Wolf`s Eyes - ANTONIO MOLITERNI Scrittore

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Wolf`s Eyes - ANTONIO MOLITERNI Scrittore
Antonio Moliterni
WOLF’S EYES
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“Wolf’s Eyes”
2011 © Arduino Sacco Editore
Arduino Sacco Editore
ARDUINO SACCO EDITORE
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“Wolf’s Eyes”
di Antonio Moliterni
2011 © Arduino Sacco Editore
Direttore editoriale:
Carlo Alberto Cecchini
Gruppo redazionale Parva Inutilia Management
Cover graphics:
Luca Pellegrini
Gruppo redazionale FLOYD & MERCURY Concept
Direzione artistica: Rita Monaco
Artwork: Gruppo redazionale PIM Pictures ’68 Lab.
Art concept: Vincenzo Mazza
Coordinamento editoriale: Aurora Di Giuseppe
Web master: Veronica Sacco
Editing e impaginazione
A.G.D. Studios & PIM Graphix Lab. Studios
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A.G.D. Studio Inc.
Proprietà letteraria riservata
© 2011 Arduino Sacco Editore
Sede operativa Roma – Tel. 06/4510237
Prima edizione Aprile 2011
Finito di stampare
dal centro stampa editoriale della
Arduino Sacco Editore
Sede Regionale:Via Luigi Barzini 24 – 00157 Roma
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“Wolf’s Eyes”
Autore: Antonio Moliterni
Genere: Romanzo, narrativa, fantasy, avventura, azione
Anno: 2011
ISBN – 978-88-6354-383-4
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PREMESSA E GUIDA ALLA LETTURA
Il mondo del fantasy mi ha in qualche modo attratto ed è riuscito sempre a catturare la mia attenzione.
Tuttavia, negli ultimi periodi ho potuto constatare, sia sulla carta stampata che sui teleschermi, un
proliferare di storie sui vampiri e sulle creature della notte quali ad esempio i licantropi. Tutto ciò spesso e
volentieri, oltre che purtroppo a sproposito, nonostante le storie proposte avrebbero potuto risultare anche
interessanti.
Mi esimo dal far nomi o dal commentare le opere che hanno spopolato nel fantasy rendendolo un
genere popolato da mostri, folletti, elfi, fate, gnomi, vampiri, lupi mannari, mummie e via dicendo. De
gustibus. Purtroppo, quando un genere viene inflazionato, si satura e ha bisogno di rinnovarsi. Un po’
come accade nella musica, specie nel mondo dell’heavy metal (genere del quale sono
appassionatissimo). Quando poi ci si rinnova, non è sempre detto che la trovata funzioni o che riscuota
successo.
Personalmente, sono stanco delle storie intorno ai vampiri creati all’inizio come esseri crudeli e
assetati di sangue e successivamente divenuti cult per ragazze infatuate dell’uomo tenebroso, del suo lato
oscuro e del suo fare molto dark che oggi pare andare molto di voga anche nel metal. Anche qui i vampiri
danno dei grattacapi, che vi credevate? Ciò mi ha un po’ scoraggiato, poiché mi sono ritrovato a fare i
conti con una pochezza di idee che rasentava lo zero, idee che il più delle volte venivano copiate tra di
loro eliminando o aggiungendo solo alcuni aneddoti che rendevano la storia lievemente diversa tanto da
non poter essere considerata un plagio. Così, col fantasy ho deciso di chiudere.
Questo, almeno fino a quando non ho guardato un’immagine che mi ha colpito molto:
l’immagine di un lupo, la creatura che personalmente ritengo selvaggia per antonomasia, libera da tutto
e da tutti, in sostanza libera da ogni vincolo di sorta. Ed è stato forse questo mio lato selvaggio, che tanto
sonnecchiava nascosto in me, a destare la mia curiosità soprattutto perché il sottoscritto adora i lupi. Li ha
sempre amati, al pari delle altre creature di Madre Natura. Diciamo pure che i lupi occupano un posto
particolare all’interno della categoria dei miei animali preferiti.
Come si suol dire: “Detto, fatto!”. Ho iniziato a fare alcune ricerche sui lupi, in particolar modo sulle
leggende che li vedono chiamati in causa: ne avessi trovata una che parlasse di loro in maniera positiva!
Una!
Nelle favole di Esopo, tra le quali menzionerei la famosissima Il lupo e il pastore, si racconta che:
Un lupo andava al seguito di un gregge di pecore, senza far loro alcun male. Il pastore,
sulle prime, lo teneva a bada come un nemico e lo sorvegliava con estrema diffidenza. Ma
quello ostinata- mente lo seguiva, senza arrischiare il minimo tentativo di rapina. Così
gradatamente il pastore si con- vinse di avere in lui un custode, piuttosto che un nemico
intenzionato a danneggiarlo. Un giorno ebbe bisogno di recarsi in città, gli lasciò le pecore in
custodia e partì tranquillo. Ma il lupo seppe coglie- re l'occasione: si lanciò sul gregge e ne
fece strage sbranandone una gran parte. Il pastore, quando fu di ritorno e vide la rovina del
suo gregge, esclamò: “Mi sta bene! Quale stupidità mi ha spinto ad affidare le pecore a un
lupo?”.
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Nelle sue, Fedro asserisce:
Aesopus auctor quam materiam repperit, hanc ego polivi versibus senariis.
Duplex libelli dos est: quod risum movet et quod prudentis vitam consilio monet.
ossia:
Con metro umile, né a dure leggi avvinto, ciò ch’Esopo inventò, resi più adorno. Due
pregi ha il libricciuol: il riso move,e con saggio consiglio il viver regge.
Le più famose sono senz’altro Il lupo e l’agnello (Lupus et agnus in latino, lingua originale), già resa nota
da Esopo stesso, favola nella quale il lupo non fa certo una bella figura, risultando spregevole e vigliacco:
Un lupo e un agnello, spinti dalla sete, si ritrovarono a bere nello stesso ruscello. Il lupo era
più a monte, mentre l’agnello beveva a una certa distanza, verso valle. La fame però spinse il lupo
ad attccar briga e allora disse: “Perché osi intorbidarmi l’acqua?”.
L’agnello tremando rispose: “Come posso fare questo, se l’acqua scorre da te a me?”.
“È vero, ma tu sei mesi fa mi hai insultato con brutte parole”.
“Impossibile: sei mesi fa non ero ancora nato”. “Allora” riprese il lupo “fu certamente tuo
padre
a rivolgermi tutte quelle villanie”. Quindi saltò ad- dosso all’agnello e se lo mangiò.
Passando alle favole molto più recenti, doverosa di menzione è quella di Cappuccetto Rosso, storia
alquanto sciocca, se ci si ferma a riflettere… Come diavolo può un lupo riuscire a mangiare prima una
vecchia donna, poi sua nipote senza masticarle, proprio tutte intere? E, cosa ancora più interessante, come
accidenti funziona l’apparato digerente dei lupi? Quanto tempo ci vuole affinché i succhi gastrici compiano
il loro dovere? Senza poi parlare del guardiacaccia che spara al lupo cattivo, lo uccide e miracolosamente
nello stomaco trova bambina e nonna illese, per nulla intaccate dai succhi gastrici menzionati, oltretutto
sopravvissute alla sparatoria dello stesso guardiacaccia… È una storia che non sta proprio in piedi.
Anche le numerose leggende nordiche dipingono il lupo come un animale a volte addirittura demoniaco e
in ogni caso negativo. Infatti, tali leggende sono un ulteriore esempio in tal senso e tra di esse merita una
menzione d’onore il mito del lupo Fenrir nato dall’unione del dio Loki con la gigantessa Angrboða, assieme
alla regina degli inferi Hel e al Miðgarðsormr (enorme e mostruoso serpente nella mitologia norrena).
È curioso vedere come Fenrir, nonostante sia figlio di una divinità, abbia assunto ancora una volta le
sembianze di un lupo. Il mito narra precisamente che:
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Quando gli dèi seppero che Fenrir veniva allevato assieme a Hel e il Miðgarðsormr nella
Jötun- heimr, la terra dei giganti, decisero di farli portare al loro cospetto perché Odino
decidesse cosa farne. Le profezie dicevano infatti che da simili creature non sarebbero venute
che disgrazie. Mentre Hel fu inviata a regnare negli inferi e il Miðgarðsormr inabissato sul
fondo dell’oceano, non sapendo che fare con Fenrir gli dèi lo tennero presso di loro.
Ora, il lupo cresceva sempre più sia in ferocia che in dimensioni, tanto che solo il dio
Týr osava dargli da mangiare. Fu quindi presa la decisione di incatenarlo, ma l’impresa non
sembrava facile. Gli dèi prepararono una catena e proposero al lupo di farsi legare per
misurare la sua forza nel tentativo di romperla. Ma Fenrir la spezzò con facilità e lo stesso
avvenne con una seconda catena più robusta.
Questo modus operandi degli dèi andò avanti finché la forza del lupo crebbe così tanto da costringere
il dio Týr a sacrificare la sua mano destra tra le fauci della bestia, in modo da incatenarla. Nonostante la
forza immensa della quale il lupo era pregno, l’animale non riuscì più a liberarsi:
Dopo una discussione, si convenne che Fenrir sarebbe stato legato con Gleipnir, ma il dio
Týr avrebbe dovuto porre la sua mano tra le fauci della bestia come garanzia. Týr, pur sapendo
che così la sua mano sarebbe stata quasi sicuramente sacrificata, accettò. Ed effettivamente
Fenrir, nonostante impegnasse tutta la sua tremenda forza, non riuscì a liberarsi dalla catena
magica, tanto che tutti gli dèi scoppiarono a ridere a eccezione di Týr, cui Fenrir mozzò
all’istante la mano non appena si rese conto di essere stato sconfitto. Fu quindi presa
l’estremità della catena e fissata al suolo con due massi. Durante questa operazione, Fenrir
tentò a più riprese di azzannare i suoi carcerieri, tanto che gli infilarono una spada tra le due
mascelle in modo che non riuscì più a chiuderle. Da allora, Fenrir è incatenato sull’isola e così
dovrà rimanere sino alla fine del mondo. Folle di rabbia, il grande lupo ulula e sbava, tanto che
dalla sua saliva si è formato un fiume di nome Ván, ossia “attesa”.
Attesa.
Ma di chi o cosa?
Proseguendo la lettura della leggenda è possibile rinvenire alcuni particolari interessanti, come ad
esempio quello in cui il lupo Fenrir alla fine riuscirà a rompere la catena e a vendicarsi. Più precisamente:
Quando giungerà la fine del mondo, il Ragnarök in cui tutti i legami saranno spezzati,
persino la magica catena che lega Fenrir si scioglierà. Il lupo, nuovamente libero, attaccherà
gli dèi assieme alle altre forze del disordine e dell’oscurità. Sarà tanto grande e spalancherà
la bocca con tanta ferocia, che la mascella inferiore toccherà il suolo e quella superiore il
cielo: ma se ci fosse altro spazio, la spalancherebbe ancora di più. Fenrir divorerà Odi- no, la
suprema tra le divinità. Quindi ingaggerà una lotta mortale con Viðarr, figlio di Odino, destinato
a vendicare il padre. Víðarr fermerà la mascella inferiore di Fenrir con un piede e quella
superiore con una mano, spezzandogliele. Quindi, lo ucciderà con un colpo di spada al cuore.
