Tintoretto e il ritratto di Luigi Groto, detto il Cieco d`Adria
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Tintoretto e il ritratto di Luigi Groto, detto il Cieco d`Adria
Tintoretto e il ritratto di Luigi Groto, detto il Cieco d’Adria Diane H. Bodart N i el Municipio di Adria è conservato un ritratto attribuito a Jacopo Tintoretto (1518–1594) che rappresenta Luigi Groto detto il Cieco d’Adria (1541–1585), illustre letterato dell’antica città del Polesine (Fig. 1).1 Il dipinto ha destato l’interesse della critica non tanto per la sua fattura, invero così modesta da indurre a catalogarlo tra le opere di bottega,2 quanto per l’esplicita raffigurazione della cecità del poeta.3 Questo tributo pagato alla somiglianza fisionomica appare infatti alquanto singolare nell’epoca in cui imperava l’exemplum di Apelle e Antigono: per non tradire le regole dell’arte, ossia la ricerca della perfezione dell’idea tramite l’imitazione della natura, gli orbi andavano dipinti di profilo e, più generalmente, i 1. Vedi Francesco Bocchi, Luigi Groto (Il Cieco d’Adria). Il suo tempo, la sua vita e le sue opere, Adria 1886; Luigi Groto e il suo tempo, Atti del convegno di studio (Adria, 27–29 aprile 1984), a cura di Giorgio Brunello e Antonio Lodo, Rovigo 1987; Valentina Gallo, “Groto (Grotto), Luigi”, Dizionario biografico degli italiani, LX, Roma 2003, pp. 21–24; Le “Famigliari” del Cieco d’Adria, a cura di Marco De Poli et al., intr. Mario Nanni, Treviso 2007. Sulle relazioni tra Luigi Groto e l’ambiente artistico ed editoriale veneziano, tramite la mediazione di Gasparina Pittoni, si veda ultimamente Lucia Collavo, “I rugginosi segni della luna. Fonti e documenti per la ricostruzione della vita e dell’attività artistica di Gasparina Pittoni, e dei suoi rapporti con Luigi Groto, il Cieco d’Adria”, Studi Veneziani, n.s. LVI, 2008, pp. 321–359, documentato saggio di cui non avevo conoscenza al momento della redazione del presente testo, che partendo da una prospettiva diversa offre sui ritratti del poeta cieco osservazioni sostanzialmente complementari rispetto a quelle esposte in queste pagine. 2. Pierluigi De Vecchi, L’opera completa del Tintoretto, Milano 1970, p. 124, n. 250; Paola Rossi, Tintoretto. I ritratti, Milano 1974, p. 105, n. A1. 3. Florence Chantoury-Lacombe, Peindre les maux: Arts visuels et pathologie XIVe – XVIIe siècle, Parigi 2010, pp. 49–53. 401 diane h. bodart tintoretto e il ritratto di luigi groto, detto il cieco d’adria difetti fisici dissimulati nei ritratti.4 La scelta di Tintoretto di girare di tre quarti il volto, mostrando in piena luce gli occhi spenti del Groto, viene giustificata dall’iscrizione apposta sul libro che l’effigiato rivolge con la mano destra verso lo spettatore: “multum animo vidit, lumine captus erat”: vide molto con lo spirito, quantunque privo della luce degli occhi. La chiaroveggenza dell’anima acuita dall’assenza della vista richiama l’archetipo stesso del poeta per eccellenza cieco: Omero. Un altro aspetto del corredo testuale riferito al quadro di Adria ha suscitato attenzione: una lettera del Groto a Tintoretto del 27 luglio 1582, in cui il pittore viene lodato e ringraziato per il ritratto appena eseguito.5 Questo elogio paradossale di un dipinto che l’autore mai poté vedere, condensa vari topoi poetici e letterari sui ritratti, specie sul tema della rivalità tra arte e natura. “Natura potentior ars” recitava l’impresa di Tiziano inventata da Ludovico Dolce ed inclusa nella raccolta di imprese incisa da Battista Pittoni6 – entrambi amici del Groto ugualmente coinvolto