Natale su commissione

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Natale su commissione
Natale su commissione
Alex Carulli
per Henriette Jacob
Tutto comincia con una richiesta da parte di mia moglie. Tutto comincia sempre con una richiesta da parte di una donna. Da
sempre. Prendete Adamo ed Eva, per esempio.
Che mi dice mia moglie?
Prima di uscire di casa e mettersi in viaggio per Penzance, in Cornovaglia, giù nell’estremo sud-ovest dell’Inghilterra, a casa
dei suoi genitori, Michelle bussa alla porta del cesso e dice: «Io vado. Me l’hai promesso, eh! Oggi esci e trovi un regalo per mia
madre; poi da Paddington prendi il treno delle tre e zero-sei o, al massimo, quello delle quattro e zero-sei, così per le nove–nove
e mezza sei lì e ti vengo a prendere: mi fai sapere tu che treno riesci a prendere. E sappi che non ci sono scuse: questo è il regalo
che voglio io per questo Natale: tu che finalmente esci da questa tana e riprendi il contatto con…»
Smetto di ascoltarla e continuo a fissarmi allo specchio circospetto.
Fuori nevica.
Da due settimane non mi faccio la barba. Da due mesi non esco di casa, se non per andare all’off-licence all’angolo a
comprare sigarette e vino. Da due anni il mio nome e volto compaiono nelle più note riviste d’arte contemporanea: sono
rinomato come artista, anche se a questa definizione non ci credo nemmeno io.
Mi rado e mi vesto.
Esco di casa che sono le 11:30. La neve cade intensa e strafottente: si vede che continuerà così per ore. Il freddo punge,
specie sul viso sbarbato e vulnerabile. Mentre raggiungo la Tube, camminando a fatica tra neve e ghiaccio, sono più o meno 6 le
parole che mi rimbombano in testa come un mantra: “Chi cazzo me l’ha fatto fare?”
Mia suocera non la conosco. Conosco di più il postino e il tipo dietro al banco dell’off-licence. Posso immaginare per chi ha
votato il postino e cosa ne pensa delle misure di austerity che stanno strangolando l’Europa; posso immaginare cosa pensa dei
fenomeni migratori il tipo del negozio e cosa ne pensa il suo amico o cognato o fratello o cugino che gli fa da magazziniere e che
è sempre seduto lì con lui. Ma di mia suocera non so niente. L’ho vista sì e no una dozzina di volte: al nostro matrimonio, al
matrimonio di mio cognato, al battesimo del figlio di mio cognato, al funerale di qualcuno e qualche altra rara volta che ora non
ricordo. Non so se preferisce la gonna o i pantaloni; non so se ama i Beatles o i Rolling Stones. (Il postino è per i Beatles, quello
dell’off-licence per i Rolling Stones.) L’anno scorso, senza andarla a trovare e quindi senza nemmeno incontrarci di persona, le ho
regalato una piccola scultura in plastica & ferro che ho realizzato io. Non so se le è piaciuta e non me ne frega. Sta di fatto che
non posso mica farle ogni anno lo stesso tipo di regalo.
Eccomi alla stazione di Willesden Green. È da secoli che non vengo qui. Secoli… un paio di mesi. Il viavai odioso di sempre è
ancora vivo e sembra non smettere mai. Domani, giorno di Natale, Londra si ferma e forse, unico giorno dell’anno, si ferma
anche l’insistente calpestarsi i piedi a vicenda: quella specie di tacito accordo che mira al condimento incondizionato di questa
città-minestrone e per cui le zucchine sodalizzano con le carote mentre il sedano sodomizza le patate.
La mia idea è Covent Garden.
Scendo le scale con un groppo in gola e con un’estraniante sensazione di disagio. Sono un pesce fuor d’acqua, qui, lontano
dalle mura sicure di casa, tra uomini e donne indaffarati che non conosco e non m’interessa conoscere. Vedo una donna
scivolare e rovinare a terra a due passi dal ciglio del binario. Un uomo si piega e le porge una mano. La donna rifiuta l’aiuto e
l’uomo si volta incredulo e offeso.
“Chi cazzo me l’ha fatto fare?” mi ripeto in mente. “Perché ho detto di sì? Ma tu senti che freddo!”
❄❄❄
Appena fuori dalla stazione, squilla il cellulare: mia moglie.
«Pronto,» rispondo.
«Ho provato a chiamarti per mezz’ora, dov’eri?»
«Ero nella Tube, sono appena uscito a Covent Garden.»
«Nooo!» si esalta lei. «Grande! Bravo! Finalmente! Sono così felice!»
«Vediamo se trovo qualcosa,» dico, e con lo sguardo seguo una figa orientale che se non è una modella dovrebbe esserlo. «C’è
un bordello assurdo qui.»
«Non sai quanto sono felice di sapere che sei uscito di casa finalmente. Questo è il più bel regalo che potevi farmi, davvero.»
«O.K., O.K.,» dico. «Ci sentiamo dopo, allora.»
«Va bene. A dopo.»
«Ciao.»
«Tu non sai quanto sono conten…»
Oh Cristo, basta.
Infilo il cellulare in tasca.
Per terra non c’è un filo di neve, al contrario delle strade della mia zona. Qui il traffico umano alla moda è smodato, sfrenato,
frenetico. La neve non fa in tempo a cadere che l’ultimo modello di Tod’s la schiaccia al suolo e la fa regredire al suo stato
liquido. Ma la neve continua a venire giù: fiocchi grossi così, magici e misteriosi, che cadono dal nulla grigio-bianco che è il cielo.
“Ho bisogno di qualcosa di caldo,” penso, e faccio qualche passo, cercando un pub o un bar.
All’incrocio, lì, ce ne sono due di pub, uno di fronte all’altro: The Nags Head alla mia sinistra, The White Lion alla destra.
Piccolo dilemma.
Vado per il Nags Head, visto che la “testa di un cavallo da corsa” mi sembra più innocua di un “leone bianco”.
Entro e sento il calore avvolgermi come una coperta. L’odore di vin brûlé stuzzica le narici e allontana la voglia di caffè. Vado a
sedermi a un tavolino incuneato in un angolo. Lascio lì il cappotto e mi dirigo al bancone. Ordino un bicchiere di vin brûlé, pago
e torno al tavolo.
Sorseggio il vino, caldo e speziato, e mi guardo intorno. Sparsi qua e là, chi seduto sbilenco al bancone, chi stravaccato su
divani logori e démodé, derelitti umani che si ostinano a bersi la vita, con la sola consolazione di essere attrazione turistica
dentro attrazione turistica. Mischiati a loro, uomini & donne d’affari dalla risata facile e qualche turista impacciato nell’afferrare
lingua e usanze.
“Perché mi stanno tutti sul cazzo?” mi chiedo. “Perché non sopporto di stare a vedere questa gente che spreca tempo e
denaro in sedativi legalizzati?”
Mille pensieri si accavallano in mente. Scolo il bicchiere, mi alzo, ne ordino un altro, lascio 5 sterline sul banco, dico alla
barista che devo andare in bagno, ci vado, e quando torno trovo il bicchiere di vin brûlé fumante e un pound e 75 di resto. La
barista è scomparsa e a me non me ne può fregare di meno.
Torno al mio tavolino, mi siedo, sorseggio il vino e mi vengono in mente le storie che da qualche tempo mi sento dire da mia
moglie. Lei se ne viene fuori con queste uscite ad ogni ora, così, senza apparenti connessioni con quello che si sta dicendo o
facendo o guardando—se ne esce con le sue paternali dal nulla e mi riempie la testa di incitamenti travestiti da rimproveri, o
viceversa. Per esempio, ricordo che una settimana fa, credo, eravamo seduti in salotto, dopo cena, io un bicchiere di cognac in
mano, lei la sua tisana a chissà quale razza di frutto esotico, e lei mi fa: “Io non capisco com’è possibile. Nel senso, non sei mica
l’unico, tu, che deve avere a che fare con la fama, col successo; e mica tutte le persone conosciute si chiudono in casa a lavorare
e a pensare e non escono mai. E poi, sappi che ci sono eserciti di persone disposte a vivere il doppio, il triplo, anche il
quadruplo della tua sofferenza—la posso chiamare così?—pur di diventare famose e conosciute. Io non ti capisco, davvero. E poi,
scusa, amore, ma non credi anche tu che un artista non può stare chiuso in casa se vuole che il mondo naturale, il mondo
esterno, quindi non solo quello interiore, entri in una delle sue opere? Deve vedere, essere a contatto con gli uomini e le donne
a cui la sua opera è diretta; deve sentirli vicini, deve conoscerli per poterli includere nelle sue opere.”
Non ricordo cosa le ho risposto—se ho risposto, ma quello che so è che ne ho già visti troppi di uomini e donne; che sono
davvero in pochi quelli che mi sorprendono o mi entusiasmano e che, non posso più nascondermelo, non riesco a trovare niente
di niente in nessuno, se non la solita noia e ripetitività; e poi, di solito, anche le persone più interessanti e piacevoli, di solito,
dopo un po’, si rivelano per quello che sono: semplici uomini o donne, e niente, davvero, niente più.
