Etty Hillesum, un`“anima millenaria”

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Etty Hillesum, un`“anima millenaria”
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
Kasparhauser
Semiotropie. Eredità di Barthes
13 | 2016
Contributi di Renato Barilli, Jean Molino, Giuseppe Crivella,
Christian Dubois. Con sette inediti di Roland Barthes
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Kasparhauser
Semiotropie
Eredità di Roland Barthes
13 | 2016
A cura di Giuseppe Crivella
Rivista di cultura filosofica. Redazione: Marco Baldino, Guido Cavalli, Giuseppe Crivella,
Jacopo Valli.
Si ringrazia per la preziosa collaborazione la Dott.ssa Maria Gaia Crivella che ha curato
le traduzioni dei testi di Jean Molino, Christian Dubois e del saggio Una problematica
del senso di Roland Barthes. Tutte le altre traduzioni sono di Giuseppe Crivella. Un
grazie doveroso va inoltre al Professor Renato Barilli.
Pubblicazione on line protetta dal diritto d’autore. La distribuzione avviene a mezzo rete
ed è gratuita. Non è consentita la commercializzazione del materiale qui raccolto.
Kasparhauser ISSN 2282-1031
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Indice
Renato Barilli
Incontri e scontri con Roland Barthes
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Roland Barthes
Lo Srtraniero, romanzo solare
11
Jean Molino
Sul metodo di Roland Barthes
16
Roland Barthes
L’Utopia
38
Roland Barthes
D’un sole reticente
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Giuseppe Crivella
I. Un remous minéral dans l’imposture du Sens achevé.
Barthes, Blanchot e la solitaria sfinge dell’écriture
42
Giuseppe Crivella
II. Metacritica della critica (della ragion) letteraria.
Barthes e Adorno: il linguaggio è la sua ombra
58
Roland Barthes
Una problematica del senso
81
Giuseppe Crivella
III. Ecolalie di un ordigno iconico. La Semiologia come
decostruzione della linguistica in Barthes e Pasolini
97
Giuseppe Crivella
IV. Scenografie logoclaste.
Barthes e Benjamin di fronte all’immagine
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Semiotropie. Eredità di Barthes
Indice
Roland Barthes
Artaud: scrittura/figura
136
Roland Barthes
Bernard Faucon
140
Philippe C. Dubois
Barthes e l’immagine
142
Roland Barthes
Dalla parola alla scrittura
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
Incontri e scontri con Roland
Barthes
di Renato Barilli
I miei rapporti con Roland Barthes cominciano, fine anni
‘50, nel segno dell’ammirazione e del rispetto, procuratimi
da suoi contributi quali Le degré zéro de l’écriture, e
soprattutto dal saggio Littérature objectale, che erano un
modo intelligente e vivace di accompagnare l’emergere
del Nouveau roman, e in particolar modo della parte
rilevante tenuta in esso da Robbe-Grillet, da cui ero
affascinato. Barthes coglieva alla perfezione quello che
poi per me sarebbe stato un cavallo di battaglia lungo la
mia carriera di critico militante, volto in primis a
individuare la differenza tra le avanguardie del primo e del
secondo Novecento, al di là dello stesso fenomeno della
narrativa francese, ma con pronta estensione ad ogni altro
campo, a cominciare da quello delle arti visive, in cui in
definitiva apparivo coinvolto in via più diretta.
In ogni ambito dello sperimentalismo, ovvero di una
neoavanguardia, si doveva praticare quella che Alfredo
Giuliani, all’atto di teorizzare il fenomeno di punta dei
Novissimi, avrebbe definito una “riduzione dell’io”, il
soggetto doveva farsi magro magro, fino al punto di
apparire addirittura scomparso, a vantaggio della presenza
degli oggetti. Sartre, a nome della generazione precedente,
era stato il profeta di questa svolta epocale, quando, in uno
dei saggi poi raccolti nelle varie tappe di Situations, aveva
dichiarato “eccoci liberati di Proust”, oppure aveva lodato
quella che per lui, e per tutti noi al suo seguito, appariva
come l’idea portante di Husserl e di tutta la
fenomenologia, l’intenzionalità, che appunto voleva dire
spostare l’attenzione dal soggetto e dalla sua interiorità
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
riversandole sulle cose, secondo la formula che proprio
Robbe-Grillet stava proclamando con tono autoritario,
“Les choses sont là”, cui, nelle arti visive, avrebbero fatto
eco i vari movimenti in sequenza quali il Nouveau
Réalisme francese, il New Dada e poi la Pop Art a
prevalente matrice statunitense.
È vero che già allora la pur felice proclamazione di
Barthes a favore di questo spirito riduttivo aveva qualche
ambiguità. Riduzione o addirittura cancellazione? La
prima tesi apparteneva a noi fenomenologi, che
ritenevamo, con Sartre e Merleau-Ponty, che in realtà un
indice di soggettività, per quanto minimizzato, non poteva
uscire di scena, anzi quel suo farsi piccolo piccolo gli
permetteva di rendersi esteso e penetrante. In fondo, il
fondatore dei Novissimi, il già ricordato Giuliani, si
affrettava ad aggiungere che la riduzione dell’io non
doveva rimanere fine a se stessa ma dare adito a un
leopardiano “accrescimento di vitalità”.
Fare un passo indietro, ma per abbracciare una più larga
fetta di orizzonte. Invece Barthes pareva auspicare una
cancellazione, il che, ambiguamente, poteva aprire la
strada a letture di marxismo “impegnato”, che collegavano
quella scomparsa dell’io all’avvento del neocapitalismo e
del suo afflato spersonalizzante, con il dio merce chiamato
a vincere su ogni altro interesse. Dietro questa
interpretazione etico-politica, era pronta ad affacciarsi
anche quella di carattere epistemologico. Insomma,
fenomenologia o positivismo logico, alla Carnap e alla
Wittgenstein? Era il caso di proclamare una tautologia: le
cose sono le cose, punto e basta?
Purtroppo Barthes, in definitiva felicemente ambiguo
nella sua fase iniziale, e in possesso di un linguaggio
critico sempre deliziosamente fresco, capace di trovare la
parola giusta al momento giusto, trasportato dal suo stesso
bisogno di fare comunque ordine e pulizia nel suo dettato
andava progressivamente a infilarsi nel buco stretto della
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Semiotropie. Eredità di Barthes
semiotica, scegliendola, a mio avviso inopportunamente,
nella versione “dura e pura” sviluppata dal danese
Hjelmslev, del tutto succube proprio della lezione di
Carnap e del positivismo logico. Io magari non ero del
tutto alieno dal riconoscere i buoni uffici della semiotica,
ma li ricercavo, semmai, nelle concezioni larghe e
generose del Saussure, dove sopravviveva malgrado tutto
la buona dialettica di derivazione fenomenologia, dove
cioè il significante doveva sempre misurarsi col termine
opposto del significato, e il sistema codificato della lingua
manteneva la via di fuga affidata all’atto individualista e
liberatorio della parole.
Invece Barthes, ahimé, adottava la via massacrante
stabilita appunto da Hjelmslev e del connesso trionfo del
formalismo, con la suddivisione dei vari piani di indagine,
tra forma e contenuto, ma entrambi parcellizzati, ridotti a
scorrere in parallelo e a non incontrarsi. Il che avveniva
perché Hjelmsev sceglieva come sistema-guida, cui ogni
altro ambito espressivo doveva conformarsi, quello della
lingua, con le sue proprietà difficilmente esportabili in altri
territori: la presenza di una serie ridotta di elementi
primari, le lettere, le quali inoltre si combinano tra loro in
modi rigidi e prefissati. Sistema certo di grande razionalità
ed efficienza, ma assai arduo da esportare.
Eppure, il neofita Barthes ci si provò, con zelo
puntiglioso, andando ad applicare questa formula in campi
che viceversa le erano avversi, come in effetti io cominciai
a rinfacciargli, mutando le ragioni di deferente assenso fin
lì intrattenute in motivi di disputa e di polemica. Barthes
infatti andava a rilanciare la vecchia retorica, e fin qui
l’accordo poteva rimanere in piedi, anch’io, dalla metà dei
‘60, avvertivo l’opportunità di riaccreditare la vecchia
signora, ma proprio per la sua predicazione a favore di vie
di interpretazione aperte, informali, probabiliste, tali da
negare in partenza il metodo analitico di specie
hjemsleviana. In altre parole, la retorica da me amata era
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Semiotropie. Eredità di Barthes
quella di cui ci parlava il belga Charles Perelman,
provenendo da studi giuridici, e dunque ricordandoci che
quello strumento si può applicare utilmente solo là dove
viene esclusa la dimostrazione rigorosa e analitica.
Le figure retoriche, secondo una simile concezione,
vengono a rimorchio. Invece, sempre nel Belgio, era nata
la Scuola di Liegi, capeggiata da Philippe Minguet, detta
anche Gruppo mi (greco), che procedeva a una minuziosa
catalogazione di tutti i tropi possibili. Ricordo che io andai
a parlare a casa loro, riscontrando proprio una sostanziale
differenza di metodi, poi andai a Bruxelles, invitato dalla
spirito del tutto solidale di Perleman, e anche i membri di
quel Gruppo vennero a sentirmi, poi concludendo che in
effetti la loro non era una teoria generale di Nouvelle
rhétorique, ma solo una complessa “tropologia”, proprio
sulla scorta del modello barthesiano, Che poi si applicò
con furore raddoppiato sul Système de la mode, e qui di
nuovo io condussi una contestazione puntigliosa, sulle
pagine di “Quindici”, sostenendo che il letto di Prouste o
la camicia di forza dell’alfabeto, con tutte le sue cesure e
frantumazioni, mal si conveniva alle esigenze fluide
proprie della moda, che oltretutto rappresenta, con la sua
sfuggente indeterminatezza, i caratteri precipui di ogni
sistema iconico, difficilmente segmentabile.
Ovvero, ci sono modalità espressive che per loro natura
rifuggono dalle misure “discrete” e scompositive. Infatti le
schiere dei semiotici, senza dubbio trascinati dalla guida
carismatica di Barthes, mossero baldanzosamente alla
conquista del segno iconico, ma incontrarono su quel
terreno suppergiù le stesse difficoltà contro cui i loro
colleghi del settore retorico erano andati a sbattere. Si può
ben dire che la sconfitta dell’impresa semiotica, nella sua
spinta totalizzante, ha cominciato a sperimentare gli
ostacoli, le impossibilità, proprio di fronte all’ambito
continuativo, sfumato, informale per eccellenza delle
immagini.
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Semiotropie. Eredità di Barthes
Per qualche tempo i semiotici si sono rifugiati dietro l’alibi
del chiedere tempo: aspettate, lasciateci provare, e vedrete
che arriveremo alla conclusione, piegheremo anche il
mondo delle icone alle regole impietose della glossematica
hjelmseviana. Ma mi pare che da tempo ci sono rassegnati
a levare l’assedio a quella cittadella rivelatasi
imprendibile.
Un altro punto del mio dissenso sempre più accentuato
rispetto alle mosse, pur sempre affascinanti a livello
linguistico, di Barthes è avvenuto sul fronte della
narrativa. A un certo momento egli ha diretto la sua acribia
su un racconto di Balzac, Sarrazine, ma anche in questo
caso prendendo una strada sbagliata e inopportuna.
Quel racconto non è certo una delle opere migliori del
grande narratore francese, che sembra essere tributario
della passione del suo predecessore Stenhal per cupe storie
italiane colme di delitti e male imprese, esercitati attorno a
una “voce bianca”, a un castrato, secondo il barbo uso di
quei tempi per cui le donne non potevano calcare le scene,
sostituite da poveri maschi sottoposti a una evirazione, per
dare qualche soldo alle famiglie di provenienza, e così
facendo di loro dei cantanti aggraziato, Una di queste
femminelle, Zambonella, si viene a trovare al centro di un
gioco di intrighi, su cui Barthes si butta con delizia,
cercando di ricavarne una “grammatica” di scambi
incrociati.
Si può ricordare in proposito che anche un nostro
critico di grande spessore, Cesare Segre, per qualche
tempo fu attratto dalla sirena semiotica nella fattispecie
barthesiana e si diece quindi a ricavare la “grammatica”
addirittura del Decamerone boccacciano. Ma in entrambi i
casi io mi sono permesso di dire che i due partigiani di una
semiotica rigida, costruita more linguae, sbagliavano
l’obiettivo cui rivolgersi, sia Boccaccio sia Balzac sono
grandi non certo quando abborracciano trame, in genere
rubate a tradizioni prevedenti, bensì quando tracciano
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
vigorosi ritratti psicologici con precisa ambientazione nei
relativi contesti sociali. La femminella amata da Sarrazine
raggiunge tutta la sua rilevanza narrativa quando, ormai
vecchia, compare in un salotto parigino accolta da eredi
che vivono alle sue spalle e quindi devono pur rendere
qualche gesto di rispetto verso quell’essere mostruoso, né
uomo né donna, che compare in scena, triste ed enigmatico
dominatore. Barthes, e i vari Nouveaux essais critiques
che al suo seguito si sono infilati nelle maglie strette del
sistema semiotico-linguistico, a un certo punto ne hanno
avvertito con sofferenza la soffocante ristrettezza, e
dunque hanno intrapreso una marcia di “anabasi”, di
fuoruscita, cercando di riguadagnare un “più spirabil
aere”, ma, come succede in questi casi, da un troppo di
rigore e di chiusura sono passati a praticare discorsi
caratterizzati invece da eccessi di indeterminatezza.
A Barthes spetta il solito merito di essere stato il primo
a intraprendere questa via di fuga, se si pensa ai Fragments
d’un discours amoureux, e alla Chambre claire, da lui
stesa quasi in punto di morte. I vari suoi seguaci, ai tempi
della prigionia semiotica, quali i pur validi Julia Kristeva
e Tzvetan Todrov lo avrebbero seguito abbracciando cause
umanitarie, femministe, pacifiste, scivolando cioè in
discorsi improntati a quella retorica come teoria
dell’argomentazione che Perelman contrapponeva ai suoi
giovani connazionali, chiusi nel culto stretto della
tropologia.
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Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
Lo Straniero, romanzo solare*
di Roland Barthes
Lo straniero è senza dubbio il primo romanzo classico
del
dopoguerra
(intendo
primo
non
solo
cronologicamente ma anche per qualità). Apparso nel
1942, letto da tutti nelle fasi successive alla liberazione,
questo piccolo romanzo ha dato ad Albert Camus la
gloria: si è rimasti legati ad esso come a una di quelle
opere perfette e significative che compaiono durante
certe cerniere della storia per segnalare una rottura e
riassumere una sensibilità nuova. Nessuno ha protestato,
tutti sono rimasti conquistati, quasi innamorati.
L’apparizione de Lo straniero è stato un fatto sociale e il
suo successo ha avuto la stessa consistenza sociologica
dell’invenzione della pila elettrica o quella della stampa
del cuore.
Il libro sembrava all’epoca, forse più di ora,
propugnare una filosofia nuova, quella dell’assurdo. È il
momento in cui il mito della coscienza spaesata «fa
presa», si solidifica, passa dalla penna dei precursori alla
consumazione del grande pubblico intellettuale;
Kierkegaard, l’esistenzialismo tedesco, Kafka, i
romanzieri americani, Sartre, tutta una costellazione di
pensatori o di creatori di origini e di epoche diverse, si
riunisce alla rinfusa nella coscienza del pubblico per
definirvi un mito nuovo della libertà: l’uomo privato dei
suoi alibi; rescisso tramite la sua lucidità dai suoi rifugi
precedenti (Dio, la Ragione), gettato senza volerlo in una
*
Prima apparizione in Bulletin du club du livre français, aprile 1954.
Ora in R. Barthes, Œuvres complètes I, E. Marty, ed du Seuil Paris
2005, p. 478-481. Da ora in nota sempre abbreviato con OC seguito
dal numero romano di riferimento del volume
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
solitudine così grande che egli non aveva potuto fino ad
oggi guardare in faccia, egli arriva a riconoscere in essa
fino al tragico la sua solidarietà con un mondo che non
comprende.
Al momento della sua pubblicazione, Lo straniero ha
costituito una sorta di Digest di tutti questi temi: il suo
eroe, Meursault, collocato nella quotidianità più
mediocre, quella del piccolo impiegato, non vi si rivolta
affatto; egli accetta senza alcuna rimostranza tutti i
servilismi e compie tutti i gesti apparenti del
conformismo sociale; ottempera anche ai riti dei grandi
sentimenti, la filialità, l’amicizia. Ma tutto questo
campionario di gesti proprio della passività Meursault lo
riassume in una sorta di stato secondo, che è quello di
una indifferenza fondamentale rispetto alle ragioni del
mondo. Per esempio, Meursault seppellisce sua madre
ma a ogni gesto convenzionale che egli compie lascia
scorgere la lacerazione del rituale, egli accondiscende
alla scena, non all’alibi morale che tutti vogliono
attribuire ad essa. Ed è precisamente ciò che la società
non gli perdona: Meursault, ribelle, la società lo avrebbe
ammesso; Meursault opaco è il mondo rimesso in
questione, la società non può che rigettarlo con l’orrore
più vivo, come un oggetto sporcato dalla propria alterità,
come il glomerulo intollerabile di un mondo che non si
sopporta se non in famiglia e si sente minacciato così da
voltarsi al minimo sguardo estraneo che vede posarsi su
di sé.
Ciò che Meursault fa cessare con il suo sguardo è
quindi una connivenza: il suo silenzio sulle buone
ragioni del mondo è puro al punto da sottrarlo alla
complicità e da lasciare davanti a lui il mondo allo
scoperto: il mondo diviene l’oggetto di uno sguardo ed è
proprio questo che il mondo non può tollerare: Meursault
diventerà un assassino e il suo processo non sarà tanto
rivolto ad un atto, ma ad uno sguardo: è il voyeur che è
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Semiotropie. Eredità di Barthes
condannato in Meursault, non il criminale. È evidente
come tale promozione dell’uomo, del tutto nuova, poiché
essa è il ritrarsi dello Sguardo e non più rivolta del Gesto
o della Parola, come nella mitologia romantica,
nitzscheana o rivoluzionaria, sembrava accordarsi con i
grandi temi della nuova filosofia: qui come lì, l’uomo
non abbandona né la società per Dio, né Dio per il Male,
né l’uno e l’altra per una utopia: l’uomo resta al suo
posto, solidario con un mondo in cui è tuttavia
assolutamente solo.
Naturalmente per questo nuovo tema era necessario
un nuovo racconto. Poiché la singolarità di Meursault è
legata al disaccordo dei suoi gesti e dei suoi sguardi,
l’atto è promosso al rango di unità fondamentale del
tempo romanzesco e non più le ragioni dell’atto, come
nella psicologia del romanzo tradizionale. Meursault non
è, propriamente parlando, né attore né moralista: egli non
parla di ciò che fa; egli compie i gesti di tutto il mondo,
ma questi gesti familiari sono privati di ragioni, di alibi,
così che è la brevità stessa dell’atto, la sua opacità, che
comunica la solitudine di Meursault.
Non è più un atto in eco che Camus ci propone, un
atto completamente assorbito nella massa delle cause,
delle giustificazioni, delle conseguenze e delle durate; è
un atto puro, inconseguente, separato dai suoi vicini,
sufficientemente
solido per
manifestare
una
sottomissione all’assurdo del mondo e sufficientemente
breve per far esplodere il rifiuto di compromettersi in
illusorie giustificazioni di tale assurdo.
Dieci anni fa l’attualità de Lo straniero era eclatante.
Oggi questo piccolo libro, trasfuso in una forma cara ai
francesi, il romanzo denso e minuto come un monile (La
Princesse de Clèves, Adolphe) possiede una potenza
ancora intatta. Senza dubbio il cammino tracciato da
Camus è stato calcato in seguito da molti; tutta una
letteratura lazaréenne, secondo la giusta formula di
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Cayrol, si è sviluppata, la quale dà all’uomo, credente o
non, la saggezza e la solitudine di un resuscitato. E
tuttavia Lo straniero è ancora un’opera fresca, questo
libro splende oltre le mode che ne hanno potuto
accompagnarne l’apparizione.
Lo rileggevo ultimamente ed ero colpito da ciò che
Peguy avrebbe chiamato, con un termine di elogio, il suo
invecchiamento: l’opera invecchia bene, matura, segue il
tempo e lascia apparire a poco a poco dei poteri nascosti.
Dieci anni, accaparrato come molti altri dalla tesi del
momento, ne avevo colto soprattutto l’ammirevole
silenzio che lo eguagliava alle grandi opere classiche,
tutte prodotte da un’arte della litote. Ora, ai miei occhi,
vi si rivela tutto un calore e vi scorgo un lirismo che
sarebbe stato senza dubbio rimproverato di meno nelle
altre opere di Camus se si fosse stati capaci di vederlo
nel suo primo romanzo.
Ciò che fa de Lo straniero un’opera e non una tesi è
il fatto che l’uomo vi si trova dotato non solo di una
morale, ma anche di un umore. Meursault è un uomo
carnalmente sottomesso al Sole e io credo che si debba
intendere questa sottomissione in un senso quasi sacrale.
Esattamente come nelle mitologie antiche o la Phèdre di
Racine, il Sole è qui esperienza così profonda del corpo
che ne diviene il destino; esso fa la storia e dispone, nella
durata indifferente di Meursault, alcuni momenti
generatori di atti. Non v’è uno dei tre episodi del
romanzo (la sepoltura, la spiaggia, il processo) che non
sia dominato da questa presenza del sole; il fuoco solare
funziona qui con il rigore stesso della Necessità antica.
Come in ogni opera autentica, l’elemento mitico non
cessa di sviluppare le sue figure e non è certo, per essere
precisi, lo stesso sole a condurre Meursault nei tre
momenti del suo racconto. Il sole funerario dell’inizio
chiaramente non è altro che la condizione di un torpida
densità vischiosa della materia: sudore dei visi o
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
trasudamento del catrame sulla strada torrida ove va il
carro, tutto qui è immagine di un ambiente vischioso;
Meursault, come non si scolla dai riti, così non si distacca
dal Sole e il fuoco solare ha la funzione di rischiarare e
di assorbire l’assurdo della scena. Sulla spiaggia un’altra
figura del sole: questo però non liquefa, indurisce,
trasforma ogni materia in metallo, il mare in una spada,
la sabbia in acciaio, il gesto in assassinio: il sole è arma,
lama, triangolo, mutilazione, opposto alla carne molle e
sorda dell’uomo. E nella sala di assise in cui Meursault è
giudicato ecco infine un sole secco, un sole-polvere, il
raggio vetusto dell’ipogeo.
Questo misto di sole e di nulla sostiene il libro ad ogni
parola: Meursault non è solo alle prese con una idea del
mondo, ma anche con una fatalità – il Sole – estensiva a
tutto un ordine ancestrale di segni, poiché il sole qui è
tutto: calore, assopimento, festa, tristezza, potenza,
follia, causa e spiegazione.
È quindi tale ambiguità tra il Sole-Calore e il SoleLucidità che fa de Lo straniero una tragedia. Come nello
Edipo a Colono o nel Riccardo III di Shakespeare la
condotta di Meursault è doppiata da un itinerario carnale
che ci fa aderire alla sua magnifica e fragile esistenza. Il
romanzo è così fondato non solo filosoficamente ma
anche sotto il profilo letterario: dieci anni dopo la sua
pubblicazione qualcosa in questo libro continua a
cantare, qualcosa continua a lacerarci, poiché è proprio
questo il doppio potere di ogni bellezza.
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Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
Sul metodo di Roland Barthes*
di Jean Molino
0.1. SCOPO. Partendo dal «corpus» costituito da tre pagine
critiche di Roland Barthes dedicate a Racine1, vorremmo
tentare di analizzare il senso e i risultati del metodo critico
utilizzato. Dunque non si tratta di formulare un giudizio
generale sul metodo di Barthes, che implicherebbe uno
studio dello stesso tipo dedicato a tutte le opere critiche di
Barthes, e soprattutto un confronto con i suoi saggi teorici;
in effetti, nulla a priori permette d’affermare che la sua
pratica critica corrisponda esattamente al suo programma
teorico, così come è esposto per esempio nell’ultima parte
di Sur Racine, Histoire ou littérature, o in Critique et
vérité. Noi eviteremo dunque ogni incursione al di fuori
del corpus sopra delimitato e ci proponiamo di cogliere le
procedure, esplicite o implicite, utilizzate nelle tre pagine
indicate.
0.2.
NOTA. Se ci è permesso, in effetti, di porci per un
istante sul terreno delle affermazioni che non tenteremo di
giustificare nel corso di questa esposizione, ma che ci
sembrano essenziali, nulla può risultare più utile che un
tipo d’analisi rigorosa, che tenti di ridurre in procedure
oggettive, riproducibili, e, al limite, meccanizzabili, dei
«discorsi critici» la cui ambiguità fondamentale risiede in
una doppia pretesa: il rigore dell’approccio scientifico da
una parte e la libertà della creazione letteraria; ora, allo
stato attuale del lavoro scientifico — solo criterio valido
* In La Linguistique, vol 5, fasc 2, 1969, pp. 141-154.
1
Sur Racine: a) «Il y a trois Méditerranées… Le vent ne se léve pas»;
b) Cette géograhie soutient un rapport... tout ce qui n’est pas elle-même.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
delle procedure — ci sembra impossibile e pericoloso
conciliare queste due esigenze.2
METODO. Non è possibile, per uno studio parziale,
esporre e fondare il metodo che andiamo a utilizzare, e che
d’altronde giustificheremo. Ma è necessario indicare un
certo numero di principi e di presupposti senza i quali il
nostro metodo apparirebbe esso stesso come soggettivo o
non fondato.
I.
Ogni studio stilistico — e ciò si intende per tutte le
forme di spiegazione del testo, come pure i diversi tipi di
ricerche censite per esempio da H. Hatzfeld (Bibliografia
crítica de la nueva estilística) — fa parte di ciò che
possiamo chiamare la parafrasi: cioè (definizione
approssimativa e non corretta in una prospettiva di
formalizzazione) ogni procedimento che consiste nel
rendere conto di un testo attraverso un’organizzazione
diversa — e più spesso «estrattiva» — dei suoi
significanti. In effetti, tutti i moderni metodi di studio
stilistico sembrano accordarsi su un primo principio
metodologico: rendere conto del testo mediante il testo
stesso. Anche se poi le strade divergono, e spesso non sono
più fedeli con esattezza a questa esigenza tuttavia
proclamata, la si può considerare come una necessità di
ogni studio stilistico. Così, se ci si pone secondo un punto
di vista che abbraccia tutti i metodi (statistico,
psicanalitico, ecc.) utilizzati, appare che, formalmente,
essi consistono nell’estrarre da un corpus C un insieme di
elementi E (la cui unità può risiedere in un qualsiasi
I.1.
2
Ringrazio J.-C. Gardin, senza il cui insegnamento non avrei avuto
l’idea di una tale analisi, G.-G. Granger e G. Mounin di avermi dato
l’opportunità di trarre profitto dalla loro scienza e dalle loro
osservazioni. Il metodo di Michel Riffaterre, al quale deve essere
dedicato uno studio indipendente, e per il quale si pongono problemi
diversi, sarà qui lasciato volontariamente da parte.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
carattere che li accomuni), considerato come
«particolarmente significativo» (è impossibile qui
precisare in anticipo questa nozione, che obbligherebbe a
entrare nel dettaglio delle strade utilizzate dai diversi
critici) e ad affermare, più o meno nettamente, che la
«chiave» dell’opera, la sua significazione, è data
dall’insieme di elementi E e, all’occorrenza, dalla struttura
interna di questo campo di elementi. Si tratta dunque, per
la maggior parte del tempo, di una procedura d’estrazione,
a partire da C, di una frazione qualsiasi degli elementi
significanti che lo costituiscono — è questa procedura in
generale che noi chiamiamo parafrasi, che possiamo
schematizzare nel modo seguente: C (corpus) = un insieme
finito di termini che, per semplificare e in maniera non
rigorosa, diremo essere parole (ma che possono essere
anche elementi delle parole ecc.) costituenti una serie: C=n
parole, o C=n M sotto la forma M1+M2+M3 (+ significante
la successione lineare).
La parafrasi consiste, sia nell’organizzare in modo
diverso il testo: M1+M2+M3…→ M2+M3…, sia, più
spesso, a estrarre, mediante procedure più o meno
rigorose,
un
sottoinsieme
E
di
elementi:
C=M1+M2+M3+M4+M5,
da
cui
l’estrazione:
E=M2+M4+M6 (si tratta qui di una procedura elementare
d’estrazione, ma l’operazione può essere rappresentata
attraverso una scelta operata nell’insieme delle parole del
testo). Più semplicemente, stante un corpus come serie di
parole, la parafrasi consiste sia in una permutazione di
questa serie, sia nell’attrazione di una sottoserie, seguita o
no da una permutazione.
La «stilistica» appare nell’affermazione, più o meno
netta, che questo sottoinsieme estratto E «fa meglio
comprendere il testo», «chiarisce il senso del testo», «lo
spiega» (altrettante espressioni vaghe che non possiamo
studiare qui), ne fornisce, se si vuole, un «modello» più o
18
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
meno valido3. Noi non entreremo qui nello studio del
senso che possiamo attribuire a questa procedura:
ammettiamo provvisoriamente che questa estrazione
fornisca un «modello descrittivo» del testo.
I.2.
Vediamo allora il primo problema che si pone allo
studioso di stile o al critico: quello della scelta. Noi
intendiamo con ciò la procedura che permette di estrarre
dalla serie C una serie E. Nella maggioranza dei casi —
salvo gli studi statistici di cui Guirard e più recentemente
Muller hanno fornito esempi — il critico non propone
nessuna procedura rigorosa. La procedura che si basa su
«categorie grammaticali» non è da ritenere «meglio
fondata» di altre o, per esempio, quella che si sviluppa per
nuclei semantici. In ogni caso, esse devono essere
coscienti della loro ambiguità e della loro insufficienza
metodologica. Il procedimento che ci sembra rendere
conto in modo più ampio della effettiva condotta del
critico è il concetto proposto da Starobinski di «lettura
attenta», che ritroviamo ugualmente in Raymond, Poulet o
Mauron: si tratta di lasciarsi pervadere dal testo fino a
vedere o sentire emanare delle regolarità, delle ricorrenze
di parole, di espressioni, di schemi di parallelismi o di
opposizioni, di microstrutture ecc.
I.3.
Il secondo problema da risolvere per la critica è quello
della strutturazione dell’insieme E estratto. Neanche qui
sembra in genere essere utilizzata una procedura rigorosa:
vediamo apparire schemi presi in prestito dalla linguistica
(opposizioni ecc) ma senza che sia proposto un protocollo
d’organizzazione dell’insieme.
3
È in questo momento in effetti che la critica, per «spiegare» il testo,
mette in rapporto la «struttura» (termine usato qui in senso vago) di
questo insieme E con la situazione dell’autore, la sua biografia, il suo
inconscio, il suo ambiente, la tradizione letteraria ecc.
19
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
I.4.
Infine, ed ecco il termine e quasi la prova della
procedura critica, mettiamo in rapporto l’insieme
strutturato E e il corpus C considerando il primo come
modello «valido» del secondo: questo rapporto costituisce
il terzo problema della critica, che non è affatto risolto con
un approccio preciso o oggettivabile.
I.5.
Al termine di questo rapido inventario appaiono le
articolazioni della ricerca critica che conviene analizzare
più nello specifico per rendere conto dell’approccio di
questo o quel critico, e dunque le questioni che conviene
porre: 1) quale è il corpus C da cui parte? 2) che scelta
opera e secondo quale procedura per formare l’insieme E
estratto? 3) come struttura questo insieme E? 4) come,
infine, mette in relazione questo insieme E e il corpus di
partenza?
I.6.
Nel corso dell’analisi del metodo di Barthes,
separeremo dall’analisi i commenti personali — e non
giustificati dal metodo che utilizziamo — che saremo
portati a fare, facendoli precedere dall’indicazione
COMMENTO.
II.1.
Il Corpus C, da cui Barthes parte nel saggio scelto,
pone già dall’inizio un problema. La prima frase di Barthes
è: Il y a trois Méditerranées dans Racine: l’antique, la juive
et la byzantine. A partire da questa prima frase, l’analisi si
pone su tre livelli: quello del significante linguistico (che
è, lo sottolineiamo, mare e mai Mediterraneo nell’opera di
Racine), quello del significato (il «mare», insieme di tratti
che liberano n occorrenze di «mare» nelle tragedie di
Racine) e quello del referente (ambito di ciò che gli antichi
filologi chiamavano i realia in Omero o Virgilio, e che è
qui il mare-oggetto, che si arricchisce di tratti non derivati
da occorrenze della parola, ma presi in prestito da un
sapere dell’oggetto esterno all’opera di Racine).
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
La serie del primo paragrafo di pagina 15 si pone
espressamente al terzo livello, quello del referente: «ces
lieux que Racine n’avait jamais vus», ai quali viene a
mescolarsi in due riprese il testo di Racine: «Trézène, où
Phèdre se meurt…», e «dans Iphigénie, tout un peuple
reste prisonnier de la tragédie».
Il Corpus C di Barthes è dunque allo stesso tempo: 1)
il «testo» delle tragedie di Racine, 2) i presunti significati
organizzati e coerenti del teatro di Racine, 3) il contesto in
senso lato, cioè il «mondo», referente che indica o al quale
allude il testo del teatro di Racine.
COMMENTO: a) è dunque permesso, fin d’ora, di
rimpiangere l’ambiguità essenziale dell’approccio critico di
Barthes che, in questo momento, non ci appare né rigoroso,
né strutturale nel senso corrente del termine: non è possibile
sapere, in nessun momento, a quale livello d’analisi si ponga
Barthes.
b) La classificazione in tre Mediterranei è «presente»
nell’opera di Racine, cioè rivelabile mediante un’analisi
semantica del teatro? Non ci viene fornita alcuna indicazione
al riguardo.
c) I tratti ricordati per evocare la Grecia sono quelli della
Grecia di oggi («il suffit de visiter aujourd’hui la Grèce pour
comprendre la violence de la petitesse…») e si afferma,
senza dimostrazione, che corrispondono («s’accorde») alla
natura della tragedia raciniana: un approccio rigoroso
avrebbe richiesto qui uno studio sistematico dei «tratti» del
paesaggio raciniano, a partire dal teatro-corpus, e una
«omologia» di struttura di questo paesaggio con il paesaggio
della Grecia così come può descriverlo un geografo o un
turista di oggi.
d) Possiamo evidentemente pensare che, per noi, la tragedia
di Racine evoca la Grecia, e siccome la Grecia, per noi, è
questa Grecia di oggi, «tertre aride, fortifié de pierraille», la
tragedia di Racine è dunque questa Grecia di oggi. Vediamo
dunque apparire un altro livello, il quarto, quello del
significato dell’opera di Racine per noi, oggi. In effetti, non
c’è alcun dubbio che noi «vediamo» un po’ attraverso
Nietzsche, un po’ attraverso Lord Evans ecc. L’analisi di
Barthes potrebbe dunque condurre a uno studio di tipo psicosociale: quale è l’immagine della Grecia nella borghesia
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Semiotropie. Eredità di Barthes
intellettuale francese del 1960? Così si costituirebbe un
elemento di questo studio, mai svolto o poco più, di rifrazioni
diverse di un’opera letteraria in società e a epoche diverse.
e) Solo, se lo si colloca nell’ambito della letteratura,
converrebbe entrarvi e porre la domanda: per Racine e per i
suoi contemporanei (non si tratta qui della personalità di
Racine, ma di un’immagine intermedia in un certo strato
della società in un certo momento), la Grecia era la stessa
Grecia che è per noi? Questo sarebbe l’oggetto di un altro
studio, dello stesso tipo del precedente, e di cui bisognerebbe
confrontare i risultati prima di costruire una Grecia mista,
che sia allo stesso tempo immagine di ieri e di oggi.
f) In effetti, e senza pregiudicare i risultati di una tale ricerca,
si può pensare che la Grecia descritta da Barthes in questo
primo paragrafo è una Grecia «vista» attraverso Hölderlin,
Nietzsche, ecc, e non la Grecia, che costituirebbe
miracolosamente un’idea assoluta, atemporale e definitiva, e
che sarebbe allo stesso tempo la nostra Grecia, la Grecia di
Racine, e la Grecia eterna.
II.2.
Il seguente paragrafo di Barthes è il primo di una serie
di quattro che portano il titolo comune: «La Chambre».
Con questo paragrafo appare un nuovo ambito, che ci
obbliga a far entrare un nuovo elemento nel corpus C da
cui Barthes parte per studiare Racine: «Cette géographie
soutient un rapport particulier de la maison et de son
extérieur, du palais racinien et de son arrière-pays» (p. 15).
Come dire che deve essere preso in considerazione come
elemento significativo dell’opera, lo «scenario» dell’opera
di Racine. Ma questo scenario è esso stesso considerato da
molteplici punti di vista, che non sono mai nettamente
separati: il primo livello, che non è mai esplicitamente
menzionato da Barthes ma che è inestricabilmente legato
agli altri, è quello delle indicazioni sceniche
espressamente citate dall’autore (o, si potrebbe
aggiungere, dai macchinisti dell’epoca di Racine); in
secondo luogo, ci sono le indicazioni che possiamo trarre
dallo stesso testo delle tragedie di Racine. (Cf. la nota 1 di
pag. 16: la funzione della Camera reale è ben espressa in
questo verso di Esther:
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
«Au fond de leur palais leur majesté terrible
Affecte à leur sujets de se rendre invisible;
Et la mort est le prix de tout audacieux
Qui sans être appelé se présente à leurs yeux»4 (I, 3).
Infine, il terzo livello è quello del referente, gli oggetti
camera, anti-camera e porta, provvisti di tutta la ricchezza
di una significazione extralinguistica multipla, giunta da
tutte le impronte del sapere (in particolare, dalla sociologia
dei miti e dei riti alla psicanalisi, come testimoniano i
termini «trasgressione», «simbolo dello sguardo
mascherato» ecc.) Questi oggetti sono d’altronde
esplicitamente dotati di uno statuto particolare, che li isola
dal contesto e li innalza come entità: la maiuscola con cui
iniziano testimonia che sono Camera, Anti-Camera e Porta
ipostatizzati, che partecipano dell’essenza di una
Cerimonia tragica.
