se i bambini stanno a guardare - Università degli Studi della

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SE I BAMBINI STANNO A GUARDARE
Trasmissioni televisive, modelli culturali,
immaginario infantile
a cura di MATILDE CALLARI GALLI
e GUALTIERO HARRISON
Istituto Gramsci
Emilia – Romagna
M. Callari Galli
Schermi televisivi e contemporaneità.
I. Trasmissione culturale e mass media
1. Cultura ed identità nell'era della comunicazione televisiva
I processi di trasmissione culturale costituiscono la caratteristica che distingue la specie umana dalle altre specie
animali: mentre la possibilità di sopravvivenza di queste ultime dipende in massima parte da "programmi"
geneticamente determinati, quella dell'homo sapiens è legata soprattutto alla capacità di memorizzare, simbolizzate e
trasmettere attraverso le generazioni una determinata gamma di saperi e comportamenti (Leroi-Gourhan A., 1977).
In ogni società umana, nessuna esclusa, vi è dunque trasmissione culturale: ogni gruppo, in ogni epoca e in ogni
luogo, elabora modalità specifiche attraverso le quali i materiali prodotti dall'interazione dinamica di
insegnamento-apprendimento vengono veicolati, interpretati, modificati nel passaggio da una generazione ad un'altra
(Callari Galli M., 1993). Ogni società, in altre parole, fornisce ai propri membri, ed in particolare a quelli più giovani,
materiale culturale sul quale esercitare la fantasia, imparare a conoscere la vita che li attende, capire quali potranno
essere i vantaggi, i pericoli e le trappole di determinate scelte.
I mezzi di comunicazione di cui una società dispone per trasmettere i propri sapori, valori e modelli giocano un
ruolo importante nella strutturazione della sfera cognitiva e della percezione della realtà degli individui che ne fanno
parte, contribuendo a determinare alcuni aspetti del pensiero quali le concezioni del tempo, dello spazio e del
rapporto tra l'individuo e la collettività (Goody J., 1987). Tenendoci a dovuta distanza da semplicistici e pericolosi
determinismi, e ricordando che "tutti gli uomini hanno la testa ugualmente ben fatta" (Lévi-Strauss C., 1964),
dobbiamo ricordare che molte ricerche hanno da tempo dimostrato che oralità, scrittura, e tecnologie elettroniche
sono mezzi di espressione simbolica le cui specificità influiscono sui contenuti e sulle modalità di organizzazione del
pensiero e dell'azione umana nelle sue variegate espressioni storiche e contemporanee (Harrison G., Callari Galli M.,
1971; Havelock E. A., 1973; Callari Galli M., Harrison G., 1974; Vernant J. P., 1974, 1996; Seppilli A., 1979;
Ong W., 1986; Goody J., 1987; De Kerckhove D., 1995; StieglerB. e al., 1993; Augé M., 1997).
I processi che hanno condotto l'umanità verso una sempre più spiccata "esteriorizzazione" delle proprie capacità
tecniche, mnemoniche e simboliche attraverso l'utensile e la macchina, l'oralità, la scrittura e le nuove tecnologie
comunicative (Leroi-Gourhan A., 1977), si incrociano, oggi, in un mondo nel quale un numero sempre crescente di
individui riceve ed invia messaggi utilizzando quotidianamente il linguaggio orale, quello scritto e quello iconico
audiovisivo di televisioni e computer. Questa varietà di codici conferisce a molti abitanti del pianeta la possibilità di
vivere al contempo nel "vicino" e nel "lontano" allargando considerabilmente lo spazio all'interno del quale si
producono i processi di trasmissione culturale (Callari Galli M., 1996).
Se accettiamo di definire la cultura come l'insieme di norme, valori, saperi, credenze, atteggiamenti,
comportamenti e tecniche che un individuo apprende in una data società, ancora una volta ci sembra necessario per
comprendere i meccanismi che sorreggono la trasmissione culturale nell'epoca contemporanea, abbandonare il
vecchio paradigma della cultura intesa come totalità impermeabile, come "pacchetto" che si trasmette intatto da una
generazione ad un'altra attraverso rapporti lineari e vincolati ad una dimensione locale e territorializzata. Se questo
schema interpretativo si rivela di per se fuorviante e scarsamente operativo anche quando sia applicato a società del
passato, esso si conferma addirittura improponibile qualora venga applicato alle società contemporanee in cui mass
media e nuove tecnologie comunicative esaltano il carattere complesso e trasversale insito in ogni processo di
creazione culturale e identitaria. È nella dinamica incessante tra il vicino e il lontano, tra messaggi orali e scritti, tra
rapporti diretti e virtuali, tra il materiale e l'immateriale che buona parte dell'umanità produce, interpreta e trasmette
alle giovani generazioni visioni del mondo, modelli di comportamento, rappresentazioni del sé e dell'altro individuali e
collettive.
Se la metafora del "pacchetto" si rivela oggi inadatta per descrivere i meccanismi della trasmissione culturale,
nell'immaginario collettivo e nello stesso ambito scientifico continuano ad esistere rappresentazioni tra loro molto
differenti dell'identità. Esse sono riassumibili attraverso l'uso di altre due metafore: quella del "sacco" - assai prossima
all'immagine della cultura che abbiamo or ora messo in discussione - e quella del 'cammino"(Fabbri D., Formenti L.,
1991). Nel primo caso, "l'individuo una sorta di 'contenitore' dotato di confini suoi, chiaramente disegnati, che
delimitano un dentro (cui apparterrebbero i processi mentali, il sé, la coscienza e l'identità personale) e un fuori (cui
apparterrebbero tutte le cose da cui riceviamo informazione, gli altri e in genere l'ambiente)". In questa prospettiva,
la dimensione spazio-temporale è definita a priori dagli stessi confini corporei e non è suscettibile di altro divenire se
non quello fisico-biologico. Secondo la metafora del cammino, invece, il sé non è un'entità materiale, esistente nel
mondo fisico. In quanto processo, non appartiene al mondo degli oggetti, ma a quello della comunicazione. [...] In
questo quadro, le categorie del dentro e del fuori sono sostituite da quella di differenza, di passaggio, di incontro"
(Fabbri D., Formenti L., 1991, pp. 42-43). Anche se attualmente stiamo assistendo ad un recupero della metafora
del cammino, è pur vero che i due grandi modelli di identità continuano a coesistere in modo più o meno sottilmente
conflittuale determinando teorie e concezioni piuttosto differenti per quanto riguarda la formazione dell'identità ed il
rapporto dell'individuo con l'Altro-da sé.
Senza voler spingere ad alcuna drastica scelta tra le due ipotesi, mi appare più produttivo immaginare l'identità
come cammino, come processo di continua costruzione, non necessariamente cumulativa, che avvenga attraverso
l’assorbimento e l'elaborazione di materiali culturali che oggi più che mai si configurano variegati, sfaccettati e
contraddittori nei loro contenuti e nelle loro modalità di circolazione.
