I “papabili” erano tanti, provenienti da ogni parte del mondo, ma nessuno (o quasi) aveva inserito nella lista colui che di lì a poco sarebbe diventato papa Francesco, il primo della storia a portare questo nome. Francesco: un nome che, almeno religiosamente parlando, trasuda povertà e carità. Un nome semplice, inedito nella storia dei vescovi dell’Urbe e decisamente universale. La scelta fatta da Bergoglio ha un significato ben preciso, confermato dall’andamento del suo papato in questi mesi: l’ex arcivescovo di Buenos Aires ha voluto in qualche modo sganciarsi dalla linea dei suoi 265 predecessori, scartando tradizionali e venerandi nomi come Benedetto, Giovanni, Pio, Gregorio, Innocenzo e avviando all’interno della Chiesa un processo di riforma tale da renderla più umana e vicina alle esigenze dei popoli. Degli effetti sulla società italiana, e non Il nuovo Papa e l’impatto benefico sui fedeli e sulla Chiesa solo, ci sono stati eccome: prima di tutto, dopo la sua elezione il nome Francesco è divenuto il più popolare per i neonati italiani. Secondo, da quando Bergoglio ha fatto il suo primo discorso pubblico da Papa, piazza San Pietro è ogni domenica più gremita. Terzo, la sua nomina ha fruttato alla città di Roma un boom di turisti stranieri, per la maggior parte provenienti dal Sud America. Quarta (e più rilevante) conseguenza, l’ascesa di papa Francesco sul trono di Pietro ha invertito la tendenza religiosa delle famiglie italiane degli ultimi anni, riuscendo ad aumentare la partecipazione dei fedeli in chiesa. Sarà un caso? Potrebbe anche darsi, ma i dati parlano chiaro: secondo un’indagine condotta dal sociologo Massimo Introvigne, più del 50% dei sacerdoti intervistati (250) ha dichiarato di aver registrato un ingente aumento dell’afflusso di credenti alle liturgie domenicali e settimanali. Si tratterebbe, secondo il sociologo italiano, di migliaia di persone che avrebbero ripreso ad andare in chiesa: un dato importante per la comunità ecclesiastica, che da tempo assisteva a un inarrestabile calo delle presenze a messa. Tralasciando l’aumento delle vendite nei negozi di souvenir a Roma, dato non di vitale importanza, l’“effetto Francesco” continua a stupire credenti, atei e agnostici. La volontà di Bergoglio di comunicare con la folla da vicino, la sua grande capacità di coinvolgere anche coloro che non credono e il calore con il quale si rivolge a poveri, invalidi e vittime di difficoltà di ogni sorta hanno contribuito a fare di lui un’icona della bontà non tanto della Chiesa in sé come istituzione (sulla quale la storia lascia ancora molti dubbi a riguardo), ma quanto della fede cristiana a livello mondiale. Papa Francesco cerca il contatto con il suo popolo e arde dal desiderio di diffondere il messaggio di carità, fratellanza e amore che è insito nel cristianesimo, ma il cui vero significato è stato spesso offuscato dall’operato di ecclesiastici poco pii. Realisticamente parlando, è improbabile che cambi ogni dottrina di base della Chiesa. Tuttavia, come dimostrano un sondaggio sulla convivenza prematrimoniale e sui matrimoni gay lanciato recentemente dal Vaticano e l’attivismo dell’account ufficiale su Twitter, il Papa cerca di coinvolgere tutti, fedeli e non, nell’opera di miglioramento di un’istituzione millenaria che pare proprio necessitare di un restyling per il XXI secolo. L’EDITORIALE La crisi della république di Lorenzo Alberini di Stefano Luppino (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) I l nostro Paese si prende la 57esima posizione, ma c’è poco di cui vantarsi. Quest’anno siamo riusciti a fare peggio in un’altra speciale graduatoria: quella del World Economic Forum in merito alle differenze di genere. Parlando di diritti delle donne, infatti, l’Italia è 101esima su 136 Stati analizzati. Sfogliando Sconfinare n.38 scoprirete anche chi si trova in cima – e chi in fondo – alla graduatoria (Elisa Dalle Sasse a pagina 6). Ci addentreremo poi nella politica francese e in quella americana, viaggeremo in treno fra le capitali dell’Europa Orientale e torneremo infine a Gorizia per un’intervista davvero particolare. C’è dell’altro, naturalmente, ma voglio lasciarvi ancora un po’ di curiosità. Che poi è quello che porta un buon giornalista nei luoghi più assurdi e pericolosi spingendolo a non rinunciare alle sue domande. Nonostante la censura, nonostante tutto. (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) L ’UMP, guidato da Jean-François Copé, è in grave difficoltà per la mancanza di una linea condivisa e una leadership forte dopo il ritiro di Nicolas Sarkozy, tanto che il suo consenso è in rapida erosione a favore del FN. Lo sconfitto delle presidenziali 2012, nel frattempo, ha intrapreso una brillante carriera da analista e conferenziere con un successo che l’attuale Presidente della Repubblica, François Hollande, non può di certo vantare. I sondaggi d’opinione testimoniano come solo un francese su quattro approvi l’operato del capo di Stato, ritenuto dai cittadini incapace di realizzare i progetti vantati in campagna elettorale e mantenere un livello adeguato alla nomea della Francia in politica estera, così come testimoniano i casi del datagate e dell’intervento militare in Siria. Gli scandali interni al governo Ayrault sono numerosi e la difficile coabitazione tra due personalità forti come la guardasigilli Christine Taubira e il ministro degli interni Valls ne è l’esempio più evidente. L’espulsione di una quindicenne kosovara di etnia rom, Léonarda Dibrani, mentre era in gita scolastica, perché residente nel Paese con la famiglia in maniera irregolare ha esposto Manuel Valls a forti critiche, tra cui l’accusa di agire à la Sarkozy, con una fermezza inaspettata da parte di un ministro di un governo Socialista. Le difficoltà di un sistema-paese non più competitivo a livello mondiale e i propo- Una presidenza debole, gli scandali, il Front National: la politica francese nel 2014 siti di semplificazione si scontrano con gli atteggiamenti del ministro allo sviluppo economico Arnaud Montebourg, che non intende prescindere dal sistema delle 35 ore e da una rigida protezione dei lavoratori e ha opposto ragioni di interesse nazionale all’acquisto della piattaforma video Dailymotion da parte di Yahoo. Il modello social-democratico e protezionista adottato dal ministro mal si adatta a un Paese già poco attraente agli occhi degli investitori sotto molti aspetti. Il Parti Socialiste si trova stretto tra l’assenza di una linea politica condivisa serena- mente dai suoi membri e la lotta feroce per la leadership del partito tra Martine Aubry e Ségolène Royal, senza citare la presenza ingombrante del sindaco di Parigi Bertrand Delanoë. Tutto ciò danneggia il PS e lo espone ad una emorragia di voti in favore del Parti Communiste di Luc Mélenchon e del Front National di Marine Le Pen. La difficoltà delle proposte tradizionali è evidente ed è necessario un loro importante ripensamento perché queste possano cogliere