COMMENTO: a) questa estensione del testo agli elementi
della scena pare legittima nel suo principio: quale che sia la
difficoltà inerente al compito di determinare con precisione
gli elementi significativi di un allestimento (cf. le difficoltà
che si incontrano provando a costituire una semiologia
dell’immagine o del cinema), è necessario fare entrare questi
elementi in una descrizione, in una “spiegazione” dell’opera
teatrale. b) Ma il metodo utilizzato da Barthes ci aiuta a
realizzare questo studio? Non mi sembra. Infatti, il risultato
più chiaro del passaggio continuo da un livello di
significazione a un altro è di rendere, nel senso pieno del
termine, gli enunciati di Barthes indecidibili. Prendiamo la
frase seguente: «il y a d’abord la chambre: reste de l’antre
mythique, c’est le lieu invisible et redoutable où la Puissance
est tapie: chambre de Néron, palais d’Assuérus, Saint des
Saints où loge le Dieu juif; cet antre a un substitut fréquent :
l’exil du Roi, menaçant parce qu’on ne sait jamais si le Roi
4
Nel profondo del loro palazzo la loro terribile maestà/ finge di rendersi
ad essi invisibile;/ e la morte è il prezzo di tutti gli audaci/ che senza
esser chiamati si presentano ai loro occhi (I, 3).
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Semiotropie. Eredità di Barthes
est vivant ou mort (Amurat, Mithridate, Thésée)» (pp. 15 e
16). Si possono (senza tentare qui di esplicitare tutti i rapporti
che costituiscono «il senso» di questa frase) estrarre almeno
le proposizioni seguenti: 1) c’è la camera, 2) questa camera
si ritrova, in forme analoghe, nella camera di Nerone, il
palazzo di Assuero, il Santo dei Santi del Dio ebraico, 3)
questa camera è il luogo invisibile e temibile in cui la
Potenza è appostata; 4) essa è il resto dell’antro mitico; 5)
questa camera ha un sostituto frequente (la proposizione
espressa da Barthes «cet antre a un substitut fréquent»
implica un’importante precisazione apportata a 4), cioè: 6) la
Camera è antro mitico; 7) l’esilio del Re è un sostituto della
Camera-Antro; 8) questo esilio è minaccioso poiché non si
sa mai se il re è vivo o morto.
Ritroviamo allora l’inestricabile diversità dei livelli
d’analisi:
A) le proposizioni 1 e 2 rinviano a un dato d’ordine
lessicale: c’è un significante camera nel corpus raciniano
(testo e scena).
B) le proposizioni 1 e 2, così come le proposizioni 3, 6 e
8, rinviano a un’analisi semantica dei “valori” connotativi
della Camera e dell’esilio del Re nel corpus raciniano.
C) Le proposizioni 5 e 7 affermano che c’è equivalenza tra
la Camera e l’esilio del Re all’interno del corpus raciniano:
livello d’analisi del contenuto che implica una procedura
di “sostituzione” o di equivalenza.
D) Infine, la preposizione 4 fa uscire dal campo del testo
di Racine e fa allusione a un sapere d’ordine storico e
sociologico. È dunque impossibile pronunciarsi sul valore
di verità della frase citata, poiché è composta da una
molteplicità di proposizioni che prendono il loro valore in
ambiti diversi. Si spiegano senz’altro così le difficoltà nel
“criticare” un tale lavoro: ci sono poche possibilità che
frase oggetto di critica, critica e risposta si pongano sullo
stesso livello d’analisi.
II.3. Conclusione parziale: il “corpus” su cui lavora Barthes
in queste tre pagine è dunque costituito principalmente da
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Semiotropie. Eredità di Barthes
1) il testo di Racine considerato secondo tre livelli
d’analisi: A) significanti linguistici, B) significati
linguistici più o meno sistematizzati all’interno del testo,
C) “referenti” del testo raciniano secondo A e B. 2) Lo
scenario di Racine, considerato anch’essa secondo tre
livelli: A) scena espressamente indicata in quanto tale; B)
scenario “indotto” dal testo di Racine; C) referenti di tale
scena secondo A e B.
III.1.
Il secondo problema è ora di chiarire le procedure
attraverso cui Barthes, all’interno del corpus C così
costituito, sceglie un sottoinsieme E (o una serie di insiemi
E) cui conducono poi la sua analisi e la sua spiegazione.
III.2. Il principio che guida la scelta è qui un principio che
si pone al livello semantico: Barthes estrae dal corpus le
indicazioni in rapporto ai “luoghi tragici” (p. 15).
COMMENTO: Contrariamente alle apparenze, la scelta
guidata da un principio semantico non è meno “esatta” né
meno giustificabile rispetto a un principio grammaticale
(morfologico o sintattico). Se gli esperti di stile preferiscono
partire da un’analisi fondata sullo studio di una categoria
morfologica o sintattica, è nel pensiero che gli inventari
sono, in questo caso, limitati, e che la procedura di scelta
(questa parola deve entrare o no nell’inventario?) è, almeno
di diritto, processo di decisione, nel senso logico del termine.
Ma, ciò che qui è “guadagnato” in esattezza è perduto sotto
altri profili, poiché lo studioso di stile, a partire
dall’inventario di significanti, deve poi fare un “salto” nel
senso: le garanzie che circondavano la procedura di scelta
non vengono più in soccorso. Si spiega forse così il carattere
deludente degli studi di stile troppo esclusivamente fondati
su categorie grammaticali. Ad ogni modo, un principio
semantico di scelta non sembra meno valido di un altro .
III.3.
Dunque come si fa questa scelta? Ci limiteremo a
considerare il paragrafo (p. 15-16) che studia il primo
luogo tragico, la camera. Secondo quanto già evidenziato
sopra, gli elementi rilevati si pongono indifferentemente al
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Semiotropie. Eredità di Barthes
livello del significante, del significato e del referente, del
testo e della scena. Ma, ammettendo la confusione dei
livelli che conferisce uno stesso valore a tutti questi
elementi, in che modo Barthes ritiene che tali elementi
abbiano un “rapporto semantico” con la camera?
Sembra che ci sia un inventario del campo semantico
“camera” nel corpus raciniano che si articola in due modi
di procedere: A) c’è un significato “camera” nelle tragedie
Britannicus, Esther e Athalie. B) in altre tragedie di
Racine, c’è un “sostituto” della camera, l’esilio del Re,
come in Mithridate, Phèdre e Bajaset.
Ora, esistono undici tragedie di Racine; possiamo
domandarci se Barthes ha proceduto per campionamento,
o se l’analisi non porti che a queste sei tragedie; è
stupefacente notare che in La Thebaïde, Alexandre le
Grand (esempi forse discutibili nella misura in cui queste
sono opere giovanili) e soprattutto in Andromaque,
Bérénice e Iphigénie, non c’è né esilio del Re, né “le lieu
invisible et redoutable où la Puissance est tapie”: Pirro,
Tito e Agamennone sono qui, la loro potenza si manifesta
nel gran giorno, e non ha bisogno di nascondersi, né di
essere “un segreto”, né di essere “invisibile”.
In ogni modo, ammettendo che Barthes possa provare
che le altre cinque tragedie di Racine offrono lo stesso
luogo tragico, la camera, ciò non potrebbe essere che al
prezzo di una nuova sostituzione che, come la prima (la
sostituzione camera-esilio reale), non avrebbe valore
preciso se non nella misura in cui si indichi una procedura
di commutazione o di equivalenza.
III.4.
La stessa analisi potrebbe essere condotta sui due
paragrafi seguenti, che considerano un altro luogo tragico,
l’Anti-Camera, e la Porta che separa la camera dall’AntiCamera. Non c’è dunque alcuna procedura precisa di
scelta nel corpus, neanche il vecchio principio lansoniano
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Semiotropie. Eredità di Barthes
degli inventari completi che, nel caso di Racine, non sono
impossibili.
IV.1.
il terzo problema posto è quello di determinare le
procedure grazie alle quali Barthes struttura il
sottoinsieme (o i sottoinsiemi) così “estratti” dal corpus.
COMMENTO: a) è dunque più fondato qui fare riferimento a
questo problema poiché il titolo della sezione a cui sono
improntate le pagine studiate è “I. La Structure”. Lo scopo
perseguito da Barthes è dunque proprio di strutturare
l’insieme di elementi definiti secondo il termine di scelta in
precedenza individuato. b) Il senso delle parole “struttura” e
“strutturare” pone evidentemente un problema preliminare.
Rinviamo al libro di Granger, Pensée formelle et sciences de
l’homme, e alla prefazione della riedizione; il termine
struttura deve essere, per il momento, riservato alle strutture
matematiche e alle strutture fonologiche. Georges Mounin
attira l’attenzione sui pericoli di un utilizzo frettoloso e
approssimativo dello strutturalismo linguistico nelle scienze
umane (La Nouvelle Critique, settembre 1967).
IV.2.
Lasciando da parte la prima struttura presentata in
queste pagine, quella dei “tre Mediterranei”, ci limiteremo
alla strutturazione dei “luoghi tragici”; Barthes, dalle
indicazioni che estrae dal corpus eterogeneo che abbiamo
studiato, ricava l’esistenza di tre luoghi tragici: la Camera,
l’Anti-Camera, e l’Esterno.
COMMENTO: Il punto di partenza, ancora qui, e come
avviene spesso nell’opera di Barthes, è interessante, poiché
supera e cerca di approfondire le prospettive tradizionali:
«Bien que la scène soit unique» vi sono più luoghi tragici.
Cioè la scena propriamente detta non può essere isolata dagli
altri luoghi che essa evoca, interno del palazzo e mondo
esterno; la scena — lo abbiamo già detto molto tempo fa —
è per il teatro classico un’anticamera, un luogo di passaggio.
È dunque logico interessarsi ai rapporti che intercorrono tra
questi due “luoghi tragici”: possiamo da questo parlare di
struttura? No. Si tratta per il momento solo di una descrizione
allargata, che ha lo scopo di mostrare il peso dell’esterno in
senso lato (palazzo, camera o mare) sui personaggi e l’azione
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della tragedia. Non c’è struttura (o piuttosto sistema) se non
a partire dal momento in cui questi luoghi tragici, oggetti
definiti, intrattengono rapporti definiti e costanti; la struttura,
secondo una definizione minima, è «un ensemble de rapports
considérés comme caractéristiques et définis sans
ambiguité».
IV.3.
Barthes definisce ciascuno dei luoghi tragici.
Prendiamo come esempio la definizione della camera:
«Cette chambre est à la fois le logement du Pouvoir et son
essence, car le Pouvoir n’est qu’un secret: sa forme épuise
sa fonction; il tue d’être invisible; dans Bajazet, ce sont les
muets et le noir Orcan qui portent la mort, prolongent par
le silence et l’obscurité l’inertie terrible du Pouvoir caché»
(p. 16). Il susseguirsi delle proposizioni si presenta come
una definizione d’oggetto, o piuttosto di una categoria
d’oggetto ipostatizzata, la camera: una tale definizione
deve dunque poter essere sottoposta — e ci scusiamo per
dover esplicitare tali evidenze — a verifica, cioè tutte le
camere della tragedia raciniana devono rispondervi. Senza
tornare alle tragedie in cui tale camera sembra difficile da
rintracciare, possiamo dire che la “camera” così descritta
è un equivalente, un “sostituto” dell’esilio del Re? Nel
caso di Teseo per esempio, come affermare e come
giustificare che «le Pouvoir n’est qu’un secret: sa forme
épuise sa fonction; il tue d’être invisible».
Solo tre tragedie — Britannicus, Esther e Athalie —
presenterebbero una Camera che corrisponde alla
definizione: ci si potrebbe ancora legittimamente
domandare cosa voglia dire, nel senso normale del
termine, la proposizione «sa forme épuise sa fonction» e a
quale contenuto esplicito essa rinvii.
Ultimo problema: perché dare il nome di “camera” a
questo luogo di soggiorno della Potenza? Barthes
enumera: “chambre de Néron, palais d’Assuérus, Saint des
Saints où loge le Dieu juif”. «Camera» è ben lontano
dall’essere denominatore comune di questi tre luoghi, e
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
vediamo chiaramente quali connotazioni psicanalitiche
introduca tale termine, privilegiato senza che sia fornita
alcuna giustificazione.
COMMENTO: si vede d’altronde abbastanza facilmente come
si costruiscono le analisi di Barthes: attraverso una sorta di
pressappoco e di scivolamenti, si parte da una frase, una
scena, una parola di Racine, una battuta di spirito o più
spesso una metafora, da cui si estrae un “être de raison” che
viene generalizzato senza alcuna verifica. Qui, l’idea del Dio
nascosto, l’immagine del serraglio e i lavori di Mauron sono
sufficienti a costruire una Camera, luogo della Potenza, che,
come abbiamo visto, non si ritrova in Andromaque né
Bérénice. Ora, poiché un’esperienza (un contro-esempio)
contraddice un’ipotesi, sembra naturale — per il critico come
per l’uomo di scienza — cambiare l’ipotesi...
IV.4.
lo studio del secondo luogo tragico, l’Anti-Camera,
conduce alle stesse conclusioni: la definizione fornita è, a
rigore, soddisfacente solo per un numero limitato di
tragedie.
COMMENTO: sottolineiamo innanzitutto, oltre al gioco delle
maiuscole di cui Alain direbbe che fa parte di questi mezzi
di cui fanno uso gli Importanti per approfittare degli ingenui,
l’ortografia caratteristica: Anti-Camera in due parole — con
due maiuscole — è un ritorno all’etimologia? (ma cosa rivela
questo ritorno?) sembra ben chiaro che l’anticamera si trova
prima, davanti alla camera…).
Qui, l’Anti-Camera è definita come «espace éternel de
toutes les sujétions, puisque c’est là qu’on attend». Certo,
è in qualche modo vero; ma è anche, esattamente, il luogo
in cui ci si incontra, ci si ritrova, (“oui, puisque je retrouve
un ami si fidèle…”). È da dire che tali definizioni, vere qui
e false là, vere in un senso e false in altro, non hanno alcun
interesse, alcun valore se esse non si propongono
esplicitamente di rendere conto di un insieme dato di
elementi, cioè se esse non offrono nello stesso tempo un
estratto completo di qusti elementi e una procedura di
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
verifica delle ipotesi. Si può dire dell’Anti-Camera di
Racine esattamente ciò che si vuole; ciò avrà sempre un
valore eccitante per lo spirito, potrà raggiungere con più o
meno frutto dei risultati inattesi: mai una tale definizione
avrà un senso valido né utilizzabile.
COMMENTO: la mancanza di rigore nella costituzione del
corpus o nella scelta di un sotto-insieme all’interno del
corpus non invalida necessariamente la tappa seguente: in
effetti, allo stato attuale dei metodi d’analisi, è permesso
proporre, in modo del tutto empirico, un modello (oggetti e
strutture) ottenuto senza rigore ma efficace per rendere conto
del corpus. È allora necessario che oggetti e strutture siano
definiti in modo chiaro e distinto. Non è questo il caso.
IV.5.
In cosa consiste dunque la “struttura” dei luoghi
tragici? Per il momento, le due definizioni non
costituiscono una struttura. I rapporti tra Camera e AntiCamera sono materializzati mediante la Porta. È
sorprendente costatare che le relazioni tra Camera e AntiCamera sono esse stesse definite come un oggetto tragico:
la struttura appare come una semplice configurazione in
cui il solo rapporto è quello della successione lineare; ci
sono tre oggetti-luogo: Camera, Porta e Anti-Camera che
si succedono d’infilata e che i personaggi percorrono in
tutti i sensi.
COMMENTO: ritroviamo evidentemente le difficoltà già
riscontrate per definire con precisione questo nuovo oggettorelazione, che è il supporto di determinazioni ora
comodamente contraddittorie («la contiguité et l’échange»),
ora troppo vaghe («on y veille, on y tremble»); in ogni modo,
non si sfugge mai, in base all’estratto di tutte queste
determinazioni, alla conclusione secondo cui si tratta di
elementi improntati a quello o a un altro passaggio di
un’opera, e impropriamente dati come caratteristici della
totalità dell’opera di Racine. Allo stesso modo, la procedura
che permette di “sostituire” il Velo o il Muro alla Porta non
è in alcun modo indicata.
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Semiotropie. Eredità di Barthes
IV.6.
c’è dunque un altro livello in cui gli oggetti
intrattengono tra loro relazioni: è quello in cui questi
oggetti tragici — luoghi che definiscono una geografia —
sono a loro volta il terreno in cui agiscono dei personaggi
e il simbolo incessante delle loro azioni reciproche. I
rapporti tra luoghi tragici non esistono che nella misura in
cui si iscrivono nello spazio e simbolizzano le relazioni tra
personaggi. La struttura dei luoghi tragici non è che
l’incarnazione spaziale di modi di essere o di situazioni
psicologiche divenuti cose. Sarebbe a dire che la Porta non
è più porta, il Muro non è più muro — e allora capiamo
perché Barthes scrive queste parole con la maiuscola — la
Porta, il Muro non sono più niente di materiale (“le Voil
… n’est pas une matière inerte …”), bensì la concrezione
ingannevolmente materiale di una significazione
esclusivamente psicologica.
COMMENTO: vediamo dunque l’ambiguità fondamentale di
una tale “struttura”: come struttura spaziale, offre la
resistenza e la coerenza di un’anatomia che supporta la
tragedia; ma qui, il contenuto specificamente spaziale della
struttura è pura successione, cioè la struttura più povera che
si possa immaginare e che non ci apporta alcun chiarimento
sulla tragedia. Inoltre, dietro e sotto i termini spaziali si
nascondono realtà psicologiche (qui psicanalitiche),
cosificate e indurite per diventare oggetti. Si tratta di
riprendere approssimativamente i risultati d’analisi come
quelle di Mauron e, per eliminare ciò che potrebbe apparire
come uno psicologismo, di trasportare il contenuto di queste
analisi nella definizione di oggetti e luoghi del mondo.
Straordinario avatar di uno psicologismo che, per evitare la
tradizionale analisi psicologica del teatro classico,
psicologizza totalmente il mondo della tragedia.
Comprendiamo così come tali “strutture” possono
presentarsi di volta in volta come analisi “rigorosa” di oggetti
e come ricche di senso tragico che veicolano i personaggi; lo
pseudo rigore dell’analisi conduce tutta la “significazione”
molteplice e irriducibile delle passioni e delle relazioni
umane.
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Semiotropie. Eredità di Barthes
V.1.
Ultimo problema: come si attua la messa in rapporto
tra la strutturazione di E operata secondo procedure in
precedenza evocate e l’insieme del corpus raciniano? Cioè
come e in cosa E rende conto di C e lo “spiega”?
COMMENTO: ecco dunque una delle articolazioni essenziali
di ciò che chiamiamo — impropriamente — lo strutturalismo
nelle scienze umane; è anche l’elemento che segna più
nettamente la differenza tra le strutture in senso stretto,
matematiche e fonologiche, e le strutture in senso ampio
(sistemi nel senso stabilito da Granger e pseudo-strutture).
La struttura matematica ha un senso immanente,
precisamente localizzato nella struttura stessa, con appena
questo margine di significazione (nel senso di Granger) che
è il residuo non tematizzabile su cui si fonda il contenuto
dell’evidenza di una relazione o di un processo. Al contrario,
la “struttura” nelle scienze umane ha un suo senso al di fuori
di se stessa: inizialmente sembra avere la funzione di
“spiegare” un oggetto o una costellazione di oggetti;
sembrerebbe dunque dare il senso di questo insieme di
oggetti. Infatti, ci si accorge presto che la struttura qui non
può esistere da sola: essa non esiste che nel rapporto e
attraverso il suo rapporto con gli oggetti di cui deve rendere
conto. Una struttura di gruppo o ad anello ha un senso
interamente (o quasi) fondato su assiomi che la definiscono;
allo stato attuale del lavoro scientifico, una struttura, nelle
scienze umane, non ha senso che attraverso gli scambi furtivi
che intrattiene con gli oggetti che vuole strutturare. Il
“senso” di queste strutture è intriso di “significazioni”
improntate agli oggetti che si vogliono spiegare.
Da ciò il procedimento strutturalista: esso consiste
nell’affermare una “omologia” tra strutture improntate a
livelli diversi di oggettività; così Goldmann mette in
relazione una struttura ideologica, quella delle tragedie di
Racine o delle Pensées di Pascal, con una struttura sociale,
quella del giansenismo di toga nella Francia del XVII secolo.
Cosa significa qui il termine “omologia”? Si tratta di
un’analogia in senso vago: la struttura è stata definita
mediante relazioni ambigue tra oggetti non rigorosamente
definiti, in modo da costituire un essere misto che, al prezzo
di incessanti scivolamenti, può adattarsi sia a realtà
ideologiche sia a realtà sociali; non c’è “omologia” di
struttura poiché la struttura è stata costituita per rendere
conto di una corrispondenza tra due ambiti di realtà e grazie
32
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
a determinazioni che partecipano più o meno nettamente dei
due ambiti.
Ora, la descrizione di un ambito di oggettività e,
all’occorrenza, la sua organizzazione in struttura non hanno
valore se non si separa il risultato dai processi attraverso cui
questo è stato raggiunto; per il momento, non c’è
somiglianza tra le procedure della storia della letteratura,
della sociologia della conoscenza, della storia della mentalità
e degli studi sociali: è solo a prezzo di un’ipostasi, che separa
e isola i risultati dal protocollo sperimentale o teorico del
procedimento, che possiamo “mettere in rapporto” oggetti e
relazioni che sono, in senso stretto, incommensurabili. Da
ciò, la necessaria e fondamentale ambiguità di questa messa
in rapporto che non sembra spiegare un livello di oggettività
mediante un altro se non laddove la struttura che permette
questo passaggio era, fin dall’inizio, fatta “a piacere” per
renderlo possibile. Lo “strutturalismo” di oggi si fonda su
una perpetua e essenziale metábasis eis állo génos.
V.2.
Abbiamo visto che la “strutturazione” dei luoghi
tragici in Camera, Anti-Camera ed Esterno non poteva
essere considerata come una “immagine” utilizzabile e
valida del Corpus raciniano. La volontà di spiegare era già
presente nella scelta e nella strutturazione dell’insieme di
elementi considerati come pertinenti. Si potrebbe
abbastanza logicamente riprendere il termine alla moda di
“lettura” per definire tale metodo, più o meno
consciamente applicato oggi, ma senza riflessioni sulle sue
implicazioni metodologiche: si tratta, come abbiamo visto,
di affermare che tale o tal’altra strutturazione locale di
un’opera è la “chiave” di quest’opera. Ora, la struttura
locale che costituisce l’analisi dei luoghi tragici non potrà
servire a spiegare, decriptare o descrivere l’opera di
Racine, se non nella misura in cui essa veicola
surrettiziamente tutta la significazione di cui essa vuol
rendere conto. Le analisi precedenti lo hanno mostrato a
sufficienza, la strutturazione dei luoghi tragici figurata da
Barthes spiega il teatro di Racine in e attraverso ciò che
essa aveva improntato al contenuto di questo teatro: essa
ritrova nel teatro ciò che essa aveva già preso all’inizio del
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
procedimento e già trasformato a priori per i bisogni della
sua “lettura”.
COMMENTO: è dunque consentito distinguere in questa
pagine di Barthes da una parte un metodo, dall’altra delle
intuizioni, degli avvicinamenti, delle spiegazioni. Il metodo
non può apparire come la descrizione precisa e rigorosa
dell’Homo racinianus (p. 9), non può essere considerato più
come metodo “strutturale” (p. 9) in senso stretto. Resta così
solo un’utilizzazione frammentaria e approssimativa della
tematica psicanalitica; Barthes procede a una “lettura”
psicanalitica ma senza mai procedere secondo le norme del
metodo psicanalitico. È qui che appare la contraddizione
essenziale tra i due aspetti inseparabili dell’impresa:
congiungere al metodo più informale e soggettivo le
affermazioni più categoriche di rigore metodologico.
CONCLUSIONI. Si potrebbe, al termine di questa
analisi, indirizzare una critica di fondo alla nostra ricerca:
perché l’opera di Barthes avrebbe bisogno di procedure
esterne al suo procedimento, e che Barthes potrebbe
rifiutare a priori considerandole come non valide per
rendere conto del suo metodo critico? Se abbiamo
aspettato fino alla fine per rispondere a questa obiezione,
è che ci sembra che la ricerca stessa debba incaricarsi di
rispondere nella misura in cui essa sarà stata correttamente
condotta. In effetti questa ricerca può sembrare che forzi il
testo di Barthes e che gli ingiunga di spiegarsi: molto
semplicemente perché è necessario oggi, nell’analisi dello
stile o in critica letteraria come in ogni scienza o in ogni
disciplina che aspiri ad uno status di scientificità, più che
di ottenere dei risultati, di essere cosciente dei metodi
utilizzati per ottenerli.
L’analisi dello stile e la critica letteraria, allo stesso
ritmo delle scienze umane, vedono moltiplicarsi i lavori
più eterogenei, più brillanti e più appassionanti in molti
casi: cosa ne resta? La scienza si costituisce a partire da
processi di accumulazione, cioè precisamente quando un
risultato è stato ottenuto al termine di un processo
VI.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
assolutamente riproducibile da qualsiasi ricercatore: ciò
permette in ogni momento di andare più lontano poiché ci
si è assicurati la verità sempre garantita di ciò che precede.
La critica letteraria è lontana da questa situazione poichè,
al contrario, essa è luogo di tutte le confusioni, di tutti i
guizzi, di tutte le sottigliezze di metodo non rigorose.
Barthes precisamente proclama il diritto a questa
soggettività senza limiti: “Le critique doit lui-même se
faire paradoxal, afficher le pari fatal qui lui fait parler de
Racine d’une façon et non d’une autre”5. Ironizza sulla
contraddizione che scopre tra positivismo e stregoneria
nella critica letteraria tradizionale6. Ma Barthes, più di
ogni altro, si mette in questa contraddizione perpetua: se
afferma di tenere fede alla scommessa della soggettività,
dice anche che «la première règle objective est ici
d’annoncer le système de lecture, étant entendu qu’il n’en
existe pas de neutre». Allo stesso modo, nella Prefazione
a Sur Racine, Barthes scrive: «Ce que j’ai essayé de
reconstituer est une sorte d’anthropologie racinienne, à la
fois structurale et analytique: structurale dans le fond,
parce que la tragédie est traitée ici comme un système
d’unités (les “figures”) et de fonctions»7. Se le parole
sistema e struttura hanno un senso — soprattutto poiché
nella nota 3 di pag. 9 Barthes vuole riprendere dei “termini
strutturali” (?) — ciò che si può e si deve domandare alle
analisi di Barthes non è la Verità; per restare sulle sue
posizioni metodologiche gli si chiede la validità: cioè che
la sua lettura, il suo sistema quali che siano devono essere
validi per l’insieme degli oggetti di cui essi vogliono
rendere conto, cioè il teatro di Racine. C’è, anche lì,
un’esigenza positivista o pseudoscientifica, che dir si
voglia. Se Barthes vuol presentare un sistema, una
struttura, facendo a più riprese allusione a questo tipo di
5
Sur Racine, Histroire ou letterature.
Ibid., pp. 161-162.
7 Ivi, p. 9.
6
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Semiotropie. Eredità di Barthes
strutture che sono le strutture linguistiche, bisogna che
questa struttura sia definita, coerente e renda conto degli
oggetti che pretende di strutturare: noi pensiamo di averlo
mostrato su un campione, le strutture di Barthes non
possiedono alcuna di queste proprietà. È ci sembra, una
causa molto più confusa di quella della critica letteraria
tradizionale: il metodo di Barthes riflette l’ambiguità del
metodo della critica letteraria (e delle scienze umane in
molti casi) oggi: da una parte, l’acuta consapevolezza della
necessità, per la critica, se non di trasformarsi ipso facto in
scienza, cosa che sarebbe inquietante, almeno di tentare di
appoggiarsi su un procedimento rigoroso. Ma a questa
esigenza si mescola l’affermazione di un altro principio:
«Notre réponse ne sera jamais qu’éphémère, et c’est pour
cela qu’elle peut etre entière»; Barthes parte dall’evidente
constatazione che l’opera del critico è relativa al suo
tempo, al suo mondo, per estrarne un principio di relatività
assoluta: «Bref, il faut qu’à la duplicité fatale de l’écrivain,
qui interroge sous couvert d’affirmer, corresponde la
duplicité du critique, qui répond sous couvert
d’interroger».
Si vede qui allora ciò che è lasciato totalmente da parte:
è il problema della verità. Barthes ha buon gioco nel
ridicolizzare la concezione banale della verità, di una —
adaequatio rei et intellectus in cui l’oggetto e lo spirito —
qui l’opera e la critica — potrebbero immediatamente
ritrovarsi e corrispondersi perfettamente. Sembra dunque
possibile introdurre una procedura più modesta e non
meno rigorosa: non che il discorso critico abbia qualche
pretesa di raggiungere la verità, ma si tratta di mantenere
in ogni istante la garanzia offerta da una procedura di
validazione.
Lo abbiamo già sottolineato: in senso stretto, le frasi di
Barthes sono indecidibili, poiché si pongono al di fuori di
ogni procedura di riproduzione. Possiamo provare a
imitare Barthes, ma non possiamo rifarlo o correggerlo in
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
un certo momento del procedimento: la volontà di rigore
strutturalista non è che un aspetto, un momento di un
metodo che, non può nasconderlo, non si vuole
essenzialmente diverso da quello del creatore letterario o
artistico. Posizione comoda, bisogna dirlo; opponiamo al
critico il rigore della scienza, allo scienziato la libertà del
creatore:
Je suis oiseau: voyez mes ailes…
Je suis souris: vivent les rats!8
L’intelligenza e il talento di Barthes non sono in
discussione: ci sembra che renda un cattivo servizio sia
alla scienza che alla letteratura. I saggi, come le critiche,
hanno il loro posto e il loro senso: costituiscono spesso,
oltre il loro interesse intrinseco, come l’annuncio
“metafisico” di una scienza futura; ma se un giorno
qualcosa come una scienza della letteratura deve vedere la
luce, ciò non potrà essere che grazie a un insieme di
ricerche e procedimenti il cui primo carattere sarà di essere
garantiti dal rigore di un metodo oggettivamente
riproducibile e giustificabile secondo una procedura di
validazione.
8
Sono un uccello; vedete le mie ali/Sono un topo; vivono i ratti!
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Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
L’Utopia*
di Roland Barthes
L’Utopia è il campo del desiderio, di fronte al Politico che
è il campo del bisogno. Da qui i rapporti paradossali di
questi due discorsi: essi si completano ma non si
intendono: il Bisogno rimprovera al Desiderio la sua
irresponsabilità, la sua futilità; il Desiderio rimprovera al
Bisogno le sue censure, il suo potere riduttivo; a volte vi
sono degli attraversamenti delle Frontiere: il Desiderio
perviene ad esplodere nel Politico: è il maggio 1968,
momento storico raro: quello di una utopia immediata: la
Sorbonne occupata e vissuta per un mese in uno stato di
utopia (in effetti essa non era «in alcun luogo»).
Il Desiderio deve essere senza sosta ricondotto nel
Politico. Ciò significa non soltanto che le utopie sono
giustificate, ma anche che esse sono necessarie; è inoltre
indice della piattezza dei nostri tempi la nostra impotenza
attuale a scrivere utopie; si direbbe che siamo trattenuti
dall’immaginare: il grande super-io politico ci fa la
lezione. A dire il vero non sono le grandi linee di una
società futura che noi temiamo di tratteggiare: ciò è
reperibile e nel Politico stesso; sono i dettagli di questa
società ed è proprio in questo che noi manchiamo l’utopia
e il desiderio; poiché l’Utopia — e questa è la sua
specificità — è minuziosa, immagine orari, luoghi,
pratiche; è romanzesca, come il fantasma, di cui essa è in
sostanza forma politica.
L’Utopia è sempre ambivalente: essa rovina il tempo
presente, si appoggia senza sosta su ciò che non va nel
mondo e nello stesso tempo, nello stesso modo inventa
*
Cfr. OC IV, p. 531-332.
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Semiotropie. Eredità di Barthes
immagini di bontà: le inventa nei loro colori, nella loro
precisione, nel loro franto sfavillio, nella loro stessa
assurdità; essa possiede il coraggio più raro: quello della
gioia. È questo coraggio che hanno avuto i due più grandi
utopisti che io conosca: Sade e Fourier. Di certo, come
sistema effettivo, nessuna utopia possiede la minor
possibilità di applicazione: il falansterio fourierista e il
castello sadiano sono letteralmente impossibili; ma sono
gli elementi, le inflessioni, gli sviamenti, i nascondigli del
sistema utopico che ritornano nel nostro mondo come i
lampi del desiderio, come dei possibili esaltanti; se noi
riuscissimo ad afferrarli meglio essi impedirebbero al
Politico di rapprendersi in sistema totalitario, burocratico,
moralistico.
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Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
D’un sole reticente*
di Roland Barthes
Il pittore Eugène Delacroix diceva che per ritrovare ai
nostri giorni l’abbigliamento greco in tutta la sua nobiltà
bisognava andare in Marocco. Forse, nello stesso modo, è
dal marocchino Zaghlul Morsy1 che noi riceviamo
qualcosa di un certo lirismo francese e come il segno
superlativo del nostro stesso linguaggio: la deviazione che
riconduceva il pittore alla Grecia antica attraverso una
civiltà estranea alla nostra tradizione, è la medesima che
Morsy ci obbliga a intraprendere per considerare la nostra
lingua francese attraversata da un’esteriorità nella sua
essenza stessa.
Il poema plurale di Morsy è scandito dalla doppia
civiltà, il doppio linguaggio, l’islamico e l’occidentale, il
magrebino e il francese, ma tale duplicità Morsy non la
rappresenta affatto: egli non dettaglia la lacerazione, non
ne fa il bilancio, non l’interiorizza, non la civilizza: si
accontenta di iscriverla continuamente nel suo linguaggio.
Da una parte una fonte magrebina costante e tuttavia
appena reperibile dietro la metafora variata del sole e del
velo (non si tratta di una «ispirazione» esplicita o di una
nostalgia etnica): dall’altra parte uno stile in cui si
mescolano molteplici origini, vari riferimenti, tutto un
fondo di citazioni da cui le virgolette sono eliminate,
mediante questo gioco superiore e pericoloso (o
scandaloso) che ogni scrittura deve assumere.
In una parola, qui si raccolgono molteplici lingue: in
primis la lingua francese, di cui si direbbe che nel giro di
poche pagine è percorsa in tutti i suoi anfratti, riconosciuta
*
1
Su Le Nouvel Observateur, 17 giugno 1969. Cfr OC III, 102-103.
Z. Morsy, D’un soleil réticent, Grasset 1969.
40
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Semiotropie. Eredità di Barthes
nelle sue parole rare, nel suo lampeggiamento particolare,
nei meandri più civilizzati della sua sintassi; in seguito la
lingua poetica, deposito di tutte le poesie anteriori,
immagine fantastica (o fantasmatica) di un patrimonio che
non è quello dell’autore e che egli svia per renderne
sospetta la proprietà nel modo migliore: infine la lingua
culturale, che riferisce esplicitamente i poemi a Eraclito,
Hölderlin, Al-Hirrâlî e ai loro luoghi di origine,
Marrakech, Firenze, Parigi.
Lo spazio citazionale di Morsy (senza il quale non v’è
scrittura) esclude senza dubbio altri modelli: il
surrealismo, per esempio: ma tali limiti non sono per nulla
da leggere come le costrizioni che vengono da una certa
cultura (islamo-occidentale), iscritte in ogni lingua, fosse
pure poetica, come le sue rubriche obbligatorie.
Ciò che è presente nel libro di Morsy, ciò che è assente
da esso, designano quindi proprio ciò che si traspone, si
trascrive o, al contrario, si arresta, tace, passando da un
paese all’altro, da una lingua all’altra. Il poema allora ci
mostra come l’altra lingua (la nostra) è intesa, messa in
opera dall’altro lato: questa volta siamo noi ad essere di
fronte: di fronte a partire dalla nostra stessa lingua.
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Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
I. Un remous minéral dans l’imposture du Sens achevé.
Barthes, Blanchot e la solitaria sfinge
dell’écriture.
di Giuseppe Crivella
Nell’arco di tempo che va dalle opere degli anni ‘50 fino
agli ultimi testi della fine degli anni ’70 le occorrenze del
nome di Blanchot e i riferimenti espliciti alla sua opera
all’interno della produzione barthesiana si moltiplicano in
modo rilevante. Il nome dell’autore de L’entretien infini
poco a poco diventa sempre più frequente, ricorre in
interviste, citazioni, testi estemporanei, saggi. Perfino
nell’ultimo testo edito in vita da Barthes e dedicato alla
fotografia Blanchot occupa inaspettatamente un posto di
rilievo, dal momento che il suo nome e il brano di un suo
testo — tratto da Le livre à venir — appaiono verso la metà
del quarantaquattresimo paragrafo allo scopo di fornire
una decifrazione retorse dell’essenza dell’immagine e
dello sguardo.1
Già nell’opera d’esordio di Barthes inoltre Blanchot
appariva come uno degli autori chiave per capire le tesi lì
esposte. E tuttavia, intervistato nel 1971 da Jean
Thibaudeau2 a proposito degli autori che avevano
costituito per lui un punto di riferimento durante le fasi
salienti della sua formazione intellettuale, cioè nel periodo
immediatamente anteriore a Le degré zéro de l’écriture,
Barthes omette il nome di Blanchot, affermando
recisamente che al tempo non lo conosceva e non aveva
letto ancora nulla di suo.
Si tratta di una affermazione piuttosto strana, la quale
si spiega soltanto considerando che molto probabilmente
1
2
OC V, p. 938.
OC III, p. 1028.
42
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Semiotropie. Eredità di Barthes
Barthes ha aggiunto il nome di Blanchot e i riferimenti
espliciti a suoi testi solo in un momento avanzato di stesura
dell’opera, avendo quasi sicuramente incontrato il suo
nome mentre stava già raccogliendo il materiale per il
saggio del 1953. Letta in questo senso la risposta di
Barthes a Thibaudeau pertanto da una parte spiegherebbe
l’apparente incongruenza, dall’altra rimarcherebbe la
rilevanza immediata e prolungata che il pensiero di
Blanchot ha indubbiamente avuto sul suo.