Al carattere già di per sé complesso dei mondi contemporanei e delle loro culture, si aggiunge inoltre la polifonia
e la multiforme stratificazione degli elementi insiti in ogni segmento di trasmissione culturale: a prescindere, infatti, dal
mezzo di comunicazione utilizzato, nel corso di ogni processo di trasmissione - di tecniche, di saperi, di
comportamenti, di credenze e di qualunque altro item culturale - viene anche veicolato, in maniera inconsapevole, un
modo di interpretarli: è come se ogni messaggio esplicito fosse circondato e collegato agli altri da una sorta di rete
invisibile, non immediatamente percettibile, ma che ha il potere di strutturare una certa visione del mondo fino a farla
coincidere con il mondo stesso affermando silenziosamente, ma in maniera totalizzante, la propria verità e "naturalità"
(Callari Galli M., 1993). Attraverso la trasmissione sotterranea ma pregnante di materiali culturali che trascendono
quelli intenzionalmente veicolati, si emettono e si ricevono messaggi impliciti che riguardano il "medesimo" e l"'altro",
il "noi" contrapposto al "loro"; messaggi su cosa significhi e comporti l'appartenere al genere femminile o maschile, ad
un gruppo generazionale, ad una suddivisione sociale, ad una razza, ad una nazione. Questi messaggi "nascosti", che
spesso assumono la forma di stereotipi e pregiudizi e facilmente si traducono in lapidarie certezze o in paure fobiche,
proprio in virtù della loro azione strisciante si sedimentano lungo i percorsi di formazione individuale e collettiva
cristallizzandosi in visioni positive del proprio gruppo e negative del gruppo "altro", in rigide rappresentazioni delle
identità di genere, in supine accettazioni dei rapporti di potere e di prevaricazione.
I codici espressivi che prefigurano l'utilizzo dell'immagine rappresentano una sorta di apoteosi dell'accavallarsi di
messaggi impliciti ed espliciti. Ogni immagine figurativa contiene infatti una miriade di elementi e rimandi culturali che
si fissano in modo più o meno consapevole nella memoria dello spettatore. Occorre aggiungere, inoltre, che
quest'ultimo assimila i materiali iconici che gli vengono sottoposti interpretandoli sulla base del proprio stile cognitivo
e del proprio vissuto creando a sua tolta nuovi significati che confermano o progressivamente sovvertono saperi e
credenze: ogni immagine, potenzialmente, scatena effetti la cui intenzione ed il cui controllo sfuggono a chi l'ha
inizialmente concepita Gruzinski S., 1990). La forza inculturativa dell'immagine, scientemente d ampiamente
utilizzata, non a caso, per colonizzare l'immaginario dei popoli conquistati dall'Occidente (Gruzinski S., 1994), si
manifesta oggi in tutta la sua pregnanza attraverso i media audiovisivi: "L'immagine contemporanea si instaura come
presenza che satura il quotidiano imponendosi come unica e ossessionante realtà. Al pari dell'immagine barocca [...],
essa trasmette un ordine visuale e sociale, diffonde modelli di comportamento e di credenza, anticipa nel campo
visuale evoluzioni che ancora non hanno dato luogo ad elaborazioni concettuali o discorsive" Gruzinski S., 1990, p.
334).
Anche se nelle nostre società convivono mezzi di comunicazione differenziati, non possiamo non riconoscere che
quelli audiovisivi, e la televisione in particolare, giocano un ruolo che in molte esistenze rischia di divenire
preponderante rispetto a quello degli altri veicoli di comunicazione e trasmissione culturale. Se nel passato, ad
esempio, un bambino sviluppava capacità cognitive, sensi ed emozioni nel contatto fisico con i natura, gli oggetti, gli
altri individui ed i libri scritti ed illustrati, un bambino di oggi sviluppa probabilmente le proprie capacità soprattutto a
contatto con i nuovi mezzi elettronici e con i loro linguaggi. Il mondo che accoglie è un mondo "segnato" e in parte
organizzato dalla presenza i media audiovisivi: le numerose implicazioni della fruizione televisiva cominciano infatti sul
piano del vissuto quotidiano, delle abitudini di vita, della suddivisione dei tempi e degli spazi familiari. Il cambiamento
tradotto dall'ingresso della televisione nelle nostre abitazioni investe la relazione tra i membri del nucleo di convivenza
(Callari Galli M., 1979; altari Galli M., Colliva C., Pazzagli I., 1989), le relazioni amicali e sociali, il rapporto con la
lettura, con la fruizione di altre fonti di informazione e persino il "colloquio" che l'individuo è in grado di intrattenere in
sé stesso. La "sovra"-esposizione, sin dalla prima infanzia, all'azione pervasiva, capillare e "sotterranea" dei mezzi di
trasmissione culturale audiovisivi - anche in virtù delle modalità apparentemente "facili" della loro recezione - può
contribuire ad un irrigidimento dei modelli culturali re costituiscono la trama su cui si intessono apprendimenti,
atteggiamenti e scelte future.
2. Messaggi espliciti ed impliciti e potere dell'immagine: la pubblicità e non solo
I messaggi pubblicitari sono oggi onnipresenti. Essi dilagano nel quotidiano attraverso cartelloni, riviste, giornali e
trasmissioni radiofoniche, ci inseguono nelle sale cinematografiche, negli autobus, nei tunnel della metropolitana, nei
taxi; ammiccano accattivanti nelle sale d'attesa di aeroporti e stazioni ferroviarie, interrompono ogni sorta di
trasmissione televisiva. Invadendo tutti i media, coinvolgendo molteplici linguaggi, l'espressione pubblicitaria forma
attualmente un'ampia sovrastruttura che esercita un'enorme influenza in campo commerciale, economico e culturale
pur godendo, apparentemente, di vita autonoma. La funzione più diretta ed esplicita della pubblicità è quella di
offrire merci e d'incrementare il mercato stimolando i cosiddetti consumatori agli acquisti. Tuttavia, per raggiungere
questi scopi e per destreggiarsi nell'universo selvaggio della concorrenza, essa "attacca" gli individui proponendosi ad
essi attraverso strutture di significato che trascendono i suoi intenti dichiarati. L'attività dei "pubblicitari" consiste
infatti nel trasfigurare le merci in messaggi che raggiungano l'emotività dei potenziali acquirenti captando i "segni del
tempo" spesso in anticipo rispetto alla società stessa e sfruttandone le aspirazioni e le tensioni identitarie. Il mondo
che abitiamo risulta così pullulante di continui inviti all'acquisto mascherati da promesse di identità vincenti: i beni, la
felicità, la ricchezza sembrano essere alla portata di tutti, disponibili e facili da raggiungere come facile e disponibile è
l'universo incantato della televisione. Uno dei messaggi impliciti che si possono ricavare da tanta felicità profusa è
l'esclusione di coloro che felici, brillanti e sorridenti non riescono ad essere.
A livello educativo, ciò che dovremmo sfatare non è solo il fascino che proviene dall'acquisto continuo, ma la
connessione pubblicitaria, immediata e priva di problematicità, tra felicità e possesso dei beni, connessione spesso
stabilita attraverso la proposta di modelli dell'identità e della relazione incentrati sulla seduzione e sottilmente violenti
(Baudrillard J., 1980). L'imperativo trionfo di un "io", di un'identità che si ottiene comprando, passa attraverso
l'invito incalzante e talvolta ricattatorio ad essere belli e attraenti, dovendo piacere a tutti, a costo di qualunque
artificio. Il corpo diviene il proprio destino, la propria fortuna: le numerose allusioni pubblicitarie al piacere sessuale
si mischiano alla conquista dei beni, delle relazioni sociali e del successo. La seduzione, dai mille registri e dalle mille
sfumature, è onnipresente e messa in scena con la massima intensità: tenera e sognante, perversa e maliziosa,
sfacciata o sottintesa si insinua tra automobili e aperitivi, motorini e profumi, alimenti e biancheria in modo artificioso,
truccato, irreale ed iper-reale al contempo.
