in margine al «caso armeno

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in margine al «caso armeno
Ripensando alla concezione borghese della convivenza fra i popoli: in margine al «caso
armeno»
«…Non è mai un documento della
cultura senza essere insieme un documento della
barbarie. E come non è esente da barbarie esso
stesso, così non lo è neppure il processo di
trasmissione per cui è passato dall’uno all’altro.
Il materialista storico, quindi, prende le distanze
da esso nella misura del possibile. Egli considera
suo compito spazzolare la storia contropelo» (W.
Benjamin, Sul concetto di storia, VII, Einaudi,
Torino, 1997, pag. 31)
Fra le testimonianze della millenaria storia anatolica, che dimostrano come quella regione sia stata
terra di continue migrazioni, di inesausti conflitti e di sovrapposizioni di culture, certo meritano
particolare menzione quelle costituite dalle rovine della città di Ani, la capitale dell’antico regno
armeno che fra il IX e il X secolo d.C. ebbe il controllo di una fetta significativa dell’Anatolia
orientale1. Le grandi dinastie dei Bagratuni, degli Artzrouni, dei Kamsarakan, dei Siouni
dominarono, in diversi periodi, l’Armenia feudale. Si è trattato di un’egemonia, che si è estesa su un
territorio che dalla catena del Caucaso scende fin nella parte profonda dell’altopiano anatolico,
caratterizzata da una costante labilità dei confini. Quella degli Armeni è stata una storia di continui
scontri che si sono declinati nelle più diverse forme: ostilità famigliari e tribali, conflitti sociali ed
economici, contrapposizioni fra fondamentalismi religiosi e infine soprattutto conflitti razziali. Un
coacervo di scontri di potere che non ha trovato una soluzione, se non molto parziale, per tutta la
fase del plurisecolare dominio ottomano.
Il caso della famiglia dei Bagratuni, anzi, può essere considerato esemplare di questa storia davvero
particolarmente intricata, visto che questa possente famiglia della nobiltà caucasica, ed è solo un
esempio fra i vari possibili, era divisa in due rami, con estesi domini feudali, uno di discendenza
armena e uno di discendenza georgiana, che in momenti diversi hanno governato sullo stesso
territorio contendendosi la leadership delle stesse genti, degli stessi villaggi, degli stessi pascoli,
degli stessi commerci.
Parlare della questione armena ci pare possa in questa prospettiva, se non si assume un forte
distacco critico, diventare la premessa per avvilupparsi in un ginepraio difficilmente districabile,
che dall’antichità si è moltiplicato nei secoli con le più varie vicissitudini, nel quale l’orgoglio
ideologico, l’odio etnico e i conflitti religiosi sono stati fonti di terribili violenze, di vendette e di
non meno feroci repressioni. Ciò dovrebbe indurci ad assumere un atteggiamento di particolare
prudenza nel giudizio. Forse solo il rispetto dovuto alla complessità della storia, all’analisi attenta e
critica delle fonti, capace di liberarci da qualsiasi forma di pregiudizio, è l’unica strada per poter
affrontare questa tematica senza trasformare, ancora una volta, la storia da disciplina che cerca
faticosamente di individuare e difendere un suo statuto di scientificità in una tragica ideologia al
servizio delle peggiori cause.
Nella zona caucasica il rischio che la storia sia manipolata per interessi che potremmo definire, in
modo eufemistico, di parte ci appare particolarmente evidente. Non è possibile infatti dimenticarsi
del tragico riemergere dopo il 1989 delle più imbarazzanti tendenze nazionaliste, di un
nazionalismo sciovinista che ha visto contrapporsi, contendendosi lo stesso territorio, spesso a suon
di obsolete citazioni medievali, fra gli altri, il nazionalismo grande armeno, quello grande
georgiano, quello grande azero, e così di seguito, in un crescendo che ha assunto spesso la
dimensione di una conflittualità bellica più o meno dichiarata e che si è espressa attraverso un
crescendo di guerre interregionali, guerra civili e guerriglie più o meno sanguinose e criminali.
Si tratta di un meccanismo che abbiamo visto in azione vicino a noi e ha interessato, con esiti che ci
sono ben noti, negli anni novanta, la zona balcanica, come ci dovrebbero ricordare il rinascere del
nazionalismo grande croato, di quello grande serbo, di quello bosniaco, di quello grande albanese,
di quello kosovaro2 e così via in un crescendo di violenze che hanno seminato un tragico bilancio di
morte e distruzione. Solo il passare del tempo ci consentirà di mettere a fuoco le cause e gli agenti
interni ed esterni che hanno favorito lo svilupparsi di quell’incendio e su di esso hanno soffiato per
interessi più o meno commendevoli.