Insomma: il lupo non solo darà inizio alla fine del mondo, ma ci lascerà pure le penne.
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Il tutto risulta anche in assonanza con quanto è riportato nella Sacra Bibbia, nella quale la bestia (o il
dragone, di cui nessuno conosce il nome ma solo il simbolo 666) sarà scacciata e sconfitta. Infatti, nell’ultimo
libro della Sacra Bibbia, l’Apocalisse di Giovanni (12, vv. 7–10), è possibile leggere:
«Allora avvenne una guerra in cielo. Michele e i suoi angeli combattevano contro il dragone. Il
dragone e i suoi angeli ingaggiarono battaglia, ma non poterono prevalere e nel cielo non vi fu più
posto per loro. E il gran dragone, l’antico serpente che si chiamava diavolo e Satana, il
seduttore del mondo intero fu precipitato sulla terra e i suoi angeli furono precipitati con lui.»
Tuttavia, ancora una volta il nostro amico lupo non se la passa affatto bene. Inoltre, il suo nome, Fenrir,
può essere tradotto con ulteriori appellativi, quali Vánargandr, “dèmone del Ván”, il fiume che si crea dalla
sua saliva, e Þjóðvitnir, “lupo nemico del popolo”.
Vi meravigliate?
Io no. Anche perché, leggendo ulteriori storie a proposito dei licantropi, non è che se la passino meglio.
Il licantropo (dal greco lýkos, “lupo”, e ànthropos, “uomo”, detto anche uomo, lupo o lupo mannaro) è una
delle mostruose creature della mitologia e del folclore poi divenute tipiche della letteratura horror e, solo
successivamente, anche del cinema horror ma sempre e solo in negativo. Secondo la leggenda, il licantropo è
un uomo condannato da una maledizione a trasformarsi in una bestia feroce a ogni plenilunio: la forma della
quale si racconta più spesso è – tanto per cambiare – quella del lupo, anche se non sono escluse altre forme
animalesche, per quanto siano più rare e sconosciute alla maggioranza.
Che dire poi del Conte Dracula?
Sappiamo tutti che, in quanto vampiro, creatura demoniaca e quindi figlio delle tenebre, Dracula godeva
della facoltà di potersi trasformare in un pipistrello. Ma nel libro di Bram Stoker egli ha la possibilità di
tramutare il suo corpo, tra le altre cose, in nebbia e indovinate un po’? Anche in lupo.
Insomma: sono secoli che il mio animale preferito – per lo più a rischio di estinzione – lo si dipinge
sempre e solo con colori foschi e tetri. Più oscuri della stessa pece. Alla fine, non ce l’ho fatta più: miscelando
un po’ di mitologia nordica unita agli scritti biblici e alla filosofia e religione orientale (precisamente,
all’intera cosmologia taoista della quale sono un piccolo fan), ho dato vita a una mia opera personalissima e
innovativa, avente come protagonista proprio il lupo. Per l’esattezza: un uomo e un lupo i cui destini
risulteranno inevitabilmente legati fin dalla nascita del protagonista, del quale non conoscerete il nome. Un
ragazzo dal passato oscuro e sconosciuto. Un passato ricostruito. Un ragazzo che rivelerà il suo nome solo
dopo parecchio tempo, nel corso ormai inoltrato della vicenda, ma sotto forma di pseudonimo, Stray, che
significa appunto “selvaggio”. Sempre solo dopo molto tempo, egli rivelerà anche quello che è il suo
sconvolgente passato. Inoltre Stray, pur essendo il protagonista della storia e quindi l’eroe, risulta diverso da
ogni tipo di protagonista-eroe di qualsiasi romanzo in generale e di tipo fantasy in particolare.
Stray sarà presentato come un ragazzo trasandato, sarà definito “straccione”. Insomma: uno di cui non ci
si può fidare, il classico personaggio con il quale non vorreste condividere neppure metà della vostra stanza.
Eppure, tutto ciò servirà solo a rendere giustizia a quel famoso proverbio secondo il quale l’abito non fa il
monaco. Il nostro amico, lungo il corso della narrazione si dimostrerà un personaggio davvero fuori dal
comune e straordinario, qualcuno che magari ognuno di noi, in fin dei conti, desidererebbe avere accanto.
Ma non voglio spoilerare più di tanto, altrimenti rischio di rovinarvi tutto.
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Ritornando al gusto e al senso della narrazione fantasy che vi apprestate a leggere, e accantonando
creature mostruose e licantropi, ho volutamente dato vita a un’opera che si discosta dagli ormai triti e
ritriti romanzi in circolazione per offrire ai
lettori qualcosa di più impegnato ma ricco di humor, e anche
qualcosa che presentasse a tutti il lupo, questa straordinaria creatura di Dio, in modo
straordinariamente positivo.
Per quanto concerne i riferimenti (numerosissimi) alla filosofia orientale (quella giapponese, cinese
e induista), ho cercato di essere il più preciso e attento possibile nel descrivere in primis la filosofia della
creazione dell’intera cosmologia taoista, ossia dell’equilibrio. Teoria che, vi assicuro, è risultata davvero
affascinante. Si tratta di una filosofia secondo la quale ogni cosa appartenente al nostro mondo e all’intero
universo per poter funzionare deve essere in equilibrio. La stessa creazione del mondo è spiegata dal
taoismo in maniera circolare, ma questo vi sarà tutto più chiaro fin dalla prima pagina del romanzo.
Tuttavia, tale filosofia si ferma in un punto intorno al quale si interroga: viene spontaneo chiedersi chi o
cosa abbia dato inizio all’eterno ciclo dell’esistenza, o meglio viene spontaneo chiedersi come
l’esistenza abbia iniziato a girare in cerchio. Circa quest’ultima affermazione, ammetto di avere
lavorato un po’ di fantasia, concedendomi una piccola licenza creativa.
Inoltre, a parte il primo capitolo intitolato Lupus Dei, nulla in questo libro è stato inventato.
Ad iniziare dal famoso detto orientale, secondo cui “siamo uno e parte del tutto” (laddove “parte del
tutto” è l’universo intero e l’ “uno” siamo noi singolarmente), per poi approfondire quella che è l’energia
interna e spirituale dell’individuo. La prima prende il nome di “Ki” o di “Prãna” a seconda che faccia
riferimento alla dottrina giapponese o induista, mentre la seconda può essere definita come una sorta di
apertura verso il piano astrale. A onore di quest’ultima, può essere creata e incrementata solo dopo avere
destato il sintema dei sette Chakra (il cui termine proviene dal sanscrito, lingua largamente utilizzata
all’interno del testo), il cui flusso circolatorio scorre attraverso le nostre Nadi (una sorta di tubi che
permettono ai Chakra di circolare e di incanalarsi per produrre energia).
Ogni Chakra ha un nome e ogni Chakra è posizionato in un punto particolare nel nostro corpo. Il
primo, il Muladhara, è posizionato nel plesso pelvico, ossia nei testicoli dell’uomo o nelle ovaie della
donna; il secondo, Svadhishthana, si trova nella vescica, precisamente nelle ghiandole surrenali; il terzo,
Manipura, si trova invece nel plesso celiaco (o solare), quindi nel pancreas e nell’ombelico; il quarto,
Anahata, coinvolge l’intero plesso cardiaco; il quinto, Vishudda, localizzato all’interno della tiroide e
della laringe, chiama in causa il plesso orofaringeo; il sesto, Ajna, è all’interno della ghiandola pituitaria
(ipofisi). Infine il settimo, Sahasrara, si trova nella ghiandola pineale (epifisi).
Più precisamente, si potrebbe fare un’accoppiata di ogni Chakra con il rispettivo elemento, colore o
posizionamento all’interno del corpo umano:
CHAKRA, GHIANDOLE ENDOCRINE, LUOGO
ANATOMICO E PLESSO NERVOSO
Muladhara
Svadhishthana
Manipura
Anahata
Vishudda
Ajna
Sahasrara
Gonadi (testicoli nell’uomo e ovaie nella donna).Perineo. Plesso pelvico
Ghiandole endocrine, luogo anatomico e plesso nervoso
Pancreas. Ombelico. Plesso celiaco (o solare)
Timo. Cuore. Plesso cardiaco
Tiroide. Laringe. Plesso orofaringeo
Ghiandola pituitaria (ipofisi)
Ghiandola pineale (epifisi)
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CHAKRA E COLORI
a
Muladhara
Svadhishthan
Manipura
Anahata
Vishudda
Ajna
Sahasrara
Rosso
corallo
Giallo
Verde
Rosso
Azzurro
Bianco
Arcobaleno
Rosso
Arancion
e Giallo
Rubino
verde
Blu
Indaco
Viola
CHAKRA ED ELEMENTI
Terra
Acqua
Fuoco
Aria
Etere
Luce
Vibrazioni
Muladhara
Svadhishthana
Manipura
Anahata
Vishudda
Ajna
Sahasrara
Assurdo?
No. Semplicemente è quello che in India e in quasi tutto il territorio orientale (soprattutto Giappone e
Cina) credono e non è escluso neppure che ciò possa essere falso, poiché anche la religione cattolica, quindi
quella cristiana, agli occhi dei nostri amici orientali potrebbe risultare un’eresia.
Ciò non toglie che ambo le filosofie e le religioni, pur apparendo diametralmente opposte, non possano
trovare un punto di incontro, quindi incamminarsi all’interno di una sorta di binari paralleli.
Sempre a proposito dei Chakra, ognuno di loro vede assegnato a se stesso un colore e un elemento
naturale. A questo punto, entrano in gioco i cinque elementi della natura: l’acqua, il legno, il fuoco, il
metallo e la terra i quali, combinati tra loro, danno origine ai quattro elementi mistici e alle otto forze
cosmiche. Come le cinque fasi dell’energia, le otto forze della natura sono anch’esse il risultato
dell’interazione cosmica di Yin e Yang: insieme formano gli otto trigrammi del Bagua e combinate danno
origine ai sessantaquattro esagrammi dell’I Ching.
Ulteriore menzione meritano le simbologie, tra le quali in primis va menzionato il Tao (e di conseguenza
lo Yin e lo Yang), poi il triangolo e il Bagua (letteralmente “otto trigrammi”). Tra i testi sacri della
religione taoista spicca l’importantissimo I Ching, definito “Il Libro Dei Mutamenti” o meglio dei
“sessantaquattro esagrammi”, risultando uno dei cinque classici e fondamentali libri del confucianesimo.
Fin da tempi immemorabili, questo libro è senz’altro stato il principale oracolo e la prima risorsa spirituale dei
popoli asiatici. L’I Ching non fa una vera e propria previsione del futuro, ma fornisce una chiara visione del
presente e dà indicazioni sul modo in cui affrontare il momento contingente che stiamo vivendo.
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Esso va oltre la domanda che gli viene posta, mettendo a nudo le più profonde verità della natura e del
nostro inconscio. Naturalmente, interrogando l’I Ching si ottiene anche la previsione di un determinato
evento, ma ciò dipenderà sempre dal nostro arbitrio.Tutto questo non può che risultare affascinate sia agli
occhi di chi studia e scrive che agli occhi di chi legge, soprattutto.