Quale immagine dell'ordine dei ruoli sociali riesce a ricostruire un giovanissimo spettatore esposto al pastiche
pubblicitario che mescola mode, tradizioni e innovazioni, inviti al consumo e modelli identitari, stereotipi tra i più vieti
e messaggi che inneggiano ad un mondo libertario ed egualitario? Nella pubblicità e nella maggior parte delle
trasmissioni televisive, tra cui quelle espressamente dedicate all'infanzia, cogliamo infatti una sorta di "deriva"
culturale che diffonde implicitamente, ma a piene mani, stereotipi e pregiudizi che a livello esplicito sono ormai
banditi poiché smentiti dalle conoscenze scientifiche e contrari ai principi ispiratori del nostro vivere sociale: se l'idea
della superiorità di un gruppo, di un"'etnia", di un genere sessuale è stata radiata dalle istituzioni dalla scienza e dalle
visioni del mondo di molti individui, essa rientra subdolamente nelle nostre vite attraverso il teleschermo. Prendendo
ancora una volta la pubblicità come esempio che dimostra questa nostra ipotesi - ma senza dimenticare che la
televisione funziona nel complesso secondo lo stesso registro - analizziamo brevemente l'immagine dell'identità di
genere che ci viene offerta dagli spot pubblicitari dedicati al pubblico infantile (Callari Galli M., 1997 è)). I messaggi
rivolti ai giovanissimi utenti si rivelano diversificati su base sessuale: diversi infatti sono gli atteggiamenti, gli abiti, i
giocattoli presentati dai piccoli attori degli spot come materiali sui quali allenare propensioni, abilità e scelte future.
Mentre i bambini vengono allettati con kit di costruzioni, macchinine, videogiochi e mostri guerrieri, alle bambine
sono dedicati morbidi animaletti da coccolare, bambolotti con cui addestrare il loro inevitabile futuro di mamme,
diari e cofanetti per i primi segreti d'amore, scatole per il trucco e Barbie da cui attingere spunti per il loro avvenire
di seduttrici dalle misure canoniche. La decisione, l'avventura, la libertà, la disinvoltura scanzonata e sfrenata, l'abilità
nelle nuove tecnologie sono appannaggio dei maschietti; le manifestazioni di affetto, i vezzi, la compostezza, le
atmosfere edulcorate, la leggiadria più leziosa, l'imitazione dei tradizionali ruoli femminili qualificano il mondo delle
bambine. Musiche forti e cadenzate, toni marziali delle voci fuori campo, colori accesi, ripresa televisiva dai ritmi
incalzanti ed aggressivi caratterizzano tanto la pubblicità di prodotti destinati ai maschi, quanto i cartoon che esaltano
la potenza fisica e le capacità di leader dei protagonisti maschi. A contrasto, i commenti musicali soft, i colto
pastello, i toni soffusi e dimessi delle riprese accompagnano i giochi e i giocattoli presentati alle bambine e la
narrazione delle avventure al femminile. Anche nei casi in cui alle bambine siano offerti modelli apparentemente
alternativi, l'identità femminile resta per lo più ancorata alla tradizione che pone in primo piano il fascino e
l'avvenenza. Così Sailor Moon, nelle sue molteplici e fantastiche personificazioni, pur dimostrando una forza ed un
potere in genere propri ai personaggi maschili, è "prigioniera" di un corpo bellissimo, sinuoso e provocante.
Analogamente Lady Oscar, che ripercorre le tappe della Rivoluzione francese incarnando un modello di donna
apparentemente ardita e incline all'avventura, si rivela in realtà appassionata e facile all'amore romantico.
I telefilm e i serial che si rivolgono più direttamente al pubblico degli adolescenti confermano la distinzione tra i
sessi implicitamente affermata nelle pubblicità e nelle trasmissioni per bambini. La linea dominante dell'identità
femminile adolescenziale e giovanile nella sua versione televisiva prevede eroine fragili, perennemente innamorate,
pronte a sedurre i loro partner con tutte le armi del ricettario tradizionale: la dolcezza, la debolezza, l'incapacità di
far fronte alle situazioni complesse, la bellezza e persino l'ostentazione di una certa dose di stupidità. Da parte loro, i
giovani maschi dell'universo televisivo rafforzano la propria identità sottovalutando le qualità femminili, esercitando la
propria capacità di irretire il maggior numero di "prede", sovente disprezzando le loro adoranti "fidanzatine" attratti
soprattutto dall'aspetto fisico di occasionali e stereotipate maliarde di passaggio.
Le regole del gioco, infine, non cambiano di molto quando eroi ed eroine televisive raggiungono la maggior età: il
fascino maschile risulta ancora legato alla forza e alla virilità, alla sicurezza e all'intraprendenza nel corteggiamento,
nelle avventure e nello sport. L'affermazione femminile continua ad essere legata a corpi giovani e attraenti di
casalinghe felici, di stizzose donne in carriera, di creature fragili e indifese o provocanti e appassionate.
3. La grande famiglia
Il miscuglio televisivo - per molti aspetti subdolo - che combina la spinta all'affermazione individuale e la
riproposizione di modelli identitari rigidi e obsoleti, eventi e sentimenti di segno opposto e facilità di linguaggi, intenti
moralizzatori e monetizzazione delle azioni, tende a ridurre l"'altro", ma anche il soggetto stesso, a pura apparenza e
rende l'incontro - ogni incontro - evento momentaneo o, paradossalmente, consuetudine codificata una volta per
tutte. La trasmissione di modelli di identità e di relazione operata dalla televisione appare, anche in questo senso,
ambigua ed antinomica: se, da un lato, i materiali culturali veicolati prefigurano la formazione di una "grande famiglia",
di una sorta di unità culturale e sociale allargata fino a comprendere milioni di individui accomunati dalle stesse
immagini, dalle stesse notizie, dallo stesso linguaggio e dagli stessi input culturali, dall'altro lato le immagini e le
rappresentazioni televisive possono essere percepite, interpretate e rielaborate in modo assai difforme a seconda
delle differenti realtà locali e individuali su cui si innestano. Se a causa della standardizzazione di programmi ideati,
venduti ed acquistati sul mercato internazionale, gli adulti e soprattutto i bambini di tutto il mondo tendono ad
organizzare i loro desideri, giudizi, pratiche ed aspirazioni sulla base omologa ed in fondo elementare della "grande
famiglia" che cancella apparentemente le differenze, queste ultime vengono continuamente ribadite, indurite, e persino
riprodotte dai mass media ed in particolare dal livello implicito dei messaggi da essi veicolati. Se ognuno di noi può
essere ammesso alla “grande famiglia” comprando nuove merci e con esse nuove identità apparentemente
singolarissime, partecipando all'artificiosa felicità degli show del sabato sera o piangendo davanti ai funerali di Lady
Diana in mondovisione, ognuno di noi è anche implicitamente chiamato a riconoscersi e a riconoscere l'altro in base
a ruoli di genere rigidamente descritti, a stereotipi etnici a tutt'oggi disinvoltamente veicolati, a posizioni sociali
gerarchiche legate al possesso di beni. Se l'Europa "bianca" trema davanti alla Cnn che ci presenta Saddam Hussein
come il feroce Saladino, i giovani beur delle banlieues francesi plaudono davanti allo stesso spettacolo; se le
paillettes, le fanciulle in fiore e gli arredi faraonici degli spettacoli d'intrattenimento delle reti televisive italiane servono
a far dimenticare la piattezza e talvolta la miseria che possono caratterizzare le vite dei nostri connazionali, essi
denotano invece ricchezza reale e abbondanza di possibilità agli occhi di chi, al di là del Mediterraneo, capta il
segnale delle televisioni italiane e vede l'Italia come terra d'emigrazione.