Ma torniamo al caso armeno. Sul finire del XX secolo, parallelamente al tracollo del mondo
sovietico, la storiografia occidentale ha ripreso la sua attività ideologica trasformandosi, almeno in
alcune sue frange, in una potente lobby impegnata a fornire patenti di verità, in un modo che non è
granché diverso da quello che, nel tardo XIX secolo, la storiografia positivistica utilizzava per
stabilire ciò che era civile e ciò che non lo era. Questa frangia della storiografia si è ritagliata uno
spazio particolarmente importante, almeno dal punto di vista della sua visibilità di fronte
all’opinione pubblica, dando vita a un’originalissima ricerca fondata sulla individuazione di una
specie di «hit parade» dei massacri e dei genocidi, che senza andare tanto per il sottile, basandosi su
una risoluzione dell’ONU del 1948, ha iniziato a operare in modo retroattivo, secondo una strana
metodologia di verità che trova, si afferma, nella stessa civiltà occidentale il suo parametro di
indiscutibile certezza.«
L’intervento di Ottavio Rossani, La Turchia di fronte alla «questione armena” 3, ci pare impostato
proprio secondo un modello di tipo ampiamente apodittico che ha la premessa in questa «scienza
del massacro». Cerchiamo di vedere perché.
Partiamo dal primo tragico dato, quello dei numeri. Una strana moda si è consolidata dopo l’89 e
tende ad affrontare le tragedie del XX secolo secondo una logica quantitativa. Verrebbe da dire, se
non risultasse forse un poco blasfemo: chi più ne ha più ne metta!
Sappiamo che la burocrazia ottomana non era certamente fra le più capaci di realizzare un
censimento obbiettivo della popolazione dell’impero. Comunque secondo i dati della Sublime
Porta, che non si capisce perché dovrebbero essere pregiudizialmente considerati falsi, la
popolazione armena dell’impero doveva, intorno al 1914, assommare a circa 1,2 milioni di sudditi. I
dati del patriarcato armeno parlavano invece di 2,1 milioni di Armeni presenti all’interno dei
confini dell’impero. Già qui si evince la difficoltà di un’analisi oggettiva su quale delle due
valutazioni fosse quella esatta4.
Non ci addentreremo neppure nell’analisi tecnica delle diverse vicende, delle violenze contro la
popolazione armena e riconosciamo senza ombra di dubbio che qualsiasi sia stata la cifra ben poco
conta il numero, si è trattato sempre di una tragedia inaccettabile, un massacro come tanti innescati
dalla guerra, anzi dalle guerre imperialistiche. Aggiungiamo solo che non vorremmo che
l’enfatizzazione di parte delle cifre (1,5 milioni o addirittura 2 milioni di morti) non sia altro che
un’amplificazione ideologica che vuole nascondere il vero problema, ovvero quello di individuare
quali siano state le cause di questa come di altre tragedie che segnarono il tramonto dell’impero
ottomano e che non si possono semplicemente risolvere parlando di una «geopolitica dell’Ottocento
ormai inattuale»5. Per inciso forse può essere interessante ricordare che uno storico del valore di A.
Toynbee fu costretto ad ammettere che il Libro blu, da lui preparato per conto del governo inglese e
che raccoglieva le denunce delle violenze turche, altro non era che «propaganda di guerra»6.
Non di meno ci lascia perplessi sentir parlare per la realtà dell’impero ottomano all’inizio del XX
secolo di minoranze che «si proiettavano verso l’indipendenza nazionale» e ci chiediamo se è vero
che «si proiettavano» o se, più esattamente, erano «proiettate» da una serie di rivolte fomentate da
vari soggetti con una politica imperialistico-coloniale, quali erano allora Inghilterra, Francia,
Russia, Italia e Austria-Ungheria, con la finalità ben chiara di dividersi le spoglie dell’impero.
Alcuni movimenti nazionalisti presenti nelle varie regioni del medio oriente trovarono sostegno
nell’attività diplomatica delle potenze straniere; altri movimenti vennero fomentati ad arte
rispondendo così alle esigenze strategiche delle nazioni europee che ambivano alle spoglie della
Sublime Porta. Ciò ovviamente generò azioni di rivolta che trovarono voce soprattutto nelle ali più
radicali, che ad esempio fra gruppi di Armeni che si rifacevano a logiche di crociata anti-islamica7.
Vennero avviate azioni di lotta armata (tutti sapevano che le armi circolavano fra i gruppi di
combattenti armeni, provenendo dal confine russo) che si svilupparono diventando azioni di vero e
proprio terrorismo, che era combattuto dal governo centrale di Istambul con grande violenza. Ma
tali affermazioni corrono il rischio di rimanere su un terreno di palese vaghezza.
Forse il più prosaico ritorno alla storia, con l’individuazione di alcune date, può essere utile per
farci uscire da quella indeterminazione in cui, per dirla con un «vecchio» grande maestro, si corre il
rischio di trovarsi nella «notte in cui tutte le vacche sono nere”.