Il mantra mi torna a fare visita, con una variante adesso: “Chi cazzo me l’ha fatto fare e che cazzo ci faccio qui, in questo pub
di merda, circondato da sconosciuti?”
Devo comprare il regalo per mia suocera, però: meglio uscire e cominciare la ricerca.
Ingollo il vino, indosso il cappotto ed esco.
Appena fuori mi becco un paio di schiaffi dal gelo: incasso e sto zitto. Sento la nebbia che ho in testa rarefarsi. Il fresco mi
aiuta a rimettere a fuoco la vista.
Eccomi qui, a Covent Garden, circondato da un’umanità che scorre, mi sfiora e m’indispone. Mia moglie dice che dovrei
interessarmi alle loro vite, ma le loro vite non m’interessano, le loro vite mi scivolano addosso assieme ai fiocchi di neve che
viene giù—tenera e ostinata come una nonna—e si perdono sull’asfalto che calpesto senza rimorsi.
Le solite statue viventi, indaffarate a restare immobili, fanno da colonnato alla passerella che percorro. Loro, immobili per
soldi; io, in movimento su commissione.
Prima di entrare nel mercato coperto, faccio un respiro profondo poggiato a una cabina telefonica, scaccio via il mantra che
mi martella la testa e mi convinco che prima trovo qualcosa per mia suocera, prima mi lascerò alle spalle questa bolgia umana.
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Ecco un banco che vende agende e diari rivestiti di “Vero cuoio fatto a mano”: ne prendo uno in mano e un odore intenso, di
vacca o pecora o di che razza di animale morto è, penetra nelle narici: non posso regalarle una cosa così.
Mollo e passo al banchetto successivo.
Una figa ispanica, infreddolita e triste, vende balsami biodegradabili, saponi, creme e unguenti.
Naaa. Troppo intimo.
Il prossimo.
Un ex-fricchettone senza denti vende palle di stoffa colorate da appendere all’albero di Natale alternativo, bambole di stoffa
dalle chiome diradate e lo sguardo assassino, renne improbabili e slitte deformi—sempre di stoffa—a cifre improponibili che
neanche il peggior capitalista.
Passo.
Ecco un banchetto interessante.
Un cartello dice “All of your beeswax”. Apprezzo il doppio senso: invece di scrivere none of your beeswax (alternativa
addolcita di none of your business – non sono affari tuoi), hanno scritto all of your beeswax e vendono prodotti di cera d’api
(beeswax, appunto). La maggior parte sono candele. Candele, però, non solo a forma di candele: ci sono civette, scoiattoli, Babbi
Natali dipinti a mano, renne, porta-gioie, divani & poltrone, angeli, stelle comete, abeti, cagnolini, cigni, fiori e, last but not least,
una meravigliosa chicca: la vecchia Betty, la regina d’Inghilterra, con lo stoppino infilzato in testa.
“La voglio,” mi dico. “Voglio la Regina in cera d’api e la voglio vedere sciogliersi davanti ai miei occhi.”
Certo, la voglio io, ma non voglio regalarla a mia suocera: troppo modesto come regalo.
Compro la candela.
«Strano dare un pezzo di carta con la sua faccia,» dico al tipo del banchetto, passandogli una banconota da 5 sterline. «Per
avere in cambio un pezzo di cera con la sua faccia.»
«Più una moneta,» il tipo mi da il resto e sorride.
«Complimenti,» dico.
«Ha un buonissimo profumo,» dice il tipo.
«God save the Queen!»—
Non sono io a rispondere così. Qualcuno m’ha tolto le parole di bocca. Qualcuno lontano dotato di un microfono.
Mi volto e cerco di capire da dove arriva la voce, chi ha parlato e perché.
“Non è stata un’allucinazione, vero?” mi chiedo.
«Sarà qualcuno là fuori,» il tipo del banchetto indica un punto impreciso alla sua sinistra. «Un clown, un giocoliere, qualcosa
del genere.»
«Ah,» sorrido e mi avvio verso il punto impreciso, fuori dal mercato coperto.
❄❄❄
Nello spiazzo pavimentato in sanpietrini accanto al mercato coperto, al centro di un cerchio umano multietnico e multigenerazionale, un saltimbanco dallo smoking sgualcito e il viso inceronato giocola su un altissimo monociclo con cinque clave
colorate, instabile ma sicuro, senza smettere un attimo di parlare e fare battute simpatiche nel suo microfono ad archetto.
«Ho bisogno di due volontari,» dice il saltimbanco. «Non lei, signore: mi sa che lei è capace di rovinarmi lo spettacolo pur di
farsi bello davanti ai nipotini. Ho bisogno di due giovani volontari. Non lei, signore, di nuovo! Ho detto giovani e volontari. E
lei, signore, con tutto il rispetto, non è più giovane e scommetto che a numero finito mi presenterebbe la parcella—altro che
volontario! Dai, su, due bambini: anzi, un bambino e una bambina, su!»
I volontari arrivano, un bambino e una bambina, e si appostano sotto il giocoliere, che li istruisce dicendo che devono
prendere al volo le clave che lancerà, sistemarle in un piccolo baule e, dopo averlo chiuso coi due lucchetti, lasciarlo lì dove lo
vedono, a terra, accanto al marciapiede.
«Tutto chiaro?» chiede il giocoliere.
«Sì,» dicono i due volontari.
«Non ho sentito,» dice il giocoliere.
«Sìììì!» dicono i due volontari.
«Non ho sentito,» il giocoliere incita l’intero cerchio umano.
«Sìììììììììììììììììì!» urla la folla.
Io mi sto rompendo. Decido, però, di aspettare la fine del numero.
I due volontari fanno tutto come richiesto: prendono le clave—e a ogni catch si levano dal pubblico degli oooohhhh di
meraviglia, le mettono nel baule e poi lo chiudono. Il saltimbanco, ora a mani vuote, fa due o tre mosse sul monociclo—che
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scatenano altrettanti spauracchi—e dopo aver urlato, in preda a finto-panico, salta giù dal monociclo e s’inginocchia per ricevere
l’applauso—che non manca di arrivare.
«Bene,» dice il giocoliere. «Vi ringrazio tutti di essere stati qui con me e, sopratutto, voglio ringraziare i due giovani volontari:
senza di voi questo numero non sarebbe mai riuscito.»
Si avvicina ai bambini, scambia un high-five con i due, poi raccoglie da terra il baule.
«Per le offerte,» dice il giocoliere, «userò lo stesso baule. Datemi un attimo che tolgo le clave—»
Aperto il baule, le clave non ci sono più. Il baule è vuoto.
I bambini sono esterrefatti, le bocche spalancate. Il saltimbanco sgrana gli occhi e si finge sorpreso. Controlla il baule
infilandoci la testa dentro e i risolini si moltiplicano. I papà sbuffano e portano le mani ai portafogli.
«Wow!» dice la bambina volontaria. «Come hai fatto?»
«Come ho fatto, io?» risponde il giocoliere. «Come avete fatto, voi!»
Tutti ridono e parte un ennesimo applauso.
«Grazie mille a tutti!» dice il giocoliere facendo un inchino e lasciando il baule aperto al centro dello spiazzo. «Grazie, grazie,
grazie!»
La folla si riversa a lanciare spiccioli e banconote nel baule, appagati e dimentichi del freddo e della crisi.
Mi viene un’idea: e se chiedo al tipo di venire con me a Penzance per fare uno spettacolo per mia suocera e i nipotini? Quello
sì che sarebbe un regalo insolito, originale, indimenticabile.
Mi avvicino al saltimbanco, intento a stringere mani e a sistemare i ferri del mestiere in borsoni e bauletti.
«Complimenti,» dico.
«Grazie.»
«Posso offrirle un drink?» chiedo.
«Se ha messo qualcosa, il drink me l’ha già offerto, non crede?»
«Non ho messo ancora niente,» dico, «e comunque volevo offrirle un drink anche per fare una chiacchierata.»
«Chi è lei, un impresario?»
«Impresario?»
«Sì, che fa, lavora per qualche teatro?»
«No, no. Faccio tutt’altro. Ma perché non ne discutiamo davanti a ‘na birra?»
«O.K.,» dice. «Finisco di sistemare la mia roba e andiamo.»
La neve continua a cadere. I fiocchi sono più piccoli, ora. Li sento gelidi sulla punta del naso e sulle guance rosse.
Dopo cinque minuti, il giocoliere s’infila il cappotto, raccoglie valigie e bauli e mi fa un cenno: vuole che lo aiuti a portare il
piccolo amplificatore.
«Ho la macchina parcheggiata qui vicino,» dice. «Lasciamo ‘sta roba, poi vediamo dove andare.»
Raggiungiamo la macchina.
«Non ci siamo presentati,» dico, sistemando l’amplificatore nel bagagliaio.
«Piacere, Snow,» mi porge la mano.
«Phil,» dico. «Piacere mio.»
«Phil è il diminutivo di Philip, immagino.»
«Che altro?» dico.
«Ah, non so,» sorride. «Potrebbe essere il diminutivo di Philanthropist.»
«Questa è bella,» dico. «Non c’avevo mai pensato. Invece tu: Snow? Che nome è?»
«Mah, è una storia un po’ più lunga: magari te la racconto mentre beviamo, che ne dici?»
«O.K.,» rispondo.