Nell'analisi dei processi inculturativi multivocali e complessi che caratterizzano la nostra epoca contribuendo in
misura notevole alla costruzione di immaginari collettivi sempre più planetarizzati ed influenzando la formazione del
senso di appartenenza o di spaesamento rispetto a questo o a quel gruppo, dobbiamo dunque tener conto
dell'ulteriore elemento di complessità insito nella televisione come fattore omologante da un lato come meccanismo
generatore di disuguaglianze dall'altro.
II. La televisione: linguaggi ed effetti
1. Flussi di informazioni
Per meglio comprendere i meccanismi che sottostanno ai processi di trasmissione culturale propri della nostra
epoca, è necessario analizzare le caratteristiche del linguaggio utilizzato dal mezzo televisivo: in molti anni di
riflessione e di ricerche abbiamo sviluppato (Callari Galli M., Colliva C., Pazzagli I., 1989; Callari Galli M.,
Conversano F., Grignaffini N., 1997b) l'ipotesi secondo la quale la velocità, il ritmo incalzante e la frammentazione
che strutturano e accompagnano i messaggi televisivi modificano la percezione del tempo e dello spazio fino a che lo
stesso senso di realtà a cui erano abituate le precedenti generazioni e sul quale continuano ad essere organizzate
istituzioni ed attività, si perde nella fascinazione di una finzione totalizzante, nella ripetizione, nel marasma di
un'informazione ipertrofica che elimina ogni gerarchia tra gli eventi, tende ad appiattire le reazioni e toglie spessore e
vigore alle emozioni.
Nel corso degli ultimi due decenni, i processi produttivi hanno assunto forme per le quali il possesso di saperi - e
quindi la capacità di elaborare informazioni e di trasformarle in comunicazione - contende il primato al possesso di
beni come mai prima d'ora: è stato detto che dopo la rivoluzione meccanico-siderurgica e dopo quella della chimica,
stiamo oggi vivendo la rivoluzione dell'informazione.
La televisione, oggetto-simbolo di questa trasformazione epocale, costituisce un mezzo di intrattenimento, di
trasmissione culturale, di informazione puntuale e capillare alla portata di tutti. Essa fa pervenire nelle nostre
abitazioni notizie che riguardano città e continenti lontani, ci rende familiari i volti dei protagonisti della vita politica
nazionale ed internazionale, ci aggiorna su eventi che hanno luogo nella nostra città o che coinvolgono popoli
sconosciuti.
Il mondo "iper-informato" ed "iper-comunicante" nel quale viviamo contiene, tuttavia, numerosi` paradossi, tra cui
forse il più immediato e completo nella sua concisione ed immediatezza è che all'accumulo sempre crescente di
informazioni corrisponde una sorta di eclissi del senso (Baudrillard J., 1996). La quantità esorbitante dei messaggi
che riceviamo, infatti, sembra costituire un ostacolo, più che un aiuto, alla comprensione; e la comunicazione, sempre
più diffusa e pervasiva, sembra inibire la nostra capacità di elaborazione delle informazioni e bloccare la volontà e le
competenze stesse legate al comunicare.
La televisione - fonte caleidoscopica d'immaginari e, probabilmente, matrice di stili cognitivi - si offre ai bambini
come finestra su un mondo che mai prima d'ora si era presentato a sguardi infantili come tanto vario e vasto. Quello
televisivo è un mondo che "spazia dai dinosauri ai cyborg" (Ceruti M., 1995), popolato in modo casuale e caotico
tanto da individui e fatti reali, quanto da personaggi fantastici, posti tutti sullo stesso piano: leader politici,
presentatori televisivi, protagonisti di film e telefilm, vittime di guerre civili, foreste in fiamme, città devastate da
terremoti o da disordini, balene salvate dall'inquinamento e da feroci balenieri, popolazioni che festeggiano vittorie e
indipendenze, profughi kurdi, signore "della porta accanto", principi arditi che salvano bionde fanciulle, vampiri,
top-model, nonni da pubblicità e coppie che litigano in diretta. Questo mondo tutto visivo, non vissuto, non letto,
non discusso, non scelto, appare e scompare dal salotto di casa a proprio piacimento, premendo un bottone: con
esso non si interagisce, lo si accetta o lo si respinge, ma non si ha la possibilità di modificarlo. Davanti all'universo
televisivo siamo inermi – quando ci abbandoniamo alla suggestione delle immagini - ed al contempo onnipotenti quando, premendo i tasti del telecomando, cambiamo direzione nel flusso televisivo e, così facendo, alteriamo il
significato delle immagini o, più drasticamente, le cancelliamo.
Nel fluire incessante dei messaggi televisivi, il tempo e lo spazio categorie-chiave attraverso le quali individui e
società organizzano le loro rappresentazioni del mondo - esplodono sotto i colpi della frammentazione estetica in
momenti e luoghi privi di continuità. Le condivise ed esperite coordinate spazio-temporali e le loro differenze si
annullano e si confondono in narrazioni estemporanee prodotte non da un autore, ma dal flusso televisivo stesso, che
pone uno accanto all'altro i messaggi e le immagini più eterogenei - l'impero romano e la seconda guerra mondiale,
New York, le foreste del Borneo ed il pianeta Marte, la piazza del paese in cui viviamo e l'Antartico - come se
fossero equivalenti e/o contemporanei. I frammenti di mondo e di umanità più disparati si condensano in una serie
incalzante di schegge colorate e sonore che, ricomponendosi in modo inaspettato, finiscono per costituire nuovi
racconti. Schegge, frammenti, sequenze visive e discorsive, della cui creazione nessuna redazione televisiva è
veramente responsabile, inseguono come avviene al piccolo Rachid (Ben Jelloun T., 1997) - senza tregua
giovanissimi telespettatori raggiungendoli fino all'intimità esclusiva dei sogni e fornendo loro innumerevoli stimoli.
Tuttavia, la quantità e la velocità delle informazioni è tale da non permettere ai bambini di elaborarle e trasformarle
attraverso il filtro della riflessione e dell'esperienza. Il proliferare delle informazioni, il loro incessante susseguirsi,
scomporsi e ricomporsi nel flusso televisivo tendono Cosi a divorare il tempo e lo spazio, la comunicazione ed il
senso. L'eccesso quotidiano di messaggi rischia, inoltre, di produrre ulteriore disorientamento in ragione del fatto che
i materiali culturali che pervengono allo spettatore risultano, spesso, in contraddizione tra loro.
2. Estasi televisive
Durante i primi anni di vita, la fascinazione esercitata dal piccolo schermo risiede essenzialmente nel flusso veloce
delle immagini, dei colori, dei suoni che le accompagnano: tutti stimoli, questi, che possono essere potenziati
attraverso l'uso del telecomando. La bellezza delle immagini, le tecniche di ripresa sempre più sofisticate, gli effetti
speciali, le colonne sonore, i virtuosismi del montaggio, che contribuiscono alla rapidità del ritmo, costituiscono
ulteriori fonti d'incantamento. La dimensione estetica, in ragione del suo alto potere di coinvolgimento, si afferma
sempre più come elemento centrale del linguaggio televisivo. Essa si manifesta innanzitutto come accumulo continuo
di stimoli percettivi che non lascia tempo né al raccoglimento né alla riflessione. Nel piacere estetico immediato, la
dimensione del presente si dilata, mentre il ricordo e la memoria tendono a cancellarsi, sostituiti da continue citazioni
e ripetizioni che tengono lo spettatore inchiodato al presente televisivo; dinamicità, incessante movimento
dell'immagine, continua confusione di generi compromettono l'interezza e l'unità narrativa.