Scrittura, scomparsa del soggetto, implosione del libro
nella forma dispersiva del textum, immagine come
elusione della ressemblance ed evocazione di un fuori,
impersonalità della parola letteraria, letteratura come
vacanza del senso sono solo alcuni dei temi che i due autori
hanno in comune. È difficile tra l’altro stabilire chi abbia
influenzato chi, poiché se è vero che Blanchot è più grande
di Barthes di otto anni e che inizia a pubblicare i primi testi
di saggistica tra la fine degli anni trenta e la metà degli anni
quaranta, va anche detto che entrambi gli autori compiono
quella svolta decisiva che li porterà a focalizzarsi sulla
écriture più o meno nello stesso periodo, cioè alla metà
degli anni ’50, Barthes proprio coll’opera evocata poco
sopra, Blanchot con un dittico destinato a influenzare
buona parte della cultura francese successiva: L’espace
littéraire (1955) e Le livre à venir (1959). Sono in
particolare gli scritti su Kafka ad impressionare Barthes e
saranno quindi proprio questi ad essere richiamati ne Le
degré zéro de l’écriture:
Blanchot ha notato a proposito di Kafka che l’elaborazione
del racconto impersonale (osserveremo in relazione a questo
termine che la terza persona è sempre data come un grado
negativo della persona) era un atto di fedeltà all’essenza del
linguaggio, poiché questo tende naturalmente verso la
propria distruzione. Comprendiamo allora come /il/ sia una
vittoria su /io/, nella misura in cui esso realizza uno stato
simultaneamente più letterario e più assente. Tuttavia la
vittoria è senza sosta compromessa: la convenzione letteraria
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Semiotropie. Eredità di Barthes
dello /il/ è necessaria all’indebolimento della persona ma
rischia ad ogni istante di ingombrarla con uno spessore
inatteso. La Letteratura è come il fosforo: brilla al massimo
nel momento in cui essa cerca di morire.3
Nel 1953 Barthes, tramite Blanchot, ha già messo in
campo un sistema di nozioni che non cesserà di elaborare
fino alla morte. In queste poche righe i temi principali della
sua riflessione si trovano già tutti convocati, quasi
chiamati in rassegna per essere poi sviscerati e
approfonditi, permutati e messi in tensione l’uno con
l’altro e l’uno dopo l’altro, nelle varie raccolte di saggi che
egli pubblicherà fino a La chambre claire.
Blanchot e Barthes a questo punto diventano quasi
indistinguibili, agitano le acque, fino ad allora forse un po’
stagnanti, della critica letteraria francese innescando
quella rivoluzionaria opera di rinnovamento della
riflessione sulla letteratura che sfocerà nella nascita della
Nouvelle critique e che troverà nello strutturalismo, nella
semiologia, nel decostruzionismo la giusta controparte
teorica a quel lavoro indefesso di rilettura che essi
compiranno sui testi.
Vi sono però anche delle linee di frattura tra i due, come
ad esempio il catalogo di autori prediletti: Blanchot ha tra
i suoi Rilke, Hölderlin, Kafka, Char, Eraclito (nella
formidabile interpretazione di Ramnoux), Henry Miller,
Broch, Woolf, Celan; Barthes da subito individua due poli:
Brecht e Robbe-Grillet, poi si sposta su Racine, Michelet
e La Bruyère, torna nel Novecento con Cayrol e Sollers.
Entrambi hanno alle spalle Bataille — il quale è molto più
presente in Blanchot — e de Saussure — della cui lezione
è impregnato soprattutto Barthes. Si tratta quindi di una
vicinanza variabile, come due corpi celesti che finiscano
con l’attrarsi quasi per contrasto, nelle forme di una
collisione sempre sfiorata, sempre trasformata in
3
OC I, pp. 193-194. Traduzione e corsivi nostri.
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insensibile sfioramento, in incontro frontale che eluda però
ogni sguardo diretto, almeno fino alla fine degli anni ‘60,
periodo durante il quale l’autore degli Essais critiques
inizia a palesare in modo sempre più chiaro i suoi debiti
nei confronti di Blanchot4, chiamato in causa sia nel testo
introduttivo al corso sul neutro, che Barthes stava
preparando poco prima di morire5, sia nella sofferta
ricostruzione del fallimento della progettazione della
rivista Arguments, in cui Blanchot viene designato, con
espressione ironicamente ambigua, «un leader de la
négativité avec un grand N»6. Anche a fronte delle
divergenze, rimane però assodato che la écriture è ciò che
mette in stretta relazione i due autori in un percorso di
pensiero per lo più speculare e parallelo, ma che a volte
conosce anche degli improvvisi accavallamenti
probabilmente fecondi per entrambi.
Ma allora che cos’è l’écriture? Sia in Barthes che in
Blanchot poco a poco essa assurge a frammentario
assoluto della parola letteraria, ineludibile rovina del
senso, labirintica voce di una persona loquens smarrita
senza possibilità di salvezza nella trappola scorsoia di un
eloquio che non le appartiene più. Dalla enunciazione
risalente agli anni ’50 riguardante l’esistenza di una
presunta écriture blanche7 fino al testo su Sollers, Barthes
insegue questa nozione, cerca di definirla assimilandola ad
una pratica quasi ascetica di volontario e deliberato
smarrimento del senso, di rinuncia a ciò che si ritiene
soltanto di possedere, di imponderabile contatto col vuoto,
di penetrazione in quella etrangété che si sperimenta nel
lasciarsi osservare da una parola come da un essere
4
In quello stesso anno Blanchot pubblicava uno dei romanzi più
enigmatici della sua produzione: Celui qui ne m’accompagnait pas.
5 OC, V, p. 531.
6 Vie et mort des Revues, intervista del 1979, pubblicata solo nel 1982,
cfr. ivi, pp. 778-780. Per una intellezione piena di questa idea della
négativité blanchotiana cfr OC II, p. 616.
7 OC I, p. 194.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
vivente, il cui sguardo però si sia ritratto nel geometrico
naufragio di ogni rassomiglianza familiare. L’écriture è
portatrice di quella immagine immediatamente sensibile,
affascinante, che regna grazie all’attrazione selvaggia
della sua presenza, la quale è presenza di qualcosa che non
dovrebbe essere lì — che in verità non è presente — e
davanti alla quale è impossibile tenersi fermi, restare
immobili: presenza di un’immagine che ci trasforma
nell’enigma stesso di un’immagine8. L’écriture pone così
la domanda più profonda, la quale non può essere
compresa, ma solo ripetuta, riflessa su un piano ove essa
non riesce ad essere risolta, ma solo dissolta, rinviata dal
vuoto da cui è sorta, chiamata a dissiparsi nel linguaggio
stesso che l’ha generata e che ora non è più in grado di
intenderla. Per questo motivo l’écriture non è linguaggio,
ma è piuttosto l’esperienza del linguaggio — da intendersi
al tempo stesso come genitivo attivo e come genitivo
passivo9 — vissuta come una regione senza orizzonte ove
l’io sia ridotto — o amplificato — a una puntualità non
personale e oscillante tra nessuno e qualcuno, sembiante
di qualcosa che soltanto la relazione esorbitante trasforma
silenziosamente e momentaneamente nell’istanza di un iosoggetto con cui quella puntualità sembra voler
corrispondere unicamente per simulare l’identico, affinché
a partire da esso si annunci, proprio tramite la scrittura, il
segno e la ferita di un Altro che sia l’assolutamente nonidentico.10
Per Barthes e per Blanchot inoltre la scrittura
appartiene alla esperienza di una estinzione: quella del
libro per il primo, ecceduto dall’inesorabile illimitatezza
del farsi textum della scrittura quale esorbitante magma di
M. Blanchot, Thomas l’obscur, Gallimard, Paris 1950, p. 18.
EI, p. 103.
10 M. Blanchot, Le dernier homme, Gallimard, Paris 1957.
8
9
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Semiotropie. Eredità di Barthes
testi che accerchiano il soggetto11 e lo espellono dal loro
gioco differenziale, tramutandolo in una funzione
episodica della loro meccanica linguistica e riducendolo
ad una emergenza estemporanea e dilaniata in seno ad
essa, ad un punto di condensazione trasparente delle
virtualità della langue, subito riassorbito nella sua fredda
incoscienza omeostatica. Estinzione dell’opera per il
secondo, intesa come désœuvrement12, luogo di quella
esperienza-limite in cui l’écriture ha le movenze sibilline
e felpate di un avvento notturno nel quale il linguaggio
tace perpetuandosi nella rarefatta imminenza di un
abbagliante oblio privo di rapporti col tempo e col ritorno
di qualcosa che appartiene al trascorso senza mai essere
stato presente, disastro13 che de-scrive i limiti della propria
impossibile origine e del suo inavvertibile allontanamento
in un altrove del tempo da cui la parola arriva per ripetersi,
replicarsi, ripercuotersi in un istante che preceda ogni
fenomeno, ogni manifestazione, ogni apparire.
Disastro immobile e immemoriale è allora la écriture,
che espone chi la sperimenta alla necessità di riconoscersi
nella sfera di una vorace anonimia, attraversata dalla
bianca estenuazione del soggetto adibito a pura perdita, a
inattingibile passività, la quale lo affetta da un fuori ove
sia possibile reperire soltanto un simulacro di unità:
scrittura del disastro come interruzione dell’incessante in
cui si perpetua l’eccesso dell’infigurabile in seno a ciò che
Blanchot chiama «l’ancien du maintenant».14
In tal modo l’écriture risplende del lucore tenebroso di
un linguaggio diafano e desolato, di un linguaggio che in
tanto parla in quanto esprime in primis l’espulsione del
11
Cfr. OC III, pp. 908-916 e OC IV, pp. 718-720. Ma anche Blanchot,
EI, p. 628.
12 M. Blanchot, L’entretient infini, Minuit, Paris 1969, pp. Da ora in
nota sempre con EI.
13
M. Blanchot, L’écriture du désastre, Gallimard, Paris 1980.
14 Ivi, p. 65.
47
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
soggetto dalle proprie dinamiche intestine, l’evacuazione
del mondo dal proprio schematismo di significazione,
l’espunzione di una regione definita di sensi docilmente
trasmissibili mediante esso. L’écriture di Blanchot e
Barthes espone il pensiero alla raggelata immobilità di un
linguaggio radicato nelle lacere vastità generate a partire
da un gioco lugubre di reiterate risonanze tra segni, i quali
gravitano nella porosa identità di una notte15 il cui protrarsi
infinito assomiglia al flebile intervallo di un tremito che
attraversi la cadaverica pienezza di ogni assoluto.
Ecco perché per Blanchot frequentare l’écriture
significa «tracer un cercle à l’intérieur duquel viendrait
s’inscrire le dehors de tout cercle»16. La scrittura allora
diventa la ferita invisibile di un pensiero che non riesce più
a pensarsi, di un pensiero che si tramuta all’improvviso in
qualcosa che tutt’altro rispetto ad esso, simile ad una notte
inondata di immagini le quali ne costituiscano però la
densa oscurità. L’écriture vale qui come un’assenza di
visione che assurge a punto culminante di ogni sguardo e
ove l’occhio, divenuto ormai inutile per la vista, assume
dimensioni straordinarie, sviluppandosi in modo
smisurato, dilatandosi oltre i confini del reale in modo da
lasciar filtrare in seno ad esso la notte, al fine di
raccoglierne l’ultima luce, percepita come un riflesso che
rechi impressa l’immagine totale di un mondo ove sia
rappresentata l’assenza di ogni figura immaginabile:
l’écriture quindi intesa come «un vide qui contemple».17
Va detto che Blanchot non ha mai negato le marcate
sfumature mistiche18 che la sua concezione della scrittura
sembra assumere, sempre prossima ad una sorta di fosca
15
Sulla centralità del tema della notte cfr H. Choplin, Chercher en
silence avec Maurice Blanchot, Harmattan, Paris 2013, pp. 49-80.
16 EI, p. 112.
17 M. Blanchot, Thomas l’obscur, p. 128.
18
M. Blanchot, L’écriture..., p. 211, ove si parla esplicitamente
dell’Uno dei mistici.
48
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
illuminazione in grado di metterci in contatto con ciò che
egli chiama trans-descendence quale luogo della
neutralizzazione ripetitiva dell’io a cui bisogna aspirare
per pervenire a quella soggettività senza soggetto che ai
suoi occhi costituisce l’unico possibile titolare della
scrittura.
Si tratta in Blanchot di un lascito permanente che
deriva senza dubbio dalla vicinanza con Bataille, il quale
non a caso viene più volte richiamato in questi termini in
numerose parti dell’opera blanchotiana19. In effetti in
Barthes questo aspetto arriva in maniera decisamente
attenuata, ma ciò non vuol dire che egli non sappia farne
tesoro e metterlo a profitto in seno alla sua teoria della
letteratura intesa come pratica della déplétion du sens.20
È proprio in questi termini infatti che negli Essais
Critiques Blanchot viene esplicitamente chiamato in
causa. Ecco quindi come Barthes presenta l’autore de
L’entretien infini:
vediamo che, anche attraverso la critica della significazione
[signification], vi è una evanescenza progressiva del
significato che sembra essere la sfida di tutto questo dibattito
critico; tuttavia i significanti sono sempre presenti, attestati
qui dalla loro realtà di significato [signifié], là dal
découpage dell’opera secondo una pertinenza che non è più
estetica ma strutturale. Qui è possibile opporre […] tutta
questa critica al discorso di Blanchot, inteso d’altronde come
linguaggio, piuttosto che come metalinguaggio, cosa che
conferisce a Blanchot un posto indeciso tra la critica e la
letteratura. Tuttavia, rifiutando ogni solidificazione
semantica all’opera, Blanchot si limita a tracciare in negativo
[dessiner en creux] il senso, ed è questa una impresa la cui
difficoltà concerne sempre la critica della significazione [...].
Fare senso è facile, tutta la cultura di massa lo elabora
indefessamente; sospendere il senso è già un’operazione
infinitamente più complicata, è, se vogliamo, un ‘arte; ma
19
20
Ivi, soprattutto p. 139.
OC II, p. 455. Il saggio è dedicato a Robbe-Grillet.
49
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
annientare il senso è un progetto disperato, proporzionato
alla sua impossibilità [...]. L’opera di Blanchot (critica o
romanzesca) rappresenta quindi a suo modo […] una sorta
di epopea del senso, adamitico se si vuole, poiché è quella
del primo uomo anteriormente al senso.21
Sono pagine estremamente illuminanti, poiché se da una
parte rivelano l’ammirazione di Barthes per la scrittura
blanchotiana, dall’altra ne prendono immediatamente le
distanze, sottolineando come la sua posizione sia piuttosto
collocabile in una zona mediana tra l’impresa estrema di
Blanchot — esperienza di una evacuazione radicale del
senso — e l’ipertrofia dei significati precostituiti della
produzione di massa, posizione questa che porterà Barthes
a parlare della letteratura come di un oggetto parassitario22
in seno alla cultura di massa, nonché come di un veicolo
mediante cui mettere in campo un sistema di
significazione déceptif, che sia cioè in grado di porre e
frustrare il senso nello stesso tempo.23
Ma la presenza felpata e consistente di Blanchot
continuerà ad agitarsi sotto la scrittura di Barthes: il suo
nome ricorrerà sempre più di frequente e quasi sempre
affiancato a quello di Mallarmé o di Kafka. L’opera
dell’autore dell’Entretien infini costituirà per Barthes una
sorta di affascinante soglia critica da costeggiare e
corteggiare senza mai valicare o mettere in discussione. La
sua écriture blanche rappresenta quindi la fase avanzata di
una sperimentazione del senso che rischia sempre di essere
eccessiva, estrema, aberrante e pericolosa.
Se Blanchot, con ostinazione certosina, trasforma la
scrittura in un iperbolico orizzonte filosofico che,
lavorando dall’interno stesso della lingua e del pensiero,
corrode ogni ordine prestabilito puntando ad un delirante
assoluto di linguaggio che appaia come lo spazio-zero
21
Ivi, p. 518-519. Traduzione nostra.
Ivi, p. 512.
23 Ivi, p. 514.
22
50
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
dalla profondità del quale interrogare l’eco silenziosa di
una parola impotente, a partire dalla quale si perpetui e si
cancelli simultaneamente l’ellittico, frammentario,
sconosciuto profilarsi del mondo nella regolata follia di un
tempo di manifestazione capace di eludere ogni presenza,
Barthes preferirà mantenersi sempre in posizione arretrata,
in una sorta di sorvegliatissima retroguardia attenta a non
condurre troppo a fondo, quasi verso un punto di non
ritorno, la risalita alle fonti del senso.
Per questo motivo, quando Blanchot evocherà Barthes,
in uno dei saggi della terza sezione de L’entretien infini
consacrata proprio all’assenza di libro, la sue
considerazioni saranno un po’ tiepide, si accosteranno a
Barthes quasi obliquamente, senza citarlo mai24, intrise di
una certa perplessità che Blanchot non espliciterà mai, ma
che è avvertibile nel fatto che egli, optando per un serrato
vis-à-vis con gli autori a lui contemporanei sul modo di
intendere la letteratura, non riserverà mai un posto
privilegiato a Barthes, il quale invece, come abbiamo
visto, guarderà con ammirazione Blanchot come il termine
ultimo di una ricerca forse esposta ad uno scacco destinato
ad apparire paradossalmente come l’unico risultato
possibile, interiormente agitato da quel «mouvement de
l’interminable […], jusqu’à ce mot de trop où défaille le
langage».25
Eppure non si può non restare sorpresi di fronte ad un
fatto abbastanza evidente: se si cerca di interpretare la
produzione narrativa di Blanchot ricorrendo alla fluida
mobilità dei terminali critici messi a punto da Barthes le
congruenze26 tra le due concezioni risultano maggiori
rispetto alle difformità. Non possiamo qui dilungarci
24
EI, p. 586.
Ivi, p. 505.
26 Sebbene Barthes non evochi mai Blanchot, nei passi dedicati alla
scrittura del frammento è impossibile non risentire gli inconfondibili
echi de L’entretien infini, cfr OC IV, pp. 670-672.
25
51
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
troppo su questo aspetto che meriterebbe una disamina
estremamente capillare, ma vogliamo proporre tuttavia
una sorta di esperimento-pilota al fine di mostrare quanto
l’écriture espressa dai récits di Blanchot diventi
pienamente trasparente se vagliata con le teorie
sull’écriture di Barthes. Selezionando quindi tre blocchi
narrativi da tre romanzi del primo cercheremo di mostrare
quanto le riflessioni del secondo si attaglino ad esse. La
scelta degli estratti verrà compiuta tenendo presente tre
connotati propri della écriture dell’autore dell’Entretien
infini, connotati che naturalmente tenteremo di reperire
anche in Barthes.
I.
L’écriture come ipertopia disgregante del linguaggio27:
parole immobili che io ora sento a causa di questa immobilità
che mi avverte della presenza di qualcosa e le rende pesanti,
leggere? Troppo leggere per colui che, invece di lasciarle
venire da sole, non può che fissarle, senza lo spazio vivente
in cui esse prenderebbero vita [...]. Egli mi ignora, io lo
ignoro, per questo egli mi parla, avanza le sue parole in
mezzo a molte altre che dicono soltanto ciò che noi diciamo,
sotto questa doppia ignoranza che ci preserva, con un
leggerissimo brancolamento che rende la sua presenza così
sicura e così dubbiosa. Forse egli non fa altro che ripetere me
stesso. Forse sono io che, in anticipo, lo confermo. Forse
questo dialogo è il ritorno periodico di parole che si cercano,
si chiamano senza fine e non si incontrano che una volta.
Forse non siamo qui né l’uno né l’altro e, da questa assenza,
essa è sola a portare il segreto, che ci sottrae.28
Furtivo e obliquo, il linguaggio obbedisce qui a quella
legge di abolizione che Barthes isola nella scrittura di
Sollers29. In esso l’écriture spinge il locutore a scivolare
sempre indefessamente sulla frontiera sfaccettata delle
Cfr anche F. Collin, Maurice Blanchot et la question de l’écriture,
Gallimard, Paris 1986.
28
M. Blanchot, Le dernier homme, pp. 48-49. Traduzione nostra.
29 OC, p. 594.
27
52
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
parole, assumendo una struttura aperta che non è quella
della grammatica generativa, ma piuttosto quella di una
vertigine degenerativa inscritta nel linguaggio come una
matrice occulta che lo travaglia e lo attraversa, facendone
una immensa geologia da cui la narrazione emergerebbe
come la scena di un gesto verbale composto di frammenti,
lacerti, rovine. Sovraccarico di interstizi, eccessivo e al
tempo stesso vacante, sempre in preda al molteplice
disordine delle parole che designano lo sfacelo minuto
delle proprie significazioni, il linguaggio qui è colto
sempre allo stato nascente, ora prossimo a rapprendersi in
una sonnolenta spontaneità da cui nessuna retorica
potrebbe redimerlo, ora prossimo a liquefarsi in una
specularità tautologica dei propri processi semantici che
eludono ogni struttura di rinvio, per rinchiudersi nella
neutralizzazione preziosa di ogni referente.
Il linguaggio si profila come una caosmografia di
parole, un dramma che mette in scena l’evento stesso della
parola chiamata a mostrarsi nella sua ostinata superficie di
segno, la quale denega ogni spessore semiologico che non
verta unicamente sulla propria natura linguistica. Esso
secerne così una nuova lingua nel corpo stesso della
lingua, assurge a schermo mobile ove però nessuna
rappresentazione viene a iscriversi o a tracciarsi,
formicolante di un peso referenziale che assomiglia alla
leggera tumescenza di un segno sorto al limite del senso.
Sia in Blanchot che in Barthes, il linguaggio si dispiega e
si amplifica a partire da una costellazione franante di
soglie differenziali raccordanti segni in traslazione
perpetua: simile a un immenso corpo vivente, nella sua
vasta unità di orizzonte privo di radicamento, esso si
raccoglie tutto sul confine infinito che lo separa dal
mondo, diventandone riflesso inverso, figura parassitaria
incapsulata in esso sotto le sembianze d’un metalinguaggio che non spiega o prescrive le matrici di senso
necessarie per esprimere il reale, ma le svuota dall’interno,
53
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
le porta al tracollo, le fa crollare su se stesse, ne svela e ne
sventa l’inganno e l’incanto analogico-rappresentativo,
producendo in esso l’iniziazione ad uno strappo che, simile
ad un metronomo bloccato in grado di arrestare il tempo,
faccia della écriture la scenografia intransitiva, ove
linguaggio e mondo coincidono senza rassomigliarsi, si
attraversano senza sfiorarsi, tramite quella siderale forma
di prossimità che la écriture intrattiene col proprio oggetto
ridotto ad una evanescenza informe la quale infetta la
parola nel momento stesso in cui questa palesa la propria
innata intimità con la più alta idea di assenza.
2.
L’écriture come circolare afocalità del soggetto30:
vi è qui come una increspatura unica dello spazio, in qualche
modo io la vedo, e il fatto che essa sia lì, come una
irregolarità
discordante,
dovrebbe
costituire
un
avvertimento, ma già senza preoccuparmene io mi rovescio
leggermente, gioiosamente, confidando nello spazio, nella
sua indifferenza e inattenzione. Così si compie quest’ultimo
movimento, con una facilità che esprime la mia allegria, ma
appena si afferma, tutta la potenza del vuoto si chiude attorno
a me, mi stringe, mi trattiene e mi respinge nella profondità
di una caduta senza fondo, in modo che la lacerazione nella
quale cado ha esattamente le dimensioni del mio corpo, è il
mio corpo in cui io non ho la possibilità di cadere e contro il
quale urto in questo istante come contro una presenza fredda,
straniera, che mi respinge dove sono. È questo l’inizio, mi
dicevo, le cose sono iniziate così. Sì, tale è il sogno e ciò che
esso vorrebbe farmi scoprire, lo sospetto: se ora mi è vietato
stendermi è perché sono già steso in quel punto ove però io
non sono più, ma un altro vi è. 31
Un uomo perduto in una galleria di specchi ove però la sua
immagine sia l’unica mancante, ecco che cos’è lo scrivente
nella écriture blanchotiana. Il testo nasce, si forma, nel
momento stesso in cui quello si dissolve, scompare
30
31
Cfr. anche H. Choplin, Chercher en silence...
M. Blanchot, Celui qui ne..., pp. 116-117. Traduzione nostra.
54
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
nell’incessante espandersi di una parola plurale e
polverizzata al tempo stesso. Il soggetto è afocale perché,
se si manifesta in seno al linguaggio, è solo per rivestirvi
una funzione privativa, di evacuazione dalla lingua della
propria presenza accidentale. Il soggetto però parla, ma
solo da un punto di irradiazione sotterraneo che non riesce
mai ad occupare a pieno, attante infranto di una matrice
operativa — la locuzione — dalla quale esso si trova ad
essere estromesso nell’istante medesimo in cui sembra
incarnarne le funzioni. Portavoce della narrazione non è
quindi la persona loquens, ma l’apersonne32, intesa come
quella inassegnabile parte di identità che assiste dal
margine alla propria deforme generazione dagli atti di
enunciazione di cui si credeva autore, titolare e signore: il
soggetto quindi come la costitutiva utopia di ogni
linguaggio, «en sorte que toute écriture qui ne ment pas
désigne, non les attributs intérieurs du sujet, mais son
absence».33
3.
L’écriture come epilettico tremito dell’immagine34:
io sono visto. Poroso, identico alla notte che non si vede, io
sono visto […]. Egli è questo sguardo che continua a vedermi
nella mia assenza. È l’occhio che la mia scomparsa, mano a
mano che diventa più completa, esige sempre di più per
perpetuarmi come oggetto di visione. Nella notte noi siamo
inseparabili. La nostra intimità è questa notte stessa [...].
Senza colore, non iscritto in alcuna forma pensabile, non
essendo altro che il prodotto di un possente cervello, io sono
la sola immagine necessaria. Sulla retina dell’occhio
assoluto io sono la piccola immagine rovesciata di ogni cosa.
Io gli do, tramite le mie fattezze, la visione personale non
solo del mare, ma dell’eco della collina che risuona del grido
del primo uomo. Là tutto è distinto, tutto è confuso. Un’unità
32
OC V, p. 589.
OC II, p. 796. Corsivi di Barthes.
34
Cfr anche J-L Lannoy, Langage, perception, mouvement. Blanchot et
Merleau-Ponty, ed Milon, Paris 2008.
33
55
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
perfetta, per il prisma che io sono, restituisce la dissipazione
infinita che permette di vedere tutto senza vedere nulla. 35
Per Blanchot l’inizio del tempo è già una ripetizione, è il
reiterarsi variato di un principio che assomiglia a qualcosa
che si sia già prodotto infinite volte, che lo ha preceduto
incrinandone in tal moda la natura di evento aurorale.
L’immagine appartiene a questa sfera di replica
simulacrale, di sdoppiamento incongruo e insondabile che
fende il tempo in una sfaldata deriva di istanti sovrapposti
e non più successivi. Il tempo quindi non scorre, va in
stallo, si arena nella ottusa ciclicità di un inizio che
rimanda sempre ad una anteriorità acefala, priva di
principio, dilatatasi in una durata che ha qualcosa di
calcificato, di decrepito, di mortuario.
L’immagine non appartiene però alla sfera dello
sguardo. Essa appare dinanzi ad esso per occluderne le
possibilità di visione, per richiamarlo indietro, per
sollecitarlo a una risalita furiosa e impossibile verso una
origine percettiva in cui le cose hanno perso la loro ottusa
crosta di sembianti per diventare esse stesse particole
impazzite di visioni senza soggetto, immagini accecate
dotate di occhi che d’improvviso si schiudono dal
dormiente fondo materiale di un’ombra che abbia la
prossimità inaccessibile di uno specchio posto dinanzi alla
inerme cecità della notte. L’immagine blanchotiana è
sinonimo di una lacuna incassata nel cuore dell’invisibile,
insaturabile lacuna che può essere occupata solo da un
soggetto che cessi di essere semplicemente vedente per
farsi esso stesso voyance, immagine di questa voyance,
emanazione nuda di un’evidenza senza volto e identità che
irradia la propria densità di infigurabile a partire da uno
sguardo che non serve più per vedere, ma unicamente per
apparire, per farsi vedere, esattamente come quello che
Roland Barthes ravvisa e decifra in uno scatto di Kertész
35
M. Blanchot, Thomas l’obscur, p. 125-126. Traduzione nostra.
56
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
in cui esso, come trattenuto da qualcosa di interiore
all’immagine stessa, si limita a mostrarsi come come puro
sguardo.36
36
OC V, p. 880.
57
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
II. Metacritica della critica (della ragion) letteraria
Barthes e Adorno: il linguaggio è la sua
ombra
di Giuseppe Crivella
È noto a tutti l’intento di Bouvard et Pécuchet: elevare ad
un livello di trascrizione cosmica la loro micrologica
attività di copisti in modo da imbrigliare tutto l’esistente
nella fitta tabulazione di una nomenclatura cartesiana e
trasparente, simile a una sorta di puntiforme enciclopedia
del dato isolato che, letta dall’interno stesso della
configurazione in cui si iscrive, trasforma il mondo in uno
spazio desolato di realtà respinte in una lontananza astratta
e rarefatta, le quali, osservate col distacco di una visione
d’en haut, appaiono come un gremitissimo cimitero di
sarcofagi vuoti.
Da una parte quindi abbiamo la tensione esasperante di
uno spoglio compilativo indefesso, totalizzante, certosino
e vorace, dall’altra invece troviamo la speculazione pura e
senza presa sulle cose che cerca di mettere a punto un
disegno classificatorio esatto e coerente, privo di lacune o
sbavature, sagomato su un mondo ridotto alla più completa
mansuetudine, levigato chiaro, docilmente amministrabile
e senza tortuosità scomode, irregolarità improvvise,
margini sfrangiati o tratti ambigui.
Bouvard et Pécuchet sono i protagonisti di una storia
che racconta la ossessiva impresa di sistematizzazione del
sapere, la quale paradossalmente finisce coll’avvitarsi
attorno ad un insanabile dimidiamento interno, ad una
sorta di labilissima lacerazione intestina che l’attraversa,
facendo della nomenclatura messa in opera lo spazio-zero
di una realtà divenuta ormai afona e insignificante, delle
partizioni enciclopediche le celle mortuarie di un pensiero
58
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
smembrato e informe, dell’ansia compilativa che agita e
anima questo progetto il capriccio totalitario di uno
sguardo disumano il quale contempla la realtà come un
immenso cadavere da sezionare prima e tumulare poi.
Un’euforia archivistica venata di un denso fremito
necrofilo possiede e scandisce l’opera dei due copisti, i
quali ordinano, vagliano, selezionano, confrontano,
registrano, trascrivono, equiparano e suddividono facendo
calare sull’indistinta massa dell’esistente le affilatissime
partizioni teoriche di una segmentazione del sapere che fa
del pensiero il prodotto finito di un pathos
calligraficamente tassonomico, da cui nulla può sfuggire o
sottrarsi.
Bouvard et Pécuchet incarnano a pieno titolo la
versione parodistica del sapere assoluto hegeliano, che nel
pervenire a se stesso finisce col ridurre la realtà allo
splendore devitalizzato di un corpo esposto a
mummificazione. Essi stendono così sulle cose una
scrittura che assomiglia ad un vasto sudario funebre, il
quale si sagoma perfettamente sul profilo di ciò che ricopre
impedendogli
di
respirare,
soffocandolo
e
imprigionandolo sotto le forme di una aderenza linguistica
che sostituisce alla presenza piena del mondo la inerme
superficie bianca di una febbrile ostinazione compilativa,
le cui enigmatiche apparenze denunciano con furibondo
silenzio lo scarso credito con cui sono stati considerati i
diritti dell’informe a cui essa ha sottratto ogni legittimità.
Per Bouvard et Pécuchet tutta l’opera di attenta
narcotizzazione
prima
e
cassazione
poi
dell’inclassificabile è però doppiata da un’impresa
perfettamente simmetrica e inversa, che la solca e la
travaglia con una grazia perversa e ostinata,
costringendola ad arrestarsi e a ritornare su di sé,
ripiegandosi sul proprio esercizio continuo di
decomposizione analitica, disordinandone le suddivisioni
logiche, aprendo temibili brecce nel processo di serrata
59
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
catalogazione, facendo inoltre saltare le varie partizioni
disciplinari, producendo microscopiche catastrofi nella
possente topologia di quella sistematizzazione compatta
che presumeva di conoscere e possedere il mondo solo a
patto di sostituirsi ad esso.
Ecco quindi affiorare una falda di scrittura incongrua al
progetto iniziale: la piena organizzazione del reale in una
astrazione precisa inizia a manifestare zone di
indecifrabilità, grumosità refrattarie alla penetrazione
razionale, ruvidi punti di addensamento che ingorgano la
trasparente digestione logica con cui il pensiero
classificatorio supponeva di poter fagocitare l’esistente. In
Bouvard et Pécuchet disegno teorico e attuazione pratica
ad un certo punto si disgiungono, ostentano una
inconciliabilità costitutiva, diventano piani repulsivi, si
fronteggiano in un principio di inevitabile collisione ed
esclusione reciproca.
A poco a poco Bouvard et Pécuchet si rendono conto
che classificare significa falsificare, produrre una
mistificazione che tocca e altera la natura interna del dato;
irreggimentare il reale pertanto non produce sapere, ma lo
annebbia, lo dilania e lo ridistribuisce secondo ordini di
articolazione impropri all’oggetto conosciuto. A questo
punto il loro lavoro di copisti, invece di subire una battuta
d’arresto, compie una sorta di acrobatico volteggio su se
stesso e inizia a riflettere sulla propria natura, sulle proprie
pratiche di attuazione, sulla propria destinazione e
realizzabilità. È qui che la scrittura letteraria rivela quella
natura aporeticamente paralinguistica che Adorno così
tratteggia:
il linguaggio è nemico del particolare e tuttavia è rivolto alla
sua salvezza. Esso possiede il particolare, mediatogli dalla
universalità e nella costellazione dell’universale, ma ai
propri universalia il linguaggio rende giustizia solo quando
essi non si irrigidiscono apparentandosi con l’apparenza del
loro essere per sé, bensì si concentrano all’esterno su ciò che
60
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
va specificamente espresso. Gli universalia del linguaggio
ricevono la loro verità da un processo che corre nella
direzione a loro contraria [...]. Nell’arte gli universali sono
al massimo della loro forza lì dove l’arte si avvicina di più
alla lingua: dice qualcosa e questo qualcosa, mentre viene
detto, oltrepassa il proprio hic et nunc: ma tale trascendenza
riesce all’arte solo in virtù della sua tendenza alla
particolarizzazione capillare; e le riesce col non dire
nient’altro che ciò che può dire in forza della propria
formazione integrale, nel processo immanente1.
L’opera si scinde allora in uno sdoppiamento riflessivo, di
cui la scrittura di Flaubert non si libererà più: mano a mano
che il romanzo procede, la narrazione è colta da un
capogiro concentrico sempre più vasto e destabilizzante.
Mentre Bouvard et Pécuchet scrivono, Flaubert de-scrive
la loro stessa scrittura, ne decodifica il portato
manipolatore e ideologizzante; mentre essi trascelgono e
suddividono, Flaubert rileva devianze, fa emergere
resistenze, solleva dubbi e incongruenze che non possono
essere assimilati o risolti, rende franoso e cedevole il suolo
speculativo sul quale i due personaggi cercano di edificare
la loro cattedrale di conoscenze, che Flaubert inquadra in
controluce mostrando come essa in realtà proietti l’ombra
di un immenso mausoleo del pensiero. Scopertasi priva di
presa sulle cose e pertanto destituita di ogni funzione, la
scrittura di Bouvard et Pécuchet diventa soltanto una
maschera cava. È proprio per questo motivo che Barthes
può affermare:
ciò spiega forse l’impotenza nella quale siamo di produrre
oggi una letteratura realista: non è più possibile riscrivere
Balzac, Zola, Proust o gli scadenti romanzi socialisti,
sebbene le loro descrizioni si fondino su una divisione
1
Th. W. Adorno, Teoria estetica, ed a cura di E. de Angelis, Einaudi,
Torino 1971, pp. 342-343. Corsivi nostri. Inoltre sempre Adorno conia
l’espressione qui adeguatissima di «pensiero topologico, che di ogni
fenomeno sa in che casella rientri, ma di nessuno che cosa sia», cfr Th.
W. Adorno, Prismi, Saggi sulla critica della cultura, trad it di E. de
Angelis, Einaudi, Torino 1981, p. 21.
61
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
sociale che è ancora presente. Il realismo è sempre timido è
vi è troppa sorpresa in un mondo che l’informazione di massa
e la generalizzazione della politica hanno reso così profuso
che è possibile raffigurarlo in modo proiettivo: il mondo,
come oggetto letterario, sfugge; il sapere diserta la
letteratura, che non può più essere né Mimesis, né Mathesis,
ma solo Semiosis, avventura dell’impossibile linguistico, in
una parola Testo (è falso sostenere che la nozione di testo
raddoppi quella di letteratura: la letteratura rappresenta un
mondo finito, il testo figura l’infinito del linguaggio).2
Simultaneamente elevata a potenza rispetto a se stessa e
parassitaria nei confronti delle proprie funzioni, la
letteratura è una matrice obliqua di contestazione
endogena ai suoi stessi processi di generazione del senso.
Bouvard et Pécuchet narra un fallimento che affetta senza
requie lo sforzo di mettere in campo una parola
schiettamente e seccamente denotativa la quale indichi
l’oggetto o la relazione — vera, presunta o artefatta — che
esso intrattiene con gli altri e, nell’indicarlo, riesca a
subentrare surrettiziamente ad esso dissolvendolo,
diventandone prima copia conforme e poi simulacro
deforme, caricatura grottesca.
È insediandosi in questa oscillazione paradossale e
vitale che la scrittura si affranca dalla sua funzione
referenziale per divenire letteraria, per scoprire uno strato
di linguaggio chiamato ad essere indefettibilmente
immanente a sé e a quelle pratiche di designazione che
vorrebbero espellerla o emarginarla, disinnescarne il
portato sottilmente eversivo. Ed è in tal senso inoltre che,
se all’inizio la scrittura di Bouvard et Pécuchet tende a
solidificarsi in Libro, a compattarsi strenuamente nella
conchiusa totalità di un sapere, di una Mathesis che sia
anche e soprattutto Mimesis fedele e esauriente, nel
momento preciso del fallimento di tale progetto quella
2
OC IV, p. 694. Qui Barthes fa riferimento alla sua lezione inaugurale
tenuta al Collège de France nel 1977, cfr CO V, pp. Corsivi di Barthes.