«E se andassimo da me, invece? Ho parecchio da bere.»
«Da te? E dove sarebbe casa tua?»
«Qui vicino. Su, andiamo, fìdati.»
Non mi sono mai piaciuti quelli che dicono “fìdati” come se la sola parola in sé abbia chissà quali poteri persuasivi. A me fa
l’effetto contrario: m’insospettisce. Ma oggi, vigilia di Natale, periodo in cui tutti diventiamo più buoni, voglio fare a meno dei
miei sospetti. Oggi ho promesso a mia moglie che, a parte trovare il regalo per sua madre, mi avvicinerò di più ai miei simili; li
vivrò e li vedrò più simili a me, più prossimi. Oggi sono Phil the Philanthropist.
Varchiamo il portone. Un lungo corridoio umidiccio ci porta in fondo allo stabile. Oltre la finestra, un giardino ricoperto di
bianco, immacolato. C’è una rampa di scale sulla sinistra, che porta ai piani superiori, e quattro gradini sulla destra. Casa sua è
oltre la porta alla fine dei gradini.
Entriamo.
«Scusa il disordine,» dice Snow, «ma non aspettavo visite.»
«Don’t worry,» mi sfilo il cappotto e sfrego le mani per qualche secondo.
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«Vino? Birra? Brandy? Whisky?»
«Quello che prendi tu… Snow.»
«Curioso, eh?» Snow tira fuori due tumbler e una bottiglia di Laphroaig. «Spero vada bene.»
«Ottimo.»
«Allora,» Snow versa il whisky. «Ti dico la storia del mio nome, ma dopo mi dici che tipo di chiacchierata avevi intenzione di
fare.»
«Fair enough,» sollevo il bicchiere e brindiamo.
«Snow è inventato, è ovvio. Il mio nome è Kar, che è il diminutivo di Kardan. Kar in turco significa neve e—»
«Sei turco?»
«No,» dice Kar. «Sono curdo. Nato in Turchia. E stavo dicendo, è simpatico il fatto che significa neve, e non tanto perché sta
nevicando adesso—nevica ogni anno, no? La cosa forte è che quando sono nato—questa, ovvio, è ‘na storia che m’hanno
raccontato, non so se è vera o falsa. Comunque, proprio quando sono uscito, l’ostetrica che stava aiutando il medico, mi sa che
era cinese o del Vietnam, stava guardando fuori dalla finestra e la prima cosa che ha detto quando sono uscito è stata “Biz kar
var!”, che in turco significa più o meno “Abbiamo la neve”, anche se lei voleva dire “Nevica”. Da allora tutti mi chiamano Kar
invece di Kardan.»
«Carina ‘sta storia,» butto giù il whisky e riempio i due bicchieri. «E carino pure il nome.»
«La cosa diventa più divertente se pensi che kâr significa profitto,» Kar sorseggia e accende una sigaretta. Me ne offre una.
«Di solito non fumo di mattina,» dico. «Ma col whisky ci sta.»
«E allora, quando sono arrivato qui e ho cominciato a fare dei piccoli spettacoli di illusionismo eccetera, ho dovuto darmi un
nome di battaglia e diciamo che Profit suona molto meno misterioso di Snow,» fa un lungo tiro, caccia il fumo, poi dice: «E
quindi, Snow. Ecco la storia del mio nome.»
«Bella storia,» ingollo il secondo bicchiere. «Mica ti dispiace se…» indico la bottiglia.
«Vai, my friend, vai!»
Mi verso un altro bicchiere. Faccio una boccata alla sigaretta e trattengo a lungo il fumo nei polmoni, così, non so perché.
«Tu, invece?» mi chiede Kar.
«Io, cosa?»
«Dimmi qualcosa…»
«Io non ho storie di questo tipo da raccontare. Sono sposato ma niente figli; ho sempre fatto l’artista: pittura, scultura, un
po’ di scrittura, video. Da qualche anno faccio quello che ho sempre voluto, e cioè l’artista a tempo pieno, con un po’ di
notorietà che però non mi esalta…» faccio una pausa e fisso Kar negli occhi.
Nel marrone delle sue iridi vedo un uomo poco o per niente interessato a me—o agli altri, se è per quello. Mi sta ad ascoltare
solo perché ormai siamo qui, uno di fronte all’altro, in casa sua, e lui mi ha parlato di sé e ora tocca a me. Le poche rughe che gli
attraversano il viso non sembrano figlie dell’età, piuttosto di una vita avventurosa fatta di piccoli o grandi stenti. Kar mi sembra
un egoista convinto di avere un conto aperto con la vita. Un egoista che crede che tutto gli sia dovuto. Uno che afferrerà tutto
quello che può, spinto dalla certezza di potersi permettere qualsiasi sopruso in nome di un suo giusto riscatto socio-morale.
Lui ha vissuto una vita di merda? E allora non gli si può dire niente.
Ne conosco a dozzine di persone così. Più del 30% dell’umanità la pensa così, sicuro.
«Allora, Phil, dimmi un po’, di cosa mi volevi parlare?»
«Mah, guarda, mi sa che ho cambiato idea,» faccio un sorso. «Comunque la questione è che oggi sono uscito per un unico
motivo: comprare un regalo a mia suocera.»
«Una cosa seria, allora.»
«Non me lo dire,» sorrido. «E quando ti ho visto lì, sul coso lì, sul monociclo, ho pensato che non era una cattiva idea invitarti
a casa dei miei suoceri e farti fare un piccolo spettacolo privato. Non so, però: non mi convince più come idea. Niente a che fare
con te, eh—don’t get me wrong. A parte, poi, che non so nemmeno se domani sei impegnato e se fai questo genere di cose…»
«No,» dice Kar, «domani non sono impegnato, però mi sa che devo vedere dei paren—»
«Guarda, Kar, non ti preoccupare: come non detto. Forse è meglio se le compro qualcosa e buonanotte: non vorrei che
portare un estraneo il giorno di Natale risulti poco ortodosso.»
«Lo farei pure, però…»
«Forget it,» gli poggio una mano sul braccio. «Dimentica quello che ho detto. Però tu volevi sapere cosa ti volevo chiedere, e
questo è quanto. Cambiamo discorso. Ehm… dimmi un po’: la tua famiglia è qui a Londra? I mean, con chi passi il Natale?»
«Ho dei parenti qui, ma non una vera e propria famiglia: i miei genitori vivono in Germania e l’ultima donna ad entrare nella
mia vita se n’è scappata con un russo dopo due mesi che stavamo insieme. Sei mesi fa. Comunque, Natale lo passo con parenti e
amici.»
«A proposito di parenti,» dico, «fammi vedere che ora s’è fatta ché alle quattro devo essere a Paddington.»
Tiro fuori il cellulare e controllo l’orario: 13:51.
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«Forse è meglio che vado.»
«È un iPhone 5, quello?»
«Me l’ha regalato mia moglie un mesetto fa.»
«Bello?»
«It’s all right.»
Infilo il telefono in tasca.
«Senti, Phil,» dice Kar. «Prima che te ne vai, ti va di fumare?»
«In che senso?»
«Nel senso che ho qualcosa da fumare e diciamo che è meglio quando si fuma in compagnia.»
«Cazzo, è da una vita che non fumo una canna.»
«Non è proprio una canna,» Kar si alza, svuota la bottiglia di Laphroiag nei bicchieri e solleva il suo per un brindisi. «Agli
imprevisti!»
«Salute,» brindo e ingollo. Mmm… caldo e vellutato, una carezza.
Kar posa il bicchiere sul tavolino. «Phil, per favore,» indica il plotone-alcolici allineato sul mobile. «Serviti di quello che ti pare,
arrivo.»
Kar scompare in una stanza, io raggiungo i liquori col sentore d’aver superato il limite già da un pezzo.
“Me ne devo andare,” mi ripeto. “Me ne devo andare. Fumo e me ne vado.”
Sto per sedermi quando dall’altra stanza sento Kar dire qualcosa.
«Non ho capito,» dico, mentre verso del Courvoisier restando in piedi.
Kar mi raggiunge con una specie di piffero in mano. «Non so se hai mai provato a fumare oppio, ma ti posso assicurare che è
‘n’avventura che non ti scordi.»
«Oppio?»
«Oppio. Non ti preoccupare, è tutto O.K.»
«Senti, ma—»
«Phil, per favore, stai tranquillo: fìdati.»
Ecco che rispunta la parola magica. E rispunta pure il mio sospetto.
Annego tutto col cognac, buttandolo giù in un colpo solo e ad occhi chiusi.
«Di sicuro, ti piace bere,» dice Kar.
«Promettimi che non succede niente di grave,» dico, sentendomi la persona più patetica e stucchevole di questo mondo. Io?
Proprio io?
«Siediti, Phil,» dice Kar. «Ti racconto come sono arrivato qui a Londra, così magari ti distrai e la smetti di farti ‘ste seghe
mentali.»
Mi siedo. Il cuore va a tremila, la testa pulsa e dallo stomaco sento salire un’eco traditrice.