nell’opera editoriale – e su questo argomento Pietro Aretino aveva imbastito l’intero repertorio di formule laudatorie in onore della pittura del compare Vecellio. Proprio al sodalizio tra l’Aretino e Tiziano, quale irraggiungibile esempio, si riferisce il Groto nella sua lettera a Tintoretto. Ecco allora il suo ritratto diventare un secondo parto miglior di quel di natura: il “pennello glorioso” del Robusti lo innalza al livello delle “persone ammirate nel mondo”, suoi abituali modelli; gli dà vita fuori da ogni necessità materiale con una “faccia artificiosa” piacevole da vedere anche da “colei che schiva di mirar la faccia vera”; gli offre il dono di ubiquità tramite le riproduzioni incisorie del dipinto che serviranno di frontespizio ai suoi libri; gli consentirà infine di “viver più lungamente” proprio in virtù della somiglianza perfetta tra modello e ritratto che confonderà la Parca nel momento fatale di “troncare il filo della mia vita”. Infausto auspicio quest’ultimo, se solo tre anni dopo morì prematuramente l’autore… Sull’esistenza di questa lettera si è fondata l’attribuzione del ritratto di Luigi Groto fin dalla sua donazione al Municipio di Adria, sullo scorcio tra Sette e Ottocento, da parte dei fratelli Bocchi,7 membri di quella nobile famiglia distintasi nel collezionare memorie e antichità locali, legata inoltre ai discendenti di casa Groto.8 L’autografia incerta dell’opera, seppur di chiaro stampo tintorettiano, solleva tuttavia alcuni legittimi dubbi sulla stretta corrispondenza con il quadro menzionato nell’epistola. A tale proposito, la raccolta delle Lettere famigliari del Groto, edita postuma nel 1606, offre ulteriori precisioni sulla vicenda. Il 27 luglio 1582, quando scriveva a Tintoretto, il letterato non era più in possesso del suo ritratto e pregava l’artista di rimandarglielo “poiché dalla signora Gasparina lo havrà rihavuto e fornito”. Gasparina, detta Pittonia (ca. 1540–post 1594), era la moglie di Battista Pittoni, anche lei pittrice e intagliatrice, di cui nessuna opera risulta identificata con certezza.9 Da anni in stretto contatto con il Groto, ne ingentiliva i libri a stampa con ornamenti miniati o intagliati, sovente lodati nelle epistole del letterato e forse non solo per pura retorica, poiché con il tatto delle dita egli poteva esaminarne il disegno nel rilievo delle matrici incise.10 Gasparina gli serviva inoltre da agente editoriale a Venezia, curandone le pubblicazioni e i rapporti con tipografi e librai:11 proprio nel 1582 era iniziato il grande cantiere dell’edizione delle opere complete del Cieco d’Adria, affidato ai fratelli Fabio e Agostino Zoppini, 4. Mi permetto di rimandare a Diane H. Bodart, Pouvoirs du portrait sous les Habsbourg d’Espagne, Parigi 2011, pp. 120–128, con la bibliografia precedente. 5. Famigliari (vedi n. 1), pp. 317–318. Vedi Edouard Pommier, Théories du portrait: De la Renaissance aux Lumières, Parigi 1998, pp. 47–49; Lina Bolzoni, Poesia e ritratto nel Rinascimento, Bari 2008, pp. 52–53. 6. Battista Pittoni, Imprese di diversi principi, duchi, signori, e d’altri personaggi et huomini letterati et illustri, Venezia 1564, no. 51. Vedi David Rosand, “Titian and the Critical Tradition”, Titian: His World and His Legacy, a cura di idem, New York 1982, pp. 1–39. 7. Bocchi (vedi n. 1), p. 101, Mary Pittaluga, “Alcuni ritratti ignorati del Tintoretto”, Dedalo, V, 1925, pp. 574–581, 578–581. I donatori apposero in basso a destra della tela: “fratrvm bocchi q.m jacin. mvnvs”. 8. Federica Wiel Marin, La ceramica attica a figure rosse in Adria. La famiglia Bocchi e l’archeologia, Padova 2005. 