Traduzione nostra.
62
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
stessa scrittura diviene testo, proliferazione infinita di una
Semiosi che contesta i saperi specifici, mettendoli in
continua frizione, dissocia le forme di razionalità acquisita
rivelandone le latenti infiltrazioni ideologiche, sorprende
la scienza alla spalle trasformandola da piana mappatura
del reale mutilato in una trascrizione mobile di segni che
déferlent su di esso.3
È quindi con la letteratura che il linguaggio inizia a
pensare e a interrogare se stesso, divenendo in tal modo
corrosivo e critico nei confronti delle forme e delle forze
più o meno occulte, sotterranee e inapparenti che
gestiscono e scandiscono in modo necessariamente
coattivo il percorso del senso e l’uso dei segni. La prima
scrittura di Bouvard et Pécuchet risponde esattamente ad
un regime di puntuale somiglianza sebbene eterodiretta da
criteri di organizzazione che la infestano senza possederla,
poiché essa segretamente e quasi inconsciamente conserva
e cova un nucleo immanente di liberazione ed
emancipazione irriducibile e propulsivo, il quale nel
momento in cui entra in azione non smette di generare
all’infinito una seconda scrittura — quella appunto
letteraria — che riesce ad abolire la falsa/buona coscienza
di ogni linguaggio. Osserva Barthes, proprio in merito a
Bouvard et Pécuchet:
presso il farmacista di Falaise Bouvard et Pécuchet
sottopongono la pasta di jojoba alla prova dell’acqua, «essa
prese l’aspetto di una cotenna di lardo, cosa che denotava
della gelatina». La denotazione sarebbe un mito scientifico:
quello di uno stato “vero” del linguaggio, come se ogni frase
avesse in sé un etymon (origine e verità).
Denotazione/connotazione: questo doppio concetto non ha
valore che all’interno del campo della verità. Ogni volta che
io ho bisogno di verificare un messaggio (di demistificarlo)
io lo sottopongo a qualche istanza esteriore, lo riduco a una
3
Ciò che più o meno qualche anno prima Pasolini aveva chiamato
infinitosemia, cfr P. P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano,
1991, p. 209.
63
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
sorta di cotenna disgraziata che ne forma lo strato vero.
L’opposizione è quindi utile solo nel quadro di una
operazione critica analoga a un esperimento di analisi
chimica: ogni volta che io credo alla verità ho bisogno della
denotazione.4
La denotazione appartiene quindi all’ambito di una verità
ancora non vagliata, non messa alla prova, una verità a cui
crediamo senza sottoporla all’onere della verifica. È per
questo motivo che in Bouvard et Pécuchet la prima
scrittura è utopica, mentre la seconda è atopica. Si tratta di
una distinzione sottilissima che Barthes stesso a volte
disattende o finge di dimenticare. Ad ogni modo, per come
essa viene a prospettarsi nella fase tarda del suo pensiero5,
suddetta distinzione può essere esposta nel modo
seguente:
Scrittura “utopica”: è tale perché, partendo dalla
presunzione di poter inquadrare il dato reale nella sua
oggettività, in effetti si propone unicamente di rettificare
surrettiziamente il mondo, presentandolo diverso da come
appare, suggerendone una versione edulcorata e sottoposta
ad una operazione di accorta cosmesi non immediatamente
avvertibile. Tale tipo di scrittura allinea l’esistente alle
proiezioni immaginarie della ideologia a cui essa si
richiama e dalla quale deriva secondo una matrice
forzosamente genetica. La scrittura utopica incarna e
inscena le contraffazioni di un potere che lavora la realtà
dell’interno, trasfigurandola sulla base di un principio
perversamente adulterante che risulta tanto più operativo
quanto più esso si sforza di presentare la scrittura che
genera e che lo rappresenta come imbevuta di una ratio
schiettamente referenziale.6
I.
4
Ivi, p 646. Traduzione nostra.
Ivi, p. 629.
6
Barthes ha sempre intrattenuto un rapporto, se non conflittuale, di
certo polemico con la nozione di utopia e su di essa è tornato più volte
5
64
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Scrittura atopica: non ha collocazione o posizione
precisamente assegnata o assegnabile, se non quella che la
situa mercurialmente all’interno della prima scrittura,
immanente ad essa, rivestita del compito di farla implodere
lentamente e quasi inavvertitamente. L’utopia ha qualcosa
di reattivo e di strategicamente stabilizzante. L’atopia
esibisce a tutti i livelli un’indole molesta, deforma
dell’interno il coeso complesso di immagini offerte dalla
prima scrittura, pone quest’ultima dinanzi a se stessa
costringendola a riflettersi infinitamente come al centro di
una illimitata fuga di specchi che finiscono col dissolvere
l’oggetto che hanno di fronte.
II.
L’utopia dunque è referenziale-analogica, rappresenta ciò
che le incrociate tassonomie del potere hanno già
selezionato come ammissibile. L’atopia è ellittica,
rappresenta la spaventosa libertà di un linguaggio che non
conosce e non ammette alcuna comune misura obbligata
con l’oggetto preformato dalla ottusa pervasività del
potere. La prima scrittura nasce e deriva da una operazione
di previa irreggimentazione e addomesticamento
ideologico che identifica una certa quota di esistete —
autorizzato ad essere tale — con una certa dimensione di
dicibile, mentre nello stesso tempo esclude nella sfera
dell’imparlabile7 — termine, come noto, amatissimo da
Pasolini — tutto ciò che essa ravvisa come inconciliabile
con la sua dimensione di dominio. Essa è inoltre
modificando spesso i suoi punti di vista in merito. Optiamo però qui per
una caratterizzazione velatamente negativa del lemma perché è lo stesso
Barthes a suggerirla in un testo tardo – cfr, OC V, p. 629 – e perché
nella lezione inaugurale del 1977 tra i due termini egli sceglierà /atopia/
per indicare quel luogo al di fuori delle classificazioni proprie della
parola gregaria verso cui il Testo spinge il senso, cfr OC V, p. 441.
Sull’utopia cfr anche OC IV, pp. 652 e 531 e OC V, pp. 436.
7 Cfr P. P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Mondadori, Milano
1977, pp. 77, nonché P. P. Pasolini, Empirismo eretico; Garzanti,
Milano, 1991, p. 257.
65
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Semiotropie. Eredità di Barthes
denotativa in quanto ha già prodotto un immaginario
collettivo, condiviso e socializzato, che non ammette
deroghe e non aspetta altro che di essere comunicato e
diffuso.
La seconda scrittura non ha antecedenti ad essa allotri
rispetto alla classe di trasformazioni semiotiche che essa
propone e comporta. Il suo ruolo fisiologico è quello di
rappresentare la prima scrittura nel momento in cui questa
viene colta nel suo spessore di artefatto ideologico,
espressione pregiudizialmente pilotata di una pseudonatura che sorge dall’oltraggio certosino e insistito del
naturale: unico spazio del dicibile ove sia ancora presente
ciò che Barthes chiama il «frisson du sens»:
il senso, prima di abolirsi nella in-significanza, è ancora
attraversato da un brivido: c’è del senso, ma questo non
senso non si lascia prendere; resta fluido, fremente di una
leggera ebollizione. Lo stato ideale della socialità allora si
dichiara: un immenso e perpetuo brusio anima sensi
innumerevoli che scoppiano, crepitano, sfolgorano senza
mai prendere la forma definitiva di un segno tristemente
appesantito dal suo significato: tema felice e impossibile,
poiché questo senso idealmente rabbrividente si vede
impietosamente riafferrato da un senso solido (quello della
Doxa8) o da un senso nullo (quello delle mistiche della
liberazione).9
In tal senso la seconda scrittura è l’immanenza critica di
una forma inflessibilmente eretica rispetto alla eteronomia
che la minaccia. Ma che cosa vuol dire qui immanenza
critica? Perché parlare di immanenza? Immanenza di cosa
e rispetto a che cosa? Si tratta di una serie di domande che
ci permettono di vedere i numerosi punti di contatto tra
Barthes e Adorno poiché, tra i primi aspetti che dobbiamo
8
9
Alla Doxa Barthes dedica analisi molto acute, cfr OC V, 631.
Brano intitolato proprio Le frisson du sens, Ivi, p. 674.
66
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Semiotropie. Eredità di Barthes
rilevare, entrambi esplicitamente più o meno negli stessi
anni si servono della formula di «critica immanente».10
Per quanto riguarda Barthes è in due loci testuali degli
Essais critiques che troviamo questa espressione11; con
essa si vuole intendere in primis la focalizzazione della
critica letteraria su quella tecnica decettiva del senso che
Barthes va enucleando nel corso di buona parte della sua
ricerca più che ventennale. L’analisi immanente in
secondo luogo ha un triplice aspetto che deve essere
precisato:
È fenomenologica, in quanto esplicita delle potenzialità
riposte o latenti del testo e della sua scrittura senza
limitarsi a spiegare soltanto le presunte intenzioni
dell’autore, spesso ricostruite post hoc e quindi senza
possibilità di una verifica fattuale.12
I.
È tematica, poiché interroga e porta alla luce il sistema
di metafore interne all’opera in modo da sviluppare
un’analisi del linguaggio letterario che sia in grado di
muoversi lungo vari livelli di strutturazione, cioè da quello
immediatamente legato ai significanti a quello iperconnotato dei metalogismi ricorrenti.13
2.
È strutturale, in quanto è chiamata a scomporre il fatto
linguistico non tanto sulla base di una matrice
elementaristica, ma piuttosto secondo un asse di indagine
3.
10
Basti un esempio per Adorno: nelle 400 pagine della sua Teoria
estetica i richiami ad una logica immanente propria della critica
letteraria sono oltre settanta. Già alla fine degli anni ‘40 Adorno aveva
iniziato a parlare di critica immanente, cfr Th. W. Adorno, Prismi, pp.
15 e sgg.
11 OC II, pp. 500 e 518.
12 Ivi, p. 500.
13 È probabile che qui Barthes più che Mauron o Richard, grandi
esponenti della critica tematica, avesse presente il padre di quest’ultima,
ovvero Gaston Bachelard.
67
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
che ne privilegi le complesse
caratteristiche funzionali.14
e
interdipendenti
Ciò comporta due conseguenze necessarie e rilevanti: il
linguaggio a questo punto diventa nello stesso tempo
modello dell’analisi, strumento elettivo per condurre
quest’ultima nei meandri delle varie scritture, ma anche
problema, quindi oggetto di quell’indagine che esso ha il
compito di gestire e scandire. Al tempo stesso esso si trova
collocato, senza possibilità di liberazione, nello spazio
mediano di una opposizione che non deve essere risolta, di
una opposizione che lo vede ora come elemento positivo,
quindi attivamente fungente all’interno dei processi
dell’analisi, ora invece come componente negativa, ovvero
percepito quale concrezione sospetta che necessita di una
ulteriore operazione di vaglio e segmentazione per
ripulirlo da eventuali infiltrazioni o sedimentazioni
adulteranti. Il linguaggio diviene la frontiera di due
pratiche gemelle e corrispondenti, di due attività di
selezione e scomposizione che trovano in esso allo stesso
tempo uno strumento e un banco di prova.
Inoltre tale stato di cose dimostra che non esiste un
linguaggio a livello elementare, così come non esiste un
linguaggio ridotto o riducibile al suo grado zero. Colto in
questa problematica accezione15 esso deve sempre essere
trattato come il prodotto di una classificazione proveniente
da forze ad esso estranee, seppure densamente costitutive
della sua eterogenea compagine, e quale terminale critico
per smontare e far implodere dall’interno queste
14
Su questo soprattutto OC II, 418.
Barthes stesso parla di linguaggio-problema, cfr Ivi, 523. Barthes non
smetterà di tornare su questo punto e i riferimenti nella sua sua opera
sono innumerevoli, ad esempio nella celebre lezione inaugurale del
1977 parla della sua semiologia come di «una decostruzione della
linguistica», e del textum come di un indice di dépouvoir, in grado cioè
di sottrarsi a quel tipo di lingua travagliato dal potere, OC V, pp. 439441.
15
68
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
classificazioni. Per questa ragione più volte Barthes parla
esplicitamente di una natura parassitaria del linguaggio
proprio della sua critica letteraria16, natura parassitaria che
non può quindi non generare una critica del linguaggio
immanente al linguaggio stesso.
Ma arrivati a questo punto, che cos’è allora il
linguaggio per Barthes? Una totalità funzionale che si
struttura in modo capillare quale forma di forme,
complementari, plastiche e inclusive le une rispetto alle
altre. Ciò significa che l’intervento della critica immanente
finisce col disfare il linguaggio — sezionandolo nella sua
anodina duplicità — nel momento stesso in cui essa riesce
ad inquadrare il mondo nel suo farsi senso plurale,
indocile, non addomesticabile. La critica immanente si
colloca nel luogo preciso di questa inaggirabile antinomia
funzionale del linguaggio: gli ordini intellegibili che
questo veicola sono sottoposti allora a traslazione
perpetua, la quale ridistribuisce i significati attribuiti agli
oggetti secondo una pratica di attenta ritrascrizione
semantica della realtà. Catene associative, corrispondenze
referenziali, strutture di equivalenze logiche vengono
illuminante nella loro concreta dinamica funzionale per
essere mandate in stallo, per essere messe in mora, per
essere attentamente e capillarmente déjouées; la critica
immanente non deve mostrare come funziona il
linguaggio, ma perché funzioni in un certo modo e quali
possibilità vi siano in esso perché funzioni in tutt’altra
maniera. Lasciando la parola a Barthes possiamo quindi
vedere che
la letteratura possiede uno statuto particolare, il quale le
deriva dall’essere fatta di linguaggio, ovvero di una materia
che è già significante rispetto al momento in cui la letteratura
se ne impossessa; è necessario allora che essa scivoli in un
sistema che non le appartiene ma che funziona nonostante
16
Ivi, p. 512.
69
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
tutto in base ai suoi stessi fini, ovvero comunicare. Ne
consegue che le sfilacciature tra linguaggio e letteratura
formano in qualche modo l’essere stesso della letteratura:
quando voi leggete un romanzo, voi non consumate da
principio il significato /romanzo/; l’idea di letteratura non è
il messaggio [...] che voi ricevete: è un significato che voi
recepite in più, marginalmente; voi lo sentite fluttuare
vagamente in una zona para-ottica, ciò che consumate sono
in breve le unità, i rapporti, le parole e la sintassi del primo
sistema [la lingua]; e tuttavia l’essere di questo discorso che
leggete (il suo reale) è proprio la letteratura e non l’aneddoto
che esso vi trasmette; insomma, qui è il sistema parassita ad
essere principale, poiché esso detiene la intelligibilità ultima
dell’insieme: altrimenti detto, è lui ad essere reale. Tale sorta
di inversione perversa delle funzioni spiega le note
ambiguità del discorso letterario: è un discorso al quale si
crede senza credere, poiché l’atto di lettura è fondato su una
sorta di giravolta incessante tra i due sistemi: vedete le mie
parole, sono linguaggio, vedete il mio senso, sono
letteratura.17
È proprio per questo motivo inoltre che Barthes dedica uno
dei saggio più importanti della sua raccolta del 1964 al fait
divers, ovvero al fatto di cronaca18 la cui analisi rivela una
falsa innocenza dell’oggetto il quale viene inserito in una
concatenazione narrativa che ostenta la più chiara
dipendenza da una causalità aleatoria sotto la quale però la
critica immanente svela la manipolazione chirurgica di
un’opera mirata della significazione, la quale trasforma e
trasfigura tutto nella compatta fisionomia di una vicenda
sapientemente lavorata dai processi di una coincidenza
ordinata propria dei sistemi di comunicazione di massa.
Senza alcun timore di forzare la mano, Barthes afferma
con grande sicurezza che la letteratura è affine ad una
mantica19, dal momento che essa è allo stesso tempo
intellegibile e interrogante, parlante e silenziosa,
impegnata nel mondo tramite quel cammino del senso che
17
Ivi, p. 512-513. Traduzione nostra.
Structure du fait divers, Ivi, pp. 442-451.
19 Ivi, p. 475.
18
70
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Semiotropie. Eredità di Barthes
questa compie insieme ad esso e simultaneamente
emancipata dai sensi contingenti a cui che il mondo
elabora e da cui è esso stesso elaborato: risposta che
interroga e domanda che risponde.
In tal senso il linguaggio secondo della scrittura
letteraria riesce a connotare il reale senza denotarlo, senza
inchiodarlo o ridurlo cioè ad un pattern di sensi stabilizzati
e selezionati a monte; per dir meglio, il ruolo svolto dalla
critica immanente fa in modo che il mondo sia riletto sulla
base di un fitto reticolo di segni refrattari ad ogni
solidificazione o cristallizzazione. Per questo motivo, in
ultimo, se da una parte la critica immanente è chiamata a
sdoppiare sempre il linguaggio rivelandone la duplice
natura transitiva e intransitiva, dall’altra essa ha per
vocazione costitutiva quella di scindersi immancabilmente
in una critica dell’opera e in una critica di stessa, restando
quindi sempre immanente alle sue stesse strutturazioni di
senso, che devono essere mantenute senza sosta in uno
stato di sospensione, a partire dalla quale sarà poi possibile
riattivare di conseguenza i sensi sclerotizzati o già
necrotizzati imposti alla realtà.
È invece nei saggi raccolti sotto il titolo palesemente
mendelsohniano di Noten zur Litteratur20 che Adorno
parla per la prima di critica immanente. Tale formula,
variata in innumerevoli occorrenze, verrà poi ripresa e
ampiamente sviluppata nel corso della monumentale
Teoria estetica, pubblicata postuma nel 1970. L’accezione
nella quale il filosofo tedesco intende quella formula è
molto affine a quella barthesiana, sebbene nessuno dei due
autori citi mai l’altro. Anche qui la critica immanente si
muove partendo dal linguaggio, lavorando su di esso e in
esso, facendo di esso un teatro mobile di commistioni e
contrazioni logiche che sfociano nella instaurazione di un
20
Th. W. Adorno, Note per la letteratura I e II, ed it a cura di E. de
Angelis, Einaudi, Torino 1977, passim.
71
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Semiotropie. Eredità di Barthes
campo densamente tensivo di dilaniamenti silenziosi tra
ciò che può essere espresso e ciò che deve essere detto,
quali attestazioni latenti dei poteri della ideologia in opera
nel linguaggio fin dalla sua strutturazione minimale.
Proprio alla luce di ciò Adorno può affermare che la lingua
seconda espressa dalla letteratura «incarna, anche come
tollerata nel mondo amministrato, ciò che non si lascia
organizzare e che l’organizzazione totale reprime».21
L’immanenza qui si configura da subito quindi come
l’ombra che il linguaggio stesso proietta su di sé; in essa la
parola dispiega il suo doppio fondo di segno e di oggetto,
di parametro funzionale interno ad una struttura regolata
di transizioni logiche che lavorano secondo una precisa
predisposizione calcolata ab ovo, nonché di attrattore
strano di compagini aberranti di senso. L’epifania del
linguaggio22 che viene a consumarsi nella letteratura fa sì
che questa diventi una sorta di controverso sensorium
semantico carico di informazioni corollarie e periferiche
rispetto a quelle solitamente veicolate dal linguaggiostrumento proprio della ideologia: esso infatti colto
secondo questa prospettiva parassitaria inizia a significare
in forza di una sotterranea organizzazione metastatica che
coinvolge e oltrepassa le delimitazioni e le prescrizioni
esplicite della ideologia; non è un caso allora che Adorno
affermi a distanza di poche pagine che «l’arte è mimesis
spinta alla coscienza di se stessa» e che essa «ha il suo altro
nella propria immanenza».23
Per questo motivo il linguaggio si manifesta
oscuramente come il volto egizio della scrittura, la cui
natura pretestuosamente mimetica è chiamata a
riconoscersi, a riflettersi e a sdoppiarsi nella sospetta
identità con se stessa e non con un referente esterno.
Adorno chiama tale stato di cose momento
21
Th. W. Adorno, Teoria estetica..., p. 391.
Th. W. Adorno, Note II..., p. 212.
23 Th. W. Adorno, Teoria estetica, pp. 432-433.
22
72
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Semiotropie. Eredità di Barthes
paralinguistico24 della lingua, il quale non va confuso con
l’aspetto meta-linguistico proprio della linguistica, che ne
è forse l’esatto contrario, dal momento che se quest’ultimo
è una sorta di preliminare censimento logico delle
possibilità generative del senso contenute nel
funzionamento
della
macchina
linguistica,
il
paralinguismo indica invece esattamente quell’inaspettato
risorgere di costellazioni profonde, le quali appaiono come
un segreto coacervo di condotte disfunzionali che
mandano in frantumi il metalinguaggio, deviando le
prestazioni della macchina linguistica verso una
permanente catastrofe semantica.
Il paralinguismo quindi non smette di svilupparsi a
partire da una precisa finalità immanente: distruggere ciò
che tramite la predeterminazione dei sensi familiari viene
offerto come ovvio e naturale, necessario e immutabile.
Tale finalità immanente assume allora una doppia
sfumatura: negativa in quanto essa mira a disfare
risolutamente i prodotti della ratio dominante mettendone
in subbuglio gli elementi chiave, riportandosi cioè alle loro
configurazioni nucleari, ormai cristallizzate, e
rifluidificandole in modo da revocare la violenza stessa
della razionalità, frammentandone le sintesi con la stessa
forza con la quale essa le produsse e le propagandò quali
formazioni originarie dell’essere. Ma suddetta finalità
immanente assume anche una finalità positiva in quanto il
paralinguismo si propone di mantenere le forme in
posizione di labilità, cerca di rimanere sempre eterogeneo
ad esse esibendo ed ostentando la sua natura di pura
costruzione25, in modo da rilevare quanto quelle stesse
forme ad esso presuntivamente opposte gli siano in realtà
24
Ibidem.
È per questa ragione che lo scenario lugubremente negativo di Fin de
partie di Beckett alla fine dispiega una forza di affermazione che
nessuna opera piattamente positiva possiede, cfr Th. W. Adorno, Note
I..., pp. 267-308, ma anche Teoria estetica, pp. 415-416.
25
73
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
affini quali prodotti di un pensiero che seleziona a monte
la dicibilità del reale. Il paralinguismo quindi lavora
all’interno del linguaggio con movenze da talpa26,
costringendolo ad una progressiva decomposizione. Alla
luce di tale lettura, necessariamente interpretazione,
commento e critica devono operare di concerto,
cospirando verso questa dinamica immanente, la quale
mira a fare del linguaggio la scena ove la forma appare
come un intricatissimo campo di collassi e ove sia
possibile far regredire le operazioni di orchestrazione
ideologica ad una fase apertamente aporetica27 della loro
generazione, così che il contenuto stesso diventi la
negazione esplicita del senso veicolato. Pertanto alla
costruzione
del
paralinguismo
appartiene
immanentemente la propria relativizzazione, in forza della
quale
[essa] deve strutturarsi sì da poter all’apparenza
interrompersi sempre quando lo voglia. Pensa in frammenti
perché frammentaria è la stessa realtà, trova la propria unità
attraverso le fratture, non attraverso il loro appianamento.
L’unitarietà dell’ordinamento logico mistifica l’essenza
antagonistica della realtà a cui fu imposto [...]. Suddetta
costruzione logora le teorie che le sono vicine; la sua
tendenza è sempre rivolta a liquidare l’opinione, anche
quella con la quale essa inizia. [Il paralinguismo] è al forma
critica per eccellenza, e cioè in quanto critica immanente di
produzioni spirituali e confrontazione di quel che esse sono
col loro concetto, critica della ideologia [...]. Perciò la legge
formale del [paralinguismo] è l’eresia. Grazie alla violazione
dell’ortodossia del pensiero si rende visibile nella cosa ciò la
cui persistenza nella invisibilità costituisce in segreto lo
scopo obiettivo della ortodossia.28
26
Celeberrima immagine che Adorno usa per indicare il lavoro di
spoglio testuale proprio del metodo benjaminiano, cfr Note II..., 246.
27
A proposito del «compito aporetico», cfr Teoria estetica..., p. 357.
28 Th. W. Adorno, Note I..., pp. 21, 24 e 30.
74
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Ritornando al nostro esempio iniziale, possiamo dire che
la prima scrittura di Bouvard et Pécuchet è una forma di
linguaggio ancora non cariato dal paralinguismo; pertanto
essa si presenta come una mimesi del mondo, ma del
mondo inteso quale immagine secreta dalla ideologia. Il
paralinguismo interviene in seconda battuta, assumendo
una posizione ulteriore rispetto alla prima scrittura e
assurgendo così a mimesi della mimesi del mondo delle
immagini prodotte della ideologia. La sua intromissione,
la sua interferenza nella linearità della concatenazione
linguaggio-mimesi-ideologia, fa in modo che questa
finisca con l’annodarsi improvvisamente in se stessa e su
se stessa, portando così in emersione tutti i malcelati
procedimenti di mistificazione che la ratio amministrante
ha messo in opera per rendersi contemporaneamente attiva
e invisibile.
Da quanto appena detto in merito ad Adorno
discendono due conclusioni simmetriche, a loro volta
ciascuna sdoppiata in una duplice alternativa. La prima
coppia di conclusioni riguarda il soggetto, il quale si
colloca in seno a tale stato di cose secondo una postura
quasi indefinibile perché radicalmente scissa tra due
possibilità reciprocamente esclusive l’una dell’altra:
La prima possibilità è quella dell’azzeramento,
dell’«autospegnimento»29 nel linguaggio e tramite il
linguaggio. Modello di questa tipologia è il narratore dei
romanzi di Proust, di Kafka e di Joyce, il quale si forma
come un precipitato anomalo dalla fine di due grandi
tradizioni: quella del narratore dalla presenza dilagante e
soverchiante la vicenda narrata — da non confondere però
col narratore onnisciente, ma piuttosto con una fisionomia
I.
29
Ivi, p. 78. In più punti Adorno naturalmente sottolinea che tale
concezione non ha assolutamente in comune con la visione
heideggeriana di una ontologizzazione del linguaggio come ascolto
dell’Essere.
75
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
affine a quella della persona loquens dei romanzi di
Stendhal — e quella del narratore livellato alle
convenzioni di una esposizione oggettivistica. Per Adorno
il narratore contemporaneo deve essere equidistante da
questi due eccessi simmetrici e ugualmente mistificanti e
rilevarsi in forza della sua impotenza la quale gli permette
di far tornare il mondo delle cose al centro del suo
monologare. Cesellatore di un linguaggio secondo che
sembra nascere dai cascami delle due tradizioni appena
rievocate, tale narratore deve servirsi di una decaduta
lingua oggettuale associativa la quale sarebbe in grado di
esprimere il mondo da una prospettiva pre-individuale, in
una sorta di lacunoso monologo collettivo.30
2.
La seconda postula la formazione di un soggetto
veuilleur, animato cioè da una sorta di strenua vigilanza
mediata dal suo uso obliquo del linguaggio, di cui esempio
impeccabile è agli occhi di Adorno Valéry, dal momento
che la sua arte
incarna la resistenza della pressione indicibile che il
semplice esistente esercita sull’umano. Essa si schiera dalla
parte di ciò che noi potremmo un giorno essere. Non lasciarsi
istupidire, non lasciarsi addormentare, non essere complici:
queste sono le condizioni sociali che si sono sedimentate
nell’opera di Valéry, opera che si rifiuta di stare al gioco
della falsa umanità […]. Costruire opere d’arte per lui
significa rifiutarsi all’oppiaceo in cui la grande arte
sensoriale si è trasformata dall’epoca di Wagner, Baudelaire
e Manet: rifiutarsi all’onta che rende le opere mezzi di
comunicazione e del consumatori fa delle vittime della
trattazione psicotecnica.31
La seconda coppia di conclusioni riguarda invece la
tipologia di letteratura possibile proprio sulla base di
30
31
Ivi, p. 44.
Ivi, p. 119.
76
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
quell’uso obliquo. Anche qui quindi Adorno propone due
versioni parallele e inconciliabili:
I.
La prima idea di linguaggio è rinvenibile nelle Tracce di
Bloch. Ad esso l’autore dedica un lungo saggio nella prima
raccolta: la parola qui è dolorosamente attraversata dalla
insanabile vulnerabilità del finito; ripiegato sulla dura
resistenza che la particolarità delle cose oppone al pensiero
e alle sue manipolazioni, il linguaggio delle Tracce
blochiane esprime senza requie la persistente frattura tra
soggetto e oggetto svelando, attraverso il ricorso ad un
espressionismo viscerale e multiforme, che tutte le forme
di millantata abolizione della reificazione in realtà
finiscono col raggelarsi a mera ideologia. In tal modo
Bloch mette a punto una topologia della metafisica intesa
come «fenomenologia dell’immaginario», ove la
trascendenza è trascritta in termini di profanità e proiettata
nello spazio chiuso di una dialettica soggetta a
pseudomorfosi. Il linguaggio che ha in mente Adorno
interroga questo spazio, facendone emergere delle
immagini enigmatiche a partire dalle quali è necessario
pensare la fine come radice del mondo, in grado di
muovere e sollecitare l’ente, e ove la fine stessa è intesa in
termini di telos.32
II. La seconda idea di linguaggio si trova invece in Beckett.
Al drammaturgo irlandese Adorno dedica uno dei saggi
più corposi e brillanti dei due volumi: il linguaggio qui
serve unicamente a illuminare e inquadrare la putrescenza
dei fenomeni e della cultura; in tal modo esso regredisce e
regredendo corrode e demolisce tutto quello che tocca. La
parola pertanto non opera più nel segno della dicibilità
degli oggetti ma li enuncia e li enumera puntando sempre
32
Cfr Le «Tracce» di Bloch, Ivi, pp. 220-237.
77
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
al non-sense, alla fuga dal senso, o meglio, alla feroce e
serissima parodia del dare senso a cose e vicende:
il procedimento di costruzione dell’insensato non si arresta
neppure davanti alle molecole del linguaggio [così che
comprendere Fin de Partie] vuol dire comprenderne
l’incomprensibilità, ricostruirne concretamente il nesso
significante, che consiste nel rendersi conto che esso non ne
ha […]. Il pensiero di trasforma in una sorta di materia di
secondo grado.33
Soggetto e linguaggio in Adorno sembrano fronteggiarsi
per l’ultima volta prima dell’abolizione reciproca e
speculare. Il soggetto infatti si colloca nella lingua come
una infestazione, saturandola di significati logori di cui
esso però non è padrone e all’interno dei quali esso si
muove come un elemento derivato, come un necrotizzante
effetto di superficie. Riassorbirsi nel linguaggio significa
allora ridestare la parola verso una primordialità del
dicibile solo postulatorio, sebbene pulsante nel rovescio di
ogni linguaggio. Per Adorno quest’ultimo deve essere
condotto fino al proprio collasso interno, al proprio
eccesso furioso di indicibilità affastellate e intricate;
Beckett e Bloch, come visto, segnano la via per
l’attuazione di questo disegno, additando con le loro opere
diversissime il convulso spazio scenico di una
fisiognomica espressiva che conserva sempre qualcosa di
enigmatico, una sorta di frastornato sonnambulismo del
dire, il quale spinge il linguaggio a polarizzarsi unicamente
intorno allo stadio terminale del suo deteriorarsi ad
incessante ripetizione di un amalgama di elementi contratti
nell’opprimente staticità di una realtà ormai disgregatasi.
Partendo da tale stato di cose, l’esprimibile non allude più
alle cose, ma nasce dallo sfacelo delle proprie forme vuote,
da una grammatica dismessa il cui contenuto sia
declinabile solo all’ablativo, priva di ogni contatto con lo
33
Ivi, pp. 267-268. Corsivo nostro.
78
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
spessore della parola e quindi orfana della propria elettiva
funzione di sintesi. Per Beckett, e di riflesso per Adorno,
usare il linguaggio significa fare una partita a scacchi ove
i pezzi siano frammenti informi di oggetti ormai
irriconoscibili e la scacchiera un logoro quadrato
monocromo.34
Critica immanente e paralinguismo arrivano a
coincidere, si corrispondono perfettamente nei metodi e
negli intenti, esattamente come in Barthes collimano senza
resto critica immanente e semiologia, intesa come
capillare decostruzione della linguistica. Da ciò deriva
inoltre un’altra affinità tra i due pensatori, quella cioè che
li porta ad intendere la critica letteraria come
responsabilità delle forme35, come inesausta riflessione su
un impegno che scelga di estrinsecarsi applicandosi sul
modo in cui un’opera è fatta, sui criteri che essa adotta per
infrangere il «potere reprimente della forma» — per dirla
con Adorno36 — al fine di liberare quella «vasta
immaginazione del linguaggio» che per Barthes finisce col
dare luogo — in autori come Sollers, ad esempio — ad una
letteratura concepita quale aurorale «cosmogonia della
parola».37
In Barthes quindi la critica immanente fa in modo che
le varie traiettorie del dispositivo ideologico prendano a
34
Qualche anno prima rispetto ai due saggi da noi presi in esame,
Adorno aveva già affrontato la vexata quaestio riguardante i rapporti
soggetto-linguaggio arrivando a dire: «la soggettività sa di non essere
più il centro vivificatore del cosmo. Essa si abbandona a quel
meraviglioso che accadrebbe se i meri contenuti, abbandonati dal
significato, vivificassero per forza propria la soggettività che si va
estinguendo. Non sono le cose a cedere come simboli della soggettività,
ma è la soggettività che cede come simbolo delle cose, pronta a
irrigidirsi infine in se stessa divenendo quella cosa in cui viene
comunque già trasformata dalla società», cfr. Th. W. Adorno, Prismi,
p. 229, il saggio è dedicato al carteggio tra Stefan George e Hugo von
Hofmannsthal e risale alla fine degli anni ’30.
35 OC V, p. 601.
36
Th. W. Adorno, Teoria estetica..., p. 431.
37 OC V, pp 597 e 599.
79
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
sfaldarsi secondo delle linee di frattura divergenti: il
linguaggio si ripiega su se stesso e genera una scrittura che
svuota felicemente e perversamente le proprie
raffinatissime logiche di produzione del senso. Il mondo
viene così restituito a una sua sorda opacità di oggetti
inassimilabili alle disseccate e annichilenti codificazioni
della lingua, mentre la nozione di mimesi galleggia lacera
e negletta sulla superficie delle cose con le lemuriche
movenze di un fantasma prossimo al dissolvimento
definitivo.38
Che la letteratura pertanto sia concepita quale
immanente sabotaggio del linguaggio che utilizza non
esprime in ultimo null’altro se non la più alta forma di
consapevolezza concernente il fatto che siamo costretti a
vivere in un’epoca in cui a nessuna verità è ormai più
concesso di essere innocente o, ancor peggio, innocua.
38
In questo senso vanno lette le riflessioni di Adorno in merito alla
necessità di una narrativa che prenda atto del radicale irrealismo a cui
questo stato di cose la espone, cfr Note I..., 133-149.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
Una problematica del senso*
di Roland Barthes
I problemi del senso sono diventati molto attuali da una
decina d’anni; ciò è avvenuto per effetto di più fattori,
innanzitutto per lo sviluppo abbastanza straordinario della
linguistica negli ultimi trent’anni. Nel XIX secolo la
ricerca linguistica, molto importante, si è sviluppata
soprattutto nel senso di una linguistica storica e di una
linguistica comparatista. All’inizio di questo secolo, verso
il 1915, Ferdinand de Saussure ha posto storicamente le
fondamenta di quella che potremmo definire una
linguistica del linguaggio, e non più una linguistica delle
lingue, cioè della funzione di parole e non più di questo o
quel gruppo di lingue.
La linguistica saussuriana è stata ripresa e sviluppata
dal danese Hjelmslev e di recente il corso della linguistica
ha preso ancora un nuovo slancio con i lavori
dell’americano Noam Chomsky. Si è avuto uno sviluppo
o, più esattamente, un’estensione dei metodi di analisi
linguistica a partire dal linguaggio articolato che parliamo
a tutt’altra specie di linguaggi che esistono nella vita
sociale ma che non hanno come supporto il linguaggio
articolato; è così che è iniziato lo studio, servendosi di
concetti analitici provenienti dalla linguistica, di messaggi
o insiemi di messaggi costituiti dalle immagini; per
esempio, l’immagine fissa nel caso della fotografia o del
disegno, l’immagine mobile, il cinema (ma potremmo
citare anche alcuni lavori in corso sul teatro). Lascio da
parte per ora il problema della pittura, del disegno artistico
e quello dei gesti che non ho ancora ben studiato.
*
Apparso in Cahiers Média, Centre régional de documentation
pédagogique, Bordeaux 1970. Cfr. OC III, 507-519.
81
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Chiamiamo “semiologia” questa scienza generale dei
segni concepita poco a poco a partire dalla linguistica; a
dire il vero, sarebbe meglio chiamarla “semiotica” perché
la parola “semiologia” è già utilizzata in campo medico
(scienza del riconoscimento di segni e sintomi).
Tuttavia sarebbe molto comodo avere due parole: si
potrebbe utilizzare semiotica per indicare sistemi
particolari di messaggi. Avremmo dunque una semiotica
dell’immagine fissa, una semiotica dell’immagine
cinematografica, una semiotica del gesto; chiameremmo
semiologia la scienza generale che riunirebbe tutte queste
semiotiche.
Tra tutti questi campi d’estensione della linguistica,
ricorderei in modo particolare l’estensione dei metodi
d’analisi strutturale (nella misura in cui la linguistica è
stata strutturale da circa trent’anni) al discorso, cioè a un
insieme di parole, proposizioni superiori alla frase; la
linguistica attuale è una scienza che si ferma alla frase. Il
linguista non descrive mai insiemi superiori a una frase,
considerata come l’unità materiale di catene parlate o
scritte.
Ben inteso, il testo letterario è stato soggetto a metodi
d’analisi che si sono diversificati nei secoli, dalla retorica
antica fino ai metodi più estetici o, al contrario, più
positivisti; ma un insieme di frasi che si può definire
discorso non era mai stato studiato da un punto di vista
propriamente semiotico; ora siamo sulla buona strada.
Naturalmente si tratta di ricerche poco note al grande
pubblico, che non hanno ancora condotto a libri decisivi;
ciò avviene nei centri di ricerca, nelle tesi di dottorato di
III ciclo; è ancora una ricerca preliminare ma che ha già un
buon approccio.