In questa filosofia, degna di menzione è l’aura intesa non come forza (come alcuni anime nipponici
hanno tentato di inculcarci) ma, al contrario, come stato d’animo dell’individuo. Infatti, ogni persona ha
una propria aura di diverso colore: blu, indaco, viola, rosso, grigio, bianco, nero e via dicendo. A ogni
colore corrisponde uno stato d’animo specifico, nonché una sua particolare predisposizione verso doti (o
abilità) innate quali possono essere, ad esempio, l’amore per la natura, la saggezza, la spiritualità, il
contatto col divino e altro ancora. Inoltre, l’individuo può possedere un’aura personalizzata, ossia
variopinta: ciò rappresenta il carattere spirituale del soggetto in questione.
Attenzione, però: solo chi dispone di una padronanza completa del quarto Chakra è in grado di poter
vedere attentamente l’aura di una persona. Non fatevi dunque troppe illusioni…
E il lupo?
Anche lui, soprattutto lui, avrà la sua parte. Non indifferente.
Ora passiamo all’analisi dell’ambientazione della storia e dei personaggi coinvolti, passaggio
fondamentale per comprendere appieno la storia stessa e le ragioni che mi hanno spinto a inventare due
luoghi, uno in California e l’altro in India.
Nel primo capitolo, puramente fantastico, si può assistere a una sorta di Apocalisse – la stessa,
pressappoco, che si combatté nei cieli secondo quanto riportato dalla Sacra Bibbia – tra gli angeli ribelli di
Lucifero e gli Angeli e Arcangeli capeggiati invece dall’Arcangelo Michele. Con l’unica differenza che…
Beh: la scoprirete solo leggendo!
Per quanto riguarda i luoghi e l’ambientazione, ho preferito dirottare la vicenda verso una località di
fantasia: Liberty Ville, un sobborgo californiano. Questo, onde evitare di scrivere inesattezze qualora
avessi utilizzato come luogo, ad esempio, il sobborgo di Ukiah, com’era nella mia intenzione primaria.
A conti fatti, mi è risultato molto più semplice lavorare all’interno di una città che, pur localizzata in
California, non esiste realmente, ma è possibile disegnarla e dipingerla secondo i propri gusti, senza fare
torto alcuno alle splendide città e paesi del mondo (India compresa all’interno della quale, prendendomi
una piccola licenza artistica, ho fatto sorgere il villaggio di Sarita). In tal modo, è stato semplice creare
ambientazione, luogo, personaggi e via dicendo, in maniera che la mia fantasia potesse sbizzarrirsi senza
scrivere eresie intorno a luoghi o a località reali.
Per quanto concerne i nomi dei personaggi coinvolti, a parte quello di Stray, notevole importanza
assumono quelli dei personaggi coinvolti nel primo capitolo, Lupus Dei. Tranne Ljus e Natt (presi in
prestito dalla Svezia e che significano rispettivamente “luce” e “notte”), nel primo capitolo tutti gli altri
nomi sono di natura fantastica. Ho omaggiato la Svezia scegliendo due nomi appunto svedesi, perché
dalle sue lande sta nascendo sempre più dell’ottima metal music (ve l’ho detto che sono un fanatico
dell’hard’ n’heavy!). Prendetelo dunque come una sorta di omaggio! Anche e soprattutto perché i nomi
“Ljus” e “Natt” godono entrambi di un bel suono e rispecchiano appieno l’indole di questi due personaggi.
Sempre in riferimento a nomi, luoghi, colori e tutto ciò che potrete leggere nel romanzo, l’unica cosa
che posso anticiparvi è che nulla è stato scelto a caso.
Una doverosa menzione la meritano i titoli dei capitoli, dal primo all’ultimo. Ho voluto
intenzionalmente intitolarli in modo tale da omaggiare il panorama del metal e dell’hard rock, sia
nazionale che internazionale, con la citazione di titoli di singole canzoni o di album.
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 LUPUS DEI – Band: Powerwolf, brano tratto dall’album “Lupus Dei”;
 THE COLD WHITE LIGHT – Band: Sentenced, brano tratto dall’album The Cold White Light
(“La Fredda Bianca Luce”);
 ADDICTED TO CHAOS – Band: Megadeth, brano tratto dall’album Countdown to Extinction
(“Devoto al Caos”);
 FLIGHT OF ICARUS – brano tratto dall’album Piece of Mind (“Il Volo di Icaro”);
 STRANGER IN A STRANGE LAND – Band: Iron Maiden, brano tratto dall’album “Somewhere
In Time” (“Straniero In Terra Straniera”);
 THE LONGEST NIGHT – Band: Two Of A Kind, brano tratto dall’album “Two Of A Kind” (“La
Notte Più Lunga”);
 BENEATH THE SHINING WATER – Band: Dare, brano tratto dall’album: “Beneath The Shining
Water” (“Sotto La Luce dell’Acqua”);
 SOUL KITCHEN – Band: The Doors, brano tratto dall’album “The Doors” (“Anima Da
Cucina”);
 LEARNING TO LIVE – Band: Dream Theater, brano tratto dall’album “Images & Words”
(“Imparare A Vivere);
 ESTRANGED – Band: Guns n’ Roses, brano tratto dall’album “Use Your Illusion II” (Lontani”);
 THROUGHT HER EYES – Band: Dream Theater, brano tratto dall’album “Metropolis II –
Scenes From A Memory” (“Attraverso I Suoi Occhi”);
 NIGHTMARISH REVELATION – Band: Nibelehim*, Album: “Drawing The Lines…”
(“Rivelazione Da Incubo”);
 THE SILENT FORCE – Band: Within Temptation, brano tratto dall’album “The Silent Force”
(“La Forza Silenziosa”);
 VELVET GREEN – Band: Jethro Tull, brano tratto dall’album “Songs From The Woods”
(“Velluto Verde”);
 OF WOLF AND MAN – Band: Metallica, brano tratto dall’album omonimo “Metallica” (“Del
Lupo E Dell’Uomo”);
 DRAWING THE LINES… – Band: Nibelheim*, Album “Drawing The Lines…” (“Tracciando Le
Linee”);
 IN MEMORIAM – Band: Hammerfall, brano tratto dall’album “Crimson Thunder” (“In
Memoria”);
 WAY OF SILENCE – Band: The Silence*, brano tratto dall’album “Lord Of Mercy” (“Il Sentiero
Del Silenzio”);
 DISCIPLE – Band: Slayer, brano tratto dall’album “Soundtrack To Apocalypse” (“Discepolo”)
 FADE TO BLACK – Band: Metallica, brano tratto dall’album “Ride the Lightning” (“Si
Affievolisca Di Nero”);
 THE DARK SIDE OF THE MOON – Band: Pink Floyd, Album: “The Dark Side Of The Moon”
(“Il Lato Oscuro Della Luna”);
 WE ONLY SAY GOODBYE – Band: Fates Warning, brano tratto dall’album “Parallels”
(“Soltanto Noi Diaciamo Addio”);
 UNIA – Band: Sonata Arctica, brano tratto dall’album “Unia” (“Sogni”);
 THE SILENT ENIGMA – Band: Anathema, brano tratto dall’album “The Silent Enigma”
(“L’Enigma Silenzioso”);
 ONLY – Band: Anthrax, brano tratto dall’album “Sound Of the White Noise” (“Da Solo”);
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 BURN – Band: The Cure, brano tratto dalla compilation “The Crow O.S.T.” (“Bruciare”);
 MY OWN PRIVATE ARMAGEDDON – Band: Slowmotion Apocalypse*, Album “My Own
Private Armageddon” (“Il Mio Stesso Armageddon Privato);
 DANCERS TO GOD – Band: Nibelheim*, brano tratto dall’album: “Drawing The Lines…”
(“Ballerini Di Dio”);
 BLACK SUNRISE – Band: Kreator, brano tratto dall’album “Outcast” ( “Alba Nera”);
 LIGHT INTO THE DARKNESS – Band: Rage, brano tratto dall’album “Reign Of Fear”
(“Luce Nell’Oscurità”);
 EYES OF WRATH – Band: Testament, brano tratto dall’album “The Gathering” (“Gli
Occhi Dell’Ira”);
 ANGEL OF DEATH – Band: Slayer, brano tratto dall’album “Reign In Blood” (“Angelo
Della Morte”);
 STRONGER THAN HATE – Band: Sepultura, brano tratto dall’album “Beneath The
Remains” (“Più Forte Dell’Odio”);
 SILENT LUCIDITY – Band: Queensrÿche, brano tratto dall’album “Empire” (“Lucidità
Silenziosa”);
 ANCIENT SPIRIT RISING – Band: Domine*, brano tratto dall’album “Ancinet Spirit Rising”
(“Spirito Antico In Aumento”);
 SPIRIT IN BLACK – Band: Slayer, brano tratto dall’album “Seasons In The Abyss” (“Spirito
Nel Nero”);
 SOUL ON FIRE – Band: H.I.M., brano tratto dall’album “Love Metal” (“Anima In
Fiamme”);
 RIDE THE LIGHTNING – Band: Metallica, brano tratto dall’album “Ride The Lightning”
(“Cavalca Il Fulmine”);
 FOR THE SAKE OF REVENGE – Band: Sonata Arctica, brano tratto dall’album “Unia”
(letteralmente: “Per Amor Di Vendetta”);
 DUST IN THE WIND – Band: Kansas, brano tratto dall’album “Dust In The Wind”
(“Polvere Nel Vento”);
 BEFORE THE WAR – Band: Helloween, brano tratto dall’album “The Time Of The Oath”
(“Prima Della Guerra”);
 PRAYER – Band: Disturbed, brano tratto dall’album “Believe” (“Preghiera”)
 TWILIGHT OF THE GODS – Band: Bathory, Album “Twilight Of The Gods” (“Il Tramonto
Degli Dei”) 1.
.
1
L’asterisco ( * ) posto in apice accanto ai nomi delle band, sta ad indicare album, brani e nomi delle bands italiane.
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L’ultimo omaggio lo dedico a Steve Conte, chitarrista e cantante statunitense. Il nome del protagonista, Stray,
è il titolo di una delle sue canzoni più belle, Stray, composta nel 2003 in collaborazione con la
compositrice Yoko Kanno. Questo brano è stato inserito come colonna sonora di apertura dell’anime Wolf’s
Rain, stupendo anch’esso a dire poco.
Inutile aggiungere che avrei voluto menzionare molte più rock’n’ metal band, ma il panorama
dell’hard’n’heavy è talmente vasto che sarebbe stato impossibile citarle tutte, o almeno, citare le mie preferite.
Allo stesso modo, avrei davvero voluto omaggiare le metal band italiane, molto poco conosciute anche a livello
nazionale, ma non seconde a nessuno.
Prima di lasciarvi leggere questa mia opera, desidero ringraziare tutti coloro che in qualche modo hanno
contribuito a far sì che vedesse la luce.
