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Primo classificato sezione Minor
COME RIVIVERE IN SEI (QUASI) SEMPLICI MARI
“Caro Filippo,
sono sempre io, ormai lo sai che te le scrivo solo io, le lettere. Sono Giovanni.
Quando mi hanno detto che avrei dovuto scrivere una lettera per salutarti me ne sono andato, li ho
lasciati davvero tutti lì e sono andato via. Non capivo come loro potessero essere tristi e piangere e
disperarsi e chiedermi pure di scriverti una lettera strappalacrime da leggere al tuo addio.
Io non ero disperato come loro, io ero arrabbiato, terribilmente arrabbiato con te. Mi hai lasciato da
solo a combattere guerre che non erano più solo mie o solo tue, ma erano e sono sempre state
‘nostre’.
Ho passato mesi a cercare di trovarti una giustificazione ma la verità dura da accettare è che un
perché non c’è. E non mi va di sentire le prediche di quelli lì, quelli che si disperano; loro ti
giustificano, loro si colpevolizzano, loro dicono ‘Magari ce ne fossimo accorti prima e lo avessimo
salvato’. No, Filippo, non si fa così, non si lasciano le persone a chiedersi cosa avrebbero potuto
fare, se avessero potuto cambiare qualcosa, se avessero potuto tenerti qua di più.
Io, quando ho visto quel lenzuolo bianco steso sopra di te, avrei voluto solo urlarti contro, svegliarti
e dirti che sei proprio un idiota. Ti avrei detto che io non ti avrei mai fatto quello che tu hai fatto a
me. Tu sei stato egoista e cattivo, e non mi interessa la storiella della tristezza, la paura di non
farcela o il tunnel nero senza uscita.
Io non mi chiedo se avrei potuto fare di più, io so di aver fatto di più.
Se tornassi indietro non cambierei nulla, perché sono consapevole di aver fatto più
dell’umanamente possibile, so di aver superato qualsiasi blocco interiore o mio limite mentale per
aiutarti.
E se ti avessi qua ti picchierei forte, Filippo, perché non c’è nulla di poetico in un abbandono come
il tuo, in una lettera di addio prima di un tuffo nel vuoto. L’ho strappato, quel foglio, l’ho strappato
e l’ho bruciato con l’accendino azzurro che mi avevi regalato tu, quello dove avevi scritto la nostra
frase, ‘Come in un sogno’. Che senso ha scrivere una lettera d’addio? Con che coraggio hai osato
lasciare me, il tuo compagno di qualsiasi cosa da una vita, il fratello gemello che non avevi avuto,
l’altra metà di una simbiosi? Con che coraggio hai scritto solo ‘Scusami, Giovanni’? Sapevi che non
avrei mai capito né accettato la tua scelta, eppure l’hai fatto.
Come quella volta che ti avevo detto di seguirmi, di non fare di testa tua, di non svoltare a
quell’angolo. Nemmeno quella volta mi avevi ascoltato; infatti, ti sei fatto quella cicatrice che non è
mai più andata via. E cosa mi avevi giurato? ‘Mai più’. MAI PIU’, FILIPPO, MAI PIU’. E le
promesse si mantengono, non si abbandonano le persone così.
Sapevi che uccidendo te stesso avresti ucciso anche una parte di me, perché noi due non eravamo
più solo io e te, eravamo qualcos’altro, una cosa più grande. Un legame quasi di sangue.
Siamo sempre stati ‘opposto e completamento’, come diceva Herman Hesse in ‘Narciso e
Boccadoro’, quel libro che a te era piaciuto da impazzire e che io avevo sopportato di leggere per
tre capitoli e poi avevo abbandonato.
Sempre diversi e complementari, io e te, ma con un punto di partenza uguale.
Tu biondo, occhi azzurro-grigi come il cielo prima di una tempesta estiva con una traccia di buio
che non sembrava sparire mai; io castano, occhi color nocciola con fili dorati di luce solare. La vita,
però, splendeva in entrambi.
Le tue mani rovinate dalle paure, le mie ostentanti sicurezza. Di base, i sentimenti che nessuno
capiva, tranne noi due a vicenda.
