proprietà privata - Amici del Cabiria

Transcript

proprietà privata - Amici del Cabiria
PROPRIETÀ PRIVATA
Trailer: http://www.mymovies.it/trailer/?id=44602
Sito: http://www.bimfilm.com/proprietaprivata/
Anno: 2006
Altri titoli: Nue-propriété
Durata: 92
Origine: BELGIO, FRANCIA
Genere: DRAMMATICO
Produzione: TARANTULA BELGIQUE, MACT PRODUCTIONS
Regia: Joachim Lafosse
Attori:
Isabelle Huppert Pascale
Jérémie Renier Thierry
Yannick Renier François
Kris Cuppens
Jan
Raphaëlle Lubansu
Anne
Sceneggiatura: Joachim Lafosse, François Pirot
Fotografia: Hichame Alaouie
Montaggio: Sophie Vercruysse
Critica:
In Concorso un dramma familiare profondo e rigorosissimo. Con un ottimo Jeremie Renier e in odore di premi
Una casa in una campagna francese appena accennata. Fuori scorci di cieli grigi e poco più. Dietro pesanti pareti in pietra,
un dramma familiare a base di egoismi, incomunicabilità e macerie affettive, con finale dirompente. E poi niente musica,
fotografia livida, dialoghi essenziali e tanta fisicità: rigore e parabola autodistruttiva di Nue propriété ricordano molto La
pianista di Haneke, pluripremiata a Cannes nel 2001. Anche qui c'è Isabelle Huppert. Se lì, a muoverla era una vitale
ribellione al soffocante giogo materno e sociale, qui gli elementi cambiano. Il fuoco è sul figlio Thierry, il bravissimo
Jeremie Renier già visto nel Figlio dei Dardenne: grande, grosso e ribelle, ma comodamente adagiato nel nido materno,
senza la minima intenzione di abbandonarlo. Non è però una crociata quella del regista Joachim Lafosse: non enfatizza, né
indulge nella condanna. Stringe il cerchio, invece. Intesse con profondità e ricchezza di particolari la complessa trama di un
dramma a più ampio raggio. Cibo, tetto, sopravvivenza: il rapporto con la mamma Isabelle Huppert è puramente
strumentale, ma neanche lei è senza macchia. Si inizia con futili schermaglie al tavolo della colazione, in cui si allea al più
mite fratello François. La circostanza non è casuale: pretende cure e mantenimento Thierry, ma ribadisce anche il suo essere
già uomo. Sguardi bassi da un parte e aggressivo incalzare dall'altra parlano dei rapporti di forza: mamma Pascale è
all'angolo, sempre più ostaggio di due figli senza i quali, arriva a dire, finalmente potrebbe vivere. Il crescendo è perfetto, il
fastidio dello spettatore fisico. Tra le righe, accenni appena schizzati che allargano il campo e scendono in profondità.
L'affresco è familiare e sociale allo stesso tempo: non c'è colpa, ma fallimento nella storia di Thierry e Pascale. Quello di un
matrimonio in pezzi come tanti altri e delle macerie affettive che ne rimangono: una madre prigioniera e un padrebancomat, ciascuno consapevole della propria disfatta, ma aggrappato alla speranza di una nuova vita. E' però proprio
questa atomizzante lotta alla sopravvivenza che soffoca e condanna i protagonisti. Ciascuno troppo concentrato a salvarsi
per preoccuparsi del "mondo" che gli crolla attorno. Fino all'inconfessabile svolta finale, che Lafosse dipinge quasi come
naturale approdo di un'esasperato individualismo. Alla speranza concede uno spiraglio appena, ma agli spettatori regala un
gran film in odore di premio. Quantomeno per il giovane protagonista, ma forse anche molto di più. (www.cinematografo.it)
"Molto intimismo. Molti scontri verbali proposti soprattutto a tavola, a cena o a pranzo. Il disegno dei gemelli, dissimili
fisicamente, tende a differenziarli anche nei caratteri, quello della madre segue un tormentato itinerario tra frustazioni e
rivolte. Con un buon equilibrio narrativo e molta suggestione nelle immagini. Al centro, nelle vesti della protagonista,
Isabelle Huppert con la sua abituale recitazione dimessa e, quando serve, sofferta." (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 8
settembre 2006)
Due gemelli ultraventenni (I fratelli Renier) vivono con la madre (Isabelle Huppert) in una villa di campagna. Quando la
donna decide di vendere la casa, il triangolo è sull'orlo di un collasso affettivo. Caino e Abele dell'era postmoderna: giovani
1
adulti posseduti dalla "proprietà privata", dalla Playstation, dal cibo pronto, dalla violenza come sfogo e attaccati alla
sottana materna (meravigliosa Huppert, madre morbosa, al pari delle sue due creature-bestiole). Luca Barnabé (Ciak)