In primis, tra tutti ringrazio mia mamma Angela, fan numero uno e dichiarata del sottoscritto: ha letto tutto il
libro dandomi qualche suggerimento sulla stesura. Sapete: lei è una che i romanzi se li divora… in ogni senso. A
seguire, ma non per questo seconda, un’altra delle mie fan dichiarate e dal grande cuore d’oro: Stefania – alias
“Snow White” – Salladini, la singer dei Nibelheim, una delle band omaggiate tra i titoli dei capitoli e in più di
un’occasione. Altro mio sostenitore e fedele amico fraterno è Michelangelo Sassanelli, con il quale ho condiviso
molto, tanto che non passa giorno senza che io ringrazi Dio per avermi dato l’opportunità di conoscerlo. A
seguire, tutti coloro che hanno contribuito a indossare la veste di critici, tra i quali doverosi di menzione sono i
fratelli Giglio, Roberto e Francesco, miei carissimi amici; il mio compagno d’avventura neolaureato e Dottore in
Economia e Commercio, Vito Iacovone; Maurizio Massari con il quale abbiamo condiviso, assieme al Dottor
Vito, l’avventura dell’esame di statistica all’Università degli Studi di Bari, Facoltà di Economia; mio fratello
Sandro, il quale altro non ha fatto che divorarsi il racconto in tempi da record. Infine, ma non per questo ultima,
mia zia Feliciana, anche lei nei panni del critico e anche lei divoratrice di romanzi, senza risparmiare anche in
questo caso i doppi, ma anche tripli, sensi.
Ringrazio i miei compagni fraterni di avventura, Dario e Giacomo Picca, con i quali ho avuto la fortuna di
condividere la passione per la musica e la gestione del mio sito Internet dedicato a essa: The Empty Dream Webzine. Si tratta di due persone che, se le definissi splendide e speciali, risulterei solo superficiale. Il portale
che gestiamo è totalmente dedicato alla musica, dalla a alla z, soprattutto al supporto dell’underground nostrano
e alla sua valorizzazione sul territorio nazionale e internazionale.
Un ringraziamento particolare, concedetemelo infine, è tutto rivolto al mio papà, senza il quale Wolf’s
Eyes non avrebbe probabilmente mai visto la luce.
Grazie tante, papà.
Tutti voi indistintamente, chi più chi meno, avete contribuito alla genesi e al parto di Wolf’s Eyes e a tutti
voi vanno i miei più sentiti ringraziamenti, dal profondo del mio cuore.
Senza di voi Wolf’s Eyes non sarebbe mai nato.
Grazie a voi tutti.
Antonio.
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Non mi rimane quindi che auguravi una buona lettura, sperando vi sia gradita.
Una lettura nella quale avrete occasione di apprendere non poco dalla stupenda filosofia orientale: i
suoi significati, la sua religione e i suoi insegnamenti.
Filosofia e religione che ho cercato di far intrecciare con la nostra, ossia quella cristiana. Questo, senza
fare alcun torto a nessuna delle due.
Buona lettura a tutti.
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C’era qualcosa senza forma e perfetto prima che si originasse l’universo. Esso è sereno. Vuoto. Solitario.
Immutabile. Infinito. Eternamente presente. Esso è la Madre dell’universo.
Per mancanza di un nome migliore io lo chiamo Tao. Esso fluisce attraverso tutte le cose, dentro e fuori, e
ritorna all’origine di tutte le cose. Il Tao è grande, l’universo è gran- de, la Terra è grande, l’uomo è grande.
Questi sono i quattro grandi poteri. L’uomo segue la Terra, la Terra segue l’universo, l’universo segue il Tao. Il
Tao segue solamente se stesso.
(Tao Te Ching)
L’esistenza, la vita e l’essenza di ogni cosa, di ogni essere vivente è “tutto e parte di tutto”. Non c’è un
punto che ne segni l’origine come non c’è un punto che ne segni la fine, per- ché tutte le cose dell’universo sono
soggette a un eterno ciclo e la loro esistenza non procede in linea retta.
Questo non può essere concepito in modo spontaneo dalla mente umana, in quanto in apparenza all’uomo
sembra che le cose procedano in linea retta, perché la logica umana percepisce l’esistenza come un infinitesimo
di quanto sia in realtà, non permettendo di vederla e/o di concepirla nella sua interezza. Così come un cerchio,
visto da un infinitesimo di quello che è, appare come una linea retta.
Concependo il ciclo come il cerchio e fissato un punto di origine, lo si potrebbe percorrere tutto dall’una o
dall’altra direzione. In entrambi i casi, si giungerebbe a un quesito di fondo: il punto dove il cerchio finisce, ma al
contempo inizia, arrivando in tal modo al punto stesso dal quale si era partiti. È questo il grande mistero che
avvolge l’universo, che funziona in modo ciclico e non lineare e che quindi non può essere stato creato da
qualcosa che esisteva prima, altrimenti anche questo qualcosa dovrebbe essere stato creato da qualcos’altro e
questo qualcos’altro da qualcos’altro ancora.
Viene spontaneo chiedersi chi o che cosa abbia dato inizio all’eterno ciclo dell’esistenza, o meglio: come
l’esistenza abbia iniziato a girare in cerchio…
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Dall’antica saggezza vedica, un’invocazione affinché possiamo essere Uno nella Verità:
Asatoma Sad Gamaya Tamaso Ma Jyotir Gamaya
Mritiorma Amritam Gamaya
Dal non-Essere conducimi all’Essere dalla Tenebra conducimi alla Luce
dalla Morte conducimi all’Immortalità.
(Brihadaranyaka Upanishad – I, 3,28)
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WOLF’S EYES
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LUPUS DEI
In principio era il caos.
Il signore del caos – entità sconosciuta né malvagia né buona – dominava incontrastato sul mondo e nel
mondo stesso vigeva l’oscurità totale.
La Terra, il nostro pianeta così come lo conosciamo oggi, a quei tempi era molto diversa. Il sole non
illuminava il manto terrestre, avvolto da fitte nubi, e non vi era ordine alcuno. Sulla Terra vigevano schiere di
demòni e di divinità che, da tempi immemori, erano perennemente in lotta tra loro. La lotta per il predominio
delle terre emerse, dei mari, dei cieli e del sottosuolo sembrava non voler volgere mai al termine. Infatti, se
avessero trionfato le divinità, le entità pure e immacolate, allora nel mondo avrebbe regnato la pace. Invece,
qualora a trionfare fossero stati i demoni, entità malvagie e prive di anima, l’intero pianeta sarebbe piombato
nell’oscurità totale.
Le schiere delle divinità, capeggiate da Arch (che nel linguaggio divino significa “Arciere di Luce”), dopo
un’estenuante battaglia all’ultimo sangue riuscirono a fermare, seppur temporaneamente, le schiere dei demòni.
La lotta pareva quindi volgere a favore delle divinità.
Il sovrano degli inferi Sherga (che nella lingua dei demòni significa “Spirito delle Tenebre”) stipulò un patto
con il signore del caos. Il signore del caos accettò e strinse con Sherga un’alleanza di sangue, dandogli in moglie
sua figlia Therma (che nel linguaggio dei demòni significa “Morte”). Una volta stretto il patto con il proprio
sangue, Sherga si confinò per due lunghi anni negli inferi, finché la sua sposa non diede alla luce un figlio. Al
principe degli inferi fu dato il nome di Natt (come già spiegato, nella lingua dei demòni, “Notte”), poiché i suoi
occhi emanavano un tetro bagliore paragonabile soltanto a quello delle tenebre.
Tuttavia, in quel lasso di tempo la guerra non vide mai interruzione alcuna, tanto che durò altri venti
interminabili anni, fino a quando Natt fu posto a capo delle schiere demoniache che, grazie ai poteri del loro
principe, acquisirono nuova forza e nuova linfa vitale. La battaglia si protrasse per ulteriori cinque anni, fino a
convergere verso i territori orientali, sui quali pareva sarebbe volta al termine.
Ambedue gli schieramenti apparivano estenuati da quella lotta secolare e apocalittica: ormai, le perdite
dell’uno e dell’altro erano divenute moltissime. Laggiù in Oriente gli eserciti sostarono per un breve periodo: la
guerra sembrava essersi interrotta, ma quella che pareva essere una sorta di armistizio si rivelò soltanto la quiete
che avrebbe preceduto una terribile tempesta.
In quei brevi periodi di temporanea e apparente calma, Arch pose accanto a sé sua figlia, Ljus (ossia
“Luce”) a guida delle forze divine. La guerra riprese ancora più forte, ancora più terribile, ancora più devastante.
Fu uno scontro durante il quale, ancora una volta, demòni, schiere Angeliche e divinità continuarono a rimanere
apparentemente ai medesimi livelli. Fu proprio in quei tempi che Ljus e Natt si affrontarono. La battaglia
raggiunse il suo culmine: l’epico scontro all’arma bianca tra i due principi guerrieri era ormai prossimo. Tutto
ebbe inizio: la battaglia delle battaglie, lo scontro che avrebbe deciso le sorti dell’una o dell’altra fazione. Ogni
singolo colpo, ogni singolo fendente emanava una forte luce dai colori bianco e nero. Natt e Ljus concentrarono
al massimo le proprie energie per l’ultimo colpo e, lanciatisi l’uno sull’altra assieme alle proprie spade, le
colpirono a vicenda incrociandole. In quell’istante, una terribile forza che nessuno aveva mai né visto né sentito
prima di allora si sollevò da quello che era divenuto il centro di gravità della battaglia. Al contempo, una luce dai
colori bianco e nero circondò i due guerrieri fino a divenire piccolissima e a convergere verso il punto in cui le
lame delle spade dei principi erano incrociate.
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In quell’istante, in quell’indefinito e infinitesimo attimo, sembrò quasi che il tempo si fosse fermato. A
un tratto, tosto si levò un forte vento che scaraventò ambedue gli schieramenti lontano centinaia di chilometri
dal luogo dello scontro. Alle spalle di Natt, assieme a quel terrificante vento risplendette una luce bianca e
luminosa, mentre alle spalle di Ljus lo stesso vento che aveva scaraventato fuori dal raggio della battaglia le
sue armate fu seguito da una luce oscura senza precedenti. Il terreno sul quale stavano scontrandosi Ljus e
Natt si spaccò in due, dividendo il campo di battaglia. I due guerrieri si risollevarono e si lanciarono con
tutte le loro forze l’una sull’altro. Tuttavia, nell’impatto furono trafitti entrambi dalla spada avversaria e
caddero al suolo in fin di vita per il corpo dilaniato da queste lame.
La luce che, poco prima loro stessi avevano creato, quella luce dai colori bianco e nero perfettamente
equilibrata, si posò lentamente sui loro corpi e, mescolatasi al loro sangue, infuse nuova vitalità, nuova forza
e vigore a entrambi. Una volta tornati in piedi, i due principi dell’oscurità e della luce deposero
le armi, trafiggendo contemporaneamente il terreno con le proprie spade, che rimasero perfettamente
in equilibrio essendovi state conficcate l’una di fronte all’altra, in modo parallelo.
Dopo quel gesto, i due guerrieri si trasfigurarono in volto. Gli occhi di Ljus mutarono: da azzurra come il
cielo, la pupilla divenne nera e l’iride nera divenne a sua volta azzurra. Allo stesso modo, mutarono anche gli
occhi di Natt, la cui pupilla divenne bianca come la luce e l’iride nera come le tenebre che egli rappresentava.