9. Laura Pittoni, Dei Pittoni, artisti veneti, Bergamo 1907, pp. 20–27. La recente proposta di riconoscere la mano della Pittonia nel ritratto silografico del Groto e nel capolettera I dell’editio princeps della Dalida (1572), anche se non sostenuta da un’esatta corrispondenza con gli ornamenti in rame dell’intagliatrice citati dal poeta a proposito di questa pubblicazione, è tuttavia plausibile: Collavo (vedi n. 1), p. 327. 10. Devo a Machtelt Israëls questa suggestiva osservazione. 11. Delle sedici lettere note del Groto alla Pittonia, la prima è del 1572, l’ultima del 1584: Famigliari (vedi n. 1), pp. 215–216, 245–246, 274–279, 284, 290–291, 294–297, 318–322, 327–330, 346–347, 380–381, 383–384, 389–390, 405–406. 402 403 diane h. bodart tintoretto e il ritratto di luigi groto, detto il cieco d’adria non a caso i di lei parenti. Il dipinto di Tintoretto va quindi inteso in tale contesto editoriale, al quale il Groto si riferisce d’altronde quando scrive al pittore “che per opera del ritratto impresso nella fronte delle mie opere, intagliato prima in legno, in rame dall’original formato da vostra signoria, potrò essere in più di mille luoghi in un tempo”. Gasparina fu plausibilmente l’intermediaria nella commissione del ritratto a Tintoretto: all’opera del pittore corrisponde forse l’effigie da lei mandata al Groto ad Adria nel febbraio del 1582 o quella da lei conservata alla medesima data in casa sua.12 Fu in ogni caso lei a consegnare a Tintoretto la lettera ringratiatoria dell’amico letterato dopo l’estate e a riferire a quest’ultimo il desiderio espresso dal pittore di vedere l’epistola stampata.13 Al tempo stesso, Gasparina domandava al Groto indicazioni sulla forma da dare al suo ritratto inciso, di cui curava dunque l’esecuzione se non l’intagliò di mano propria. Dopo averle risposto il 19 settembre di non averne idea, il letterato le chiese il 23 ottobre di riservare l’effigie alle “opere grandi”, ossia in ottavo e in quarto, e non alle stampe in dodicesimo.14 Ribadiva anche in questa missiva che il dipinto andava rimandato al Tintoretto “accioché fornise”. Tale insistenza lascia intendere che nella tela consegnata a Gasparina, solo le parti utili all’incisione erano compiute, quindi essenzialmente la figura o forse solo il volto e il busto, mentre gli elementi secondari e lo sfondo dovevano ancora essere completati. Questo dato, oltre a confermare che il ritratto fu eseguito per ragioni editoriali con una certa urgenza, potrebbe anche parlare a favore del dipinto conservato ad Adria, di cui è solitamente rilevata la miglior qualità del volto rispetto alla debole fattura del resto del corpo e in particolare del paesaggio.15 Come si è visto, il letterato scriveva a Tintoretto che sul frontespizio delle sue opere, il ritratto inciso su rame dal modello del suo dipinto avrebbe sostituito un precedente ritratto intagliato su legno. Nei libri del Groto si trovano per l’appunto due tipi di effigi: da un lato una silografia che lo raffigura a 31 anni (Fig. 2), pubblicata nella Dalida del 1572, verosimilmente di mano di Gasparina che intagliò degli “ornamenti” proprio per questa editio princeps;16 dall’altro un bulino che rappresenta l’autore a 41 anni (Fig. 3), età che aveva nel 1582 quando Tintoretto lo ritrasse. Quest’ultima incisione su rame presenta però una somiglianza solo vaga con il volto del quadro di Adria: gli occhi sono privi di pupille ma le palpebre non sono semichiuse, il profilo del naso è più irregolare e meno aquilino, la pettinatura sull’ampia fronte più