I tuoi silenzi interminabili colmati dalle mie parole sputate a gran velocità, prima di ripiombare e
sparire nel mio mondo in cui solo tu, raramente, potevi entrare. Ad entrambi, la convinzione che
solo le parole scritte su un foglio in gran segreto avessero il valore della verità.
La tua famiglia fatta di presenze fisiche ma non affettive, due militari e un nemico al posto di
genitori e fratello, la mia molto disordinata, disorganizzata, poco pratica e presente ma piena
d’amore. In comune, l’inevitabile vuoto lasciato da ciò che mancava.
Tu e la tua tristezza perenne che ti lasciava il buio dentro, io e le mie inevitabili delusioni continue,
dovute al mio rincorrere sogni ed idee che prontamente sfumano.
Da una parte la musica fatta solo di rumori, dall’altra canzoni fatte solo di parole come vecchie
poesie. Al centro, il bisogno di salvezza e il pensiero illogico che due cuffiette possano darla.
E poi, il sogno di andare a Milano insieme, vivere nella città dei sogni, delle speranze e delle
aspettative per il futuro. La tua voglia di cominciare a vivere sul serio, solo lì, e la mia di trovare
finalmente una vita ‘giusta’, fatta per me.
Il liceo classico, realizzazione dei tuoi sogni e mezzo per me di arrivare alla meta finale. Il tuo odio
verso il latino contrastato dall’amore che provo io verso quei vecchi morti lì che mi hanno saputo
insegnare tanto.
Il fascino e la paura provati nei confronti della morte.
La gelosia assente e troppo presente.
Insomma, eravamo stabilità e instabilità. Un equilibrio, appunto.
E adesso non resta nulla dei piatti che appoggiavi nel lavandino ma non lavavi mai, dei caffè che
preparavi ma non versavi mai nelle tazze ferme in attesa, nulla di tutto quello che iniziavi e non
finivi mai, bloccato dalle tue ansie irrazionali. Mi restano solo ricordi della tua paura dei punti a
fine frase, delle ultime pagine dei libri, degli ultimi giorni di vacanza, degli ultimi minuti di
un’uscita: ricordi del tuo timore verso tutto ciò che era ‘ultimo’ e del vuoto che lasciava.
Ma non hai pensato che io non avrei voluto partecipare al tuo ‘ultimo’ saluto? E del vuoto che ci
sarebbe stato dopo? È vero che io non sono mai stato come te, ma da quel giorno è cambiato tutto,
anche perché io ho dovuto essere sia me che te, da lì in poi. Adesso penso a te e ai giorni, mesi, anni
che mi scorreranno davanti senza nemmeno un fotogramma in cui sarai presente e vedo il vuoto
totale, guardo dentro di me e sento le vertigini come se mi affacciassi in un pozzo che sembra non
finire mai, osservo per l’ennesima volta le nostre foto e mi sembra di capire cosa provano quei cani
abbandonati in autostrada proprio dal padrone che li ha coccolati fino a qualche ora prima.
Mi si appannano gli occhi e il cuore mi piomba in gola.
Sono qui dove dovresti esserci anche tu e riesco a parlare con te dopo che è passato un anno da quel
maledetto giorno, dalle lacrime di tua madre, dai fiori alla porta di casa tua, dal lenzuolo bianco
sopra di te. Nessuno di quelli che piangevano per te ha pensato che tu avresti voluto un lenzuolo
nero, ti sarebbe piaciuto molto di più, ‘Avrei avuto più stile’ mi sembrava di sentirti dire.
Nessuno di loro ci ha pensato, eppure erano tutti lì a piangere e a blaterare qualcosa su quanto ti
volessero bene. Li odiavi tutti, Filippo. Mi è venuto da ridere a vederli in quella che sembrava una
rappresentazione teatrale più che una scena di straordinaria tragicità reale.
Hanno pianto tutti. Io no.
Io ho vagato per giorni, non ho dormito, non sono nemmeno tornato a casa.
Con i soldi che stavamo mettendo da parte per Milano ho pensato di farti il regalo più grande. Ho
fatto un viaggio per farti rivivere, o vivere ancora un po’. Come ti dicevo, ho lasciato senza saluti
troppo gentili quelli che mi chiedevano di scrivere una lettera da leggere al tuo funerale e sono
partito.
Non ho avuto bisogno di tanto tempo per pensarci, sapevo già dove andare.