Anche l'informazione, inserita in questa infinita rappresentazione estetizzante, ne rispetta le leggi: velocità,
affastellarsi di immagini ed eventi privi di connessione, taglio "feuilletonistico", ricostruzione di avvenimenti resa
attraverso i mezzi della fiction, utilizzo di effetti speciali, rendono la struttura discorsiva di telegiornali, documentari e
servizi di attualità assai simile a quella delle trasmissioni d'intrattenimento. Così, soprattutto agli occhi degli spettatori
più giovani, i confini tra realtà e finzione possono farsi labili, indefiniti, poco espliciti. Nel confronto tra la realtà ed un
immaginario esteriorizzato (Leroi-Gourhan A., 1977) tramite modalità espressive sempre più efficaci, tramite nuove
forme narrative e linguistiche e dispositivi tecnologici sempre più sofisticati e innovativi, è il secondo termine ad
apparire "vincente": come abbiamo visto a proposito della pubblicità, alcune rappresentazioni televisive, per esempio
quelle della seduzione, risultano Cosi attraenti da far apparire sbiadita ogni realtà.
3. Materiali culturali "al grezzo'
L'accumulo di informazioni, l"'effetto flusso", le tendenze estetizzanti proprie dell'universo televisivo producono
materiali culturali aleatori, multiformi e volatili: le informazioni veicolate dal mezzo ci colpiscono come influenze
transitorie, frammenti di conoscenza, schegge di idee che c'impressionano a caso. Gli incalzanti tempi televisivi
costringono lo spettatore alla superficie dei fenomeni: riflessione ed elaborazione sono bandite dalla velocità, ma
anche dall'accessibilità disarmante ed insidiosa dei contenuti e dei linguaggi di molti programmi, compresi quelli
dedicati all'infanzia, che spesso divengono veicoli di trasmissione di saperi, credenze e visioni del mondo di senso
comune.
Come educatori, genitori, studiosi di scienze umane, come abitanti di un mondo nel quale i processi di
trasmissione culturale avvengono sempre di più attraverso mezzi di comunicazione aventi le caratteristiche che stiamo
cercando di descrivere, siamo chiamati a cercare di comprendere il tipo di impatto cognitivo, relazionale ed affettivo
che un medium come la televisione può avere sugli spettatori più giovani. Spettatori, non dimentichiamolo, che in
alcuni casi dedicano più tempo al piccolo schermo che non al gioco con i coetanei, bambini che conoscono i
personaggi delle telenovelas meglio dei propri vicini di casa, uomini e donne futuri esposti sin dalla prima infanzia ad
un "mondo parallelo" di immagini suoni, linguaggi, narrazioni "semplici" e accattivanti, patinati e cruenti di facile
accesso, che quasi pensano ed immaginano al loro posto. Quale immaginario si forma, dunque, tra le quasi infinite
sollecitazioni televisive mescolanti realtà e finzione, banalità ed eccezionalità, mondi "in rosa" e violenze efferate? In
quali modi i giovanissimi telespettatori organizzano nella loro mente miriadi di frammenti televisivi apparentemente
semplici, ma profondamente ambigui, omologanti, ma inneggianti all’”io”? Ed ancora: come si collegano i disparati
materiali culturali veicolati dalla televisione alle esperienze, ai vissuti, alle storie individuali e collettive di ogni
bambino? Quali sono le possibilità delle quali noi adulti disponiamo per interagire con l'incessante e frenetico flusso
televisivo e per meglio comprendere il modo in cui le sue schegge si integrano nella rete di conoscenze del bambini?
Questa domanda richiama alla memoria due testimonianze di due allievi delle scuole elementari: il primo, originario
del Maghreb, al suo arrivo in Italia passa ore ed ore davanti alla televisione per imparare la lingua ed "ambientarsi":
"... ormai conosco tutti i personaggi più famosi d'Italia: Toto Cutugno, Gigi Sabani, Rambo, Cristoforo Colombo,
Totò e naturalmente Roberto Baggio e gli altri giocatori di calcio..." (Caliceti G., 1995). Il secondo bambino, in una
prova scritta di storia, alla domanda "Chi ha scoperto l'America?" risponde in bella e sofferta grafia: "L'America fu
scoperta dal Tenente Kojak" (Mezzini M., Rossi C., 1997). Mentre nelle parole del primo allievo intravediamo un
mondo all'insegna dell"'indistinto" televisivo descritto da Jean Baudrillard, la stesura del compito di storia ci aiuta ad
immaginare le possibili difficoltà di organizzazione e catalogazione delle informazioni nel magazzino della memoria di
un ragazzina di dieci anni. Collegare personaggi e messaggi in modo improprio, non coglierne la natura di fiction,
non distinguere realtà e narrazioni fantastiche: questi i rischi di lunghi pomeriggi unicamente visivi, spesso solitari,
trascorsi immergendosi per ore nel flusso televisivo, senza pause di riflessione, di rielaborazione cosciente di quanto
visto, di inseguimento ed arricchimento intenzionato di un sogno, di una fantasia, di un gioco scatenati dalle immagini,
dai suoni, dalle storie che sono state narrate.
4. Vissuti senza esperienza
Nelle società arcaiche ed in quelle definite "tradizionali", lo spazio ha proprietà di connessione: attraverso saperi
individuali e collettivi, infatti, gli uomini e le donne vivono e si rappresentano lo spazio come un insieme di parti
fisicamente collegate . Ogni luogo, anche il più selvaggio, è "investito" di cultura, è sede di senso: attraverso la pratica
del girovagare ad esempio, alcuni gruppi di aborigeni australiani conferiscono significati a territori che ai nostri occhi
sembrerebbero dominio assoluto della natura - più che della cultura - svolgendo periodicamente pellegrinaggi
individuali e collettivi durante i quali si celebrano, attraverso canti, miti e racconti, i nomi e le qualità delle montagne,
delle pianure, dei corsi d'acqua (Chatwin B., 1988).