appieno le sfide della globalizzazione economica, dell’integrazione europea, tenendo conto dei bisogni della popolazione. Inverno 2013/14 Sconfinare - Internazionale/Glocale DATAGATE: PRIVACY O SICUREZZA? di Patricia Ventimiglia (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) T uttavia, sul Datagate che ha minato, almeno apparentemente, i rapporti tra gli Usa e l’Europa bisogna fare almeno una distinzione. La National Security Agency avrebbe avuto il controllo di milioni e forse miliardi di comunicazioni telefoniche dei cittadini europei e non, captando e immagazzinando i numeri chiamanti e i numeri chiamati (le meta-informazioni, ma non i contenuti delle conversazioni) per effettuare se necessario indagini più specifiche: se un soggetto, per esempio, chiama frequentemente un numero di telefono dello Yemen o del Pakistan riconducibile a un presunto terrorista arabo, la Nsa può saperlo e può passare l’informazione agli inquirenti che a quel punto possono mettete il telefono sotto controllo per effettuare intercettazioni complete. È chiaro che questa raccolta di informazioni telefoniche “preventive” può infran- 3 L’imbarazzo USA e lo scandalo dello spionaggio internazionale gere le norme della privacy dei diversi Paesi, ma può anche essere giustificata in nome della lotta al terrorismo. E qui sarebbe utile sapere dalle autorità americane (e non solo), pur nel rispetto della riservatezza, quanti attentati siano stati sventati utilizzando questo tipo di indagini. Forse l’opinione pubblica sarebbe più disposta ad accettare un sacrificio della privacy, se fosse acclarato che queste indagini servono davvero a sventare attentati e salvare vite umane. Diverso è il caso dei controlli (dati telefonici e/o vere e proprie intercettazioni) effettuati su 35 leader mondiali, tra cui i più fedeli alleati, a partire dalla Merkel. Qui è davvero difficile sostenere che queste attività d’intelligence abbiano a che fare con la lotta al terrorismo. Anche se non bisogna essere ipocriti ed è ovvio che nel mondo tutti cerchino di sapere tutto per questioni di potere e controllo, qui l’imbarazzo di Obama è evidente. Lo scandalo sta però spingendo il pre- sidente ad accelerare i tempi di una riforma della National Security Agency e delle procedure d’intelligence. Entro il 15 dicembre, il capo dell’antiterrorismo Richard Clarke presenterà a Obama una bozza di correzioni operative e revisioni legislative che si propongono di garantire ai cittadini americani, come ai leader alleati, che l’Nsa non li spierà più o, almeno, opererà sotto una più stretta sorveglianza del governo. Il vero nodo che oggi è chiamato a sciogliere è portare avanti la riforma voluta da Obama sia del Patriot Act che dell’intera governance dei Servizi di intelligence americani, senza che questa appaia come un’ammissione di responsabilità diretta del Presidente nelle intercettazioni illegali, né, sul fronte interno, un atto di debolezza, in cui la Casa Bianca cede alle pressioni politiche internazionali. Nonostante tutto, la posizione del governo statunitense si fonda su un’idea di sicurezza in cui interviene la scelta tra la rinuncia alla privacy e la garanzia di una presunta tranquillità. TRIESTE NON CREDE NEL RICICLO Come funziona la raccolta differenziata? Finisce tutto nell’inceneritore? Abbiamo indagato... di Flavia Rolli A Trieste i cittadini sembrano vivere con gli occhi bendati. Secondo Legambiente i triestini non capiscono che il futuro è riusare e riciclare, tanto che nel capoluogo la differenziata rimane sotto il 20%. Come è possibile? È sufficiente un breve sondaggio per scoprire che c’è un generale senso di sfiducia nel sistema del riciclaggio sul nostro territorio. «Tanto tutti i rifiuti finiscono nell’inceneritore» e «fanno dividere le immondizie solo per abituare le persone, perché a Trieste un sistema di riciclaggio efficiente ancora non c’è». Grazie a una telefonata all’Acegas, il privato che si occupa dello smaltimento a Trieste, sono emersi i dati di bilancio del 2012 dai quali risulta che le tonnellate di rifiuti raccolti in totale sono 101.204, di cui solo il 28,2% proviene dalla differenziata. È una percentuale irrisoria se si considera che a Bologna, per esempio, la differenziata arriva quasi al doppio. Attuare delle campagne informative che illustrino come svolgere correttamente la raccolta differenziata non basta. L’unico modo per spingere la popolazione a impegnarsi nell’iniziativa è la raccolta porta a porta che, però, non è realizzabile. Non tanto per i costi notevoli che comporta, come rivela un tecnico, ma per la confor- mazione del territorio che presenta spesso vie molto strette o salite estremamente erte dove i camion non riuscirebbero a passare. A molti cittadini, però, rimane un dubbio: i rifiuti della differenziata finiscono comunque nel termovalorizzatore? Chiaramente no. Innanzitutto ci sono vincoli di legge che obbligano i privati a raggiungere certe quote di differenziata e sono previsti dei premi in denaro per gli standard di qualità dei materiali accumulati. A Trieste non viene fatto materialmente il riciclaggio, ossia non viene svolta attività di recupero, perchè Acegas ha deciso di appoggiarsi ad alcuni consorzi naziona- li (CONAI, COMIECO, COREPLA, COBAT, ecc.) che gestiscono il riciclaggio. Gli esercenti che si servono di lattine, scatole e altri imballaggi pagano ai consorzi una cauzione per ogni contenitore; con questo denaro viene pagata una parte del servizio di riciclaggio svolto da Acegas. In pratica, come viene finanziato il servizio di riciclaggio? Un camion più il personale costano circa 100 euro all’ora. Si possono trasportare 6 o 8 tonnellate di carta per ogni camion, ricompensate da COMIECO con 92 euro per tonnellata, perciò il servizio di riciclaggio della carta viene ampiamente retribuito. Diverso, però, è per plastica e vetro. Infatti, la plastica occupa molto spazio e, anche se viene retribuita molto, non si riesce a portare più di una tonnellata su un camion, mentre il vetro è un materiale con un valore molto basso e la retribuzione copre a malapena i costi. In seguito al collezionamento dei materiali differenziati viene fatta già una prima selezione e una pre-pulitura in provincia di Trieste. Successivamente, in base al tipo di materiale e al colore i rifiuti differenziati vengono inviati a delle società che si occupano di pressaggio, fase dopo la quale i materiali vengono mandati fuori provincia. Poniamo ora, ipoteticamente, che Acegas ogni tanto arrotondi un po’ prendendo qualche bottiglietta di plastica, fogli di carta di giornale, vetro, lattine di coca cola e butti tutto questo materiale nel termovalorizzatore. Bruciando i rifiuti è possibile ottenere energia elettrica (non vapore utilizzabile per il riscaldamento, come credono alcuni), ma da un punto di vista della convenienza non ha senso incenerire rifiuti che possono essere destinati al riciclaggio. Innanzitutto perché i rifiuti riciclabili vengono ricompensati dai consorzi; secondariamente perché dal momento in cui tutto ciò che contengono i cassonetti dell’indifferenziata finisce nell’inceneritore i residui metallici, plastici e vetrosi vanno ad aumentare le ceneri pesanti, cioè materiale incombusto. Questo deve essere nuovamente smaltito consegnandolo a enti che, con alti costi, si occupano di recuperare questi materiali. Veniamo da un’epoca di grandi sprechi, pertanto si può capire che i rifiuti siano difficili da concepire come una risorsa. A Trieste c’è ancora tanto lavoro da fare per diffondere una nuova consapevolezza nell’impatto ambientale che ognuno di noi ha sul mondo. 