Un’altra estensione, a partire dal focus linguistico, è
quella che oggi chiamiamo strutturalismo. La parola
struttura è molto antica. Si può dire che non ha avuto
alcuna pertinenza negli ultimi cento anni; tutte le scienze
82
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
erano più o meno strutturali, dall’architettura alla biologia
alla grammatica; ma credo che attualmente il nome
strutturalismo debba essere riservato a un movimento
metodologico che confessa precisamente il suo legame
diretto con la linguistica. Questo sarebbe secondo me il
criterio di definizione più preciso; si incontrano
evidentemente scienze umane apparentemente molto
lontane dalla linguistica ma di cui si sa ora che possono
essere affrontate con metodi d’analisi e concetti operativi
che vengono dalla linguistica. D’altronde, le due ricerche
strutturali più personali, le più marcate, le più tipiche
attualmente sono, da una parte, quella di Lévi-Strauss in
etnologia e in antropologia, e dall’altra quella del dottor
Lacan in psicanalisi, che ha avvicinato in modo
estremamente suggestivo il mondo della psiche dei
concetti linguistici, postulando, secondo la frase che gli è
attribuita, che l’inconscio stesso, in una prospettiva
psicanalitica, sia strutturato come un linguaggio.
Si obietta talvolta che questa attualità dei problemi del
senso è, in fondo, un puro fenomeno di moda; si è arrivati
a dire che questa attualità era in rapporto con il gollismo
poiché, a prima vista, questa appare come un insieme di
metodi che sembrano disinteressarsi della storia, del
concreto, del sociale con una apparenza formale e
formalizzante. Nel loro successo, si vede una sorta di
segno di depoliticizzazione della ricerca intellettuale;
questa proposizione è estremamente grossolana: a mio
parere, l’attualità dei problemi di senso è molto più che
un’attualità. È l’onda di fondo della civiltà della seconda
metà del XX secolo.
Mentre la seconda metà del XIX secolo, nel campo
delle scienze umane, è stato dominato dalla nozione di
fatto, dalla ricerca e dall’istituzione del fatto, dalla
dominazione del fatto, nel XX secolo la ricerca è dominata
dal senso: vi è una sorta di progetto storico collettivo molto
grande che ci supera e che fa sì che attualmente
83
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
consideriamo un po’ il linguaggio nel senso più profondo
ed esteso del termine; il linguaggio è il continente da
esplorare, come se l’esplorazione planetaria dei
cosmonauti
dovesse
corrispondere,
sul
piano
dell’interiorità, all’esplorazione di un territorio molto mal
conosciuto e che è precisamente il linguaggio o, se
preferite, la significazione, il senso.
Il senso è un termine generale, poco preciso; ma si può
dire di sapere abbastanza bene cos’è il senso secondo uno
schema estremamente elementare al quale bisogna ogni
giorno ritornare: il senso è l’unione di un significante e di
un significato. I caratteri dell’uno e dell’altro sono
abbastanza ben conosciuti, abbastanza ben classificati,
soprattutto quelli del significante; ciò che ancora è meno
chiaro è il significato.
Dove comincia e dove finisce il senso? È sempre qui il
problema. Naturalmente possono essere fornite delle
soluzioni, ideologiche o estetiche, al problema del limite
del senso, ma una risposta tecnica, precisa, è molto più
difficile.
È assolutamente chiaro che un solo e uno stesso
significato può avere diversi significanti, ciò che in senso
proprio chiamiamo polisemia, una sorta di ineguaglianza
tra i due termini, significante e significato.
Attualmente, nella linguistica del linguaggio, si
distinguono due parti essenziali: la sintassi e la semantica
(il senso delle parole). La linguistica della sintassi si è
sviluppata e ha fatto progressi sorprendenti, specie di
recente con Chomsky. Ma la semantica strutturale mostra
qualche difficoltà a elaborarsi, a costituirsi. Ci sono
eccellenti semantici (Greimas, per esempio), ma non si
può dire che esista attualmente una semantica strutturale
tanto ben fondata quanto la grammatica generativa di
Chomsky. È evidente che questa sorta di blocco della
semantica nella scienza linguistica è dovuto precisamente
al fenomeno della polisemia. È proprio perché esiste la
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
polisemia che è estremamente difficile studiare il senso
propriamente detto. Possiamo studiare delle relazioni,
compito della sintassi, ma i sensi sono molto difficili da
studiare; d’altronde, su un piano maggiormente operativo,
più tecnico, meno speculativo, i progressi delle macchine
per traduzioni sono frenati da questo problema della
polisemia. È a causa della polisemia che sorgono problemi
nel costruire efficienti macchine per traduzioni. Ed è per
tentare di integrare questo temibile problema della
polisemia che si elaborano periodicamente sistemi
simbolici di interpretazione; l’ultimo, in ordine di tempo,
almeno il più importante, era la psicanalisi, sistema
d’interpretazione nel senso proprio del termine, che tenta
precisamente di pensare, di sistematizzare la polisemia. La
psicanalisi lavora sul postulato fondamentale che certi
fenomeni hanno più sensi, o certi sintomi, nell’ambito
psichico, hanno più sensi: sono polisemici. Al contrario,
ciò che attesta l’intensità spesso scottante di questo
problema del senso e specialmente della polisemia, è
costituito dal fatto che le istituzioni o l'istituzione stessa,
l’istituzione sociale si dà sempre come compito di
sorvegliare il senso, di sorvegliare la proliferazione di
sensi. Per esempio, lo sviluppo considerevole della
formalizzazione matematica nel linguaggio delle scienze
umane è un modo di lottare contro i rischi di polisemia; in
un altro contesto, nell’interpretazione dei testi letterari si
esercita anche una sorta di sorveglianza da parte
dell’istituzione, all’occorrenza dell’Università, sulla
libertà d’interpretazione dei testi, cioè sul carattere in
qualche modo polisemico infinito di un testo letterario;
insomma, la filologia sarebbe questa scienza incaricata di
sorvegliare gli eccessi polisemici che sono nella natura
stessa del senso. E se consideriamo il senso in questo
modo, cioè nei suoi rapporti con l’istituzione o le
istituzioni, ci si rende conto che è in realtà un problema
molto cocente: quasi tutti i dissidi ideologici dell’umanità,
85
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
in ogni caso dell’umanità occidentale, da secoli, sono
sempre dissidi del senso. È sempre intorno a
un’interpretazione, che sia in teologia, in sociologia, o
precisamente in filologia, che sorgono polemiche e scontri
molto violenti. È dunque in rapporto a questo problema del
limite del senso che vorrei tentare di proporre, in un giro
d’orizzonte molto vasto e di conseguenza molto poco
rigoroso, una sorta di classificazione di quello che
chiamerei i diversi regimi antropologici del senso.
Ne abbiamo tre.
Monosemia
Il primo regime è quello che quello della monosemia,
sistema ideologico sociale o istituzionale o estetico in cui
si ritiene che i messaggi o i significanti abbiano un solo
senso, che è quello giusto. Questa monosemia, cioè il
postulare che ci sia un solo senso, è una forma di ciò che i
patologi del linguaggio chiamano asimbolia.
È un regime in cui si ha una sorta di cecità o sordità al
simbolo. Utilizzo “simbolo” in una accezione
estremamente semplice e ampia: come coesistenza di due
sensi; là dove coesistono almeno due sensi, si ha un
simbolo. Se, di conseguenza, si postula che non ci sia che
un solo senso, ci si dichiara in qualche modo chiusi, sordi
o ciechi al simbolo. Sarebbe d’altronde interessante
ricordare che l’asimbolia è precisamente ricordata dagli
specialisti del linguaggio come un tratto patologico. Il fatto
di essere sordo o chiuso o cieco al simbolo è, in qualche
modo, il segno di qualcosa che non va bene. Attualmente,
si arriva abbastanza bene a situare in una prospettiva al
contempo psicanalitica e psicosomatica l’importanza di
questa asimbolia presso certi individui.
La scuola di psicosomatica a Parigi ha condotto studi
molto interessanti che sembrano mostrare che i malati
86
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
psicosomatici sono appunto persone che non simbolizzano
in sé stessi, che hanno un’impotenza a simbolizzare, e
specialmente a simbolizzare gli stessi loro corpi; di
conseguenza, non possono dire nulla, non possono parlare,
o meglio non possono immaginare. L’immaginazione è il
regno del simbolo. È perché non immagina che il malato
avrebbe questa forma d’affezione psicosomatica. La
conseguenza, paradossale ma evidente, è che per trattare
un malato psicosomatico, bisogna trovare il modo di
restituirgli l’attitudine a simbolizzare, l’attitudine a
immaginare, l’attitudine a vivere nel simbolo. Il modo di
guarirlo consisterebbe nel fornirgli una nevrosi, poiché la
nevrosi è appunto il regno del simbolo, dell’immagine.
Il simbolo è un fenomeno propriamente umano. Ora il
problema del linguaggio degli animali è molto di moda.
Ma dopo aver creduto effettivamente che gli animali
parlassero o avessero in ogni caso un linguaggio che si
potrebbe ricostruire (si è partiti dalle api, per poi
proseguire con i corvi, le taccole e ora i delfini), non si è
ora sicuri che ci sia un linguaggio degli animali; ciò che è
sicuro è che esiste una comunicazione animale, ma ciò che
distingue l’uomo dall’animale è che l’uomo è il solo a
simbolizzare. L’asimbolia è dunque una malattia
tipicamente umana. È grave a livello individuale sotto il
profilo psicosomatico di cui ho appena parlato, ma sarebbe
altrettanto grave, al livello di una civiltà, arrivare, per una
serie di artifici della storia, a uno stato collettivo di
asimbolia. Non è il nostro caso, benché il potere
mitologico e mitico sia estremamente nascosto nella nostra
civiltà tecnica. Si incontrano evidentemente forme
istituzionali di questa monosemia. Sono tutte le discipline
o piuttosto i linguaggi che postulano, in modo
estremamente fermo, che un linguaggio, un messaggio o
un discorso o un significante non hanno che un solo senso
e che, di conseguenza, c’è una lettera, una letteralità del
senso alla quale bisogna attenersi. In realtà, se in certi casi
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
precisi la monosemia è utile, se è garanzia di rigore e di
lucidità in certi tipi di linguaggio, in senso generale e più
ampio, essa comporta gravi inconvenienti. Nello specifico,
un discorso che fosse interamente monosemico o
asimbolico sarebbe alla fine del tutto tautologico.
Polisemia
Il regime di polisemia è la forma di linguaggio, nel senso
più ampio del termine, delle società che accettano il
linguaggio mitico, quello che Hegel chiamava «il brivido
del senso»1. Hegel diceva che gli antichi Greci
attribuivano sensi multipli a tutti i fenomeni naturali e
umani: ai boschi, alle fonti, alle foreste, ai fiumi, tutto era
dotato di senso e, di conseguenza, la natura intera appariva
all’uomo, e appare all’uomo mitico, come animata da una
sorta di fremito del senso. L’espressione è molto bella e
indica precisamente questo potere simbolico, polisemico
delle società, soprattutto delle società mitiche. Il problema
non è di elaborare il simbolo, il simbolo è dovunque, ma
di accettarlo. Ecco, per esempio, tre forme diverse di
questa polisemia. Innanzitutto, la versione in qualche
modo arcaica, etnologica della polisemia o del
simbolismo, della simbolia nel senso pieno del termine:
tutte queste società mitiche per le quali tutto è significante:
natura, piante, animali, architettura, racconti, legami di
parentela. Il senso è dovunque ed è riconosciuto essere
dovunque. In secondo luogo, il regime della polisemia
gerarchizzata cioè dei modi di pensare che accettano
l’idea che un segno abbia più sensi, ma che pensano che in
tutti questi sensi ve ne sia uno privilegiato, vero. Come
esempio si potrebbe indicare la concezione del senso nella
teologia medievale, e specialmente in Dante. Ritroviamo
1
«Le frisson du sens», cfr. OC III, p. 512, nonché OC IV, p. 674.
88
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
questa teoria per tutto il Medioevo a proposito delle
Scritture, realtà essenziale su cui riflette l’uomo del
Medioevo. È la teoria dei quattro sensi. La teologia
ammette che il Vangelo, le Scritture o una parabola o
anche solo una frase del Vangelo stesso, abbiano quattro
sensi contemporaneamente: un senso letterale, quello delle
parole stesse, quindi un senso storico che si lega
all’umanità di Gesù, più oltre un senso morale che implica
l’etica, il dovere dell’uomo, e infine, come quarto, il più
importante, il senso ultimo, il più profondo, il più segreto,
il più nascosto ma vitale, quello che si chiama senso
anagogico, perché è quello che si raggiunge attraverso gli
altri.
Terza forma possibile è quella dei regimi di senso che
ammettono l’interpretazione, il diritto a interpretare il
segno: è dunque la forma di polisemia che le società laiche,
razionali si permettono. Una società come la nostra
ammette l’interpretazione. Non l’ammette sempre, talvolta
limita singolarmente il diritto di interpretare un messaggio
ma infine, diciamo che, proprio perché la parola esiste,
l’interpretazione è una sorta di riconoscimento laico,
razionale e limitato del diritto alla polisemia. Per esempio,
ritroviamo questo nei diritti della critica letteraria, quando
sono riconosciuti. Di certo, non possiamo attualmente
immaginare una semiotica dell’immagine che non sia una
semiotica della polisemia. L’immagine è, per natura,
costitutiva di un messaggio polisemico. Non si può ridurre
l’immagine a un solo senso e, di conseguenza, per fare una
semiologia
dell’immagine,
occorre
innanzitutto
riconoscere la virtù, la costituzione, la natura polisemica
di ogni immagine: specialmente a proposito
dell’immagine che sembra la più oggettiva e la più reale:
la fotografia. Sappiamo bene che la fotografia è un
messaggio polisemico come gli altri.
89
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Asemia
Una terza forma di regime del senso sarebbe un regime di
asemia, cioè l’assenza di senso, o meglio, di esenzione dal
senso. Al livello molto generale in cui ci collochiamo,
l’asemia, cioè la non-simbolia, che vediamo essere molto
diversa dall’asimbolia, rappresenta un’esperienza limite,
sul piano delle società, delle civiltà, che bisogna
interrogare. Si tratta di sforzi, ben localizzati in certe
civiltà, in certe società, per arrivare a ciò che chiamo
l’esenzione totale dal senso. Ciò non ha nulla a che fare,
strutturalmente, con l’assurdo; l’assurdo o l’assurdità è un
senso, precisamente il senso dell’assurdo, l’esenzione dal
senso è dunque uno stato del senso infinitamente più
difficile da realizzare, è una sorta di vuoto del senso o
piuttosto il senso sentito e letto come vuoto, che non è il
caso dell’assurdo. Questo vuoto del senso dove si trova?
Possiamo darne qualche esempio? Tutti i linguaggi
formalizzati, specie il linguaggio matematico e logico,
sono linguaggi vuoti di senso. Sono costituiti da pure
relazioni; ma in queste relazioni non è inserita alcuna
pienezza di senso. Sarebbe come una lingua che non
esisterebbe se non attraverso la sua sintassi e non
attraverso il suo lessico. Ecco, pressappoco cosa sarebbe
questo vuoto, questo linguaggio vuoto di sistemi
formalizzati.
Altra zona molto lontana nello spazio, se non nel
tempo, in cui noi possiamo ravvisare l’idea di un
linguaggio vuoto, di un senso vuoto, sarebbe nell’ambito
delle esperienze mistiche. Ma aggiungo subito che non è
nelle descrizioni della mistica cristiana, benché esse
giochino molto con questa idea del vuoto e del senso del
vuoto, della notte, in mistici come San Giovanni della
Croce o Teresa d’Avila, che andrò a cercare il migliore
esempio, ma nel campo delle esperienze delle religioni non
monoteiste; perché il monoteismo ha un rapporto molto
90
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
preciso con un certo uso e una certa concezione del senso,
del monosenso, se così posso dire. Il monoteismo non
fornisce un buon esempio di questa sorta di liberazione
totale del senso e dell’esenzione dal senso, cui tento di
avvicinarmi ora. Bisogna cercare questo vuoto, questa
esenzione dal senso sul versante di esperienze come quelle
del buddismo Zen (buddismo giapponese). Tutta l’ascesa
dello Zen è precisamente diretta verso una sorta di
svuotamento, di vedovanza del senso, e i teorici dello Zen
hanno ben capito che l’impresa più difficile al mondo non
è di dare un senso (lo facciamo naturalmente) ma, al
contrario, di sottrarre senso. Ed è questo che assume valore
nella prospettiva dell’ascesi spirituale. Esiste nello Zen un
esercizio (i termini occidentali sono molto imprecisi, sono
solo semplici approssimazioni) di meditazione che è
veramente un esercizio di liberazione dal senso
assolutamente impressionante. È l’esercizio in cui il bonzo
dà a colui che vuole affrontare l’esercizio, all’esercitante,
che può essere un altro bonzo o anche un laico che si
presenta per un ritiro, una specie di frase o aneddoto
apparentemente assurdo da meditare. La meditazione non
consiste nel trovare finalmente un senso alla frase assurda,
ma al contrario, attraverso l’assurdità della frase, fare
l’esperienza del vuoto di senso. Infine, paradossalmente,
c’è un terzo ambito in cui attualmente possiamo imbatterci
nell’esercizio dell’esenzione dal senso, cioè una certa
avanguardia letteraria. Oggi, per esempio, i testi e il
pensiero di un gruppo come quello della rivista Tel Quel
girano intorno a una specie di distruzione della leggibilità,
del leggibile.
Possiamo qui inserire una definizione del leggibile.
Chomsky distingue nello studio della lingua tra frasi
grammaticali e frasi agrammaticali.
Una frase grammaticale deve rispettare le norme e le
regole sintattiche di una lingua. Ma questa frase, che è
grammaticale perché soddisfa le regole della sintassi, può
91
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
essere perfettamente spogliata di senso, pensa Chomsky.
Chomsky ha fornito un esempio ora abbastanza famoso:
«incolori idee verdi dormono furiosamente»2. Ecco una
frase che è perfettamente grammaticale in francese ma è
perfettamente priva di senso, pensa Chomsky, e ciò lo
conduce a distinguere tra frasi grammaticali e frasi non
interpretabili. La frase citata è grammaticale ma non
sarebbe interpretabile. Chomsky ha lavorato unicamente
su frasi grammaticali lasciando da parte il problema del
senso del lessico, di cui abbiamo visto poco fa che era in
ritardo rispetto al problema della sintassi.
Jakobson ha risposto a Chomsky che in realtà c’è
sempre un momento in cui questa frase che Chomsky
dichiara priva di senso può avere un senso. Ciò dipende
dal contesto, e quand’anche una frase resistesse al più gran
numero di contesti che si possa immaginare, ci sarebbe
comunque un contesto poetico in cui essa potrebbe di
nuovo essere interpretabile.
Il problema diventa interessante quando lo si trasferisce
al discorso: cos’è un discorso classico nel senso più ampio
del termine? Per esempio, un paragrafo di Balzac,
Stendhal, o una strofa di Baudelaire o un paragrafo di
Camus o di Omero? In tutta questa letteratura, le serie di
frasi hanno precisamente un carattere interpretabile e non
solo ogni frase. È il carattere interpretabile del discorso
che formerebbe il leggibile, e di conseguenza è questo
leggibile, questa leggibilità che, nella maggior parte delle
volte, giudichiamo perfettamente universale e naturale; è
questa leggibilità che è in qualche modo rimessa in
discussione da certe esperienze dell’avanguardia letteraria
che si appoggiano a testi che non hanno questo carattere
d’interpretabilità. L’opera di Lautréamont sarebbe un
2
/Colourless green ideas sleep furiously/, noto sintagma coniato da
Chomsky a cui Jakobson dedica penetranti analisi, cfr. R. Jakobson,
Saggi di linguisica generale, ed. it. a cura di L. Hillman, Feltrinelli,
Milano 1973, p. 71 e sgg.
92
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
esempio di discorso non interpretabile e che ci
rappresenterebbe la possibilità di un discorso in qualche
modo illeggibile nel senso proprio del termine. In questa
avanguardia letteraria c’è una riflessione molto
interessante sulla leggibilità, sui limiti del leggibile. È
un’esperienza di asemia o di ricerca di un discorso che
sarebbe in qualche modo liberato dall’ipoteca del senso o,
in ogni caso, dell’antico governo del senso.
Quale è la posta di queste riflessioni o di questi
problemi? Mi pare che si possano collocare questi
problemi del senso a tre livelli: prima, il livello
psicologico: qui bisogna rifarsi ancora una volta ai lavori
di Lacan. Lacan ha descritto la psiche umana come un
campo in cui si elaborano catene di significanti, di
significanti in successione, ogni significante diventa il
significato di un altro significante che lo conduce più
lontano. Sono catene di simboli, costruite secondo una
forma metaforica (poiché la metafora stessa è una catena
di significanti) che strutturerebbero in qualche modo
l’inconscio e che avrebbero in fondo un solo significato
ultimo. Il mondo psichico nel suo complesso sarebbe un
mondo occupato da significanti a tutti i livelli; e tutti questi
significanti rinvierebbero allora, nell’inconscio, a un
significato unico e ultimo che Lacan chiama metafora
paterna. Ma, e qui Lacan ha formulato le cose in un modo
nuovo, per Lacan il significato ultimo, che è in qualche
modo al termine o all’inizio, nell’inconscio di queste
catene di significanti, è una mancanza, un vuoto. È, in
termini psicanalitici, la mancanza fallica, il fallo come
sesso maschile preso nel suo valore significante, in quanto
simbolo; questa mancanza fallica è precisamente legata al
fondamentale complesso di castrazione che sarebbe
all’inizio o alla fine di questa catena di significanti. La
nostra psiche, che sia normale o patologica, passerebbe il
tempo a elaborare simboli e significanti a partire da un
vuoto, quello definito in termini psicanalitici dalla
93
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
castrazione. Ciò è nuovo e importante poiché si oppone in
qualche modo a tutte le psicologie della pienezza, a tutte
le psicologie dell’essenza e delle essenze psicologiche.
Ciò costituisce una riflessione estremamente nuova sui
rapporti del senso e del vuoto.
Un secondo livello è il livello metafisico così come lo
vediamo attualmente esplorato nei testi di Jacques Derrida.
Sappiamo, da Saussure in poi, con molta chiarezza, che il
segno è una differenza. Perché ci sia un segno, occorre che
ci sia differenza, differenza tra due significanti (gioco
paradigmatico). Saussure aveva detto per primo, in modo
rivoluzionario, che la lingua era un sistema di differenze;
Derrida ha spinto le cose fino all’estremo e ha visto che il
segno è una differenza, l’innesco di una sorta di processo
infinito, che spinge infinitamente indietro il significato. Si
pensava fino a oggi che ci fosse bisogno di questa specie
di arresto del senso. Si pensava che i segni fossero una
mescolanza di significanti e significati, ma che una volta
raggiunto il significato, il segno si arrestasse, una volta che
fosse tutto pieno, tutto colmo, tutto normale. Ora si
comincia a intravedere che i sistemi di segni non possono
mai arrestarsi, che non possiamo mai fermare questi
sistemi su significati ultimi o su un significato ultimo. È
qui evidentemente l’inizio di una riflessione metafisica
che arriva molto lontano e che è in realtà profondamente
atea, poiché i sistemi teologici fanno di Dio il significato
ultimo.
Sarebbe difficile concepire che Dio sia il significante di
qualche cosa; Dio è ciò che è significato, è lui che è
all’origine in quanto significato ultimo ed è lui che è in
qualche modo all’inizio di tutte le catene di simboli e
trasformazioni significanti. A partire dal momento in cui
si afferma che non c’è alcun significato ultimo e che i segni
sono sempre sistemi infinitamente arretranti di differenze,
è evidentemente una contestazione radicale portata alla
teologia e alla nozione stessa di origine. È un modo di
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
pensare o esaurire3 l’origine, poiché, in un processo
infinito di differenze, non si può più pensare l’origine
stessa.
Una struttura, finora, è stata sempre pensata come
dotata di un centro. Ora, con ricerche e formulazioni come
quelle di Lacan, Lévi-Strauss, Derrida si è ancor più
obbligati a tentare di pensare strutture decentrate, perché il
linguaggio è diventato qualcosa di estremamente
importante. Non è una questione di moda o di casualità ma
perché effettivamente il linguaggio appare come esempio
di una struttura decentrata. In un dizionario, ad esempio, si
può ricostruire la struttura delle parole o dei sensi tra di
essi ma non si può mai, per esempio, definire una parola
con l’aiuto di altre parole. È dunque teoricamente un
oggetto vertiginoso. Se non lo maneggiamo come un
oggetto vertiginoso, è per una ragione di pura contingenza,
poiché ci fermiamo di colpo al primo segno che ci dà la
definizione di una parola, ma se volessimo trattare
teoricamente il dizionario per ciò che è, a ogni parola che
ci serve a definirne un’altra bisognerebbe risalire alla
definizione di questa parola e così di seguito. Di
conseguenza non si arriverebbe mai a strutturare, a
centrare la struttura.
Infine, un terzo livello di responsabilità di tutti questi
problemi è quello offerto da questa avanguardia letteraria
di cui ho già parlato e che chiamerò livello politico.
Possiamo domandarci effettivamente se non ci sia una
sorta di rapporto macrostorico, al livello delle grandi
tipologie di società o di civiltà, tra una certa elaborazione
dei sensi, dei sistemi di sensi e degli strumenti di potere o
di produzione come il denaro. C’è forse una sorta di
rapporto tra il senso e il denaro, una stessa concezione del
valore, del valente per. È un fenomeno molto significativo
che termini che si applicano all’economia e alla moneta si
3
Gioco di parole basato su /penser/ e /dépenser/.
95
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
applichino ugualmente al linguaggio e, da quando de
Saussure ha voluto cercare un termine di paragone per
spiegare cosa fosse la lingua, molto innocentemente, ha
preso come metafora l’economia politica.
Ora, se studiassimo meglio certi sistemi di segni della
nostra società di consumo centrata sul denaro, ci
accorgeremmo dei rapporti stretti e dei rapporti organici
tra certi regimi di senso e certe leggi del consumo. È ciò
che volevo tentare di suggerire studiando il linguaggio
della moda. Nella moda, in realtà, ciò che fa vendere non
sono solo rappresentazioni di tipo onirico legate a forme
d’abbigliamento, nonostante gli sforzi dei giornali di moda
su questo aspetto. In realtà, ciò che costituisce la moda
come oggetto di mercato è che essa è costituita come un
sistema di segni. Nella moda, non è il sogno, ma il senso
che fa vendere.
96
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
III. Ecolalie di un ordigno iconico
La Semiologia come decostruzione della
linguistica in Barthes e Pasolini1
di Giuseppe Crivella
Più o meno negli stessi anni in cui si compiva per Barthes
la decisiva transizione verso il territorio delle immagini,
anche un altro intellettuale in modo sempre più radicale si
stava muovendo secondo la stessa traiettoria. Se per il
primo si trattava di spostarsi da una semiologia di stampo
prettamente saussuriano, e quindi linguistico, verso una
fenomenologia selvaggia, per il secondo lo slittamento
avveniva in vista di quella che egli stesso di lì a qualche
anno avrebbe definito «Linguaggio Scritto della Realtà» o
anche «soliloquio vitale della realtà con se stessa».2
Sia Barthes che Pasolini ad un certo punto avvertono
quindi l’angustia dei limiti metodologici e teorici della
nascente semiotica e così da una parte sentono che il segno
frustra senza remore l’esistenza inquieta dell’oggetto,
mentre dall’altra notano che esso, trasferito nel campo
proprio della immagine, è in grado di dispiegare delle
potenzialità critiche e speculative inedite e inattingibili, se
limitato al solo medium linguistico.
Se per Barthes il rapporto con l’immagine si inscrive
all’interno di una fitta rete di perplessità, per Pasolini
l’immagine erompe al centro della sua riflessione col
carattere liberatorio di una rivoluzione inaspettata e felice,
non priva tuttavia di ambiguità che esporranno il poeta
bolognese a non poche critiche da parte di molti semiologi
italiani – è, ad esempio, molto nota la querelle nata con
L’espressione Semiologia come «decostruzione della linguistica» è di
Barthes, cfr OC V, p. 439.
2
P. P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 1991, pp. 191 e
244. Da ora in nota sempre con EE.
1
97
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Umberto Eco a proposito dell’esistenza o meno di una
doppia articolazione3 in seno al linguaggio
cinematografico — nonché a sinceri apprezzamenti
soprattutto oltralpe, dove studiosi come Metz e Deleuze
più volte esprimeranno la loro ammirazione nei confronti
degli studi di Pasolini sull’immagine cinematografica.4
Si prenda Roland Barthes par Roland Barthes, testo del
1975, exemplum di una ricostruzione autobiografica che
cerca di alleggerire la funzione e la nozione di
soggetto/scrittore: la meditazione che apre il volume
testimonia immediatamente una fascinazione anodina ed
oscura che l’autore accusa dinanzi alle immagini, quella
fascinazione che Barthes più volte nel corso della sua
opera tarda chiamerà sidération5, alludendo con tale
espressione ricorrente a una sorta di potere meduseo di
cooptazione sibillina dello sguardo e del pensiero
connaturato alle immagini, del tutto opposto invece a
quella jouissance du Texte che Barthes aveva avuto modo
di sperimentare e di riconoscere come strutturale a certi
tipi di scritture pochi anni prima ne Le plaisir du texte6.
Per Barthes sembra che l’immagine affiori come
qualcosa di spettrale da un fosco fondo di irredimibile
passato, intriso di un’atmosfera che risuona con accenti
struggentemente funerei. L’immagine però qui non
rappresenta una minaccia, piuttosto costituisce una sorta di
tenebroso turbine di immobilità ove la memoria rischia di
insabbiarsi come un relitto deragliato fuori dal tempo. È
forse proprio per questo motivo che l’autore suddividerà
quel formidabile miroir d’encre7 che è Roland Barthes par
Roland Barthes in due sezioni ben distinte: la prima
3
Cfr. U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano 1969, pp. 276280.
4 Cfr. G. Deleuze, L’image-mouvement, Minuit, Paris 1983, p. 46.
5 «Images qui me sidèrent», cfr OC IV, p. 581.
6 OC IV, pp. 216-265.
7
Riprendiamo qui la formula dal bel testo di Beaujour, Miroirs d’encre,
Seuil, Paris 1980.
98
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
dominata dalle immagini, ove il testo solo a fatica riesce a
star dietro alle fotografie che cercano di ricostruire in
modo frammentario e quasi episodico l’épars di una vita
che ci si sforza di vedere dall’esterno, la seconda “fatta”
solo di scrittura, dove non c’è più posto per le immagini.
Anche applicata all’immagine quindi la semiologia
barthesiana rimane una semiologia del testo contro
l’opera, del senso progettato e vissuto come molteplice
volume in fuga contro lo strato contratto dei significati
ossificati di una tassonomia linguistica prima e culturale
poi che non ammette evasioni o effrazioni. Ciò accade
perché ancora nel ‘75 l’immagine per Barthes appartiene
al dominio dell’analogico puro8, alla dimensione
protervamente mimetica di un segno asservito alla
aderenza piena del reale, appartiene quindi ad una pratica
di generazione precostituita del senso ove forse è possibile
scorgere a ben guardare una sorta di velato crittogramma
del potere.
Sappiamo tuttavia che Barthes di lì a poco supererà
questa diffidenza — questo timore — per l’analogia, da
una parte orientandosi sempre più verso il cinema dei russi
e la scrittura di Diderot, dall’altra facendo della sua
mirabile scrittura, prensile e manipolatrice, una sorta di
piccolo museo privato e trasversale ove ospitare riflessioni
sulle opere di Réquichot e Masson, Arcimboldo e Erté, von
Gloeden e Cy Twombly9, ravvisando soprattutto in
quest’ultimo un connotato particolare dell’immagine, la
quale viene a collocarsi su quella frontiera invisibile che
Barthes aveva lungamente percorso e meditato durante il
suo soggiorno nipponico10 e lungo la quale il segno è colto
8
In Roland Barthes par Roland Barthes vi è un testo dedicato proprio
a ciò che l’autore chiama, riprendendo un’’espressione di Mallarmé,
Démon de l’analogie e che inizia dicendo: «la bestia nera di Saussure
era l’arbitrario (del segno). La [mia] è l’analogia». Cfr. OC IV, p. 624.
9 Tutti scritti poi raccolti ne L’obvie et l’obtus, Seuil, Paris 1982.
10
Cfr. L’empire des signes, «testo e immagini, nel loro incrocio,
vogliono assicurare la circolazione, lo scambio di tali significanti: il
99
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Semiotropie. Eredità di Barthes
da un vacillamento felice e irriducibile che lo porta a fare
della parola un disegno epurato d’ogni obbligo
referenziale e del disegno una parola liberatasi ormai di
ogni precostituita disposizione semantica, una specie
rarissima e fugace di scrittura apolide e policefala la quale
confonde i domini che attraversa, scompagina i significati
che veicola, disorienta e sventa l’entrata in gioco di ogni
ratio seccamente rappresentativa, facendo del segno una
figura anfibia che galleggia e scompare all’incrocio di
innumerevoli codici, ormai frananti l’uno sull’altro, l’uno
nell’altro.
Anche nei confronti del cinema Barthes non ha poche
resistenze: lo schermo prima bianco e poi nero, solcato da
lampi e bagliori, rappresenta per il suo occhio uno spazio
periclitante di visioni ingannevoli; l’immagine divora lo
sguardo, dispiega un’area di ingestibile captazione ove la
vista finisce con lo sprofondare nel non-luogo di una figura
che, nel tendere il proprio tranello ricorrendo ai protocolli
della più schietta verosimiglianza, insuffla di concerto in
esso le forme sibilline di un immaginario impersonale,
sottilmente trans-elaborato dalle sapienti e inapparenti
logiche sottocutanee della ideologia:
l’immagine filmica che cos’è? Un inganno [leurre]. Bisogna
intendere questo termini nel senso analitico. Io sono chiuso
con l’immagine come se fossi preso nella famosa relazione
crudele che fonda l’Immaginario. L’immagine è lì, dinanzi a
me, per me: coalescente (il suo significante e il suo
significato sono ben fusi), analogica, globale, pregnante; è
un inganno perfetto: io mi precipito su di essa come
l’animale sul lembo di panno rassomigliante che gli si
tende.11
corpo, il viso, la scrittura, e leggervi il ritrarsi dei segni», cfr. OC III,
pp. 348-445.
11 Si tratta un breve scritto del 1975 intitolato appunto Uscendo dal
cinema. Cfr. OC IV, p. 782. Traduzione nostra. Va detto però che già
nel luglio del 1964 Barthes per la rivista Image et son aveva affrontato
il problema del rapporto tra cinema e semiologia – cfr. OC II, p. 622628 – in un intervento nel corso del quale egli, dopo aver messo in luce
100
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Analogico e ideologico per Barthes sono legati da una
ferrea alleanza, vigorosa e vischiosa: la rassomiglianza
strangola il pensiero, ingabbia il senso, ne arresta la fuga
assiderandolo nelle anguste maglie di un linguaggio
piattamente figurativo che non ammette deroghe o
infrazioni, tranquillizzante perché condiviso, condiviso
perché stereotipo. L’immagine però ad un certo punto
smette di essere tale, la sagomatura sul reale è condotta
talmente in profondità che essa subentra a quello.
L’immagine aderisce senza resto alla carne della verità,
consumandone ogni spessore riposto. Lo spettatore si
trova così incollato alle cose stesse tramite il medium
imitativo, che a poco a poco scompare erodendo ogni
spazio di distanza critica tra l’occhio e la figura. La
coscienza dello spettatore è così portata a coincidere senza
resto, in una identificazione morbidamente coatta con ciò
che crede essere il proprio immaginario e che invece non
è null’altro che il prodotto messo a punto dalla ideologia,
la quale dispiega sullo schermo le proprie potenzialità di
sottile contraffazione.
Ipnosi, fascinazione, siderazione: il vocabolario di
Roland Barthes ruota attorno ad una vicenda di minuto
scollamento del soggetto dalla propria facoltà
immaginativa, dalla propria visione, dal proprio occhio,
che diventa l’insituabile spazio di contaminazione e
collisione tra flussi di immagini eterogenei e tuttavia in
grado di fondersi e trasfondersi in un processo di
coalescenza inavvertibile, la quale schiaccia l’io stesso
dell’individuo sulle immagini dello schermo.
i limiti effettivi di una ipotesi di trasponibilità dei parametri esplicativi
della linguistica ai codici filmografici, si soffermava sulla necessità di
analizzare in primis l’image seule. Alla luce dei suoi studi futuri
sull’immagine fotografica e sul fotogramma, ci sembra che Barthes già
in questo primo scritto avesse le idee piuttosto chiare su come
avvicinarsi alla dimensione dell’immagine tramite un arsenale critico
desunto dalla linguistica e della semiologia.
101
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Ecco che si viene a creare ciò che Barthes, con una
espressione felicissima, chiama circolo duale12: il soggetto
si trova collocato al centro di uno spazio concreto,
materiale — la sala del cinema — che in realtà esiste solo
all’interno dello spazio immaginario dell’io, come una
presenza malignamente parassitaria che alligni in esso
sostituendosi ad esso. È proprio per questo motivo che
Barthes si concentra molto sullo schermo e su ciò che
precede l’apparizione delle figure su di esso. La stessa
malizia decostruttiva che egli aveva messo in opera nei
confronti della scrittura, ora egli la applica al cinema,
approntando una sorta di fluido e lacunoso metalinguaggio
filmografico che scompone il meccanismo di proiezione
negli elementi che lo costituiscono, disponendoli e
allineandoli in una sorta di instabile asse paradigmatico di
eterocliti tratti pertinenti, in modo da poterli analizzare
anteriormente alla loro flessione sintagmatica:
in questo cubo opaco, una luce: il film, lo schermo? Sì, certo.