L’unica cosa che mi sono chiesto è stata: cosa amava Filippo più di ogni altra cosa, più del nero e
del buio, più della sua musica piena di rumori, più di dormire, più dei romanzi di quella scrittrice
femminista? IL MARE, solo quello.
Quindi ho pensato che il modo migliore di farti rivivere e di far sì che la tua ‘essenza’, la parte che
non volevo perdere di te, diventasse parte di me e potessi portarti ovunque fosse andare nei posti
‘dove succedono le cose’, come li definisce il tuo libro preferito. Andare in sei mari diversi, reali o
metaforici.
Ho comprato una macchina fotografica usa-e-getta e sono partito.
UN MARE REALE
La mia prima meta è stata l’Isola d’Elba, il posto dove abbiamo passato una delle settimane più
belle delle nostre vite, dove ci siamo sentiti vivi per davvero, dove il mondo sembrava nostro, dove
ci siamo sentiti parte di qualcosa.
Appena arrivato in quel piccolo paesino, mi sono precipitato alla nostra spiaggia ‘di sabbia
zoomata’, quella del primo giorno, dei bagni gelidi, delle conversazioni notturne, delle lacrime,
delle risate, della mancanza, del gruppo, del ‘si riparte da qui’.
Mi è parso di rivivere ogni singolo momento della nostra avventura, dalla fatica alla rivolta fai-da-te
contro gli accompagnatori, dalla gita in canoa alla corsa notturna lungo quel vialetto, dai piatti da
lavare agli abitanti intervistati.
Mi sono seduto su quella roccia, proprio quella lì. La roccia dove ci siamo seduti in quella
domenica pomeriggio dopo la pioggia. La roccia da cui abbiamo guardato il mare che sembrava non
finire più e abbiamo deciso che potevamo dire di stare come quel cielo grigio che era stanco di
lacrimare e aspettava solo un’ondata di sole; e come il mare riflette il colore del cielo, il tuo umore
rifletteva il mio: aspettavo un’ondata di sole per illuminare anche te e creare quello spettacolo che
solo chi vede può tentare di descrivere.
E in quel momento mi è tornata in mente un’espressione che avevamo trovato insieme nel
vocabolario di latino, ‘maria omnia caelomiscere’, ‘sconvolgere tutto il mare confondendolo con il
cielo’: così eravamo noi, una gran confusione tra mare e cielo, a tratti impossibili da distinguere
individualmente.
Su quella spiaggia ho rivisto tutte le emozioni che avevamo provato. L’euforia dell’arrivo, del
nostro appartamento condiviso con gli amici migliori che il cielo potesse affidarci. Lo stupore nel
guardare quel panorama che faceva pensare che il paradiso fosse esattamente così. La tristezza per
le canzoni che ci ricordavano le nostre mancanze, quel ‘Come home, becauseI’vebeenwaiting for
you so long’ (‘Torna a casa perché ti ho aspettato per così tanto tempo’) cantata in coro con le
lacrime in una notte di luna piena. Il senso di appartenenza durante le conversazioni notturne.
L’amore per il rischio di alcune avventure. La gioia delle risate, delle battute fatte con leggerezza.
La spensieratezza di quei giorni stupendi.
Sai, dopo un po’ di tempo passato a osservare il mare, mi sembrava di averti ancora vicino e, per
quanto possa sembrare insensato, ho cominciato a parlarti. Ho detto tutto quello che non avevo
avuto mai il coraggio di dirti, ti ho raccontato i miei progetti, ti ho parlato dei miei dubbi sull’andare
avanti da quel punto in poi.
Ho cantato di nuovo ‘Come home’, ma questa volta da solo e per te. Più che altro ho urlato quelle
parole contro il cielo, sperando che arrivassero fino a te.
‘Everything I can’t be is everything you should be and that’s why I need you here.’ (‘Tutto quello
che io non posso essere è tutto ciò che tu dovresti essere ed è per questo che ho bisogno di te qui’)
Mi hai sentito?
Io sì, io ti ho sentito, tu eri lì per davvero e per un momento sei tornato a vivere, eri vicino a me, ne
sono convinto, nell’inizio del mio viaggio ha cominciato a realizzarsi il mio obiettivo.