Tra le tante società che si sono avvicendate sulla scena della storia, la nostra sembra essere la prima ad aver
spezzato queste connessioni (Leroi-Gourhan A., 1977): lo spazio personale di ogni individuo è esploso in molteplici
centri separati, fisicamente e simbolicamente lontani, costituiti dalla propria abitazione, dal luogo di lavoro, da alcuni
siti della città a vario titolo significativi: la zona degli acquisti, il mitico "altrove" del tempo libero e dell'evasione. Lo
spazio che separa - ma che al contempo connette - questi centri, spesso si presenta alla nostra percezione come una
sorta di selva, come sequenza di non-luoghi "in cui non si lasciano cogliere né l'identità, né la relazione, né la storia"
(Augé M., 1993). Non-luoghi privi, dunque, di significato, ansiogeni, a volte affollati di pericoli presunti o reali che
cerchiamo di non vedere attraversandone l'opacità il più rapidamente possibile. Questa frantumazione, questo
spazio-scacchiera fatto di "pieni" e di "vuoti" di senso è dovuto a molteplici fattori: la scarsa lungimiranza di certe
scelte nell'assetto urbanistico-territoriale il sistema dei trasporti che "dimentica" interi quartieri delle nostre città i
mezzi di comunicazione di massa che preselezionano per noi segmenti di mondo e di umanità conferendo loro
visibilità, e dunque esistenza, ad altro e ad altri negata. Se la televisione non ha veramente ucciso la realtà
(Baudrillard J., 1996), essa ne ha comunque spezzato l'interezza, la continuità, sostituendo il gusto della scoperta e
dell'avventura esperita con il proprio corpo con l'offerta in un mondo vastissimo, ma "predigerito", già dato, e
accessibile solo attraverso la vista e l'udito. Nella vita di un bambino che, come vogliono molte ricerche (Di Nicola
P., 1989), trascorra quattro o cinque ore al giorno davanti al piccolo schermo, vengono sacrificate le corse nel
parco o nella strada, i giochi con i coetanei, i sogni ad occhi aperti che collegano i frammenti della sua
immaginazione. I reiterati pomeriggi televisivi di molti bambini corrispondono ad una rinuncia a momenti d'importante
apprendistato cognitivo e comunicativo: la parola, il riso, il pianto, il "fare" con il proprio corpo, con gli altri, con
l'ambiente. Notiamo, a proposito di quest'ultimo, un ulteriore paradosso televisivo: molti giovani spettatori vedono
quotidianamente sfilare davanti ai loro occhi campi di grano, fattorie e "alimenti sani e naturali", apprendono dettagli
sui cicli di flora e fauna esotiche, ammirano bellissimi paesaggi da punti di vista talvolta inusitati. Tuttavia il tipo di
conoscenza Cosi acquisita è tutta visiva e non vissuta, non partecipata. Queste esplorazioni televisive "virtuali" non
possono in alcun modo sostituire un'osservazione ed una conoscenza alla quale tutti i sensi partecipano: odori,
sensazioni tattili, rumori, fatica e sudore, sono parte integrante dell'umana esperienza del mondo. Esperire, attribuire
senso e finalità, scegliere, vivere la casualità e l'imprevisto con il proprio corpo costituiscono modalità cognitive che
partecipano a pieno titolo alla formazione di individui capaci di orientarsi nell'esistenza costruendo percorsi personali,
non limitandosi a quelli precostituiti, preconfezionati da uno solo per tanti.
Attraverso la televisione, molteplici e variegati spazi irrompono nelle nostre abitazioni. Alcuni di essi risultano
familiari, ricollegabili all'esperienza quotidiana, altri sono invece tanto esotici che molti di noi non li vedranno mai
"davvero" nel c irso della loro esistenza. Accanto agli spazi, entrano nelle nostre case immagini di oggetti, di uomini,
di donne, di bambini, di attività, di animali, e città e oceani, e deserti e montagne, tutto a portata di mano, uno dopo
l'altro senza che la successione, la commistione, la ripetizione, l'assenza siano giustificate da altro criterio se non
quello del flusso di trasmissioni aventi ciascuna una propria logica interna indipendente, autosufficiente e, spesso,
incoerente e contraddittoria con quella del programma precedente o di quello spot pubblicitario che la interrompe. I
telespettatori-bambini ignorano i meccanismi che regolano '1 palinsesto, essi non conoscono con il corpo e con la
vita la maggior parte degli spazi, dei volti, delle situazioni teletrasmesse, la loro giovane età prefigura una gamma di
esperienze ristrette, insufficiente al fine di collegare le innumerevoli schegge di mondo catodico al vissuto quotidiano:
se i contenuti veicolati dal mezzo televisivo si fissano, unicamente per frammenti scarsamente elaborabili, i
meccanismi generali, invece, modellano, a mio parere, molte delle caratteristiche dell'intera personalità infantile, e
quindi molti dei modelli culturali e comportamentali che guideranno la comprensione e l'azione degli adulti futuri.
Tramite le televisione, i nostri bambini conoscono visivamente molteplici spazi, ma è proprio il verbo "conoscere"
che stiamo mettendo in discussione: senza la mediazione dell'esperienza diretta, quale livello di conoscenza
producono le variegate ed innumerevoli immagini dello spazio inviate quotidianamente dal mezzo televisivo? Fino ai
nostri giorni, lo spazio è stato conosciuto, in età infantile, grazie al movimento del proprio corpo, di oggetti e persone
intorno a noi. E attraverso il gioco che i bambini, progressivamente, prendono coscienza delle proprie possibilità di
dominare lo spazio e di agire su di esso modificandolo e, tal volta, sovvertendolo. Come sappiamo, un bambino può
passare ore ed ore spostando mobili ed oggetti, può percorrere innumerevoli volte - a passo lento o correndo,
saltando su un piede solo o strisciando carponi - lo stesso tratto di strada, lo stesso sentiero, il corridoio di casa: è
anche attraverso questi giochi di movimento che i bambini "addomesticano" lo spazio assimilandolo e traducendolo
in schemi corporei ed in coordinate cognitive. In quale rapporto, allora, possiamo collocare questa esigenza di
appropriazione fisica dello spazio con l'immobilità corporea cui la fruizione televisiva costringe?
5. Televisione e possibili "effetti collaterali": il caso della violenza
Numerose sono oggi le antropologie spontanee che tendono a vedere e a rappresentare il nostro presente
"locale" e "globale" come particolarmente violento rispetto al passato. Nei discorsi quotidiani di molti abitanti delle
nostre città ricorre l'immagine di tempi in cui lo stesso agglomerato urbano ed il mondo in generale sarebbero stati
più sicuri, più tranquilli, meno minacciati dalla violenza, quasi che quest'ultima costituisse l'ennesimo frutto anomalo
ed inedito della modernità.
Eppure la violenza ha caratterizzato tutte le epoche, si è profusa nei sistemi di molte civiltà, si produce a tutt'oggi
nelle strade di tutti i continenti. "11 gusto del sangue", scrive Camporesi a proposito dell'Europa medioevale e
rinascimentale, "permeava la vecchia società violenta, crudele, eccessiva: dalla nascita alla morte la vista e l'odore
del sangue facevano parte del corredo umano e sociale di ognuno. Le forche e ~ patiboli, le carrette dei carnefici
fumiganti per le strade ... le teste infilzate sulle picche o inchiodate alle porte ... la macelleria degli uomini si
confondeva con quella degli animali ingombranti, sgozzati all'aperto ..." (Camporesi P., 1984). Dai giochi dei
gladiatori dell'antichità alle atroci "performance" punitivo-scientifiche dell'epoca moderna fino alle esecuzioni capitali
teletrasmesse, dalle interminabili torture con esito cannibalico inflitte dagli Uroni ai prigionieri di guerra ai riti
d'iniziazione e ai sacrifici umani istituiti in molte società "altre", la violenza fisica ha costituito, in molti luoghi, non solo
una realtà attestata e istituzionalizzata, ma un vero e proprio spettacolo collettivo, consumato di fronte a folle che
urlano di soddisfazione guardando il supplizio del condannato o che assistono alle cerimonie più cruente in religioso
silenzio. Al gesto, tramandatoci dalla tradizione, del padre che obbliga il figlioletto a guardare gli ultimi sussulti del
delinquente suppliziato sul patibolo sperando che l'orribile spettacolo lo dissuada da un futuro di devianza,
corrisponde l'intento educativo sottostante alle tremende sofferenze inflitte dagli Uroni ai prigionieri: si trattava infatti,
oltre che di un'offerta alla divinità solare di una "lezione" che mostrava ai bambini, futuri guerrieri, la probabile ed
assai poco allettante conseguenza di un eventuale momento di esitazione o di mancanza di coraggio in battaglia
(Harris M., 1990). L'intento pedagogico è riscontrabile anche nella cruenta violenza di alcuni riti di passaggio quali,
ad esempio, la scarnificazione del ventre o della schiena presso i Guayaki del Paraguay, simbolizzante la quota di
male, di dolore e di morte che ogni adolescente deve imparare ad accettare, insieme al benessere, al piacere, alla
vita, per divenire aché, individuo adulto e completo (Clastres P., 1980).