Kar mi riempie il bicchiere e comincia a raccontare: «Sai, sono partito dalla Turchia che avevo diciassette anni. Ho detto
partito ma forse è meglio dire scappato. Sai com’è la storia dei curdi, che siamo discriminati da tutti, specie da quei porci dei
turchi. Comunque, parto in un carro di bestiame da Amed, la mia città, che i turchi chiamano Diyarbakir, in direzione Ankara.
Arrivato lì mi butto su un treno diretto a Istanbul e raggiungo il contatto che mi deve portare in Germania, ad Amburgo—dove
un fratello di mio padre aveva appena aperto un supermercato e m’aveva promesso un lavoro. Però, prima ci devo arrivare in
Germania, giusto?»
Kar fa una pausa e fuma. Una boccata controllata ma lunghissima, sembra infinita. Il silenzio è la mia inquietante anticamera
del terrore. Osservo Kar staccare adagio le labbra scure dal bocchino e le sue palpebre chiudersi mogie.
«Tieni,» mi passa la pipa. «Non tirare forte; fai un tiro lungo… ma piaaaaano, piaaaaano…»
Preda di batticuore e sudore freddo, giro e rigiro la pipa tra le mani. È un bell’oggetto, quasi-quasi chiedo a Kar di
vendermelo e lo regalo a mia suocera.
Sorrido, ma non c’è un cazzo da ridere.
«Phil,» dice Kar, «va fumato per avere l’effetto, non guardato. Vai, non ti preoccupare,»—“Non lo dire,” penso. “Non lo
dire.”—«Fìdati.»
Lo dice, maledetto lui.
Poggio le labbra sul bocchino e tiro. Piaaaaano, come ha detto Kar.
«Da Istanbul andiamo in Grecia senza troppi problemi,» dice lui. «Io sono nascosto sotto i sedili di un camioncino e alla
dogana se allunghi qualcosa non fanno troppe domande, anzi… Arrivo a Durazzo, in Albania, tre giorni dopo essere partito da
casa. Ora, per arrivare prima ed evitare controlli, decido di andare con dei contrabbandieri che portavano sigarette nel Sud-Italia,
a Bari. Non ti dico che avventura, quella. Comunque, arrivo in Italia, e mi ricordo che per la prima volta capisco cosa vuol dire
vivere nel mondo ricco, occidentale— Ma mi stai ascoltando?»
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«Sì, sì,» dico, anche se dopo aver tirato ed essermi lasciato andare sulla poltrona, sento le sue parole lontane, soffici, dotate di
un che di consolatorio.
«Da Bari parto con un treno che mi porta a Genova,» Kar riprende a raccontare. «Da lì passo in Francia, a Nice—dove ho visto
la bella vita vera e i ricchi più sfondati e sfacciati. Il piano è passare dal Lussemburgo o, al massimo, dal Belgio, e da lì in
Germania. Una volta in Germania, poi, mi basta raggiungere Amburgo, e l’avrei fatto pure a piedi. Ma le cose vanno storte.
Quando siamo in Lussemburgo, non so per quale cazzo di motivo, il camionista che mi sta portando inchioda e mi dice tutto
agitato di uscire dalla cabina e di andarmi a mettere sotto al rimorchio. Io non credo alle mie orecchie. Ma lui insiste, e mi dice
pure come mi devo mettere, aggrappato alla base del rimorchio. Sotto, non dentro. Hai capito, Phil? Sotto! — Passa ‘sta pipa, va’.»
Gliela passo. Non ho più sensibilità. La pipa scivola dalle mani come olio. Come olio sento i capelli sul cuoio capelluto e un
odore di animale morto, di pelle, di cuoio mi riempie le narici e per cacciarlo bevo un sorso di cognac ma non sono le mie mani
a reggere il bicchiere. Bagno le labbra e sento il calore dipanarsi; poi vedo il calore dipanarsi, come un tappeto rosso arrotolato
che con un calcio si srotola e si stende sotto i miei piedi che lo calpestano… e da essere un lungo tappeto rosso diventa una
corta lingua marrone—la mia lingua marrone—sempre più corta, e ora avverto sulla punta una tenue puntura amarognola che
cerco di annientare facendo un bel sorso… il cognac è una cascata salutare nel mio esofago… Lo sguardo mi cade fuori dalla
finestra. Sorrido, meravigliato dalla neve che continua a cadere e penso che di sicuro sotto tutta quella neve ci sarà il regalo
giusto per mia suocera… E quindi posso aspettare… non c’è niente da temere… posso starmene ancora un po’ beato su
questa nuvola… e aspettare che la neve si sciolga… e lì, sono convinto, a terra, tra i cristalli di neve sciolta, un rivolo d’acqua e
una sottile lastra di ghiaccio, lì, proprio lì dove metterò piede io, ci sarà, splendido, il regalo perfetto per mia suocera…
❄❄❄
È uno schiaffo in pieno volto a svegliarmi. Sarà da vent’anni che non ne prendo uno del genere. Guardo in alto. Un ragazzo mi
tende una mano e mi tira su. Il tipo ha tutte le carte in regola per essere un aspirante Scarface dei giorni nostri: hoodie sopra il
cappello a visiera, un sopracciglio marchiato, orecchino di falso diamante e il nome di chissà quale troia tatuato sul lato del collo.
Sbatto le palpebre più volte; la vista è appannata e sono preda di una confusione fastidiosa perché inspiegabile. Ho un vuoto di
memoria e non capisco che ci faccia in quella stradina lercia; non capisco come mai il cielo tenda al buio e non ricordo come sia
arrivato lì e dove cazzo sono. Una cosa è chiara: non sono ancora in me. Lancio un’occhiata oltre il ragazzo e noto quattro simili a
lui disposti a semicerchio sul marciapiede opposto; quando, poi, vedo che altri due stanno facendo i pali alle estremità della
strada, capisco di essere nei guai.
«Ch’è successo?» chiedo. «Non mi ricordo niente.»
«Shut it, guv,» dice il tipo. «Gimme alls you got.»
«Easy,» dico, la voce strozzata. «Let me see how much I have.»
Non faccio in tempo a tirare fuori il portafoglio che il tipo me lo strappa di mano.
«Check it out,» dice, lanciandolo ai quattro dietro di lui. Poi si rivolge di nuovo a me: «Phone.»
«Pardon?» dico.
«Don’t fucking pardon me!» il tipo mi spinge contro il muro e mi punta un taglierino alla gola. «Gimme your fucking phone.
You know what a phone is, innit, bruv?»
«Yo, J.,» dice uno dei quattro a Tony Montana. «The geez don’t have nothing. Credit cards and IDs, tha’s it.»
«Come sarebbe a dire nothing?» dico, furioso e confuso.
«Don’t forget the phone, guv,» dice il tipo che ho davanti, poggiando la punta del taglierino sulla pelle.
Io mi sto per pisciare addosso, lo giuro.
«J., ask him his PIN number,» dice un altro dei quattro.
«The phone, boss,» insiste il tipo.
Infilo le mani in tasca e cerco il cellulare. Cerco e ricerco, ma non lo trovo. Di solito lo tengo nella tasca sinistra. Controllo e
ricontrollo. Niente: c’è solo la Regina in cera d’api.
«The fuck you doin’, guv?» il ragazzo sgrana gli occhi. «Think you gonna fool me like that?»
«Honest, mate,» dico. «Avevo un iPhone 5, ma non ce l’ho più: l’ho perso, cazzo.»
Tony Montana, alias J., mi colpisce con un gancio mancino sullo zigomo destro. «IPhone 5, no less!»
Il colpo mi scuote la testa e me la sento pulsare.
Voglio reagire, ma so che va a finire male se lo faccio. Meglio prendersene uno e smetterla.
«Yo!» urla uno dei due pali. «Coppers!»
«Five-oh!» dice uno dei quattro.
«You lucky bastard!» dice Scarface puntandomi il dito contro, a un centimetro dal naso. «Next time, guv. Next time.»
7
I ragazzi scappano via e io mi lascio cadere sul marciapiede, promettendomi che non ci sarà mai una “prossima volta”. Due
sbirri mi passano davanti e mi chiedono se sto bene e se ho bisogno di aiuto. Dico di essere stanco e di essermi seduto per
riprendere fiato.
«Sicuro?» mi chiede uno dei due.
«Grazie mille,» mi rialzo e raggiungo il marciapiede opposto: il portafoglio dovrebbe essere lì.
E difatti eccolo, coperto per metà da neve sudicia.
“Dove cazzo sono finiti soldi e telefono?” mi chiedo. “Cazzo, mi son portato un… quant’erano?… Mmm… più di duecento
pound. E ora, zero. E il cazzo di telefono? Come faccio se Michelle mi chiama? Come cazzo ho fatto a perderlo?”—
Kar.
Sicuro, Kar.
Non può essere stato che lui.
Kar, diminutivo di karogna.
Non so che ora sia e non ho il telefono per saperlo. Chiedo a un passante: un quarto alle quattro.
Merda, ho perso il treno delle 15:06 e quello delle 16:06 parte tra venti minuti. Non ce la farò mai a prenderlo; e se ce la
facessi, arriverei a Penzance senza soldi, senza cellulare, senza regalo, lo zigomo livido e la testa sconvolta.
Naaa. Meglio desistere. Chi se ne frega del treno—anche se il regalo va trovato a tutti i costi. Ma prima… prima devo beccare
quella merda del curdo.