Ma anche (ma soprattutto?) visibile e non percepito, questo
cono danzante che buca il nero, come un raggio laser. Questo
raggio si converte, secondo la rotazione delle sue particelle,
in figure mutevoli; noi giriamo il nostro sguardo verso la
moneta di una vibrazione brillante il cui imperioso getto
passa radente sul nostri cranio, sfiora […] una capigliatura,
un volto. Come nelle vecchie esperienze di ipnotismo, siamo
affascinati, senza vederlo frontalmente, da questo luogo
brillante, immobile e danzante [...]. Tutto accade come se un
lungo stelo di luce venisse a sagomare una serratura e noi vi
guardassimo attraverso, siderati da questo buco.13
Cinque anni prima di questo testo, è noto, Barthes aveva
dedicato un piccolo saggio ad Ejzenštein, intitolato Le
troisième sens14. I due scritti vanno letti insieme: il primo
nasce come riflessione sulle possibilità di liberazione del
senso, mentre il secondo è una meditazione sulle
12
Ivi, p. 781.
Ivi, p. 780. Traduzione e corsivo nostri.
14 OC III, pp. 485-526.
13
102
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
dinamiche di frustrazione e castrazione del senso. Il film
adesca l’occhio e il pensiero, allude ad una seconda natura
che viene confusa con la prima. Lo spettatore è proiettato
in una emanazione illusoria che non riesce a recepire e a
vivere come tale. Per questo è necessario quel capillare
smontaggio genetico che il saggio su Ejzenštein mette in
campo, i cui scritti teorici sul cinema appaiono agli occhi
di Barthes altrettanto importanti per déjouer gli inganni dei
linguaggi figurali come lo era stato decenni prima per lui
la lettura e lo studio del Cours saussuriano.
E non è un caso che egli vada ad analizzare il fatto
cinematografico partendo dal fotogramma, riducendolo
quasi completamente al fotogramma, letto come un
frammento esplosivo depositario di una carica semantica
ad altissima potenzialità dissociativa liberata nell’attimo in
cui la sequenza di immagini viene bloccata e segmentata
nel fascio dei suoi formanti. La siderazione per forza di
cose deve interrompersi, così come la fascinazione è messa
in mora, svelata quale risultato più che sospetto, e quindi
arrestata, condotta quasi a decomporsi. L’occhio vaga
sulla superficie opaca del fotogramma in cerca del
referente-zero che veicolerebbe il senso, rimanendo però
deluso, frustrato da questa ricerca che si arena in un
pulviscolo cristallizzato di figure mute.
Concepita così la originalissima semiologia
barthesiana pare affine ad una puntiforme e circostanziata
epochè15, la quale riesce a far apparire una sorta di eidetica
vuota o del vuoto, ponendo le premesse per una intuizione
cieca ove il senso instillato in essa dall’inganno della
morbida violenza analogizzante finisce per circolare libero
da ogni rassomiglianza, si diffrange in una serie di
aderenze sempre inadeguate e illogiche rispetto a quanto
viene rappresentato, fino ad evaporare in una rarefatta
In un testo del 1978 intitolato L’image Barthes parla esplicitamente
di epochè, come sospensione delle immagini, cfr OC V, p. 518.
15
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
ascesi semantica molto affine a quella prodotta dal satori,
nella cui fenomenologia obliqua ciò che finalmente può
apparire è una geologia differenziale16 non tanto dei sensi
veicolati dell’immagine quanto delle possibilità stesse
dell’immagine di trasmettere sensi che ne siano la
paradossale contestazione intestina.
È sulla base di questa prospettiva che Barthes, durante
gli ultimi anni della sua attività di critico, più meno nello
stesso periodo in cui poneva mano a La chambre claire, si
avvicina all’opera di Bernard Faucon e soprattutto di
Daniel Boudinet, il cui scatto dal sapore lynchano
intitolato Polaroid è posto in esergo al testo del 1980 sulla
fotografia. E proprio per alcune immagini di Boudinet nel
1977 Barthes scrive una serie di brevi commenti che
sembrano contrassegnare il momento della sua definitiva
conciliazione col mondo delle immagini. Créatis è il titolo
della sequenze di scatti che il fotografo aveva dedicato a
paesaggi e scorsi di vita campestre ove Barthes può
finalmente leggere la presenza di una natura vissuta come
massa vegetale tendente all’amorfo, al non culturalizzato,
espressione di una immagine che con forza e delicatezza
cerca di eludere ogni ottemperanza ad una forma
codificata. La bellezza della natura qui appare come
qualcosa che si mostra ma non si dice, tramite segni che
vanno letti unicamente come «geroglifici dell’animato»17,
segni della sua stessa sospensione, tracce sparse tramite
cui raggiungere una catarsi sottile dal centro della quale la
rappresentazione comunica direttamente col denso
mostrarsi di una natura presente e ancestrale.
Non deve stupire allora che Barthes chiuda il suo
commento sull’immagine ravvicinata del terreno
costellato di residui organici, di frammenti d’ossa, radici
annodate e foglie marce:
16
17
Ivi, p. 516.
OC V, p. 526.
104
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
la terra vista da vicino: humus, rametti spezzati, acqua
stagnante, frantumi: germinazione e corruzione. Un
fringuello, carne dal gusto forte, un cavolo roso dalla suzione
delle lumache, come un rovesciamento inevitabile della bella
Natura arborea che abbiamo appena lasciato 18. Eppure,
chiudete gli occhi: gli alberi restano, abbaglianti, nella nostra
testa, incisi sul rovescio delle nostre palpebre; non potete
disfarvene; vedete, grazie a una sorta di permanenza confusa,
non questa o quella immagine, ma una sorta di distesa
vegetale, sontuosa e austera, una sorta di invito silenzioso
a...«filosofare».19
Completamente diverso appare il caso di Pasolini. In lui da
subito l’immagine assume l’aspetto dell’effetto o
dell’origine di un sommovimento espressivo che lacera la
lingua, vi apre crepe, ne scava la lucida compattezza, la
mette in mora a favore della Realtà che essa presume di
poter elettivamente riprodurre, comunicare, enunciare. Per
Pasolini la lingua è un ordine abusivo imposto alle cose, le
quali, interrogate e sollecitate dalla macchina da presa,
reagiscono opponendosi alla parola, sopravanzandola,
intorbidandola fino al più basso grado di espressività.
L’immagine si impone come qualcosa di visceralmente
eruttivo, in grado quindi di infrangere la plastica
compagine livellante della lingua così da neutralizzarne le
diverse classificazioni: alla luce di ciò l’immagine — e
soprattutto l’immagine cinematografica — può assurgere
al ruolo di pratica speculativa tramite la quale perseguire
una «autoterapia inconscia»20 la quale non potrà non
condurre a vedere e a intendere la realtà se non come un
linguaggio incodificabile.
Abbiamo visto che per Barthes l’immagine è un leurre,
una trappola di matrice analogica, che non lascia spazio
alcuno a ciò che egli nel 1964 aveva chiamato
18
La sequenza di immagini precedenti mostrava per lo più alberi.
OC V, p. 529.
20 EE, p. 137.
19
105
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
immaginazione del segno21 e che dunque non concede
movimento alla vertigine semiologica poiché già
disinnescata alla radice, poiché imbrigliata nel reticolo di
indicazioni piattamente referenziali dirette, prodotte e
scandite dal frusto protocollo di una uguaglianza
infrangibile, di una gemellarità — segno/oggetto —
indissociabile e castrante.
Di fronte al medesimo fenomeno Pasolini sperimenta
l’esatto contrario: l’immagine deflagra silenziosamente
nello spazio del segno. Essa incarna l’epifania polisensa
dell’inclassé — per usare un termine barthesiano – tracima
al di fuori dei codici linguistici sintetizzandoli,
contraendoli quasi caoticamente e geneticamente in sé, in
una sorta di verticale totalizzazione semantica delle
manifestazioni a cui essa dà luogo e da cui essa stessa
deriva22. In Pasolini l’immagine si afferma senza
mediazioni e in modo improvviso, portandosi dentro la
forza informe e palingenetica dell’elementare – quella
stessa forza che Barthes arriverà a decifrare solo molto
tardi nelle foto di Boudinet e dopo una lunga
frequentazione intrisa di scetticismo con l’immagine –
dell’ingestibile, della concretezza recalcitrante alle
categorizzazioni, simile a una sorda spinta materiale che
non ammette alcuna conformazione espressiva definita o
definitiva.
In Barthes l’immagine parlava da subito il linguaggio
corrotto dell’esistenza addomesticata, forse narcotizzata se
non addirittura inumata nella propria indefettibile
somiglianza con se stessa. In Pasolini tale somiglianza fa
invece in modo che nulla la possa imbrigliare o limitare: il
cinema diventa quella boîte à vision in cui le cose si
21
OC II, p. 463.
Fu proprio questa ricchezza semantica trasversale, la quale salda il
minerale e il culturale in un lampo visionario, che attrasse Pasolini della
lirica di Zanzotto e della scrittura di Volponi, cfr P.P.Pasolini,
Descrizioni di descrizioni, Garzanti, Milano 1984, pp. 369-384.
22
106
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
riappropriano di se stesse, tornano a combaciare
perfettamente con la selvaggia dismisura, organica e
inorganica, reattiva e repulsiva, propria della loro piena e
tortuosa presenza mondana. In Barthes troviamo una
estrema cautela nel porsi di fronte all’immagine: essa è
l’ombra portata di una luce impersonale — quella della
ideologia latente in tutto — la proiezione di un
immaginario collettivo condizionante e livellante. In
Pasolini di contro troviamo una sorta di organico, tellurico,
corporeo rapimento estatico: il suo linguaggio sfocia nel
mistico, poiché nell’immagine prende vita una ierofania23
del concreto che risulta inconcettualizzabile.
La semiologia di Barthes è una semiologia della
riduzione, dell’azzeramento semantico, della selezione
precisa e dislocante, della segmentazione disorientante le
preformate catene associative: l’immagine va epurata dalle
sue trasparenti scorie ideologiche tramite la
frammentazione in fotogrammi isolati, rescissi dalle
logiche di denotazione diretta. La semiologia di Pasolini è
una semiologia della espansione improvvisa, della
amplificazione e della proliferazione semantica non
sorvegliata, del concatenamento infinito: La Realtà ripresa
dalla macchina è immediatamente segno bruto e non
vagliato di se stessa, appare nudamente e selvaggiamente
in una trama ricchissima di meri «sintagmi viventi»24 che
rimandano soltanto alla loro esistenza e alla loro presenza,
segni puri della loro completa immanenza a se stessi,
pervenendo così a ricostruire quel «soliloquio vitale della
Realtà con se stessa»25 che porta Pasolini a far coincidere
la Semiologia Generale della Realtà con la semiologia del
cinema26. In uno dei passi più penetranti Pasolini
argomenta così:
23
Termine ricorrente in Pasolini, cfr EE, p. 263.
Ivi, p. 239.
25
Ivi, p. 244.
26 Ivi, p. 252.
24
107
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
mi si consenta la libertà del poeta che dice liberamente cose
libere […]. Questa quercia che ho davanti a me, non è il
«significato» del segno scritto-parlato «quercia». No, questa
quercia fisica qui davanti ai miei sensi è essa stessa un segno:
un segno non certo scritto-parlato, ma iconico-vivente o
come altro si voglia definirlo. Sicché, in sostanza, i «segni»
delle lingue verbali non fanno altro che tradurre i «segni»
delle lingue non verbali; o, nella fattispecie, i segni delle
lingue scritte-parlate non fanno altro che tradurre i segni del
Linguaggio della Realtà.27
L’immagine in tal senso è la fedele trasposizione di quella
sorta di immenso monologo che la Realtà intrattiene da
sempre con se stessa e che fa in modo che essa non sia altro
che la traduzione puntale di una enorme e inesauribile
Tautologia metalinguistica in forza della quale ogni
oggetto ripreso è soltanto segno di se stesso, in grado cioè
di esprimere solo se stesso in una specie di traduzione per
evocazione della sua presenza spontaneamente e
naturalmente «cifratrice».28
Pasolini, sfoderando una imprevedibile vocazione
analitica alla sistematizzazione da semiologo navigato, tra
il 1965 e il 1971 muoverà risolutamente da questi assunti
per giungere a enucleare i cinque principi-cardine su cui
far ruotare tutta la complessa e pluristratificata ricchezza
della sua pansemiologia29, incarnatasi nel linguaggio allo
stato brado di una ipotetica immagine cinematografica
assoluta e priva di tagli, una sorta di piano-sequenza
infinito, come più volte egli stesso si trova a definirlo.
Inoltre, a fronte di questi cinque principi Pasolini,
incrociando i ferri con i più agguerriti semiologi, critici
27
Ivi, p. 264. Corsivi nostri.
Ivi, p. 257. Titolo del saggio è res sunt nomina , quasi a postulare la
possibilità teorica di una corrispondenza piena e indefettibile di
funzioni tra il nome all’interno della catena sintagmatica e la cosa
all’interno delle nostre serie percettive continue.
29 Ivi, p. 161.
28
108
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
letterari e scrittori del tempo30, enumererà nel saggio che
chiude Empirismo eretico i nove codici che scandiscono e
strutturano la messa in forma di una Realtà autosignificantesi, affine cioè a ciò che pochi anni primi
Merleau-Ponty aveva definito come «ventriloquia
dell’Essere».31
Dal momento che neppure Pasolini ha problematizzato
ulteriormente questi nove codici, noi ci limiteremo qui ad
elencarli, mentre dedicheremo nelle battute finali qualche
parola in più per la precisazione dei cinque assunti. A
differenza di Pasolini però noi ridurremo a cinque il
numero dei codici dato che, come vedremo
immediatamente, quattro di essi possono benissimo essere
contratti in un unico sovra-codice32:
Ur-Codice o Codice dei codici o Codice della Realtà
vissuta: è il primo e il più profondo, ciò su cui poggiano
tutti gli altri. È quello in cui avviene la prima. più radicale
e immediata auto-cifrazione della presente concreta e
vivente delle cose.
I.
Codice della Realtà osservata: è il momento in cui la
Realtà si presenta come oggettiva a un osservatore che si
limiti a contemplarla, a guardarla, senza proferire alcuna
parola, senza parlarla, ovvero senza tramutare la
manifestazione pura delle cose in un codice ad esso
improprio, difforme ed estraneo.
2.
Tra cui Eco, Segre e Moravia. C’è da dire comunque che autori come
Deleuze, Metz e Bellour apprezzeranno molto le analisi di Pasolini e
più volte esprimeranno la loro vicinanza ad esse.
31 M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, Gallimard, Paris 1964, p.
238.
32 EE, pp. 289-297. Elemento guida di tutta la classificazione è
naturalmente l’analogia, qui intesa per forza di cose quale «segno
iconico di se stessa».
30
109
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Codice della Realtà immaginata e rappresentata: ci
muoviamo qui ad un livello superiore rispetto al
precedente: il terminale è sempre scandito da una
prensione ottica o para-ottica, ma il pattern della Realtà
riprodotto ha già ricevuto una segmentazione data dal
ricordo o dalla riproduzione onirica. Le cose continuano a
presentarsi nella loro pura dimensione analogica, ma il
soggetto ha già trascelto tra di esse quale far apparire e
quale espungere dalla raffigurazione.
3.
Codice della Realtà evocata o verbale: è il momento in
cui subentra la lingua, ovvero un codice del tutto diverso
da quello in cui si esprime la Realtà nel suo monologare.
Forzando un po’ la mano potremmo dire che si tratta di un
passaggio traumatico poiché il vettore analogico qui si
arresta per lasciare il posto ad altre tipologie di
codificazione.
4.
Codice della Realtà raffigurata o riprodotta: in effetti
Pasolini suddivide questo macro-codice in quattro codici:
Realtà Raffigurata, Fotografata, Trasmessa, Riprodotta.
Noi però proponiamo questa formula sintetica delle
quattro varianti perché crediamo che, sebbene le formule
di organizzazione sintagmatica del materiale siano molto
diverse tra di loro anche in relazione al medio scelto per la
coordinazione, il principio che ne sta a fondamento sia il
medesimo, ovvero la selezione all’interno del primo
codice di una porzione limitata di Realtà, la quale quindi
viene condotta a dire se stessa secondo un montaggio di
elementi che rischia sempre di snaturarla o di alterarla. In
questo codice quindi Pasolini torna a far operare la matrice
analogica, ma sulla base di un sistema di coordinazione
che non appartiene direttamente alla analogia pura del
primo codice. Quest’ultima tipologia sembra una specie di
ibrido tra i codici a prevalenza analogica e quello
travagliato dalla lingua: la cosa si mostra nella sua
5.
110
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
presenza ma questa è inserita in una catena frastica che la
strappa dalla elocuzione naturale per incassarla in un
discorso che obbedisce ad altri criteri ad essa eterogenei.
Queste cinque tipologie di codice hanno alla loro base
cinque assunti cardinali a cui Pasolini dedica molte pagine
della terza sezione di Empirismo eretico. Naturalmente
non è possibile stabilire una corrispondenza biunivoca
netta tra la prima serie — quella dei principi — e la
seconda — vertente sulla enucleazione dei codici — ma
certo è indubbio che tra le due vi sia una strettissima
correlazione. I cinque assunti però si trovano allo stato
sparso all’interno dell’opera, Pasolini non ha mai cercato
di darne la lista completa; nonostante ciò essi sono
facilmente reperibili e, come era accaduto per i codici,
desumibili secondo una matrice di derivazione da quello
più profondo e prossimo all’incessante mormorio della
Realtà a quello più superficiale, prossimo a tecniche di
messa in forma della dicibilità che rischiano di allontanarsi
della prima, aurorale parola-presenza degli oggetti. Ecco
dunque i cinque principi della pansemiologia pasoliniana:
I. La Realtà naturale è un linguaggio costituito da segni che
rivelano se stessi. L’ontologia pertanto è una sorta di
immensa «tautologia autorivelantesi» presa in un
continuum di processi senza evoluzione, pura e bruta
diacronia. Da ciò è desumibile una «grammatica
magmatica» che si esprime tramite il vettore analogico, il
quale fa della percezione sensoriale l’espressione più
diretta del codice sottostante a tutti degli oggetti come
simboli figurali di se stessi.33
Ivi, pp. 193-197 e 279-281. «L’analogia è su superfici profonde», p.
230.
33
111
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Tale grammatica magmatica dà luogo a delle immagini
primordiali le quali esprimono una fenomenalità
irriducibile del reale che non può corrispondere al
linguaggio proprio del codice scritto-parlato. Pasolini
chiama tale immagini im-segni o cinèmi, i quali sono in
primis ingerarchizzabili e in secundis esibiscono tre
caratteristiche ineliminabili:
II.
a. sono pre-umani (comunicano un mondo anteriore allo
sguardo umano),
b. sono pre-grammaticali (comunicano un mondo
anteriore alla parola umana),
c. sono pre-morfologici (comunicano un mondo anteriore
alle concettualizzazioni umane)34.
I cinèmi si muovono su una dimensione translinguistica che costituisce una sorta di infrastruttura
intensiva di segni autorivelantesi in grado di esprimere
forme, oggetti, stati di mondo.35
III.
Vista in tal senso la Realtà va colta nella sua mera
manifestazione, quale «ontologia depragmatizzata», in cui
il pragma che appare è unicamente inteso in termini di
enigma, carico di sfumature afferenti quasi alla sfera del
numinoso, ma di un numinoso ancestrale, privo di un
qualsiasi dio antropomorfo, un numinoso «vedicospinoziamo».36
IV.
Anche il cinèma è analizzabile tramite doppia
articolazione; usciamo qui dalle ramificazioni dell’Urcodice per entrare nelle formulazioni dei linguaggi
derivati, i linguaggi integrati37. Nel caso dell’immagine
V.
34
Ivi, pp. 259 e 169.
Ivi, p 199.
36
Ivi, p. 280. Ivi, p. 280.
37 Ivi, p. 250.
35
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
cine-fotografica il cinèma per esprimere qualcosa ha
bisogno di individuare un oggetto — o una forma o uno
stato del mondo — sulla base di una selezione che si
innesta in esso in seconda battuta: nasce in tal modo prima
la pragmatica della inquadratura e poi la logica del
montaggio che, nell’ottica di Pasolini, se usati a dovere
possono a tutti gli effetti divenire i veicoli per una
«possibile riapparizione della Realtà».38
Come è possibile vedere da questi pochi cenni, siamo
molto lontani da Barthes. Bisognerà aspettare La chambre
claire perché anch’egli arrivi a posizioni affini a queste di
Pasolini. L’operazione di vidage du sens proposta per la
letteratura verrà trapiantata nel mondo delle immagini solo
nel corso del suo ultimo testo. Dedicato a L’imaginaire di
Sartre, mosso da una ispirazione para-husserliana che
condurrà l’autore ad individuare in certi scatti di Kertész
una curiosissima «noesi senza noema»39, sarà con questo
saggio del 1980 che Barthes riuscirà a trasformare la
pragmatica della Spectatio in quel campo unico di
osservazione intensa ove far collimare finalmente la
interminabile fissazione dell’oggetto con la imponderabile
fissione dei sensi.40
38
Ivi, p. 276.
OC V, p. 878.
40 Ivi, p. 869.
39
113
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
IV. Scenografie logoclaste.
Barthes e Benjamin di fronte all’immagine
di Giuseppe Crivella
I percorsi che conducono Benjamin e Barthes a
confrontarsi con la multiforme sfera di fenomeni afferenti
alla dimensione dell’immagine sono estremamente
differenti. Per il pensatore tedesco il primo incontro
cruciale avviene di certo negli anni ’20, durante le intense
e sofferte fasi di stesura del lavoro sul Dramma barocco.
È stato Rolf Tiedemann ad aver ricostruito questo
momento così importante per lo sviluppo successivo di
tutta la riflessione del berlinese: nella sua raccolta del 1973
Studien zur Philosophie Walter Benjamins egli in più punti
delle sue analisi mette in luce quanto le dinamiche di
significazione legate all’allegoresi aprano dinanzi a
Benjamin un nuovo orizzonte di problemi in buona parte
orbitanti attorno all’universo dell’immagine, il quale
tuttavia verrà attentamente esplorato da Benjamin
soprattutto con il Passagenwerk e con dei saggi isolati,
come ad esempio quello dedicato a Proust1. Ecco come
Tiedemann verso la fine del volume compendia tale stato
di cose:
le immagini dialettiche [dell’opera sui Passages] sono
immagini autenticamente storiche e non sono affatto delle
immagini arcaiche. Esse posseggono un indice storico che
però non le ascrive unicamente ad una certa epoca
determinata ma fa sì che esse divengano piuttosto leggibili
solo a partire da una certa epoca. Tale divenire-leggibile è il
punto critico ravvisabile in seno a queste immagini […].
1
R Tiedemann, Études sur la philosophie de Walter Benjamin, trad. fr.
di R. Rochlitz, Ed du Sud, 1987, pp. 63-64, 124-125.
114
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
L’immagine dialettica del Passagenwerk è l’Idea del
Dramma barocco giunta a maturazione.2
Che l’immagine stesse per assumere un ruolo sempre più
preponderante nella riflessione del berlinese è evidente
anche da un altro aspetto: basta vagliare brevemente la
bibliografia critica che Benjamin cita in nota alla sua
dissertazione sul Trauerspiel per capire quanto la
ricostruzione dei problemi dell’immagine fosse capillare e
oltrepassasse il semplice gusto documentario, andando a
toccare invece direttamente e per la prima volta in modo
così pregnante un punto sensibile della sua riflessione
ancora non del tutto esplicitatosi. Non deve stupire allora
che egli risalga addirittura fino al primo trattato di filosofia
delle immagini, ad opera di un gesuita francese di nome
Menestrier autore di una Philosophie des images edita nel
1683.3
Per quanto riguarda Barthes stabilire il momento in cui
l’immagine inizia ad imporsi alla sua attenzione sembra
essere più agevole. Esso dovrebbe collocarsi più o meno
negli anni ’70, allorché egli inizia a interessarsi in misura
crescente alla fotografia e al cinema. Ma in realtà non è
così. Anche per Barthes il tramite riposto e inapparente che
lo porta ad analizzare l’immagine è la letteratura: si
prendano, a sostegno di tale ipotesi, i saggi consacrati a
Robbe-Grillet degli anni ’60, raccolti poi in Essais
Critiques: le precise disamine che egli sviluppa hanno tutte
alla radice un elemento che stringe fortissimi legami con
l’immagine, a tal punto che i romanzi di Robbe-Grillet
vengono letti come montaggi devianti di fotogrammi
instabili che non smettono di scivolare l’uno sull’altro, di
accavallarsi, di sconfinare l’uno nello spazio grafico
2
Ivi, p. 164-165. Corsivi nostri. Cfr inoltre R. Tiedemann, Dialektik im
Stillstand. Versuche zum Spätwerk Walter Benjamins, Suhrkamp
Frankfurt 1983, pp. 101-106.
3
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, ed. it. a cura di E. Filippini,
Einaudi, Torino, 1980, p. 179 n.
115
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
dell’altro fino ad una sorta di mobile plastica figurativa che
scompone i luoghi, le identità, le situazioni. Naturalmente
Robbe-Grillet non è l’unico ad essere analizzato con
questo formidabile filtro esegetico; più o meno una
metodologia affine si trova messa in campo anche per
Bataille e la sua Histoire de l’œil in cui Barthes riconosce
come modello specifico della tecnica narrativa dell’autore
la legge dell’immagine surrealista che disarticola4 le
associazioni tradizionali di parentela tra i termini
prelevando ciascuno di essi da catene semantiche e linee
sintagmatiche differenti. L’effetto è quello di un tremito
del senso che porta la letteratura al di fuori dell’ambito
propriamente linguistico per farla deflagrare in un campo
di sviamenti della significazione che solo più tardi
riconoscerà nella immagine — foto/cinematografica — il
proprio terreno elettivo. Più o meno sono note a tutti le
osservazioni che Barthes dedicherà a questi processi di
significazione consegnate nel volume che sintetizza
meglio di tutti tale transizione, ovvero l’Obvie et l’obtus,
nel quale l’autore raccoglie i suoi saggi su ciò che esso
denomina arts dioptriques5, mentre forse meno conosciute
sono le riflessioni che Barthes elabora sempre in merito
all’immagine verso la metà del 1978 — cioè più o meno
nello stesso periodo in cui stava raccogliendo i materiali
per La chambre claire — e presenti nell’ultimo scritto
dello studio su Sollers, L’oscillazione, in cui egli si
esprime così:
Sollers vuole evitare che l’immagine si rapprenda. Insomma
tutto si gioca non al livello dei contenuti, delle opinioni, ma
delle immagini: è l’immagine che la comunità vuole salvare
sempre […], perché è l’immagine il suo nutrimento vitale e
questo in misura sempre crescente: sovrasviluppata, la
società moderna non si nutre più di credenze (come un
4
OC II, p. 493.
Alfieri delle arti diottriche sono Diderot, Ejzenštejn e Brecht, cfr. R.
Barthes, OC IV, pp. 456.
5
116
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
tempo), ma di immagini. Lo scandalo sollersiano deriva dal
fatto che Sollers si impegna nei confronti dell’Immagine,
sembra voler impedire in anticipo la formazione e la
stabilizzazione di ogni Immagine.6
Va detto inoltre che tale saggio su Sollers si colloca
all’interno della produzione tarda di Barthes come un vero
e proprio campionario dei motivi e dei temi che negli
ultimi cinque anni di vita del grande critico letterario
avrebbero occupato tutta la sua attenzione e il suo lavoro.
Tra di essi svetta la contestazione del principio
rappresentativo di certa letteratura. In uno scritto anteriore
di cinque anni all’Oscillazione infatti Barthes recupera in
parte le sue analisi sulla infrazione delle catene associative
svolte nel testo su Bataille per applicarle alla scrittura
sollersiana: ancora una volta l’immagine spodesta la
centralità del segno linguistico erodendo dall’interno
quella tirannia del significato vista e vissuta dall’autore
come l’impostura del senso acquisito. Destituire la
rappresentazione per Barthes e Sollers significa però
ridare al segno il suo giusto peso referenziale, consiste cioè
nel ridisporre all’interno del linguaggio la sostanza
sensuale delle cose, caricandolo di una tumescenza leggera
ma insopprimibile. A qualche anno di distanza da La
chambre claire Barthes pertanto sembra già alludere qui a
quel «risveglio dell’intrattabile realtà»7 che chiuderà lo
scritto sulla fotografia.
Se torniamo un attimo allo studio di Benjamin sul
Trauerspiel possiamo constatare che valutazioni affini
sono ravvisabili anche presso il pensatore berlinese.
Tralasciando qui i passaggi sul rebus, vorremmo qui
soffermarci piuttosto sulle due sezioni della seconda parte
dedicate rispettivamente alla enucleazione esplicita di una
teoria delle immagini barocche e ad una messa a punto
6
7
R. Barthes, OC V, p. 620. Traduzione nostra.
Ivi, p. 885.
117
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
degli Elementi di una teoria del linguaggio barocco8. A
proposito di alcuni drammi di Harsdörffer Benjamin ad
esempio si esprime in questi termini:
dalla teologia alla filosofia della natura e dalla morale giù giù
fino all’araldica, al poema d’occasione e al linguaggio
amoroso il repertorio dei requisiti intuitivi è illimitato. Per
ogni nuova idea il momento dell’espressione coincide con
una vera e propria eruzione di immagini il cui effetto è che
la massa delle metafore si presenta caoticamente sparpagliata
[…]: «universa rerum natura praebet huic philosophiae
(imaginum)».9
Deprompta symbola chiamerà poco oltre Benjamin,
prendendo l’espressione in prestito da Menestrier, questi
segni ambigui, frutto di una ibridazione ostinata e radicale
tra la compagine propriamente linguistica e la dimensione
di immagine che in essi affiora in modo sempre più
perturbante, a tal punto che la Philosophia imaginum
assurge quasi a disciplina-madre da cui far discendere tutte
le altre scienze, sorta di paradossale succedaneo della
teologia — divenuta anch’essa ancillare alla emblematica
— in un mondo dominato da quella dilazionante
dilatazione della trascendenza10 dove l’uomo, privo ormai
di ogni escatologia, si sente trascinato verso una cataratta
mentre del metafisico non restano che vestiboli in rovina.
È però nelle pagine dedicate alla teoria del linguaggio
barocco che è possibile trovare qualche analogia
sorprendente con quanto abbiamo detto in merito a
Barthes. In questa sezione infatti il filosofo berlinese nota
come i processi di allegoresi conducano in molti casi i
pensieri dei personaggi a dissolversi in immagini, in serie
di immagini incontrollabili, tanto che l’autore giunge ad
osservare quanto queste liriche siano cariche di sfarzo
materiale, per poi chiosare:
8
W. Benjamin, Op. cit., pp. 208-213.
Ivi, p. 178. Il passo tra caporali proviene dal trattato di Menestrier.
10 Ivi, p. 48.
9
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
al dramma barocco tedesco [...] non è dato dar voce al suo
elemento geroglifico. Perché la sua scrittura non si trasfigura
in suono; anzi, il suo mondo resta del tutto autosufficiente,
intento a dispiegare la propria veemenza. La scrittura e il
suono restano contigui, compresi in una polarità carica di
tensione [...].
La discrepanza tra il geroglifico significativo e l’inebriante
suono delle parole costringe lo sguardo, quando il compatto
massiccio del significato delle parole si dirompe, a penetrare
nella profondità del linguaggio [...]. La parola ha una
lussuria estranea al mondo, perduta dentro l’immagine.11
L’immagine erompe dall’interno del linguaggio stesso, il
quale è così sottoposto ad una pressione interna che lo
porta a dischiudersi in una sorta di complessa trama
geologica del proprio farsi e disfarsi, sempre sul limite tra
la sua opaca ma originaria densità sonora e la sua
propulsione figurale a dissociarsi in un profluvio di
designazioni che rimandano, antiteticamente rispetto alla
propria natura, ad un mondo di oggetti concreti colti però
in una sorta di attonita fissità minerale: in tal senso ogni
cosa, potremmo dire citando Cysarz, si trova laminata a
immagine.12
In Barthes e Benjamin, attraverso un movimento
duplice e sottilmente ambiguo, linguaggio e immagine,
scrittura e figura vengono colti in uno spostamento
incrociato dei rispettivi assi di significazione, i quali
entrano in contatto generando una tensione che sfocia in
un sussulto affine ai contraccolpi di una sincope grazie alla
quale la parola si trova trasfigurata in cosa, e il significato
in un brulicare di visioni quasi prive di soggetto
percipiente.
Dal segno scritto vediamo quindi emergere una eruttiva
immaginazione figurale che scompagina la grammaticalità
del portato linguistico, così che la realtà non si trova più
11
12
Ivi, pp. 212-213 e 187. Corsivi nostri.
Ivi, p. 209.
119
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
ad essere semplicemente significata da un codice ad essa
estraneo, ma questa stessa realtà si assiepa dinanzi noi e
dalla sua fosca compattezza un occhio invisibile a tratti
affiora con l’intento sinistro e enigmatico di osservarci
mentre lo fissiamo senza vederlo, ipostasi di quello
«sguardo con cui le opere d’arte guardano l’osservatore»
tanto caro ad Adorno.13
Ma se appaiono diversi i percorsi che conducono
Benjamin e Barthes all’immagine, affini ci sembrano gli
esiti a cui essi pervengono. Se le rapide osservazioni svolte
finora sono corrette, non deve sorprendere in alcun modo
il fatto che i due pensatori dedicheranno i loro ultimi scritti
all’immagine, utilizzata come un possente e polimorfo
dispositivo critico che essi utilizzano per uscire dai loro
stessi procedimenti analitici messi a punto negli anni
precedenti. È per questo motivo che sia Barthes che
Benjamin consegnano le loro estreme riflessioni sulla
Storia, sulla letteratura e la critica letteraria, sull’arte come
nucleo di contestazione endogeno alle forze che la
generano, sulla società, il potere e il politico ad uno studio
sull’immagine, trasvalutata in una forma aporetica di
razionalità che riesce a criticare e ad erodere dall’interno
la ragione strumentale senza però sottrarlesi.
Per Benjamin sono due i testi in cui tale impresa viene
tentata: la Piccola storia della fotografia e L’opera d’arte
nell’epoca della sua riproducibilità tecnica14, composti
intorno al 1931 la prima e a cavallo tra il 1936 e il 1937 la
seconda, con vari rimaneggiamenti successivi.
13
Th. W. Adorno, Teoria estetica, ed. it. a cura di E. de Angelis,
Einaudi, Torino 1977, 207. Per un'analisi più approfondita su questi ed
altri aspetti del pensiero di Benjamin cfr. soprattutto H. H. Holz,
Prismatisches Denken, in Über Walter Benjamin, Suhrkamp, Frankfurt,
1968, pp. 62-110.
14 Va detto subito che l'immagine ha un ruolo più che rilevante anche in
un altro testo di poco posteriore a questi due e che rappresenta per molti
studiosi il vero testamento spirituale del filosofo berlinese, ovvero le
Tesi di filosofia della storia. Un’analisi di quest'opera tuttavia ci
porterebbe ora troppo lontano rispetto all'oggetto del nostro studio.
120
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
È difficile dire quale sia il nucleo teorico portante di
questo testo, per una serie di ragioni: in primis perché
Benjamin non vuole proporre una ricostruzione storica né
del concetto di riproducibilità, nel della nozione
controversa e instabile di opera d’arte; in secundis perché
a Benjamin interessa immediatamente vedere come la
messa in campo di determinate tecniche di riproduzione
artistica provochino una destabilizzante torsione
gnoseologica che colpisce alla radice il nostro modo di
intuire e di percepire il mondo.
Come è noto Benjamin fin dal lavoro sul Trauerspiel è
sempre stato interessato a stabilire una linea di continuità
tra il fatto estetico e quello conoscitivo; la
erkenntniskritische Vorrede che apre il Dramma barocco
ha la precisa funzione di svelare i riposti spessori teoretici
che abitano la dimensione artistica. Nel saggio del ’37 tale
presupposto si conserva in pieno, ma non si trova più
raccolto ed esplicitato all’inizio della trattazione, ma
piuttosto lo vediamo presente in essa in uno stato di
continua perfusione che lo rende tanto più fecondo e
dinamico quanto meno riusciamo a focalizzarlo con
chiarezza.
È proprio per questo motivo che Benjamin già dal terzo
paragrafo allude al fatto che il medium in cui si organizza
la percezione sensoriale umana ha per forza di cose uno
sfondo e un radicamento storici e che pertanto ad ogni
vicissitudine storica di rilievo subentra necessariamente
«un’altra percezione»15. Lo strumento linguistico, la
codificazione propria della scrittura è ormai scomparsa.
Immagine, percezione, sguardo occupano tutti il campo
della riflessione. Come farà Barthes circa cinquant’anni
15
W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità
tecnica, a cura di C. Cases, Einaudi, Torino 1987, p. 24. Da ora in nota
abbreviata con ORT. Per un’analisi approfondita della concezione
critico-gnoseologica di Benjamin cfr. L. Wiesenthal, Zur
Wissenschaftstheorie Walter Benjamins, 1982.
121
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
più tardi, Benjamin accede qui ad una fenomenologia che
non ammette mediazioni, inizia cioè a muoversi
liberamente sulla soglia sfrangiata e nomade di una
fenomenalità del mondo, del reale e delle cose anteriore ad
ogni concettualizzazione, ad ogni ragnatela categoriale16
che possa preformare la nostra visione degli oggetti. Sul
fatto quindi che la invenzione della fotografia costituisca
la nascita del primo mezzo di riproduzione veramente
rivoluzionario Benjamin non ha alcun dubbio17 e lo
afferma a chiare lettere verso la fine del quarto paragrafo
in limine a celebre passaggio sulla dimensione cultuale
dell’immagine.
Ma in che modo queste due nozioni vengono allora a
saldarsi? Il pensatore berlinese vede nella fotografia il
momento in cui il valore della esponibilità subentra a
quello cultuale, ma tale sostituzione non rappresenta una
degradazione dell’immagine, ma piuttosto un suo
potenziamento, una imprevedibile trasvalutazione del
valore espositivo, che supera quello cultuale in forza del
quale una fotografia esibisce uno spazio di apparizione che
si impregna di una virtualità rivelativa di cui forse nessun
quadro è mai stato capace. Benjamin porta come esempio
le strade vuote di Parigi catturate dagli scatti di Atget,
luoghi intrisi di una sospensione metafisica in cui l’autore
sembra ritrovare i caratteri di quell’insaturabile e
angosciante Tiefsinn18 che ossessionava la contemplazione
barocca degli emblemi.
Alla proporzione analogica proposta nel quinto
paragrafo per cui culto: dimensione magico-rituale —
esposizione: dimensione di fruizione19 Benjamin apporta
16
Th. W. Adorno, Teoria..., p. 214.