Mentre attraverso la cosiddetta «rivoluzione» del 1908 il mondo turco era alla ricerca di una nuova
identità politica di tipo più «democratico», proprio attraverso l’azione riformatrice di quei militari
che furono il nucleo del movimento dei Giovani Turchi da cui, ben diversamente da chi ne
sottolinea in modo unilaterale le presunte nefandezze, emersero leader come Enver Bey, Gemal
Pascià, Mehemed Cavid, Mehemed Talt e lo stesso Mustafa Kemal, senza i quali non vi sarebbe
stata una Turchia moderna, l’Occidente avviava una serie di azioni che puntavano alla dissoluzione
del mondo ottomano8. Si tratta di interventi che andavano dalla decisione unilaterale dell’Impero
d’Austria-Ungheria di incamerarsi la Bosnia Erzegovina nel 1908, alla guerra di aggressione
italiana in Libia del 1911/12 , all’esplosione delle guerre balcaniche del 1912/13.
Ci chiediamo: si può parlare allora di «processo di disfacimento» per l’impero ottomano o piuttosto
sarebbe più onesto dire che si trattava di un disegno di smembramento che aveva come naturale
esito finale proprio la scomparsa del mondo turco/ottomano come entità statale autonoma?
Siamo inoltre proprio convinti che vi fu un preciso disegno politico militare che coordinò lo
sterminio degli Armeni? Come non tenere conto piuttosto dello stato di grande difficoltà militare e
di disorganizzazione che l’impero stava vivendo in quel momento e che l’autenticità dei documenti
secondo i quali il governo dei Giovani Turchi avrebbe ordinato nella primavera del 1915 lo
sterminio sistematico degli Armeni è da molti studiosi giudicata per lo meno dubbia?
Inoltre come dimenticare che dalla Russia venivano precisi inviti alla ribellione? Lo zar Nicola II
non aveva perduto il suo tempo e il 17 settembre 1914 aveva indirizzato ai suoi sudditi armeni un
appello che era palesemente diretto anche ai loro «confratelli» d’oltre confine: «Armeni, i popoli di
tutta la grande Russia si sono levati al mio comando. Armeni dopo cinque secoli di giogo tirannico,
durante i quali voi e i vostri fratelli avete subito e alcuni ancora subiscono i più abominevoli
oltraggi, l’ora della libertà è infine suonata per voi…»9.
Proprio in quel momento nella zona del confine caucasico le armate dello zar, dopo il tragico
inverno del 1914 che aveva visto le truppe turche sbaragliate dai russi e annientate dalla
disorganizzazione interna alle forze armate del Sultano10, stavano avanzando, trascinando sulla loro
scia una serie di battaglioni costituiti da volontari armeni dell’intero Caucaso11. In tale frangente
decine di migliaia, anzi più probabilmente alcune centinaia di migliaia di mussulmani, ma anche di
cristiani non armeni, se non ebbero la fortuna di trovare salvezza nella fuga, furono sterminati senza
pietà. L’avanzata russa continuò per parte dell’anno successivo, il 1916, portando all’occupazione
temporanea, fino allo sbandamento delle truppe russe sul finire dell’inverno 1916/17, di un largo
territorio nell’Anatolia centrale fino a Trabzon e Erzincan. Le popolazioni mussulmane di quelle
contrade in quei mesi pagarono un pesante tributo di sangue di cui troppo spesso nessuno si ricorda.
E’ certo infatti che i censimenti del dopoguerra mostrarono in modo irrefutabile che proprio in quei
mesi, fine 1914/inizio 1917, non solo le popolazioni armene ma anche le altre genti anatoliche,
insomma le masse dei ceti popolari, contadini e urbani, delle varie etnie, pagarono un pesante
prezzo umano, in cui certo ebbero la loro parte le tragiche misure repressive turche ma anche le
vendette su larga scala delle truppe armeno/russe12.
Rossani aggiunge che «per molti decenni del genocidio degli Armeni nessuno parlò», ma è poi
vero13? Ci sembra impressionante, leggendo queste parole, come venga falsificato il processo
storico e schiacciato il problema della drammatica realtà vissuta da quell’intera regione in quella
frenetica fase storica. Come dimenticare che nel 1917 i rivoluzionari russi smascherarono i giochi
delle diplomazie occidentali e fecero conoscere al mondo ciò che le cosiddette «potenze
democratiche» avevano deciso di fare dell’intera Anatolia e più in generale del Medio Oriente.
Forse merita di rammentare che accordi segreti del maggio 1916 (si noti la data!) avevano diviso
l’impero fra Inghilterra, Francia e Russia e la zona di Erzurum, Trabzon, Van e Bitlis, insomma la
zona cosiddetta armena, era stata ceduta, senza nessun particolare patema morale, a Nicola il
Sanguinario. In seguito l’opera di smantellamento sistematico dell’impero ottomano era continuata
a livello diplomatico con un’ulteriore divisione che cedeva una fetta meridionale dell’Anatolia
persino all’Italia e si era conclusa con la famosa dichiarazione di Balfour del novembre 1917, che
apriva la strada a un quasi secolare contenzioso arabo-ebraico e a una breve, ma non meno tragica,
guerra greco-turca del primo dopoguerra14.