4 a cura di Eleonora Cecco O Sconfinare - Università Inverno 2013/14 «MAI TROPPO LONTANI DA UN ALTRO GORIZIANO» riginario di Trieste, Matteo ha deciso di iscriversi a Scienze Internazionali e Diplomatiche sull’onda dei grandi eventi internazionali dei primi anni ’90, compresa la guerra nell’ex Yugoslavia quasi alle porte di casa. L’esperienza di Gorizia è stata per Matteo ampiamente positiva. In particolare, tutti i corsi di diritto e di storia gli sono poi stati utili nella professione. Tuttavia, in quegli anni non sono mancate le difficoltà organizzative per il corso di laurea. Dopo la laurea a indirizzo diplomatico, Matteo ha lavorato per tre anni con UNDP in Romania, per poi rientrare in Italia dove è rimasto per otto anni nel settore privato, in aziende di information technology. Nel 2008 ha deciso di tornare all’estero, nelle missioni civili lanciate nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune dell’Unione Europea, in Guinea-Bissau, Iraq e ora in Sud Sudan. A fine anno prenderà in carico un’unità dell’agenzia che gestisce l’infrastruttura informatica di alcuni sistemi chiave per la gestione degli affari interni europei, che ha sede a Tallinn e a Strasburgo. nestra era di 30 centimetri di lato. Come sono strutturate le tue giornate? Il mio lavoro attuale consiste soprattutto nella supervisione e coordinamento di unità funzionali specializzate, quindi più project management che lavoro diretto e concreto sui dossier, a meno che non si tratti di questioni particolarmente delicate o complesse. Molto tempo ed energia vanno nel coordinamento all’interno del senior management della Missione, che di solito richiede grande pazienza e capacità negoziali. Aggiungendo la grande mole di rapporti per Bruxelles che devo scrivere o revisionare, si fa presto ad arrivare a sera. Di solito finisco verso le sette, ma quando posso verso le sei vado a fare un po’ di jogging al compound delle Nazioni Unite a Juba – con 35 gradi e 90% di umidità anche mezz’ora basta e avanza. Matteo, quali sono gli aspetti che ami di piu del tuo lavoro? Una cosa bella del mio lavoro è che ci si annoia raramente. Mi è capitato di fare una presentazione in una serissima riunione dei 27 stati membri un pomeriggio a Bruxelles, volare tutta la notte, e la mattina dopo trovarmi sul molo fatiscente di un porto dell’Africa occidentale scambiando opinioni con esausti funzionari doganali a proposito di un container che ciondolava da una gru – una scena alla Graham Greene. Un’altra delle cose positive del mio lavoro è che negli ultimi sei anni ho vissuto a non più di due minuti a piedi dall’ufficio: difficile – ma a quanto pare non impossibile – fare tardi! A Baghdad vivevo e lavoravo all’interno del compound dell’ambasciata britannica al centro della Green Zone, disponendo di un alloggio non brutto ma costruito per ovvi motivi come un bunker: l’unica fi- La sere in cui esco, la comunità expat è sempre attiva, anche in zone di crisi. Juba non fa eccezione, con molti amici che lavorano per altre OO II o INGOs; non mancano i ‘goriziani’: Irene Panozzo, una delle principali esperte italiane di Sudan, ed Elena Rovaris che non ho ancora incontrato. La tua è una professione o una vocazione? Conosco e rispetto molte persone che credono intensamente nella missione della propria organizzazione, spesso assottigliando la distanza psicologica tra vita e professione – cosa peraltro inevitabile quando si vive e lavora in contesti di crisi. Personalmente, sono piuttosto orientato ad adottare un sano distacco tra le due sfere: mi aiuta a mantenere l’equilibrio. Cosa significa per te avere coraggio? Se parliamo di coraggio fisico, in con- Matteo Bonfanti, laureato nel 1997, è oggi capo della Mission Support Unit della EU Aviation Security Mission in Sud Sudan testi di pericolo immediato, l’unica cosa che ho imparato è che le reazioni individuali sono imprevedibili. Ci sono alpha males che si paralizzano, e persone a cui non daresti due lire che si scoprono leader. Forse però il coraggio che rispetto di più è quello morale, ovvero la determinazione di fare la cosa eticamente giusta invece di quella più comoda. Quanto è importante avere un mentore? Ho letto di recente alcune riflessioni sul ‘soluzionismo tecnologico’ di E. Morozov, il quale critica la nascente ideologia secondo la quale fenomeni sociali complessi possono essere ridotti a problemi nettamente definibili con soluzioni computabili, o definiti come processi trasparenti, facilmente suddivisibili in transazioni ottimizzabili tramite algoritmi. Il corollario è che tutta l’attenzione si sposta sulla definizione dell’algoritmo, mentre il problema da risolvere diventa quasi accessorio. Ecco, credo che avere un mentore sia importante – se non indispensabile – nella propria evoluzione professionale, proprio per analizzare e capire i fenomeni complessi, più che a trovare le soluzioni. Ma è anche vero che il progressivo accorciamento dell’orizzonte temporale dei processi organizzativi e di business fa sì che sia sempre più raro incontrare un mentore che abbia tempo, voglia, ed energia per prenderti sotto la propria ala per un periodo di tempo sufficiente a sortire degli effetti. Se ci fosse una cosa che potessi cambiare del tuo lavoro, quale sarebbe? Probabilmente la possibilità di pianificare più a lungo periodo, intendo dire oltre l’anno. Faccio un esempio concreto: ho spesso il dilemma, di fronte a colleghi la cui performance non è al livello richiesto, se impegnarmi in un lungo lavoro di sviluppo, oppure se cercare di farla avvicendare al più presto per di- sporre di maggiore efficienza; spesso la necessità di garantire risultati nel breve periodo costringe a ricorrere al turnover, che però presenta diversi svantaggi. Parlaci di una volta che avresti voluto mollare tutto, ma non l’hai fatto. Non sono conosciuto per essere particolarmente accomodante, quindi mi capita almeno una paio di volte all’anno di dire ‘mollo tutto’… Però alla fine bisogna dominare il proprio orgoglio, spero che con gli anni diventerò più bravo! Di quale risultato sei maggiormente orgoglioso? Tutte le volte che un collega – specialmente qualcuno all’inizio della carriera – mi dice di aver imparato qualcosa da me. Se potessi viaggiare nel tempo e nello spazio, con chi vorresti trascorrere un’ora ? Questa è una domanda alla quale potrei pensare per