Per beccare Kar e spaccargli il muso—la mia nuova missione/ossessione—ritorno allo spiazzo dove l’ho visto la prima volta e
da lì mi avvio verso casa sua. È l’unico modo per ricordare la strada.
La neve viene giù a stento adesso, le temperature si sono abbassate, il cielo è un grigio muro orizzontale; si accendono i
lampioni e le illuminazioni natalizie; la sensazione di sospensione delle vigilie cala sulla città assieme al crepuscolo e mi opprime,
facendomi notare con dileggio che, dopo mesi di clausura, sono uscito per “riavvicinarmi ai miei simili”, per “essere a più stretto
contatto con gli esseri umani” e come risultato sono stato truffato, derubato e picchiato.
Arrivo a casa di Kar. Il portone è aperto. Prima di entrare mi guardo intorno. Ho il corpo infreddolito, le mani congelate, il
viso acceso e teso. Vedo le nuvolette d’alito uscirmi di bocca e dipanarsi nell’aria gelida. M’intrufolo nel corridoio come uno
scassinatore e cammino rasente le pareti, calmo e cauto, nella luce fioca che arriva dalla finestra in fondo. Raggiungo la porta
dell’appartamento di Kar e il primo pensiero che ho è di sfondarla a calci. Invece no: busso con dei colpi secchi e aspetto.
Niente. Ri-busso e urlo tre o quattro volte i suoi tre o quattro nomi posticci. Poi passo alle bestemmie e alle minacce, sempre
colpendo la porta a pugni.
Sento qualcuno scendere le scale alle mie spalle. Mi volto, sperando con tutto me stesso che sia Kar: “L’attacco al muro
appena lo vedo!”
Non è lui.
È una vecchia sui duecentocinquanta anni, con più rughe che capelli, piccola, minuta, rattrappita su se stessa.
«Chi cerca?» mi chiede.
«Kar,» rispondo. «Lei, signora, conosce l’uomo che abita qui? Quello che fa il giocoliere, il clown e che—»
«Chi, quel delinquente?» dice la vecchietta.
Io faccio di sì con la testa senza dire niente: voglio che sia lei a parlare.
«Lei è un suo amico, un suo compare?» mi chiede.
«No,» dico. «Anzi…»
«Ahaaaa,» la vecchia sembra avere tutto chiaro adesso. «Lei allora è un altro dei suoi polli. Un altro di quei topolini che
pensano d’essere furbi ma che appena sentono odore di formaggio si fanno fregare da…»
La vecchietta continua con la sua arrogante sfilza di consigli e rimproveri; la lascio parlare ma decido di non ascoltarla per
non rischiare di attaccare al muro lei, invece di Kar.
«Ho capito, signora,» dico, stanco della sua lagna. «Sa per caso dove lo posso trovare? La casa di un suo amico, di un suo
parente…»
«No, no, no,» dice la vecchia. «Meno ne so di quel disgraziato, e meglio è. Ché noi c’abbiamo già abbastanza guai.»
«Arrivederci,» la lascio lì e m’avvio verso l’uscita.
«Oh, santo cielo, ma in che mondo vivono questi?» la sento dire prima di uscire e lasciarmi alle spalle quello schifo di
corridoio buio e umido.
❄❄❄
8
La vita è fatta di priorità e forse non è il caso d’intestardirmi a trovare Kar, ma focalizzarmi sul regalo per mia suocera. Se non
raggiungo mia moglie per la notte di Natale, almeno la raggiungo per il pranzo, con un regalo per sua madre.
Meglio tardi (e con un regalo) che mai.
In mente passo in rassegna le puttanate che mi toccherà raccontare a Michelle se non voglio dirle di alcol & oppio,
dell’avventatezza delle mie scelte e dei pessimi risultati. Penso di dirle che sono scivolato sulla neve (ecco il livido allo zigomo),
ho perso conoscenza (ecco la “scomparsa” dell’iPhone) e mi sono risvegliato due ore dopo (ormai troppo tardi per l’ultimo
treno) sul lettino di un’ambulanza. Chissà come si fa a rendere verosimili puttanate del genere…?
Da Covent Garden mi avvio verso sud. Non sto camminando con coscienza o con un’idea chiara di dove voglio andare. Sono
le gambe che per inerzia mi portano sul trafficato e sfavillante Strand. Ogni volta che passo da qui penso a quello che è diventato
un mio piccolo grande sogno: vedere delle mie sculture, nello specifico quelle enormi della serie “Disillusioni”, al centro di
questa strada storica e augusta. Lo vedrei come un degno e definitivo atto di consacrazione artistico-culturale.
Percorro lo Strand in direzione ovest, verso Trafalgar Square. Anche qui è pochissima la neve che s’è posata sui marciapiedi.
Per non parlare della strada in sé, bagnata e niente più. Prima della stazione di Charing Cross, svolto a sinistra su Villiers Street,
una stradina carina prona al losco. La strada è in discesa e porta diretta al Tamigi, sul Victoria Embankment.
Mi fermo a guardare il fiume. Tra le altre cose, tornano a galla confuse le parole che Kar ha detto prima che scomparissi in
chissà quale posto e mi ritrovassi seduto al gelo in quella stradina buia alla mercé di teenagers aspiranti Tony Montana. Non so
come mai, ma ricordo che prima del confine con la Germania s’era dovuto mettere sotto il rimorchio del TIR sul quale viaggiava
e poi, come se non bastasse, era stato costretto ad andare in Olanda, e da lì, da Amsterdam, era finito qui a Londra. Questo,
quindici anni fa.
Guardo l’acqua torbida del fiume e immagino di beccare Kar, un giorno, quando ormai le cose sembreranno remote e
dimenticate, e di inchiodarlo al muro e fargli sputare sangue, denti, soldi e il mio cazzo di telefono, e infine di buttarlo qui,
nell’acqua gelida del fiume.
Ho da pisciare. Torno indietro su Villiers Street ed entro in un pub. Ordino un doppio whisky e vado al cesso. Scolato il
bicchiere tiro fuori una carta di credito per pagare ma mi viene detto che il minimo pagamento con carta è di dieci sterline.
«E questo quanto viene?» chiedo.
«Sette e cinquanta,» dice la barista—una tettona di origini slave.
«O.K.,» dico, «allora fammene un altro.»
Ingollato il secondo whisky doppio, pago ed esco.
Sento la testa pesante e lo spirito leggero.
Faccio di nuovo la strada verso il fiume. Percorro l’Hungerford Bridge, godendomi la visuale e notando che sull’altra sponda
ci sono bancarelle fitte di luci intermittenti e una fiumana di gente.
“Lì lo trovi di sicuro un regalo,” mi convinco.
Cammino sul lungofiume e penso a Michelle, mia moglie, che non è qui con me e che mi aspetta, ignara delle mie
disavventure. Mi sarebbe piaciuto essere qui con lei. Lei che cerca e trova la poesia ovunque. Lei che si ciba di vento, movimento
e pura esistenza. Lei che dispensa tolleranza e che, con la sua plastica armonia fisica & spirituale, crea nuovi simboli e spiragli nel
mondo grigio e noioso di tutti i giorni—lo stesso mondo che io diserto e disprezzo e che sembra si stia prendendo gioco di me in
questa vigilia febbrile.
Ecco archi di luci, cascate di luci, spirali di luci, alberi fitti di pacchi regalo luminosi. Banchetti a destra e a sinistra; al centro la
massa di gente: famiglie, coppie, gruppi di turisti, mogli e mariti alla disperata ricerca di regali salva-faccia. Nell’aria si perdono le
note di canzoni natalizie stucchevoli, come Jingle Bells, We Wish You A Merry Christmas, O Holy Night e Silent Night. Chi le
suona e canta s’è appostato in una piazza minuta che si apre sulla destra, dopo la prima dozzina di banchetti e chioschi. Superati
i musici, una schiera di caricaturisti, ritrattisti, statue viventi e artisti di strada richiamano l’attenzione: mi torna in mente il volto
di Kar, ma lo lascio sfumare e svanire col vapore speziato di würstel bavaresi in vendita poco più avanti.
Un dedalo di banchetti, meno sfarzoso e più in disparte, vende libri usati e non. Ecco che la cultura si fa da parte, sobria e
comprensiva, come il religioso magnanimo che non si oppone a una ricorrenza pagana.
Non ci crederete, ma tra tutti i libri (usati e non, come ricordano gli innumerevoli cartelli scritti a mano) trovo anche un libro
che parla di me e dei miei lavori: Il vero e il falso. Mitopoiesi negli anni Duemila attraverso le opere di Phil Sundance. Ricordo
l’autore, Joshua, un ragazzo biondo e gracile, che mi ruppe le palle tre mesi per completare la sua tesi di laurea, che poi è
diventata il libro che stringo tra le mani.