Nel contempo l’Office of War Propaganda, segretamente installato dal Foreign Office britannico a
Wellington House, sul Buckingham Gate di Londra si impegnò con grande solerzia, nel tentativo di
dare un senso a una guerra che vedeva l’opinione pubblica sempre più scontenta e delusa, fra l’altro
a raccogliere notizie per propagandare l’immagine, accanto alla barbarie tedesca, della barbarie
turca15. Tale propaganda ebbe come esito l’arresto nel 1918 di ben 120 fra politici e intellettuali
turchi di primo piano, internati a Malta e liberati dopo il 1922 senza che si fosse arrivati a nessuna
imputazione formale16. Il tentativo di smembrare la Turchia venne bloccato dalla lotta dei Turchi di
Mustafa Kemal, che riuscirono ad espellere dal territorio dell’Anatolia gli invasori europei.
D’altronde solo la cecità «revisionista» oggi tanto di moda può parlare del popolo armeno come di
un popolo senza patria. Infatti dopo il 1918 gli Armeni hanno avuto non solo una patria ma anche
un luogo dove è stata difesa la peculiarità culturale e linguistica della loro tradizione. Per quel che ci
è dato sapere proprio la tanto deprecata Armenia Sovietica aveva creato, per conservare il ricordo
della civiltà e della storia armena, una grande biblioteca dove sono stati custoditi i più preziosi
capolavori della arte della miniatura e della cultura di quel popolo. E’ forse qui che si vede la
differenza con l’enfasi della nuova Armenia e il suo impressionante e, ci si consenta, «retorico»
braciere! Quel fuoco è paradossalmente mantenuto vivo, fra l’altro, da una legione di storici
statunitensi, francesi e armeni, contro cui ben poco possono le argomentazioni degli storici turchi
che debbono essere «stolte» di principio, oppure di coloro che hanno intenzione di indagare questa
tragedia con la maggior obiettività possibile17.
Oggi tutto è organizzato affinché all’opinione pubblica mondiale venga rammentato non tanto il
dramma dei popoli coinvolti nella criminale assurdità di una guerra imperialistica per la spartizione
del mondo ma l’esistenza di un Olocausto Armeno. Tale impostazione favorisce lo spostamento del
paradigma storico dalla responsabilità delle borghesie imperialiste occidentali al presunto
primitivismo culturale e civile islamico. In questo modo il revisionismo storico si trasforma in un
giustificazionismo etico e in un strumento politico.
Fin qui le cosiddette problematiche storiche; ora passiamo al versante «politico» che ci permettiamo
di credere sia quello che sta alle fondamenta di tanto interesse storico revisionista.
Cosa chiede il governo della moderna Repubblica «borghese» dell’Armenia? Che la Repubblica
nazionalista della Turchia prenda le distanze dal paese dell’epoca del genocidio18, che «il popolo
turco chieda scusa al popolo armeno»19! Ma chi chiederà scusa ai turchi?
Forse più semplicemente, come cittadini di questa strana realtà, con la sua traballante legittimità,
che è l’Europa delle borghesie di questi primi decenni del XXI secolo, ci possiamo chiedere cosa
voglia dire questo continuo «chiedere scusa», questa moda del pentitismo a tutti i livelli?
Si risarcisce in questo modo qualcuno o qualche cosa?
In più, in questa paradossale Europa, in cui facciamo sempre più fatica a riconoscerci, cosa vuol
dire che la Francia ha votato una legge secondo la quale negare il genocidio armeno è reato?
Nessuno di noi discuterà mai che una violenza di qualsiasi tipologia sia sanzionata20, ma ci
chiediamo: come si comporteranno le istituzioni francesi di fronte ai vari «genocidi» degli Algerini,
dei Marocchini, delle genti del Sahara, delle popolazioni della Cocincina, dei Vietnamiti, di fronte
alle infinite violenze e gli infiniti stupri che hanno caratterizzato la storia della Francia coloniale
dalla seconda metà del XIX secolo in poi? A quando delle leggi che riconosceranno quelle violenze,
le trasformeranno in reato e condanneranno coloro che hanno fatto della Francia uno spietato
strumento di inciviltà per oltre un secolo?
E il civilissimo Congresso USA quando si assumerà la responsabilità delle violenze che hanno
costituito le fondamenta di quella nazione e restituirà alla Nazione Indiana le terre che le sono state
carpite con un incredibile gioco di leggi-truffa e di massacri e che hanno ridotto un popolo, che
occupava un intero continente, in un fossile vivente?