ore! Rispondendo d’impulso, direi che mi piacerebbe sedermi con Alessandro Magno subito dopo la sua visita all’oracolo dell’Oasi di Siwa: con quale visione del mondo ne uscì? Pensava veramente di essere diventato un dio? Quale consiglio daresti agli studenti del SID? Per quelli destinati alle carriere internazionali, di non avere complessi nei confronti dei colleghi che provengano da più blasonate università, a partire da quelle anglo-sassoni. Tuttavia, la formazione italiana ancora trascura alcune capacità ormai indispensabili, quali project management e analisi quantitativa. Soprattutto, a chi se la sente consiglio di andare per il mondo: ne vale la pena e molto probabilmente non si è mai troppo lontani da un altro ‘goriziano’. Sconfinare non identifica alcuna posizione politica, in quanto libera espressione dei singoli membri che ne costiuiscono il Comitato di Redazione. Sconfinare è un periodico regolarmente registrato presso il Tribunale di Gorizia in data 20 maggio 2006, n° di registrazione 4/06. Editore e Propietario: Assid «Associazione studenti di scienze internazionali e diplomatiche». Direttore: Giovanni Collot Impaginazione e grafica: Lorenzo Alberini, Giovanni Collot, Nicolas Lozito, Amalia Sacchi, Stefano Luppino, Veronica Sauchelli, Stefania Ellero, Carol Pigat, Andrea Giordani, Giulia Daga. Stampato da: Tipografia Budin, via Gregorcic 23, Gorizia (GO). Redazione: Lorenzo Alberini, Alessia Anniballo, Elisabetta Blarasin, Martina Calleri, Valeria Carlot, Francesco Caslini, Elisa Dalle Sasse, Dario Cavalieri, Eleonora Cecco, Chiara Ceccon, Margherita Cogoi, Giovanni Collot, Giacomo Cuscunà, Giulia Daga, Stefania Ellero, Stefano Facchinetti, Andrea Ferrara, Andrea Giordani, Lorenzo Gobbo, Davide Lessi, Nicolas Lozito, Stefano Luppino, Irene Manganini, Francesco Marchesano, Filippo Malinverno, Luca Marinaro, Carol Pigat, Federico Petroni, Francesco Plazzotta, Emiliano Quercioli, Rossella Recupero, Flavia Rolli, Amalia Sacchi, Veronica Sauchelli, Stefano Suardi, Nicolò Spadari, Francesco Tirelli, Rodolfo Toè, Valentina Tonutti, Elena Tuan, Patricia Ventimiglia. Autori e fonti di immagini e foto sotto licenza Creative Commons presenti su Sconfinare n.38: p.2 Papa Francesco di Semilla Luz (Flickr), Hollande di Jean-Marc Ayrault (Flickr), p.3 Nsa logo di DonkeyHotey (Flickr), p.8 Johann Jaritz (Wikimedia Commons). segui sconfinare sui social media e sul nostro sito: www.sconfinare.net Le interviste agli alumni continuano su sconfinare.net 5 Sconfinare - Arte Inverno 2013/14 LA CULTURA PER FARE SOLDI I milioni che stanno dietro al traffico delle opere d’arte di Elisabetta Blarasin ontinuano i tagli. In tanti paesi i governi sono più attivi di una sarta e con le loro forbici feriscono più di un settore. Quello più colpito? La cultura, sia nel Bel Paese sia all’estero. Forse perché non fa abbastanza profitto? Eppure il commercio illecito di opere d’arte frutta circa 6 miliardi di dollari l’anno. Tra i paesi più colpiti dal saccheggio della propria eredità artistica c’è l’Italia,il nostro museo a cielo aperto. Ma non siamo gli unici. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sono anche loro tra le vittime principali. Scavando un po’ più a fondo però si scopre che molti tra i Paesi colpiti sono solo gli ultimi anelli della catena del traffico d’arte. mercato che si dirama in una rete di collegamenti che segue i principali traffici internazionali di droga, armi e denaro. Per capire meglio come si sviluppa la catena di montaggio bisogna iniziare dal basso. I tombaroli stanno alla base, fornendo il materiale che poi verrà venduto ed acquistato per cifre astronomiche. A scendere negli scavi archeologici mentre sono incustoditi o a intrufolarsi nelle chiese e rapinarle non sono i grandi esperti d’arte ma persone comuni che spesso non sono sanno neanche di fare una stima approssimativa di quello che si portano via. Poi il tombarolo contatta un esperto o un antiquario e gli affida il tesoro trovato in cambio di una cifra che spesso è mero degli attori coinvolti cresce in maniera esponenziale. Il problema è sociale, lo deve essere anche la risposta. La sensibilizzazione della popolazione è già iniziata in alcuni paesi. Con essa si mira a rendere tutti consapevoli che la perdita del patrimonio artistico è anche la perdita della propria realtà storica. L’arte è di tutti, è la memoria di un paese e del suo percorso. Bisogna quindi battersi per poter continuare ad emozionarsi davanti alla sua bellezza, prima di trovarsi a girare in musei vuoti, mentre caveau segreti nascondono tesori nazionali. C ridicola in confronto al vero valore dell’opera. A partire da quel momento infatti inizia la corsa al rialzo del prezzo dell’opera. Spesso l’esperto contattato è una persona priva di scrupoli e che nell’arte non vede l’eredità storica di un Paese ma un facile profitto. Le opere d’arte vengono vendute a grossi collezionisti o a capi della criminalità organizzata. Questi non scelgono sempre di tenerle nel loro caveau, ma le rimettono nel mercato. A quel punto si inseriscono altri individui dello stesso genere che acquistano per motivi diversi. Non ci sono solo i collezionisti ossessivi come il Virgil Oldman di Tornatore, ma anche i capi mafiosi che devono riciclare il denaro sporco. Questi banditi di lusso comprano in aste chiuse, organizzate appositamente per smerciare i manufatti che sono stati rubati, oppure in aste che sembrano in piena regola ma che in realtà non dispongono di tutte le autorizzazioni o sono già state aggiudicate. Così il processo si esaurisce e il viaggio dell’opera d’arte termina tra mani perfide e criminali. I reperti sono quindi sottratti ai legittimi proprietari, i cittadini dello Stato da cui le opere provengono. Ritrovarle e restituirle è difficile e complicato. Nonostante ci sia la convenzione UNESCO 1970 e l’UNIDROIT 1995 riguardo le opere d’arte rubate ed esportate illegalmente, la collaborazione tra gli Stati e le azioni dei governi sono sem- pre troppo lente rispetto ai trafficanti. Anche le pene per questo tipo di reati non sono sanzionate ovunque allo stesso modo. Sorprende in maniera amara che proprio in Italia si rischi di più per il furto di un maglione da 19€ che per quello del Cratere di Eufronio o di qualche altro reperto. Gli Stati da soli non forniscono abbastanza risposte, rendendo necessaria la collaborazione con i musei. In molti paesi è stato introdotto un codice etico che vincola direttori e curatori ad acquistare solamente pezzi autentici ed autenticati. Tuttavia il codice non è stato introdotto da tutti e inoltre scandali e processi hanno dimostrato che molti dei trafficanti d’arte sono gli stessi curatori o grandi collezionisti. Il mercato illegale dell’arte è ormai arrivato ad essere la terza fonte di guadagno dopo il traffico di droga e denaro. Cosa fare davanti ad un problema così grande e intricato? Di certo non è possibile rimanere paralizzati mentre il nu- CAPA E LA SUA «REALTÀ DI FRONTE» di Elena