Mi lascio alle spalle i libri—che non posso regalare a mia suocera—e continuo a vogare il fiume di gente e regali potenziali. Un
banco che vende porcellana mi attrae per qualche istante, finché non leggo, accanto alla porta di un negozietto appena dopo il
colonnato dell’Oxo Tower Wharf, un cartello fatto con stencil che recita una frase da premio Pulitzer:
9
IL 21/12/2012 È PASSATO,
NOI SIAMO ANCORA QUI AL NOSTRO POSTO
E I MAYA SE LO SONO PRESI IN QUEL POSTO
Non so cosa vendano lì, ma devo entrarci per conoscere chi ha scritto quella cosa. M’era passato di mente che la fine del
mondo era alle nostre spalle. Arrivo davanti al negozio e sull’uscio spunta una donna magra vestita di nero, capelli neri lisci e
lunghi, rossetto rosso fuoco, occhi tristi, viso pallido e guance incipriate. La donna incrocia il mio sguardo, mi dà le spalle e
sistema la ghirlanda sulla porta d’ingresso.
«‘Sera,» dico. «Lavora qui?»
«Sì,» risponde. «Come posso aiutarla?»
«Non voglio sembrarle un weirdo, ma volevo sapere se la frase che ha scritto qui è sua; diciamo, se è originale o se l’ha sentita
o copiata da qualcuno… Senza offese, eh.»
«No, quella l’ha scritta mio padre,» la donna lascia cadere le braccia sui fianchi, cercando di trasmettere un messaggio con
quel gesto, e incrocia la gamba destra sullo stinco sinistro, in una posa altezzosa da ballerina consumata. «Gli ho detto che non
era il massimo e che era un po’ volgare, ma vai a convincere un uomo di ottant’anni che appena gli dici qualcosa ti dice che ha
fatto la guerra per salvarci—anche se lui è nato nel Trenta e la guerra non l’ha fatta—e che noi, gli uomini e le donne di oggi, non
sappiamo cosa significa questo e quello, che non abbiamo vissuto la fame e la miseria—allora è meglio dargli ragione e stare in
pace, piuttosto che iniziare la guerra che non ha fatto.»
«Capisco,» sorrido, colpito dalla loquacità della donna, che invece pensavo timida e schiva. «Ma c’entra qualcosa con quello
che vendete?»
«No,» dice lei. «E io gliel’ho detto pure. Ma che ci puoi fare, voleva quella scritta lì e non c’è stato verso — Scusi, le dispiace
entrare ché qui fuori fa freddo?»
«Certo, certo,» dico e, nonostante lei insista, la lascio entrare per prima—capito il gentleman?
Il negozio è un negozio d’antiquariato.
Ottimo.
Per primo, in un angolo ma in bella vista, noto un pavone in latta decorato à la Klimt con delle vere penne di pavone infilzate
sul sopraccoda; una cassapanca dal coperchio rivestito di trapunta, un paio di orologi a pendolo, delle macchine da scrivere,
quadretti pastorali, vasi dipinti a mano, sedie a dondolo, calzascarpe in corno di bue, e mille altri gingilli dei materiali più diversi,
sparsi qua e là su consolle, specchiere da bagno e mensole. Il negozio è pieno zeppo di oggetti grandi e piccoli. In fondo c’è
persino un armadio a quattro ante e non si contano gli specchi dalle cornici intarsiate.
«Comunque,» dico, «può dire a suo padre che è stata la scritta ad attrarmi. Secondo me è deliziosa, non tanto per la forma in
sé—come ha detto lei, un po’ volgare—quanto per il contrasto che la volgarità crea se accostata ad argomenti mistici e
sovrannaturali.»
«Wow!» dice la tipa. «Devo scrivermi le sue parole: è il miglior regalo che possa fare a mio padre! A quello gli viene un collasso
se sa che un cliente ha elogiato così il suo cartello.»
«Allora non glielo dica.»
«Davvero,» la donna sorride, ma non sembra abituata a farlo.
Prendo un vecchio porta-sapone in ceramica e lo giro e rigiro tra le mani.
«Dipinto a mano,» dice lei.
«Mmm… Senta un po’,» poso l’oggetto dove l’ho trovato. «Io sto cercando un regalo per mia suocera e volevo una cosa
importante, qualcosa di particolare, unico, originale. Ora, capisco che qui ce n’ha parecchi di oggetti originali, ma io, come
capirà, voglio fare…»
«Bella figura,» dice lei.
«Appunto.»
«Allora… Ho bisogno di un po’ d’informazioni. Per esempio: sua suocera ha già dei pezzi antichi oppure preferisce oggetti
moderni e minimali? Plastica, ferro o legno? Colori scuri o chiari? Accesi, spenti, pastello, lucidi… È una casa luminosa o no?
Queste informazioni mi possono aiutare a capire cosa le posso dare.»
«Eccola là!» punto il dito e sento un senso d’appagamento riempirmi il torace: ho trovato quello che voglio.
«Che occhio,» dice lei. «Un oggetto spettacolare.»
Si tratta di una poltrona. Una stupenda poltrona da camino anni Sessanta/Settanta, di pelle color nocciola; i lati sono dritti e
squadrati e si arrotondano nella parte superiore a formare i braccioli; l’aristocratica semplicità del design evoca un’unica e
inconfondibile parola: comodità; il cuscino sul sedile e lo schienale sono di un morbido inaudito.
La voglio. Non ci sono cazzi.
«Se vuole vedere qualcosa di simile ma più economico, posso anche—»
10
«No, no, grazie,» la interrompo. «Questa è perfetta: è quello che volevo e poi io sono fatto così: se vedo una cosa che mi
piace, non mi smuovo. Accetta carte di credito?»
«Certo.»
«E per il trasporto, ci pensate voi?»
«Con una maggiorazione del pre—»
«È ovvio,» dico, ormai in estasi. «Perfetto. Affare fatto. La voglio; anzi, è mia. Mi dica quant’è, con consegna entro stasera, e
tolgo il disturbo.»
«Ma che disturbo,» dice la donna. «Lei è il miglior cliente che abbia mai avuto.»
«Addirittura?» dico, convinto che la tipa voglia soltanto leccarmi il culo.
«Lei non ha idea di cosa significa stare a contatto col pubblico ogni santo giorno,» scosta un drappo scuro e passa dietro il
banco della cassa. «Sono arrivata al limite di sopportazione e non reggo più nessuno. Sto chiedendo a mio padre di vendere ‘sto
negozio ché io non ce la faccio più. Sembra una cosa brutta da dire, forse, e spero che Dio mi perdoni per questo, però questo è
quello che sento: la gente mi fa schifo: è meschina, truffaldina, insipida, falsa, miscredente, arrogante—oh mammamia, le chiedo
scusa. Non avrei dovuto lasciarmi andare così, anche perché lei è un clien—»
«Non si preoccupi… Mmm… Si chiama?»
«Dorothy,» risponde. «Piacere.»
«Phil,» ci stringiamo la mano. «E non si preoccupi, Dorothy, anch’io non sopporto nessuno. Anch’io mi sento un misantropo
e, se la vuole sapere tutta, oggi è il primo giorno che esco dopo due mesi di deliziosa clausura volontaria e, devo dirle la verità,
era meglio se me ne stavo a casa. Non mi piace uscire perché non mi piacciono le persone, e non la città o i parchi o altro. Non
mi piace dover avere a che fare con persone che parlano e non dicono niente, che sono come quelli che, c’era una canzone, se
non sbaglio, che diceva così: quelli che adorano gli orologi e non conoscono il tempo. E per me, la maggior parte degli esseri
umani sono così. Adorano i frutti di alberi che non conoscono. ‘Sto discorso, Dorothy, è per tranquillizzarla: non mi offende
affatto se parla male degli esseri umani: sono i miei più acerrimi nemici!»
Scoppiamo a ridere tutti e due e per un istante, un lampo, mi passa per la testa l’idea di perdermi tra le sue gambe
scheletriche e di cercare in quel viso pallido e in quegli occhi tristi qualcosa di speciale e unico, qualcosa che valga la pena
assaporare, qualcosa di un livello superiore, meritevole di sostituire Michelle per qualche ora.
Cancello queste idee ripensando alla bellissima poltrona che ho trovato per mia suocera e al sorriso un po’ sospettoso che mi
elargirà Michelle quando mi vedrà arrivare a casa dei suoi, in ritardo di un giorno, il viso illividito, con un pacco regalo grosso
così.
«Senza uscire per due mesi?» dice Dorothy.
«Non che prima uscissi ogni santo giorno, anzi… Ma per due mesi ho deciso di non uscire e ho iniziato pure a motivare la
mia scelta con discorsi da eremita che mia moglie rigetta e cerca di sgretolare con le sue idee—rispettabilissime ma che non
condivido—sul bright side delle cose e sull’importanza di conoscere i propri simili.»
«Però è bello che tra di voi fate questo tipo di discorsi. Io con mio marito parlo solo di lavoro, di quanto non sopporto i
clienti, di politica locale, dei trasporti, del tempo e dei problemi familiari. Mai che facciamo discorsi profondi come questi,»
Dorothy batte il totale. «Fa settecento ottanta sterline, e nel prezzo sono inclusi il trasporto—si ricordi di darmi l’indirizzo—e una
confezione-regalo fatta di una bella tela di feltro color panna. Vuole scrivere un bigliettino?»
«Sì,» dico. «Scriva… Mmm… Ecco: Una poltrona dal poltrone di tuo genero. Buon Natale, Phil. Lei, per prendermi in giro,
mi chiama spesso poltrone, anche se sa che non sono una persona pigra e quando sto in casa sono sempre e comunque
impegnato.»