scompigliata. Anche le vesti sono disposte in modo diverso: il collo della camicia è corto e rigido e non lungo e ondulato, il manto foderato di pelliccia aperto e non incrociato sul petto, l’abbottonatura del giubbone visibile. Il foglio ricorda invece più strettamente il precedente ritratto intagliato su legno, come se ne fosse una derivazione adattata da una mano meno elegante ai segni del tempo. Allo stesso modo, l’iscrizione è riprodotta tale quale, con la correzione dell’età tramite l’aggiunta di un decimale. Anche la cornice è ripresa in modo più maldestro, in controparte, con i suoi racemi di rosa e il Cupido che punta l’arco verso un pellicano, “groto” in veneziano, allusione alla figura del poeta quale cantore della bellezza delle donne, colpito dal desiderio di amore senza poterlo appagare a causa della sua infermità, condannato pertanto a rimanere padre solitario di opere letterarie, interamente devoto a queste sue uniche figlie.17 Da tali dati si può desumere che la riattualizzazione dell’effigie giovanile fu eseguita da Tintoretto in base alla silografia del 1572 e poi tradotta a stampa; ma in tal caso il dipinto del veneziano non corrisponde a quello di Adria. Gli stessi elementi permettono però di supporre ugualmente che l’incisione a bulino fu realizzata indipendentemente dal modello 12. Lettera del Groto alla Pittonia, 13 febbraio 1582: Famigliari (vedi n. 1), pp. 296–297. 13. Lettere del Groto alla Pittonia, 19 settembre e 23 ottobre 1582: Famigliari (vedi n. 1), pp. 318–322, 327–330. 14. Famigliari (vedi n. 1), pp. 321, 328. 15. Rossi (vedi n. 2), p. 105. Per lo stato di conservazione della tela dopo l’ultimo restauro del 2001–02 e le zone di ridipinture antiche che interessano anche il volto, si veda Collavo (vedi n. 1), pp. 353–354. 16. Nella sua prima lettera alla Pittonia, del 28 marzo 1572, il Groto ringrazia per gli “ornamenti” da lei dati alla “mia Dalida”, lodando però il suo talento negli “intagli in rame”; Famigliari (vedi n. 1), p. 216. Potrebbe trattarsi di un fraintendimento del letterato, poiché l’editio princeps di questa tragedia presenta solo motivi decorativi silografici, tra cui il capolettera I ornato da un pellicano e un serpente, emblema verosimile dell’amicizia tra il Groto e la Pittonia: Collavo (vedi n. 1), pp. 345, 348. 17. La penna del Groto usa e riusa questo Leitmotiv autobiografico nelle rime, le lettere, le dediche, senza mai evocare che era padre di due figli carnali, avuti nel 1572 e 1579 dalla fantesca, concubina e poi sposa Caterina: Bocchi (vedi n. 1). 404 405 diane h. bodart tintoretto e il ritratto di luigi groto, detto il cieco d’adria di Tintoretto, il quale potrebbe allora coincidere con la tela adriense. A complicare ulteriormente la questione, va sottolineato che le riedizioni dei fratelli Zoppini presentano effettivamente dal 1582 l’effigie a stampa del Groto nei formati in ottavo e in quarto e mai in dodicesimo, ma che si tratta sempre della silografia giovanile dell’autore all’età di 31 anni, riutilizzata sistematicamente almeno fino al 1590, ovvero ancora cinque anni dopo la sua morte. Il rame che lo raffigura all’età di 41 anni venne in realtà adoperato dai Zoppini solo dal 1602, nella riedizione delle Orazioni volgari, e poi ripreso in formato ridotto nel 1610 dal tipografo Ambrogio Dei per la pubblicazione delle Rime in tre volumi in dodicesimo.18 Comunque si articoli il nesso tra il ritratto a stampa del Groto quarantunenne e l’opera dipinta da Tintoretto, diversamente dall’auspicio del letterato non fu quindi la “faccia artificiosa” conferitagli