Tuan «Se le vostre foto non sono sufficientemente buone, vuol dire che non siete andati sufficientemente vicino» L a realtà di fronte è la mostra dedicata dal 20 ottobre al 19 gennaio, nei pressi di Villa Manin di Passariano di Codroipo, a uno dei padri del fotogiornalismo moderno, Robert Capa (1913 – 1954). Organizzata dall'Azienda Speciale Villa Manin con catalogo Silvana Editoriale, è curata da Marco Minuz e non casualmente sembra celebrare la ricorrenza del centenario della nascita dell'artista. Grazie alla collaborazione dell'agenzia Magnum Photos di Parigi e dell'International Center of Photography di New York si trovano esposte ben 180 fotografie, a testimonianza di quanto vario sia stato il background lavorativo di Capa, che non è stato solo fotografo di guerra, ma anche fotografo di scena, cineasta, regista e scrittore. La sua carriera inizia un anno dopo l' espulsione dall'Ungheria per motivi politici. Trasferitosi in Germania, egli lavora come assistente alla camera oscura presso l'agenzia fotografica berlinese Dephot. Grazie all'incarico affidatogli dal direttore Simon Guttman, già nel 1932 realizza i preziosissimi e unici scatti della conferenza di Lev Trotsky a Copenhagen. Questi non saranno che il primo gradino di una lunga scalinata di successi di fama internazionale. Capa osserva il mondo e lo cattura attraverso la sua Leica ed egli, piuttosto che cercare, trova. Scrive infatti, riguardo l'esperienza trascorsa in Spagna durante la guerra civile, che “bastava sistemare la macchina fotografica. Le foto erano lì e si doveva solo scattare. La verità era la migliore immagine”. Proprio in Spagna nel 1936 realizza uno scatto, Il miliziano colpito a morte, che cambierà le pagine della storia del fotogiornalismo. Simboliche in questo senso sono le seguenti sue parole: “se le vostre foto non sono sufficientemente buone, vuol dire che non siete andati abbastanza vicino”. Osservando quest'immagine si ha un po' l'impressione di stare di fronte a una Polaroid in via di definizione: mentre cerchiamo i colori prendere vita sulla carta bianca sentiamo una forte tensione emozionale, un'inquietudine esistenziale che porta noi a chiederci “è ancora vivo -o forse- è già morto?”. E forse, non casualmente, il negativo che sembra aver colto il sottile filo che separa, o forse unisce, vita e morte, è tuttora introvabile. Introvabile come la risposta al nostro precedente quesito. Capa, fedele alla propria e personale visione circa la professione di fotografo di guerra, va vicino e immortala molti degli avvenimenti importanti della prima metà del secolo scorso: c'è fino al '36 nella Francia dei tumulti parigini, c'è nella Spagna della guerra civile fino al'39, c'è in Cina nel '38 quando il Giappone la invade, c'è nel '41 nella Londra devastata dalle incursioni tedesche, c'è nello sbarco in Normandia a portare alla luce i Magnificent Eleven, c'è nell'estate del '43 durante lo sbarco degli Alleati in Italia, c'è nel '54 in Indocina quando per fotografare un gruppo di soldati francesi calpesta una mina antiuomo rimanendo ucciso. Alle spalle poco più di 40 anni e 70000 negativi. Mi trovo in totale accordo con le parole di John Steinbeck, suo amico e collaboratore, quando afferma che “Capa sapeva, ad esempio, che non si può ritrarre la guerra, perchè è soprattutto emozione. Ma lui è riuscito a fotografare quell'emozione conoscendola da vicino. Poteva mostrare l'orrore di un intero popolo attraverso il viso di un bambino”. La mia impressione è che le foto di Capa non siano solo una testimonianza di guerra o una forma d'arte. Credo piuttosto che tali foto coincidano spesso con la stessa emozione che le anima, o che le stesse foto siano l'emozione che, in quel preciso istante, è stata ritratta. In loro vivono -a seconda degli scatti- paura, terrore, angoscia, tristezza, contentezza, ironia; in ogni caso contengono un profondo respiro -forse a volte sospiro- d'umanità. E se questa mostra non vi ha ancora incuriosito nemmeno un po', non preoccupatevi, vuol dire solo che forse non siete (ancora) andati abbastanza vicino! 6 Sconfinare - Stile libero DIRITTO ALL’OMOSESSUALITÀ Inverno 2013/14 di Veronica Andrea Sauchelli La società di oggi si sente moderna e aperta, ma forse non è poi così vero E mma scivolò nel letto e avvolse Claudia in un abbraccio felice mentre il sole si tuffava a braccia strette nella stanza, scaldando ancora l’odore dei muffin al ribes sfornati un attimo prima. BUM-BUM-BUM! Un pugno percosse la porta della camera. Sussultarono entrambe. Chi era e come diavolo aveva fatto a entrare?! I loro occhi si interrogarono a vicenda. Emma fece per alzarsi ma chi era al di là dell’uscio non aveva pazienza. In uno spicchio di secondo la maniglia si abbassò e la porta ruotò veloce. Entrò un uomo… e una donna. Poi un ragazzo, un vecchio, una moglie, un cuoco, una zia, un quarantenne, un codardo, un’insegnante, un prete. Entrano in dieci, in venti; poi in quaranta. In due rachitici minuti il loro letto si era trasformato in una noce di burro che si scioglie in un magma di uomini. E loro due lì, seminude e immobili, paralizzate e spigolose nella loro paura. Ma le lunghe figure non gremivano solo la stanza, continuavano a scorrere nel corridoio e fluivano in giardino, e allo stesso modo foderavano la strada, alzandosi infine come una nebbia vaga sulla linea dell’orizzonte. Le guardavano con piglio altero, puntando loro contro i menti aguzzi e tenendo le brac- di Elisa Dalle Sasse cia saldamente ammainate al petto. D’un tratto la folla cominciò ad agitarsi e sputò una donna di mezz’età, «Vergognatevi, schifose!», fece tirandosi dietro un carlino impacciato. «Perché? E di cosa poi!», reagì Claudia dopo un momento di sbigottimento. «Restiamo sereni», disse una voce maschile mentre il suo proprietario si faceva largo fra i presenti,«le ragazze qui peccano solo di ignoranza, non sanno quello che fanno, è colpa dell’istruzione che non hanno ricevuto». «Quindi come potete vedere», proseguì l’uomo dopo aver fatto emergere dalla folla un viso ben noto, «nel momento dell’educazione sessuale nelle scuole è normale, corretto e fisiologico dare un modello: gli organi dell’uomo e della donna sono stati creati per certe determinate funzioni, ragazze. E non è altrettanto naturale il rapporto tra due uomini o due donne». «Le rispondo con una battuta di Woody Allen: l’omosessualità è contro natura, ma lo è anche camminare sull’acqua, morire e risorgere, moltiplicare il cibo e rimanere incinta da vergine», disse Emma provocando un brusio contrariato. «Ad ogni modo in realtà Freud e la psicoanalisi classica ritengono che le pulsioni omosessuali siano un fenomeno normale, poiché gli esseri umani sono intimamente bisessuali e che per ognuno di noi, attraverso tutta la vita, la libido normalmente oscilla tra l’oggetto maschile e quello femminile». Il brusio di prima si fece risentire, ma questa volta più forte. «E mi domando come si faccia e definire contro natura qualcosa che la