Intorno a me c’era solo silenzio, pace, equilibrio, contrastati dall’urlo che avevo dentro, dal nodo
allo stomaco procuratomi dai ricordi, dalle lacrime ferme nel cuore che non sapevano scendere dai
miei occhi.
Dopo un pomeriggio passato in quella spiaggia, ho avuto il tempo di girare per il paese quasi
deserto. Mi sono fermato in tutti i luoghi-simbolo, ho osservato ancora i posti dove ci eravamo
fermati per farci una fotografia. Ho compreso solo in quel momento che nella vita mi potrà accadere
di tutto, ma nulla sarà come quello che avevamo noi. Non sarà migliore o peggiore, sarà diverso.
Perché come il vuoto lasciato da un triangolo non può essere riempito da un quadrato, nessuno può
colmare pienamente la tua assenza. E ho cominciato a chiedermi come tu possa aver veramente
deciso di farmi questo, come tu, dopo tutte le promesse, abbia potuto permettere che io mi trovassi
lì a dividere il mio sguardo tra le foto dove eri con me e quel posto dove mi trovavo solo a
combattere una guerra persa in partenza. Ecco perché io non potevo piangere come quelle persone
davanti al tuo corpo. Ecco perché ero arrabbiato con te.
Ho tirato fuori la fotocamera comprata prima di partire e ho scattato una foto a quel deserto, al mio
vuoto che traspariva da ogni dettaglio, per non dimenticarmene mai.
UN MARE DI LUCI
In seguito a quelle riflessioni che mi facevano solo del male, ho deciso di andarmene dall’Elba, di
tornare in penisola.
La mia seconda tappa è stata Ferrara, meta di alcune gite con la mia e la tua famiglia.
Il ricordo più bello è di quando avevamo quattordici anni, di quel pomeriggio che ricordo come
fosse appena passato.
Eravamo liberi di girare in quel paesino di provincia che stavamo visitando e sei sparito
all’improvviso per tornare poi mezz’ora dopo a riprendermi. Ricordo come mi hai trascinato per il
braccio e mi hai costretto a correre su per una collinetta, tu che non correvi mai.
Ricordo le mie proteste, i miei ‘Filippo dove stiamo andando?’, ‘Quando si arriva?’, ‘Cosa devi
mostrarmi di così speciale da farmi morire correndo?’. Rivedo impressi nitidamente nella mia
mente i tuoi occhi di quando ti sei girato per dirmi di fare silenzio: era la prima volta da quando ci
conoscevamo, la prima volta in una vita intera quindi (per quanto intera possa essere una vita a
quattordici anni),in cui potevo scorgerci dentro una luce, un brillare stupito. Da quel momento
ricordo di non aver parlato né essermi lamentato più, concentrato nell’analizzarti, nel capire cosa
fosse successo all’amico buio con cui stavo tutti i giorni da circa tredici anni. Non ho parlato più,
obbedivo, ti seguivo e basta, tutto pur di vederti felice come gli altri, anche solo per qualche minuto.
Arrivati in cima alla collina, mi sono guardato intorno: nulla, se non un capannone che sembrava
abbandonato.
Hai aspettato qualche minuto e poi hai cominciato a parlare.
‘Appena dopo il tramonto, il capannone della centrale elettrica brilla e abbaglia, ci sono scoppi di
luci tremende e stupende allo stesso tempo. Aspetta due minuti, fissa quel punto e dimmi se non ti
sembra incredibile. È la cosa più spettacolare che io abbia mai visto. Pensa a quando abiteremo a
Milano, Giovanni. Pensa quante centrali ci sono là intorno e quante luci e quanti scoppi potremo
vedere. Guarda queste luci e imprimiti quest’immagine bene in testa, sarà la nostra piccola periferia
di Milano per adesso, in questi anni di attesa. Non ti fa venire voglia di vivere tutto questo?’
Non ti fermavi più, Filippo, sembravi una di quelle macchinette spara-palline che usano i tennisti
per allenarsi, solo che tu mi sparavi addosso sollievo e gioia, senso di leggerezza e libertà. Io tacevo
e ti osservavo. Per una volta i ruoli erano invertiti.
‘Sento una gioia… sconsiderata’ hai detto.
‘Sconsiderata?’