dal pennello del Robusti ad accompagnare la grande opera editoriale intrapresa negli ultimi anni della vita. Il quadro conservato ad Adria contribuì tuttavia a veicolare la fama del Groto presso i posteri, in particolare grazie all’epigrafe “multum animo vidit, lumine captus erat”, quasi un’impresa ideale del letterato cieco. Il verso, tratto dai Fasti di Ovidio (VI.204), si riferisce alle qualità visionarie del vecchio censore Appio Claudio ormai cieco, che aveva dissuaso il Senato romano dal firmare la pace con Pirro all’indomani della sconfitta di Eraclea, aprendo la via al trionfo di Roma sul re di Epiro qualche anno dopo. Ora il Groto imbastì la sua figura di letterato di eccezione insistendo proprio sulla sua cecità: nelle direttive date a Gasparina Pittoni per la riedizione delle sue opere, avvertiva di “non dir nel titolo né messere, né signor, ma simplicemente ‘di Luigi Groto, Cieco d’Adria’”.19 L’infermità fisica che lo affliggeva, come spesso ricordava, dall’età di otto giorni, veniva da lui esibita come una “mutilazione qualificante”, per riprendere la definizione di Georges Dumézil che individua nell’organo perduto il segno di un’intensificazione di qualità compensatorie.20 Non a caso un’antica tradizione, nota nel Rinascimento, diceva che Omero aveva ricevuto il suo dono poetico da Teti e dalle muse, dopo aver perso la vista alla ricerca dell’ispirazione sulla tomba di Achille, dove rimase definitivamente abbagliato dalla splendente apparizione dell’eroe armato dagli dei.21 La cecità degli occhi valorizzava l’eccelsa lucidità dello spirito, e non solo nelle sue capacità di visione poetica come insegnava l’autore dell’Iliade di cui il Groto tradusse in ottave il primo libro, ma anche nelle sue doti di veggenza profetica come testimoniavano Appio Claudio Cieco e soprattutto Tiresia, che doveva i suoi poteri divinatori alla perdita della vista voluta da Giunone. Se non vi è traccia del verso di Ovidio negli scritti del Groto, egli amava paragonarsi all’illustre indovino greco: “ben son io simile a Thiresia nel non vedere, e forse nel prevedere” scriveva a Tintoretto predicendogli che il suo nome avrebbe sostituito per i posteri quello dei più celebri pittori dell’Antichità, Tiresia di cui avrebbe inoltre recitato il ruolo nell’Edipo di Sofocle per l’inaugurazione del Teatro Olimpico di Vicenza nel 1584.22 Il paragone non era meramente retorico per questo lettore di testi di magia, appassionato di cabala e di astrologia, noto per i suoi pronostici visionari di cui egli stesso non perdeva l’occasione di esaltare gli arcani.23 Tra queste imprese profetiche, la più memorabile rimase l’orazione di Porto Viro, recitata nel 1569 in qualità di ambasciatore di Adria al doge Pietro Loredan e alla Signoria di Venezia. Tracciando una stupefacente geografia fluviale del Polesine, il Groto vi individuava all’altezza di Porto Viro il punto dove scavare un canale che avrebbe consentito, con un miglior defluire delle acque del Po, di salvare il territorio di Adria dalle devastanti piene e la laguna di Venezia dal conseguente interramento.24 L’opera ingegneristica, realizzata 18. Famigliari (vedi n. 1), pp. 19, 80, 106, 136, 166. La didascalia a p. 80 presenta erroneamente il bulino pubblicato nelle Orazioni volgari del 1602 come una silografia tratta da un’edizione del 1585 della stessa opera. 19. Lettera del 23 ottobre 1582; Famigliari (vedi n. 1), p. 328. 20. Georges Dumézil, Mythe et épopée, III: Histoires romaines, Parigi 1981, pp. 263–291. 21. Per le fonti, vedi Anne-Marie Lecoq, Le bouclier d’Achille: Un tableau qui bouge, Parigi 2010, p. 307. 