natura stessa genera da sempre. Basti pensare che la prima coppia gay documentata risale all’Egitto del 2400 a.C., si tratta di due uomini sepolti nella necropoli di Saqqara, dove la popolazione –forse meno “antica” della nostra- non si è fatta remore a tumularli assieme dipingendoli in modo intimo sotto un epitaffio d’amore. Nel 2013 invece c’è chi si suicida per protestare contro i matrimoni gay, come ha fatto a maggio Dominique Venner, in nome della Chiesa. E mentre le persone buttano la loro vita per pensare a come rovinare quella degli altri, nel mondo sono 8 i Paesi che puniscono l’omosessualità con la pena capitale, altrettanti infliggono l’ergastolo, e altri 60 lo considerano un reato da punire con pene severe. Tutti dovrebbero aver diritto scegliere la propria vita, non credete? A che titolo milioni di persone entrano nelle case di individui che nemmeno mai incontreranno, per dir loro cosa è sbagliato fare nel limitato ed intimo spazio di un’esistenza?» «Adesso non parlare come se l’Italia fosse la regina dei paesi intransigenti», disse una voce giovanile dal fondo della stanza, «a me sembra che il clima sia piuttosto tollerante». «Non so quanto possa considerarsi tollerante un Paese in cui uno degli insulti preferiti è la parola “frocio”. I ragazzi, magari anche scherzando, se lo dicono di continuo, e benché sembri una sciocchezza secondo me invece riflette il sentimento reale che c’è nei confronti dell’omosessualità. Con l’utilizzo di questo apparentemente innocuo sostantivo, purtroppo l’Italia insegna una sola cosa ai gay, insegna loro a… vergognarsi». Ad un tratto la sveglia di Emma suonò. I PAESI PER LE DONNE Il gender gap 2013 fornisce nuovi dati e annuncia miglioramenti e conferme E sistono davvero dei Paesi in cui nascere donna può essere più o meno conveniente? Il Global Gender Gap Report ci conferma che è proprio così. Dal 2006 il World Economic Forum pubblica ogni anno questo rapporto mondiale sulla disparità di genere: attraverso degli indici numerici, quindi oggettivi, misura il divario tra uomo e donna in relazione alla distribuzione delle possibilità e dei ruoli raggiunti all’interno della società. In parole semplici, ci permette di sapere quali sono gli Stati che dividono equamente le loro risorse tra i due sessi e quali no. Il Global Gender Gap Report 2013 riporta i profili di 136 Stati, cioè analizza più del 90% della popolazione mondiale. L’Islanda si è riconfermata per il quinto anno consecutivo il miglior paese per le donne. Il Nord Europa in generale può essere considerato la zona modello, con la Finlandia, la Norvegia e la Svezia che seguono per pochi punti lo stato islandese. Negli ultimi posti, invece, troviamo alcuni Paesi mediorientali noti per i disordini politici e sociali, per le limitazioni della libertà o per l’arretratezza economica e istituzionale: ad esempio l’Arabia Saudita, in cui le donne stanno protestando in vari modi per ottenere maggiori di- ritti (l’ultima protesta del 26 ottobre le ha viste al volante delle automobili) si trova al 127° posto, l’Egitto al 125°, la Siria al 133°, mentre il Pakistan e lo Yemen sono i chiudifila (rispettivamente 135° e 136°). Nato dalla collaborazione tra il World Economic Forum e le università di Harvard e di California, Berkeley, Il Global Gender Gap Report 2013 raccoglie numerosi dati statistici relativi a quattro aree-chiave: partecipazione e opportunità economica, educazione, salute e partecipazione politica. Questi sono i gender gap subindex che vanno a formare il global gender gap index, il valore numerico che misura la portata della disparità uo- mo-donna e che permette di classificare i Paesi esaminati. Gli indici hanno un valore da 0 a 1, dove 1 corrisponde all’uguaglianza tra i due sessi, e sono dei dati oggettivi che possono essere confrontati e permettono di tracciare l’evoluzione di ogni Stato. Tra i 110 Paesi esaminati dal 2006 la maggior parte (l’86%) ha ridotto la differenza tra i generi: il divario nel campo della salute è stato ridotto di quasi il 96 %, nell’educazione del 93%, del 60% nella partecipazione economica, mentre il gap rimane ampio nel settore politico, dove la diminuzione è stata solamente del 21 %. E l’Italia come se la cava nella distribu- zione delle proprie risorse tra donne e uomini? Quest’anno è al 71° posto (su 136!) e le donne italiane non possono certo gioire e accontentarsi di tale risultato. Ma è risaputo che per le italiane i ruoli “alti” in ambito economico e politico sono di difficile accesso, anche se dal 2006 qualche progresso c’è stato. Un dato preoccupante e che fa riflettere è il 101° posto (soltanto trenta posizioni dopo l’Italia e una differenza di indice di pochi centesimi, da 0,689 a 0,655) dell’India, paese in cui l’aborto selettivo delle femmine è un fenomeno diffuso e dalle pesanti implicazioni demografiche e socioculturali. Queste informazioni sono un assaggio dell’importanza del Global Gender Gap Report come strumento per creare consapevolezza e oggettivare un fenomeno che spesso viene considerato qualcosa di personale, emotivo e limitato. Le donne rappresentano la metà delle potenzialità di un paese, quindi è inevitabile che il gender gap influenzi e rispecchi la competitività e lo sviluppo di una nazione. Molte università, organizzazioni mediatiche, governi e individui sono consapevoli di ciò e utilizzano questo strumento per analizzare e diffondere i modelli da seguire e cercare di far diventare il gap sempre più piccolo. Inverno 2013/14 Sconfinare - Viaggi 7 A SPASSO PER L’EUROPA Un InterRail alla scoperta di città, culture, paesaggi… e anche un po’ di se stessi! di Rossella Recupero 10 città, 7 treni, 2 autobus, 5 ostelli, 5 campeggi, 1 tenda, 2 sacchi a pelo. Questi sono i numeri del mio InterRail. Partenza il due Agosto da Torino direzione Vienna, unica tappa certa e programmata per l’intero mese. L’InterRail è uno di quei viaggi in cui si parte ancora prima di aver messo un piede fuori di casa, un viaggio sognato, immaginato nei minimi dettagli e che, come tutte le cose della vita, si è rivelato decisamente diverso, ma ben superiore anche alle migliori aspettative. Nonostante i mesi (per non dire gli anni) passati a programmare l’intero percorso, il giorno dell’arrivo a Vienna io e il mio compagno di viaggio eravamo sprovvisti di qualsiasi mappa con tracciato un qualsivoglia itinerario né avevamo la minima idea su dove alloggiare. È stato l’unico mese della mia vita in cui ho davvero vissuto alla giornata. Così siamo andati letteralmente dove ci portava il cuore: Praga, Berlino, Varsavia, Cracovia, Katowice, Budapest, Zagabria, Pola, Rovigno… per poi far ritorno nell’”amata” Gorizia giusto in tempo per gli esami. Viaggiare, perdersi a guardare il lento passare delle immagini fuori dal finestrino: cambiano i paesaggi, le scritte, le lingue, il cibo, cambiano le persone. Ci si abitua a dormire ovunque, nelle cuccette dei treni (svegliati ripetutamente dai controllori che, con non-calanche, ti