«La frase non è male,» dice Dorothy. «Mi sa che lei andrebbe davvero d’accordo con mio padre.»
Tiro fuori il portafoglio e la carta di credito. «Facciamo così,» le passo la carta. «Se conosce un posto dove possiamo bere un
bicchiere o due, le offro da bere; se invece ho esagerato a chiederle una cosa del genere, per favore, accetti le mie scuse e
arrotondi a ottocento.»
Non me lo dite. So che quello che ho detto è un errore da borioso.
«No, Phil,» dice Dorothy. «Intanto, non ci sono scuse da accettare e quindi non c’è nemmeno da arrotondare. Per quanto
riguarda l’invito, le posso dire una cosa: di bei posti qui vicino ne conosco un paio, ma a quest’ora, la vigilia di Natale, sono
chiusi. C’è un pub senz’infamia e senza lode: il Blue Moon, passato il Blackfriars Bridge, dall’altra sponda del fiume.»
«Benissimo,» dico. «Ma non mi ha detto se viene anche lei a farsi una bevuta.»
«Guardi, Phil, non posso negare di essere attratta dall’idea, non tanto per trasgredire,» Dorothy fa no, no, no con la testa,
«quanto per fare qualcosa di diverso con qualcuno di diverso; ma mi sa che oggi finisco tardi: devo organizzare la consegna della
sua poltrona, devo fare la chiusura della cassa e poi devo spegnere e chiudere il negozio e aspettare mio marito. Grazie mille
dell’invito, anyway: magari un’altra volta.»
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❄❄❄
Non so che ora sia, so solo che il cielo è buio pesto, le illuminazioni natalizie la fanno da padrone e io ho una voglia matta di bere
qualcosa—meritatissima ricompensa per essere riuscito a trovare il regalo per mia suocera e averlo fatto mettendo il naso fuori
casa—cioè nel modo voluto da mia moglie.
Bancarelle e regali, ora, sono un impiccio visivo, un prurito placato e lontano che mi fa sorridere con un ghigno orgoglioso.
Una missione che non mi riguarda più e che stimola sensazioni di empatia verso chi ancora vaga forsennato e in affanno alla
ricerca di qualcosa.
Per farmi una bevuta, accetto il consiglio di Dorothy e mi avvio verso il Blue Moon.
Sul Blackfriars Bridge scrocco una sigaretta e la stronco in poche boccate smaniose.
Ecco il Blue Moon.
Entro, tolgo il cappello e mi guardo intorno. Soffitti bassi, moquette ovunque, odore di birra stantia, specchi e cartelli
pubblicitari anni Sessanta. Sulla destra, bancone e sgabelli in legno; biliardo e maxi-schermo nella stanza a sinistra. Nella stanza in
fondo, illuminata con lampade che scendono basse sui tavoli, scorgo dei divani bianchi a strisce rosse, delle grosse vetrate, tre o
quattro disgraziati alticci e un distributore Bancomat. Un posto niente male, vissuto, con quel tocco di trasandato che nei pub
non guasta mai. Anche se… anche se… i baristi indossano degli stupidi cappelli da Babbo Natale e il locale è pieno delle solite
cazzate natalizie appese qua e là: festoni con le scritte MARRY XMAS e HAPPY NEW YEAR, lucine colorate intermittenti, stelle
filanti attorcigliate alle spine delle birre—birre dai prezzi ritoccati per coprire le spese d’acquisto delle solite cazzate natalizie,
degli striscioni MERRY XMAS e HAPPY NEW fucking YEAR, delle stelle filanti, delle lucine intermittenti, dei cappelli che
indossano i baristi.
Insomma, prelevati i soldi, mi siedo e ordino. Il barista mi serve e, dopo avermi dato il resto, mi dice Buon Natale e io gli
dico Fatti i cazzi tuoi e lui mi guarda storto e si sistema il cappello come un pugile che sbatte i guantoni prima di colpire o un
toro che sfrega lo zoccolo sbuffando dal naso—solo che lui non è né un pugile né un toro e non ha né zoccoli né guantoni: lui è
un barista rincretinito e indossa uno stupido cappello da Babbo Natale.
Passa un’ora.
I doppi whisky si rincorrono lungo l’esofago come vecchi amanti ritrovati.
Sono uscito quasi mezza giornata fa, e oggi tutto avrei pensato, tranne di ritrovarmi qui nella City, seduto a uno
scomodissimo sgabello del bancone di un pub mai visto prima, con gente mai vista prima, il cappello sgualcito sul ginocchio e
nella mente lo sguardo furbo di quel farabutto di Kar, i fiocchi di neve inarrestabili e soffici, la mia spossatezza mentale e
l’immagine di Michelle con la sua famiglia, raccolti attorno al camino e all’albero di Natale, in attesa che scocchi la mezzanotte
per scambiarsi i regali.
Stanco di whisky, voglio bere qualcosa di più liquido e acquoso, magari una birra.
«Una pinta di lager sovrapprezzo, please,»—dico proprio così.
Il barista non coglie l’umorismo. Mi guarda storto e mi strappa i soldi di mano con disprezzo.
«Bella battuta,» dice una voce di donna alle mie spalle. «Buy me an overpriced drink?»
È Dorothy, che mi ha raggiunto.
«Non ci credo,» dico. «Ce l’hai fatta.»
«Mio marito m’ha chiamato per dirmi che si trattiene con dei colleghi,» dice Dorothy. «Magari pure lui è in un posto come
questo.»
«Che prendi?»
«Cognac e limonata,» dice Dorothy al barista.
«Fanne due,» dico io, buttando giù mezza pinta.
«Single or double?» chiede il barista.
«Che domanda,» diciamo io e Dorothy all’unisono, scoppiando a ridere un attimo dopo.
Il barista non capisce: «Quindi?»
«Double, love,» dice Dorothy. «Double.»
«Vedi?» dico io. «È questo quello che dico a mia moglie: perché uno dovrebbe stare a perdere tempo con persone del genere?
Non capiscono nemmeno una battuta così semplice.»
«Sono d’accordo,» dice Dorothy, gli occhi umidi velati da timidezza.
«Cioè, quello che dico io è: non capisco come facciano a esistere certe persone, davvero. Sembro un mezzo-nazista, lo so, ma
non me lo spiego proprio.»
«Io so solo che quando certe cose non si capiscono o non si trova una spiegazione, di sicuro c’entra la mano di Dio,» Dorothy
saggia il suo drink.
«Dio?» dico.
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«Sì, Dio,» risponde. «Sai il tipo col barbone bianco che sta in cielo e ci guarda eccetera?»
«Ahaaa,» dico. «Babbo Natale!»
Dorothy ride e ci scambiamo un sorriso malizioso.
«Sai, io non ci credo, quindi…»
«Non ci credi?» mi fa lei, col tono di chi non ha mai conosciuto un ateo in vita sua ma conosce la soluzione al problema.
«No,» dico. «Però preferisco parlare d’altro, se non ti dispiace.»
«Per me va bene qualsiasi argomento,» scola mezzo drink.
«Senti,» dico, «perché non mi parli un po’ della tua famiglia?»
«La mia famiglia?»
«Solo se vuoi,» finisco la birra e attacco col cognac & limonata. «Non è che devi.»
«No, macché.»
Ci sediamo a un tavolino nella stanza in fondo. Dorothy comincia come una mitraglietta a raccontarmi della malattia e della
morte di sua madre, della situazione di noiosa normalità che vive con suo marito, del figlio adolescente incazzato col mondo e
della sua ragazza che “ha sedici anni e già si veste da puttana”, della partenza in Australia di suo fratello, dei vecchi amici persi e
dei nuovi, ipocriti e temporanei. La chicca, la ciliegina sulla torta, però, se la lascia alla fine: sua sorella-gemella.
«Io, Phil, non so se è stato il volere di Dio oppure se sono paranoie che mi faccio solo io, però quando io e mia sorella siamo
nate, siamo gemelle, sai, però non identiche, capito? E quando siamo nate, mia sorella ha avuto un problema: non un problema
medico, però. Appena uscite, il medico s’è accorto che c’era qualcosa che non andava con mia sorella. E, difatti, lei diciamo che
ha qualche problema e io non so se è un caso o se è una specie di punizione per me…»
Dorothy scola il suo drink e io resto in silenzio. Scolo il mio e ne ordino altri due, uguali.
«Long story short: mia sorella è sorda ed ora è diventata cieca, dopo anni e anni di problemi di vista, di occhiali spessi così, di
stampelle e bastoni bianchi; poi, lei, sai, diciamo che è più bruttina, non ha mai avuto un ragazzo né un marito, figuriamoci, e
poi… poi lei diciamo che è più in carne di me. Moooolto più in carne di me: diciamo la verità: è un po’ cicciona…»
Lei ride sguaiata e io sorrido per non sottolineare la sua mancanza di tatto. Non so perché, ma mi va di ascoltare la storia
della sua sorella–gemella–diversa.