Specializzata in personaggi di donna morbosa (La pianista, Ma mère), che interpreta ormai con sublime manierismo,
Isabelle Huppert vive in villa di campagna assieme ai suoi due (falsi) gemelli. Allorché la donna prende la decisione di
vendere la proprietà, per regalarsi una nuova occasione di vita, i figli si oppongono. Proprietà privata si apre su una
situazione di apparente, relativa normalità, con schermaglie e litigi a tavola come ne avvengono in tante famiglie. Però il
belga Joachim Lafosse coltiva un verismo prossimo a quello dei Dardenne e la sceneggiatura, col procedere verso la fine,
prende una piega che sovradrammatizza gli eventi; in modo perfino eccessivo, mentre sarebbe bastata la capacità di
suggerire un'atmosfera asfittica e perversa mostrata nella prima parte. Storia di un rapporto che entra in crisi e si spezza, il
film è realizzato con inquadrature dirette e frontali: una sobrietà di linguaggio che enfatizza, anziché attenuarlo, il senso di
disagio crescente dello spettatore. Buona parte dell'efficacia del risultato consegue dalla scelta degli interpreti. Le parti dei
gemelli sono state affidate a due fratelli nella vita reale, Jérémie e Yannick Renier. Dal gioco degli sguardi a una partita di
Playstation, la loro complicità è così evidente da risparmiare al regista ogni sforzo per renderne credibili i personaggi. Tra la
coppia, la presenza intrusiva di mamma Huppert è un fattore destabilizzante altrettanto visibile, che la star si gioca da par
sua. Roberto Nepoti (La Repubblica)
Non si finirebbe (e non si finirà) mai di girare film sul microcosmo della famiglia. Mentre Lezioni di volo di Francesca
Archibugi spedisce due ragazzi italiani in India, Proprietà privata del giovane belga Joachim Lafosse ci porta in Vallonia per
conoscere due gemelli troppo diversi e una madre troppo giovane. Thierry e Francois sono uno biondo, l'altro bruno. Li
interpretano due veri fratelli non gemelli, Jeremie e Yannick Rénier, mentre ha un fratello gemello nella vita il regista, il
citato Lafosse; Jeremie, il biondo, è il giovane padre snaturato di L'enfant dei Dardenne. Mamma mia, troppi fratelli in
questa storia! Torniamo a Thierry e Francois: il primo è litigioso e tratta male la madre Pascale (una straordinaria Isabelle
Huppert); il secondo è più affettuoso. C'è anche un padre, Luc, ma se n'è andato: ha un'altra moglie, un bimbo piccolo e si fa
vedere solo quando servono soldi. C'è anche il nuovo uomo di Pascale, Jan, disprezzato dai gemelli per gelosia e per
«leghismo»: è fiammingo, i valloni francofoni non lo sopportano. Pascale vorrebbe vendere la grande casa dove vive e
rifarsi una vita con Jan. Francois potrebbe anche starci, ma Thierry è pronto a tutto, anche alla violenza, per impedirlo. Il
ménage diventa un inferno, che Lafosse mette in scena con stile minimale: metà film si svolge a tavola, con i personaggi che
sembrano sul punto di scannarsi. Le convenzioni impediscono che tutto deflagri, ma sotto la cenere c'è un vulcano: Pascale
se ne va, mollando quei due disutili dei figli; i quali, lasciati soli, si cacciano in una via senza ritorno. Il film è scabro, breve,
senza musica (tranne il lancinante piano sequenza finale). Il miglior complimento a Isabelle Huppert (la più grande attrice
europea) è che Proprietà privata è inimmaginabile con qualunque altra interprete. Alberto Crespi (L'Unità)
Crudele film a spirale sul doppio, sui sentimenti ambigui, sull' ambivalenza affettiva. Per l' autore Joachim Lafosse
soprattutto il racconto di come crolla ed esplode una cellula familiare, dopo lungo accanimento terapeutico casalingo. Ma è
soprattutto un film gemellare, perché odio & amore son sempre mescolati, i due figli sono gemelli (diciamo pure Caino e
Abele), gli attori stessi sono fratelli, ed anche il regista nella vita è un gemello. Girata a piani sequenza fissi, per cui sono i
personaggi ad abbandonare l' inquadratura e non la cinepresa che li tampina e insegue nella cadente casa di campagna, la
storia è quella del crollo del sistema affettivo edipico-materno. Isabelle Huppert è una madre divorziata che ancora, dopo 10
anni, odia cordialmente l' ex marito e vive con i suoi due gemelli. Uno irascibile che le è sempre contro per preconcetto
affettivo, l' altro invece un mammone dolce che trova sfogo nel piallare porte e persiane. E se il racconto è dedicato ai