chiedono per la quarta volta i documenti), in camerate con altre 23 persone, nelle stazioni, sulla spalla del tuo compagno di viaggio. Nonostante i nostri ritmi stacanovisti (sveglia alle sette e camminate infinite) ogni volta che raggiungevamo una città non avevamo il tempo di godercela appieno. Le abbiamo assaggiate; alcune non vedo l’ora di avere tempo (e denaro) per gustarle quanto meritano, per altre, più piccoline, per ora mi sento soddisfatta del “morso” che sono riuscita a dare. Ogni luogo ci ha permesso di conoscere altri viaggiatori, dalle diciassettenni danesi forse molto più mature di noi, ai cinquantenni scozzesi, inguaribili nostalgici. Ogni incontro portava con sé la storia di un Paese che, se anche non abbiamo visto con gli occhi, ci è sembrato di conoscere ugualmente, almeno con l’immaginazione. Col passare dei giorni abbiamo imparato che l’Europa è grande, ma poi non così tanto e che le persone hanno culture differenti ma, che in fin dei conti sono più simili a noi di quanto credessimo. Abbiamo trovato chi nonostante non capisse la nostra lingua (e tanto meno l’inglese) si è fatto ugualmente in quattro per aiutarci e chi non era contento della propria situazione universitaria e invidiava la nostra: una coppia di svedesi che non solo non sapeva che in Italia lo Stato non fornisce alcun sussidio economico per iscriverti all’università, ma anzi bisogna “addirittura” pagarla. C’è stato chi ci ha derisi vedendoci con due zaini più grossi di noi e chi si è offerto di percorrere un pezzo di strada insieme. Insomma, ogni giorno una scoperta, che non solo ci regalava una più ampia e viva percezione dell’Europa, ma anche - e qui concedetemelo - sfortunatamente come appare il nostro Paese agli occhi degli altri. È così quella tanto decantata Unione Europea che ho sempre visto solo sotto un profilo economico e istituzionale mi è finalmente apparsa più concreta. Forse è proprio vedendola che ora la sento più mia. Cittadina non di un solo Stato ma di ventotto, con una cultura più ampia e una valigia più pesante. Ricordo… ricor- do l’ansia del ritorno, la discesa nell’unica stazione conosciuta e familiare dove ancora sentivo il fischio dei treni rimbombarmi nelle orecchie, un rumore che dopo 31 giorni a spasso per l’Europa su e giù dalle carrozze era diventato un’abitudine che per quanto fastidiosa ora mi manca. Ricordo lo stomaco vuoto, il portafoglio leggero, lo sguardo nuovo. Ricordo di aver dato ragione alla frase letta molti anni prima su qualche post online, che ho poi scoperto essere di John Steinbeck: “Non sono le persone a fare i viaggi, sono i viaggi a fare le persone”. MAI STATI A LUCCA? Lucca Comics: una scappata in quel marasma pullulante di costumi esageratamente colorati, di armi di cartapesta e di ferrovieri frustrati di Luca Marinaro A vevo già sentito palare del Lucca Comics and Games, il festival del fumetto che si svolge nella città toscana, definito da alcuni in modo poco rassicurante “il paradiso dei nerd”. Mi sono sempre immaginato le strade invase da orde di persone bardate nel modo più assurdo. Inoltre, la mia cultura sul mondo di fumetti giapponesi e relativi cartoni animati era piuttosto ristretta agli anni ’90 e a qualche anime iper-sanguinolento di cui è meglio non vantarsi. Chiaramente ho dovuto rivedere la mia posizione. Accompagnando amici, mi sono tuffato in quel marasma pullulante di costumi esageratamente colorati, di armi di cartapesta e di ferrovieri frustrati. L’arrivo a Lucca è relativamente tranquillo; l’unico sintomo della tempesta incombente è una ragazza che ha usato delle ciglia finte per farsi dei baffi e che parla per citazioni dei Gem Boy. Il vero delirio inizia quando si mette piede nella piccola stazione: ci si trova davanti a un’accozzaglia di parrucche viola, di mantelli impigliati, di persone che occupano i bagni non esattamente profumati per trasformarsi in Cersei Lannister o Naruto, di anziane signore che non comprendono come la gioventù possa abbigliarsi in tal modo e di ragazze che si agghindano con abiti vittoriani misti a bracci meccanici, scafandri e vecchi bulloni ramati. Si possono poi ammirare esemplari di orchi intenti a litigare per il posto dal paninaro e altri ragazzi, armati fino ai denti, correre spensierati per il prato davanti alle mura di Lucca. Tuttavia la reale passerella si trova lungo le mura. Una volta su quei bastioni ci passavano i cavalieri, ora ci sono sì i cavalieri (muniti di spade di plastica), ma tra loro svettano anche distinti guerrieri Predator e ninja anacronistici. Il Viale delle Mura Urbane si tramuta in un défilé per Darth Vader sovrappeso, fatine con la barba, cani vestiti da maestro Yoda, nonmorti che si ritoccano il sangue colante dalle mascelle, Wolverine che abbraccia bambine, Thor che cerca di nascondere di essere una donna, infermiere zombie che si massaggiano i piedi, elfe che hanno fatto il bagno nella tempera blu, sofisticatissimi demoni dell’Inferno, giovani contenti di aver comprato una katana prodotta in serie (per fortuna era a buon prezzo), l’intera parata de Il Trono di Spade (mi spiace Harry Potter, sei passato di moda), commoventi padri vestiti come i loro figli, costumi multisessuali e un buon quantitativo di spocchia generale. Nel cuore del Viale si entra nella Citadel, la cui principale attrazione è lo stand della Umbrella Corporation, dal videogioco Resident Evil, in cui si illustra con rispettabile severità come affrontare gli zombie, con tanto di volantino. Inoltre, la Citadel è ricca di negozi di armature medievali, di cuoio e metallo veri, mica patacche. Alcuni tra gli oggetti in vendita invece fanno venire le carie: anelli a forma di tortina su cui spiccano perline, orsetti e cuoricini. Il tutto farcito di fiocchi e scritte amorevoli. Dopo momenti di euforia scattano le sette e mezzo e allora il clima cambia: comincia la corsa ai treni. La frenesia lascia le vie antiche e si concentra nella povera stazione ferroviaria che diventa luogo di allucinogena inquietudine. Tutti, e ripeto tutti, vengono deviati lungo un percorso fatto apposta per il Lucca Comics. La polizia gestisce il flusso di avventori stanchi e snervati con tanto di megafono. La magia dei manga svanisce quando si torna a contatto con la realtà, e in questo caso la realtà è il cestino della spazzatura, l’unico posto dove puoi sederti. Puoi essere Edward Elric o la Signora in Giallo, ma il tuo destino è quello di tutti: essere pressato come una sardina in quei vagoni spossati. Diciamocelo, forse predisporre dei treni non è facile, ma trattandosi della 30esima edizione del Lucca Comics, un minimo di potenziamento dei trasporti, vista l’annuale affluenza, sarebbe doveroso. C’è chi lo definisce “solo una fiera di infantili esibizionisti che fanno finta di essere altre persone”. C’è invece chi ci ha detto che la fiera è maturata parecchio. Molta gente e un programma ricco: una carnevalata a tema e fuori stagione, un modo per uscire dagli schemi ed entrare in un