22. Famigliari (vedi n. 1), pp. 317–318; Luigi Groto, Le orationi volgari, Venezia 1586, dedica all’Accademia Olimpica di Vicenza. 23. Si vedano le predizioni del diluvio del 1567 e della vittoria di Lepanto nel 1571: Bocchi (vedi n. 1), alle date; Mario Nanni, “La gentil’arte dello scrivere lettere”, in Famigliari (vedi n. 1), pp. xxx–xxxi. 24. Groto (vedi n. 20), pp. 48v–61r. Per la partecipazione effettiva del poeta nella concezione del progetto, vedi Camillo Cessi, “Marino Silvestri e Luigi Groto. A proposito del taglio di Porto Viro”, Ateneo Veneto, XXI, 1898, pp. 61–70. 406 407 diane h. bodart dalla Serenissima nel 1600–04, avrebbe confermato la lungimiranza del letterato oltre quindici anni dopo la morte. L’impietosa raffigurazione degli occhi privi di luce di Luigi Groto nel ritratto conservato ad Adria non è quindi un mero tributo alla somiglianza fisionomica, ma parte integrante della costruzione dell’esemplare figura visionaria del letterato cieco, la cui infermità fisica è elevata dal verso ovidiano a virtù dello spirito. Proprio questa citazione dei Fasti, che traccia le vite parallele di Appio Claudio Cieco, ideatore della via Appia e del primo acquedotto di Roma, e del Cieco d’Adria, ideatore del canale di Porto Viro, viene correlata nel dipinto al paesaggio fluviale di Adria che si apre sullo sfondo, suggerendo una lettura contestuale della chiaroveggenza del poeta, in chiave di celebrazione locale e postuma, legata alla bonifica del Polesine. Forse il verso di Ovidio venne aggiunto al ritratto tintorettiano a posteriori, dopo l’esito positivo della grande impresa di ingegneria idraulica, ad innalzare il Groto tra i benefattori della patria.25 E in tale veste, l’immagine del Cieco d’Adria, che indica il luogo dove deviare il Po, fu scelta nell’Ottocento per lo stemma del nuovo comune di Taglio di Po, sorto sul canale di Porto Viro, dove campeggia tuttora associata al motto ovidiano “multo animo vidit, lumine captus erat” (Fig. 4). 26 25. L’iscrizione sembra infatti di fattura coeva a quella apposta in basso a destra a fine Settecento dai fratelli Bocchi a ricordo del loro dono della tela al municipio di Adria, ma potrebbe anche trattarsi di un restauro a quella data di una precedente epigrafe rovinata. Il verso ovidiano riappare come incipit della grande monografia dedicata al Groto nel terzo centenario della morte da Francesco Bocchi, per incarico del comune di Adria, dopo che nel 1882 erano stati votati nuovi lavori di bonifica, Bocchi (vedi n. 1). Le celebrazioni si conclusero nel 1887 con l’inaugurazione di un busto di marmo di Natale Sanavio tratto dal modello tintorettesco: Francesco Bocchi, Discorso nella solenne inaugurazione… del busto marmoreo di Luigi Groto detto il Cieco d’Adria…, Acqui 1887. 26. Il motto travisa l’inizio del verso di Ovidio in multo animo vidit. Come ricordato dall’attuale statuto comunale di Taglio di Po, lo stemma è composto dal gruppo del Monviso sullo sfondo, ai piedi del quale sorge Eridano, divinità fluviale del Po, mentre in primo piano “il cieco di Adria indica dove tagliare per deviare il corso del fiume”. 408 bodart (pp. 401–408) 1. Jacopo Tintoretto (attr.), Luigi Groto, ca. 1582, olio su tela, 91 5 101 cm. Municipio, Adria. 3. Luigi Groto a 41 anni, bulino, 9,3 5 8 cm, in Le orationi volgari di Luigi Groto Cieco di Hadria, Venezia 1602. 2. Gasparina Pittoni (attr.), Luigi Groto a 31 anni, silografia, 9,5 5 7,5 cm, in La Dalida. Tragedia nova di Luigi Groto Cieco d’Hadria, Venezia 1572. 4. Stemma del comune di Taglio di Po. 891