«Non mi fraintendere, per favore,» riprende Dorothy. «Le voglio bene in modo assoluto. È la persona che amo di più—più di
mio figlio. Darei la vita per lei, però non è nemmeno giusto non dire le cose come stanno, specialmente se sono cose che mi
hanno sempre fatto soffrire, perché non è facile essere “la gemella bella”, “la gemella normale”. E io ho vissuto tutta la vita con
questo peso addosso—e te l’assicuro, è difficile vivere tutti i giorni così,» Dorothy abbassa la testa e piange, il volto nascosto dalla
tenda di capelli lisci e neri.
Io le tengo lo sguardo addosso e taccio. Sorseggio il drink che la cameriera ha portato senza che ce ne accorgessimo e invito
Dorothy, senza fiatare, con un gesto, a bere qualcosa per calmarsi.
«Sai, Phil,» dice Dorothy. «Non è bello sapere di essere superiori a qualcuno che ami.»
Un silenzio lungo più o meno sessanta ore mi porta a considerare la futilità del nostro incontro e di quella chiacchierata. Non
siamo nessuno e mai lo saremo. Scompariremo assieme a sua sorella e niente alla fine, niente, avrà senso.
«Dai, beviamo,» dico, mettendo da parte i miei pensieri.
«Cheers,» dice Dorothy.
Brindiamo e beviamo. Poggio la mano sul fianco di una cameriera per farci servire. Ingollo il mio drink e ne ordino altri due.
Non contento, aggiungo due shot di tequila. Ci vengono serviti a tempo di record—siamo i clienti migliori, immagino.
Ingollati gli shot, Dorothy si alza e si sistema la camicia, assicurandosi che la stia guardando.
«E tu,» dice poi, in piedi e instabile, una mano aggrappata al bordo del tavolo, l’altra sullo schienale del divano. «Come mai
non sei con tua moglie e stai passando la vigilia di Natale da solo?»
Mi stringo nelle spalle e sto per rispondere—Dorothy mi pianta il palmo della mano davanti agli occhi: «Aspetta, me lo dici
quando torno dal bagno.»
La guardo andare in bagno, barcollante e goffa, e penso alle parole di mia moglie, quando mi dice che dovrei essere più a
contatto con gli esseri umani. Michelle pensa davvero che io abbia bisogno di tutto lo schifo in cui mi sono andato a cacciare
oggi? Non ritiene anche lei che il convivio forzato contemporaneo sia una costrizione sociale a cui tutti crediamo, ormai, ma che
nasce come presa per il culo alla pari di Babbo Natale? L’uomo delle caverne aveva bisogno di socializzare; l’uomo del Medioevo
doveva aprire i suoi confini mentali e superare superstizioni e pesti; l’uomo del Secondo Dopoguerra doveva ricostruire una
socialità su nuove basi di tolleranza contro ogni fascismo. Ma l’uomo del Duemila non ha più bisogno della socialità così come la
conosciamo: io, in casa mia qui a Londra, sono più vicino al Brasile di uno che vive in Messico.
Un lampo, una saetta, qualcuno lo chiamerebbe persino un “colpo di genio”: raccolgo il cappello, lascio sul tavolo tre
banconote da venti, guardo per l’ultima volta verso il bagno e, con un groppo in gola che preferirei sputare o ingoiare, esco in
strada e mi avvio verso il Blackfriars Bridge.
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Vedo un taxi libero, alzo il braccio e m’infilo all’interno con furia. Devo ammetterlo, mi sento in colpa per come ho
abbandonato Dorothy e questo spiega fretta e ansia. Cosa verrà in mente a Dorothy quando qualcuno le chiederà della vigilia di
Natale 2012? “Il compratore di poltrona misterioso che m’ha mollato di punto in bianco”?
«Qualcuno di fastidioso che la inseguiva?» mi chiede il tassista.
«Naaa,» dico, ma non avrei voluto aprir bocca.
«Una donna, vero?» insiste.
«Non crede che dovrebbe togliersi gli occhiali da sole mentre guida di notte?» dico, per sferrare il mio primo affondo.
«Ci vedo benissimo, non si preoccupi,» risponde, convinto di non preoccuparmi.
«Senza occhiali ci vedrebbe meglio,» dico.
«Non necessariamente,» dice. «Potrei avere un problema specifico con la luce e…»
“Oh Cristo,” penso, senza ascoltarlo. “Proprio a me mi doveva capitare un tassista sofista?”
«Non era nemmeno mezzogiorno quando sono uscito dalla sala operatoria,» continua il tassista-Protagora. «M’hanno detto
che non devo sforzare gli occhi per almeno una giornata, ma io non ce la faccio a stare a casa. Se posso, lavoro. Sono fatto così.
Però non si preoccupi, ci vedo bene e conosco Londra come le mie tasche.»
«È capace a rallentare?»
«Certo,» risponde, senza farlo.
«E perché non lo fa?» chiedo, innervosito e in parte spaventato.
«Ahaaa,» rallenta. «Pensavo mi stesse chiedendo se ne ero capace in generale, così, e basta…»
Attraversiamo Londra. Vedo strade, macchine, luci e gente scorrere fuori dal mio finestrino. Passata Marylebone, costeggiamo
la stazione di Paddington, dove mia moglie Michelle pensava mi sarei trovato alle quattro di questo pomeriggio.
Viaggiamo e per fortuna il tassista guida bene e tace: niente di meglio.
Quando ormai sento odore di casa—siamo a Kilburn, chiedo al tassista: «Scusi, mi sa dire come mai oggi ho avuto la sfortuna
d’avere gente attorno che continuava a raccontarmi le sue storie senza rendersi conto che a me non interessavano? E poi, scusi,
non capisco perché le hanno raccontate proprio a me.»
«Be’,» dice il tassista. «È Natale, e a Natale tutti sono abituati a essere circondati da familiari e amici, perciò se non hanno
nessuno, se stanno vivendo un Natale in solitudine, si aprono col primo che capita e non importa se vengono ascoltati o no: loro
vogliono solo parlare, aprire la bocca, piangersi addosso; sentirsi, se non amati, almeno vittime di una mancanza o di
un’ingiustizia.»
“È proprio un filosofo ‘sto tipo,” penso.
«È vero,» dico. «Ha ragione.»
Arriviamo a Willesden Green. Sembra un’eternità da quando ho lasciato casa stamattina.
«Va bene qui,» dico, quando siamo arrivati all’inizio della via di casa mia: non voglio che sappia dove abito di preciso. Se
volete, chiamatemi paranoico.
Pago, con mancia, e lo saluto: «Buon Natale e buona guarigione.»
«Grazie,» dice il tassista. «Bello proprio il suo cappello.»
«Grazie,» dico.
«Si addice a un uomo misterioso come lei.»
Le sue parole si perdono nell’aria gelida, ma la loro eco mi rimbalza in testa impazzita.
❄❄❄
Davanti alla porta di casa trovo la poltrona impacchettata da regalare a mia suocera. Me n’ero quasi dimenticato. Fatico a portarla
all’interno e ne macchio la confezione-regalo di feltro. La scarto e la contemplo per qualche istante, prima di buttarmi in doccia e
cancellare le disavventure di questa vigilia malata.
Sotto l’acqua tiepida, immobile e ad occhi chiusi, ripenso a Dorothy, al cartello scritto da suo padre, ai matti che hanno
creduto sul serio che il mondo sarebbe finito in un giorno e in un giorno solo. Ripenso a Dorothy e ai suoi discorsi insani, alle
sue lamentele infinite contro il niente; ricordo sua sorella–gemella–diversa, le sue parole sincere, le sue lacrime e quel suo
costante ricorso a dio e alla fede religiosa, seguito da ritirate precipitose, altrettanto costanti, in un contraddittorio edonismo
fatalista da senzadio.
In pigiama, mi congratulo con me stesso per aver vissuto una giornata epica. Mi verso un cognac e lo sorseggio fissando la
poltrona al centro del salotto, bella e solenne come un trono regale—e il Re indiscusso sono io. La Regina è nella tasca del
cappotto, che indosso assieme al cappello, così, per continuare a sentirmi misterioso. Scolo il cognac e lascio il bicchiere sul
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tavolino del salotto, su cui poggio anche la candela-Elisabetta, non prima d’averla accesa. Mi siedo sulla poltrona da regalare a
mia suocera. Comoda da morire. Ed è questo quello di cui ho bisogno adesso: morire.
Sono ubriaco per la terza quarta quinta decima ventesima volta oggi. Non ho altro da fare se non morire. Sì, devo dormire e
lasciarmi tutto alle spalle.
La corona della Regina s’è sciolta, mentre io mi osservo dall’alto del soffitto. Steso sul soffitto, guardo in basso verso la
poltrona in cui sto per sprofondare. Un riflettore punta su di me e illumina la mia sagoma sfumata e stanca. Sono al centro
dell’universo, seduto su un pianeta a forma di poltrona; il vecchio e l’austero si liquefà sul tavolino mentre il nuovo amorfo e
incolore danza come stelle cadenti davanti ai miei occhi chiusi.
Io sono l’ebbro centro magnetico di satelliti sconosciuti.
Io sono la lava morbida e fumante dei vulcani solitari.
Io sono in volo su una nuvola di fumo d’oppio.
Io sono la vita che piange cristalli di neve.
Io sono il gelo che pietrifica la vita sotto forma d’arte.
Io sono il vero e il falso.
Io sono Phil Sundance e sono vivo.
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