«nostri limiti», l' equilibrio, pur delicato, si rompe quando la donna ha una relazione con un vicino di casa che scatena
tempesta perché prevede nel futuro la vendita della casa, cioè delle radici. Qui i fratelli, che hanno sempre condiviso un
mondo a parte, si coalizzano tanto che la povera donna si eclissa per un poco da un' amica: quando torna, il fattaccio è
accaduto. Ai genitori resta solo da raccogliere, non solo simbolicamente, i cocci. Un film duro, di interni psicologici
spiacevoli e violenti, un vortice di nevrosi incrociate che si incontrano al limitare del concetto primordiale della proprietà
avita. Certamente un film di attori in cui la cara Isabelle, sinfonia di furore inespresso, stavolta meno trasgressiva dei suoi
standard, se la vede con due diabolici ventenni, il biondo Jèrémie Renier e il fratello Yannick. Rendono benissimo la loro
inadeguatezza alla vita, sono due ragazzini non cresciuti e che immolano la loro innocenza. Maurizio Porro (Il Corriere
della Sera)
“Ai nostri limiti” è l’epigrafe che apre un film essenziale, privo di musiche salvo nella carrellata finale a ritroso, con la
quale ci congediamo dalla casa di campagna dove si svolge gran parte della storia. Ne sono protagonisti una madre (Isabelle
Huppert, raggelata in un ruolo di donna per una volta non trasgressiva ma tutt’altro che serena e appagata) e i suoi due
gemelli (i fratelli Renier, il biondo Jérémie visto ne La promesse e L’enfant dei Dardenne e l’aitante Yannick, attore di
teatro), turbati da aspirazioni frustrate, traumi dell’adolescenza mai superati e conflitti perenni.
Una famiglia come tante, che abita una tetra e trascurata casa fuori città, i cui trascorsi sono soltanto accennati nei dialoghi
ma traspaiono da sguardi e aggressioni verbali, dipendenze emotive e oppressioni. Nonostante siano divorziati da dieci anni,
2
i genitori dei ragazzi sulla ventina si odiano cordialmente: la madre lavoratrice non vuole vederlo in casa, il padre risposato
con figlioletta trasmette affetto sotto forma di soldi, in un’assenza che è anche alibi mascherato dietro l’ostracismo della ex.
Appare ben chiaro che, in un clima poco equilibrato, i gemelli siano da un lato molto legati, trascorrendo insieme gran parte
del tempo libero; dall’altro siano “senza pelle”, emotivamente impreparati ad affrontare il mondo con un atteggiamento
bivalente nei confronti delle figure di riferimento: l’uno addossa alla madre ogni colpa del fallimento della famiglia, l’altro è
invece un “mammone” affettuoso ma palesemente incapace di emanciparsi, tanto da dedicare molto del suo tempo a piallare
porte e persiane. All’inizio sembra ci sia intesa, con gli sfottò salaci dei figli sugli abiti della madre, i fratelli che si fanno lo
shampoo a vicenda. Dopo un po’ iniziamo ad assistere a un campionario di sbagli, di colpe per disattenzione, stanchezza,
un’insensibilità ostentata come segno di affrancamento.
La donna ha una relazione col vicino, più sessuale che sentimentale, e con lui progetta una vita diversa. Nel suo futuro non
può esserci la casa, che avverte come un vincolo opprimente alla sua libertà, ultimo simulacro della vita famigliare: logico
lo stupore e lo smarrimento dei figli, in particolare del biondo che manifesta un’ostilità crescente, alimentata dalla
contrarietà paterna. Incapace di gestire la tensione e senza il conforto dell’amante, la madre si autoeclissa per un po’: rimasti
soli, i figli non sapranno affrontare l’abbandono e finiranno con l’accanirsi l’uno contro l’altro. Nella bella scena finale, i
genitori raccoglieranno i cocci della loro insipienza e disattenzione verso la prole, che il regista ha definito di un’età mentale
non superiore ai 13 anni.
Semplice nella costruzione e nella regia, il film denota un’asciuttezza e un’intensità che hanno attecchito sulla platea
veneziana, specchio delle angosce rimosse e dei conflitti di famiglie scoppiate ma all’apparenza “normali”. Un film
rigoroso, con una buona tenuta, un’accorta costruzione delle psicologie, una narrazione lineare densa e semplice al tempo
stesso, senza orpelli ma con un crescendo angoscioso. Un po’ a tesi, da film dossier, ma vibrante.(www.fice.it)
Note:
- MENZIONE SPECIALE DELLA GIURIA SIGNIS (EX-AEQUO CON "DARATT" DI MAHAMAT-SALEH
HAROUN) ALLA 63MA MOSTRA INTERNAZIONALE D'ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA (2006).
3