‘Sì, sconsiderata. So che sembra un aggettivo che poco c’entra con il contesto, una combinazione un
po’ azzardata, ma questo è quello che sento. Questo è ciò che voglio che significhi. Sento qualcosa
che mi percorre dentro, che sale e che scende e non può essere definito, razionalizzato.
Sconsiderata, senza considerazioni che la seguono, niente riflessioni, solo un’emozione.
Giovanni, possiamo essere noi quelle luci, possono essere i nostri sogni, possiamo brillare e
qualcuno può guardarci e meravigliarsi di ciò che vede. Giovanni, possiamo essere incredibili anche
noi, se lo vogliamo.’
Dopo il tuo discorso, siamo rimasti in silenzio a osservare le nostre vite adulte ancora lontane che
scoppiavano davanti ai nostri occhi.
Credo di aver compreso il senso del tuo discorso solo quando sono tornato su quella collina, appena
tornato sulla penisola.
Erano passati poco meno di quattro anni da quel giorno e solo in quel momento afferravo tutta la
straordinarietà di quell’evento unico. Forse per l’unica volta nella vita avevi trovato il coraggio di
sputare così tante parole, di sopraffare anche me, di guidarmi e darmi speranza. Erano cose che non
ti appartenevano, non era il tuo carattere. Era la palese dimostrazione che avevi assorbito qualcosa
da me e io avevo fatto lo stesso, tacendo e osservando come non avevo fatto mai.
E tornando sulla collina, risiedendomi sulla stessa erba, riosservando lo stesso religioso silenzio e lo
stesso panorama, sono stato di nuovo te per un po’. Era il mio concetto di ‘farti rivivere’. Forse era
anche il mio modo di fare quello che psicologi definirebbero come ‘elaborazione di un lutto’,
‘distacco’, ‘accettazione dell’abbandono’.
Ho aspettato ancora una volta il tramonto, ho fotografato la centrale elettrica e me ne sono andato
per raggiungere il terzo mare insieme a te.
UN MARE DI EMOZIONI
Bologna, locale ‘Estragon’, concerto de ‘Le luci della centrale elettrica’.
La scelta di questa tappa è stata un po’ egoistica, essendo la mia e non la tua band preferita. Ma le
loro canzoni mi ricordano sempre di noi, di come eravamo, del mondo che volevamo cambiare.
Te ne scrivo adesso ma non sai quanto avrei voluto averti lì a condividere quell’esperienza con me.
Ho sentito una sensazione strana, come se il nodo allo stomaco che avevo da mesi, forse anni, si
sciogliesse all’improvviso con quelle frasi urlate.
Ho sempre ammirato Vasco Brondi, il cantante/paroliere/autore del gruppo, perché le emozioni che
descrive sembrano essere proprio le mie e a volte mi fa sentire come se mi avesse scassinato il
cuore per tirarne fuori i pensieri più segreti per adattarli a delle note e cantarli.
In ogni caso, il concerto è stato incredibile, sono riuscito a vivere cose che non avrei neanche mai
potuto immaginare e che ora non so descriverti a parole. Ho abbracciato Vasco che è sceso dal
palco per cantare in mezzo a noi e ho stretto a me una sconosciuta che mi era accanto e stava
piangendo, come se essere lì, in quello stesso posto con le stesse emozioni, comportasse un legame
inequivocabile.
Solo che avrei voluto ci fossi tu, avrei voluto girarmi e guardarti negli occhi mentre lui cantava ‘Mi
dicevi pensa a quando sulla superficie terrestre resteranno solo sacchetti svolazzanti e libri
fotografici. Se solo anche tu fossi stata di plastica o di un altro materiale stabile, non degradabile.’
Filippo, io non ti avrei abbandonato mai.
Sei rivissuto quando è scoppiato un ‘E sempre, come un amuleto, tengo i tuoi occhi nella tasca
interna del giubbotto’. Sei rivissuto in quell’istante, con quella frase che ci rappresentava e che
continua a rappresentare me, che tengo il ricordo della luce nei tuoi occhi nascosta solo per me,
come un amuleto.
Ho immortalato quell’insieme di note, luci, emozioni, cose reali contrapposte a sensazioni
impalpabili e mi sono lasciato trasportare dalle parole fino alla fine della serata, fino a quel ‘Farò
rifare l’asfalto per quando tornerai’ che mi ha fatto tanto emozionare.