Quando riconosceremo ufficialmente, infine, le nostre violenze in Libia e in Etiopia eliminando
definitivamente il velo di silenzio che ha avvolto le tragedie del nostro colonialismo?21
Tutte domande che rimangono inevase, ma la questione armena pare essere ora di gran moda…
Rimane un dato di fatto: almeno gli Armeni hanno una patria. I Curdi invece, che sono altrettanto
antichi come storia degli Armeni, sono vicini degli Armeni e sono divisi fra diversi stati, sotto
diverse bandiere, che destino avranno? Loro hanno avuto la sfortuna di scegliere la parte sbagliata,
sono mussulmani, e non interessano a nessuna crociata prossima ventura!
Diverso il caso armeno, esiste infatti una borghesia internazionale, una diaspora armena, una lobby
estremamente potente che fa sentire il proprio peso. Questi esponenti sono quelli che ci informano,
ci dice Rossani, che «i Turchi non cambieranno mai» (?) e che saranno il «il cavallo di Troia dal
quale usciranno i mussulmani che conquisteranno il continente» (ovvero l’Europa n.d.r.)22. Di
fronte a «tanta preveggenza» ci viene da chiederci: ma questi «sapienti» non sanno che abbiamo già
in Europa, se questo fosse il problema, almeno due enclave islamiche, l’Albania e il Kosovo, che se
non sono già entrate in Europa, nel dissennato disegno che si sta apprestando, ci entreranno prima o
dopo?
E’ davvero triste, ci si conceda la povertà del dire, che all’inizio del XXI secolo si chieda, ben
sappiamo con quali mezzi, la «conversione» (si noti il termine!) di qualcuno alla democrazia? Ma
da quale pulpito? Proprio mentre questi primi anni del nuovo secolo sono insanguinati da chi ha
deciso, costi quel che costi, di farsi piazzista della democrazia, non sarebbe forse il caso di iniziare a
ragionare in modo più onesto e rispettoso delle diversità, riconoscendo le colpe del nuovo tipo di
neocolonialismo, dello sfruttamento del terzo e del quarto mondo, della creazione di sempre
maggiori e tragiche diseguaglianze che hanno favorito una reazione che forse, certo l’argomento
meriterebbe ben altro approfondimento, trova delle sue giustificazioni.
A questo livello però il problema si fa più intricato: è ancora una volta il tragico gioco delle
diplomazie che vede gli USA, l’Europa, la Russia e, in prospettiva, le emergenti potenze orientali
confrontarsi per controllare una regione, il Medio Oriente, che rimane strategica e dove grandi
masse vivono in condizioni di incredibile povertà mentre producono le materie prime che
consentono all’Occidente opulento di mettere in mostra il proprio arrogante sfarzo.
La creazione di «commissioni miste di conciliazione»23 appare in tale prospettiva davvero un
prodotto originale di questi anni, di una volontà di riscrivere la storia secondo la nuova glossa che
crede di aver esorcizzato lo spettro dell’«Ottobre» e di essere tornata a rivitalizzare, quasi nulla
fosse successo nel XX secolo, ideali ormai consunti, anche se potenzialmente ancora portatori di
violenza e morte, come quello di patria.
Ci si dirà: ma i diritti umani? Non ci rimane di fronte alla pelosa pietas di tante «anime belle» che
rimandare alle parole che Edoarda Masi scriveva due decenni fa con ineguagliabile efficacia e
preveggenza:
«A mascherare le contraddizioni e le diversità, la socialdemocrazia propone messaggi unificanti. Il più universale è
l’appello alla tutela dei diritti umani. Arrivato da Nordovest, oltre le Alpi e oltre l’Oceano, ha conquistato le coscienze.
E’ la base elementare del civismo e della buona educazione. E’ uno degli strumenti più potenti di esorcismo e di
anestesia.
Settant’anni di guerre ininterrotte, rivoluzioni e controrivoluzioni, criminalizzazione del pensiero, pratica della tortura,
stragi e massacri hanno portato infine la gente a una reazione di sazietà. Le lunghe lotte, l’impegno di milioni di uomini,
la testimonianza dei martiri (numerosi nel nostro secolo come in pochi altri) sembrano aver condotto a un vicolo cieco: i
vecchi poteri si rinnovano, apparentemente invincibili, e altri se ne aggiungono prodotti malsani o inevitabili delle
stesse rivolte. L’eliminazione dei padroni privati e l’autogestione popolare, là dove si è tentato di realizzarli, hanno
finito per rovesciarsi nel loro contrario. Le parole predicate da politici e ideologi sono sempre più lontane
dall’esperienza quotidiana. La gente è disposta ad accettare tutto quanto i politici facciano, purché non le si chieda
partecipazione attiva o sacrificio.
Pretendere la tutela dei diritti umani significa arrestarsi alla richiesta minima, che non arriva neppure alla rivendicazione
dei comuni diritti civili e politici. E certamente assicurare il minimo è la precondizione di ogni passo ulteriore. Almeno
su questo punto estremo è impossibile cedere, là dove scompare la differenza fra combattenti consapevoli e innocenti
sacrificati, e tutti si vedono accumunati nella condizione di vittime.