ORT, p. 26.
18 W. Benjamin, Il dramma barocco..., p. 139.
19 Su questo soprattutto F. Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le
forme, Ed Riuniti, Roma, 1980 e F. Masini, Il travaglio del disumano,
Bibliopolis, Napoli 1982.
17
122
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
immediatamente delle rettifiche che finiscono con il
contestare quella equivalenza: l’esposizione della
fotografia devia dall’asse della semplice fruizione per
caricare l’immagine — e l’oggetto ritratto — di un alone
inquietante, di una Stimmung che porta ad evidenza un
irriducibile fondo di densa invisibilità contenuta nella
realtà e che trasforma quest’ultima nel signacolo
inaspettato di una folgorante rivelazione profana.
L’immagine fotografica non sovverte violentemente e
risolutamente il sistema di rapporti tra il valore cultuale, di
custodia sacrale, e quello espositivo, quale presunta
matrice di desacralizzazione. Essa trasforma pertanto
l’esposizione nella manifestazione di un oggetto avvolto
in una sfera di presentazione quasi mistica. Ma la
rivoluzione dell’immagine non si limita a questo. La
fotografia è solo il primo passo, poiché è col cinema che si
compie definitivamente quella transizione epocale che agli
occhi di Benjamin aspetta ancora d’essere degnamente
valutata, ecco perché quindi in modo impeccabile egli può
notare: «ma le difficoltà che la fotografia aveva procurato
all’estetica tradizionale erano un gioco per bambini in
confronto con quello che il cinema avrebbe suscitato».20
Benjamin
fa
precedere
le
considerazioni
sull’Apparatur cinematografica da una serie di citazioni
tratte da discorsi, scritti, interviste di Abel Gance, SéverinMars, Arnoux e Max Reinhardt, registi, attori, uomini di
teatro che colgono a livello intuitivo le potenzialità del
nuovo medium, ma non riescono a dare a tali intuizioni un
ordine argomentativo lineare. Alla luce di ciò Benjamin
decide di smontare pezzo per pezzo le capacità espressive
del congegno cinematografico, al fine di metterne in
mostra non solo il funzionamento, ma anche le potenzialità
20
Ivi, p. 30.
123
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
di asservimento o emancipazione delle masse a cui i
prodotti di quel congegno sono esplicitamente rivolte.21
È a partire quindi dall’ottavo paragrafo che egli entra
nel dettaglio dell’esame di ciò che in queste pagine
giustamente famose viene designato col termine tecnico di
Apparatur, intendendo con ciò il congegno di riproduzione
della
realtà
in
grado
di
inaugurare
quel
Wahrnehmunswandel che regge e scandisce tutto il
discorso benjaminiano. È pertanto la rivoluzionaria e
sconvolgente tecnica cinematografica del montaggio22 ad
occupare immediatamente la scena, esaminata da una
duplice prospettiva:
— Dinamica: il montaggio pluralizza l’occhio, lo spodesta
definitivamente dal suo luogo naturale facendolo
felicemente implodere in una caleidoscopica molteplicità
di sguardi erratici che si disperdono come un vasto
pulviscolo di visioni anarchiche raccordabili però lungo
una raggiera che si muove e si svolge a spirale su se stessa.
È molto probabile che nel affrontare questo aspetto
Benjamin avesse come esempio eclatante di tale stato di
cose le opere di Vertov:
poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di
secondo ha fatto saltare questo mondo simile ad un carcere;
così noi siamo ormai in grado di intraprendere
tranquillamente avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse
rovine. Col primo piano si dilata lo spazio, con la ripresa al
rallentatore si dilata il movimento.23
21
Va notata qui la estrema lucidità di Benjamin nell'affrontare il
cinema, rispetto alla sorprendente e forse non sufficientemente
ponderata chiusura che ad esso opporranno Adorno e Horkheimer in
Dialettica dell'Illuminismo, ed. it. a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino
1971, passim.
22 Per ovvi motivi non possiamo qui dilungarci sulla tecnica del
montaggio, per questo rimandiamo alla precisa caratterizzazione che ne
dà Adorno, cfr. Th. W. Adorno, Teoria estetica, pp. 260-263.
23 ORT, p. 41.
124
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
— Scompositiva: la percezione non registra più il
presenza del mondo secondo un regime stabile e
gerarchizzato di inquadrature; essa lo attraversa, lo
trapassa,
ne
solca
l’addormentata
pesantezza
scompaginandola in un continuo gioco di riassestamenti
ottici e dissesti cognitivi che traducono la realtà in una
intelaiatura discontinua e vibratile di immagini ove
accostamento e slittamento appaiono quali cardini intorno
a cui lasciar avvitare la ratio propria della Apparatur. Se
prima il punto di riferimento poteva essere Vertov, in
questo caso è Ejzenštejn24 a rappresentare il modello
elettivo:
[il cinema] porta in luce formazioni strutturali della materia
completamente nuove, così il rallentatore non fa apparire
soltanto motivi del movimento già noti: in questi motivi noti
ne scopre di completamente ignoti «che non fanno affatto
l’effetto di un rallentamento di movimenti più rapidi, bensì
quello di movimenti propriamente scivolanti, plananti,
sovrannaturali». Si capisce così come la natura che parla alla
cinepresa sia diversa da quella che parla all’occhio. Diversa
specialmente per il fatto che al posto di uno spazio elaborato
dalla coscienza dell’uomo interviene uno spazio elaborato
inconsciamente.25
Grazie a questa duplice lettura Benjamin può proporre a
buon diritto quella celebre analogia del regista-chirurgo
visto in opposizione alla figura e all’opera del mago
associato invece al pittore. Ecco presentarsi allora un’altra
24
Della rilevanza della scuola sovietica di regia per la stesura di queste
note Benjamin renderà atto nella Piccola storia della fotografia, cfr
ORT, p. 76. Sebbene non vi si citi mai Benjamin, per un ulteriore
approfondimento di questi aspetti cfr. J. Rancière, Aisthesis. Scènes du
régime esthétique de l'art, Galilée, Paris 2011, pp. 213-217.
25 Ibid. Verrebbe da chiedersi: inconsciamente da chi? Dall'uomo
stesso, dalle pressioni storico-sociali o dalla configurazione
precostituita della materia che costringe la percezione umana a seguire
le proprie articolazioni minute e riposte? In quest'ultimo caso non è
ravvisabile una straordinaria linea di convergenza con i principi della
sintesi passiva messi in luce un decennio prima circa da Husserl?
125
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
formidabile equivalenza: mago: pittore = chirurgo:
operatore cinematografico:
nel momento decisivo il chirurgo rinuncia a porsi di fronte
all’ammalato da uomo a uomo; piuttosto penetra nel suo
interno operativamente. Il mago e il chirurgo si comportano
rispettivamente come il pittore e l’operatore. Nel suo lavoro
il pittore osserva una distanza naturale da ciò che gli è dato,
l’operatore penetra invece profondamente nel tessuto dei
dati. Le immagini che entrambi ottengono sono
profondamente diverse. Quella del pittore è totale, quella
dell’operatore è multiformemente frammentata, e le sue
parti si compongono secondo una legge nuova.26
La vocazione mimetica dell’arte riceve così un colpo
durissimo. L’Apparatur, scomponendo il reale tramite il
montaggio, smonta i processi di processi di pensiero propri
del soggetto, ne oggettiva prima e ne sovverte poi le
statiche pratiche percettive, facendo dell’arte una sorta di
inaspettata protesi gnoseologica grazie alla quale
l’immagine del mondo da essa offerto all’uomo non è più
lo spento riflesso del reale ma uno spaccato continuamente
contestato e riplasmato del nostro statico e fin troppo
facilmente manipolabile schematismo cognitivo.
L’Apparatur brilla in seno a questo come un ordigno
silenzioso e puntiforme, che disloca lo sguardo facendone
un punto di vista situato non più in posizione frontale
rispetto al mondo, ma sul margine mobile del campo
percettivo del soggetto, il quale non smette più di essere
travagliato dell’interno dal sospetto che ogni immagine
oscilli tra il precipitato tranquillizzante di una cosmesi
ideologica operata sul dato bruto e una la manifestazione
pura di una realtà selvaggia che trovi nell’esibizione del
proprio caos il momento compiuto della sua intollerabile
autenticità. Ecco si esprime ancora Benjamin a questo
26
Ivi, p. 38. Corsivi nostri.
126
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
riguardo nella Piccola storia della fotografia in relazione
agli scatti di Blossfeldt:
la fotografia dischiude gli aspetti fisiognomici di
mondi di immagini che abitano il microscopico,
avvertibili ma dissimulati abbastanza per trovare un
nascondiglio nei sogni ad occhi aperti, e ora diventati
grandi e formulabili come sono, capaci di rivelare
come la differenza tra tecnica e magia sia una variabile
storica27. Così, con le sue straordinarie fotografie di
piante, Blossfeldt ha reperito in certi steli innervati le
forme di certe colonne arcaiche, nelle forma di certe
felci il bastone pastorale, nella gemma del castagno e
dell’acero (ingrandita dieci volte) certi alberi totemici,
nel cardo dei lanaioli la crociera gotica.28
Ma soprattutto è solo a questo punto che possiamo
comprendere per quale motivo il valore d’esposizione con
l’avvento della fotografia e del cinema sopravanza
definitivamente il valore cultuale. La distanza veicolata da
quest’ultimo per sommo paradosso è recuperata proprio
dal primo, nel momento in cui la realtà, la cosa, l’oggetto,
la porzione di mondo offerta e presentata dall’immagine
cinematografica si sottrae ad ogni manipolazione umana e
ad ogni misura antropomorfa, recalcitra furiosamente
dinanzi ad ogni tentativo di reificazione/oggettivazione
per sfoderare una imponderabile molteplicità di aspetti,
tratti, caratteri e sfaccettature che non solo contestano lo
stolido stato di stagnazione delle nostra classificazioni
teoriche, ma inducono a sovvertire queste richiamando il
soggetto ad una continua attività di sorveglianza e
rimodulazione critica delle proprie cornici concettuali.
Con Barthes lo scenario sembra mutare. In Benjamin
una strana miscela esplosiva a base di sociologia dell’arte,
psicologia delle masse e estetica fenomenologica dà luogo
ad un preciso affondo speculativo culminante in un quadro
Mentre nel saggio del ’36 tecnica e magia sono valori opposti, qui
stranamente si allineano e partecipano della stessa forza rivelativa.
28 ORT, p. 63.
27
127
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
storico dell’attualità potente e convulso. Nulla di tutto ciò
ne La chambre claire. In essa troviamo in primis le
movenze composte e appena accennate di un accorto
ripiegamento intimistico dell’autore sul proprio recente
dolore — la dipartita della madre amatissima — ma si
tratta di una sfera intima particolare, poiché in essa la
presenza ingombrante del soggetto è stata evacuata,
chirurgicamente privata di ogni greve sostanzialità.
L’immagine affiora in modo quasi casuale dalla sua
scrittura, carica di una pensosa sonnolenza; reca in sé una
risonanza che ha qualcosa dell’onirico, simile al portato
discreto e timidissimo di una involontaria flocculazione
mnestica dal seno della quale essa fiorisce con le fattezze
di una fragilissima ghirlanda di evocazioni, ricordi,
citazioni fugaci e episodiche.
Come un corpo estraneo incuneatosi sinistramente
nella memoria, l’immagine fotografica comunica nello
stesso tempo uno strano desiderio ontologico — quello
della presenza fisica, concreta, esistente della cosa ritratta
— e un disorientato senso di soffusa allucinosi. Essa elude
inoltre ogni classificazione, non ammette alcun
incasellamento di natura empirica, retorica o estetica, ma
piuttosto si dispone trasversalmente lungo questi tre assi
facendoli saltare uno dopo l’altro, conducendoli ad una
sorta di delicato tracollo in forza del quale ciò che emerge
dall’immagine è una deissi del vuoto, l’allestimento
improvviso di uno spazio “bastardo” — lacanianamente
sospeso tra l’immaginario, il simbolico e il reale — ove la
figura rappresentata è una fosforescenza inquieta e
inesorabile, ora affine ad un significante linguistico che
ammutolisce nella propria opaca fisionomia, ora simile ad
una presenza che comunica unicamente se stessa,
tautologica manifestazione di una realtà che nell’atto di
esporsi come tale finisce con l’esaurirsi senza poter
tuttavia esprimere nulla.
128
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Se la fotografia appare quale chambre claire, prima di
essa bisogna supporre necessariamente una camera
obscura — che per Barthes è senza dubbio quella della
memoria — la quale funziona come uno spazio
intensamente germinale, forse aurorale, simile ad una
pausa obliqua e innaturale che porta il tempo ad inarcarsi,
lasciando che l’identità attuale del soggetto entri in
metamorfosi con il proprio passato, subisca delle
variazioni in grado di farlo fluttuare appena sotto la sua
pelle, traducendolo negli accidenti di una mimica
tortuosamente mercuriale e grazie alle quali il corpo stesso
si riduce ad un valore-zero, riassumendo la plasticità
generativa della matrice paradigmatica di una sintassi
anatomica ancora inattuata.29
Ma tutto ciò non dura che un attimo, l’inarcatura del
tempo prodotta nell’immagine e con l’immagine è solo
una sospensione simulata: la chose raffigurata nella foto
— il proprio volto, il proprio corpo, il proprio sguardo, il
proprio aspetto — è in realtà condannata a rassomigliarsi
per sempre, ad aderire senza resto alla monotonia di una
identità momentanea e passeggera, che però lo scatto al
magnesio inchioda per sempre proiettandola nella peritura
eternità dei ritratti fotografici. Non è un caso quindi che
per Barthes nell’immagine venga a sedimentarsi
un’esperienza anfibia di se stesso: da una parte il processo
irresistibile di una dissociazione ambigua della
consapevolezza della propria identità30 e dall’altra la
trasformazione ineluttabile di se stesso nel «TuttoImmagine, ovvero nella morte in persona».31
29
Oltre alle battute iniziali de La chambre claire, rimandiamo per
quanto concerne queste osservazioni all'ultima parte della Lezione
inaugurale di insediamento al Collège de France tenuta nel 1977, R.
Barthes, OC V, p. 445-446.
30
Ivi, p. 798.
31 Ivi, p. 799.
129
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
La riflessione di Barthes a questo punto prende uno
strano andamento: si allontana dagli assunti iniziali, legati
allo sviamento dell’identità perseguita grazie ad una sorta
di delirata autoscopia, per reinquadrarsi in un approccio
teorico più distanziato, più analitico, più rigoroso. Ed è qui
che troviamo il primo contatto con Benjamin: anche
Barthes expressis verbis ravvisa nella fotografia una
vocazione chirurgica32 nei confronti del reale. Anche
Barthes inoltre si dirige chiaramente verso una
fenomenologia del particolare, denominandola Mathesis
Singularis33, poiché afferente ad una forma di conoscenza
che privilegia il dettaglio, elemento doppiamente isolato:
in primis rispetto al contesto originario da cui lo strappa lo
scatto, in secundis rispetto al campo complessivo
dell’immagine da cui lo distacca la specifica tecnica di
lettura della foto che Barthes mette a punto in queste
pagine e che, come è noto, è scandita dalla oppositiva
trazione binaria di Studium e Punctum.34
Dal momento che a questa coppia di concetti sono stati
dedicati numerosi saggi35, eviteremo di soffermarci su di
essi, tanto più che il nostro interesse qui non si appunta su
tale regola strutturale36 ma piuttosto deve focalizzarsi su
quella eidetica dell’immagine fotografica a cui Barthes fa
esplicito riferimento37 chiamando in causa per due volte la
fenomenologia, per lo più nel suo côté francese,
rappresentato da Lyotard. Tale eidetica è interessante
perché nasce da uno sforzo di pensiero che alquanto
paradossale, dal momento che essa è chiamata ad
32
«Comme une opération chirurgicale», ivi, p. 798.
Ivi, 795
34 Ivi, pp. 804-809.
35 Ci limitiamo qui a evocarne solo alcuni: Cahiers de la Photographie,
Roland Barthes et la photo, Contrejour, Paris 1990. N-B Barbe, Roland
Barthes et la théorie esthétique, Bès Ed, Montzeuil 2001. N. Magali,
Roland Barthes contemporain, Max Milo, Paris 2015. J-C Milner, Les
pas philosophique de Roland Barthes, Verdier, Paris 2003.
36
È Barthes stesso a chiamarla così, cfr. ivi, p. 805.
37 Ivi, p. 804.
33
130
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
appuntarsi unicamente sulle manifestazioni elettive di una
contingenza pura, intrattabile, molesta, revulsiva, che non
ammette e non sopporta generalizzazioni e che quindi
richiama in pieno la necessità di quella Mathesis
Singularis appena evocata. Ancora una volta non siamo
lontani da Benjamin: se Barthes parla di inarcatura del
tempo, di Mathesis Singularis, di apparizione di un
dettaglio intrattabile, Benjamin nella sua Piccola storia
della fotografia aveva già notato tutto questo scrivendo:
se si contempla l’immagine di Dauthendey [vediamo che] la
donna sta lì, accanto [al marito] che la sostiene, ma lo
sguardo di lei lo oltrepassa, risucchiato da una lontananza
colma di sciagure. Se si indugia abbastanza a lungo su una
simile fotografia, si capisce come anche qui gli estremi si
tocchino: una tecnica esattissima riesce a conferire ai suoi
prodotti un valore magico che un dipinto per noi non
possiede più. Nonostante l’abilità del fotografo, nonostante
il calcolo nell’atteggiamento del suo modello, l’osservatore
sente il bisogno irresistibile di cercare nella immagine
quella scintilla magari minima di caso, di hic et nunc con cui
la realtà ha folgorato il carattere dell’immagine, il bisogno
di cercare il luogo invisibile in cui, nell’essere in un certo
modo di quell’attimo lontano [quello della morte della donna
ritratta] si annida ancora oggi il futuro.38
Per Barthes e Benjamin la folgorazione — termine
comune a entrambi39 — sospende il senso del tempo, apre
l’immagine verso un futuro anodino, ma soprattutto
espone l’oggetto ritratto ad una presenza che ha qualcosa
di struggentemente spettrale: dinanzi ad essa noi sappiamo
che la vita dei soggetti è come rappresa in una effigie che
contiene contratta in sé tutta la loro storia passata e futura
rispetto al momento dello scatto, eppure l’immagine è
restia ad esplicitare questa storia, aprendo uno spazio
ottico in cui il pensiero va alla deriva fuori dai cardini del
tempo.
38
39
ORT, p. 62. Corsivi nostri.
OC V, p. 828.
131
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Inoltre va notato che la coppia Punctum-Studium non è
fine a se stessa, ma viene inserita per un fine preciso: far
emergere i quattro connotati specifici della immagine
fotografica colta quale elemento di una Mathesis
Singularis. Tali connotati sono40:
1. La rarità/unicità del referente.
2. La numinosità dell’oggetto ritratto, ovvero la sua
capacità evocativa, la sua forza magnetica in grado di
attrarre l’occhio in un campo di riflessione ad altissimo
tasso di irrealizzazione.
3. La prodezza dell’immagine, la quale — come ad
esempio negli scatti della goccia di latte di Edgerton —
mostra un reale scomposto nei sue dinamiche sfuggenti e
segrete.
4. Le contorsioni della tecnica.
Qui troviamo altri due punti di contatto con Benjamin.
Innanzitutto gli ultimi due caratteri richiamano
direttamente le considerazioni svolte dal berlinese sulle
potenzialità di smontaggio ontologico di cui la tecnica
foto-cinematografica ha dato prova fin dai suoi primordi;
ma, oltre a ciò, qui il referente, che nella dimensione
linguistica era del tutto appiattito sulle logiche di
combinazione e selezione dei due assi della langue, si
carica qui di una energia ostinatamente sovversiva.
Nell’immagine infatti registriamo la reazione, la
resistenza, l’eversione di una porzione di realtà che inizia
a secernere intorno a sé un sottile ma tenace campo di
tensioni. Le relazioni tra i quattro connotati delineano una
fisionomia del dato ritratto che conduce l’armatura
40
Ivi, p. 814.
132
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
concettuale messa in opera a culminare in una inedita
fenomenologia del Punctum o, per dirlo con maggior
precisione, in una flessibilissima teoria del dettaglio colto
nella sua indole dissociativa di coefficiente a-refenziale.
Ecco come Barthes espone questo passaggio:
il dettaglio si impone su tutta la mia lettura: è una mutazione
viva del mio interesse. Una folgorazione. Attraverso il segno
di qualcosa, la foto non è più qualsiasi. Tale qualcosa ha
fatto tilt, ha provocato in me una piccola scossa, un satori, il
passaggio di un vuoto [...]. Astuzia del vocabolario: si dice
sviluppare una foto, ma ciò che l’azione chimica sviluppa è
il non-sviluppabile, una essenza (di ferita), ciò che non può
trasformarsi, ma solo ripetersi sotto le forme dell’insistenza
(dello sguardo insistente). Ciò avvicina la Fotografia (certe
fotografie) allo haiku. Poiché anche i riferimenti di un haiku
sono non-sviluppabili: tutto è dato, senza provocare la voglia
o anche la possibilità di una espansione retorica. In entrambi
i casi di potrebbe, si dovrebbe parlare di una immobilità
viva.41
Ancora una volta siamo ad un passo da Benjamin: la
fotografia è il campo di applicazione per ciò che il
pensatore berlinese aveva già chiamato nel grande trattato
degli anni ’20 «elaborazione micrologica»42 e che nello
studio del ’37 dedicato a Eduard Fuchs individua come
quella pratica di pensiero che da una parte riesce a forgiare
una coscienza del presente che faccia deflagrare la
continuità della storia43 mentre dall’altra fornisce una
alternativa speculativa alle insopprimibili aporie della
teoria.44
Ma Barthes forse a questo punto si spinge oltre ed
enuclea l’ultimo paradosso della fotografia: l’eidos di
queste immagini consiste nell’allestimento di uno spazio
di manifestazione in cui ciò che è chiamato a
41
Ivi, pp. 828. Traduzione nostra.
W. Benjamin, Il dramma Barocco..., p. 5.
43
ORT, p. 83.
44 Ivi, p. 84.
42
133
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
rappresentarvisi si riassorbe senza resto in un vuoto
improvviso e insituabile. Strana fenomenologia allora,
quella di Barthes, che indaga e interroga il fenomeno a
partire dal momento in cui questo ha già cessato di
apparire. Evidentemente aveva ragione Adorno nel dire
che «niente ha tanta espressione quanto ciò che si
estingue».45
45
Th. W. Adorno, Teoria..., p. 135.
134
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
Artaud: scrittura/figura*
di Roland Barthes
Come parlare di Artaud? Tale domanda non è soltanto
specifica (essa potrebbe esserlo per qualsiasi autore) ma,
se ci è concesso dirlo, semelfattiva (importa poco l’odore
scientifico del termine): l’impossibilità di parlare di
Artaud è quasi unica; Artaud è ciò che si chiama in
filologia un hapax, una forma o un errore che si incontra
una sola volta nel corso del testo. Questa singolarità non è
quella del genio, né quella dell’eccesso, essa non ha nulla
di ineffabile e può essere enunciata in un modo molto
razionale: Artaud scrive nella distruzione del discorso;
questa pratica suppone una temporalità complessa: il
discorso, per dare a leggere la sua distruzione, non può né
essere stato distrutto (nel qual caso la pagina sarebbe
bianca), né soltanto annunziarsi come distruttibile (si
tratterebbe ancora di discorso); è necessario, scandalo
logico, che il discorso si ripieghi su se stesso senza sosta
con veemenza e si divori come un personaggio sadiano,
manducatore dei suoi stessi escrementi. Senza dubbio
l’imprecazione di Artaud, gettata in modo sempiterno alla
porcheria della scrittura, può essere inarrestabilmente
recuperato dal discorso stesso della imprecazione: è il
pericolo di ogni violenza: nulla è più fragile della violenza:
il codice la spia e il senso finora ha sempre trionfato su di
essa (per questo motivo, rispetto alla distruzione del
discorso — occidentale, cristiano, ecc. — si può
* Il testo, datato da Barthes 21 giugno 1971, doveva servire da
prefazione ad un libro di Bernard Lamache-Vadel su Antonin Artaud
che ha poi rinunciato a pubblicare. Apparso in Luna Park, n. 7, marzo
1981, cfr. OC V 877-879.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
tatticamente preferire un discorso astuto a un discorso
violento, Brecht e Artaud).
Dinanzi a questa oscillazione minacciosa (espressione
semplice di una alienazione storica della scrittura), sta al
lettore liberare il testo dalla istituzione letteraria: il lettore,
ovvero quel soggetto fragile, straziato, pluralizzato, che si
trova preso nella comunicazione che gli impone Artaud
(questa comunicazione definisce il testo d’Artaud tanto
quanto la sua struttura retorica). Bernanrd LamarcheVadel è per noi questo lettore: egli ha scritto la sua lettura.
Tale espressione non denota un discorso critico o analitico;
Lamarche-Vadel propriamente non ha recensito idee, temi,
forme, non ha sviluppato il nostro sapere su Artaud, non
ha culturalizzato Artaud (e ha avuto bisogno per questo di
un certo coraggio o una certa confidenza o una certa
innocenza, vista la destinazione universitaria che egli ha
accettato di dare al suo testo); la sua materia principale (il
suo /soggetto/, come si dice nella retorica scolastica) è
stata la sua stessa scrittura: e tuttavia Artaud vi è più
presente che in molte altre dissertazioni “su” Artaud. Tale
riuscita dipende dal fatto che la scrittura di LamarcheVadel è molte volte (a molteplici livelli) citazionale.
Il testo stesso di Artaud (il suo testo storico, filologico,
editoriale) è irresistibilmente preso nel volume del testo di
Lamarche-Vadel; sono come delle bolle di nutrimento che
scoppiano alla luce del secondo testo; Artaud è ricopiato
nel suo fulgore, nella sua vocazione citazionale, nella sua
energia di scrittura (ciò vuol dire, secondo la terminologia
attuale, come produzione e non come prodotto):
smembrato, frammentato, egli sciama; si ottiene così,
tramite un ritorno paradossale, un sapere di Artaud
superiore ad ogni sapere didattico, filologico, storico, che
il discorso della scientificità potrebbe racimolare su
Artaud; andando fino in fondo, potremmo dire: felice colui
che conosce Artaud solo sotto la sua forma infranta,
disseminata, eraclitea (la «porcheria della scrittura» non è
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
altro che il suo continuum, quel flumen orationis in cui
l’antica retorica riconosceva il valore supremo dello stile e
che Flaubert, fortunatamente per lui, non è mai riuscito a
raggiungere).
Lamarche-Vadel cita Artaud in un altro modo: non
imitandolo, ma ricalcando ciò che potremmo chiamare i
suoi movimenti di corpo; la scrittura (qualora essa si
compia al di fuori della semplice scrivenza1) è in effetti il
corpo rigenerato da se stesso, per feticismo narcisista o per
isteria collettiva: ciò che Lamarche-Vadel chiama senza
dubbio la figura. Lamarche-Vadel si colloca nella
respirazione del corpo scritturale di Artaud; senza mai
parodiarlo, egli ne ritrova, nella sua pratica e non, ancora
una volta, nella sua analisi, l’intera natura eretica, vale a
dire le sensualità, i chiarori, le sorprese, le fratture e in una
maniera più generale, il valore nuovo (sebbene
timidamente, qui e là, ricercato): la scrittura-idea, l’idea
scritta, la cui funzione attuale è di disperdere il discorso
antecendente, filosofico o letterario e di confondere
l’opposizione tra l’arte e il pensiero, tra la cosa enunciata
e la forma enunciante.
A un terzo livello, ciò che Lamarche-Vadel mette in
scena non è solo Artaud (nella sua lettera e nella sua
figura), è ogni scrittura. La scrittura, in effetti, non è fatta
da «tratti» stilistici, ma di rifiuti, disposti in volute e
sinuosità, in invenzioni, in concessioni e riprese; la
scrittura, in una parola, è uno spazio tattico, determinato
in rapporto alla cultura anteriore, uno scivolamento
improvviso lungo la china della lingua millenaria, paterna.
Qui, Lamarche-Vadel raggiunge ancora una volta
esattamente Artaud: il suo testo è una rottura che tuttavia
perviene a strapparsi al gesto della castrazione: c’è un
sapore profondo del testo che si va a leggere (il sapore, non
1 /Écrivance/, conio di Barthes. Presente anche nel saggio su Sollers
posteriore di qualche anno, cfr CO V, p. 611.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
dimentichiamolo, è la figura stessa del combinatorio: il
piacere che ne risulta non è idealistico).
Insomma, alla questione: come parlare di Artaud?
Lamarche-Vadel risponde: non parlarne, neppure scrivere
«su» Artaud, ma: scrivere con Artaud. Così si sostituisce
alla critica trascendentale (cardare2 il testo di un autore
tramite un discorso che lo «comprenda»), una scrittura
concomitante, un carosello di testi, che non fa (o non farà)
dell’autore (qui Artaud, Lamarche-Vadel) che un gesto
innescato dal corpo ma continuato dalla massa.
2 Barthes usa /coiffer/ che propriamente significa /pettinare/, volendo
dare il senso di un passaggio continuo e simultaneo dello strumento
critico all'interno della folta massa del testo al fine di districarne i vari
significati annodati gli uni agli altri.
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Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
Bernard Faucon1
di Roland Barthes
Bernard Faucon ha fotografato dei ragazzi (reali e/o
simulati). Tuttavia il motivo (la questione) della sua
impresa non è né l’amore per i fanciulli né l’arte
fotografica. O almeno, per il turbamento che ci
comunicano queste immagini, per il vero enigma che esse
lasciano in sospeso o immobilizzano sotto i nostri occhi
che non possono distaccarsene senza per questo
intravederne il segreto, noi dubitiamo (infine) che nella
Fotografia, grande Sconosciuta del mondo moderno, vi sia
da un lato il soggetto e dall’altro una maniera; in breve noi
dubitiamo che la Fotografia non sia null’altro che (idea
tuttavia usuale) che la congiunzione di un argomento e di
un’arte.
Tale dubbio è violento, in proporzione allo stupore che
suscitano in noi queste fotografie. E queste parole sono già
insufficienti, perché ci lasciano prigionieri di una tendenza
propria a noi Occidentali: ricondurre ogni mutazione della
nostra identità al “patetico”. Una parola orientale
(giapponese) converrebbe di più: il satori: scossa, affondo,
colpo improvviso che attraversa bruscamente la disciplina
Zen e l’illumina del suo vuoto. Non si può dire ciò che è il
satori, per le fotografie di Bernard Faucon ma per le
fotografie di Bernard Faucon si può indovinare da quale
ragione possa venire: la regione della eterologia o della
frizione di linguaggi differenti, connubio di specie naturali
eterogenee: dei manichini, oggetti già colti secondo il loro
statuto stesso, sono una seconda volta sorpresi in mezzo a
una folla di oggetti reali, familiari, logori, graffiati (bugie,
1
In Zoom 1978. Cfr. OC V, pp. 471-474.
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Semiotropie. Eredità di Barthes
bottiglie, fette di melone, letti disfatti, bilancieri in
movimento, ecc.) in un contesto il cui romanticismo esalta
il naturale (vastità delle colline, dei giardini, del mare),
impegnati in scene quotidiane di giochi; o ancora, in un
modo più insidioso, l’eterologia deriva dal fatto che
l’espressione euforica dei volti di cera è in qualche modo
perpetuata indipendentemente dalle azioni a cui i
manichini si dedicano: che cosa di più perturbante di
un’aria che persiste e smentisce la legge dell’espressione,
ovvero della corrispondenza dell’interno e dell’esterno,
dalla causa e dell’effetto?
I corpi artificiali, statue, manichini, automi, androidi
hanno sempre turbato gli uomini: è, letteralmente, un mito.
Il lavoro di Bernard Faucon è evidentemente una
variazione di questo mito. Ecco come io avverto la
dialettica di questa variazione: i manichini di Bernard
Faucon sembrano dapprima imporre due immagini, in
funzione della loro origine: l’immagine dell’infanzia [...] e
l’immagine della vetrina (di negozio) da dove questi
manichini sono tratti. Ora queste immagini sono messe in
fallo2, rinnegate: l’infanzia, età mitica della freschezza,
della spontaneità, della purezza è qui compromessa con
l’artificio dei corpi fissati (là dove i loro gesti fossero
“vivi”, i loro occhi restano fissi); e la vetrina, scatola di
vetro, è interamente aperta sulla natura, la casa, la camera;
tramite l’ambientazione naturale, tramite l’equilibrismo
delle pose, Bernard Faucon «devitrinizza» i suoi
manichini. Allora si produce un rovesciamento
enigmatico: il corpo vero, che appare in certe scene (come
vittima), si distingue appena dai manichini a cui esso è
2
Barthes usa qui /déjouer/, termine di difficilissima resa in italiano: la
locuzione francese più chiara per una buona intelligenza del lemma è
déjouer un complot, nel senso di smascherare, far fallire, sventare un
complotto. Forzando un po’ la mano in italiano potremmo proporre:
queste immagini sono sventate nel loro proposito di ingannarci.
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Semiotropie. Eredità di Barthes
mescolato, fa dubitare di una natura carnale: ciò che separa
il vero dal fittizio è di una tenuità estrema, perturbante: il
vero non va cercato dalla parte della «realtà», ma dal lato
dell’arte, concepita non come valore espressivo,
umanistico, ma come fondamento — o compimento —
dell’artificio. Il corpo vero ha un «ruolo» impossibile ed è
in ciò che esso dimostra la verità. Baudelaire aveva forse
presentito questa dialettica allorché parlava della «verità
enfatica del gesto nelle grandi circostanze della vita».
Bernard Faucon sistema la scena che sta per fotografare.
Produce esattamente un tableau vivant. Ora, questa scena
immobile egli la consegna all’arte stessa dell’Immobile,
alla Fotografia (non si farà mai progredire la teoria della
Fotografia — oggi bloccata — finché ci si ostinerà a
fingere che tale arte ha la missione di rendere “vivo”,
“animato” ciò che non lo è). Così viene a istituirsi un
circuito il cui senso è irreperibile. Bernard Faucon non
fotografa un tableau vivant: produce fotografia sdoppiata
in tableau vivant: egli accumula due immobilità. Invece di
dividere l’Immagine (come si fa ordinariamente) in
contenuto e forma, referente e significato, egli lascia che
due forme vengano ad ammassarsi, due significanti;
facendo ciò egli smentisce l’Immagine stessa che,
etimologicamente, per la sua radice indo-europea (yem/im)
rimanda a un «frutto doppio»; egli produce una unità
appena
sopportabile,
contro-natura,
ovvero
soprannaturale. Nella sua derisione stessa, il tableau vivant
fotografato richiama con forza un certo pensiero
dell’Immortale: questi infra-corpi, il cui arresto è
rinforzato da tutto l’artificio di vita che li circonda, sono
colti dall’artista come se avessero la vocazione di essere
resuscitati.
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Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
Barthes e l’immagine*
di Philippe C. Dubois
Dal 1952, Roland Barthes comincia a snocciolare, prima
in Critique e poi nelle Lettres Nouvelles, le sue petites
mythologies du mois, in cui dissecca, analizza ed espone
quanto c’è di ideologico e fallace nell’attualità dell’epoca.
Che si dedichi a una pubblicità o a un evento sportivo,
nulla sfugge alla sua lucidità critica; e Roland Barthes
diventa ben presto uno degli osservatori più lucidi
dell’epoca. Bisognerà tuttavia attendere il 1957 per vedere
questi testi infine riuniti in un volume, Mythologies, nella
cui seconda parte farà il punto teorico su Le mythe,
aujourd’hui…; un momento importante nell’evoluzione di
Barthes poiché segna il passaggio dalla mitologia alla
semiologia, al cui sviluppo contribuirà in larga parte. Le
scienze umane in effetti conoscono da questo momento
uno slancio considerevole, in particolare per quanto
riguarda l’informazione, la sua teoria, il suo sistema di
segni e certamente il linguaggio. In un tale contesto non
stupisce che Barthes, molto sensibile al suo ambiente, noti
la presenza invadente di un altro sistema, quello delle
immagini, del cinema, che vede «reconnu comme le
modèle des mass media».
Già alcune mitologie, come L’acteur d’Harcourt o Les
Romains au cinéma, o ancora “Le Visage de Garbo” si
rivolgevano al mondo dei film e del cinema. Ma il rapporto
di Barthes con il cinema in generale è complesso,
riconosce volentieri che il cinema lo annoia, soffre ad
andarvi e ancor più a parlarne; ciò deriva probabilmente
da quella che chiama «la loi du goût cinématographique»
che, per snobismo, obbliga un intellettuale ad andare a
* In The French Review, vol. 72, n. 4, 1999, pp. 676-686.
142
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
vedere un film piuttosto che un altro, ma anche perché si
rende presto conto che il cinema, e soprattutto l’immagine
filmica, gli resiste, resiste all’approccio semiologico. Dal
1960, in testi come Le probléme de la signification au
cinéma, così come Les unités traumatiques au cinéma, che
pubblica nella Revue international de Filmologie è ben
cosciente che l’immagine filmica si divide in un numero
di elementi di cui alcuni costituiscono dei «véritables
messages» che gli è pertanto difficile analizzare; difficoltà
proveniente dal carattere diacronico dell’immagine
filmica, il cui perpetuo movimento fa e disfa
costantemente questa immagine. Una sfida di tale portata
non basterà tuttavia a scoraggiare Barthes, bensì il
contrario. Continua le sue ricerche, persevera, si ostina.
Nel 1963 pubblica il suo primo articolo nei Cahiers du
cinéma, intitolato semplicemente Sur le cinéma, nel quale
avanza l’idea del «sense suspendu». Da sottolineare che
questo concetto, che riprenderà per qualificare i film della
Nouvelle vague, sedurrà l’Unione degli studiosi comunisti,
secondo quanto ci dice L.J. Calvet nella sua biografia di
Roland Barthes. Questo dettaglio è abbastanza rivelatore
dello statuto che il personaggio di Roland Barthes sta
acquistando e dell’immagine che impone al discorso
intellettuale francese. Nella stessa epoca, in effetti, tra
1964 e 1965, vedono la luce due opere molto barthesiane
nella tradizione delle Mitologie: il film La femme mariée
di Godard così come il romanzo di Perec, Les Choses. Ma
Barthes non giunge sempre «à integrer le cinéma dans la
sphère du langage» e cerca ora per questo di frammentare
la continuità filmica.