Molte delle culture dette tradizionali hanno tentato di "addomesticare" la violenza integrandola alle proprie
rappresentazioni del mondo ed istituzionalizzandola nella società. Mentre le linee di sviluppo seguite dal pensiero
occidentale tendono a negare, a rimuovere la "parte maledetta", quelle di molte altre civiltà hanno portato a trattare il
problema del male accettandone l'esistenza e riservando a questo "disordine" (Balandier G., 1991) spazi, tempi e
contesti delimitati e distinti nell'ambito della vita simbolica e sociale del gruppo: i rituali d'inversione presso i Balante
della Guinea Bissau, le "feste dei folli" e i carnevali dell'Europa medioevale, i potlach dei nativi nordamericani, i
saturnali romani rappresentano momenti nei quali ogni legge che regola il vivere sociale può essere sovvertita.
Quando - secondo l'espressione usata negli antichi regni del Benin - "fa notte nel paese" (Balandier G., 1991, p.
185) trasgressioni sessuali, furti e violenze di ogni tipo diventano momentaneamente lecite per poi tornare ad essere
rigorosamente proibite e sanzionate durante il resto dell'anno.
La violenza, oltre ad essere presente, in molte società, sia nella vita quotidiana che a livello simbolico e rituale, è
spesso ampiamente diffusa nelle forme di trasmissione culturale espressamente dedicate ai bambini e largamente
accettate e apprezzate dagli adulti per il loro fascino e la loro valenza educativa: la fiaba ed i classici della letteratura
per l'infanzia della nostra società ce ne forniscono un vivido esempio.
Se la violenza, ed in particolare la sua istituzionalizzazione, rientra nel vissuto, nell'immaginario e persino nella
pedagogia di molte delle società che si sono avvicendate sul pianeta, come spiegare il fatto che molti contemporanei
percepiscano la nostra epoca come particolarmente violenta? Nelle società contemporanee non esistono
"contenitori" spazio-temporali nei quali l'aggressività, il male, la trasgressione delle regole del vivere sociale trovino
un senso ed un'accettazione collettivamente condivisi: le rappresentazioni del "lato oscuro", al contrario, sembrano
debordare ed assalirci da ogni dove. Esse ci inseguono sin nelle pieghe più intime e rassicuranti del quotidiano
comparendo, spesso inattese, sotto forma di spettacolo televisivo che invade camere e camerette, cucine e salotti
delle nostre abitazioni. Tralasciando in questa sede le numerose forme di violenza implicita veicolate dalla
televisione- le quali meriterebbero, peraltro, un'attenta analisi - ci concentreremo sulle rappresentazioni televisive
della violenza esplicita. Queste ultime, insinuandosi subdole anche nel bel mezzo di allegre trasmissioni dedicate
all'infanzia sotto forma di trailer pubblicizzanti i film che andranno in onda più tardi o esplodendo all'improvviso nel
corso di un telefilm, producono paura, angoscia e tensione, ma al contempo suscitano una fascinazione derivante,
ancora una volta, dalla bellezza delle immagini, dalla "sapienza" dei colori e delle colonne sonore che le
accompagnano, dalla forza dell'impatto dei suoi personaggi-icona, vittime 0 carnefici che siano, sull'immaginario degli
spettatori più giovani: osservando i giochi di imitazione teatrale "inventati" dai bambini, ritroveremo gli sguardi
supplici e terrorizzati, ma esteticamente composti, delle vittime di violenze carnali televisive, i volti contratti dalla
fatica e dal dolore di giovani e maschi eroi o criminali, le altrettanto "maschie" parolacce urlate e giustificate
dall'urgenza e dalla gravità, dell'azione. Se, come indicano alcuni pedagogisti "coraggiosi" (Faeti A., 1993), le
rappresentazioni fiabesche, letterarie e cinematografiche della violenza esplicita - e le rielaborazioni immaginative e
ludiche ad esse connesse - possono svolgere un ruolo di catarsi e di esorcismo assumendo Cosi una valenza
educativa, i problemi sollevati dalla violenza televisiva sono legati alle caratteristiche del mezzo stesso: la violenza
appare sul teleschermo con una frequenza assai elevata e spesso in maniera totalmente decontestualizzata. Essa
esplode nell'infinito presente del flusso televisivo, sovente senza alcun legame significativo con i frammenti di unità
narrative che la precedono e la seguono. Le scene violente che il piccolo schermo ci impone, magari interrompendo
all'improvviso un cartone animato, appaiono fini a sé stesse, auto-esplicative, svincolate, come accade nei sogni,
dalle leggi che governano i fenomeni fisici e soprattutto prive di conseguenze, affrancate dalla responsabilità e dal
dolore che ogni atto di violenza implica e produce. Violenze afferenti all'attualità, alla storia `o alla fiction si
avvicendano nella velocità, nella ripetitività e nell"'indisunto" televisivo producendo una sorta di assuefazione che
rende possibile consumare una cena in famiglia mentre vanno in onda le immagini del massacro in Algeria. Che si
tratti di realtà o di finzione, la violenza spettacolarizzata dalla televisione appare come "raffreddata", paradossalmente
vicina e pregnante, ma al contempo lontanissima e priva di spessore ontologico, iper-reale ed onirica: la sua
apparizione continua, decontestualizzata ed improvvisa, rischia di allenarci ad un distacco dalla realtà che può
atrofizzare in alcuni individui (forse in molti) quella componente emotiva del rapporto con il reale che costituisce la
base di ogni senso di responsabilità verso noi stessi e verso nostri simile.
Attirando l'attenzione dei produttori televisivi sull'ingiustificabile eccesso di questa violenza "fredda",
preconfezionata e tuttavia evocatrice di modelli comportamentali e cognitivi, ma soprattutto attivando spazi di
comunicazione nei quali analizzare e riflettere criticamente su tali messaggi assieme ai bambini, forse potremmo
contribuire a ridurre i rischi connessi ad una fruizione televisiva, spesso solitaria, che può portare gli spettatori più
giovani ad assimilare passivamente, a temere fobicamente, ad invocare o ad alimentare un immaginario violento.
6. La recezione televisiva tra passività ed interpretazione: un campo problematico
Il problema dell'assimilazione solipsistica e prevalentemente recettiva dei messaggi televisivi non riguarda soltanto la
violenza e le sue rappresentazioni: numerose, infatti, sono le voci che indicano la diffusione della fruizione televisiva
come la radice stessa della passività con cui un numero sempre crescente di individui vive la propria partecipazione
alla vita politica e culturale del gruppo di appartenenza (Stiegler B. e al., 1993). In effetti, sin dalla prima infanzia,
molti bambini sviluppano le proprie potenzialità emotive e relazionali a stretto e quotidiano contatto con un mezzo di
comunicazione che li spinge a reagire a messaggi e a stimoli già dati piuttosto che ad agire in modo indipendente ed
attivo. In bambini ed adolescenti che trascorrano ore ed ore davanti al teleschermo, sentimenti quali l'indignazione, la
paura o l'entusiasmo tendono a generarsi meno frequentemente in rapporto alla società reale, all'interazione con altri
individui, al dispiegarsi di un evento cui si è partecipato, e più spesso in relazione ad immagini che si possono
cambiare 0 far sparire premendo un tasto del telecomando. Ma la realtà non è uno spettacolo televisivo, ed
interromperla significa morire.