Perché è cosi. Se ci fosse anche una sola possibilità di riaverti qui, io farei rifare l’asfalto, metafora
per indicare il ritorno, il mondo intero. Rigirerei tutto quanto, farei un pianeta a tua misura, come
piace a te, farei tutto per impedire anche a me stesso di morire un po’.
UN MARE DI PAROLE
Dopo quella serata a dir poco meravigliosa, sono tornato nella nostra città però ho continuato a
girare ‘in incognito’, senza avvisare nessuno del mio ritorno.
Il nostro viaggio era solo a metà.
Ho raggiunto il nostro piccolo ‘laboratorio’, quel garage vicino a casa che ci avevano affidato i
nostri genitori perché avessimo uno spazio nostro per trovarci, studiare, fantasticare. Il luogo che ci
avevano deputato per crearci il nostro angolo di mondo esattamente come lo volevamo noi, senza
l’influenza di nessun altro.
Entrato lì, sono andato verso l’armadio in fondo alla stanza e sapevo che avrei subito trovato quello
che cercavo.
Le bombolette spray di vernice colorata che avevamo ordinato per decorare il posto erano
depositate lì da mesi. Chissà perché non avevamo mai trovato il tempo di imbrattare tutti i muri per
davvero.
Un giorno tu mi avevi parlato del tuo sogno di scrivere sulle pareti le tue frasi preferite e sapevi che
ti avrei appoggiato, conoscendo il nostro amore comune per il significato profondo delle parole.
Con il verde ho scritto sul primo muro una poesia che mi avevi fatto leggere tempo prima, una
poesia a cui purtroppo avevo dato troppo poco peso. Era di un anonimo, era stata scritta nella
primavera del 2000. Il titolo sembrava quindi un oscuro presagio, ‘Suicidio’.
Diceva questo:
‘Se avessi saputo
Che volevi andar via
Senza un saluto
Avrei costruito
Una rete di stelle
E cuscini
Di nuvole bianche
Per fermare
Il tuo volo’
Sapevo che scrivere una poesia del genere sarebbe stato in contraddizione con la mia rabbia e la mia
convinzione di aver fatto abbastanza, ma nemmeno io ero più troppo sicuro e inoltre immaginavo
che l’addio che desideravi tu fosse così, un po’ poetico e romantico, anche se di poetico e romantico
nel tuo gesto non c’era assolutamente niente.
Ho fotografato la mia verde opera e sono passato al muro successivo
Il secondo l’ho riempito di una scritta in rosso.
Una frase di una canzone, ‘Niente paura’ di Ligabue. La canzone che ogni tanto attaccavo
all’improvviso e che ti ho fatto ascoltare fino allo sfinimento.
‘E anche le stelle cadono, alcune sia fuori che dentro’.
Foto.
Nulla da aggiungere.
La terza parete è stata occupata da una frase blu, che serve a rassicurarmi ogni volta che la leggo più
che a commemorarti.
‘Nothinglastsforever, evencoldNovemberrain’ dicevano i Guns ‘N’ Roses, ‘Nulla dura per sempre,
nemmeno la fredda pioggia di novembre’.
Mi dà il coraggio che serve per continuare a sperare.
Prima di procedere all’ultimo muro da imbrattare, ho scattato una foto e ho ripreso fiato.
Quarta parete. ‘Vivi.’ Null’altro, solo questo monito.
In questo, volevo continuare ad essere il tuo opposto.
Tu avevi deciso di morire e io, da quel giorno, tutte le mattine decido di vivere, e di vivere anche
per te. Ho avuto la sfortuna di perderti ma da questa è derivata l’occasione di poter vivere due vite
in una: non tutti i mali vengono per nuocere, per chi vede positivo.
Ho immortalato questa sentenza che ha il sapore di una decisione.
Per un attimo mi è parso di vederti seduto al tavolino, intento a leggere, come ti trovavo quasi tutti i
pomeriggi quando arrivavo lì. È stata una bella illusione, ho sorriso come rassicurato.
Me ne sono andato subito dopo, non potevo fermarmi a guardarmi intorno ancora, non sarei riuscito
ad affrontare tutto quello che avevi lasciato in quel momento. Non avrei potuto soffermarmi a
riguardare i tuoi libri, i fogli pieni di parole scarabocchiate, il nostro disordine comune, i ricordi dei
viaggi fatti insieme, lo spettro delle giornate passate là dentro.