Continua le sue riflessioni in un articolo di Image et son
del 1964, Sémiologie et cinéma, ma si scontra ancora con
questioni che resteranno senza risposta fino al 1970, data
in cui pubblica di nuovo nei Cahiers du cinéma quello che
R. Bensmaïa definisce «un très beau texte», il famoso
articolo su alcuni fotogrammi di S. M. Ejzenštejn,
143
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
intitolato Le troisième sense. Questa riflessione sulla
scrittura di Barthes e il trattamento particolare che
somministra ai fotogrammi di Ejzenštejn si propone
dunque di rivelare la natura esatta dell’immagine intorno
alla quale si costruisce il discorso di Barthes, nello stesso
momento in cui si definisce nello specchio del testo il
riflesso del critico, del montatore, e di colui che presenta
le immagini.
La data della pubblicazione del suo articolo su
Ejzenštejn è importante, poiché segna la riedizione delle
Mythologie in cui Barthes rivela, come nota S. Heath nel
suo eccellente Vertige du déplacement, che «ce va-et-vient
entre les deux systèmes constitue le fondement du discours
mythique […]. L’oscillation dissimule la facture du sense
mythique, la présence constante de la signification du
premier système sur lequel se greffe le second en fait une
nature».
Barthes aggiungerà a questi due sistemi, a questi due
livelli, un terzo, quello che S. Heath chiama «une troisième
voie de revol», cioè la possibilità di «mythifier le mythe».
Un sistema di riflessione simile ma più maturo e più
complesso emerge nel suo testo breve ma denso sui
fotogrammi di Ejzenštejn. Il nome di S. M. Ejzenštejn è
già menzionato nel 1963 all’epoca del suo rapporto con i
Cahiers du cinéma; Roland Barthes non lascia nulla al
caso e la scelta del cineasta sovietico, come stiamo per
vedere, non sfugge a questa regola.
Nella sua opera Film form, Ejzenštejn inizia il capitolo
intitolato The Filmic Fourth Dimension, da una rilettura di
un proprio testo scritto un anno prima, in cui menziona
l’importanza dell’estetica giapponese nel metodo di
montaggio: «The Japanese regard each theatrical element,
not as an incommensurable unit among the various
categories of effect (on the various sense organs), but as a
single unit of theater». Di colpo, queste due attitudini —
la rilettura del suo stesso testo (un nuovo montaggio, in un
144
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
certo senso) così come il gusto per l’estetica giapponese
— corrispondono bene al procedimento barthesiano. Da
notare che il 1970, che vede la pubblicazione delle Notes
sur quelques photogrammes d’Ejzenštein è una data
doppiamente importante poiché vede allo stesso tempo la
pubblicazione dell’Empire des signes, dopo il terzo
viaggio di Barthes in Giappone.
Ejzenštejn definisce quattro dimensioni del filmico.
Allo
spazio
tridimensionale
(visuale,
uditivo,
“sensoriale”) aggiunge una quarta dimensione, quella del
tempo. Barthes andrà nel senso di Ejzenštejn quando
quest’ultimo parla di sensualità e frammentazione: «The
whole intricate, rhythmic and sensual nuance scheme of
the combined pieces is conducted almost exclusively
according to a line of work on the “psycho-physiological”
vibrations of each piece». Ma al contrario di Ejzenštejn
Barthes disprezza la nozione del tempo mentre decide di
non interessarsi che ai fotogrammi, solo mezzo per lui di
scoprire — mettere a nudo — il filmico. Passiamo dunque
da quattro dimensioni a tre con Barthes che distingue così
tre livelli. Il primo è il livello informativo, il più semplice,
che corrisponde a quello della comunicazione. Segue il
livello simbolico, che rinvia alla signification, che è
intenzionale; il senso è allora evidente, siamo in presenza
del senso ovvio:
l’art de S. M. Ejzenštein n’est pas polysémique: il choisit le
sens, l’impose, l’assomme [...]; le sens eisensteinien foudroie
l’ambiguïté. Comment? par l’ajoute d’une valeur esthétique,
l’emphase. […] Voyez l’image IV: très classiquement, la
douleur vient des têtes penchées, des mines de souffrance, de
la main qui sur la bouche contient le sanglot; mais tout cela
une fois dit, très suffisamment, un trait décoratif le redit
encore: la superposition des deux mains, disposée
esthétiquement dans une ascension délicate, maternelle,
florale, vers le visage qui se penche; dans le détail général
(les deux femmes), un autre détail s’inscrit en abîme; venu
d’un ordre pictural comme une citation des gestes d’icônes
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
et de pietà, il ne distrait pas le sens mais l’accentue. (Oeuvres
Complètes, II-869).
Vedremo oltre l’importanza di questo aspetto nel testo di
Barthes stesso. Infine, alla signification segue la
signifiance o Terzo senso. Il terzo senso per Barthes è
qualcosa che «excède le sens», un senso che risulta di
troppo; quello che lui chiama «le sens obtus».
Il termine /senso/ contenuto in questa espressione resta
comunque ambiguo perché polisemico. Pertanto, ben
lontano dal risolvere l’ambiguità, Barthes, come sua
abitudine, la coltiva. Il termine farà quindi riferimento alla
signification (o, all’occorrenza, alla signifiance) assunta
dall’immagine. L’immagine visuale fa certamente appello
al senso della vista, al quale si coniuga un secondo senso,
quello dell’udito, in un momento della storia del cinema in
cui il sonoro è in pieno sviluppo. Il termine “senso”
conferma dunque ugualmente l’idea di sensazione, che
non tarderà ad andare alla deriva, conoscendo il gusto di
Barthes per gli scivolamenti di senso verso sensibilità e
sensualità. Un terzo livello di comprensione di questo
“terzo senso” si trova nell’idea di direzione; quella che
Barthes prenderà sarà al di fuori dei sentieri battuti.
Signifiance, sensazione o direzione. Cosa scegliere?
Quale senso dare a questo “terzo senso”? Bisogna
scegliere? Bisogna applicare successivamente un senso
particolare o abbracciare in uno slancio uniforme la
polisemia del termine? Barthes lascia a noi la scelta e noi
andiamo a vedere quali sono le implicazioni di questo
gioco semantico. Quando Barthes vede il livello simbolico
(il secondo senso) come un senso evidente, ovvio, il terzo
senso al contrario è per lui «un sens obtus, de forme
arrondie», è espressione dello «émoussement d’un sens
trop clair». Nel suo articolo spiega questo argomento:
Un angle obtus est plus grand que un angle droit […]; le
troisième sens, lui aussi, me paraît plus grand que la
146
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
perpendiculaire pure, droite, coupante, légale, du récit: il me
paraît ouvrir le champ du sens totalement, c’est-à-dire
infiniment. (Œuvres Complètes, II-869).
In modo interessante Barthes precisa ancora:
parce qu’il [le troisième sens] ouvre à l’infini du langage, il
peut paraître borné au regard de la raison analytique; il est de
la race des jeux de mots, des bouffonneries, des dépenses
inutiles; indifférent aux catégories morales ou esthétiques (le
trivial, le futile, le postiche et le pastiche), il est du côté du
carnaval (Œuvres Complètes, II-869).
Conosciamo bene oggi grazie, tra gli altri, a Bachtin, i
concetti associati al tropo del carnevale e del carnevalesco;
ovvero l’inversione dei valori, l’aspetto sovversivo che
accompagna un tale spostamento e infine la presenza di un
pensiero che si trova decentrato e quindi eccentrico. Lo
spostamento, lo scivolamento («le sens obtus fait glisser
ma lecture») sono altrettante tattiche di sovvertimento che
Barthes impiega con destrezza al fine di mettere in atto —
o di fare posto — a questo pensiero del fuori che gli è caro.
Un esempio tipico di rovesciamento che Barthes
predilige è lo smontaggio dell’illusione della continuità
che il pubblico ha generalmente di fronte a un film,
illusione che Barthes, il mitologo, disfa quando avanza
l’idea secondo cui la comprensione di un film avviene
immagine per immagine; scrive in sostanza che il filmico
non può essere raggiunto en mouvement (882) ma
attraverso il fotogramma.
Il sovvertimento viene anche dall’opposizione a un
certo monologismo che provoca un tale spostamento.
Nell’immagine V estratta dalla Corazzata Potëmkin di
Ejzenštejn, Barthes mette in evidenza le dialogisme ténu
entre la noble douleur du sens obvie et le langage un peu
bas du déguisement assez pitoyable. Il mascheramento
appartiene di certo al campo semantico del carnevale: Le
sens obtus a donc quelque peu à faire avec le déguisement.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Gli elementi del mascheramento che Barthes nota sono la
cuffia, le sopracciglia, la polvere, senza dimenticare il
posticcio sotto forma di barbetta di Ivan, per esempio. Dal
posticcio al pastiche certo non c’è che un passo che
Barthes supera allegramente:
Voyez la barbiche d’Ivan, promue, à mon avis, au sens obtus
dans l’image VII: elle se signe comme postiche, mais n’en
renonce pas pour autant à la «bonne foi» de son référent (la
figure historique du tsar): un acteur qui se déguise deux fois
[...], sans qu’un déguisement détruise l’autre; un feuilleté de
sens qui laisse toujours subsister le sens précédent [...]; dire
le contraire sans renoncer à la chose contredite: Brecht aurait
aimé cette dialectique (à deux termes). (Œuvres Complètes,
II-873).
Al di là della dialettica, di questa oscillazione che Barthes
mette in evidenza, si trova forse nascosto il terzo senso del
testo di Barthes stesso di cui sarebbe allora possibile fare
una lettura en abîme.
Le postiche eisensteinien est à la fois postiche de lui-même,
c’est-à-dire pastiche, et fétiche dérisoire puisqu’il laisse voir
sa coupure et sa suture: ce que l’on voit dans l’image VII,
c’est le rattachement et donc le détachement préalable de la
barbiche perpendiculaire au menton (Œuvres Complètes, II873).
Se il posticcio si situa al primo livello della
comunicazione, il pastiche appartiene al senso ovvio e il
feticcio diviene allora questo émoussement d’un sens trop
clair, questo senso ottuso de forme arrondie. La parte del
corpo così trasformata in feticcio, oggettivata (qui la
barbetta) prende movenze falliche di cui troviamo un’eco
nell’erezione dei tre ceri sullo sfondo dell’immagine VII
scelta da Barthes. Potremmo così leggere un terzo senso
nelle parole di Barthes (che decide di mettere tra parentesi)
quando scrive a proposito dell’immagine III: «(c’est la
main qui d’abord pend naturellement le long du pantalon
et qui ensuite se ferme, se durcit, pense à la fois son combat
148
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
futur, sa patience et sa prudence) (Œuvres Complètes, II869)». Lascia vedere nel suo testo «sa coupure et sa
suture, le rattachement et le détachement préalable» di più
livelli di comprensione che, come “un feuilleté de sens”
aprono il testo su una possibile lettura en abîme di se
stesso? Come a volerci lasciar intravedere tutta la carica
emozionale e erotica del suo testo, Barthes continua: «il y
a dans le sens obtus un érotisme qui inclut le contraire du
beau et le dehors même de la contrariété, c’est à dire la
limite, l’inversion, le malaise et peut-être le sadisme»
(Œuvres complètes, II-873)
Notiamo che si ritrovano qui le nozioni di fuori e
margine di cui si è già detto sopra sul tema del
carnevalesco. In più, cita qui il sadismo, un concetto che
come vedremo ha un ruolo privilegiato nell’argomento di
Barthes. Va ancora più lontano quando aggiunge:
Tout le monde, je crois peut convenir que l’ethnographie
prolétarienne de S.M.E., fragmentée tout au long des
funérailles de Vakoulintchouk, a constamment quelque
chose d’amoureux (ce mot étant pris ici sans spécifications
d’âge ou de sexe): maternel, cordial et viril, «sympathique»
sans aucun recours aux stéréotypes, le peuple eisensteinien
est essentiellement aimable: on savoure, on aime les deux
ronds de casquette de l’image X, on entre en complicité, en
intelligence avec eux. (Œuvres Complètes, II-873)
Dal senso ottuso sembra sprigionarsi un’emozione ben
precisa, un sentimento amoroso al di sopra di ogni
«spécification d’âge ou de sexe». Barthes propone qui una
categoria che non sarebbe maschile né femminile, un terzo
livello, un terzo senso, un terzo sesso o una terza
sessualità, una zona in cui, in ogni caso, si collocherebbe
«l’androgyne du Satyricon dont parle G. Bataille dans un
texte de Documents», ci dice Barthes. Attraverso questa
nuova categoria del tutto particolare, Barthes si
ricongiunge al problema dell’origine del senso, che cerca
di determinare non senza qualche difficoltà: «Des sens
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
obtus, il y en a, non point partout mais quelques part». Le
cose si complicano; parlando dell’immagine, riconosce la
sua incapacità nel descriverla: «je ne décris pas, je n’y
parviens pas, je désigne seulement un lieu» (878). Dunque
qui si tratta del problema del luogo, problema topico la cui
più grande difficoltà è l’impossibilità di descriverlo, di
designarlo:
même incertitude lorsqu’il s’agit de décrire le sens obtus (de
donner quelque idée de là où il va, là où il va, là où il s’en
va); le sens obtus est un signifiant sans signifié; d’où la
difficulté à le nommer: ma lecture reste suspendue entre
l’image et sa description, entre la définition et
l’approximation. (Œuvres Complètes, II-878).
Il senso dunque oscilla come fa la lettura e presto l’autore
stesso.
Per nominare “l’innominabile”, per riflettere il terzo
senso, il testo deve superare questa oscillazione, superare
lo stesso linguaggio articolato:
si l’on ne peut décrire le sens obtus c’est que, contrairemente
au sens obvie, il ne copie rien: comment décrire ce qui ne
représente rien? La conséquence est que si, devant ces
images, nous restons vous et moi au niveau du langage
articulé – c’est à dire de mon propre texte -, le sens obtus ne
parviendra pas à exister, à entrer dans le métalangage du
critique. Cela veut dire que le sens obtus est en dehors du
langage (articulé) mais cependant à l’intérieur de
l’interlocution. (Œuvres Complètes, II-878).
Oscillazione ancora non superata questa volta, il senso
ottuso trascende il testo stesso, è «en dehors du langage
articulé», al di qua del limite, nel margine, la marginalità,
il terzo senso. Il luogo in cui può esistere il senso ottuso,
questa zona dei possibili, si trova nella dimensione del
terzo senso esso stesso. Il solo senso che interessa Barthes
in questo testo è il terzo senso; il solo mezzo per il suo
testo di avere un senso è di avere un terzo senso, un senso
ottuso, nascosto, come «l’émoussement d’un sens trop
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
clair» che permetterebbe lo scivolamento del suo testo
verso un’altra possibile lettura. Il terzo senso del testo è la
sola lettura che rende il suo testo pienamente intellegibile,
che apre infinitamente il campo del senso, dei sensi, della
sensibilità, delle sensazioni, dell’erotismo. Poiché questo
luogo che ossessiona Barthes è anche e soprattutto il luogo
del piacere:
le signifiant (le troisième sens) ne se remplit pas; il est dans
un état permanent de «déplétion» [...]; on pourrait dire aussi,
à l’opposé – et ce serait tout aussi juste –, que ce même
signifiant ne se vide pas (n’arrive pas à se vider); il se
maintient en état d’éréthisme perpétuel; en lui le désir
n’aboutit pas à ce spasme du signifié, qui, d’ordinaire, fait
retomber voluptueusement le sujet dans la paix des
nominations. (Œuvres Complètes, II-880).
Qui, dualità dal principio nell’impossibilità per il terzo
senso di svuotarsi o riempirsi, questa dualità segna
l’impotenza di questo a significare, a compiere quello che
Barthes sembra descrivere come un piacere, a cui il
desiderio inerente al significato non può arrivare. Il
desiderio giunge dunque a esprimersi attraverso il
significante, ma non il godimento; tuttavia sembra essere
altrimenti per Barthes. Per assicurarsene, fermiamoci un
momento sull’utilizzo (voluto) che fa Barthes del
cognome e soprattutto dei nomi di Ejzenštejn. Mentre la
critica in generale si accontenta di riferirsi al cineasta
sovietico citando tutt’al più il suo primo nome, Sergei,
Barthes insiste nel citare i suoi due nomi, Sergei
Michalovitch, di cui utilizzerà solo le iniziali S.M. Si
conosce fin troppo bene la passione di Barthes per la
lingua e i suoi giochi per non vedervi più di una
coincidenza. A tal proposito, sarebbe utile citare qui un
breve articolo di Barthes, Erté ou à la lettre, datato al
1971, sul grafico, disegnatore di moda e decoratore di
teatro russo Romain de Tirtoff, le cui iniziali R.T.
ispireranno a quest’ultimo il suo nome d’arte:
151
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Le sens n’est jamais simple (sauf en mathématiques) et les
lettres qui forment un mot, quoique chacune d’elle soit
rationellement insignifiante [...], cherchent en nous, sans
cesse, leur liberté, qui est de signifier autre chose. Ce ne peut
être par hasard si, au seuil de sa carriére, Erté a pris les
initiales de ses deux noms et en a fait un troisième, qui est
devenu son nom d’artiste: comme Saussure, il n’a fait
qu’écouter ce double, tressé sans qu’il le sache dans l’énoncé
courant, mondain, de son identité. (Œuvres Complètes, II1232).
Non è nemmeno un caso se anche Barthes gioca nel suo
testo con le iniziali S.M.E., le risistema, le rimonta a suo
modo perché dicano un’altra cosa. Ma cosa? Nel suo testo,
sarebbe questione di SadoMasochismE?
Questa ipotesi sembra sostenuta dalla menzione del
sadismo e dall’inversione fatta in un suo testo citato sopra.
Essa è sostenuta ugualmente dalla ricorrenza sorprendente
dello stesso processo di associazioni tematiche in un
supplemento del Plaisir du texte che Barthes scrive nel
1973 in cui allude a un certo S.M., apparentemente uno dei
suoi contemporanei e vicini, ma di cui si diverte stavolta a
invertire le iniziali:
Souris: M.S. me rapporte ceci: des expériences ont isolé dans
la souris son centre du plausi; on lui pose là une électrode
reliée à une pédale, et la souris pédale, pédale jusqu’à
l’épuisement, jusqu’à mourir de plasir (Cyrano de Bergerac
en aurait fait une fiction: n’imaginait – il pas des fables dont
le ressort était de prendre à la lettre une métaphore usuelle:
mourir de chagrin par exemple). Et dans le cerveau de la
souris, à quelques microns du centre de plaisir, il y aurait le
centre de punition. Je n’ai rien à dire de cette histoire, et
cependant elle ne cesse de m’enchanter (Œuvres complètes,
II 1590).
Tutto è qui: il piacere, la punizione, la tecnica che consiste
nel «prendre à la lettre une métaphore usuelle» o qualche
iniziale fino al commento stesso su questa storia. Benché
pretenda di non aver niente da dire di questa storia, prova
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
prima il bisogno di condividerla per confessare poi che
essa non cessa di incantarlo. Ciò che Barthes ci offre qui è
una dimensione nuova su cui il suo testo si apre. Il terzo
senso non si applica più solo all’oper«a di S.M.E., ma
scaturisce ora dal testo di Barthes stesso e gli offre uno
spazio produttivo in cui Barthes stesso fa sciamare i suoi
semi, si ama e ama S.M.1 Con un piacere e una evidente
voluttà dei sensi, Barthes semina i suoi sensi, li dissemina
in tutti i sensi. È grazie a questa disseminazione che
Barthes insemina il suo testo con la semenza che gli
permetterà di produrre il terzo senso e nella stessa
occasione di riprodurre se stesso.
Reste à dire un mot de la responsabilité syntagmatique de ce
troisième sens: [...] Il est évident que le sens obtus est le
contre-récit même; disséminé, réversible, accroché à sa
propre durée, il ne peut fonder (si on le suit) qu’un tout autre
découpage que celui des plans, séquences et syntagmes
(techniques ou narratifs): un découpage inouï, contre-logique
et cependant vrai (Œuvres Complètes II, 880-881)
Barthes discute qui dell’effetto che può avere il terzo senso
sull’insieme del film, ma fa anche allusione en abîme al
trattamento che somministra alle immagini di Ejzenštejn.
Infatti le passa in rivista, ne seleziona qualcuna, la estrae
dall’insieme al quale appartengono, poi le riposiziona in
un ordine che conviene meglio alla sua analisi. Nei suoi
esatti termini, effettua del film di Ejzenštejn «un tout autre
découpage que celui des plans, séquences et syntagmes»,
smonta e rimonta a suo piacimento le sequenze e le
immagini; in una parola, ne fa un proprio montaggio. È da
notare che le riflessioni di Barthes sul montaggio si
iscrivono nel quadro più ampio delle discussioni dei
1
Dubois gioca spericolatamente con tutte le omofonie possibili del
francese contenuto nel giro di pochi lemmi: trascriviamo in corsivo i
fuochi fonetici su cui l'autore fa avvitare la lingua: «Barthes essaime –
propriamente /sciama/, ma in italiano il verbo non ammette la forma
transitiva – ses sèmes, s’aime et aime S.M.».
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
problemi teorici del cinema a cui si congiunge Christian
Metz per esempio, nei due tomi dei suoi eccellenti Essais
sur la signification au cinéma.
Lo smontaggio e rimontaggio delle immagini di
Ejzenštejn è una operazione estremamente produttiva
poiché: «il [le photogramme] est donc à la fois parodique
et disséminateur; […] il est la trace d’une distribution
supérieure des traits donc le film vécu, coulé, animé ne
serait en somme qu’un texte parmi d’autres» (Œuvres
Complétes, II-882). Attraverso la frammentazione dei film
di Ejzenštejn in immagini fisse, in fotogrammi, Barthes
giunge infine a dominare la vertigine delle immagini in
movimento e a rompere così la resistenza alla sua analisi
che offriva fin qui il filmico:
le filmque est donc exactement là, dans ce lieu où le langage
articulé n’est plus qu’approximatif et où commence un autre
langage […]. Le troisième sens, que l’on peut situer
théoriquemet mais non décrire, apparaît alors comme le
passage du langage à la signifiance, et l’acte fondateur du
filmique même. (Œuvres Complètes, II-882)
Nella nuova dimensione che rappresenta il terzo senso,
Barthes può infine passare dal film al testo, dalla
disseminazione all’inseminazione, e dal senso alla
semenza; termini che condividono la stessa etimologia,
come ci ricorda Le petit Larousse la cui copertina ci offre
un’immagine (una in più) che Barthes ha dovuto
apprezzare molto. Infatti come i grani del soffione o dente
di leone — questa pianta «à petits fruits secs surmontés
d’une aigrette qui facilite leur dissemination par le vent»,
precisa il dizionario — i cui frammenti formano un tutto,
che una volta disgiunti si disseminano per seminare, così
sono i fotogrammi/frammenti di Ejzenštejn, che
riorganizzati dal vento dell’analisi barthesiana giungono a
produrre un senso nuovo. Produzione che ha tutto il
comportamento della riproduzione nella misura in cui il
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
senso, la semenza — ma anche il senso, l’essenza — sono
frutto di un desiderio sensuale; e quale desiderio, poiché
sembra non essere possibile che in questo luogo, questa
zona, questo spazio che gli offre il gioco (“gap”, “Play”,
in inglese) tra le immagini di Ejzenštejn, in questa distanza
che esiste tra la forma del segno filmico e il suo/i suoi
contenuto/i.
Questo desiderio, «sans spécification d’âge ou de sexe,
indifférent aux catégories morales ou esthétiques», questo
desiderio sovversivo respinto al di fuori, marginale,
rassomiglia molto al desiderio omosessuale che
sottintende costantemente il testo di Barthes e che si trova
sublimato nella sua scrittura. Il testo di Barthes sul terzo
senso può allora essere considerato come un perfetto
esempio della sublimazione attraverso la scrittura della sua
identità omosessuale. Quanto all’omosessualità di S. M.
Ejzenštejn, sarebbe riduttivo vederla come la ragione della
scelta di Barthes per questo cineasta in particolare. A tal
proposito, è interessante notare che Dominique Fernandez,
discutendo dell’omosessualità di Ejzenštejn, darà
all’introduzione e alla conclusione della sua opera un titolo
la cui ispirazione non può che rallegrarci: Le troisieme
Ejzenštein.
Scegliamo, a questo punto della nostra analisi, di citare
incidentalmente questo dettaglio biografico riguardante i
nostri due autori, seguendo l’esempio di Barthes stesso
quando spiega nel 1973, in un ultimo paragrafo di seguito
al suo testo, quasi come post-scriptum del suo articolo
Diderot, Brecht, Ejzenštein, le ragioni che riuniscono i tre
autori intorno ai quali si articola tutta la sua tesi:
Brecht, semble-t-il, ne connaîssait guère Diderot (à peine,
peut-être, le Paradoxe). C’est pourtant lui-même qui
autorise, d’une façon toute contingente, la conjonction
tripartite qui vient d’être proposée. Vers 1937, Brecht eut
l’idée de fonder une Société Diderot, lieu de rassemblement
d’experiences et d’études théatrales, sans doute parce qu’il
155
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
voyait en Diderot, outre la figure d’un grand philosophe
matérialiste, celle d’un homme de théâtre dont la théorie
visait à dispenser également le plaisir de l’enseignement.
Brecht établit le programme de cette Société: il en fit un tract
qu’il projeta d’adresser à qui? A Piscator, à Jean Renoir, à
Ejzenštein (Œuvres Complètes, II-1596).
Una volta riordinati i dettagli biografici, è estremamente
produttivo analizzare l’estetica che accompagna l’identità
omosessuale dei due uomini e di ricavare da questa estetica
uno spazio fertile in cui può evolvere, amare, desiderare,
gioire, produrre e riprodursi l’amante che Barthes diviene.
Infine, abbiamo visto che la comparazione tra l’estetica
di Ejzenštejn e quella di Barthes rivela come quest’ultimo
giunge a far subire al proprio testo il trattamento da lui
stesso inflitto ai film del cineasta russo. Per convincersene,
concluderemo menzionando la copertina de L’Obvie et
l’Obtus, che sarà pubblicato due anni dopo la morte di
Barthes, su cui si trova una prière d’insérer firmata R.B.
che non è altro che un montaggio di un estratto di un testo
Le troisieme sens in cui certe parole, talvolta anche frasi
intere, sono cancellate per essere sostituite da semplici
barre verticali:
il me faut distinguer trois niveaux de sens. Un niveau
informatif, ce niveau est celui de la communication. Un
niveau symbolique, et ce second niveau, dans son ensemble,
est celui de la signification. Est-ce tout? Non. Je lis, je reçois,
évident, erratique et têtu, un troisième sens. (cité par L.J.
Calvet).
Ciò che Barthes fa qui riscrivendo il suo testo, facendone
un montaggio, è di produrre un testo nuovo, un senso
nuovo.
In questo modo, anche dopo la sua morte, Barthes
continua a produrre e a riprodursi. Giunge così a sfuggire
a «sa mort future dans les termes même où il a nommé et
compris le monde» (Système de la Mode — un altro S.M.).
E finalmente, dalle profondità di questo spazio testuale, di
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
questa zona del desiderio, di questo luogo del piacere,
continua dunque a risuonare — e a ragionare — la voce di
Roland Barthes che resta, ancora oggi, uno dei
commentatori più lucidi delle immagini del nostro mondo
moderno.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
Roger Caillois
Dalla parola alla scrittura*
di Roland Barthes
Noi parliamo, veniamo registrati, segretarie diligenti
ascoltano i nostri discorsi, li ripuliscono, li trascrivono, vi
mettono la punteggiatura, ne estraggono un primo script1
che ci sottopongono perché noi lo ripuliamo di nuovo
prima di destinarlo alla pubblicazione, al libro, all’eternità.
Non è questo il maquillage riservato a un cadavere? La
nostra parola, noi la imbalsamiamo, come una mummia,
per farla eterna. Perché è necessario durare un po’ più della
propria voce, è necessario, per la commedia della scrittura,
iscriversi da qualche parte.
Tale iscrizione in che modo la paghiamo? Che cosa ci
rimettiamo? Cosa guadagniamo?
La trappola della scrizione2
Ecco da principio a grandi linee ciò che cade nella
trappola della scrizione (preferiamo questo termine, per
quanto sia pedante, a quello di scrittura: la scrittura non è
per forza il modo di esistenza di ciò che è scritto). In primo
luogo noi perdiamo, è evidente, qualcosa in innocenza;
non che la parola sia in se stessa fresca, naturale,
spontanea, veridica, espressiva di una sorta di interiorità
pura; al contrario la nostra parola (soprattutto in pubblico),
è immediatamente teatrale, essa prende in prestito i suoi
giri (nel senso stilistico e ludico del termine) da tutto un
insieme di codici culturali e oratori; la parola è sempre
tattica; ma passando allo scritto è l’innocenza stessa di
*
Su La Quinzaine littéraire, 1 marzo 1974. Cfr OC IV, 537-341.
Lemma presente nel testo francese.
2 Nel testo di Barthes /scription/.
1
158
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
questa tattica, percepibile a chi sa ascoltare, esattamente
come altri sanno leggere, che noi rendiamo felpata;
l’innocenza è sempre esposta; riscrivendo ciò che abbiamo
detto noi ci proteggiamo, ci sorvegliamo, ci censuriamo,
biffiamo le nostre stupidaggini, le nostre sufficienze (o
insufficienze), le nostre fluttuazioni, le nostre ignoranze,
le nostre compiacenze, il nostro essere in panne (perché,
parlando, noi non avremmo il diritto, a proposito di questo
o di quell’argomento avanzato dal nostro interlocutore, di
rimanere a secco?), in breve tutta la varietà del nostro
immaginario, il gioco personale del nostro io; la parola è
pericolosa perché è immediata e non può riprendersi (a
meno che non ricorra al supplemento di una ripresa
esplicita); la scrizione invece ha del tempo dinanzi a essa;
ha quel tempo che è necessario per poter girare sette volte
attorno alla lingua in bocca (mai consiglio proverbiale è
stato più illusorio); scrivendo ciò che abbiamo detto
perdiamo (o conserviamo) tutto ciò che separa l’isteria
dalla paranoia.
Altra perdita: il rigore delle nostre transizioni. Spesso
noi «filiamo» il nostro discorso a basso prezzo. Tale
«filato», questo flumen orationis che disgustava Flaubert,
è la consistenza della nostra parola, la legge che essa stessa
si impone; quando noi parliamo, quando noi «esponiamo»
il nostro pensiero man mano che il linguaggio gli si
presenta, noi crediamo bene di esprimere ad alta voce le
inflessioni della nostra ricerca; siccome noi lottiamo a
cielo aperto con la lingua, siamo sicuri che il nostro
discorso «si rapprenda», «assuma consistenza» e che ogni
stadio del nostro discorso prenda la sua legittimità dallo
stadio anteriore; in una parola, noi vogliamo una nascita
diretta e noi svolgiamo i segni di questa filiazione regolare;
da qui la nostra parola pubblica, i tanti /ma/ e i tanti
/quindi/, tante riprese e denegazioni esplicite. Non è che
queste piccole parole abbiano un grande valore logico;
sono, se vogliamo, degli espletivi del pensiero. La scrittura
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
spesso ne fa economia; essa osa l’asindeto, questa figura
tagliente che sarebbe insopportabile per la voce quanto una
castrazione.
Ciò comporta un’ultima perdita, inflitta alla parola
dalla sua trascrizione: quella di tutti quei cascami del
linguaggio — del tipo /per intenderci/ — che i linguisti
riferirebbero senza dubbio a una delle grandi funzioni del
linguaggio, alla funzione fatica o di interpellanza; quando
noi parliamo noi desideriamo che il nostro interlocutore ci
ascolti; noi risvegliamo allora la sua attenzione tramite
delle interpellanze vuote di senso (tipo /allora, allora, mi
segue?/); molto modeste, queste formule, queste
espressioni, hanno qualcosa di discretamente drammatico:
sono dei richiami, delle modulazioni — direi quasi,
pensando agli uccelli, dei canti — attraverso cui un corpo
cerca un altro corpo. È questo canto — goffo, piatto,
ridicolo allorché è scritto — che si spegne nella nostra
scrittura.
Capiamo mediante queste osservazioni che ciò che si
perde durante la trascrizione è molto semplicemente il
corpo — almeno questo corpo esteriore (contingente) che,
nella situazione del dialogo, lancia verso un altro corpo,
altrettanto fragile (o agitato, inquieto), dei messaggi
intellettualmente vuoti, la cui sola funzione è in qualche
modo di abbordare l’altro (addirittura nel senso
prostitutivo del termine) e di mantenerlo nel suo stato di
compagno.
Trascritta, la parola cambia destinatario e quindi
soggetto, poiché non vi è soggetto senza Altro. Il corpo,
sebbene sempre presente (non vi è linguaggio senza corpo)
cessa di coincidere con la persona o, per meglio dire, con
la personalità. L’immaginario del parlante muta spazio:
non si tratta più di domande, di richiami, di un gioco di
contatti; si tratta di istallare, di rappresentare una
discontinuità articolata, ovvero, nei fatti, una
argomentazione. Questo nuovo progetto (esasperiamo qui
160
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
volontariamente le opposizioni) è leggibile molto bene nei
semplici incidenti che la trascrizione aggiunge (poiché
essa non ne ha fisicamente i mezzi) alla parola (dopo
averle tolto tutte le scorie che abbiamo detto): da subito dei
veri perni logici: non si tratta più di quei minuti legami
(/ma/, /quindi/) di cui la parola si serve per colmare i suoi
silenzi; si tratta di rapporti sintattici pieni di veri
semantemi logici (tipo /benché/, /in modo che/); altrimenti
detto, ciò che la trascrizione permette e sfrutta è una cosa
che ripugna al linguaggio parlato ed è ciò che si chiama in
grammatica subordinazione: la frase diventa gerarchica, si
sviluppa in essa, come in una messa in scena classica, la
differenza dei ruoli e dei piani; socializzandosi (poiché
passa a un pubblico più vasto e meno noto) il messaggio
ritrova una struttura d’ordine; delle «idee», entità appena
afferrabili nell’interlocuzione, in cui esse sono senza sosta
sopravanzate dal corpo, sono messe qui in prima linea, lì
invece in fondo e come in contrasto; questo nuovo ordine
— anche se l’emergenza è sottile — si serve di due artifici
tipografici, che vanno ad aggiungersi ai «guadagni» della
scrittura: la parentesi, che non esiste nella parola e che
permette di segnalare con chiarezza la natura secondaria o
digressiva dell’idea e la punteggiatura che, lo sappiamo,
divide il senso (e non la forma, il suono).
Si manifesta così nello scritto un nuovo immaginario
che è quello del «pensiero». Ovunque vi sia concorrenza
tra la parola e lo scritto, lo scritto vuol dire in un certo
modo: io penso meglio, in maniera più salda; io penso
meno per voi, io penso più per la «verità». Senza dubbio
l’Altro è sempre qui, sotto la figura anonima del lettore;
anche il «pensiero» messo in scena attraverso le condizioni
dello script (per quanto discrete, apparentemente
insignificanti esse possano essere) resta tributaria
dell’immagine di me che io voglio dare al pubblico; più
che di una filiera inflessibile di dati e di argomenti, si tratta
di uno spazio tattico di proposizioni, ovvero, in fin dei
161
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
conti, di posizioni. Nel dibattito di idee, molto sviluppato
oggi grazie ai mezzi di comunicazione di massa, ogni
soggetto è condotto a situarsi, a distinguersi, a porsi
intellettualmente, cioè politicamente. Troviamo qui senza
dubbio la funzione attuale del «dialogo» pubblico;
contrariamente a ciò che accade nelle altre assemblee
(giudiziaria o scientifica, per esempio), persuadere o
strappare una convinzione non sono più le vere poste in
gioco di questi nuovi protocolli si scambio: si tratta
piuttosto di presentare al pubblico, e poi al lettore, una
sorta di teatro degli impieghi intellettuali, una messa in
scena delle idee (tale riferimento allo spettacolo non
intacca in nulla la sincerità o la oggettività dei discorsi
scambiati, il loro interesse didattico o analitico).
Questa è, mi sembra, la funzione sociale di questi
Dialoghi3: tutti insieme formano una comunicazione di
secondo grado; una «rappresentazione», lo scivolamento
spettacolare di due immaginari: quello del corpo e quello
del pensiero.
La scrittura non è lo scritto
Resta possibile, è chiaro, una terza pratica di linguaggio,
assente secondo statuto da questi Dialoghi: la scrittura
propriamente detta, quella che produce testi. La scrittura
non è la parola e questa separazione ha ricevuto negli
ultimi anni una consacrazione teorica: ma essa non è
neppure lo scritto, la trascrizione; scrivere non è
trascrivere. Nella scrittura, ciò che è troppo presente nella
parola (in un modo isterico) e troppo assente dalla
trascrizione (in un modo castrante), ovvero il corpo,
ritorna ma secondo una via indiretta, misurata, e per dirlo
3
Questo testo doveva servire come prefazione a una prima serie di
Dialogues prodotti da Roger Pillaudin per France Culture e pubblicati
dalle Presses Universitaires di Grenoble.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13
Semiotropie. Eredità di Barthes
chiaramente giusta, musicale, per il godimento e non per
l’immaginario (l’immagine). È in fondo questo viaggio del
corpo (del soggetto) attraverso il linguaggio che le nostre
tre pratiche (parola, scritto, scrittura) modulano, ciascuno
a suo modo: viaggio difficile, tortuoso, variato, a cui lo
sviluppo della radio-diffusione, ovvero di una parola nello
stesso tempo originale e trascrivibile, effimera e
memorabile, dà oggi un interesse notevole. Sono persuaso
che i Dialoghi qui trascritti non valgono solo per la massa
di informazioni, di analisi, di idee e di contestazioni che vi
si dispiegano coprendo il campo molto vasto della attualità
intellettuale e scientifica; essi hanno anche il valore di una
esperienza differenziale dei linguaggi: la parola, lo scritto
e la scrittura impegnano ogni volta un soggetto separato e
il lettore, l’ascoltatore devono seguire questo soggetto
diviso, differente a seconda che esso parli, trascriva o
enunci.
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