Oltre alla passività emotiva, la fruizione televisiva può indurre, soprattutto nei giovanissimi spettatori, un certo
grado di passività cognitiva riducendo i processi di acquisizione di informazioni a mero divertimento, esaltando
implicitamente l'idea dell'apprendimento come intrattenimento a discapito di modalità conoscitive forse più faticose e
"sofferte" quali la ricerca, la lettura, lo studio, l'ascolto ed il confronto con gli altri. È inoltre ovvio che più tempo si
trascorra davanti alla televisione, meno tempo si avrà a disposizione per esplorare in modo attivo il proprio
ambiente, per partecipare alla vita quotidiana "locale", per leggere, studiare e giocare. Nella vita di un bambino, la
riduzione del tempo dedicato a quest'ultima attività può risultare particolarmente problematica: il gioco spontaneo in tutte le sue diverse e variegate forme riconducibili alla competizione, al caso e all'esplorazione, all'imitazione, alla
simbolizzazione e alla finzione, alla corporeità e alla vertigine (Caillois R., 1981 ) è assai importante affinché
l'individuo, sin dall'infanzia, apprenda a conoscere se stesso, il proprio ambiente e le relazioni che reciprocamente li
collegano. Attraverso il gioco, i bambini sperimentano una vasta gamma di attività verbali, esperiscono ed elaborano
diversi stati emotivi, imparano a distinguere differenti attività cognitive, preparano se stessi ai futuri ruoli sociali. Nel
gioco e tramite il gioco si apprende a discernere l'aggressività e la violenza dall'affermazione del sé, l'impulsività
dall'azione finalizzata, l'egocentrismo dall'altruismo, la dipendenza dalla richiesta di aiuto, la propria sessualità
dall'intimità interpersonale. Come molte ricerche dimostrano (Bertolini P., Callari Galli M., 1980; Callari Galli M.,
1982), il gioco non può essere assimilato ad un comportamento di tipo reattivo poiché esso fornisce al piccolo
giocatore una base pratica per organizzare nuovi schemi, per elaborare ed introiettare materiali culturali ed
esperienze che troveranno più tardi una vera e propria espressione trasformandosi in progetti, azioni, capacità di
verbalizzazione e riflessione.
Anche se la fruizione televisiva non può sostituirsi al gioco nel creare le condizioni favorevoli per uno sviluppo
armonico delle personalità, non appare legittimo, né dal punto di vista teorico né sul piano storico, sostenere che
essa conduca automaticamente a stati di deprivazione culturale. Un simile esito potrebbe forse verificarsi se i
giovanissimi telespettatori fossero lasciati soli, privi di strumenti di analisi e di critica davanti ad una totalizzante
immersione nella fruizione televisiva: ma del resto, questo avrebbe buone probabilità di accadere se ricevessero
un'analoga esposizione ad un qualsiasi altro mezzo di comunicazione e trasmissione culturale.
Nel caso della televisione, ciò che rende particolarmente necessaria una dotazione di strumenti di decodifica e di
analisi, risiede nell'apparente - e solo apparente - immediatezza di lettura e di comprensione dei messaggi da essa
veicolati: ogni segmento televisivo, infatti, contiene numerosi dati culturali espliciti ed impliciti che andrebbero
individuati svelati, e ricostruiti. Ogni immagine teletrasmessa si presta, poi, a molteplici' letture ed interpretazioni.
Non tener conto di questa complessità significherebbe, oltretutto, negare la varietà e la dinamicità di quel coacervo
di differenze individuali costituito dal pubblico televisivo: pericolose semplificazioni definiscono gli spettatori "passivi
recettori", attribuendo loro standard di gusti e di preferenze che in realtà si rivelano, sin dalla primissima infanzia,
distribuiti con andamenti estremamente variabili Sul piano dell'analisi culturale, ljmitarsi ad una simile definizione
omologante e standardizzante equivarrebbe a trascurare l'esistenza e la circolazione delle svariate letture ironiche dei
luoghi comuni televisivi ampiamente prodotte dalla cultura familiare e dai gruppi informali. Tali pungent' parodie, non
prive di accenti di ribellione, veicolate nei discorsi quotidiani di larghi strati della popolazione possono anche essere
almeno in parte condivise ed apprezzate dagli stessi giovani telespettatori che tendiamo ad immaginare sempre e
univocamente stolidi e succubi fruitori del teleschermo.
Dal punto di vista politico, ritengo che anche l'identificazione diretta tra produzione mediatica, e televisiva in
particolare, e produzione di deologie intese come sistemi di valori - vada problematizzata. Se ogni trasmissione
televisiva che si tratti di film, telefilm, pubblicità o spetaccolo di intrattenimento può essere giustamente considerata
come vettore di ideologia, negli ultimi due decenni il modello di televisione "pedagogica" veicolante contenuti
specifici, unilaterali e prossimi alla propaganda politica è stato quasi interamente soppiantato da "un unico flusso
irresponsabile di immagini e sensazioni" (Bruno M. W., 1994, p. 19). Secondo questa interpretazione, i messaggi
calibrati da un"'emittente grande fratello" sarebbero scomparsi in favore di "testi che la audience attivamente
decodifica secondo i propri codici e sottocodici antropologico-culturali" (Bruno M. W., 1994, p. 35).
Interrogandoci su questo tema, scopriamo ulteriori complessità: se la televisione come emanazione di un Grande
Fratello ha ceduto il passo- ad un flusso televisivo che contiene "testi" e frammenti variegati e contraddittori, non mi
sembra tuttavia che il demiurgo ipotizzato da George Orwell abbia totalmente rinunciato alla sua azione persuasiva:
in una sola giornata del settembre 1998, ad esempio, troviamo nel palinsesto delle reti nazionali due sceneggiati
televisivi che pur rappresentando una società nella quale i rapporti tra i sessi hanno assunto nuove e più liberali
connotazioni, non demordono nel trasmettere un'immagine della maternità biologica come valore fondante da
preservare ad ogni costo, prescindendo dall'età, dalla condizione, dalla volontà stessa della donna. Tuttavia, il fatto
stesso che simili momenti di televisione "a messaggio" affiorino episodicamente all'interno di un flusso molteplice ed
indistinto, probabilmente ne ridimensiona la forza inculturatiuva.
Non dobbiamo infine dimenticare che ogni telespettatore, dal più giovane al più anziano, dal più disincantato al più
appassionato fruitore di stucchevoli serial televisivi conserva, seppur a livelli cognitivi e percettivi diversi, una certa
consapevolezza di trovarsi di fronte a materiali culturali che gli giungono attraverso il filtro della spettacolarizzazione.
Nell'analisi antropologica della televisione considerata mezzo di trasmissione culturale, il problema della recezione
si rivela centrale. Se la ricerca sui linguaggi e sui contenuti veicolati dalla televisione appare fruttuosa e ricca di spunti
per la riflessione e l'azione educativa, appare a mio parere sempre più necessario concentrare la nostra attenzione di
studiosi, insegnanti, genitori e cittadini sulle modalità di recezione, elaborazione ed interpretazione del pubblico
televisivo ed in particolare di quello infantile. Soltanto attraverso l'apertura di campi d'indagine empirica, che sul
piano educativo possono essere pensati come laboratori di ricerca-azione, potremo infatti precisare, comprovare o
smentire le ipotesi formulate.