Sono sentimenti che implicano comprensione… Ma implicano una diminuzione della dignità umana e si accompagnano
all’assunzione di una coscienza di servi. Si lascia ad altri l’onere di fare la Storia e si chiede di vivere indisturbati la
propria piccola storia personale… si favorisce la polarizzazione verso un popolo di pecore contrapposto, e soggetto, a
un potere esercitato da professionisti e identificato con la violenza in ogni sua forma… Quelli che esercitano la violenza
come potere vogliono sotto di sé pecore con coscienza di vittime, e per mezzo dei loro pubblicitari diffondono l’etica
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umanitaria che dice a occhi chiusi «abbasso la violenza» e non vuole sapere altro.»
Ci chiediamo: non è forse il caso di andare oltre, di modificare la nostra prospettiva e volgerci verso
il domani guardando, come ci diceva Benjamin, il passato, anche il passato prossimo, facendo
un’opera di «spazzolatura contropelo»? Allora potremo vedere come borghesie e ceti militari, sia
caucasici che anatolici, pur con modalità diverse, puntano tutti all’affermazione delle loro egemonie
locali, dei loro privilegi e, all’interno delle diverse realtà statali, alla conferma di una stabilizzazione
sociale ed economica fondata su una precisa gerarchia, che ha la finalità di conservare vantaggi e
benefici a favore delle lobby di potere locali e reprimere con ogni mezzo qualsiasi forma di protesta
di coloro che non partecipano al banchetto della storia e debbono accontentarsi delle briciole.
E’ più che mai necessario, in questa situazione di grave regressione storica e intellettuale, liberarsi
dall’ideologia borghese e dai suoi paradigmi falsamente umanitari e di ritornare a porre con forza
all’ordine del giorno l’indicazione che Bertolt Brecht pose ai partecipanti al I Congresso
internazionale degli scrittori in difesa della cultura del 1935:
«…Personalmente non credo alla brutalità per la brutalità. Bisogna proteggere l’umanità dall’accusa di essere per la
brutalità indipendentemente dal fatto che essa sia un buon affare. E’ una spiritosa distorsione quella del mio amico F.
quando afferma che la volgarità vien prima dell’interesse personale. La brutalità non viene dalla brutalità ma dagli affari
che senza di essa non si possono fare…Non parliamo soltanto per la cultura! Si abbia pietà della cultura ma prima di
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tutto si abbia pietà degli uomini!... Compagni, parliamo dei rapporti di proprietà! ».
1
In generale per la storia armena dall’antichità alla realtà contemporanea risulta utile la silloge curata da Gerard
Dedeyan, Histoire des Armeniens, Privat, Paris, 1982 e il volume di Claire Mouradian, De Staline à Gorbatchev.
Histoire d’une rèpublique soviétique: l’Arménie, Editions Ramsay, Paris, 1990.
2
Ovviamente il problema dell’esistenza di un nazionalismo kosovaro è tema tutt’altro che ovvio e almeno a nostro
avviso tale da necessitare un’attenta valutazione, anche per le implicazioni politiche che può produrre nel prossimo
futuro.
3
Facciamo esplicitamente riferimento al saggio presente nel Numero 3 della rivista Poliscritture, novembre 2007.
4
Per il problema demografico si veda: Gerard Dedeyan (a cura di), Histoire des Armeniens, cit., pag. 492/493.
5
Cfr. O. Rossani, cit, pag. 48.
6
Cfr. Robert Mantran (a cura di), Storia dell’impero ottomano, Argo Editrice, Lecce, 1999, pag. 671.
7
Meriterebbe, ma lo spazio ci costringe solo a segnalarlo, di analizzare a fondo il problema della presenza all’interno
del mondo politico e culturale armeno, all’inizio del XX secolo, di due anime quella nazionalista e quella classista
marxista in lotta fra di loro. Caso strano anche qui, come nel resto dell’Europa, lo scoppio della Grande Guerra elimina
la contraddizione dando spazio a forme di acceso nazionalismo, reso ovviamente ancora più tragico dalla peculiarità
della condizione della popolazione armena. Sul problema della guerriglia armena si legga Guenther Lewy, Il massacro
degli armeni. Un genocidio controverso, Einaudi, 2006, pag. 39 e segg..
8
La « rivoluzione» dei Giovani Turchi è tematica storica degna di ben altra considerazione, rinviamo in generale a:
A.M. Porciatti, Dall’impero ottomano alla nuova Turchia, Alinea Editrice, Firenze,1997. Si aggiunga per meglio
comprendere la complessità dei giochi che si svolsero in quella tragica estate del 1914, quanto scritto da Stanford J.