Ljus posò i palmi delle sue mani su quelli delle mani di Natt. I due principi erano l’uno di fronte
all’altro, immobili e si fissavano negli occhi, senza proferire parola alcuna. A un tratto, sollevarono le mani e
posarono i palmi gli uni su quelli dell’altra: ed ecco che una nuova e più intensa luce, accompagnata da
un’altrettanta nuova e più intensa forza, scaturì da quel gesto e ricoprì l’intero globo terrestre. Si trattava di
una luce che pareva non avere un colore definito, le cui sfumature erano bianche, grigie e nere. Una luce che
molto lentamente assunse una forma corporea diversa rispetto a quella dei demòni e degli Angeli, una forma
che iniziò ad assumere sembianze animalesche. Un nuovo essere era nato dalla congiunzione energetica
creata dall’unione delle mani dei due principi guerrieri. Tale bestia, nata dalla fusione di elementi quali
spirito, luce e tenebra, mano a mano che la luce andava dissolvendosi, assunse le sembianze di un lupo. Il
lupo assorbì tutti i poteri di quella nuova e straordinaria energia. Natt e Ljus vi si prostrarono.
Arch, Sherga e Therma, dopo un tale prodigio si precipitarono sul campo di battaglia ormai desolato,
fatta eccezione della presenza di Natt e Ljus. Sherga balzò sul lupo per ucciderlo e assorbirne la forza,
l’energia e il vigore, in modo tale da poter uccidere Arch e porre fine alla guerra. Arch, intuite le intenzioni
del suo avversario, tentò di fermarlo. In soccorso di Sherga intervenne la sua sposa, la quale si mise di fronte
al marito per difenderlo dalla spada di Arch, ormai sfoderata, pronta a trafiggere il cuore del nemico. Ma fu
il cuore di Therma a essere trapassato da parte a parte: la regina degli in- feri cadde al suolo priva di vita.
Sherga, preso dalla disperazione, afferrò la sua spada e colpì Arch, che parò il colpo. Arch e Sherga
diedero inizio a un nuovo e più terrificante scontro. Solo allora Natt e Ljus, sollevatisi da terra, si voltarono
verso i rispettivi padri, mentre il lupo si nutriva del sangue di Therma.
La bestia acquisì una forza ancora più devastante della precedente, una forza che fece sì che lo stesso
lupo si lanciasse con tutta la furia che aveva in corpo su Arch e su Sherga. Il lupo con la sua sola zannata
uccise Sherga e azzannò il braccio destro di Arch, staccandoglielo e scaraventandoglielo lontano dal campo
di battaglia. Infine, nutritosi del sangue che sgorgava dal corpo di Sherga e dal braccio di Arch, la belva mutò
ancora: l’iride dei suoi occhi divenne rossa come il sangue e la pupilla divenne gialla come la luce. Il suo
corpo ingigantì terribilmente, fino a raggiungere una dimensione spaventosa e pari solo alla sua forza ed
energia spirituale. Il nuovo lupo, l’essere più spaventoso che si fosse mai visto in tutti i tempi, emanò un
ululato assordante udibile in tutto il mondo. Gli fu posto il nome “Sherma”, nato dalla fusione di Sherga e
Therma, nonché frutto dello stesso sangue di Arch, il quale però fu risparmiato. Tuttavia, Sherma risultava
essere divenuto troppo potente.
Seppure in fin di vita, Arch intuì il pericolo di quell’energia che la creatura sprigionava, un’energia
illimitata dagli infiniti poteri la cui forza avrebbe potuto sconfinare ulteriormente e divenire incontrollabile
dallo stesso Sherma.
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Il Signore del Caos, di fronte a quelle scene strazianti e dilaniato dal dolore nell’aver veduto la propria figlia
morire, non poté restare ancora in disparte. Dunque, intervenne e impose a tutti la fine immediata della battaglia
ma anche dell’intera guerra, che ormai da troppi anni aveva pervaso e martoriato tutto il pianeta. Non essendovi
più alcuna ragione per proseguire la lotta a causa del decesso del signore degli inferi e della sua sposa, nonché a
seguito della mutazione subita nel corpo e negli animi di Natt e Ljus, Arch usò le sue ultime forze per incatenare
Sherma e per farlo sprofondare giù nei meandri della Terra, in modo tale che in quel luogo il lupo, incatenato
dalla stessa energia che aveva mantenuto in vita Arch, non avrebbe mai potuto emergere nella sua forma
corporea. Arch morì e il suo corpo, raccolto da Natt e Ljus, fu spogliato della sua armatura all’interno della quale
vennero imprigionati i poteri di Sherma. Lo spirito del lupo fu dunque imprigionato all’interno di un’armatura
mentre la belva, tornata alle sue dimensioni originali e privata di ogni potere sovrannaturale, fu lasciata libera
di andarsene.
L’armatura che racchiudeva lo spirito del lupo, la forza più potente che in ogni tempo e in ogni luogo
nessuno aveva mai neppure immaginato, fu conservata in uno dei posti più remoti dell’Oriente.
Nello stesso tempo, Natt e Ljus misero fine alla battaglia e alla guerra, della quale non vi furono né vincitori
né vinti. Il principe delle tenebre, risorto a vita nuova assieme alla principessa della luce, pose un guardiano
all’armatura, lo stesso signore del caos che decise di commemorare quel giorno chiamandolo “Lupus Dei”.
Inoltre, per fare ammenda della morte di Therma, egli conferì parte del suo spirito all’armatura che lo
avvolse. Tuttavia, così facendo perse gran parte dei suoi poteri, divenendo un essere mortale.
Il Signore del Caos, successivamente chiamò a sé Natt e Ljus e ordinò loro di ritirarsi ognuno con le
proprie schiere e ognuno nei propri territori.
Finalmente, la guerra terminò.
L’alba di una nuova epoca era soltanto agli inizi. Un’epoca nella quale la Terra avrebbe smesso di essere
popolata da demòni e da divinità, ma solo dalla flora e dalla fauna. Per mano di Ljus e Natt, la Terra fu ricoperta
di una luce che generò tutte le cose.
Nel corso degli anni a venire, la Terra mutò sia morfologicamente che antropologicamente, mentre gli esseri
umani divenivano i suoi nuovi sovrani.
Giunse il momento in cui, trascorso un periodo indefinito di tempo, il signore del caos sentì mancare le
proprie forze. Avendo compreso che non gli rimaneva ancora molto tempo, chiamò a sé un uomo al quale conferì
tutta al sua conoscenza. A costui fu affidato anche il compito e l’onere di custodire l’armatura di Sherma o, come
dopo secoli fu chiamata, la Sherma. Ogni custode, a sua volta, avrebbe dovuto ripetere lo stesso rituale e ogni
custode, a costo della sua stessa vita, avrebbe dovuto custodire quel potente segreto, quella forza devastante da
tutti coloro che, spinti dal proprio egoismo e dalla propria sete di potere, avrebbero voluto impadronirsene.
Infine, ogni guardiano acquisiva dal suo predecessore nuove conoscenze, nuovi poteri e virtù, diventando in tal
modo saggio e forte.
Nei secoli dei secoli.
Nel corso dei millenni a venire, la Sherma e lo stesso Lupus Dei furono dimenticati dagli uomini. Questo a
causa del fatto che, tutti coloro i quali tentarono di impossessarsi della Sherma, non fecero mai più ritorno a casa
poiché, scontrandosi con il guardiano e con lo spirito del lupo di cui la Sherma era intrisa, finivano preda di
atroci incubi e deliri che li straziavano lasciandoli perire lentamente e in maniera dolorosa.
Pareva che chiunque anche solo si avvicinasse alla Sherma, misteriosamente impazzisse e morisse fra urla e
deliri. Nessuno dei pretenziosi avventurieri poté mai raccontare di avere solo veduto la Sherma, poiché di loro
oggi non rimangono neppure le ceneri. Questo successe ripetutamente sino ai giorni nostri. Giorni nei quali,
tanto la Sherma quanto il Lupus Dei, iniziano a divenire prima leggenda e poi mito.
Infine, diventano nulla più.
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Dio è tutto e tutto è Dio. Dio impregna e pervade l’universo in ogni sua parte; l’universo in ogni sua parte
rifluisce e si scioglie in Dio quale Uno-Tutto.
Ogni essere umano, essendo parte dell’universo o della natura, è parte di Dio.
Quando il singolo è liberato attraverso l’illuminazione (moska) tale da sperimentare e capire pienamente
una simile relazione, allora e solo allora, la parte diventa non dissimile dal tutto.
(Michael P. Levine, Pantheism)
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THE COLD WHITE LIGHT
«Ti ho portato le orchidee. So che questi fiori ti piacevano molto.»
Posò le orchidee in terra, accanto alla fredda lapide sulla quale era scolpito un nome: il nome di una
giovane ragazza che aveva combattuto come una leonessa e che alla fine, pur dovendo deporre le armi, se ne era
andata da vera eroina.
Una lacrima iniziò a scorrere lentamente sul suo volto e si portò una mano verso le ciglia per asciugarsela:
non voleva, anzi, non doveva piangere. Prima che lei se ne andasse, le aveva promesso che sarebbe stato forte e
che avrebbe continuato a combattere anche per lei. Le aveva promesso inoltre che non si sarebbe mai arreso.
Mai.
Rimase lì, di fronte a quella lapide, fissandola e riportando alla mente i ricordi di quella estate e del suo
viaggio negli Stati Uniti con lo scopo di poter ammirare la bellissima Catena delle Cascate. Tutto per riportare
alla mente i momenti più belli trascorsi insieme e anche il loro primo, rude incontro che
riusciva ancora a farlo sorridere, almeno quel tanto che bastava per non farlo piangere.
Come aveva potuto una persona come lei, così delicata e pulita, provare dei sentimenti nei confronti di uno
come lui? Come aveva potuto provare dell’affetto nei suoi riguardi? Della bellezza di quei luoghi incantati
che avevano visitato insieme, ormai in lui rimaneva poco più che un effimero ricordo. Il tempo era trascorso
inesorabile ed era rimasto solo, lì, con lo sguardo fisso nel vuoto. Non si rese neppure conto che il sole stava
tramontando. In realtà, non si rendeva più conto di nulla.
Le uniche parole che le sue labbra riuscirono a sussurrare furono: «Perdonami, Kim…»
Era sera.
Era calato il tramonto e con esso era calato anche l’ultimo spiraglio di luce.
Ma, proprio in quel momento, proprio in quel lasso infinitamente piccolo mentre tutto calava volgendo al
termine, egli fu certo che lei e il suo spirito stavano ascendendo.
Questa era l’unica cosa che riusciva ancora a illuminare quel luogo.
Un luogo rimasto desolato, privo ormai di bagliore alcuno.
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L’uomo non è il centro della vita, la misura delle cose, ma è totalmente e soltanto
parte della natura.
La vita umana nasce da una certa condensazione di etere primordiale: fin che tale condensazione
persiste, viviamo; quando essa si discioglie e disperde, la morte ci coglie. Alla fine dell’esistenza, con la
morte l’uomo giunge al riposo, ritorna alla perfezione integrale, l’unione con Dio, il cosmo.