UN MARE DI SIGNIFICATO
Un tatuaggio era stato sempre nei nostri pensieri, avevamo sempre pensato di farcene uno uguale
che avesse un valore simbolico.
In realtà, non avevamo mai trasformato idee e parole in fatti concreti, non avevamo nemmeno scelto
un tatuaggio preciso.
Ci erano piaciuti tanti simboli e tante frasi ma nulla di fatto.
Appena entrato nello studio del tatuatore, però, sapevo già cosa avrei impresso sulla mia pelle.
‘Ovunque ti possa portare’.
Una frase che racchiude il senso del mio viaggio, il mio desiderio di farti vivere ancora e di portarti
con me in ogni momento.
Non so come mi sia venuta in mente all’improvviso, so che mi è da subito sembrata perfetta.
Quando ho visto l’ago del tatuatore, mi è partita la paura. Sai che ho paura degli aghi.
Ti ho immaginato lì vicino a darmi coraggio come quella volta che hai dovuto accompagnarmi a
fare il prelievo del sangue, per quanto fosse sembrato infantile.
Non ci crederai, ma mi è tornato il coraggio.
È stato soddisfacente, direi.
Ho scattato una fotografia anche al tatuaggio e sono tornato a casa, per la prima volta dopo il giorno
della tua morte.
Erano tutti un po’ in apprensione, la mia e la tua famiglia, ma nessuno se l’è presa più di tanto
perché tutti sapevano che non potevano comprendere a fondo il mio dolore.
UN MARE DI CORAGGIO
Per affrontare l’ultimo mare mi ci è voluto molto più tempo, dal giorno del mio ritorno a casa ad
oggi, anniversario del maledetto giorno della tua partenza.
È stato un lungo percorso, più psicologico che fisico.
È stata l’elaborazione, più che l’accettazione, di ciò che era capitato per riuscire ad arrivare dove
sono in questo esatto momento, a trovarti sulla tua tomba.
Non saprei parlartene, non saprei spiegarti cos’ho fatto e come sono giunto fin qui ma posso dirti
che alla fine ce l’ho fatta. Anche per dimostrarti che alla fine, ce la si fa sempre.
Sono qui e da qui partirò.
Sono qui e per la prima volta riesco ad abbandonarmi al pianto, per la prima volta in un anno riesco
a liberare quel nodo di lacrime che stava fermo nella mia gola impedendomi di respirare fino in
fondo.
Capiscimi, ho deciso di vivere per davvero, visto che lo devo fare anche per te.
Ti porterò ovunque, come ti ho promesso, ma non so se la rabbia svanirà mai. Porto ancora tanto
rancore verso di te, Filippo, e me ne dispiace perché sei l’ultima persona verso cui lo vorrei provare
ma è più forte di me.
È difficile avere a che fare con una morte come la tua. Il problema è imparare a gestire il fatto che
tu non ci sia più e che sia colpa tua. Come diceva il migliore amico di Kurt Cobain, ‘Il suicidio è
una cosa dura da mandare giù: qualcuno è stato ucciso, e l’assassino è lui stesso. Ami la vittima e
odi l’assassino, ma sono la stessa persona.’
Quindi spero che capirai la mia difficoltà.
Spero che tu leggerai tutto questo, spero che queste parole in qualche modo ti arrivino.
Tutto quello che voglio dirti è che il mio cuore è lì, Filippo.
Il mio cuore è lassù, tra le nuvole, perché io credo che tu sia là, anzi ne sono sicuro.
Ti vedo nella pioggia dei giorni corsi, nella neve che ricopre i tetti. Tu eri così, eri come la neve:
freddo ma spettacolare.
E, in qualche modo, vedere questa neve mi ricorda che tu mi circondi sempre e mi aiuta a non
sentirmi solo.
Ti immagino sprofondare nell’azzurro del cielo, nel ‘blu oltremare delle nostre anime assiderate’.
Sono arrivato fin qui per dirti tutto questo e per consegnarti queste otto foto che rappresentano la
tua nuova vita che ricomincia da qui, ricomincia da me.
Tu non abbandonarmi mai.”
Ottavia Casagrande