Shaw : « In realtà, la maggior parte degli ottomani, e quasi tutti i Giovani Turchi, simpatizzavano per le democrazie
liberali dell’Intesa, sulle quali contavano per essere aiutati nei loro programmi di riforma. La maggioranza preferiva
tener fuori del tutto l’impero da una guerra in cui si confrontavano ambizioni e interessi quasi solo europei. Quando
però l’odiata Russia si schierò con l’Intesa e l’Inghilterra confiscò due corazzate ottomane…l’ammirazione per il genio
militare prussiano… e la direzione del ministro della guerra Enver Bey permise(ro) a quest’ultimo… di firmare un
accordo segreto con la Germania, che trascinò gli ottomani… nella guerra appena iniziata». S.J.Shaw, La rivoluzione
turca e il crollo dell’impero ottomano, in La storia I Grandi problemi dal Medioevo all’Età Contemporanea, vol. 9,
L’Età Contemporanea, 4 – Dal primo al secondo dopoguerra, UTET, 1986, pag. 143/144.
9
A.Debidour, Histoire diplomatique de l’Europe. Depuis le congrès de Berlin jusqu'à nos jours, II Vers la Grande
Guerra (1904-1916), Librairie Félix Alcan, Paris, 1918, pag. 274 .
10
Questo aspetto ci pare meriti una certa attenzione. Una disfatta militare che comporta l’occupazione di una parte
significativa di un territorio nazionale e viene vissuta come un’azione cui contribuisce o può contribuire una quinta
colonna interna può generare reazioni, più o meno violente, sia pure eticamente difficili da giustificare. Si pensi per
esempio alle parole usate, nel momento dell’ingresso degli USA nel primo conflitto mondiale, da una personalità di
spicco come l’ex presidente Theodor Roosevelt: «…non c’è posto per una doppia lealtà; colui che dice di professarla
«è necessariamente un traditore nei confronti per lo meno di un paese» ed è «da abbattere senza pietà»», Domenico
Losurdo, Il peccato originale del Novecento, cit., pag. 38. Certo militarmente la campagna caucasica dei Turchi fu a dir
poco tragica e vide la distruzione del IX e dell’XI corpo d’armata, generando il timore di un tracollo militare
complessivo del fronte orientale e lo spettro di una rivolta alle spalle delle popolazioni armene. Palesemente
l’argomento rimane aperto e non è nostro fine risolverlo in queste poche righe. Fra l’altro si veda anche Robert Mantran
(a cura di), Storia dell’impero ottomano, cit. pag. 668.
11
Questo tema presenta un certo interesse per ciò che riguarda il contributo delle unità di volontari armeni per il
successo della offensiva d’inverno scatenata dai Russi. Il problema è trattato da Guenther Lewy, Il massacro degli
armeni. Un genocidio controverso, cit., pag. 129/140.
12
Si legga, ad esempio, Robert Mantran (a cura di), Storia dell’impero ottomano, cit., pag. 670.
13
Cfr. O. Rossani, cit, pag. 48. Inutile sottolineare che la tragedia armena fu ben conosciuta, si ricordi solo la
pubblicazione dell’opera di Franz Werfel, I quaranta giorni del Mussa Dagh, 1933, che ebbe vasta risonanza mondiale.
D’altronde già il III volume dell’Enciclopedia Italiana, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1929, alla voce Armeni, pag.
457, dice testualmente: «…i Giovani Turchi ne presero pretesto per preparare una strage in massa del popolo armeno
che poté svolgersi durante la guerra mondiale (1915-1920). Tanto da una parte quanto dall’altra le cifre delle vittime
sono state esagerate sia in più che in meno: tuttavia si può dire che circa un terzo della popolazione armena di Turchia,
ossia 600.000 persone, è stato massacrato, un altro terzo è stato deportato, ciò che significa spesse volte la morte per
cattivi trattamenti , malattie, carestia, e l’ultimo terzo ha potuto fuggire e emigrare un po’ dappertutto.»(a firma Cirillo
Korolevskij). Inoltre basta leggere una bibliografia, come quella presente nel volume di Guenther Lewy, Il massacro
degli armeni. Un genocidio controverso, cit., pag. 357/380, per rendersi conto di come, anche a livello internazionale,
l’argomento fosse tutt’altro che dimenticato.
In ogni caso ci siamo presi la briga di andare a fare una rapida ricerca bibliografica sulle opere realizzate fra il 1915 e il
1940 e poi fino al 1960 su questo tema, ovviamente senza alcuna pretesa di completezza, anzi ben sapendo che si tratta
di un’indagine ampiamente lacunosa e forse non priva di qualche inesattezza. Ma è interessante vedere come certo
revisionismo tenda a dimenticare, per non dire peggio, i dati. Ecco i nostri:
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14
In tale prospettiva meriterebbe forse di essere ricordata anche la guerra turco-greca del 1919-22, con il suo tragico
fardello di massacri, stimolata dal disegno politico delle forze dell’Intesa. In questo caso la storiografia dominante ha
cercato ha cercato di sorvolare sull’argomento, solo i Greci se ne ricordano, forse perché veniva messo in forse il facile
schema della «logica del terrore». Fu infatti l’azione delle nazioni vincitrici dell’Intesa a stimolare i Greci alla guerra e
poi li abbandonarono al loro destino. Rimane il dubbio: la costa ionica dell’Egeo è «storicamente» greca o turca? I
Greci hanno diritto a ritornare in possesso di queste terre? Ci chiediamo però se ciò non inneschi un meccanismo che
annienta lo stesso paradigma nazionale.