Niente ha presa sul corpo quando lo spirito non è turbato. Niente può nuocere al saggio avvolto
nell’integrità della sua natura, protetto dalla libertà del suo spirito.
(Daozang, ossia: “Il Tesoro del Dao”, il testo sacro della religione taoista)
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ADDICTED TO CHAOS
Tutto ormai era deciso e tutto l’occorrente era quasi pronto. Avrebbe viaggiato. Di nuovo, ancora una
volta, sempre oltreoceano, sempre con una meta ignota e da stabilirsi.
Almeno questi erano i presupposti base del suo piano. Un piano denominato per l’occasione Flight of
Icarus, in memoria degli Iron Maiden dei tempi d’oro. Oppure, come gli piaceva anche soprannominare,
“Piano Malefico”. Questo lo capirete tra poco.
Cercate di immaginare la stanza di un ventiseienne. Un ragazzo apparentemente normale e, sempre
apparentemente, senza problemi. Un po’ di confusione qui e un po’ lì che, tutto sommato, rispecchia la stessa
essenza dell’uomo. Ma in quella stanza, abbastanza piccola per farci entrare al massimo un paio di persone e
farcene dormire solo una, c’era proprio di tutto a partire dalla scrivania sulla quale era posato un foglio
enorme con sopra scritto “Piano Malefico”, mentre la parete era completamente ricoperta da poster di heavy
metal band, il letto era ricoperto invece da ricambi intimi, magliette e vestiari vari, infine un enorme zaino da
campeggio era gettato in un angolo, lo stesso angolo che doveva spartire assieme a due chitarre, una acustica
(una bellissima Washburn amplificabile) e un’altra elettrica (una Gibson Les Paul 1958). Come se ciò non
fosse sufficiente a descrivere il caos, o “l’entropia di casa mia” come egli l’aveva soprannominato, sopra ai
vari poster se ne trovava un altro, l’ennesimo forse: quello di un planisfero, un’enorme mappa geografica che
andava dall’oriente all’occidente.
Questo ragazzo era un tipo a cui piaceva molto viaggiare ed esplorare luoghi nuovi, meglio se sperduti e
meglio ancora se dominati dalla natura selvaggia, quindi incontaminati. Ma era un tipo che non scordava
certo alcune esperienze avventurose, come quella del viaggio in India nella quale era capitato per errore in un
villaggio sperduto e dimenticato da Dio. Villaggio in cui era stato accolto più che volentieri dagli
indigeni del luogo, gente per bene e in armonia con la natura e l’intero universo, gente che si cibava (e che
l’aveva fatto nutrire) sia di animali che di insetti dei quali è meglio che la mente di un essere umano non
conosca l’esistenza. Fidatevi.
Ciò che di quell’esperienza indiana gli rimase bene impresso nella memoria fu il calore degli abitanti, la
loro bontà, ma anche il fatto che pendessero dalle labbra del santone di turno, un asceta, anzi: l’asceta del
villaggio. Una sorta di obelisco umano della verità e dell’onniscienza tutta che, col passare dei mesi, aveva
imparato a conoscere e al quale era rimasto molto riconoscente, poiché aveva appreso parecchi insegnamenti,
soprattutto spirituali, al punto tale da chiamarlo “maestro”.
Tuttavia, allo stesso modo rimasero indelebili i ricordi degli insetti: quei piccoli mostriciattoli creati non
si sa per quale ragione, con una serie indefinita di zampette, antenne e accidenti vari, divenivano il succulento
pasto della giornata che gli indigeni del luogo lo avevano costretto a mangiare – altrimenti si sarebbero offesi
–, il tutto sotto lo sguardo dell’asceta che in realtà se la rideva sotto i baffi.
Ergo: evitare di ritornare in India o in luoghi simili.
Ora si ponevano due problemi: il primo era quello inerente a dove andare, spazio abbastanza indefinito e
quindi notevolmente grande. Ragione per cui, pur avendo racimolato un po’ di soldini con alcuni lavoretti
saltuari, e avendo dunque i risparmi necessari da destinare al proprio viaggio, veniva a por- si il problema
conseguente al primo: come scegliere la meta.
Scartata l’Italia, suo paese natio, gli rimaneva il resto del mondo meno che l’India.
Impiegò all’incirca una trentina di minuti per prendere la decisione più saggia (o almeno quella che egli
riteneva tale), per poi approdare a quello che gli parve l’unico vero modo scientifico e razionale, o meglio il
più scientifico e il più razionale: affidarsi ai saggi insegnamenti della “Random Walk Theory” tralasciando i
vari sistemi matematico-probabilistici che qualche anno addietro lo avevano fatto approdare in India. Modelli
matematici che non ho alcuna intenzione di starvi a descrivere, altrimenti impazzireste (era quello che
stava per accadere proprio a lui, creatore degli stessi…).
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Ebbene: planisfero ben diviso, piazzato sulle pareti della stanza e, come appreso dalla “Random Walk
Theory”, occhi bendati e freccetta in mano. Questo a seguito degli insegnamenti della stessa che afferma
l’inutilità degli esperti nella previsione dell’andamento dei mercati finanziari, poiché quest’ultimo è del tutto
casuale e senza rigore logico alcuno, di conseguenza risulta impossibile poter costruire un portafogli di tipo
efficiente e immunizzato dal rischio di oscillazioni, anche piccolissime, del tasso di interesse. A sostegno di tale
teoria veniva affermato (e dimostrato!) che persino una scimmia bendata avrebbe avuto migliori opportunità di
scegliere la composizione ottimale di un portafogli efficiente (composto da strumenti finanziari di natura varia)
rispetto a un analista tecnico (o a un fondamentalista, che è il suo alter ego). Visto che dall’esperimento
effettuato la scimmia aveva letteralmente “smutandato” l’esperto analista economico-finanziario dimostrando di
essere molto più preparata di quest’ultimo, perché un uomo bendato non avrebbe potuto far meglio della
simpatica scimmietta?
Dunque, la freccetta fu lanciata casualmente sulla mappa geografica. Una volta certo di aver centrato il
bersaglio, il ragazzo si levò la benda e si avvicinò alla freccetta. Anche in questo caso, due furono le sorprese: la
prima, decisamente bella, fu avere scoperto di aver colpito la California, luogo assai più suggestivo dei villaggi
sperduti indiani. La seconda era un po’ meno bella della prima e fece risaltare l’idiozia dell’esperimento: quella di
avere fatto un bel buco sulla carta geografica, oltre che nel muro…
«La prossima volta, mi inventerò qualche altra cosa.» disse il ragazzo.
Sì, perché ormai ora il tempo iniziava a stringere: bisognava munirsi delle cartine geografiche ed esplorative
della zona, oltre che dei biglietti per partire. La durata della permanenza era da definirsi. Poi, bisognava pensare a
come spegnere la costante fobia per il volo che da sempre l’aveva accompagnato e che nonostante tutto riusciva
non proprio a vincere, ma quanto meno a contenere. Anche in questo caso, si sarebbe inventato qualcosa.
Una volta data un’occhiata veloce ai possibili luoghi da visitare, l’occhio non poté non rimanere
affascinato da quelle che erano le immagini della meravigliosa Catena delle Cascate dell’America
Settentrionale, la quale si estendeva per ben tre interi Stati (lo Stato di Washington, dell’Oregon e della
California). Fu questa probabilmente la cosa che più l’eccitò: poter stare a contatto con una delle meraviglie del
creato, con uno dei parti più belli che Madre Natura avesse mai donato alla Terra e ai suoi abitanti. Perché, in
verità, il nostro amico era un vero e proprio amante della natura e delle sue creature: amava il verde, le
montagne, i laghi, le foreste, i boschi. Odiava gli insetti, ma adorava ogni specie animale e vegetale che le
Cascades (così come la Catena delle Cascate viene chiamata negli Stati Uniti) potevano fornirgli in quantità
industriale, beandosi tra colline e monti per lo più di origine vulcanica e sempre per lo più inattivi.
Insomma: un vero toccasana per corpo e anima e, perché no, un sogno che si avverava. Un sogno che
avrebbe portato forse un po’ di pace al suo corpo e alla sua mente, dannatamente provati da qualche anno. Infatti,
era da parecchio che non di rado di notte comparivano gli incubi. Peggio ancora, non di rado si verificavano
alcuni dolori di forte intensità che lo facevano impazzire: forti mal di testa e forti dolori all’addome, strette al
cuore e perdita di lucidità e, seppure tutto ciò fosse momentaneo e di breve durata, aveva allarmato un po’ chi
lo conosceva. Non era una salute d’acciaio la sua, purtroppo.
Nonostante i vari pareri medici e le diverse cure, nulla pareva sortire effetto alcuno. Tuttavia, niente e
nessuno lo avrebbe distolto dall’avventurarsi tra le terre californiane: su questo punto era rimasto irremovibile.
Trascorse ancora qualche giorno nel suo paese, giusto il tempo per preparare l’occorrente necessario ad
affrontare il viaggio. Con la doverosa a precisazione che, per lui, la parola “occorrente” assumeva il seguente
significato: la chitarra (optò per quella acustica, poiché ritenne un tantino difficoltoso portarsi dietro la Les Paul
con amplificatore e compagnia); le sue politically incorrect magliettine da metallaro; i suoi album preferiti dai
quali difficilmente poteva distaccarsi (la scelta tendeva praticamente a essere infinita. Alla fine optò per
Metallica, Megadeth, Van Halen, Testament, Deep Purple, Led Zeppelin, Iron Maiden, quindi una sorta di
miscuglio tra i classici dell’hard rock e dell’heavy metal settantiano e ottantiano).
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Il resto della musica l’avrebbe infilata nel suo iPod, rigorosamente in formato mp3. Alla fine c’era da
caricare il resto, ossia quello che ogni essere senziente giudicherebbe necessario allo scopo di affrontare un
lungo viaggio: ricambi intimi e non; un beauty-case ben accessoriato e tutti i soliti comfort, provviste
comprese. Appunto: ogni essere senziente. Ma questo ragazzo in realtà, a causa del suo modo di fare alquanto anomalo, aveva deciso di estrapolarsi dall’insieme finito degli esseri senzienti per essere racchiuso in
un sottoinsieme dello stesso.
Questa appena illustratavi, signore e signori miei tutti, altro non è che la “Teoria dell’Appartenenza a
Questo Schifoso Pianeta” che ha origine dall’uso della fantastica teoria insiemistica di John Venn,
matematico inglese. Secondo la sua geniale mente vulcanica, il nostro amico viaggiatore l’aveva denominata
in questo modo bizzarro perché, come avrete capito, oltre a essere un amante del metal e, in sostanza, della
musica tutta (dove lo trovate un tizio che, nella sua stanza, ha appeso l’uno accanto all’altro i poster dei
Metallica e di Wolfgang Amadeus Mozart?) era anche un appassionato della matematica. Questo perché, se
al mondo potevano esistere (e coesistere) almeno due cose che non si sarebbero mai fermate e avrebbero,
comunque e sempre, tentato e/o cercato di evolversi, queste erano certamente la matematica e la musica e,
nell’ambito musicale, la musica metal in particolare.
Bel modus pensandi, non trovate?