sogno. Perché non si tratta altro che di questo: staccare la spina, mettersi un po’ in mostra e sfoggiare il frutto del proprio lavoro. Lucca resta un luogo da visitare a priori, magari dopo che l’onda/orda degli appassionati è passata...ma attenzione, potreste diventare uno di loro! Številka 38- ZIMA 2013/14 Glavni Urednik: Giovanni Collot www.sconfinare.net [email protected] ALI BO UNIVERZITETNO MESTO ALI PA SPLOH NE BO MESTA Miha Kosovel P urednik Razpotja remnogokrat se debata v zvezi z visokošolstvom v Novi Gorici zaide v floskule. Naše mesto naj bi bilo premajhno, preveč kmečko ali preveč nepomembno za optimalen razvoj visokega šolstva. V naslednjih vrsticah bom na kratko orisal, zakaj ne samo to, da zgornje sodbe ne veljajo, temveč da, če si želimo, da bo sploh še kaj z našim mestom, se mora visokošolstvo v njem čimbolj razviti. Vzpon in padec Nove Gorice Nova Gorica je bila ustanovljena v povojnem času, ker je vsej regiji, ki se ji je takrat še reklo Goriška, umanjkal center. Zakaj se je to mesto poimenovalo Nova Gorica in niso raje kar razširili in urbanizirali Solkana ali Šempetra, je pomembno iz simbolnega vidika, ki ga je Gorica imela za Slovence. In ne zgolj za Slovence iz zahodne etnične meje, temveč vseh. Gorica je namreč, poleg Trsta in Ljubljane in (mogoče Novega mesta), imela močno prisotnost slovenskega visokega meščanstva, mestnih uradnikov, trgovcev in obrtnikov. Slovenci v Trstu in Gorici nismo bili narod hlapcev, temveč pomembnih in ključnih akterjev mesta in regije. Tam je bilo pomembno semenišče, ki je ustvarilo toliko narodnobuditeljskih duhovnikov, ki so v obdobju pred drugo vojno igrali pomembno vlogo, ne zgolj za ohranjanje in osnovno izobrazbo podeželjskih Slovencev, temveč tudi za razvoj slovenščine (najbolj znan je pater Stanislav Škrabec) in literature. (Da niti ne omenimo, da je v Gorici del svojega bogatega življenja preživel tudi Trubar). Vendar izobraženstvo ni bilo omejeno na kler. Gorica je bila močen intelektualni slovenski center. Ni slučajno, da je prvi učni načrt državne gimnazije v slovenščini v zgodovini bil ravno v goriški staatsgymnasium (avstrijski državni gimanziji) in to točno 100 let nazaj. Bil je obvezen za vse Slovence in je žal trajal zgolj par let, saj ga je vojna prekinila. Ta zavest o pomembnosti Gorice in z njo tudi Nove Gorice je bila prisotna od samega nastanka slednje in čez celotno nadaljnje jugoslovansko obdobje. Tako se je še v obdobju pred uradno hladno vojno, ko je potekala v teh krajih neke vrste «hladna vojna», saj je bilo obmejno območje obdano z bodečo žico, mejo, ki je prvič v zgodovini ločila enotno zgodovinsko pokrajino goriške in tako ločila mnogo poznanstev in družin, ter so tenzije med slovensko (oz. jugoslovansko) in italijansko stranjo doseglo vrelišče, so se odgovorni odločili vključiti v načrt prvega mesta edino diagonalno ulico, Erjavčevo, ki je neposredno povezovala center Nove Gorice s centrom stare in s tem tudi na simbolni ravni povezala obe mesti. V obdobju socializma in predvsem po osimskih sporazumih leta 1975 je Nova Gorica dobro izkoriščala svoje mejno območje. Industrija in različne obmejne dejavnosti so cvetele. Zaradi dostopnosti tujih medijev in lahkega prehoda čez mejo, so novogoričani bili mnogo bolj v stiku z zahodnimi trendi in okusi. To dejstvo je tudi omogočilo popularnost Nove Gorice v osemdesetih in začetku devetdesetih let. Ni težko najti tistih med generacijo ‘50 in ‘70, ki se še zelo živo spominjajo, kako so iz Ljubljane hodili obiskovati Novo Gorico in njeno okolico. Argonavti, CRMK, Hum pa tudi bar Cocktail so bili eni izmed prostorov, ki so v pomembni točki soustvarjali slovensko glasbeno sceno. S samostojnostjo Slovenije je počasi počasi Nova Gorica izgublja- la na pomembnosti, Goriška regija pa praktično izgubila svojo zavest. Lahki denar, ki je prihajal iz špedicije, mejnih prehodov in seveda razcveta igralništva je prebivalcem nudil visok standard brez večjega truda, lokalne politike pa zazibal v dremež, saj se jim je zdelo, da ne potrebujejo razmišljati o dolgoročnih načrtih in investicijah, ki bi prinašale v skladu s potrebami časa razvoj obrti in višje kvalificiranih delovnih mest. Poleg tega se je še uradna Ljubljana v vseh dvajsetih letih trudila kot edino zveličavni spodbujati zgolj koridor Maribor-Ljubljana-Koper, ki je območje goriške potisnil v gospodarsko nepomembnost oziroma zgolj v molzno kravo igralniškega denarja. Trenutno je Nova Gorica ostala brez javne prometne povezave tako s Slovenijo kot s sosednjo državo, brez katerekoli pomembnosti v slovenskem okvirju in brez delovnih mest. Nova Gorica, čeprav se o tem ne govori skoraj nič, je na vrhu lestvice v nezaposlenosti mladih do 35. leta v Sloveniji! Pomembnost visokega šolstva za mesto Ne moremo zanikati, da je trenutna situacija na goriškem zelo slaba. Zato je pa nujno, da premislimo realno vizijo, ki bi omogočila razvoj mesta in z njim regije in ki bi posledično njen doprinesel tudi nekaj razvoju Slovenije. Seveda prva in najpomembnejša točka je razvoj visokega šolstva v me- stu. Brez tega si danes sploh ne moremo predstavljati, da je nekaj mesto. Pri visokem šolstvu pri nas ne bi nujno pomenilo, da bi domačini tu študirali, temveč, da bi pridobili pomembno demografsko skupino mladih odraslih, ki bi prišla v mesto in ga sokreirala. Trenutno nimamo sploh neke realne študentske scene, saj je mnogo fakultet narejenih tako, da študentom sploh ni potrebno živeti tu, da bi študirali. Pa ne samo študentom, tudi profesorjem. Pogoji bi morali biti narejeni, da bi te dve skupini, ki soustvarjata visoko šolstvo, živele in imele impakt v svojem okolju. Ta skupina ljudi ustvarja pogoje, da je neko okolje atraktivno. Z mladimi pridejo seveda zabave. Ampak z druženjem pride tudi do spoznavanja različnih profilov ljudi, ki se kanalizira v kulturo, v politično participacijo in širjenje kritične mase v mestu. Čeprav lahko podvržemo kritiki tako Univerzo v Novi Gorici kot tudi druge samostojne visokošolske zavode, ki delujejo na tem področju, moramo vedeti, da je to še vedno boljše od ničesar. Visoko šolstvo še vedno predstavlja najvišje znanje v posebnih strokah. Z dobrim gospodarjenjem univerze in z večletnim razvojem, se bo kvaliteta lahko višala, novi kader (tudi iz drugih fakultet) bo pomembno prispeval k spremembi strukture prebivalstva v mestu. Seveda pa ima Nova Gorica še eno prednost in to je ravno njena neposredna bližina meje in mesta Gorica. V tem vidiku se odpira velika možnost ustanovitve skupne mednarodne univerze, ki bi lahko bila tudi v angleškem jeziku, in bi privabila študente druge in tretje stopnje. To bi pomenilo močan korak k zbliževanju dveh Goric, ki je v tem času nujno za preživetje obeh in ki bi pripomogel na prepoznavnosti, razvoju turizma, kulture in visokotehnološke industrije. Brez visokega šolstva ne bo služb, ne bo razvoja in seveda s tem ne bo prebivalcev. Če nam to ni v prvi vrsti namen lahko… zapremo luči, zaklenemo vrata in se poslovimo. www.razpotja.si