15
Su questo tema si può approfondire il discorso con la lettura di Robert Mantran (a cura di), Storia dell’impero
ottomano, cit., pag. 680 e segg. e Guenther Lewy, Il massacro degli armeni. Un genocidio controverso, cit.
16
Tale azione di internamento e il tentativo di creare un tribunale internazionale tipo «Norimberga» ci pare un segnale
esemplare. Una tale azione non venne effettuata infatti nei confronti del sovrani di Germania o Austria-Ungheria, per i
quali vennero fatte deboli pressioni diplomatiche per sottoporli a processo, subito bloccate da una specie di solidarietà
conservatrice fra le forze della reazione borghese europea. Contro la Turchia, in quanto realtà nazionale extraeuropea,
che era evidentemente in una condizione gerarchica inferiore, era lecito agire con quella violenza che non si poteva
usare con Guglielmo II o Carlo I. Questi ultimi infatti erano stati confitti ma pur sempre rimanevano legati da
strettissimi legami di parentela con le aristocrazie europee sopravissute alla Grande Guerra.
17
Ovviamente ciò non vuol dire schierarsi dalla parte di coloro che difendono l’odierna legislazione turca che tende a
difendere dogmaticamente il primato dell’etnia turca. Su questo tema, che sottolinea come la repressione contro le
minoranze etniche si unisca a un più ampio discorso di intolleranza politica nei confronti di chi si fa portavoce di una
superiore speranza di costruzione di una società più giusta, si vedano gli articoli pubblicati sul numero di Alias, l’inserto
de il Manifesto, di sabato 26 gennaio 2008 sotto il titolo di “Siamo tutti Hrant, siamo tutti armeni Un’altra Europa è nata
a Istambul, il 19 gennaio scorso. Rifondata dal basso, dai 10 mila turchi scesi in piazza per ricordare il giornalista di
origini armene Hrant Dink, ucciso un anno fa da un fanatico nazionalista, e per abrogare gli articoli liberticidi e
anticomunisti del codice penale e della costituzione…”.
18
Rimane un dubbio che ci appare difficile da risolvere: se il regime kemalista e poi la realtà politica successiva sono
oggettivamente ben distanti dal califfato ottomano (c’è di mezzo la caduta di un impero universalista!) come può il
nuovo regime assumersi le colpe di un sistema politico precedente, totalmente diverso sia dal punto di vista istituzionale
che culturale?
19
Cfr. O. Rossani, cit., pag. 48.
20
Ci sia consentito un’ulteriore dubbio sulla liceità che le istituzioni politiche possano intervenire d’autorità nelle
polemiche culturali. La falsità di una teoria, il fatto di essere più o meno aberrante, dovrebbe emergere dai dati
obbiettivi e divenire parte dell’acquisizione di coscienza dell’opinione pubblica senza bisogno di censure. L’azione
censoria ci pare faccia emergere, nonostante tutto, un pericoloso clima di caccia alle streghe che pone chi afferma di
aver ragione, o ha ragione tout court, su una posizione non dissimile da chi ha palesemente torto.
21
Inutile rimandare alla polemica fra Angelo Del Boca e Indro Montanelli che ha visto per decenni l’opinione pubblica
benpensante sostanzialmente schierata dalla parte degli «italiani brava gente», anche di fronte ai documenti ufficiali,
controfirmati da Mussolini, che imponevano ai militari di usare, per debellare gli Etiopi, ogni strumento non escluso
l’impiego di gas, condannati e interdetti dalla Convenzione di Ginevra. Montanelli e la borghesia, che lo seguiva
fedelmente, operavano basandosi su un modello di ragionamento riassumibile più o meno secondo questo schema:
anche se le prove dicono il contrario noi siamo dalla parte della nostra «verità», che è tale poiché noi lo vogliamo.
22
Cfr. O. Rossani, cit., pag. 49.
23
Cfr. O. Rossani, cit., pag. 49, che ci parla della costituzione di una fantomatica «Commissione di riconciliazione
turco/armena», composta da una ventina di intellettuali di entrambe le parti. Sarebbe forse il caso di domandarsi se gli
«intellettuali» abbiano ancora questa funzione maieutica e se la democrazia abbia bisogno di delegare all’intellettuale
funzioni di questo tipo.
24
E. Masi, Il libro da nascondere, Marietti, Casale Monferrato, 1985, pag. 73/74.
25
Si legga il fondamentale intervento di B. Brecht riportato nel volume di F. Fortini, La verifica dei poteri, il
Saggiatore, 1965, pag. 176.