Ma a lui poco importava dei giudizi della gente (in realtà, non gli importava affatto!) e gli importava
ancora meno di cosa l’avrebbe atteso una volta sbarcato in California, senza sapere neppure dove andare a
posar bandiera, in quale città o sobborgo. Ma a questo ulteriore problema avrebbe sicuramente posto rimedio
in seguito, com’era suo uso e costume fare. Anche perché, a conti fatti, non poteva andargli peggio dello
sperduto villaggio indiano, ragion per cui la decisione di affidarsi al caso, a quella che gli statistici chiamano
alea, era pressoché irremovibile. Così come altrettanto irremovibile era la decisione di affrontare il viaggio
intero da solo e di restare sempre da solo per tutto il periodo della permanenza in California. Questo in modo
tale da poter meglio sentire il contatto diretto con Madre Natura e i suoi figli. A chiunque gli avesse chiesto
la ragione per la quale preferiva restare solo piuttosto che in compagnia di qualcuno, seccato rispondeva
sovente: «Meglio soli, che in cattiva compagnia!»
Infine caricata la sua tenda da campo (una tre posti davvero comoda in certe circostanze, specie se si ha
l’intenzione di trascorrere almeno un paio di mesi in luoghi sperduti), iniziò a ponderare quello che avrebbe
potuto essere il tempo necessario della sua permanenza oltreoceano. La risposta a tale ponderazione fu: il
tempo necessario. Ossia, quel tanto che bastava a far ritornare la sua mente lucida, normale quanto una
gaussiana, soprattutto disintossicata dallo stress e dalle batoste psicologiche inflitti dal quello stupido stato
patologico.
Tutto ciò, a rigor di logica che le cose belle non durano in eterno: in realtà durano poco, pochissimo.
Pensando a questo, il nostro amico iniziò a fantasticare la possibile quantificazione matematica in termini di
intensità o di forza rivolgendo quindi la sua mente su quelle che erano le relative frequenze. Tuttavia, si
accorse che il tempo di rimanere ancora lì, a rimbambirsi di calcolo differenziale e compagnia bella, era
davvero poco e probabilmente non del tutto necessario. Quindi, lasciò ampio spazio alla fantasia e al
pensiero che il suo cervello, per un lasso temporale ancora indefinito, avrebbe goduto di un periodo di relax
totale durante il quale avrebbe cavalcato il meraviglioso Monte Shasta!
Non rimaneva che dire addio alla sua stanza e alla sua Italia, paese del quale avrebbe rimpianto poco e
nulla, visto che l’unica vera cosa che riteneva bella della sua nazione era, oltre ai patrimoni artistici e
culturali, il cibo. Tuttavia, essendo la frenesia del viaggio e quella della conoscenza di posti sperduti assai
forte, alla fine tutti quei rimpianti – matematicamente parlando – tendevano allo zero.
Dunque, l’unica parola che la sua bocca proferì fu: «Aloha!»
Detto ciò, si chiuse la porta dietro di sé e, zaino in spalla, lasciò la sua stanza. La stanza di un single
alquanto irrequieto e entropicamente instabile.
Stanza che, chissà quando, avrebbe rivisto.
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FLIGHT OF ICARUS
«Sapevo che non avrebbe funzionato, lo sapevo! Lo sapevo!»
Queste furono le prime parole che il nostro intrepido viaggiatore pronunciò non appena ebbe messo piede
all’aeroporto di Santa Monica in California.
In verità, seppure invano aveva tentato di scacciare la fobia del volo in diversi modi. A tal fine, aveva
avuto cura di prendere qualche appunto, poco prima di partire, su di un pezzetto di carta scrivendovi per
inciso: “Vari metodi scaccia malefica fobia del mio malefico volo”. A seguire, una serie semiinfinita di
misure antifobia quali, tra le altre, quella di canticchiare qualche canzone, leggere ad alta voce la morfologia
della Catena delle Cascate oppure ancora ripetere in maniera esasperata: «È solo un incubo, non è nient’altro
che un terribile incubo…»
Peccato solo che i risultati non si erano mostrati all’altezza delle sue aspettative.
Infatti, canticchiare Enter Sandman dei Metallica lo aveva terrorizzato ancora di più. Ripetere quelle
parole: “ Say your prayers, little one. Don’t forget, my son, to include everyone… Sleep with one eye
open. Gripping your pillow tight” non l’aveva certo rafforzato, almeno interiormente, né tanto meno gli
aveva iniettato la giusta dose di coraggio.
Il piano b si era dimostrato lievemente peggiore rispetto al piano a, ossia quello di canticchiare canzoni.
Il menzionato piano b altro non prevedeva che leggere a voce alta la morfologia della California e, anche in
tal caso, non erano mancate sorprese come la signora che cercava di dormire e che urlava di fare silenzio; la
hostess che gentilmente tentava di porgergli un bicchiere d’acqua ma che involontariamente, anziché
sopprimerlo (come accade a tutta la gente di questo mondo), il singhiozzo glielo aveva fatto venire; il
genitore arrabbiato a causa della lettura geografica, che non faceva dormire i suoi bambini, lo aveva
minacciato di rinchiuderlo in bagno o, in caso contrario, di gettarlo dall’aereo in volo e via dicendo.
Ore di autentico inferno, almeno così lui aveva definito il tempo trascorso sull’aereo. Inferno che non
riusciva a levarsi, almeno non troppo facilmente, dalla testa.
L’unica cosa che lo rendeva felice era l’idea che a breve avrebbe preso qualche mezzo di trasporto a caso
e che lo avrebbe condotto presso qualche località sempre casuale: la più vicina alla sua meta. Ora si poneva
giustamente il problema della “località a caso”. A tal fine, non c’erano né mura né tanto meno freccette da
lanciare. Ergo: chiedere un po’ in giro, informarsi e, non appena giunti alla cassa, accorgersi che il proprio
bancomat era stato preda di un’azione violenta di clonaggio e conseguentemente di killeraggio spietato di
qualche clonatore del suo Bel Paese.
«Non può essere, signorina, controlli meglio… Avevo parecchi soldi sul conto, altrimenti come accidenti
avrei fatto a prendere l’aereo e a ritrovarmi qui?»
La signorina alla reception era a dir poco spazientita, visto che quella era almeno la quinta volta che
ricontrollava ripetendo che sul conto vi erano, sì e no, a malapena i soldi per giungere in qualche sobborgo
californiano e che un viaggio fino alla Catena delle Cascate, con quegli spiccioli, era pressoché impossibile.
«Senta signore» sbottò innervosita la ragazza. «Guardi: glielo ripeto per l’ultima volta. Dopodiché,
chiamerò la sicurezza e…»
A quel punto, qualcuno alle sue spalle urlò: «Non ce n’è affatto bisogno! Se non si leva da qui entro
due minuti al massimo, gli servirà solo un buon medico!»
Ed ecco che finalmente, conscio del fatto che gli erano rimasti sul suo conto solo gli spiccioli per un
viaggio in qualche sobborgo californiano – che avrebbe scelto a caso – e contati i soldi nel portafogli –
sufficienti per sostenere spese non esorbitanti –, iniziò a far sua l’idea che la scalata del Monte Shasta
avrebbe dovuto rimandarla a data da definirsi.
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L’unica certezza era quella di avere pochi soldi quindi, al fine di risparmiare ulteriormente e dopo avere fatto
bloccare il suo conto, decise di abbandonare l’aeroporto e di affidarsi alla buona sorte che, almeno questa volta,
non gli voltò le spalle presentandosi, dopo parecchi chilometri, sotto forma di un autista alla guida di un furgone
diretto verso Liberty Ville, un sobborgo californiano popolato da pressappoco quindicimila anime all’interno della
Contea di Mendocino.
L’uomo alla guida del furgone lo aveva rassicurato parlandogli molto bene di Liberty Ville e della
Mendocino Country: un bel posto nel quale vivere, tranquillo, in cui il verde c’era e molto, anche se non proprio
allo stato selvaggio. Ma, come si suol dire, chi si accontenta gode e prima o poi di questo lui ne era certo:
avrebbe raggiunto le sue amate e desolate mete. Mete desolate delle quali lui non faceva altro che sognare e
chiedere informazioni, almeno fino a quando il suo autista non lo ebbe scarrozzato fino a Liberty Ville.
«Io mi fermo qui, amico» disse il tizio. «Mangio un boccone in una trattoria e poi riparto. Tu che cosa farai?»
Prima di rispondere, il viaggiatore si guardò intorno. In fondo, quella Liberty Ville non era proprio malaccio:
un bel posto, tante case con giardino e di fronte a lui c’era la vista più bella del mondo, fatta dalle montagne e
dalla natura selvaggia. Certo, non sarebbero state le Cascades, ma si sarebbe potuto accontentare. Decise di
restare in quella Liberty Ville, in quel posto abbastanza popolato ma non troppo, in cui pareva regnasse la quiete.
Quella quiete che lui desiderava da troppo tempo.
Rivolgendosi al suo amico, rispose: «Mi fermo qui. Sembra un bel posto. Sai per caso quanto distano quei
monti dalla città?»
La risposta non si fece attendere: «E che diavolo vuoi andarci a fare su quei monti? Comunque sia, non ne
ho idea. Non sono tipo da escursioni o roba simile, io. Preferisco la calma, un bel piatto fumante, il caldo e un
tetto sopra la testa. Ora che mi ci fai pensare, sono troppo legato al materasso e al mio letto. Non sopporterei
mai l’idea di doverli tradire!»
Dette queste parole e fattaci sopra una bella risata, i due si incamminarono verso la trattoria dove George,
così si chiamava l’autista, lo invitò a entrare per mettere qualcosa sotto i denti.
Eh già: gran bel posto, quella Liberty Ville…
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STRANGER IN A STRANGE LAND
Gran bel posto, Liberty Ville.
Una città ben curata, dove sorgevano un college e la Liberty Ville High School. Si trattava di una città
nella quale pareva non mancare nulla, dai locali dove sostare per mangia- re a quelli nei quali dormire, oltre
che le trattorie e gli alleva- tori di bestiame, senza dimenticare i contadini e commercianti.
Bellissimo e suggestivo era il panorama che vi si poteva godere: una catena di monti e di foreste
circondava la città dalla parte occidentale fino a nord.
La vita notturna in questa città, stando ai racconti di George, era abbastanza movimentata, ma anche un
italiano come il nostro viaggiatore senza meta avrebbe saputo ben adattarsi.
«Graziosa la trattoria, amico» fu il suo primo commento non appena entrò nel Red Moon Restaurant.
«Vedrai il cibo!» fu la risposta di George, il quale gli aprì la porta e lo lasciò entrare per primo.
George fu accolto con gentilezza dalla cameriera, una ragazzina poco più che diciottenne che lo invitò a
sedersi al suo solito posto. La ragazza ebbe invece uno sguardo un po’ diffidente nei confronti del neo
arrivato in città, il quale indossava una magliettina praticamente ridotta a pezzi dei Sonata Arctica
raffigurante la cover di uno dei loro dischi, For the Sake of Revenge; i jeans non erano in condizioni migliori
della t-shirt e le scarpe da ginnastica pareva avessero affrontato i suoli del Vietnam, oltre che addirittura la
guerra.
La ragazzina non ci pensò due volte e, squadrato il soggetto, disse: «Senti amico, se non puoi pagare, non
pensarci neppure a entrare. Figuriamoci a sederti.»
Carina la mocciosa. Non più carina nelle maniere dell’altra cameriera, una ragazza molto a modo,
apparentemente sulla ventina che, avvicinatasi ai due uomini, disse: «Salve, amico. Adesso che hai conosciuto
mia sorella, posso anche saltare le presentazioni e andare al dunque. Puoi pagare?»
«Ci avrei scommesso che eravate sorelle…»
A quelle parole, le due lo fulminarono con lo sguardo e il nostro straniero in terra straniera iniziò a
guardarsi attorno per cercare il suo amico George che, accidenti, proprio in quei momenti preziosi aveva
deciso di defilarsi in bagno e non voleva proprio saperne di venire fuori a discutere e a metterci una buona
parola. Mentre il suo sguardo era completamente perso nel vuoto, un uomo con tanto di grembiule si
avvicinò alle due “graziose” sorelline e, facendosi spazio tra loro, chiese se vi fosse qualche problema. Il
tutto senza neppure celarsi dietro a qualche allusione, bensì esplicitando a tutti i presenti che lì, in quel posto,
il problema c’era ed era tutto made in Italy.
La ragazza più grande spiegò: «Nessun problema, papà.» Ma non fece in tempo a terminare la frase,
che il nostro amico etichettato come “problema”, o meglio come “il problema”, disse: «Lui è vostro
padre? Ma dove sono capitato? In una specie di impresa a conduzione familiare?»
Decisamente una domanda stupida: gli spintoni verso l’uscita non si fecero attendere e in meno di un
minuto, senza neppure il tempo di potersi chiarire, fu messo alla porta e invitato ad andarsene via,
possibilmente senza rimettere più piede nel locale.
«Ma io ho fame! E non è vero che non posso pagare!» Furono queste le uniche parole che riuscì a
pronunciare, mentre George non veniva ancora fuori da quell’accidenti di toilette. A quel punto, non gli
restò che sedersi sui gradini e aspettare. Aspettare e aspettare ancora. Dopo circa un paio d’ore, finalmente
George uscì dal Red Moon Restaurant. Il nostro amico si era appisolato sui gradini, con le mani che
reggevano lo stomaco più brontolante che mai. George non si lasciò sfuggire la scena pietosa.
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«Ehi, tu! Ehi, amico! Sveglia! Dài, svegliati! Che diavolo ci fai qui, seduto per terra come uno
straccione?»
Con gli occhi che faticavano ad aprirsi e il cervello ancora in fase di stand-by, il ragazzo rispose:
«Sarà perché mi hanno trattato come uno straccione. Ma si può sapere dove diavolo ti eri cacciato?»
George si giustificò dicendo che era andato in bagno e che ora doveva scappare per consegnare il suo
carico: lo attendevano oltre cento miglia. Dopo averlo salutato, risalì nel furgone e se andò via.
«Gran bel tipo. Sono proprio curioso di sapere che diavolo ha fatto in quel bagno… Anzi:
ripensandoci, è meglio non saperlo…»
Dopo avere riflettuto sul da farsi e data un’occhiata all’orario – erano quasi le otto di sera e la fame
era praticamente a livelli altissimi –, decise di rientrare nel Red Moon Restaurant all’interno del quale,
oltre alle due “simpatiche” sorelline cameriere, c’era anche una compagnia di ragazzi piuttosto brilli.
La ragazza più giovane, l’occhio di lince della famiglia, avvisò immediatamente sua sorella maggiore:
«Ehi, Kimberly! Ma quello non è il tipo di prima?»
La ragazza annuì e corse in cucina a chiedere aiuto al padre.
Il nostro amico, molto sulle difensive, tentò di fornire alcune spiegazioni:
«Sentite: abbiamo iniziato tutti col piede sbagliato e ci terrei a precisare che posso pagare. Ho
abbastanza soldi per…»
Ma non riuscì a terminare la frase, che uno di quei ragazzi gli fece uno sgambetto tale da farlo cadere
per terra come un salame. Nel cadere, tentò di aggrapparsi alla tovaglia posta sul tavolo dei cinque idioti,
trascinando con sé tovaglia, piatti, posate, soprattutto bicchieri e bevande alcoliche. Vi lascio immaginare
la scena.
Scena che iniziò a prendere una brutta piega, data la presenza del padre delle ragazze che si fiondò ai
tavoli e si portò le mani nei capelli. Era una situazione che non poteva che volgere al peggio: i cinque
ragazzi californiani – nel cui sangue ormai scorreva alcool – erano abbastanza infastiditi e si alzarono
iniziando a insultare il giovane, le cameriere e loro padre. Uno dei cinque afferrò il ragazzo per un braccio
e gli intimò di pagargli il conto, gesto che al nostro amico non andò affatto giù. Quello che sembrava
essere il boss della compagnia – ma che aveva un alito dall’odore di rhum misto a vodka sufficiente a
ubriacare un cavallo –, lo sbatté sul tavolo e poi addosso al gestore del locale.
«Mi perdoni, signore» disse il nostro amico, chiaramente nei guai fino al collo. «Sono mortificato,
ma le giuro che non è colpa mia. Se solo mi desse il tempo di spiegarle…»
Troppo tardi. Un pugno era già stato lanciato a tutta velocità da uno dei cinque. Pugno che colpì in
pieno volto il nostro
straniero, mettendolo al tappeto. A questa provocazione non
poté suo malgrado tirarsi indietro. Infatti, dopo avere sputato un po’ di sangue dalla bocca e anche un
bel po’ dal naso, rimessosi in piedi disse: «Guardate, amici, io non approvo l’uso della violenza né verbale
né soprattutto fisica. Ma non vorrei essere costretto a…»
Altro pugno e altro atterramento.
Le ragazze, spaventate, si nascosero dietro il bancone del bar. Il padre tentò di scaraventare fuori a
calci tutti i presenti, ossia i cinque californiani e il nostro amante della non violenza. Ma, poveretto,
anch’egli fu spinto con forza contro il bancone e minacciato di starsene fuori da quella faccenda,
diventata ormai una questione personale.
La mente di un ubriaco è folle, non trovate? Che diavolo poteva esserci di personale in tutta quella
storia? Nessuno poteva saperlo, neppure chi in quel momento era diventato la vittima sacrificale di
cinque idioti completamente ubriachi fradici. Idioti che a turno iniziarono a tirare calci sopra di lui,
quasi fosse stato un pallone da calcio. La cosa più raccapricciante era che il nostro amico, nonostante quei
severi pestaggi punitivi, non emetteva un solo lamento, fatto che infastidiva non poco i cinque pazzoidi
che rincaravano maggiormente la dose, tentando di fargli gridare “pietà” o roba del genere. Nulla.
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Dopo circa una trentina di minuti di botte e di pestaggi i cinque, compreso che non ne avrebbero
tratto soddisfazione alcuna e resisi conto che il tizio a terra sembrava esanime, decisero di
abbandonare il locale. Ovviamente, senza pagare il conto e ovviamente lasciando dietro di loro uno
spettacolo dal splatter movie.
Quando i cinque furono fuori e soprattutto lontani, il ragazzo si alzò di scatto e si ripulì molto
grossolanamente il suo volto. Rivoltosi al gestore del locale, disse: «La sa una cosa? Ciò che più amo
di questo posto è senz’altro l’accoglienza che riservate agli stranieri.»
Le ragazze erano terrorizzate e lo erano ancora di più nel guardare il volto semisfigurato del tizio
che, per oltre trenta minuti, era rimasto incredibilmente immobile in terra a prenderle di santa
ragione. Invece, il padre fiatò solo alla vista della polizia che, entrata nel locale, iniziò a chiedere
documenti e a fare domande al nostro disgraziato viaggiatore, che tra sé mormorò: «Credo che qui
sarà molto peggio che in India…»
Appurati i fatti e sentite le parti, le forze dell’ordine decisero di trattenere con loro il ragazzo, ma
Kimberly disse sorprendendo tutti: «Aspettate! Questo ragazzo è ridotto peggio di uno zerbino! Non
potete portarlo via, non in quello stato almeno…»
Il padre lanciò un’occhiata alla figlia, ma la ragazza non esitò e non si tirò indietro: gli chiese
anzi di poterlo medicare. Poi, una volta medicato e curato, lo avrebbero consegnato nelle mani della
legge. Il padre si fece convincere. Ai poliziotti questa decisone stava bene e lasciarono il tizio nel
Red Moon
Restaurant.
Dopo circa cinque minuti, il tempo di rimettere al giusto posto un paio di cose, l’uomo si rivolse a
sua figlia e disse: «Beh? Che cosa aspetti? Avanti! Rimettigli a posto la faccia e datti una mossa.
Nulla di tutto ciò sarebbe mai accaduto, se questo pidocchio non si fosse fatto vivo nella nostra città.»
Kimberly si avvicinò al ragazzo per potergli prestare un primo soccorso e lui la guardò negli
occhi, due occhi verdi, intensi e bellissimi, pari solo a uno smeraldo, poi le sussurrò: «Così, oltre alla
lingua lunga, hai anche un cuore. Non ci avrei mai giurato…»
La ragazza, alquanto indispettita da queste parole, fece pressione con più forza del dovuto su una
delle ferite che gli stava medicando, facendolo urlare.
«Dopo tutte quelle botte non hai aperto bocca, mentre ora con la sola pressione del mio dito
indice hai urlato come una femminuccia…» disse lei ironica.
Quella ragazza stava diventando sempre più interessante. Medicatolo alla meno peggio, padre e
figlie decisero di lasciar andare via il ragazzo per la sua strada anziché consegnarlo alla polizia, a
patto però che non si facesse più vivo nei dintorni del locale, a meno che avesse voluto
trascorrere le sue vacanze in prigione.
Visto che in fin dei conti i patti erano quelli, il nostro amico uscì da quel luogo con il suo zaino in
spalla. Poi, voltatosi disse: «Vi auguro una buona serata.» E se ne andò via.
Era ormai sera, quindi era necessario cercare un posto in cui dormire. Il problema era che, oltre
a non sapere dove andare, il viaggiatore si rese conto solo allora che i cinque simpaticoni che
l’avevano messo al tappeto gli avevano pure rubato gli ultimi soldi rimasti.
«Perfetto! Perfetto! Dannazione! Non poteva andare peggio di così: grazie Dio, grazie! E grazie a
te, dannata California! Maledetta sia la “Random Walk Theory”, le scimmie bendate e tutti i libri che
ho studiato e letto compresa la stupida freccetta che mi ha mandato qui!»
No. La sua avventura non era cominciata affatto bene.
Dopo qualche ora e dopo che ebbe girovagato un po’ per la città, non gli restò che accovacciarsi
nei pressi di un locale accanto ai rifiuti e in compagnia di alcuni barboni che stavano “cenando” e
che si stavano riscaldando. Dopo averli fissati negli occhi e avere pensato che quella loro “cena” non
avrebbe mai potuto essere peggiore di una qualsiasi cena indiana, chiese “ospitalità” e non gli fu
negata.
Riempitosi lo stomaco, dopo pochi minuti scivolò in un sonno profondo.
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